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IL GIOCO DELLE
MOTIVAZIONI
STUDIO SULLA PSICOLOGIA DI TUTTI I GIORNI
Sono come uno di quei venditori che girano per le case.
Vorrei farvi vedere un nuovo strumento:
il gioco delle motivazioni,
e poi semmai lasciarvelo in prova.
Nello stesso tempo posso mostrarvi
alcuni prodotti ottenuti.
P. S.
Paolo Sacchi – Via Panoramica, 18 – 80016 Marano di Napoli (NA) – tel. 320 2482025 – email [email protected]
L’E G O I S M O
■ BENESSERE FISICO
■ VALORE
■ PIACERE
■ FASTIDIO
_______________________________________________
F U O R I D A L L’ E G O I S M O
■ ALTRUISMO
■ SOCIALITA’ (ONESTÀ E GIUSTIZIA)
_______________________________________________
IL GIOCO DELLE MOTIVAZIONI
Indice
L’ E G O I S M O
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■ QUALCOSA DI DIVERSO
Qui egoismo non ha il solito significato: con egoismo dovrà intendersi solamente: il pensare verso se
stessi.
Si sa bene che quando si dice egoismo c’è riprovazione ed accusa. Ed anche il vocabolario definisce
l’egoismo: “Eccessiva cura di se stessi”. Invece qui si parlerà di egoismo, semplicemente per intendere un
comportamento che sia nato per noi stessi, e non per gli altri.
Perciò qui è, egoismo: bere un bicchier d’acqua, scacciare una mosca, comprarsi una padella o prepararsi
ad un esame.
Si parlerà di egoismo, senza per forza dover giudicare in modo negativo una persona che abbia intenzioni
egoistiche.
Egoismo: solo per indicare una motivazione che abbia come destinatario noi stessi.
■ LE QUATTRO CATEGORIE DELL’EGOISMO
L’egoismo ha quattro radici.
Esse sono: il benessere fisico, il valore, il piacere ed il fastidio. E questi sono anche i nomi delle quattro
categorie motivazionali dell’egoismo.
In altre parole, dobbiamo ottenere per noi: mantenere la buona salute fisica, aumentare la valorizzazione
personale, gustare le cose piacevoli e annullare le cose fastidiose.
In particolare, nell’ambito del benessere fisico viene cercato un risultato
fisico. Nell’ambito del valore un risultato psicologico. Nell’ambito del piacere e del fastidio un risultato che
può essere sia fisico che psicologico.
Tutte le motivazioni egoistiche rientrano in una di queste quattro categorie.
■ UNA PREOCCUPAZIONE
Già solo sfogliando le pagine, si può notare una grande sproporzione fra le pagine dedicate alla categoria
del valore e quelle, più poche, dedicate alle altre tre categorie.
Le apparenze sembrerebbero qui voler suggerire che tale categoria sia più importante delle altre. Ma non
è così.
La ragione di questa disparità deriva solo dal fatto che un tenacissimo tabù incombe sulla realtà
psicologica del valore. Tutti siamo in grado di capire quanto sia grande il bisogno di stare bene fisicamente,
quanto sia grande il desiderio di procurarci i piaceri, quanto sia grande la necessità di fuggire dalle cose
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fastidiose, mentre, per quanto riguarda il bisogno di avvalorare la nostra personalità, tutti capiamo di che
cosa si tratta, ma, a causa di quel tabù, quasi nessuno si accorge di come questa presenza sia, nell’animo,
una presenza continua e necessaria.
Il maggior numero di pagine non indica priorità di importanza.
Le pagine del valore sono in numero maggiore, ma il valore è solo, una, delle quattro categorie
dell’egoismo.
Tutte le categorie motivazionali vanno considerate, alla pari, e tutte ugualmente importanti.
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IL BENESSERE FISICO
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■ LO SAPPIAMO TUTTI
Le motivazioni che rientrano nella categoria del benessere fisico hanno lo scopo di ristabilire le buone
condizioni del nostro corpo.
Il benessere fisico è continuamente attaccato da nemici. I suoi nemici più
terribili sono il dolore fisico, la fame, la sete, tutte le malattie. Alla fine la morte è l’ultimo nemico.
Ma noi combattiamo anche contro un numero infinito di altri nemici che non ci consentono di stare bene
completamente.
Fino ad arrivare ai nemici più piccoli.
Non sarà difficile capire che sono, della stessa categoria motivazionale,
prendere una pillola per il fegato (benessere fisico) e volere farsi fare una operazione chirurgica senza
anestesia nel tentativo di salvarsi la vita (benessere fisico).
Un’intera categoria motivazionale in una sola pagina?
Non c’è bisogno di più pagine. Tutti conosciamo bene l’argomento.
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IL VALORE
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■ IN GENERALE
Anche se spesso non ce ne accorgiamo, tutti sentiamo il bisogno di tener su il nostro valore: cercando
sempre di nutrirlo un po’, e cercando di evitargli anche il più piccolo neo.
Minuto per minuto, nessuno può sottrarsi.
Non è uno scherzo, non è un di più. La posta in palio è: sentirci meglio.
Non è una cosa superflua, è una necessità fondamentale che ci impegna fin dai primi mesi di vita e poi ci
accompagna per tutta la vita.
Sempre inconsciamente.
Continuo lavorio mentale.
Continue motivazioni di valore che ci spingono ad agire o a parlare.
E’ una presenza continua; e noi di continuo a badarci.
E’ come una fame; ma una fame speciale: per quanto nutrimento noi possiamo procurarci, non ci basta
mai; la sazietà non arriva mai.
■ C’E’ BISOGNO DI FARNE SALIRE IL LIVELLO
Ognuno di noi si porta nell’animo l’inconscia sensazione del proprio valore. Questa sensazione, bella o
brutta, deriva dal nostro attuale livello di valore alto o basso.
Questa sensazione non è frutto di valutazioni razionali. E’ impalpabile. Sfugge all’attenzione lucida del
soggetto. E’ qualcosa che si sente, e non qualcosa che si pensa.
CONFIGURAZIONE
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Senza saperlo distintamente, per ottenere di vivere la buona sensazione che viene da un buon livello di
valore, ammassiamo, giorno dopo giorno, l’uno sull’altro, tutti i materiali buoni per il nostro valore.
Sono pezzi grandi, pezzi piccoli e piccolissimi, e servono tutti. Cerchiamo di far salire il livello del nostro
valore per ottenere un migliore stato psicologico. Sempre, in qualunque momento, un lavoro per noi stessi,
non conosciuto.
Ed anche quando sentiamo di avere un’ottima sensazione del nostro valore, pur sentendoci già bene,
ugualmente non smettiamo di aggiungere contributi.
Il bisogno di valore diventa così, motore di pensieri, azioni e discorsi.
■ IN QUALUNQUE MODO
Valore è una sconfinata categoria motivazionale. Ma forse sentendo parlare di valore molti penseranno
soltanto a grandi cose e a grandi meriti. Ma qui non è così.
Per il valore, possiamo pensare: “Sono il più svelto”.
Ma possiamo anche pensare: “Sono svelto”.
Oppure: “Sono abbastanza svelto”.
Ma possiamo anche pensare: “Non sono svelto, ma sempre più di Carlo”.
Oppure ancora: “Sono il più lento di tutti, però ho dei capelli molto belli”.
Insomma, valore massimo, ma anche, valore minimo.
In tutti i piccoli momenti della vita, per alimentare il nostro valore,
possiamo trarre lo spunto da qualunque cosa.
Inconsciamente, in un modo o in un altro, dobbiamo accontentare questa fame. Ognuno come può:
secondo la propria personalità e secondo la validità delle proprie intelligenze.
Nei modi più vari acquisiamo qua e là pezzetti di valore, possibilmente di buona qualità: quello che, per
noi, è di buona qualità.
A questo scopo nella nostra mente anche il piombo può essere considerato oro. Potrà capitarci di
utilizzare anche cose di valore, che per gli altri sono nient’altro che immondizia, ma che per noi sono
materiale buono.
Tutto contribuisce o, almeno, tutto potrebbe contribuire.
La cosa è così importante che ognuno, fin da piccolo, durante la giornata cerca un po’ di valore per sé:
non sempre nei modi migliori, ma: dove può, e come può.
Per la necessità di tener su il nostro valore, a volte ci si deve arrangiare.
A volte poi nasciamo già in situazioni che ostacolano il nostro valore: uno non è nato in buona salute, un
altro ha sviluppato qualche grado non alto di alcune intelligenze, qualcun altro non è nato di bell’aspetto.
Tante umiliazioni al proprio valore, inevitabili.
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Per benessere fisico, piacere e fastidio, bisogna, per forza, muoversi o parlare; invece per il valore è un
po’ diverso: contributi ci arrivano anche solo dai nostri infaticabili pensieri.
Senza avvedercene.
Con i soli pensieri, il nostro valore si rende contento, oppure si difende validamente. Ci cuciniamo un po’
di valore, restando in casa, con quello che abbiamo nella dispensa.
Tutto ci può gratificare, già soltanto nella nostra mente.
Un conto unico
Il valore fa tutto un conto unico.
Perciò è sbagliato distinguere il valore che viene dal consenso degli altri, da quello che viene da noi
stessi; le lodi degli altri e la consapevolezza di sé aiutano lo stesso padrone: tutto digerito, tutto, confluisce
nel nostro unico valore. Molti, con una motivazione di valore, dicono: “A me che importa delle
approvazioni degli altri?”, senza volersi rendere conto che, dentro di sé, in una qualche misura, anche quel
consenso fa bene al loro valore.
Un conto unico: perciò è sbagliato distinguere il valore sociale, da qualche altro tipo di valore. La vanità e
l’orgoglio, giudicati oppostamente, servono lo stesso padrone. Il mascherare le nostre inferiorità viene più
accettato che non il mostrare le nostre superiorità, tuttavia queste operazioni cercano di ottenere il medesimo
scopo. Il difendere quel poco di valore che abbiamo e il volerlo far salire cooperano insieme. Tutto
confluisce.
Un conto unico: perciò è sbagliato distinguere il valore per gli occhi degli altri, dal valore per se stessi.
“Lo faccio per me, non per gli altri”: qualcuno dice, pensando di evitare di parlare di valore, senza sapere
che sta sempre parlando di valore. Infatti, se tu ti fai bella e mi dici: “Lo faccio solo per me stessa”, ebbene,
proprio il volerti vedere meglio allo specchio ti porta, alla fine, già a sentirti qualcosa di meglio: è questa è
la vera motivazione (valore). E, sì, può anche essere che tu lo faccia solo per te, ma, è lo stesso: è sempre
cercare di sentirsi più sicuri (valore).
Un conto unico: perciò è sbagliato distinguere il valore che cerchiamo continuamente di affermare solo
nei nostri pensieri, da quello che ci può venire da tutta la vita esterna: tutto contribuisce allo stesso scopo.
Un conto unico: perciò è sbagliato pensare che il valore sia formato da alcuni tronconi principali. Infatti
un buon livello di valore si costruisce, minuto per minuto, per miliardi di vie diverse, all’attacco o in difesa;
ed anche se fra queste cose vi sono cose più importanti delle altre, non bisogna considerare la costruzione
del valore, come compiuta solo con alcuni tronconi. Guardare i componenti del proprio valore è come
guardare dall’alto una grande città: sì , si vedono dei grattacieli più alti, si vedono delle zone più belle, ma
quella città è quello che è: per, tutto, quello che vediamo. Quindi, è chiaro, vogliamo rivolgere una critica ad
altre persone, ma non sarà mai completamente vero quando diciamo: “Quella si valorizza così”: volendo
dire: non ha altro. Né sarà mai completamente giustificata la critica che comunemente si pronuncia:
“Quello, qui, si compensa di tutto quello che subisce in casa”: come se quella persona potesse puntare
esclusivamente su due situazioni. L’idea che il valore si risolva fra due cose è inesatta. E ne sappiamo
pochissimo del valore quando, intuendo in un’altra persona una semplice piccola traccia di valore, subito
diciamo: “Fa così, è insicuro”: cosa che non potremmo mai affermare; non sapendo poi che, dentro di noi,
di modi come quello, ne possiamo trovare tanti e tanti. Tutte queste critiche sono inesatte perché quelle
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persone aiutano il proprio valore anche in miliardi di altri modi; o, meglio, esattamente come noi,
semplicemente cercano il valore dove possono, e come possono, in miliardi di modi diversi.
Potranno saltare agli occhi comportamenti dettati dal valore, rilevanti, che si ripetono, ma il valore fa tutto
un conto unico, con quelli, sì, ma anche con tanti altri comportamenti.
■ LE OPERAZIONI DEL VALORE
Minuto per minuto, il valore è impegnato in una complessità di operazioni.
Queste operazioni ci richiamano alla mente le operazioni di una guerra.
Attacchi, difese e contenimenti si alternano.
Anche se non ce ne accorgiamo.
Anche le difese e le attività di contenimento, e non solo gli attacchi, contribuiscono indirettamente a tener
su il valore. Tutto è importante e tutto contribuisce al risultato.
In questa guerra qui, le soddisfazioni, le soddisfazioni di valore, sono gli attacchi che sferriamo contro il
nemico della svalorizzazione. Ma ugualmente importanti sono le difese: i cambiamenti di atteggiamento, le
spiegazioni di sé, la proclamata involontarietà, il dirlo noi stessi prima che lo dicano gli altri, le difese che si
tramutano in attacchi, gli interventi precisativi, gli interventi confermativi, gli interventi informativi, le
divagazioni, gli alleggerimenti, le cortine fumogene, il controllo incessante di quello che stanno dicendo gli
altri, il controllo incessante di quello che ci accade intorno, ecc., ecc.: con queste operazioni contrastiamo
tutto ciò che minimamente possa toccare negativamente il nostro valore. Se insomma le soddisfazioni
appaiono come i sentimenti che maggiormente sostengono il nostro valore, non bisogna peraltro dimenticare
il complesso di tutti gli elementi che fanno parte della vicenda.
Nella sua casa, il valore è un padrone che ha molti servitori e le
soddisfazioni sono i suoi servitori prediletti. Ma se la casa va avanti bene, è sicuramente anche per merito di
tutti gli altri servitori che lavorano al proprio posto, in maniera continua e tenace.
■ SODDISFAZIONI E SUPERIORITA’
Le soddisfazioni sono quelle valutazioni positive su noi stessi, intimi e dolci compiacimenti, che giovano
al nostro valore.
Dentro di noi, spesso ci arriva un pensiero che ci porta una soddisfazione di valore: sia da una cosa o
cosettina accadutaci proprio allora, e sia da qualcosa che ci sia venuta in mente e che affiori
improvvisamente tra i nostri pensieri. Piccolissime soddisfazioni, fuggevoli, piccole, prese al volo,
possibilmente grandi, ancora più belle, durante la giornata, vengono, tra i nostri pensieri.
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Tutti sappiamo che cosa sono le soddisfazioni di valore, però non sappiamo precisamente: qual è il
rapporto che c’è fra le soddisfazioni e la superiorità.
Quale superiorità?
Una qualunque superiorità. Una qualunque superiorità, solo su qualcun altro. O su molti altri. Sia quando
questa superiorità sia oggetto di riflessione, e sia quando sia solo sentita.
Allora bisogna chiederci: può esserci una soddisfazione di valore senza superiorità? La superiorità è
proprio la condizione necessaria, senza la quale non ci sarebbe soddisfazione?
A questo punto si ha bisogno di qualche esempio, e ci dovrebbe essere la
signora Rossi. E’ una persona che si impegnò tempo fa a fornirci esempi, per le questioni particolari che le
furono allora indicate. Dovette promettere che avrebbe portato esempi di cose, veramente vissute da lei
stessa, e non inventate. Portatrice di esempi: un ruolo impegnativo, per una persona dotata di una buona
capacità introspettiva. Eccola all’appuntamento.
Inizia: “Io sono una persona che rispetta sempre gli impegni ed eccomi al luogo prefissato. Mi fu detto di
portare esempi di semplici soddisfazione di valore.
Allora: proprio stamattina, in automobile, ho risolto un piccolo blocco di traffico indietreggiando un poco
con la mia auto.
Secondo: ogni tanto parlo delle belle piante che ho davanti casa.
Terzo: spesso avverto la stima di una mia cara amica.
Quarto: in famiglia mi hanno chiesto se era meglio cambiare lattaio.
Quinto: ogni tanto, lo voglio dire: “Piaccio agli uomini”.
Sesto: tempo fa, ad un certo punto, ero sola e mi è capitato di essere sfiorata fuggevolmente da una
sensazione piacevole per aver capito il significato di una parola difficile.
Settimo: vedo le scarpe delle altre donne ma mi sembra un bel colore quello scelto da me.
Ottavo: oggi me ne vergogno, ma, tantissimo tempo fa, riuscii a costringere tutti i miei familiari a
conformarsi perfettamente alle antiche usanze della nostra terra. Questi sono gli esempi che ho portato.
Ora io stessa proverò a vedere se dentro ad ognuna di queste soddisfazioni si possano trovare i semi di
una qualunque superiorità.
Dunque vediamo: in alcuni dei casi che vi ho raccontato, ebbene, io non ho difficoltà ad ammettere che
mi sono sentita, diversa rispetto agli altri. Ma, certo, diversa, significa migliore; e, migliore, significa
superiore: lo capisco anch’io.
Per esempio, quando ho indietreggiato con la mia auto, in quel momento mi sono sentita superiore a
quegli altri che ottusamente restavano senza muoversi. Nell’altro esempio delle piante, la soddisfazione
consiste sicuramente in una superiorità sulle piante dei miei vicini. E così pure, in famiglia forse ritengono il
mio giudizio sul latte superiore al loro. E ancora nel caso in cui avevo capito il significato di quella parola,
effettivamente, sotto sotto, c’era il pensiero di una superiorità sui tanti altri che non l’avrebbero capita.
Nell’ultimo esempio, certo, mi ero sentita superiore ai miei familiari.
Quindi ho trovato queste superiorità. Invece, negli altri esempi che ho fatto non intravedo alcuna
superiorità. Almeno così mi sembra”.
La signora Rossi si allontana.
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Per vedere se la superiorità costituisca sempre il nocciolo delle
soddisfazioni di valore, è ovvio che dobbiamo riportarci su quegli esempi di soddisfazioni dentro i quali la
signora Rossi non ha trovato alcuna superiorità. Certo, in molti casi è difficile trovare confronti vincenti nei
riguardi degli altri. Sembra proprio che non ce ne siano.
Eppure, per tutte le soddisfazioni, proprio per tutte, alla fine, si potrà rispondere che la superiorità c’è
sempre.
Come?
Applicando sempre lo stesso interrogativo.
E questo interrogativo lo andiamo subito ad applicare proprio a quelle soddisfazioni in cui la signora
Rossi non ha trovato alcuna sensazione di superiorità.
Allora ci chiediamo: se tutte le persone del mondo avessero a disposizione un’amica che le stimi, la
signora Rossi avrebbe provato ugualmente quella soddisfazione?
Se si venisse a sapere che tutte le donne attraggono gli uomini nella stessa misura , la signora Rossi
avrebbe provato ugualmente quella soddisfazione?
Se tutti per legge dovessero portare scarpe di quello stesso colore, la signora Rossi avrebbe provato
ugualmente quella soddisfazione?
A tutte queste domande la signora Rossi, o chiunque altro, risponderebbe: “No”. E quindi applicando
questo tipo di interrogativo a qualunque esempio di soddisfazione si vedrà che la risposta sarà sempre:
“No”. E questi “No” sono subito la dimostrazione che, in ogni soddisfazione, c’è sempre una qualsivoglia
superiorità, derivata da un confronto con altri.
“Se tutti”, “Se tutti”: con queste strambe ipotesi scomparirebbero tutte le soddisfazioni di valore.
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■ NEGAZIONE – OCCULTAMENTO – NAUSEA
Mentre leggiamo, siamo a disagio?
Anche se quello che leggiamo lo consideriamo abbastanza vero, ugualmente siamo un po’ irritati?
Fin quasi a metà libro, ci mancherà l’aria? Solo là, finita la trattazione del valore, incominceremo a
respirare?
A disagio? Irritati? Serve l’aria?
E’ normale: viviamo un tabù.
Stai con una tua amica e le dici: “L’hai detto per apparire a tutti una persona colta, vero?” e lei risponde
subito: “No, assolutamente”.
Un’altra volta le dici: “L’hai detto perché vuoi avere ragione, vero?” e lei risponde: “No, l’ho detto per
lui”.
Un’altra volta le dici: “L’hai fatto per far risaltare la tua persona, vero?” e lei risponde subito: “Sei
matto?”.
Un’altra volta le dici: “L’hai fatto per distinguerti, vero?” e lei risponde subito: “Non ci ho pensato
nemmeno”. Sono state tutte risposte in buona fede.
Ma la tua amica avrà colto la verità dentro di sé? Oppure no?
Non lo possiamo sapere, ma è certo che, se incalzata, la tua amica presenterebbe sempre motivazioni,
altre, non di valore, di altro genere.
Resta il fatto che ha immediatamente negato senza pensare a nulla; e resta il fatto che le sue risposte sono
state, istintivamente, unidirezionali.
IL TABU’ DEL
VALORE
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In più, lei ha sentito che sei stato sgradevole con lei; e pazzo.
Chi risponde, qui si sente come se fosse stato messo sotto accusa.
Ma perché sotto accusa? Perché? Eppure, son cose di tutti.
E noi?
Diciamo: “Mi dà noia”, frase incongruente, al posto di: “Se lo facessi, ci perderei in personalità”.
Diciamo: “In questa cosa mi diverto”, frase incompleta, al posto di: “In questa cosa ricavo divertimento e
soddisfazioni”.
Diciamo: “Così è più bello”, frase vaga, al posto di: “Questo mi valorizza di più”.
Diciamo: “Mi pare brutto”, frase sviante, al posto di: “Questa cosa mi svalorizzerebbe”.
Ma perché non ci esprimiamo in modo esatto? Perché usiamo tante cautele?
Agisce il tabù del valore.
Tutte le pagine del valore riguardano indistintamente tutti. Ma se apriamo una pagina a caso per
applicarla a noi stessi, pensiamo: “No, io no”. Se apriamo una pagina a caso per applicarla agli altri, questi
ci rispondono nello stesso modo, se non addirittura: “Mi vuoi offendere?”. E, parlando con gli altri, quando,
semmai involontariamente, si va a capitare sui tentativi di valorizzazione di qualcuno che sta parlando con
noi, ecco allora che il discorso subisce pause, va a saltelli; per poi riprendere da un’altra parte.
Imbarazzo, negazioni ed occultamenti: la stessa ripetitività di tutti questi
atteggiamenti ci fa capire che c’è un tabù.
Perfino se abbiamo tradito, rubato, ucciso, perfino sugli argomenti più scabrosi che ci possono riguardare,
qualche volta non lo nascondiamo; qua invece, sempre. Eppure si tratta del quotidiano e normalissimo
bisogno di valore di tutti, il quale è continuamente nei nostri pensieri e continuamente muove le nostre
parole e le nostre azioni.
Ma come si fa a parlare agli altri di questo argomento, se subito stanno a disagio? Come si fa ad
esaminare con loro queste cose, se subito ci guardano perplessi come se fossimo maleducati? Come si fa a
parlar loro di questo, se subito pensano: “Che c’entro, io, con la valorizzazione?”. Come si fa a ragionare
con loro, se subito dicono: “Sono cose meschine”?
Come si fa a spiegare loro le cose del valore se loro non le vedono mai dentro di sé?
Certo, se si trattasse d’altra cosa, non si affannerebbero a negare così agitatamente. Però, d’altra parte, è
pure comprensibile che reagiscano così: il tabù agisce per lo più, inavvertito.
Il bisogno di valore è addirittura ingombrante, eppure, quando si tratta di noi, abbiamo subito difficoltà a
parlarne, non vogliamo nemmeno nominare le parole che lo riguardano, non abbiamo voglia di andare a
fondo, inconsciamente ce lo spieghiamo con altre ragioni.
Solo a parlarne, solo a sentirne parlare, sentiamo nausea. Vogliamo smettere. Nausea lieve? Nausea forte?
Ed anche irritazione, se ci fanno restare per forza a parlarne.
Il valore: perché pensiamo che non ci riguardi? Perché inconsciamente lo nascondiamo? Perché ci viene
la nausea?
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La risposta è: perché il valore è tabù.
Ma perché il valore è tabù?
A questa risposta possiamo arrivarci.
■ IL BISOGNO DI COMUNICARE
Possiamo arrivarci: il valore porta con sé anche il desiderio di comunicare agli altri quello che sentiamo
come valorizzante per noi. Inconsciamente, con una motivazione di valore, vogliamo in qualche modo far
sapere, o far vedere, agli altri, le nostre cose buone: piccole o grandi, incerte o effettive, sognate o reali.
Giuriamo che per noi non é così, diciamo: “Io, no”, ma questo bisogno c’è. Se ci teniamo tutto dentro,
sentiamo che ci manca qualcosa.
E’ vero, nei nostri pensieri noi già finiamo per valorizzarci moltissimo, ma non sempre questo ci basta.
Tutte quelle cose che in quel momento sentiamo che sono un po’ valorizzanti per noi, per una motivazione
di valore, proviamo a dirle agli altri. Le devono sapere. Solo questo. Solo per questo. Le devono soltanto
sapere. E dopo che abbiamo detto quello che dovevamo dire, il più è fatto.
I risultati?
Che siano quel che siano. Infatti quasi sempre a noi non interessa conoscere quale sia stato il ricevimento
di quella cosa nell’animo degli altri: no, questo sarebbe un altro lavoro, un lavoro in più.
Per noi, quella, è la cosa importante: scaricare la merce.
Che ne faranno di quella merce?
Non ci mettiamo a pensarlo.
Del resto, se non gliela diciamo noi quella cosa, nessuno la saprà mai; se non gliela mostriamo noi quella
cosa, nessuno la conoscerà mai.
Gli altri hanno troppo da pensare alle loro cose. Che se ne importano di noi? Che se ne importano di
sapere di noi: come siamo o come non siamo? Loro non ne hanno alcun interesse perché vanno sempre di
corsa con in testa le loro cose e non hanno proprio né il tempo né la voglia di approfondire quello che ci
riguarda.
Chi le noterà le nostre tante piccole cose buone, che facciamo o che abbiamo nell’animo?
Ma, poi, che possono capire gli altri? Dopo anni, non sanno niente di noi, nemmeno gli aspetti più
evidenti. Non conoscono le nostre caratteristiche positive, i nostri piccoli pregi, le nostre buone intenzioni.
Perfino gli amici più vicini a noi, dopo anni ed anni di conoscenza, non apprezzano di noi che poche cose,
semmai solo quelle che balzano per forza agli occhi; e semmai proprio quelle cose che a noi non interessa
che siano apprezzate. Gli altri non sanno scrutare in noi quel poco di buono che c’è. Ed anzi, se noi abbiamo
fatto, o detto, una cosa buona, molti di loro tendono a pensare in male, più che a pensare in bene.
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In famiglia? Anche là, può capitare che, se andiamo a dire quella, che è veramente una buona qualità che
abbiamo, questa qualità non ci venga riconosciuta. Ed allora diciamo: “Beh, se nemmeno qui questo mi
viene riconosciuto, figuriamoci dagli altri!”.
Quindi, a dire certe cose, ci siamo, come dire?, costretti.
Costretti? Si, costretti, e diciamo le cose, quasi sempre senza rendercene conto.
Per aiutare il valore è necessario. Nessuno ne può fare a meno. Nessuno ne può fare a meno: sempre. E
se ci saranno alcuni che in buona fede diranno: “Mai”, ciò sarà solo perché non se ne accorgono.
Certo, è vero, non tutti gli altri ci interessano: solo pochi, di volta in volta, sono gli altri a cui veramente
ci interessa di dire le nostre positività. Con loro, se capita, lo faremo.
■ LA REAZIONE DI ABBASSAMENTO
Allora noi siamo con questa voglia di dire certe cose, ma dall’altra parte c’è qualcosa che ci ostacola.
Che cosa ci ostacola?
Ci ostacola la reazione degli altri.
C’è un’esperienza che inconsciamente arriva a tutti, fin da ragazzi, attraverso la quale siamo avvertiti che,
quando vogliamo dire qualcosa di positivo di noi, può anche capitare che si producano, nell’ambiente
circostante, effetti palesemente negativi proprio per noi stessi. Possiamo produrre negli altri una reazione di
abbassamento. Questa esperienza ci avverte decisamente.
Quando qualcuno cerca di mostrare qualche sua positività, o prova a parlarne, alcune volte si può creare
negli altri una sensazione di insofferenza; altre volte un’atmosfera sospesa.
Ed, anche dentro di noi, alcune volte, senza saperlo, le tentate valorizzazioni
degli altri non sono di nostro gradimento. Qualcuno parla di una sua positività, e non c’è dubbio che qualche
volta noi possiamo trovarlo, non piacevole, senza alcun’altra ragione che averlo sentito.
Ma attenzione: nella stragrande maggioranza dei casi, questa reazione
opposta non nasce: non ci dispiace sentire qualcuno che si vanta, chiaramente o tra le righe. Non ci dispiace
vedere qualcuno che si vuole attribuire qualche punto a favore. Gli altri possono parlare e possono dire
quello che vogliono. In tanti casi non succede niente. Tutto fila liscio. Certe cose non ci toccano. Infatti, le
reazioni di abbassamento sono, come dire?, a nostra insaputa, molto selettive: solo in certi casi, ogni tanto,
in quei casi là.
Certe volte, è diverso se la stessa cosa ci venga detta, o mostrata, da una persona o da un’altra: contro la
prima sorge la nostra reazione di abbassamento, contro la seconda non abbiamo reazioni, non ce ne importa.
Tutta questa reazione sorge, perché in quel caso il nostro valore non
vorrebbe vedere che una cosa di un’altra persona: si sollevi davanti a lui. In quel momento quella cosa si
solleva, e i nostri occhi mentali non vogliono solo restare a guardare. Sia che si sollevi sopra di noi e sia che
si sollevi mettendosi alla pari di noi, il nostro valore in quel momento prova dispiacere e quindi
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automaticamente nasce la nostra reazione. Questa reazione, poi, può restare solo nel nostro animo
diventando automaticamente pensieri svalutatori, o venir fuori all’esterno diventando parole e frasi
svalutatrici di quella cosa che abbiamo sentito sollevarsi un po’. E sono svalutazioni che servono ad
abbassare.
Ma questo può capitare solo quando noi ne siamo in qualche modo, come dire?, sensibili. Possiamo venir
provocati solo quando ne siamo sensibili. Quando non ne siamo sensibili, le cose degli altri possono
sollevarsi quanto vogliano senza che ce ne importi nulla, e la reazione non nasce.
Dispiacere reazione di abbassamento.
Nascono dentro di noi, in una nebbia fittissima. La critica di abbassamento viene fuori subito, ma quel
dispiacere del valore che l’ha causata sta in fondo in fondo all’animo.
Eppure, potrà capitare anche il caso che, dopo aver fatto chiarezza, noi protesteremo: “E’ vero, ho parlato
ridimensionando il successo del nipote di mio marito nella pittura, ma che c’entra la pittura con me?”:
eppure, un pur sottilissimo oscuro collegamento deve esserci stato se è scattata la reazione di abbassamento.
Qua sembrerebbe che voltiamo pagina, mentre assolutamente restiamo nella stessa pagina: ebbene,
sempre inconsciamente, le reazioni di abbassamento nascono in noi, non soltanto causate da quello che
dicono gli altri, ma, qualche volta, alcune di esse, nascono da qualcosa degli altri, senza che questi altri, in
alcun modo, lo abbiano detto.
Se uno legge un libro di psicologia potrebbe far nascere una reazione di abbassamento.
Anche se uno scrive poesie.
Se uno, molto anziano, si allena correndo per la strada potrebbe far nascere una reazione.
Oppure se uno spesso fa del bene ad altri.
Oppure ancora se uno si è fatto un vestito diverso.
O se uno è un animalista vegetariano. O se è conosciuto da tutti. O se dicono di lui che è un eroe. Oppure
se fa parte del Comitato Irrigazioni. Oppure se non vuole assolutamente farne parte. Insomma, da qualunque
cosa può nascere una reazione di abbassamento.
Ecco: quella persona che legge, quella che scrive, quella che corre, quella che aiuta, quella che ha il
vestito, quella vegetariana, quella che è conosciuta da tutti, quella che è un eroe, quella del Comitato, quella
che non vuole, ebbene, queste persone, mai avevano parlato di quelle loro cose. Quelle persone stavano per
conto loro. Eppure, eppure, senza volerlo, senza sospettarlo, hanno potuto suscitare in qualcuno una
reazione di abbassamento.
Ma se nessuno ne ha parlato? Sorge anche così?
E’ lo stesso.
E allora le reazioni in molti casi nascono anche senza che ci sia alcuna esternazione da parte degli altri.
Ma è come se l’avessero detto. Quello che conta è quello che abbiamo sentito noi: un’emanazione di valore
che ci proveniva da un altro. Il nostro valore ne viene toccato, non è contento, quella cosa si alza, nasce
inconsciamente una reazione di abbassamento.
E questo anche quando gli altri avevano semplicemente seguito i loro gusti. Anche quando erano
nell’ambito dei loro diritti. Anche quando erano restati all’interno di comportamenti consueti.
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Ma, sia che ne parlino o sia che non ne parlino, come vanno le cose?
Ovviamente, inconsciamente, si deve tirar giù quello che si è sollevato.
Come?
Si tira giù con la critica verbale, che svalutando abbassa. La critica, per tirar giù quello che si è alzato, è il
mezzo più immediato e facile da usare: subito semplice, universale. Certo, ci sono anche altri mezzi che noi
usiamo: cercare di ignorare, o cercare di non parlarne, o di non rispondere, o ironizzare, o fare l’uguale, ma,
fra questi tanti modi, è la critica a portare la svalutazione più evidente.
C’è bisogno di abbassare l’altezza di quella cosa che si è sollevata.
E quando, per tutte queste cose, qualcuno in buona fede dice al valore: “Tu sei meschino!”, il valore gli
risponde: “Tutto questo è in tutti, e quindi anche in te. Lo sai quale è la posta in palio?”
La reazione di abbassamento: perché non chiamarla direttamente, invidia?
Non sarebbe una buona cosa. Perché l’invidia e la reazione di abbassamento hanno parecchio in comune,
ma non coincidono perfettamente. Per esempio, se a me è antipatico un Cantante e dentro di me gli rivolgo
qualche critica, si chiamerebbe invidia, tutto questo, per me che non canto, non suono e non ballo? Allora si
direbbe: “Invidia? Invidia di che?”. In più, questa reazione di abbassamento è un dispiacere e una reazione,
sottilissimi, sentimenti inconsci, trascorrenti, innocenti già solo per la loro naturalità, non riflettuti, di tutti i
giorni, comuni a tutti. Invece, quello che intendiamo comunemente per invidia è solo un grosso peccato che
rimproveriamo ad altri.
D’altra parte, anche noi, senza saperlo, cerchiamo di non suscitare quella reazione negli altri ed a questo
scopo siamo costretti a stare attenti a moltissime cose. Vogliamo comportarci bene e non diventare antipatici
agli altri: quasi come se fosse un comportamento di buona educazione. Certo, non sempre rischiamo di
causare negli altri la reazione di abbassamento. Non sempre è così. A volte possiamo parlare a ruota libera, e
non succede niente. A volte possiamo accennare a qualcosa di valorizzante per noi senza suscitare reazioni.
Possiamo avere di fronte una persona che ci vuole bene e parlare liberamente senza conseguenze. Se quella
persona è a noi la più cara di tutte, può diventare: la nostra palestra di valore in libero orario continuo; da
quella persona non temiamo reazioni. Tranquilli come bambini scarichiamo tutto il valore che vogliamo.
Comunque abbiamo esperienza che anche con tanti altri spesso la reazione non nasce. Senza pensarlo, lo
sentiamo: “Ma sì, con lui questo posso dirlo”, “Ma sì, con questa persona queste cose posso mostrarle
tranquillamente”, “A lei sicuramente posso parlarne”.
Tutto inconsciamente: ma, con un altro, come facciamo a prevederlo? Certo, sono poche le reazioni degli
altri, ma il rischio c’è sempre. Sì, è vero, su quella cosa non dovrebbe avere reazioni, ma come esserne certi?
Non sempre possiamo sentire dove ci sia sensibilità di valore. Non sempre possiamo intuirne la presenza
negli altri.
Nel loro animo la reazione di abbassamento può sorgere ad ogni minimo accenno di valore nelle nostre
parole o nei nostri comportamenti. Certe volte, le persone, a questo proposito, hanno vista acutissima,
colgono ogni più piccola traccia di valore. Hanno orecchio fino, sentono qualunque fruscio di valore
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all’interno delle nostre parole. Subito entrano in allarme. Vedono ombre di valore dietro ai nostri
atteggiamenti. Credono anche di vedere quello che non c’è.
Caso estremo: noi stiamo così attenti a non indurre negli altri reazioni
opposte che perfino quando è un altro che ci rivolge una lode o un semplice complimento, ebbene, anche in
questi casi, noi siamo cauti e spesso rispondiamo attenuando la lode o smentendo in parte il complimento.
Nel cinquanta per cento dei casi, in molti casi, noi rispondiamo così; scatta dentro di noi questo impulso a
ridimensionare. Lo facciamo così, subito: in un certo modo, senza pensarci.
Ci dicono una cosa carina: chi risponde non si pone il problema di vedere se quello che gli è stato detto
sia vero o falso, come normalmente si fa. Qui, chi risponde non si interessa di verificarlo, essendo
immediatamente teso solamente a non accettare la lode completamente per non causare una reazione.
E pensare che le lodi degli altri sono per noi un regalo raro e prezioso; e pensare che arrivano alle nostre
orecchie, quasi tutte, come vere e fondate. Noi ne abbiamo bisogno, loro ce le danno: logico sarebbe che le
accettassimo interamente senza lasciare nemmeno una briciola nel piatto.
Invece noi, a volte, ne limitiamo la portata. Operiamo limature che sono dei tipi più vari, quello che al
momento ci viene in mente, con grande fantasia di contenuti. Spesso sono limature quasi impercettibili, una
piccola parolina quasi nascosta nella risposta. E se non ci sono parole, ci mettiamo una risatina, un verso
della bocca, un socchiudere gli occhi, un cambiare di discorso, ecc., ecc..
Proprio questa situazione così estrema è la migliore dimostrazione che noi inconsciamente abbiamo
sempre in testa la reazione di abbassamento degli altri. Ed a tal punto noi l’abbiamo sempre in testa, che
temiamo che una reazione si possa formare addirittura nello stesso animo di colui che ci ha lodato. Noi
dovremmo pensare: “E’ proprio lui che lo ha detto; io lo accetto interamente, non succederà niente”. Ed
invece limitiamo la lode, solo per evitare proprio il raro caso in cui tale reazione possa sorgere proprio in
colui che ci ha fatto quel complimento. Accettare completamente: potrebbe risultare a lui come se lo
avessimo detto noi.
Sediamoci in poltrona ed assistiamo a queste due scenette.
Prima scenetta
Leopoldo incontra Paolo e gli dice: “Paolo, hai fatto qualcosa di veramente buono” e Paolo
immediatamente risponde: “Non ho fatto niente di speciale”.
Seconda scenetta
Leopoldo incontra un’altra volta Paolo e gli dice, esattamente, quello che Paolo aveva detto nell’altra
scenetta: “Paolo, non hai fatto niente di speciale”. Ma a questo punto incredibilmente lo stesso Paolo
risponde: “Si, però, proprio niente di speciale: veramente, non è vero: io ho fatto …”.
■ LE DECISIONI DEL PONTE DI COMANDO
C’è, in tutti, il Ponte di comando: ecco ora, un’altra prova che tutti temiamo, sia pure non chiaramente, la
reazione di abbassamento degli altri.
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Anche se non ce ne accorgiamo, spesso viviamo quel dubbio: la diciamo, o la mostriamo, quella cosa
valorizzante, anche se questo ci può attirare addosso la reazione? Vale la pena di rischiare? E’ il momento
opportuno, questo? Il rapporto con alcune persone non vogliamo peggiorarlo.
Ma, nella nostra inconscietà, c’è il Ponte di comando, che lavora per noi e noi non ne sappiamo niente.
E’ lui che decide dentro di noi. E’ lui che decide di volta in volta.
Ci siamo noi che vorremmo dire certe cose; fuori di noi troviamo il rischio di certe reazioni: tra le due
forze, si pone dentro di noi il nostro Ponte di comando a decidere quello che a noi conviene fare. Questo
Ponte di comando decide, nella situazione particolare del momento, se debba prevalere la repressione o se
debba essere lasciata via libera al desiderio di comunicare: quindi prende decisioni negative o decisioni
positive.
Le decisioni negative danno ragione completamente al timore di una reazione di abbassamento e così
viene giù l’ordine: “Fermare le macchine”: la cosa non deve venir detta, né mostrata.
Le decisioni positive invece danno via libera al bisogno di comunicare e così viene giù l’ordine: “Avanti
tutta”: si può far conoscere agli altri quella cosa.
■ L’AGGANCIO IMPROVVISO
Il Ponte di comando lavora, certe volte, in modo tranquillo; altre volte, in modo rocambolesco. Lavora in
modo tranquillo quando, sapendolo prima e volendoci accontentare, trova il momento più adatto per darci
via libera: quando si rischia la minore reazione possibile.
Invece lavora in modo rocambolesco, quando, mentre stiamo parlando con gli altri, capitando
improvvisamente una buona occasione, deve prendere una decisione all’istante. Si o no? Qui è stupefacente
la sua prontezza. Il Ponte di comando non sembra mai soffrire di incertezze. Un preciso ordine ci arriva
immediatamente. Se la decisione è positiva, va sfruttato subito l’aggancio capitato nel discorso: va detta
immediatamente la cosa (motivazione di valore).
Il problema per lui è quello di intrufolare in qualche modo quello che
vogliamo dire, sembrando ugualmente di rispondere a tono e sembrando di continuare coerentemente il
discorso che si sta facendo.
Il Ponte di comando cerca di fare in modo che la persona con cui si sta parlando non ci venga a dire: “E’
questo che c’entra?”.
Uscendo un poco dalla coerenza dello scambio verbale, nello stesso tempo bisogna restare attaccati
all’argomento: senza strapparlo. Siccome saremo rimasti, come dire?, nelle vicinanze, le altre persone non ci
faranno caso perché non avvertiranno grosse deviazioni dal filo del discorso. Ed è questo il risultato che
spesso il Ponte di comando riesce ad ottenere: che appaia, naturale, l’aver detto in quel momento quella
certa cosa. Sembrerà all’altra persona un semplice arricchimento dell’argomento di cui si sta parlando, e non
una motivazione di valore.
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Insomma, c’è la possibilità di avere uno sconto sul prezzo. Se la cosa scivola nello scambio verbale senza
apparenti forzature, allora una eventuale reazione di abbassamento non sorgerà o, se sorgerà, resterà blanda.
E questo sarà un vero e proprio sconto sul prezzo per noi, che paghiamo spesso prezzi interi per esternare
quello che al nostro valore interessa che sia detto.
Spessissimo poi il Ponte di comando, accorgendosi di una nostra voglia di dire una certa cosa, crea un
aggancio, come dire?, artificiale. Introduciamo un argomento, a cui poter agganciare poi con naturalezza
quello che vogliamo dire. Oppure all’altra persona domandiamo una cosa che la riguarda, attinente a quello
che dobbiamo dire; così, dopo che la persona ha risposto parlando di sé, noi subito diciamo quello che
vogliamo farle sapere.
■ AVANTI CON ISTRUZIONI DETTAGLIATE
Con le decisioni positive il Ponte di comando ci dice: “Vai avanti, fai come vuoi”. Ha deciso che non c’è
pericolo, possiamo stare tranquilli. Il Ponte di comando è sicuro che non sorgeranno reazioni di
abbassamento.
In molti altri casi, invece, il Ponte di comando ci lascia via libera, sì: ma
non completamente.
In questi casi pensa che valga la pena di rischiare, ma solo andando avanti con cautela. La via libera che
ci ha dato potrà essere percorsa da noi: ma solo con le sue istruzioni dettagliate.
In alcuni casi ci fa premettere: “Io ho questo difetto: …”. Oppure: “Non so se è una cosa buona o
cattiva:…”. Oppure: “Forse sono fatto male: …”. Ecc., ecc..
Altre volte dobbiamo dire la cosa con toni di voce umili e modesti.
O dobbiamo dirlo mostrando nello stesso tempo di volerlo nascondere.
Oppure dobbiamo dirlo solo con un piccolo gesto, un’occhiata, un movimento.
Certe cose si possono dire col tono scherzoso, come se non dicessimo sul serio.
Si possono premettere frasi cautelative del tipo di: “Modestamente, …”. “Senza nulla togliere agli altri,
…”. “Non per vantarmi: …”. Ecc., ecc..
Altre volte il Ponte di comando ci fa dire la cosa che vogliamo dire ma ci fa sottolineare che noi sappiamo
benissimo di non doverlo dire e che tuttavia facciamo solamente una scusabile eccezione: “Sì, qua non
voglio fare il modesto:…”. Oppure: “ Veramente non lo dovrei dire, ma …”. “Ormai è passato molto tempo,
lo posso dire: …”. Ecc., ecc..
Ma non sempre le cose sono semplici.
Spesso il Ponte di comando ci fa sbandierare una falsa motivazione, mentre poi diciamo quello che
dobbiamo dire. “A te fa piacere sentire queste cose: …”. “Per farti capire come sono quelle persone:…”.
“Ho bisogno di un consiglio su questa cosa: …”. “Ve lo dico perché, saperlo, possa servire anche a voi: …”.
“Vedi se va bene: …”. Ecc., ecc..
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Altre volte ci fa dire quello che facciamo, ma lamentandocene come di una cosa noiosa o gravosa.
Infine, avvertendo una nostra grande impazienza , il Ponte di comando, non trovando altri modi, certe
volte opta addirittura per il metodo del: dire altro per dire quello: c’è la vera motivazione di valore per la
quale parliamo, ma diciamo tutt’altro.
Noi vogliamo far sapere A (motivazione di valore) ma diciamo R senza mai dire A. E così il messaggio
parte nascosto.
Il Ponte di comando è convinto che quella persona con cui stiamo parlando, anche se abbiamo detto altre
cose, ugualmente potrebbe arrivare a pensare le cose che facevano parte del messaggio nascosto. Dentro la
sua mente dovrebbe poter avvenire una spontanea congettura o anche un semplice passaggio mentale, da cui
possa venire in rilievo la cosa oggetto del messaggio nascosto. E quindi, quella cosa, l’avrà pensata, lei,
quella persona. E noi? Noi non c’entriamo. Lo avrà pensato lei, e non potrà mai associare quello che noi
abbiamo detto a quella cosa buona che ora nota in noi: da tutto ciò, niente reazione.
Si aprirà questo corridoio nella mente di quella persona?
Ebbene, se non si aprirà, pazienza; per il Ponte di comando sarà valsa la pena di aver tentato questo
metodo.
Adesso serve proprio qualche esempio della signora Rossi. Eccola.
Inizia: “Pur avendo ben capita la cosa, non sono riuscita a trovare dentro di me le operazioni del dire altro
per dire quello. Forse ci saranno pure state, ma comunque non ho esempi da darvi. Il patto era che gli
esempi dovevano essere cose, capitate veramente, e non inventate. Mi dispiace”.
Se ne va.
E allora?
Allora, esempi completamente inventati..
Io dico ad un amico: “Devi stare molto attento”.
Non mi importa nulla dell’amico e ho detto questo solo per fargli sapere che io mi ero accorto della
difficoltà di quella situazione (motivazione di valore). Ho portato avanti la cosa come se avessi parlato
affinché lui potesse stare più attento.
Siamo, in gruppo, tutte donne. Si sta parlando delle meraviglie dei nuovi
telefoni moderni. Dico: “Esiste un telefono di casa, fatto in modo che soltanto l’interessato possa rispondere
alle telefonate per lui?”. E ho detto questo solo per far loro intuire che io ho un rapporto d’amore segreto
con un uomo (motivazione di valore). Ho portato avanti la cosa come se avessi avuto la curiosità di scoprire
nuove capacità tecniche dei telefoni. Un’amica, allora, mi dice che per ora un telefono di casa simile non
esiste però forse un domani si potranno differenziare le suonerie, ma smette subito vedendomi
completamente disattenta.
Io sono un bambino di dieci anni. Dico al mio cuginetto più piccolo: “Ti
ricordi un mese fa, quando andammo giù al paese, come ci divertimmo?”. E ho detto questo solo per fargli
venire alla mente di quando, durante quella sera, io riuscii a far girare la ruota (motivazione di valore). Ho
portato avanti la cosa come se avessi cercato di rinnovare ancora col ricordo il piacere goduto insieme. Lui
dopo un po’ mi risponde: “Ma io, mi ci annoiai”.
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Eppure, invece, ci sono anche dei casi in cui lo ascoltiamo di meno, il Ponte di comando. Se lui trova il
modo di aiutarci subito, va bene, ma se poi dobbiamo aspettare sempre i suoi modi ed i suoi tempi, allora no.
In questi casi, assolutamente, di certe cose ne vogliamo parlare, non ce ne importa, lo vogliamo dire subito,
senza aspettare.
Quali sono questi casi in cui il Ponte di comando viene messo da parte?
Questo accade esattamente o quando ci troviamo su di un nostro, importante, punto di soddisfazione (non
ancora trattato) del quale ne vogliamo parlare; o quando abbiamo un livello di valore molto basso e
dobbiamo parlare per forza; oppure, quando abbiamo già incominciato ad avere dalla nostra mente qualche
disfunzione del comportamento e quindi andiamo, come dire?, a ruota libera a dire quello che vogliamo.
■ COME SI ARRIVA AL TABU’
Conclusione: perché il valore diventa tabù?
Risposta: il valore diventa tabù a causa delle reazioni di abbassamento.
Certo, quando i bambini sono tanto piccoli da non conoscere queste reazioni, si può allora vedere quanto
sia sfrenato e senza riguardi il bisogno di comunicare il proprio valore; ancora di più, quando si trovino in
gruppo; ancora di più, in gruppo, alla presenza di un adulto significativo. Poi, prima o poi, arriverà
quell’esperienza, la quale diminuirà almeno un po’ l’irruenza di quelle acque tumultuose.
Fin da piccoli registriamo ed accettiamo, come regola ammonitrice, il fatto che, certe cose un po’
valorizzanti, se vogliamo essere sicuri, le possiamo dire, o mostrare, solo ai genitori. Spesso, non ai
coetanei, e , perfino, non ai fratelli. Da costoro a noi, qualche volta viene l’avvertimento che la cosa può non
essere gradita. La reazione opposta che ci viene da loro è come se ci dicesse: “E’ vietato”. Nello stesso
tempo a noi stessi qualche volta non è gradito sentire certe cose dai coetanei e quindi anche dall’interno del
nostro animo viene fuori la voce: “Non si fa”.
Risultato: è vietato.
Per il tabù, nessuno ci spiega la cosa. Per gli altri comportamenti che
dobbiamo evitare riceviamo un continuo insegnamento. Per questo, nulla. Ed anche se qualche genitore più
preoccupato ci dice: “Non ci si vanta con gli altri”, poi non potrebbe avventurarsi a spiegare bene la cosa. E
si sa che tutte le cose di cui non si conosce la provenienza fanno più impressione.
Risultato: mistero.
Risultato: vietato e mistero.
Vietato e mistero quindi avvolgono le nostre piccole esternazioni di valore. Ma la nostra mente farà presto
ad applicare, vietato e mistero, non più solamente alle esternazioni di valore, ma anche direttamente
all’intero discorso del valore. Vietato e mistero, silenzio imbarazzato.
Questa trasposizione mentale è l’ovvia naturale conseguenza.
Sarebbe stato ben prevedibile che finiva così: tutto via.
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Tutta la sentita necessità di valore diventa, vietato e mistero, ed anche tutto quello che ne parla.
Da queste impressioni, da quello che abbiamo visto e sentito, il risultato non poteva che essere quello: il
valore diventa un tabù.
Il valore è tabù.
Finiamo per associare mentalmente il concetto di valore a qualcosa, come di brutto, di odioso, di sporco.
E crescendo, le cose non mutano. Il tabù ormai si è radicato in noi e può continuare indisturbato, perché
niente e nessuno intorno a noi contribuisce più a diradarlo.
Da adulti, col nostro allontanarci dai genitori, il principale porto franco che avevamo ci viene precluso. E
poi le cose sono cambiate: siamo diventati grandi, ed anche con essi ormai quasi sempre usiamo le stesse
cautele che usiamo con gli altri.
■ LO SAPPIAMO – SEMINCONSCIETA’ – INCONSCIETA’
Certe volte ne siamo coscienti. Pensiamo: “Non ho voluto parlare per difendere il mio onore” (valore).
Oppure: “Ci tengo molto a questa cosa perché mi dà molte soddisfazioni” (valore).
Ma sono pochissimi questi casi in cui riusciamo ad intuire che si tratta del bisogno di valorizzazione. In
realtà, di questo non vediamo quasi niente nella nostra mente. Vediamo, come vedremmo in un laghetto
dall’acqua torbida, dentro cui nuotino tantissimi pesci. Di tutti questi pesci, che pure nuotano in quel
laghetto, noi ne vediamo solo qualcuno, appariscente, quando salti sopra il pelo dell’acqua e, semmai, altri
due che vengano quasi in superficie. Ma non vediamo null’altro.
Ora, su tutti gli altri diecimila pesci del laghetto, cioè per tutto il valore inconscio che è nel nostro animo,
il tabù agisce indisturbato.
Quindi, da una parte, di quasi tutto il nostro bisogno di valorizzazione personale che gira nei nostri
pensieri, noi non ne sappiamo niente, e, dall’altra, ancora senza che noi lo sappiamo, vi agisce il tabù.
Alla fine, è una cosa, difficile a credersi: mentre, noi, non siamo abituati a tradurre, e quindi non
sappiamo che una nostra motivazione è di valore, ebbene, invece, il tabù, lui, lo sa, lui ha già fatto la sua
traduzione, e quindi noi ci troviamo a nascondere e a mitigare. E così, noi non ne sappiamo nulla, mentre lui
lo sa.
Inconsciamente, a contatto con gli altri, spesso nascondiamo il valore, lo
intrufoliamo, lo presentiamo devitalizzato, lo spieghiamo in altri modi. Poi: da fuori a dentro, nella nostra
mente, il passo è breve: a furia di nasconderlo agli altri, finisce che resta nascosto anche a noi. A furia di
intrufolarlo o presentarlo devitalizzato, finisce che sembra anche a noi una cosa evanescente. A furia di farlo
uscire travestito, finisce che ci resta travestito anche in casa, ed anche noi stessi finiamo per considerarlo
qualcosa d’altro.
Risultato: il valore diventa spesso inconscio.
Certe volte può anche accaderci che, cercando il perché di un nostro comportamento, escluse tutte le altre
spiegazioni possibili, ci fermiamo pensando: “E allora? Una ragione non la trovo?”. Quella motivazione di
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valore, per il tabù, è qualcosa che non si vede come esistente. Eppure, era semplice, l’avevamo fatto per
quello (motivazione di valore).
Il valore, noi lo viviamo ma non ci riflettiamo.
Lo sappiamo e non lo sappiamo. Lo sappiamo e non ci interessa saperlo. Se ce lo vengono a spiegare,
sembra che già lo sapevamo. Ne parliamo, ma spesso non ce ne chiediamo il perché. Sorvoliamo. Siamo
sonnambuli. Seguiamo motivazioni di valore e dopo non sappiamo bene tutto quello che c’è stato dentro la
nostra mente. In molti casi la spiegazione di valore si trova appena sotto un leggerissimo strato di cipria:
basta soffiarci sopra e si può vedere tutto. Ma non vi soffiamo.
Alcuni guerrieri del valore, all’aperto o solo nei nostri pensieri, escono a
combattere per conquistare altro bottino. Le sentinelle dell’accampamento, ventiquattro ore su ventiquattro,
senza mai riposare, vegliano alla difesa del valore. Migliaia e migliaia di piccoli operai lavorano giorno e
notte. I guerrieri combattono qualunque nemico, le sentinelle urlano al solo avvistamento di eventuali
assalitori, i piccoli operai lavorano assiduamente: e di tutta questa situazione, proprio noi, non ne siamo
pienamente consapevoli. Questa cosa incredibile diventa possibile perché il tabù del valore fa scendere la
nebbia su tutto lo scenario. Una delle tendenze più forti del nostro animo ci risulta un debole fantasma.
Per la prima volta, si scopre il tabù che grava sul valore. E’ stato il gioco delle motivazioni (non ancora
trattato) che, avendo visto tutto questo nostro imbarazzo e tutto questo nostro rifiuto, è andato a vedere.
Ma imbarazzo e rifiuto, di fronte a che?
Di fronte a qualcosa, il valore, che è nascosto e poco chiaro. Allora, per prima cosa, bisogna passare ad
intravederlo, un poco, il valore. Bisogna capire quante cose vanno tradotte in esso. Poi ancora, bisogna
incominciare a pensare che la cosa è così tanto importante, dai nostri pensieri, da riversarsi dai nostri
pensieri prepotentemente fuori, attraverso le manifestazioni esteriori. Ma come si fa a fare tre salti, così
difficili, uno dietro l’altro?
Ebbene, il gioco delle motivazioni (non ancora trattato) ci prenderà per mano, e ci farà fare tutti e tre
questi salti.
Noi avremo discorsi ed azioni da esaminare. Allora, fra le varie risposte, la risposta: “Valore” ricorrerà
spessissimo, minuto per minuto. Spessissimo? Nessuno ci crederebbe.
Sforzo di traduzioni, all’inizio, e poi vedremo che dovremo considerare, di valore, minuto per minuto,
tanta parte di quello che diciamo e facciamo.
A tradurre ci sentiremo spaesati, non l’abbiamo mai fatto, non ci siamo abituati, ma senza traduzioni tutto
resterebbe così come è.
Il gioco delle motivazioni (non ancora trattato) ci richiede traduzioni.
Il valore? Solo il gioco delle motivazioni può scoprirlo completamente. Solo il gioco delle motivazioni
può scoprire quanto continua sia la presenza del valore dentro di noi. Il valore balla continuamente nei nostri
pensieri e quindi si riversa nelle azioni e nelle parole.
C’è qui un interlocutore?
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INTERLOCUTORE – Ma dove sta questo valore ogni minuto, come dite voi? Io non lo vedo. Sì, ogni
tanto, certo, ma poi basta.
AUTORE – Lei lo troverebbe continuamente dentro di sé, se volesse usare il gioco delle motivazioni.
INTERLOCUTORE – Ci vorrebbe anche questo, adesso!
AUTORE – Allora è naturale che Lei non possa vederlo.
Quando, all’inizio, si incomincerà ad usare il gioco delle motivazioni, non capiremo subito la
collocazione, nel valore, di tantissime manifestazioni, anche di quelle più chiaramente di valore. Allora, uno
che sia già esperto nel gioco sicuramente se ne meraviglierebbe. Se potesse entrare nella mente di colui che
appena allora incominciasse ad usarlo, direbbe: “Ma tu, nemmeno questo, vedi che é, di valore? Nemmeno
la cosa più semplice?”. Inoltre, quell’esperto vedrebbe che il novizio capirebbe che le sue manifestazioni
sono, di valore, solo quando é valore che lo tocca fortemente, per le cose più importanti: non invece quando
si trattasse del valore nelle cose piccole, piccolissime, motivazioni di piccolissimi movimenti e piccolissime
frasi, nei momenti insignificanti, sciocchezzuole, bazzecole. E direbbe al novizio: “Devi rifletterci: anche
alcune, di quelle piccolissime cose, che tu fai o dici: non sono, niente; anch’esse, in quel momento,
difendono, proteggono o accrescono il tuo valore. Insomma, nella vicenda del valore, tutto conta e tutto
serve”.
E, se qualcuno ci volesse impegnare a vedere come una nostra piccola cosa sia stata causata dal bisogno
di valore, noi allora, irritati, risponderemmo: ”Il valore? In una cosa così piccola? Sono ben altre le cose…”.
Spreco di energie per mancate traduzioni.
Normalmente non si pensa che tante cose che facciamo abbiano la stessa motivazione, che confluiscano
nello stesso alveo, e siano, come dire?, la stessa cosa. Delineare le proprie sopracciglia con la pinzetta per
apparire meglio, e ristudiare la geografia solo per migliorarsi: sono la stessa cosa. Dire: “Siamo in pochi ad
aver capito questo” per fare notare la differenza, e picchiare spesso la moglie per avere la sensazione di
tenerla sotto: sono la stessa cosa. Dire: “Ho avuto ragione io” solo per ricordarlo agli altri, e mettersi, per
uscire, un vestito migliore di quello di casa: sono la stessa cosa. Dire: “Cinque o sei volte” invece che: “Una
o due” per fare migliore figura, e dire: “Io sono una persona leale” per far notare questa buona qualità: sono
la stessa cosa. Riprendere il discorso per precisare le proprie intenzioni affinché non si pensi che si sia
sciocchi, e impedirsi di fare una cosa, se passa qualcuno, per non fare brutta figura: sono la stessa cosa.
Ecc., ecc..
E normalmente tu non pensi che tante cose che senti nel tuo animo abbiano la stessa causa, che siano
reazioni alla stessa esigenza, e siano, come dire?, la stessa cosa. Sono la stessa cosa: se ti senti fiero della tua
macchina nuova, se non ti fa un buon effetto vedere un tuo coetaneo dimostrare meno anni di te, se critichi,
come avversario, l’altro Settore dell’Ufficio, se, dentro di te, non fai il tifo per tuo fratello durante la sua
gara perché non sta seguendo un tuo consiglio, se in un discorso ometti di dire una cosa solo per non fare
brutta figura, se pensi: “Ben gli sta” di un alpinista che è precipitato, se stai bene perché hai risolto un
cruciverba difficile, se pensi di sparare alla tua fidanzata che non ti ama più e ti vuole lasciare: “O mia, o di
nessuno!”, se ti soddisfa il fatto che ti stai distinguendo dagli altri, se non sei contento se ti dicono che non
hai saputo educare tuo figlio.
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Ecc., ecc..
E ci siamo messi su una cattiva strada: a nulla servirebbero anche diecimila pagine di esempi di tutto
quello che rientra nel valore. Diecimila pagine di esempi non servirebbero ad altro che a dare l’impressione
di aver circoscritto un terreno che invece è infinito.
Il valore va in giro portando con sé una valigia grandissima.
Innumerevoli nostri atteggiamenti, mille volte più di quelli che pensiamo, si trovano, tutti, in quella
valigia. Tantissime, non abbiamo mai pensato che si trovino in quella stessa valigia.
Dal bisogno di elevare e di non far scendere il livello di valore, vengono moltissimi tipi di
comportamenti, parole, sentimenti, reazioni, impulsi, ecc., ecc..
Il valore è in giro dovunque; permea la vita delle persone come la panna con il caffè, solo che, di esso, si
fanno tanti discorsi, ognuno diverso dall’altro.
Si danno tante spiegazioni diverse al posto di un’unica spiegazione.
Dei comportamenti di valore, si danno tante spiegazioni apparentemente diverse, che, tutte, rientrano
nell’unica spiegazione di valore: quella persona ha cercato un po’ di valorizzazione per sé, o, in altri casi,
sta cercando di evitarsi svalorizzazioni.
Si tratta di mattoni dello stesso edificio ed invece: si parla d’altro, di altro, e d’altro ancora.
Mille spiegazioni distinte, mille discorsi distinti: un enorme spreco di energie, per quello che è un
discorso unico. Discorsi e studi: quanto spreco di energie, quanto lavoro inutile, senza capire che, in molti di
quei casi, tutto è solo un effetto della stessa cosa.
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■ LE SCELTE ED IL VALORE
Ad ogni attimo noi facciamo delle scelte.
Tra le tante scelte possibili, noi facciamo una scelta precisa: quella.
Usiamo un certo tipo di spazzola. Dopo molti ripensamenti compriamo una certa casa. Preferiamo un
certo tipo di vino. Fra le tante cose a disposizione abbiamo scelto quella cosa.
Però le scelte che noi facciamo non sono soltanto le scelte che conducono ad una cosa materiale: la
spazzola, la casa, il vino; ma noi facciamo anche scelte che sono solo nella nostra mente. Usiamo un certo
tipo di comportamento. Dopo molti ripensamenti la pensiamo in un certo modo. Preferiamo in quei casi un
certo tipo di convinzione.
Insieme alla scelte di cose materiali, anche queste, sono, scelte. Infatti fra i tanti modi di pensare possibili
abbiamo scelto proprio quello, in particolare.
Non in altro modo: noi la pensiamo così.
Oggetto delle scelte: dalle cose importantissime, a quelle infime, ridicole.
Le scelte fanno parte della nostra personalità, le danno struttura e colori.
Stanno dentro di noi. Sono, noi. Ci caratterizzano quanto ci caratterizza il nostro viso.
Ora, le scelte sono, noi, perché queste propensioni mentali possono anche interessare il nostro valore.
Infatti alcune di esse, il valore, lo trasportano dietro le spalle: il valore sta nascosto, fino a quando sente di
dover venir fuori al fianco della sua scelta.
Ma attenzione a non generalizzare: in numero maggiore, sono le scelte leggere, le scelte che non portano
dietro le spalle alcun valore. Le scelte leggere sono quelle che non ci caratterizzano in alcun modo. Non
RAPPORTI
COMPLICATI
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abbiamo pensato con attenzione ad esse. Potremmo anche cambiarle con altre. Sempre, scelte, sono, ma non
sono, noi. Di esse non ce ne importa.
Invece per le scelte che portano dietro di sé il valore, può sempre capitare che in un determinato momento
possiamo sentircene coinvolti: e questo può sempre capitare, sia con le scelte che trasportano molto valore e
sia con quelle che ne trasportano poco: alcune ne portano dieci chili, altre cinque, altre pochi grammi, altre
un solo grammo. Noi non ne sappiamo niente di niente, ma ciò accade nei nostri animi. Se capita
l’occasione, con motivazione di valore, diciamo agli altri queste cose che pensiamo: noi la pensiamo così.
Inconsciamente, siamo affezionati a queste nostre scelte. Con motivazione di valore, le esprimiamo agli
altri: spesso contrastiamo le critiche che sono rivolte loro; a volte le diciamo come aspetti qualificanti della
nostra personalità; semmai solo in momenti particolari, con certe persone, sì; con altre, no. C’è momento e
momento.
Quando il valore, che è dietro le spalle di una scelta, è pesante, spesso deve
mettere i piedi a terra e noi diciamo come la pensiamo. Quando è poco pesante, spesso può rimanere dietro
le spalle della sua scelta e noi non lo diciamo mai.
■ IL GRANDE ATTRITO FRA LE SCELTE
I modi di pensare, che si mostrano divergenti tra di loro, non provocano alcun attrito, se le due persone
che si stanno guardando, o che si stanno parlando, hanno, in quegli oggetti, una scelta leggera. Non succede
niente. Che importanza potrebbe avere questa diversità di preferenze? Anche se la diversità viene notata: è
una pistola scarica.
Invece basta che uno solo dei due vi abbia una scelta trasportante valore, che subito si crea attrito fra le
scelte. Se noi abbiamo in quell’oggetto una nostra scelta pesante di valore e l’altra persona no, quell’altra
persona non sempre arriverà ad intuire che nel nostro animo è avvenuta subito l’automatica verifica di
comparazione fra la scelta da noi espressa e la sua.
Le scintille causate da questi attriti non mancheranno mai, cadendo sul
rapporto che abbiamo con l’altra persona: almeno per un attimo, sulla trama delicatissima del rapporto,
subito appare un piccolo segno di abrasione. Ciò porta, non c’è niente da fare, una risonanza non buona nel
nostro animo, una piccolissima contrarietà.
Ciò per il fatto che quando incontriamo scelte che sono completamente
opposte a nostre scelte che portano valore, allora le altre persone portatrici di queste loro scelte: è come se
contraddicessero il nostro valore, è come se lo deridessero. E questo anche quando in quel momento nessuno
voglia farsi valere attraverso le proprie scelte: solo a sentire, o a guardare. Ora, siccome fra le persone gli
attriti di questo genere sono frequenti, andando in giro si vedono sollevarsi scintille continuamente da ogni
parte.
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Se poi, con le scelte divergenti, quell’oggetto rappresenta una scelta pesante di valore per ambedue: ne
scaturisce un forte attrito.
Qualcuno potrebbe dire: “Ma che c’è di male a pensarla diversamente? Che fa?”. Ed infatti non ci sarebbe
niente di male, se dietro le spalle di alcune scelte non ci fosse il valore.
Freddo e distanza
In un rapporto, quando i modi di pensare sono troppo spesso divergenti, la conseguenza di questi continui
attriti sarà: freddo e distanza.
Quindi, due persone che la pensano diversamente su troppe cose importanti: non potranno mai stare
completamente bene insieme.
Le distanze psicologiche si allargano a poco a poco, e con le distanze più larghe il raffreddamento del
rapporto arriva prima. Ci sono, certo, altri fattori di unione, ma questo fattore resta della massima
importanza e non va mai sottovalutato.
Calore ed avvicinamento
Se c’è una persona che espone spesso i nostri stessi modi di vedere la conseguenza sarà: calore ed
avvicinamento.
Scoprire che le scelte di un’altra persona sono spesso uguali alle nostre: ci farà sentire simpatica questa
persona, perché confermativa del nostro valore.
Se poi una scelta, che ci sta molto a cuore, per qualche ragione non è condivisa da nessuno, ebbene, allora
incontrare un piccolo omino che la pensi come noi: ce lo farà sentire come un fratello, un fratello
temporaneo.
■ ALCUNE SIMPATIE ED ANTIPATIE
Simpatie ed antipatie: non hanno poca importanza. Sappiamo bene come le simpatie e le antipatie,
sovrastando irresistibilmente la razionalità, possano, da sole, orientare in bene, o in male, alcuni casi della
vita delle persone, e perfino dei popoli. Chi scegli, tu, fra una persona saggia ed onesta che ti é antipatica, ed
una persona di poche qualità che ti é simpatica?
Di molte di esse, simpatie ed antipatie, noi sappiamo benissimo quali sono le cause. “E’ stata onesta. Non
è cosa di tutti i giorni. Mi è simpatica”. “ E’ stato l’unico che abbia capito di che cosa io avessi bisogno. Mi
è simpatico”. “Non vuole in alcun modo farmi passare. Mi è antipatico”. “Mi ha sbagliato la camicia e vuole
farsela pagare. Mi è antipatica”.
E’ semplice: può nascere simpatia per chi, in qualche modo, è stato a nostro favore e, viceversa, antipatia
per chi, in qualche modo, ci è stato contro.
Anche delle simpatie e delle antipatie, quelle causate dal valore, noi ne sappiamo bene le cause. “Proprio
in questo vuole per forza apparire migliore di me. Mi è antipatico”. “Vorrebbe sempre che facessi tutto
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quello che vuole lei. Mi è antipatica”. “Mi ha detto che sono molto generoso. Mi è simpatica”. “Lo tratto
alla pari. Gli sono diventato simpatico”. “Non mi piaceva il posto dove lei stava. Le sono diventato
antipatico”.
Ma alcune altre, delle simpatie ed antipatie, invece, certe volte non ce le spieghiamo. “Perché ti è
antipatico quello?”, rispondiamo: “Boh, non lo so, eppure non mi ha fatto niente”. “Perché ti è simpatica
quella?”, “E chi lo sa? Non la conosco nemmeno”.
Ora, per le simpatie e le antipatie che non ci spieghiamo, possiamo star sicuri, ancor prima di cercare, che
queste, tutte, vengono dal valore. Infatti, se non venissero di là, perché non dovremmo capirne le ragioni?
Così, finalmente, potremo far luce anche su questi sentimenti.
Le simpatie che certe volte non ci spieghiamo (valore) derivano da:
1) Concordanza di scelte trasportanti valore (già trattata)
Ci viene la simpatia verso la persona con cui spesso la pensiamo allo stesso modo.
2) Atmosfera di valorizzazione
Sentiamo di star bene con quella persona. Ci sentiamo a nostro agio con lei. Non calpesta mai la
nostra sensibilità. Ci ascolta mentre parliamo. Non ha fretta con noi. Si mostra con noi, quale è.
Sente il nostro parere. Ha il viso attento ed interessato. E questi modi usati verso di noi sono proprio
quelli che noi gradiamo.
Ci sentiamo bene con quella persona, rilassati e sciolti, e diamo tutto il meglio di noi stessi.
Non ci critica, se non per motivazioni altruistiche.
Se tutti avessero sempre avvilito il nostro valore, con quella persona il nostro valore sentiamo che si
riposa e si ritempra. Infatti in compagnia di quella persona ci troviamo in un’atmosfera di
valorizzazione. E così ci viene la simpatia verso quella persona. Senza conoscerne le ragioni.
Così, nei rapporti continuativi. Ma atmosfera di valorizzazione si può avere anche in rapporti solo
temporanei: quando potevano anche non rispettarci; quando inaspettatamente ci hanno trattato bene.
Le antipatie che certe volte non ci spieghiamo (valore) derivano da:
1) Diversità di scelte trasportanti valore (già trattata)
Moltissime volte sentiamo antipatia verso la persona con cui spesso non pensiamo, non ci
comportiamo, allo stesso modo. E si può arrivare anche al caso estremo in cui noi vediamo per la
prima volta una persona, ed essa subito ci ispira antipatia. “Perché mi deve essere antipatica?”, ci
chiediamo dentro di noi: e, addirittura, semmai, solamente dal viso di quella persona ci viene
suggerita l’inconscia intuizione di qualche modo di essere opposto a qualcuno dei nostri.
2) Reazione di abbassamento (già trattata)
Ci viene l’antipatia verso la persona che ci ha generato una reazione di abbassamento.
3) Non stanno al loro posto
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Ci viene l’antipatia verso quelle persone che, come dire?, non stanno al loro posto. Non stanno al
loro posto: riguardo ad una posizione, ad un ruolo, ad una fiducia, ad un’attività, ad una situazione,
o semplicemente riguardo a qualcosa che casualmente capiti loro. Questo però: solo quando,
contemporaneamente, dalla estimazione di alcuni, queste situazioni vengano giustificate e
considerate consone a quelle persone.
Per noi quella persona sicuramente non vale la situazione in cui è. Eppure alcuni la pensano
diversamente.
Non stanno al loro posto: è una causa di antipatia così forte, da meritare un discorso a parte, anche
se un discorso a parte non dovrebbe averlo: infatti questa causa di antipatia non ha alcuna sostanza
propria. Non è altro che un amalgama fra la diversità di scelte: “Alcuni evidentemente la pensano
diversamente da me” e la reazione di abbassamento: “Dovrebbe stare più giù, al suo livello”. E sono
cose che si saldano fortemente, finendo per appuntarsi, tutti e due, su quella persona. Qua succedono
procedimenti mentali, tutti sballati. Infatti, invece di diventarci antipatiche quelle persone che
apprezzano quell’uomo (discordanza di scelte), a noi, con trasposizione ancora inconscia, succede
che ci diventa antipatico direttamente quell’uomo. E non basta: quell’uomo, stando, come dire?, in
quel posto, per noi ancora inconsciamente, è come se lui stesso se lo giustificasse, causando in noi la
reazione di abbassamento. Così, attraverso questi procedimenti si saldano discordanza di scelte e
reazione di abbassamento. Ci diventa antipatica quella persona. Senza conoscerne le ragioni. Per noi
è poca cosa, mentre per altri non è così. Le danno considerazione. Oppure, proprio loro, l’hanno
messa in quella posizione. Oppure non notano la sua inadeguatezza. Oppure le stanno intorno, la
cercano e la blandiscono. E poi anche lei, quella persona, sicuramente ritiene di essere adatta,
all’altezza, e meritevole.
Noi pensiamo: “E’ troppo insignificante per …”. Oppure: “E’ troppo ignorante per …”. “E’ troppo
cretino per …”. “E’ troppo brutta per …”. “E’ troppo vecchio per …”. “E’ troppo comune per …”.
Ecc., ecc..
4) Atmosfera di svalorizzazione
Accade tutto il contrario che nell’atmosfera di valorizzazione.
Comportamenti, opposti a quelli, creano nel nostro animo sentimenti, del pari opposti. Ci viene
l’antipatia verso quella persona.
Forse c’è una simpatia in noi, o una antipatia, che in nessun modo riusciamo a spiegarci?
Ebbene, la risposta non potrà che essere in una di queste cause numerate.
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■ SGOMBRARE IL CAMPO
Il criticare gli altri, il disapprovarli, il trovare in loro cose non buone, l’avere qualcosa da ridire su
qualcosa che non va, il vedere in loro qualcosa che non ci piace: sono cose molto presenti in noi. Nel
nostro parlare, o nei nostri pensieri, la frequenza è notevole.
Ma, per prima cosa, dobbiamo sgombrare il campo da quelle critiche che non hanno motivazione di
valore. Qui si parla di valore ed allora dobbiamo sgombrare il campo da quelle critiche che hanno altre
motivazioni. Una critica rivolta agli altri può avere qualunque tipo di motivazione.
Ci vengono subito in mente le critiche e le disapprovazioni aventi motivazioni altruistiche: certe volte è
necessario disapprovare gli altri per far loro del bene. Ma ci sono anche le critiche che possono derivare da
un nostro dovere di onestà o di giustizia. E poi ci sono tutte le critiche derivanti dalle motivazioni
egoistiche: le critiche derivanti da motivazioni di benessere fisico, o di piacere, o di fastidio, o derivanti da
un intreccio indistinto di motivazioni.
■ LE CRITICHE DI VALORE
Ora, sgombrato il campo dagli altri casi provenienti da motivazioni di altre categorie, ecco restata la
maggior parte delle critiche, quelle che hanno motivazione di valore.
INTERLOCUTORE – State parlando delle critiche delle persone maligne che dicono delle cose inventate
per fare del male alla gente?
AUTORE – Sì, certo, c’è anche questo. Ma il trovare qualche cosa che non ci piace negli altri non è solo
delle persone maligne.
Le critiche sono, in maggior numero, quelle su cose poco importanti di tutti i giorni, sciocchine,
soggettive, di nessun peso, là per là. Molte sono solo nei nostri pensieri.
Poi, tra le critiche che vengono espresse, possono essere critiche anche le ironie, le allusioni, i commenti,
le semplici considerazioni, un alzare le sopracciglia, un piccolo movimento della bocca, ecc., ecc..
Che si insulti o si parli piano è lo stesso. Sono allo stesso modo, critiche, una furiosa invettiva, come una
distaccata constatazione. Parlando di futili argomenti; chiacchierando tranquilli; facendo qualche
pettegolezzo. Poi, semmai, certe volte usiamo la critica sintetica di una sola parola volgare per definire
negativamente un’altra persona. Molte volte, le critiche, sono dentro i nostri pensieri.
Ecco perché non è che non ci siano i casi colpevoli esposti dal nostro interlocutore, ma nella critica vanno
soprattutto compresi i casi, come dire?, quotidiani.
INTERLOCUTORE – Come quando uno dice le cose sui vicini di casa?
Ma allora si parla insomma di quando uno fa la critica, solo per criticare?
AUTORE – Dovremmo fare qualche esempio.
INTERLOCUTORE – Qualche esempio? Ci penso io. Vediamo. Cerco di ricordarmi di qualcosa, di più
quotidiano, come dite voi. Vediamo, vediamo; ecco: stamattina, ad un certo punto, ho pensato che mio
fratello è troppo igienista, al punto di dare sempre fastidio agli altri.
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Poi, vediamo, un altro esempio: appunto, giorni fa, ho detto ad una persona che conosco: “Non sembra
mai che hai fatto certi studi: leggi sempre giornaletti da niente”.
AUTORE – Ci interessa conoscerne le motivazioni.
INTERLOCUTORE – Ehi, un momento: sugli esempi che ho fatto prima, adesso io vi dico subito perché.
Quando ho pensato all’igienismo di mio fratello, l’ho pensato perché è vero, e lo sanno tutti.
E quando ho criticato le letture di quell’altro gliel’ho detto per lui, per il suo bene; così vede di leggere
qualcosa di meglio: ecco perché l’ho detto.
AUTORE – Se cerchiamo le vere motivazioni, solo “L’ho detto per lui” potrebbe essere una risposta
valida: motivazione di altruismo.
Invece: “L’ho pensato perché è vero” è una risposta che non serve. Ed è il tipo di risposta che danno tutti,
se interrogati, perché non sanno che è una risposta che non riesce ad indicare una motivazione. Lei ha
criticato suo fratello, e, sì, quella cosa era anche vera, ma ciò è solo una caratteristica interna di quello che
Lei ha pensato: non è, e non può essere, la spinta motivazionale. Se ci domandiamo: “Perché ho fatto
questo?” subito siamo abituati a risponderci non con il perché c’è venuto di farlo, ma con le più varie
valutazioni su quello che abbiamo fatto. Ma tutti questi sono solo i commenti del dopo, mentre qui interessa:
il prima. Non è la verità che spinge a criticare. Come facciamo a saperlo? Basta che Lei guardi dentro di sé.
INTERLOCUTORE – Ho capito: se non lo mettiamo in una vostra categoria, allora non si va avanti. Ma
chi l’ha detto questo?
AUTORE – Tutti noi spesso diamo risposte di quel genere: risposte che non rispondono. Non siamo
abituati ad andare a cercare veramente quale sia stata la spinta interiore. Siamo invece subito attratti
dall’aggancio di valore che si presenta a portata di mano per affermarci (valore), o per giustificarci (valore),
o per spiegare le nostre ragioni (valore). Siamo bravi, siamo intelligenti sia pure, ma che c’entra questo con
la motivazione? Che c’entra la motivazione con questi apprezzamenti del dopo? La motivazione è tutt’altro.
La motivazione è la spinta interiore che ci ha fatto fare, o dire, quella certa cosa; ed anche questo ci è stato
sempre ignoto.
Per conoscere quella spinta bisogna ritornare nel nostro animo di prima, e non rovistare per terra in mezzo
ai contenuti manifestati.
INTERLOCUTORE – Io non rovisto.
AUTORE – Per quanto riguarda l’esempio della lettura Lei ha detto: “Per lui”: altruismo. Ma ne è
sicuro?
INTERLOCUTORE – Beh, in fondo, se ci penso bene, non l’ho detta, quella cosa, per altruismo. In
fondo, ero arrabbiato, l’ho visto leggere quella roba, e gliel’ho detto. Allora perché glielo avrei detto?
AUTORE – Per una motivazione di valore forse?
INTERLOCUTORE – Ma che c’entra il valore? Comunque in che consiste insomma questa motivazione
di valore?
AUTORE – Trovare negli altri qualcosa che non va, non ci costa nulla. Critichiamo a ragione?
Critichiamo a torto? E’ una strada comoda per valorizzare noi stessi.
INTERLOCUTORE – Ma è proprio questo che è assurdo: io critico una persona, e va bene, lo capisco
che nella mia mente quella persona viene abbassata, va bene; ma quello che non posso capire è: io abbasso
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gli altri, ma io poi che c’entro? Abbasso pure il valore degli altri, sì, però il mio valore non si alza. C’è una
contraddizione. Vi siete confusi. Non fa niente. E’ il valore degli altri che scende: non il nostro che sale.
Che c’entra il, nostro, valore con l’abbassamento degli altri?
AUTORE – Invece è proprio così: anche il nostro valore sale con la sua visione panoramica (non ancora
trattata).
Le critiche con motivazione di valore sono di due tipi: le critiche
personalizzate e le critiche a pioggia.
Il primo tipo di critica con motivazione di valore sono le critiche personalizzate con le quali
disapproviamo in modo specificamente mirato una determinata persona: quella, e non altri.
La svalutazione di quella persona è la motivazione assoluta.
Per esempio, ci può essere stata una persona, in qualche modo per noi importante, che ieri ci ha fatto fare
una brutta figura. Ci ha fatto sentire molto giù. Semmai incominciamo a criticarla su quello, e su altro.
Per esempio, usciti dall’infanzia, attraverso le nostre soggettive impressioni, ci può essere una persona
che sentiamo, come una persona che ha, fin da lontani tempi, contribuito a sotterrare il nostro valore. Ed
allora continueremo a disapprovare questa persona, anche per lunghi periodi della nostra vita. Questa
persona ha in qualche modo compresso il nostro valore; ci ha messo il piede sopra. Noi dobbiamo
assolutamente togliere quel piede di là, e solo così una parte del nostro valore potrà regolarmente respirare.
Allora in questi casi tiriamo giù proprio quelle persone, quella di ieri o quella dell’infanzia: criticandole
su qualunque cosa. E questa operazione inconscia mira a convincere il nostro valore di questo: quelle
persone non sono, poi, così tanto autorevoli. Se perderanno ai nostri occhi la loro autorevolezza, le loro
nefaste influenze svaniranno nel nulla. Che c’entra il, nostro, valore? E’ evidente che c’entra.
E, poi, a qualcuno sarà pur capitato di essere sempre criticato, una volta sì una volta no, da sua sorella o
dal suo amico. Senza ragioni apparenti, questo accade, e raffredda il rapporto con quelle persone; senza
ragioni apparenti, anche se la ragione c’è ed è la visone panoramica (non ancora trattata) di quelle persone.
Le critiche per piccole vendette?
Ebbene, mentre le cose che diciamo o facciamo, anche se sembrino avere motivazioni di valore possono
avere altra motivazione, invece, in questo caso qui, non te lo chiedere, perché la cosa è uguale per tutti:
motivazione di valore.
Tutte le vendette hanno, senza alcuna eccezione, motivazione di valore.
Di qualunque tipo e qualità esse siano, anche le piccolissime.
Quando una certa persona ci ha fatto qualcosa che non ci doveva fare, quando non ci ha considerato come
doveva, noi sentiamo che siamo rimasti svalutati nei suoi confronti. Inconsciamente, per una motivazione di
valore, vogliamo allora procurare un qualche risarcimento al nostro valore, in modo da riportarci alla pari.
Non é vero forse che noi poi, spesso, diciamo loro cose con l’intento in qualche modo di abbassarli a loro
volta?
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Le nostre parole vengono fuori e sono una piccola vendetta. Ecco: un attimo fa; ma lo negheremmo
rabbiosamente. A sentirne parlare in generale, già scuotevamo la testa, ma se poi sul momento venissero a
noi, allora diventeremmo furiosi.
Oppure, ancora di più, lo raccontiamo; eh, sì, ci vendichiamo parlando agli altri di loro, ecco fatto, ci
vuole. Va fatto vedere agli altri com’è quello là. Lo raccontiamo qua e là e, se qualcuno già ne parla male,
noi subito rincariamo la dose.
Nella nostra giornata c’è chi ci causa incomodo. C’è chi ostacola. Chi in un qualunque modo ci causa
danno. Chi non ha troppi riguardi per noi. Ecc., ecc.. Ebbene, spesso usiamo, come vendetta: disapprovarli.
Certo, è vero, vendetta: quando comunemente si pensa alle vendette si pensa immediatamente a ben altro, a
qualcosa di grosso; ma, al di fuori di cronaca nera e film, noi non ci rendiamo conto che, in realtà, la
maggior parte delle vendette sono eseguite col criticare gli altri, dire una piccola cosa che non va o, semmai,
col definirli con una parola volgare.
Ma non sono, vendette, anche queste?
Non hanno forse le stesse esigenze e le stesse dinamiche di quelle a cui siamo abituati a pensare?
L’altra persona ci ha fatto scocciare un po’, ha detto questo, ha detto quello, ha detto quell’altro, non ha
pensato a chiudere il balcone, ci ha voluto dare troppe spiegazioni, non ci ha restituito una piccola moneta,
ha detto una parolina che forse non doveva dire, ha protestato senza ragione col clacson della sua auto dietro
di noi, ecc., ecc.: con una certa frase, rimettiamo subito le cose in pari.
Le altre vendette?
Chi le conosce?
Non ci interessa, le lasciamo agli altri. Noi le otteniamo, subito subito, con le critiche. Non ci serve altro.
Allora, anche una vendetta con una piccola critica inconsciamente ci dà un risarcimento di valore. Che
c’entra il, nostro, valore? È evidente che c’entra.
E le persone antipatiche?
In presenza di una forte antipatia, solo guardando quella persona, subito le troviamo delle cose che non
vanno: arrivano diffuse critiche mentali. Critiche contro queste persone: perché il nostro valore le sente,
giustamente, dal suo punto di vista, in un modo o nell’altro, contrarie a lui (già trattato).
Le critichiamo continuamente per ottenere di abbassare, dentro di noi, tutta la loro persona. Che c’entra il,
nostro, valore? E’ evidente che c’entra.
Nel secondo tipo di critica di valore, quelle a pioggia, non ce l’abbiamo con una certa persona, come nel
primo tipo di critica. In questo secondo tipo, disapproviamo: chi capita. Ora qua, ora là, toccata e fuga,
gocce di pioggia.
A casa muoviamo una critica a qualcuno e subito pensiamo ad altro. Oppure all’angolo di una strada
notiamo in qualcuno qualcosa che forse non ci piace e subito pensiamo ad altro. Per le più varie ragioni,
disapproviamo; tante cose negli altri non sono come dovrebbero. Facciamo del sarcasmo o tranquillamente
notiamo delle cose negative. Così, nel breve tratto che facciamo in Metropolitana, mentalmente, nei
confronti di qualche altro passeggero. Per strada, a casa davanti al televisore, al Bar, con i familiari, con gli
amici, dappertutto, continuamente. Le critiche così fanno parte della vita.
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Critichiamo quando stiamo bene e siamo sereni. Ancor più quando siamo irritati o in tensione; allora
sembra che ci sia bisogno di uno sfogo: ed, infatti, dopo di esso ci sentiamo meglio. Raramente urliamo al
vento, rompiamo le tazze o ci rotoliamo per terra, invece molto più spesso ce la prendiamo con gli altri,
come dire?, col primo che capita; e prendersela con gli altri consiste nel criticarli per una qualsiasi cosa
negativa: ci calmiamo un po’ con una caramella di valore in bocca.
Critichiamo mentre stiamo con molti altri o con una persona sola. In modo eclatante o sommesso. Perché
semmai lo fanno tutti verso una persona e non vogliamo restare indietro, o perché semmai nessuno lo fa.
Con la persona criticata che sia assente o presente. Di giorno o di notte. Semmai anche senza parole,
muovendo un braccio, con un movimento del capo, mimando movimenti, ecc., ecc..
Già solo nei nostri pensieri: tutti i giorni, spessissimo, che ne parliamo a fare?
Delle cento critiche agli altri che ci vengono in mente, solo una o due poi si esternano. Le altre restano
dentro i nostri pensieri.
Le critiche con motivazione di valore sono in tutti. Ma, se sentiamo qualcuno che dice: “Io non critico
mai nessuno” e vogliamo poi anche credergli, ebbene, le cose, comunque, non cambiano, perché quella
persona lo fa nei suoi pensieri. Quindi, non ci sono eccezioni per alcuno. Nei nostri pensieri: dire cinque
volte in una giornata, può anche non essere molto. Contro singole persone, contro certa gente, contro
l’Umanità intera per come è fatta.
INTERLOCUTORE – Tutto quello che avete detto fino ad ora non mi riguarda proprio. Io non critico
nessuno. Al massimo, prendo in giro qualcuno per ridere.
AUTORE – Anche certe prese in giro fatte col tono di chi vuole solo scherzare, con le lievi punture che
portano, spesso hanno la stessa motivazione. Ma attenzione: alcune prese in giro: solo alcune.
INTERLOCUTORE – Allora non si può nemmeno scherzare più? Allora tappiamoci la bocca e non se ne
parla più. Ma comunque io non faccio queste critiche alle persone care. Su questo non ci sono dubbi. Se dico
certe cose è certo per il loro bene.
AUTORE – Certo, più difficilmente verso le persone a noi care: ma pure ci sono anche nei confronti di
queste persone i casi di critica con motivazione di valore.
Va considerato che qualunque rapporto, anche il migliore della nostra vita, è pur sempre un grande fiume,
dentro cui scorre e galleggia di tutto: altruismo ed egoismo, collaborazione ed aggressività.
INTERLOCUTORE – Ma non è così per me.
■ COME UNA VISIONE PANORAMICA
Ma da dove nasce la necessità di tutte queste critiche con motivazione di valore?
Ora, il valore usa infiniti modi per rinforzarsi. E usa tante, diverse, come dire?, piccole strategie per
vivere bene: diverse tra persona e persona. Ma qui, invece, questo modo di valore è assolutamente in tutti,
senza eccezione: cercare di procurarsi anche la buona sensazione di sentirsi più in alto.
Più in alto, come?
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Più in alto di quante più persone è possibile.
Una buona visione panoramica intorno a sé.
E’ una cosa che ci dipinge in modo ridicolo ed assurdo?
Volete pensare così?
Invece il nostro valore: è come se volesse avere sempre, come dire?, una visione panoramica con noi
stessi più in alto di altri; o di molti altri; o di tutti gli altri. E’ come se nessuno volesse avere una visione
panoramica in cui si veda in una posizione di valore, alla pari con tutti gli altri. E’ come se ognuno volesse
avere una visione panoramica in cui si veda, in posizione di valore più elevata di molti altri.
La cosa va così: il nostro valore resta dov’è: ma, se abbassiamo il valore degli altri, il nostro valore ci
sembrerà subito, più alto.
Proviamo a vedere un panorama a perdita d’occhio, su cui ci siano, assieme al nostro, migliaia di altri
valori di altre persone e, oltre la vista, altri innumerevoli; ebbene, su questo estesissimo territorio il nostro
valore cerca di vedersi in posizione elevata.
Ignoto l’enorme numero di critiche che rivolgiamo agli altri, ignota la necessità di tutti di avere una buona
visione panoramica, noi diremmo: “Io ho criticato il portiere? Ho criticato quell’amica di mia madre? Ma
che me ne importava del portiere o dell’amica?”.
Si capisce bene che ci sarà una spinta molto maggiore all’abbassamento di quelle persone che vivono
intorno a noi, nella famiglia, nella vita sociale, a fianco a noi. Vorremmo vedere in questa visione gli altri
che sono vicino a noi, un po’ più giù. Semmai, più in alto, gli altri lontani da noi. Ma questo non vuol dire
che siano pochi i ridimensionamenti che rivolgiamo anche alle persone che conosciamo poco, o che
vediamo solo per la prima volta, o che sono di un’altra parte del mondo.
Ed ecco, quindi, a che serve il secondo tipo di critica con motivazione di valore: ad ottenere, abbassando
gli altri, una visione panoramica, la migliore che sia possibile. Che c’entra il, nostro, valore? E’ evidente
che c’entra.
Per una buona visione panoramica, ognuno di noi, senza saperlo, ha già, in
verità, un prezioso patrimonio di altre persone, delle quali, se dovesse pensarci, penserebbe che in qualche
modo non sono alla sua altezza. E che noi abbiamo questo patrimonio, ce ne possiamo accorgere quando ci
può capitare di sentire dentro di noi, laggiù in fondo, che ci dispiace un po’ se, qualche volta, qualcuna di
quelle persone che compongono quel patrimonio incominci improvvisamente ad avere nuovi meriti o virtù.
Questo patrimonio è importantissimo ma dobbiamo anche cercare di incrementarlo ulteriormente. Allora
non ci sfuggono facilmente, quelle che, per noi, sono, svalorizzazioni degli altri: difetti di personalità, difetti
fisici, modi di pensare, modi di agire, parole, discorsi, abitudini, comportamenti, atteggiamenti, opere,
risultati, ecc., ecc.: tutte queste cose non vanno bene e da noi vengono placidamente registrate come
abbassamenti degli altri.
Da tantissime cose, un aiuto continuo alla visione panoramica.
Ascoltiamo cose che per noi sono svalorizzanti per gli altri. Vediamo cose che per noi sono svalorizzanti
per gli altri. Leggiamo cose che per noi sono svalorizzanti per gli altri. In persone che stimiamo vediamo
qualcosa che non va. In persone che non stimiamo, altre cose. Nella vita che abbiamo davanti, o in quella
che si mostra qua e là, andiamo a vedere, quando, come dire?, un pochino, fiutiamo nell’aria odore di
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sangue di valore di qualche persona; anche su piccole cose. E infatti riscuotono molto successo quegli
spettacoli, quelle narrazioni, quei resoconti in cui si preveda che in qualche modo ci sarà qualcuno che ci
vinca e qualcuno che ci perda, e dove noi faremo considerazioni e commenti critici sulle persone; anche se
queste motivazioni di valore non sono da sole, perché si uniscono a quella motivazione di piacere che gode a
seguire lo svolgersi di vicende reali o rappresentate: “Com’è il fatto?”, “Cosa succede dopo?”, “Come va a
finire?”. Per queste due motivazioni (piacere e valore), spesso questi spettacoli, anche se sono deteriori,
possono attirare irresistibilmente molte persone.
E quando, per tutte queste cose, qualcuno in buona fede dice al valore: “Tu
sei morboso!”, il valore gli risponde: ”Tutto questo è in tutti, e quindi anche in te. Lo sai quale è la posta in
palio?”.
E’ chiaro che il valore può compiacersi a vedere certe cose; ma, attenzione a
non generalizzare: alcune, solo alcune, svalorizzazioni degli altri vengono accolte; tantissime, non le guarda
nemmeno. Il valore non sta sempre là a guardare. Specialmente quando altri sentimenti se ne
dispiacerebbero.
A questo punto qualcuno potrebbe dire: “Assolutamente non si spiega come noi lavoreremmo tanto per
ottenere risultati così minimi. Sì, critichiamo, critichiamo, ma, con questo, la visione panoramica non può
cambiare di molto. Non si spiega questo accanimento se poi i risultati saranno tanto miseri da non valerne
assolutamente la pena. Infatti non si spiega, riguardo alla persona criticata, come mai ciò potrebbe
soddisfarci: con una nostra critica, noi abbiamo abbassato, solo, una cosa, ma, di cose, quella persona ne
possiede altre migliaia che noi avremo lasciate integre, e, semmai, più in alto delle nostre. Che ci
importerebbe allora di un risultato così parziale? A che serve? Ed in secondo luogo, se noi per avere una
buona visione panoramica dobbiamo abbassare nella nostra mente moltissime persone, allora cosa volete
che possa contare l’abbassamento solo di alcune di queste persone? Come potremo mai vederci più in alto,
se avremo abbassato solo alcune poche persone? Sarebbe come essere soddisfatti di aver strappato trenta
fogli da un grande vocabolario, noi che avremmo dovuto strapparne una migliaia”.
Ma a queste obiezioni si può rispondere.
Infatti, riguardo alla persona criticata, quando bocciamo qualche cosa che la riguarda, in quel momento,
in molti casi noi non sentiamo di aver abbassato solo una cosa come dovrebbe essere, ma sentiamo
decisamente di aver abbassato quella persona, tutta intera. Con una efficacissima inconscia errata
trasposizione mentale, il risultato raggiunto è un risultato, in molti casi totale: un’intera persona abbassata;
forse definitivamente: non è poco.
In secondo luogo, quando disapproviamo una persona, ebbene, in molti casi noi sentiamo decisamente di
aver abbassato, sì, quella persona, ma sentiamo anche contemporaneamente di aver abbassato tutte le altre
persone che si comportano come lei: dietro a quella, sullo sfondo, tutte quelle che sono come lei. Altra
inconscia trasposizione mentale, ed il risultato raggiunto nella nostra mente è un risultato grandioso:
migliaia e migliaia di persone abbassate in un sol colpo e basta: non è poco.
Abbassate quindi alcune persone che vivono più vicino a noi e abbassate
grandi fette di popolazione, il valore può anche avere la sensazione di stare in posizione più elevata.
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Ora, la reazione di abbassamento (trattata prima) viene fuori, anch’essa, a causa dello stesso progetto del
valore: una buona visione panoramica.
Quando sentiamo in quel momento un dispiacere per qualcosa del valore di un altro che si sta sollevando
davanti ai nostri occhi mentali, reagiamo quasi sempre con una critica, intima o espressa, che deve tirare giù
ciò che si stava sollevando. La verità è che stiamo cercando di curare, anche così, la nostra visione
panoramica.
La reazione di abbassamento è stata utilizzata, da sola, più sopra, per chiarire perché nasca il tabù del
valore; ma, aldilà di questa utilizzazione iniziale, rientra, in tutto e per tutto, nel discorso della visione
panoramica sfociando anch’essa nelle critiche che devono abbassare. Quindi, il secondo tipo di critiche, e le
critiche che vengono dalle reazioni di abbassamento, tutte, servono specificatamente proprio per una nostra
migliore visione panoramica. La reazione di abbassamento, prima solo guardata in azione con le sue
dinamiche per spiegarci il tabù del valore, ora, invece trova anch’essa la sua spiegazione nel quadro della
visione panoramica.
Insomma, per una buona visione panoramica ci vogliono soprattutto, mentali o espresse, le critiche.
Come le api si posano sui fiori per succhiarne il nettare, così noi ci posiamo sulle altre persone con le
nostre critiche per succhiarne il valore.
Tra persona e persona, ci sono moltissimi voli. E’ un continuo svolazzare da un fiore ad un altro.
A volte si è ape; a volte si è fiore.
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■ CON QUALUNQUE COSA
INTERLOCUTORE – Che significa, da strade opposte?
AUTORE – Significa che due persone, con comportamenti opposti, tutti e due possono acquisire
materiale buono per il proprio valore.
INTERLOCUTORE – Ma quando mai? Le vere soddisfazioni sono quando uno comanda.
AUTORE – Ed invece anche dal contrario possiamo ricavare delle soddisfazioni: essere dominati, essere
percossi, essere vittime, anche queste cose, a volte, possono essere sentite come valorizzanti.
INTERLOCUTORE – E che razza di soddisfazioni sono?
AUTORE – C’è chi si sente valorizzato dalla violenza e chi dai fiori.
Qualsiasi comportamento può essere sentito come valorizzante, o svalorizzante, a seconda di chi lo
espone, a seconda del momento, a seconda dell’ambiente in cui ci si trova. Qualsiasi idea, qualsiasi
sentimento, qualsiasi moda, può essere sentito come valorizzante o svalorizzante.
Può essere valorizzante il rosso, e può essere valorizzante il verde.
Con la stessa frase, puoi offendere uno, e farti amico un altro.
I modi di valorizzazione sono infiniti, insieme, come dire?, ai loro contrari. Si tratta solo di constatare
quante strade ci sono a disposizione.
Quella vecchina modesta ed insignificante? Quel ragazzo sbiadito e dimesso? Dovrebbero avere un livello
di valore basso?
Ebbene, non è escluso che abbiano tesori di valore che tu non hai.
DA STRADE
OPPOSTE
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Posizioni che per te sono di netta inferiorità, dall’interessato possono essere viste come di superiorità.
Quelli che per te sono difetti, un altro li potrà considerare pregi. Altri verranno da te a farti conoscere le loro
migliori cose, che viceversa per te sono cose brutte.
Si può confermare il proprio valore solo con buone azioni?
Certo che no. Il valore può essere confermato anche dal male.
Quindi si può essere orgogliosi di rubacchiare senza necessità.
Orgogliosi di aver ucciso.
Sicari, orgogliosi dei soldi guadagnati.
Capi di stato, si può trarre valorizzazione personale, dall’assalire un altro Stato, causando migliaia di
morti; salvo poi a pensare che lo si è fatto per la grandezza o per la difesa della Nazione (altruismo).
L’obbedienza cieca può costituire, in un campo di sterminio, un attributo positivo di valore.
Tra lo scienziato filantropo e l’omicida senza pietà? Quest’ultimo, specialmente quando non venga
mai catturato, può anche sentirsi più valorizzato dello scienziato.
Le peggiori persone della Comunità?
Possono trarre una propria valorizzazione proprio da quei vantaggi concreti che sono il frutto delle loro
cattive azioni.
Si può essere orgogliosi di frodare il lavoro dovuto.
Si può sentire valorizzazione da piccole bravate e da piccoli soprusi.
Ci si può sentire in gamba per essersi attribuito più denaro del dovuto.
Ci si può vantare della propria intelligenza che ha saputo scaricare una propria mancanza su altri.
Ecc., ecc..
Da strade opposte: con cose grandi e cose piccole. Se pensiamo alla preoccupazione di valore pensando
solo a grandi cose: ebbene, è come se stessimo pensando ad una goccia nel mare. La preoccupazione di
valore pensa, per lo più, a cose futili, piccole, della vita quotidiana, in cui raramente entrano le cosiddette
grandi cose. Ed anche quando vi entrassero, non sospenderebbero in alcun modo il minuto lavorio mentale
per tutte le piccole cose.
E quando, per tutte queste cose, qualcuno in buona fede dice al valore: “Tu ti servi di cose futili; a che ti
servono?”, il valore gli risponde “Servono, serve tutto, non si butta niente: quando capita, quando si può,
quando ci si riesce. Tutto questo è in tutti, e quindi anche in te. Lo sai quale è la posta in palio?”.
Le lamentazioni
Per una cosa o per tutte, ci sono persone, che, neanche morte, si lamenterebbero di alcunché. Mai,
confiderebbero i patimenti di un disagio o di un dispiacere, agli altri. Ed hanno in testa, proprio come
valorizzante, il non parlarne mai.
Da strada opposta, tutti noi siamo portatori di lamentazioni da far conoscere a chi ci ascolta. Tutti
facciamo un po’ così, chi più e chi meno.
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Vogliamo che gli altri lo sappiano: seccature, malanni, dolori, preoccupazioni, torti subiti, patimenti
dell’animo, ecc., ecc. . Vogliamo dire quello che ci capita di subire oggi; e vogliamo dire quello che ci è
capitato di subire in passato. Non importa se per causa nostra o per mano di altri; non importa se per ragioni
naturali, o per altro: sono tutte sofferenze capitateci in sorte, che potevano anche non capitarci.
E quando si parla di lamentazioni si deve pensare a tutti i tipi di lamentazione, anche a quelli che
riguardano una poltrona scomoda, un affollamento in autobus, brutti sogni, una bottiglia che non si riusciva
ad aprire o il tempo troppo capriccioso.
Sofferenze lievi?
Vanno bene lo stesso.
Ora, spesso le lamentazioni hanno motivazione di valore.
Eppure sembrerebbe non essere possibile.
Sembrerebbe impossibile che qualcosa che ha avvilito la nostra personalità, possa poi, per incanto, servire
a sollevare proprio il nostro valore. Sembrerebbe impossibile che proprio le cose che ci hanno buttato giù
ritornino poi a sostenerci.
Dalla sofferenza alla valorizzazione? Come si arriva?
Qui il valore ragiona male. Ma non lo fa apposta. Lui, qualche volta, ha visto che aver avuto sfortuna ha
diminuito, o ha annullato, alcuni demeriti. Lui ha visto che essere partiti in una corsa subendo un handicap
fa sì che ti guardino benevolmente. Queste cose lo hanno impressionato molto: allora, a lungo andare, con
una errata trasposizione mentale ha creato un legame fisso tra sfortuna e valore. Con una errata trasposizione
mentale, sfortuna non è più solo un handicap, ma è direttamente valore.
Semplicisticamente lui subito pensa alle cose che sopportiamo come, direttamente apportanti
valorizzazione. Sente che sono valorizzanti e basta.
Ed infatti, spesso, con motivazione di valore, noi parliamo di qualche nostra sofferenza. Con motivazione
di valore, portiamo avanti le cose che abbiamo subìto, come già, di per se stesse, valorizzanti: come
esercitando un titolo di credito, valido sempre, per ottenere moneta di valore in cambio.
Ed ecco perché, come per tutte le cose valorizzanti, vogliamo farlo sapere agli altri; per dirlo balziamo
addosso agli agganci che ci capitano nei discorsi; certe volte vogliamo anche stabilire, come dire?, una
superiorità in sofferenze.
La tendenza è così forte che, quando per caso incrociamo gli occhi di una persona sconosciuta, non è raro
che questa, come parlando con se stessa, sussurri qualcosa che sta sopportando, o coi movimenti degli occhi
o delle labbra ci rivolga qualche sua muta lamentazione. A noi sconosciuti. Per qualunque cosa. E, perfino,
le persone tendono a lamentarsi presumendo sempre di far parte di tempi peggiori di quelli passati; mentre,
colui, che abbia letto scritti provenienti da altre epoche, sa bene che queste stesse lamentazioni ci sono state
in tutti i tempi.
Quando portiamo avanti le nostre sofferenze del passato, inconsciamente la motivazione è quasi sempre
di valore; mentre quando incominciamo a parlare di cose che ci angustiano nel presente, qualche volta la
motivazione può essere di altro tipo. Infatti certe volte abbiamo intenzione, anche se non chiaramente, di
cercare conforto, consigli o aiuti pratici.
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Invece, quando chi si lamenta ha solo una motivazione di valore, non è raro il caso che rifiuti l’offerta di
un perfetto aiuto, o non ascolti il consiglio di un decisivo rimedio. Ed anzi può anche capitare il caso in cui,
tu, che volevi aiutarlo, ti senta rispondere con un no deciso e senza ringraziamenti; o con una frase risentita,
da persona offesa. E allora te ne vai pensando: “Ma, allora, che vuole?”.
Ha la stessa provenienza di valore, nel nostro animo, quella fugace puntina di dolcezza che qualche volta
sentiamo, laggiù in fondo, fare capolino sull’amarezza dei nostri più grandi dolori.
Anche attraverso gli altri
I nostri pensieri cercano di trarre valore dalla nostra stessa persona. Da chi, se no?
Ma, in qualche momento, da strada opposta, addirittura altre persone che non sono noi diventano, quasi
noi, ai fini del valore. Solo per quanto riguarda il valore, inconsciamente, per qualche ragione, noi li
incorporiamo. Ecco perché ci può essere anche: il valore attraverso gli altri. Senza saperlo, i loro successi li
sentiamo un po’ come nostri; senza saperlo li difendiamo dalle critiche.
I nostri figli qualche volta, ai fini del valore, li sentiamo, quasi noi. Specialmente quando siamo a contatto
con degli estranei. Ma non mancheranno i periodi o i momenti in cui non li sentiremo, noi, ma, altri da noi.
Tutti quelli che vivono molto a contatto con noi, ed a cui ci affezioniamo, possiamo sentirli, quasi noi.
Ma possiamo sentire, quasi noi, qualunque altra persona che conosciamo; e perfino persone che nemmeno
conosciamo personalmente. Questi ulteriori collegamenti si creano nella nostra mente per nostre
personalissime ragioni di unione con loro, ragioni tutte provenienti, in un modo o in un altro, dai giochetti
del valore. A causa di questi collegamenti il nostro valore in qualche momento diventa sensibile a quello che
accade a queste persone.
Senza che noi lo sappiamo, è il nostro valore a creare il collegamento, e poi da quel collegamento possono
arrivargli riflessi positivi o negativi. Il collegamento con quelle persone deriva da nostre scelte recanti valore
dietro le spalle.
Per esempio, una scelta fatta da un’altra persona che sia uguale ad una
nostra scelta col valore dietro le spalle, può farci diventare quell’altra persona, quasi noi. Quel collega di
lavoro non solo ci è simpatico, ma sentiamo anche, quasi come nostre, le cose buone che fa: prese la nostra
stessa posizione.
Oppure ci dispiaciamo un poco per il declino della carriera di quell’attore: portava i capelli proprio
esattamente come li portavamo noi.
Per esempio, il fatto che noi abbiamo preferito decisamente alle altre certe
persone e che queste scelte avevano il valore dietro di sé, fa sì che queste persone diventino loro stesse,
nostre scelte, e si capisce che le vicende delle nostre scelte possono influire direttamente sul nostro valore. E
così ci troviamo a difendere quel cugino: lo abbiamo sempre preferito agli altri.
Oppure siamo orgogliosi perché ha vinto la nostra squadra sportiva. La scegliemmo fra tante e l’abbiamo
sempre seguita.
Oppure il nostro valore si dispiace del cattivo comportamento di un lavorante: l’avevamo consigliato noi.
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D’altra parte, da strada opposta, il fatto che proprio noi siamo stati scelti da altri, può farci sentire in
qualche momento queste persone, quasi noi. Loro hanno scelto noi ed hanno in qualche modo confermato il
nostro valore.
Per esempio, ci sentiamo un po’ diminuiti, anche noi, se le cose vadano male al nostro Capo: ci preferì
agli altri.
Oppure siamo contenti se la vicina si veste con gusto: ha sempre avuto per noi più riguardi che per gli
altri.
Molti di questi collegamenti possono anche essere intermittenti.
Sediamoci in poltrona ed assistiamo a queste due scenette.
Prima scenetta
Mamma critica Francesco, ma io lo difendo subito. Lo sapevo che mamma aveva ragione, ma io ho
sentito ugualmente di doverlo difendere. In quel momento ho sentito Francesco, quasi me: Francesco ha la
mia stessa grande passione per la danza e mia madre non vuole che io danzi.
Seconda scenetta
Più tardi, con mia sorella, ora sono io a criticare aspramente Francesco. Ora evidentemente lo sento, altri
da me.
E queste erano scenette inventate. Ma è potuto capitare anche a voi di stare ad ascoltare un marito che vi
parla malissimo della moglie o un padre che vi dice tante cose negative del figlio: di dire, anche voi, una
piccola cosa negativa, e vedere allora come quel marito o quel padre vi guardino male.
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■ COSA SONO
Sono qualcosa in cui pensiamo di essere molto validi.
Più di molti altri. Più di altri. Più delle quattro persone del nostro ambiente.
E quindi sono punti da cui sprizzano per noi soddisfazioni.
A spiegare un punto di soddisfazione, insomma, ci deve essere una qualche sensazione di superiorità.
Un punto di soddisfazione può avere come oggetto qualunque cosa che facciamo all’esterno di noi.
Comportamenti sconosciuti e attività ben viste. Azioni singole ed attività organizzate. Cose rivolte a sé
stessi e cose rivolte agli altri. Cose nel privato e cose in ambito politico. Gesti, movimenti, opere, parole,
discorsi. Ecc., ecc..
Ma un punto di soddisfazione può anche avere come oggetto qualcosa che resta solo nella nostra mente.
Una qualsiasi valutazione su noi stessi. Una capacità mentale che possediamo. Un nostro modo di pensare.
Essere in qualche modo. Un ragionamento. Un’intuizione. Un’idea. Una opinione su persone o cose. Un
nostro gusto. Ecc. , ecc..
Un punto di soddisfazione può appuntarsi su qualità fisiche oppure spirituali.
Può consistere in qualcosa che si possiede da molto, oppure nelle cose acquistate da poco.
Può fissarsi sulle cose che abbiamo costruito, o solo migliorato.
Può sostanziarsi in una posizione, in un grado, in un comando.
Può identificarsi in un rapporto con un’altra persona.
Può essere nel passato e nel futuro. Qualcosa che si faceva in passato, una collocazione in cui si era, delle
cose che si avevano, ecc., ecc.. O cose viste per sé nel futuro, un progetto, una speranza, un’aspirazione,
ecc. , ecc. .
I PUNTI DI
SODDISFAZIONE
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E, casi estremi: un punto di soddisfazione può avere come suo oggetto perfino quello che non siamo, ma,
a pensarci, se avessimo voluto, avremmo potuto essere; perfino quello che non pensiamo e non ci interessa,
ma sentiamo improvvisamente che potremmo benissimo pensare meglio degli altri; perfino quello che non
abbiamo mai fatto, ma abbiamo sempre sognato di fare; ecc., ecc..
Ma attenzione: un punto di soddisfazione può anche avere come oggetto
qualcosa di minimo, qualunque sciocchezzuola che pensiamo di saper fare o saper pensare: un giochino, un
suono che emettiamo, un movimento con le gambe, una sola parola buffa o difficile, una sola storiella, una
piccola attenzione che riusciamo ad avere, una certa acutezza di qualche senso, una minima abilità mentale.
Non sarà difficile capire che, nella stessa persona, per esempio, una particolare competenza scientifica e
acchiappare al volo le cose che gli stanno cadendo: tutti e due possono essere punti di soddisfazione. E
potrebbe il secondo dei due essere più importante del primo, per quella persona là.
L’oggetto di un punto di soddisfazione, sia che sia esterno e sia che sia puramente mentale, può essere,
come dire?, intero, o può essere molto di meno e in forma particolare.
Se si pensa ad un fagiolo come l’oggetto particolare di un nostro punto di soddisfazione, per tendenza
semplificativa, gli altri penseranno che il fagiolo, in noi, sia intero; ma spesso non è così. Dentro di noi
l’oggetto può essere l’intero fagiolo, ma può anche essere un piccolo pezzettino frantumato, o solo la
buccia; può arrivare solo fin là, accendersi solo in certe situazioni, scomparire in altre, ecc., ecc.. Alcuni
punti di soddisfazione non potrebbero mai essere spiegati con poche parole. Ogni punto ha la sua
particolare estensione. Ogni punto ha la sua particolare accensione. Ogni punto ha i suoi particolari
frastagliati contorni.
Ed estensione, accensione e contorni: da pensare solo nella testa del soggetto.
■ LA DIFFERENZA CON LE SODDISFAZIONI SEMPLICI
Un punto di soddisfazione è quello che ha la capacità di farsi richiamare sempre alla mente ogni qualvolta
che i nostri pensieri si aggirano, come dire?, nelle sue vicinanze.
Viceversa, le soddisfazioni semplici, quando i nostri pensieri si aggirano nelle loro vicinanze, ritornano
alla superficie della nostra attenzione: non sempre.
Tu vuoi sapere quali sono i tuoi punti di soddisfazione?
Basta che tu ti accorga di quando c’è quella assoluta puntualità.
In quel caso il punto di soddisfazione irresistibilmente viene subito ripensato da te, automaticamente e
sempre, ogni qualvolta se ne presenti, esterna o mentale, l’occasione. E sempre tu penserai a quella cosa
con compiacimento, notando ancora una volta le differenze fra te e gli altri.
Se quella cosa costituisce un punto di soddisfazione si affaccerà alla tua mente, come dire?, nel cento per
cento dei casi. Se non sarà così, allora non è un punto di soddisfazione, ma una soddisfazione semplice.
Tante sono le cose in cui ci sentiamo migliori degli altri e che rimangono semplici soddisfazioni.
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Eppure una soddisfazione semplice può essere importantissima.
E’ chiaro che quelle cose, che danno luogo a soddisfazioni semplici così importanti, contribuiscono
certamente moltissimo a nutrire il nostro valore. Resta il fatto però che esse sono, prezioso patrimonio
catalogato, e svolgono la loro funzione, ai fini del valore, ormai in modo tranquillo. Ogni tanto ci pensiamo;
se è il caso, le tiriamo fuori e le esponiamo; a volte dobbiamo anche difenderle: ma poi le rimettiamo a
posto. Invece, con i punti di soddisfazione, con loro, ci viviamo continuamente. Quelle, sono, patrimonio
consolidato chiuso in cassaforte; questi, invece, sono monete che abbiamo sempre in tasca.
Nella loro storia, alcune soddisfazioni, nelle primissime ore o nei primissimi giorni, hanno costituito un
punto di soddisfazione. Dopo essere sbocciate, per un periodo iniziale esse sono state richiamate alla mente
con assoluta puntualità. Poi è il tempo a distinguere tra soddisfazioni semplici e punti di soddisfazioni: la
maggior parte delle soddisfazioni diventano soddisfazioni semplici, mentre invece soltanto qualcuna tra di
esse, cristallizzandosi a poco a poco, diventa un punto di soddisfazione.
■ DOMANDE
Quanto durano i punti di soddisfazione?
Nella vita tutto cambia ed anche i punti di soddisfazione col tempo cambiano. In un periodo della vita ci
sono alcuni punti; tempo dopo se ne fanno avanti altri, mentre tramontano alcuni di quelli che c’erano
prima; alcuni punti ci compiacciono per buona parte della nostra vita; altri scompaiono dalla nostra mente
dopo poco tempo.
I punti di soddisfazione sono tutti ugualmente importanti?
C’è differenza tra un punto di soddisfazione ed un altro. Ci sono punti per noi importantissimi, e punti,
che contribuiscono di meno.
Da ciò non bisogna pensare, che non siano, a loro modo, tutti importanti. Da tutti i propri punti, anche da
quelli ridicoli o insignificanti, si ricavano soddisfazioni, e quindi tutti i punti contribuiscono a rallegrare il
nostro valore. Però, certo, ci sono enormi differenze di contribuzione fra l’uno e l’altro. E quindi alcuni
punti di soddisfazione per noi sono ben più importanti di altri.
Quanti sono i punti di soddisfazione di una persona?
I punti per noi importanti possono essere pochi. Gli altri possono essere molti.
Tutti hanno i punti di soddisfazione?
Tutti ne hanno. Cerchiamo valore per noi stessi e i punti di soddisfazione ci aiutano.
Se ne é coscienti?
Trattandosi di valore, non ne siamo pienamente coscienti. Forse sapremmo individuare dentro di noi solo
i punti di soddisfazioni, quelli importantissimi. Salvo poi a negare se gli altri ce lo venissero a dire.
Fra le tante, una critica molto ricorrente è quella con la quale ridicolizziamo
alcuni punti di soddisfazione degli altri. E sicuramente qualcuno guardando te, o ascoltandoti, qualche volta
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avrà pensato di te, con una critica di valore: “E che soddisfazioni sono?”, senza sapere che altri, anche di lui,
avranno sicuramente qualche volta pensato nello stesso modo. Infatti le soddisfazioni sono pesate su bilance
soggettive, e che ognuno di noi si deve arrangiare. Diciamo: “Ma come fa a tenerci ad una cosa così
stupida?”. Ma, altro che stupida: quella cosa dà contributi al valore della persona criticata. A volte, quando
qualcuno si identifica con una scelta diventata per lui punto di soddisfazione, lo critichiamo: “Che c’entra,
lui, con quello di cui si gloria?”. Ma quello, ormai, lo ha scelto e se ne sente tutt’uno. In altri casi diciamo:
“No: proprio perché uno ci tiene a quella cosa, proprio per questo non si dovrebbe comportare in quella
maniera; che soddisfazioni ne può avere così?”. Ma le maniere usate, sono quelle, proprie del soggetto, in
base al suo carattere, e al grado delle sue specifiche intelligenze. Anzi, la persona criticata forse apprezza
moltissimo proprio quelle maniere, considerandole, anch’esse, molto valorizzanti.
E quindi dobbiamo lasciargliele stare: solo se, infatti, diradato il tabù, vinte le resistenze e superati gli
imbarazzi, gli facessimo scoprire che quel suo punto di soddisfazione, in qualche modo lo danneggia, o
addirittura danneggia proprio il suo stesso valore, e gli mostrassimo che tutte queste conseguenze negative
pesano di più di quel contributo di valore che lui può ricevere da quel modo di essere, solo allora forse
potrebbe eliminarlo. Forse: perché, per prima cosa, lui sentirebbe, come se volessimo togliere un piolo alla
scala dove sta cercando di salire.
Nella navigazione incerta e mai conclusa nei mari del valore, il punto di soddisfazione è un caldo porto
tranquillo dove la nave si può ancorare, lontano dalle tempeste, in sosta di rifornimento.
Se poi, proprio in quel porto, le cose ci andranno anche bene, sorrideremo di più, e tratteremo meglio del
solito qualcuno che incontreremo.
■ EFFETTI SU PUNTI IMPORTANTI PER NOI
Se tu hai un amico e ti trovi, come dire?, su di un suo punto di soddisfazione, importante per lui, tu ti
accorgerai che è più interessato e più impegnato degli altri. Mentre la sua attenzione si appuntisce, ha spesso
di fronte persone che lo guardano rilassate. La sua puntigliosità su quella cosa potrà sembrare strana, e gli
altri gli dicono: “Non dare troppa importanza”.
Per un suo punto importante sarà anche disposto a sacrifici che non sopporterebbe per altre cose.
Semmai faticherà di più, e gli altri gli dicono: “Chi te lo fa fare?”.
Se inavvertitamente parlando gli abbasserai un poco un punto di soddisfazione per lui importante, sentirai
che l’aria si elettrizza un poco, anche se lui resta tranquillo. Il tuo amico potrà anche non replicare, ma tu
che lo conosci ti accorgerai ugualmente che si sta reprimendo. Se poi lui incomincerà a mostrarsi inquieto,
allora gli dirai: “Sei una gradevolissima persona, nelle altre occasioni; ma quando si tocca questo argomento
diventi troppo suscettibile”. Se continui a contrastarlo, in certi casi ci potranno ancora essere comportamenti
tranquilli; ma, in altri casi, ad un certo momento, dal tuo amico non sarà retto lo sforzo e verrà fuori una
lingua di serpente o un torrente in piena. Guai a toccarli, i punti di soddisfazione.
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Quanto meno, il tuo amico vorrà almeno precisare o rettificare.
Certe volte ci potrebbero essere delle ruggini sotterranee, fra il tuo amico e
qualcuno, a lui vicino, che abbia un suo stesso punto di soddisfazione; o che solamente, come dire?, si aggiri
senza saperlo intorno al suo punto di soddisfazione. Alla notizia di miglioramenti di queste persone, il tuo
amico spesso se ne dispiacerà, anche se mostrerà il contrario.
E, poi, può accadere che quelle persone, a lui vicine, che hanno lo stesso punto di soddisfazione
importante, ebbene, spesso siano ridimensionate dal tuo amico che ne farà notare errori e difetti.
Se il tuo amico, è, o è stato, vigile urbano ed ha, o ha ancora, un punto di soddisfazione su questo, ti
accorgerai che, passeggiando spesso per le strade, o anche stando solo a casa, il tuo amico troverà ogni tanto
qualcosa da ridire su alcuni altri vigili, ma non in ugual modo su negozianti, poliziotti, mendicanti, venditori
di limoni, ecc., ecc.. “Fa proprio le multe che non deve fare”, “Quelli sono strani”, “Non ce la può fare”,
“Se ne vanno passeggiando”, ecc., ecc.: pensa o dice con motivazione di valore il tuo amico e questo suo
dover abbassare quegli altri, noi lo capiamo: gli crollerebbe quel suo punto di soddisfazione se lui non
lasciasse ad esso una qualche superiorità.
Tutte quelle critiche non potranno mancare.
Il tuo amico esprimerà ciò, in modo molto signorile? In modo molto pacato? Solo raramente?
Sì, ma non ne sarà esente.
E va bene: non avvengono nel tuo amico queste cose?
Allora, almeno, se capitasse qualcuno che non colga certe differenze, il tuo amico dimostrerà di non
volere che queste differenze siano trascurate. O, peggio ancora, se capitasse qualcuno che dica il contrario,
ecco: tutto potrà mancare, ma non potrà mancare che il tuo amico non voglia segnare le differenze.
E noi?
Che ci fanno fare i punti di soddisfazione importanti!
Se siamo entrati in contrasto con altri, ciò può anche essere accaduto su di un nostro punto di
soddisfazione.
Se, una sola volta, siamo stati villani, ciò può anche essere accaduto, perché no?, su di un nostro punto
importante.
Se noi che siamo persone fiere, senza dire niente avremo sopportato qualcosa che non avremmo dovuto
sopportare, potremmo anche averlo dovuto fare per proteggere le condizioni di un punto importante per noi.
Noi che siamo persone di buona moralità, certe volte, pur di lasciare tranquillo il punto, potremmo anche
sopportare di vedere intorno a noi cose non buone che non sopporteremmo di vedere in altre occasioni.
A noi che siamo persone rette potrà anche capitare di collaborare con una persona poco apprezzabile
quando l’esistenza di un nostro punto importante dipenda da quella persona; ci stiamo insieme e, semmai,
forse in futuro anche il suo ricordo ci ritornerà gradito, mescolato al ricordo di quella cosa che fu. Senza
quella situazione, invece: con una persona simile? Non ci avremmo preso neanche un caffè.
A noi che siamo persone coerenti potrà anche capitare di entrare a far parte, organicamente o solo per
piccole collaborazioni, di organizzazioni malvagie o di movimenti nefasti, pur di poter esplicare un nostro
importante punto di soddisfazione: o pensando di essere, in fondo, solo una piccolissima rotella
dell’organizzazione, o pensando di venire in contatto con quel movimento, in fondo, solo per un tempo
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determinato. Senza quella situazione, invece: con gente simile? Non avremmo voluto averci niente a che
fare.
E quando, per tutte queste cose, qualcuno in buona fede dice al valore: “Tu
sei odioso!”, il valore gli risponde: “Tutto questo è in tutti, e quindi anche in te. Lo sai quale è la posta in
palio?”.
E, col Ponte di comando?
No, dei punti di soddisfazione importanti, noi ne parliamo. Qui, spesso, non
sopportiamo di dover attendere i tempi ed i modi del Ponte di comando e quindi non vengono usate le solite
cautele in vista di eventuali reazioni di abbassamento degli altri.
No, ne dobbiamo parlare, non ci pensiamo proprio, non ce ne importa, ne parliamo, se capita l’occasione
ne parliamo, se vogliono ascoltarci ne parliamo. A qualcuno potremmo diventare antipatici? A parecchi?
Non ci pensiamo proprio.
E se abbiamo un punto di soddisfazione che si sostanzia in un fare, noi vogliamo qualche volta mostrarlo,
esibirci, darlo in visione. Anche se poi qualche volta diciamo: “L’ho fatto per voi”.
E quando un altro ci rivolge una lode o un semplice complimento, noi non li attenuiamo ma li accettiamo
senza dire nulla.
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■ I DUE CONTENITORI
Ci sono due contenitori.
Il contenitore del valore giornaliero è piccolo e sta in superficie.
Invece, sotterraneo, grandissimo, è il contenitore principale del nostro valore globale.
In ognuno dei due contenitori il nostro valore, in questo momento, si trova ad un determinato livello.
Il livello del valore globale?
Se lo potessimo vedere, ci apparirebbe immobile: è a quell’altezza, e non si muove. Ma, sotto quella
fissità apparente, il movimento c’è. Le variazioni di livello avvengono lentamente. E siccome avvengono
lentamente, in tempi lunghi, le persone le possono avvertire solo a distanza di tempo, paragonando il livello
che sentono attualmente con quello che ricordano di aver sentito anni prima.
Le variazioni di livello sono lente, ma fondamentali per noi: la specifica altezza di questo livello ci dà
quella particolare sensazione che ognuno ha, in un determinato periodo, del proprio valore.
Invece il livello del contenitore giornaliero muta rapidamente per tutti gli accadimenti della giornata.
Questo livello può andare su e giù con molta facilità e la corrispondente sensazione può variare anche a
distanza di pochi minuti.
Il contenitore giornaliero è collegato a quello principale, sottostante, per cui tutto il contenuto giornaliero
precipita di sotto nel contenitore principale. Usando un termine commerciale, il suo saldo scende nel
contenitore principale.
Il saldo può essere positivo: materiale accrescente.
Il saldo può essere negativo: acido dissolvente.
Quindi il livello del valore globale, risente, man mano, di tutti questi saldi giornalieri.
Però, purtroppo per noi, nel contenitore principale agisce, come agente dissolvente, anche il tempo. Il
tempo, con la sua tipica azione, erode il valore da noi accumulato, col risultato di farne scendere il livello.
IL LIVELLO DI
VALORE
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E’ un fatto naturale che, dentro di noi, pezzi e pezzettini di valore, a causa del passare del tempo, perdano di
importanza e prima siano erosi, poi sfaldati. Ed anche alcuni pezzi grandi, a poco a poco, possono perdere
d’importanza ed iniziano a disfarsi col tempo che passa. L’azione del tempo causa al prezioso ammasso
continui smottamenti e conseguenti discese di livello. Se però dall’alto spesso precipitano giù contribuzioni
positive, materiale accrescente, allora il livello del valore globale potrà sempre salire, o almeno restare
stazionario.
Il guaio è quando scendono giù troppi saldi negativi, acidi dissolventi, e non riusciamo a far salire il
nostro valore. Ne sentiamo il bisogno ma non ci riusciamo; forse ci siamo rassegnati, al contrario di tanti
altri. Non siamo riusciti, come dire?, ad aggiustarci le cose per ottenere, in tutti i casi, un livello, accettabile
per noi. Ma come fanno gli altri?
Loro, su di sé, riescono a vedere le cose in modo da poter mandar giù buoni materiali di valore. Con la
sopravvalutazione positiva delle loro azioni e delle situazioni che vivono, in mezzo ai loro pensieri, si
presentano spesso soddisfazioni che confortano il loro valore. Non sono valide?
Per loro, lo sono.
Non si vedono obiettivamente. Su molte cose si imbrogliano un po’. Si vedono come non sono. Si vedono
come non sono più. Riescono a non prendere atto di certe cose. Ragionamenti sballati. Modi di sentire
stravaganti. Certe situazioni assolutamente negative, le interpretano positivamente, cogliendone aspetti
positivi che sono solo nella loro testa. Ingrandiscono alcune cose e ne rimpiccioliscono altre. Fanno
importanti alcune cose e poco importanti altre. Si danno estemporanee giustificazioni ed incredibili
consolazioni. Ecc., ecc.. Non sempre ci si può permettere il lusso di guardare bene le cose. Inconsciamente
si sente di dover assolutamente elevare il nostro valore.
Insomma, sul valore: la selezione delle sensazioni, l’elaborazione delle interpretazioni, la registrazione
delle valutazioni, non rassomigliano di certo ai procedimenti di una scienza esatta. Altro che scienza esatta!
La massa sotterranea di valore del contenitore principale dentro di noi è una massa consolidata che solo
lentamente può sollevarsi un po’, o può scendere un po’. Quindi, in tempi brevi, l’altezza del livello globale
non può cambiare di molto. Non è questione di volontà o di altro. Per il momento è così. Questo livello può
mutare solo lentamente, e non certo come vorremmo noi.
Aiuti dagli altri?
Risultati in tempi brevi?
Qua, come dire?, riconoscere il problema non basta, perché l’inconscia sensazione del proprio livello di
valore non potrà cambiare, se non in tempi molto lunghi.
Non hanno la bacchetta magica né i buoni consigli di un amico intelligente e generoso, né i metodi di un
terapeuta dell’anima che si voglia dedicare a questo, né i libri che hanno parlato di questo. Ci sentiremo
dire: “Tu devi ripensare a te stesso in quest’altro modo: …”. “Tu non devi pensare a questo che ti manca
come cosa svalorizzante”. “Tu non devi sentirti senza valore se non sai fare quest’altro”. “Tu devi, in questi
casi, comportarti così: …”. Ecc., ecc.. Ma una massa consolidata non può cambiare dall’oggi al domani. E
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poi qualche altro discorso spesso vuole anche farci intendere: “Tu non vuoi bene a te stesso”: senza sapere
che ognuno cerca sempre con tutte le proprie forze di raggiungere quel tipo di risultato.
Nessun cambio di mentalità, nessun diverso comportamento, nessuna nuova riflessione, potranno far
aumentare subito il livello di valore. Sarebbe come dire ad un albero: “Tu devi cambiare presto”. Così tutte
quelle strategie in tuo favore, se tu hai la disgrazia di avere un livello bassissimo di valore, non servono a
niente.
Certo, consigli calibrati potranno esserci utili: ma solo da oggi in poi. Infatti, se, con quelli, riusciremo
già ad elevare un poco il livello giornaliero di valore, allora contributi positivi più frequenti scenderanno sul
giacimento sotterraneo e ciò potrà anche portare, a lungo andare, il livello globale a salire.
Quanto tempo ci vorrà per poter provare una migliorata sensazione di valore?
Ci vorrà del tempo.
■ IL LIVELLO GIORNALIERO
Il livello giornaliero determina la temporanea sensazione di valore del momento particolare.
Con i suoi frequenti cambiamenti, insieme a tante altre cose, anche lui, può contribuire a variegare
l’umore: possiamo assaporare la gioia, siamo contenti, poi possiamo passare anche rapidamente alla
tristezza, al cattivo umore. Felicità ed infelicità, in certi momenti, possono dipendere anche solamente
dall’altalena del valore.
■ IL LIVELLO GLOBALE
Fin da piccolissimi, e per tutta la vita, ad ogni momento, continuamente, ammassiamo valore nei nostri
pensieri: perché?.
Perché la posta in palio è troppo importante.
Elevare il nostro valore ci farà sentire meglio. Cerchiamo un sottofondo di migliore benessere
psicologico: ma, questo, come dire?, non lo sappiamo, ma lo sappiamo inconsciamente. Mai, lo pensiamo;
sempre, lo sentiamo.
Un livello alto ci fa essere sicuri di noi stessi. Ci rende liberi. Ci dà serenità. Ci dà disinvoltura. Ci dà
efficacia. Ecc., ecc.. Un livello medio, invece ci fa stare né bene né male. Sentiamo che ci manca qualcosa,
ma sentiamo anche che potremmo stare peggio.
Al contrario, un livello basso ci fa essere insicuri. Ci rende inquieti, ci dà sospensione, ci dà un senso di
impotenza. Sentiamo di poter ottenere di meno dalla vita. Ecc., ecc..
Un livello bassissimo, poi, è una vera malattia dell’anima. Sparge, per tutta la vita, su di noi una polvere
invisibile di infelicità. Spesso ci fa sentire come se stessimo dando le spalle all’orlo di un baratro; così che
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una vittoria del nostro valore ci fa fare un passo in avanti rendendoci strepitosamente felici, mentre una
sconfitta ci fa fare un passo indietro verso il precipizio: ecco perché, di fronte ad alcune sfide che la vita ci
pone davanti, certe volte le scansiamo perché una eventuale sconfitta sarebbe per noi troppo pericolosa,
mentre, nello stesso tempo, rimpiangiamo la eventuale possibilità di vittoria che pure ci sarebbe potuta
essere. Viviamo questa sofferenza indistinta, sia pure interrotta raramente da qualche ora di gioia estrema;
sofferenza indistinta di cui, per il tabù, non conosciamo la causa, continuando a spiegarcela incolpando tante
altre cause che non c’entrano.
Sia quando la necessità di valore venga servita in modo innocente e sia
quando, all’altro estremo, sia servita in modo maligno o dannoso, in tutti i tempi, si é pensato di poterla
combattere e di doverla eliminare: senza sapere che, presente in tutti, essa é incoercibile come bere e
mangiare; certo, si presenta nei modi più vari, ma é assolutamente vano pensare di poterla estirpare. Che si
mettano il cuore in pace, dunque, le persone di acuta introspezione, o coloro che mirano alla propria
perfezione spirituale, o coloro che, in ascesi, vorrebbero scacciarla da sè: come, tutti, almeno un poco,
devono bere e devono mangiare, così, tutti, almeno un poco, dovranno per forza, anche senza accorgersene,
sottostare a questa necessità.
E se non ci fosse, il valore?
Se non ci fosse, che pace! Nell’animo, come bisogni personali, resterebbero solo benessere fisico, piacere
e fastidio: cercare di stare bene, cercare i piaceri della vita, scacciare i fastidi. Che pace! Niente continue
intime sofferenze, meno preoccupazioni, meno tensioni con gli altri, meno infelicità. Ma, quest’uomo qua,
non lo riconosciamo più, è un’altra cosa, è più tranquillo, più sereno. Gli manca uno dei quattro costituenti
egoistici, non é più lui.
Sottofondo costante nel nostro animo, la sensazione che riceviamo dal
nostro livello di valore è un sigillo pesante che influenza comportamenti, modi di essere, sentimenti ed
emozioni: la nostra vita.
INTERLOCUTORE – E questo non è vero. Per esempio, nell’ambito del mio lavoro io mi sento un re,
sicuro di me, senza soggezione per nessuna ragione. Mi sento a mio agio. Ed invece, per esempio, se a casa
mia si parla di quel certo argomento su cui io non ci ho mai capito niente, accidenti, mi sento piccolo
piccolo di fronte agli altri. Quindi certe volte uno è sicuro, e altre volte no.
AUTORE – Non è così. E’ logico che quando sappiamo fare una cosa diventiamo più sicuri, e quando
non la sappiamo fare più insicuri: questo è ovvio, ma niente di più.
Noi ci presentiamo, invece, su qualunque campo col nostro livello globale di valore, e non con il livello
particolare di quel campo. Non dobbiamo pensare a miliardi e miliardi di particolari livelli di valore. Noi,
fortunatamente o sfortunatamente, siamo quelli che siamo, su qualunque campo ci troviamo.
E la prova è questa: sono, diverse, le reazioni tra chi ha un livello alto di valore e chi ha un livello basso
di valore: diverse, di fronte ad importanti vicende positive per il loro valore e di fronte ad importanti
vicende negative. Ci sono reazioni diverse tra l’una e l’altra persona: sia per quello che dicono agli altri e sia
per quello che sentono dentro. Quando abbiamo esperienza della vita, sappiamo perfettamente come e quali
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sono le reazioni delle persone che hanno il valore in alto: sono reazioni, tutto sommato, pacate, ci sono gioia
e rabbia, ma non sono travolgenti. Quel particolare successo? Si aggiunge. Quell’insuccesso? Dispiace, ma
non toglie tanto.
Così, ugualmente conosciamo le reazioni delle persone con il valore in basso: nelle cose che sentono
importanti per loro, sentono, e mostrano, forti esaltazioni e forti abbattimenti; qualche volta evitano di
mettersi ancora alla prova; in generale, esaltano qualche loro valore molto più spesso che gli altri. Spiegano
l’abbattimento dopo una piccola sconfitta con tutt’altre ragioni.
Ora, ancora secondo l’esperienza di vita, nelle vicende importanti per il loro valore, noi troviamo, negli
uni, sempre reazioni tutte normali e, negli altri, sempre tutte sconvolgenti. E nella stessa persona, mai
troviamo reazioni, ora normali, ora sconvolgenti. Le loro reazioni sono, o normali, o sconvolgenti. Tutto
questo ci dice che ci presentiamo su qualunque campo sempre col nostro livello globale di valore. Ci
accostiamo a qualunque situazione portandoci sempre appresso il nostro livello globale, quello di quel
determinato periodo di tempo, sempre lo stesso, quello che abbiamo.
INTERLOCUTORE – E non sono proprio d’accordo.
Il valore e l’infanzia
Per il livello globale che oggi sentiamo, ha contato molto il livello con cui siamo usciti dall’infanzia.
Nella corsa del valore è assai diverso se si sia partiti bene o si sia partiti male. Il tipo di partenza è molto
condizionante per il futuro. Da solo, pesa quanto tutto il resto dello svolgimento della corsa fino all’arrivo.
Affinché la vicenda di valore dei nostri figli abbia una buona partenza, noi
genitori dobbiamo essere coscienti che la nostra interazione con essi influenzerà molto questo loro destino.
Allora tocca a noi provvedere a questo con intelligenza. Non deve bastarci proteggerli, nutrirli e farli
studiare, ma dobbiamo anche avere il merito di indurre in essi un buon esito di valore. Affetto, vicinanza ed
attenzione già dovrebbero ingenerare nel bambino la sensazione: “Io sono amato, quindi valgo”; ed infatti
aver ricevuto affetto da piccoli è il miglior contributo al valore del futuro. Eppure nemmeno questo basta:
bisogna anche dare al bambino la sicurezza di avere sue proprie particolari qualità personali. Allora andrà
seguita la regola: lodi, sempre più dei rimproveri, da cercare da qualunque parte, ma dicendo obiettivamente
sempre la verità.
Molti genitori a questo punto direbbero: “Ma i miei figli lo sanno che io li stimo”, e questa è ancora una
mancanza: bisogna parlare.
Ancor di più, se si pensa che il figlio percepisce, per prima cosa, come svalutazioni, la maggior parte dei
rimproveri, quelli che gli sono rivolti dai suoi genitori veramente per il suo bene (motivazioni di altruismo).
E’ necessario farli entrare nella mischia della vita portando con sé un consistente gruzzolo di valore,
monete d’oro luccicanti.
Eppure, sia pure in pochi casi, malgrado che ci sia stata la fortuna di genitori
attenti anche a questo, e malgrado che al bambino siano capitati accadimenti per lo più valorizzanti, può
anche accadere che esca dall’infanzia un ragazzo con un basso livello globale di valore. A causa delle sue
personali valutazioni, a causa del suo ricordarsi di una sola cosa negativa e non di altre mille positive, questo
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ragazzo, mentre tutti avrebbero previsto il contrario, invece esce dall’infanzia con un livello insufficiente.
Eppure, è uno che ragiona bene; eppure, é anche di gradevole aspetto.
E, dall’opposto, sia pure in rari casi, da infanzie tartassate e svalorizzanti, possono anche venire fuori
adulti sfolgoranti sicuri di sé.
Quando all’inizio si parte male non è facile rimontare.
Però è possibile.
Infatti il valore è sempre una storia in movimento per cui possono anche verificarsi completi recuperi
della situazione.
D’altra parte, vi possono anche essere cattive partenze, a tal punto vincolanti, che in seguito non
riusciamo più a rimontare, nemmeno col sopravvenire, da adulti, di numerosi accadimenti positivi ed
esaltanti. E’ il caso di quelle persone che, lasciata l’infanzia con un livello di valore basso, continuano a
sentire inquietudine anche quando le cose per loro abbiano incominciato a girare bene. Ci può essere la
donna più amata del mondo, l’uomo dominatore di popoli, la persona più ammirata del suo ambiente,
eppure, a tutti questi può anche capitare di dover continuare a portarsi addosso la cronica sofferenza di
valore con cui sono usciti dall’infanzia. E la gente dirà: “Ma come? Ha tutto, ed è infelice?”.
■ NESSUNO SMETTE MAI
Insieme a tutte le altre nostre precarietà, dentro di noi c’è anche la precarietà del valore.
Al di là delle apparenze, nessuno, dentro di sé, è completamente tranquillo al riguardo. Nemmeno l’eroe
al culmine della sua gloria e nemmeno quell’amico che ci sembra così sicuro di sé. Siamo tutti sull’altalena.
Nessuno potrà mai sentirsi valorizzato: in modo stabile.
Tutti siamo assoggettati ai movimenti del valore. Una persona potrà sembrarci molto soddisfatta di sé e
senz’altro lo sarà più di noi, ma anch’essa, mai, potrà godere di una pienezza di valore, in modo tranquillo
ed assicurato. Infatti, dentro i due contenitori di valore c’è sempre continuo movimento, a salire e a
scendere. In quello giornaliero il livello cambia ad ore. In quello principale si hanno lentissime variazioni
del livello: il movimento si nasconde, ma c’è. Questo significa che il valore non resta mai fermo, causando
la nostra congenita fragilità. Livello mai stabile, noi mai tranquilli. Ed anche quando ci sentiamo bene in un
periodo della vita per un buon livello di valore, come non sentire di voler stare ancora meglio? Come non
sentire di dover difendere il livello attuale? Come non sentire di doverci premunire per eventuali discese di
livello di un prossimo futuro? Insomma, non ci può essere mai tranquillità con un continuo movimento sotto
i piedi.
Comunemente molti pensano che vi siano di quelli che non sono toccati dal problema, persone che
possono guardare con distacco il loro valore. Lo pensano erratamente.
Ma, riguardo a questa particolare questione, anche coloro che ne hanno scritto: hanno scritto erratamente.
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Quindi non fu esatta la tesi che, ai fini del valore, si possa trovare, in età adulta, quella che viene chiamata
sanità psicologica, oppure personalità sana nella maggioranza delle persone.
Altri sostengono che ci possa essere un livello alto stabile, basso stabile, ecc., ecc..
Alla base di queste convinzioni c’è l’idea errata della stabilità; c’è l’idea che il valore possa essere stabile.
Ma proprio questo non può essere.
Se il buon livello di valore che sentiamo oggi inconsciamente, inconsciamente sappiamo che non è fisso,
allora combattiamo per esso per tutta la vita, senza mai smettere.
Per questo, qualunque persona sente di dover continuare sempre ad ammassare valore e continua sempre a
difenderlo. E’ chiaro che chi ha livello di valore molto in basso mangerà avidamente quello che tu hai
lasciato nel piatto; ma questo non significa che fino ad un certo punto non ne abbia mangiato anche tu.
Semmai con meno apprensione degli altri, semmai con più tranquillità; ma senza mai tralasciare la cosa.
Da bambini, da adulti o da vecchi, è uguale, perché nessuno può fermare il movimento del valore.
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IL PIACERE
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■ LA TERZA CATEGORIA DELL’EGOISMO
Ci procuriamo i piaceri che più ci sono necessari. Necessari?
Nessun piacere lo è. Però non se ne può fare a meno. Nessuno vuole vivere solo, come dire?, con pane ed
acqua.
La ricerca di tutto quello che ci possa risultare un po’ piacevole, è esperienza quotidiana. Continuamente
ci orientiamo verso i piaceri; anche automaticamente, verso questo gradito condimento della vita, senza
pensare che è un di più.
Ognuno quando si sveglia la mattina già può contare tranquillamente su un certo numero di cose
piacevoli. Per le altre non previste, si vedrà.
E se superficialmente sembri a qualcuno che il piacere non sia cosa importante, è perché moltissimi
piaceri li abbiamo già come acquisiti e quasi non li consideriamo più nemmeno piaceri. Ma proviamo a
farne a meno: mangiare solo gli alimenti necessari per restare in buona salute, non leggere libri interessanti,
niente giochi da bambini, non ascoltare più musica, niente the, niente spettacoli, niente liquirizia, niente
sesso non procreativo, niente gelati, ecc., ecc.,: così sarebbe la vita senza i piaceri già acquisiti.
Non tenteremmo forse a tutti i costi di riavere i piaceri perduti?
E con i piaceri già acquisiti, più tutti quelli che ci programmiamo, ci può anche essere qualche giornata
che, se guardiamo bene, ne è molto piena.
La differenza fra la categoria del piacere e la categoria del benessere fisico è senz’altro evidente.
Anche la differenza fra la categoria del piacere e la categoria del valore è evidente. Ma è evidente a patto
però che non si faccia troppo caso ai modi di parlare. Infatti, pur sentendo che sono cose del nostro valore,
per il tabù diciamo: “Mi piace”, “Mi ha fatto piacere”, “Mi fa più piacere”, ma non si sta parlando di
piacere: si sta parlando di valore.
Nella categoria del piacere vi sono sia i piaceri fisici e sia i piaceri mentali.
Tutti i piaceri sensoriali e tutti i piaceri intellettuali.
Hanno contenuti diversi, ma, tutti, sono piaceri. Sia i piaceri sensoriali e sia i piaceri mentali sono cercati
da noi per lo stesso scopo: gustare un piacere. Dal punto di vista motivazionale, l’esigenza è la stessa.
Piccoli, piccolissimi, grandi, grandissimi, la gamma dei piaceri è
ovviamente infinita. Piaceri meravigliosi e piaceri infinitesimali.
■ ESEMPI DI PIACERI COMUNI
Piaceri fisici, comuni un po’ a tutti?
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Se ne può fare qualche esempio. Per mangiare si va a tavola regolarmente portati dalla necessità di
nutrirsi (motivazione di benessere fisico) ma preferiamo cibi piacevoli (modalità di piacere). Poi, se non si
ha fame e si vede qualcosa di buono che ci attira, quando subito lo mangiamo, ecco c’è stata una
motivazione di piacere. Così anche bere bevande diverse dall’acqua. Fumare. Sguazzare durante un bagno
di mare. Ecc., ecc..
Piaceri mentali, comuni un po’ a tutti?
Se ne può fare qualche esempio. Prendere, scegliendolo a caso, un libro di avventure. Voler riascoltare da
soli una bella musica. Sfogliare avidamente pagine di nuovi disegni erotici. Fare risuonare l’eco in
montagna. Ecc., ecc..
Le motivazioni di piacere si possono presentare insieme ad altre motivazioni di piacere.
Altre volte, le motivazioni di piacere si possono presentare insieme a motivazioni di altre categorie.
Ma che ci sia solo una motivazione di piacere, o che, insieme ad essa, ce ne siano delle altre: solo il
singolo soggetto lo potrà dire, e solo per il caso del momento particolare.
Andare a ballare o andare a fare sport: quali motivazioni?
Tu forse lo fai, solo per una motivazione di piacere, come, per esempio, le varie buone sensazioni fisiche
personali? O c’è dell’altro? C’è motivazione di piacere e/o una motivazione di benessere fisico (pensi che il
movimento faccia bene alla salute)? Piacere e/o una o più motivazioni di valore (ci sai fare; è di per sè già
valorizzante farlo; puoi rivaleggiare alla ricerca di eventuali soddisfazioni; ecc., ecc.)? Piacere ed un’altra
motivazione di altro tipo? O tre motivazioni insieme?
Solo il singolo soggetto lo potrà dire, e solo per il caso del momento particolare.
Andare a comprare il giornale quotidiano: quali motivazioni?
Tu forse lo fai, solo per una motivazione di piacere, come, per esempio, il godimento di potervi scoprire,
mano a mano, le sorprese di tutte le novità? O c’è dell’altro? C’è motivazione di piacere e/o una o più
motivazioni di valore (vuoi tenerti sempre aggiornato; o istruito; ecc., ecc.)? Piacere e/o un intreccio di
motivazioni (per qualunque uso futuro vuoi avere in casa carta di giornale)? Piacere ed un’altra motivazione
di altro tipo? O tre motivazioni insieme?
Solo il singolo soggetto lo potrà dire, e solo per il caso del momento particolare.
Effettuare un’attività di nuda sessualità: quali motivazioni?
Tu forse lo fai, solo per una motivazione di piacere, come, per esempio, i diversi godimenti che ci puoi
trovare? O c’è dell’altro? C’è motivazione di piacere e una motivazione di valore (per esempio, lo vuoi fare
anche perché in quel momento ti senti qualcuno)? Piacere e una motivazione di benessere fisico (lo vuoi fare
perché dopo un certo tempo pensi che bisogna farlo per stare bene)? Piacere ed un’altra motivazione di altro
tipo? O tre motivazioni insieme?
Solo il singolo soggetto lo potrà dire, e solo per il caso del momento particolare.
Andare a vedere spettacoli di vario genere o andare a comprare un libro:
quali motivazioni?
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Tu forse lo fai, solo per una motivazione di piacere, come, per esempio, i vari godimenti mentali che ci
puoi trovare? O c’è dell’altro? C’è motivazione di piacere e/o una o più motivazioni di valore (lo fai perché
fa buona impressione sugli altri; per poterlo poi raccontare; ecc., ecc.)? Piacere e/o un’altra motivazione
(per esempio, devi trarvi una conoscenza particolare)? Piacere ed un’altra motivazione di altro tipo? O tre
motivazioni insieme?
Solo il singolo soggetto lo potrà dire, e solo per il caso del momento particolare.
Da giovanissimi, e sentendone la mancanza, andare in cerca di un rapporto
d’amore: quali motivazioni?
In questo caso qui, non te lo chiedere, perché la cosa è uguale per tutti: piacere e valore.
Uguale per tutti, motivazioni di piacere unite ad una motivazione di valore, un impasto dolcissimo. Si
tratta dei piaceri mentali e fisici, quali, per esempio, le belle emozioni dell’amore (piacere) e la sensualità
(piacere), tutto unito alla motivazione di valore: essere amati è valorizzante.
Giocare, da bambini o da adulti: quali motivazioni?
Tu forse lo fai, solo per una motivazione di piacere, come, per esempio, le varie emozioni piacevoli che
puoi trovare di fronte ad una realtà fittizia e seria nello stesso tempo? O c’è dell’altro? C’è motivazione di
piacere e/o una o più motivazioni di valore (sei bravo; potresti vincere; ecc., ecc.)? Piacere e/o una
motivazione di soldi (si gioca a soldi e potresti vincere)? Piacere ed un’altra motivazione di altro tipo? O tre
motivazioni insieme?
Solo il singolo soggetto lo potrà dire, e solo per il caso del momento particolare.
Fare una collezione: quali motivazioni?
Tu forse lo fai, solo per motivazioni di piacere, come, per esempio, l’emozione che provi quando vai a
comprare un altro pezzo o il godimento che provi quando vai a riguardare l’intera collezione? O c’è
dell’altro? C’è motivazione di piacere e/o una motivazione di soldi (ti proponi di guadagnarci)? Piacere e/o
una motivazione di valore (la cosa ha il potere di inorgoglirti in qualche modo)? Piacere ed un’altra
motivazione di altro tipo? O tre motivazioni insieme?
Solo il singolo soggetto lo potrà dire, e solo per il caso del momento particolare.
Andare alla giostra?
Andare a fare una passeggiata?
Comprare un disegno molto colorato?
Solo il singolo soggetto lo potrà dire, e solo per il caso del momento particolare.
■ PIACERI STRETTAMENTE PERSONALI
La categoria del piacere comprende miriadi di piaceri particolari – personali.
Si tratta di piaceri che da altre persone potrebbero anche non essere considerati tali; sono piaceri, proprio
nostri, particolari.
Fra questi piaceri vi sono anche quelli di minima entità, pur sempre facenti parte della categoria.
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Quindi, accanto ai piaceri che sono un po’ comuni a tutti, ci sono anche tutti i nostri piaceri particolari.
In questo punto abbiamo appuntamento con la signora Rossi. Eccola in
nostro aiuto.
Inizia: “Se non mi fosse stato detto di non portare esempi di piaceri comuni, avrei senz’altro parlato delle
mie passioni: fare sport, seguire il cinema di qualità, leggere libri interessanti e, perché no?, il trittico della
sera formato da musica, noccioline e sigarette. E sono cose che, tra l’altro, mi caratterizzano anche un po’.
Invece devo portare motivazioni di piacere, mentali o fisiche, ma, particolari.
Allora, per esempio, quando vedo una bottiglietta di alcol, me ne verso subito un poco sulle mani per
sentirne l’odore. Gli altri pensano che io lo faccia per igiene ed invece a me piace solo l’odore: motivazione
di piacere.
Una sera, camminavo, non c’era nessuno, sono salita sopra ad un cumulo di mobili abbandonati:
motivazione di piacere più una motivazione di valore.
Mi ha sempre interessato leggere libri di psicologia, materia di cui sono stata sempre appassionata:
motivazione di piacere. Poi quando andai a sentire una Conferenza per completare certe mie conoscenze:
motivazione di piacere più motivazione di valore.
Quando, soprappensiero, ho accesso un fazzolettino di carta per vedere il propagarsi della fiammella, per
sentire quell’odore, ed assistere alle evoluzioni della piccola vicenda: motivazione di piacere.
Recandomi in auto alla mia Associazione sportiva, con un calcolo di piacere, scelgo la strada panoramica
che è più lunga. Cercare piacere in maggiore quantità: una modalità avente motivazione di piacere.
Spesso mi giro le monete nella mano: motivazione di piacere.
Adesso voglio dirvi ugualmente un paio di cosette di cui mi vergogno un po’ e che vi dico solo perché, in
effetti, sono in pieno anonimato: i Rossi sono tanti. Dunque, spio col cannocchiale una donna del palazzo di
fronte: in me, è una motivazione di piacere. Non ho curiosità di vedere quello che fa: è solo il piacere di
assistere ad uno spettacolo sempre nuovo, preparato solo per me. Ancora, l’altro giorno, in certi gabinetti
pubblici sono andata a leggere anche le scritte dietro le altre porte, ripromettendomi emozioni immaginative
di natura erotica: in me, motivazione di piacere.
Non mi vergogno invece a dire che mi sono sempre piaciuti i giochi in cui si debbano rischiare soldi. La
ricerca di emozioni piacevoli nelle varie fasi del gioco, l’obiettivo di vincere soldi, la conferma della mia
abilità: sono le cose che mi attirano. Nel mio caso specifico, ci sono tutte e tre queste motivazioni, tanto è
vero che nessuna di esse, se fosse da sola, mi indurrebbe a giocare. E nemmeno due, da sole. Ma unendo le
loro forze ci riescono. In me, tre motivazioni insieme: piacere, soldi, valore.
A me piace guidare l’automobile. Mi piace e addirittura mi rilassa. Quando dissi a mia cugina: “Vuoi fare
guidare me?”: in me, motivazione di piacere.
Se nessuno mi guarda mi stuzzico l’interno dell’orecchio: motivazione di piacere.
Nella mia testa, tutti i cambiamenti, è come se mi promettessero in tutti i casi cose piacevoli. Mi vado
cercando novità, sorprese ed imprevisti. Per questo ieri sono andata a comprare una cosa in un negozio
molto lontano: in questo caso, in me, una modalità avente motivazione di piacere.
Per mio godimento, non appena posso, mi faccio delle buone torte da mangiare: motivazione di piacere.
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Andrò a vedere un altro film dell’orrore e potrà sembrarvi strano ma voler provare tutte quelle paure, in
me ha: motivazione di piacere. Siete contenti? Vi ho portato i piaceri particolari”.
Se ne va la signora Rossi.
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IL FASTIDIO
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■ LA QUARTA CATEGORIA DELL’EGOISMO
Cerchiamo benessere fisico, valore e piacere.
La quarta radice dell’egoismo ispira, invece, un atteggiamento del tutto contrario: vogliamo liberarci da
qualcosa.
Il fastidio è una categoria motivazionale che cerca di evitare o annullare varie cose.
INTERLOCUTORE – Ma che bisogno c’era di parlare di questa quarta categoria?
AUTORE – C’era bisogno. Molte motivazioni egoistiche non rientrano nelle tre categorie del benessere
fisico, del valore e del piacere. Ne restano fuori moltissime, che sono proprio quelle tendenti ad evitare le
situazioni del fastidio.
INTERLOCUTORE – Ma quando mai? Il fastidio non è che la faccia opposta del piacere e quindi rientra
nel piacere. E allora mi potete dire perché mettete in mezzo un’altra categoria? Per complicare le cose?
AUTORE – Non è vero che le situazioni che cerchiamo di evitare rientrano nel piacere. Sono tutt’altra
cosa. La situazione contraria che si può verificare nei confronti della ricerca del piacere è l’ostacolo al
piacere stesso e non altro. Le cose che cerchiamo di annullare, mossi dalle motivazioni di fastidio, sono cose
che non hanno niente a che vedere con il piacere. Se cerchiamo di evitare un disagio (fastidio), non stiamo
difendendo un piacere, né ci stiamo avvicinando di più ad esso. Le motivazioni di fastidio e di piacere
rientrano in due categorie diverse.
Come nella categoria del piacere, anche nella categoria del fastidio vi sono
sia i fastidi fisici e sia i fastidi psicologici mentali.
Tutti i fastidi sensoriali e tutti i fastidi psicologico-intellettuali.
Hanno contenuti diversi, ma, tutti, sono fastidi. Sia i fastidi fisici e sia i fastidi mentali devono venire
evitati da noi per lo stesso scopo: liberarci di quelle piccole cose spiacevoli che, se lasciate inalterate, ci
tengono a disagio. Dal punto di vista motivazionale, l’esigenza è la stessa.
■ ESEMPI DI FASTIDI COMUNI
Le motivazioni di fastidio sono quelle che vogliono annullare disagi: non grandi. Infatti se questi disagi
fossero grandi sarebbero quelli in grado di intaccare il nostro corpo o la nostra mente e si rientrerebbe allora
nelle motivazioni di benessere fisico.
Le motivazioni di fastidio cercano di eliminare, per esempio, i disagi non gravi che ci possono essere
causati dal nostro corpo.
Le piccole affezioni ed i piccoli inconvenienti fisici che, con motivazione di fastidio, vanno eliminati.
Anche le sensazioni fisiche spiacevoli, pruriti, arrossamenti, ecc., ecc.. Le sporcizie del nostro corpo, o sul
nostro corpo, che vanno lavate; ci laveremmo anche in un’isola deserta. Un poco di freddo in più, o un poco
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di caldo in più, cui va posto rimedio. Tutti i disgusti portati al corpo da varie sensazioni attraverso i cinque
sensi. Le disagevoli posizioni fisiche in cui possiamo trovarci, da cambiare appena possibile. Ecc., ecc..
I disagi non gravi che ci possono essere causati dalle cose.
Cose che non sopportiamo di avere vicino, di vedere, di dover toccare, ecc., ecc..
I disagi non gravi che ci possono essere causati dagli animali.
Animali la cui vicinanza o la cui vista ci pongono in leggera difficoltà.
I disagi non gravi che ci possono essere causati dalle persone.
Pensiamo a quante motivazioni di fastidio ci fanno agire, o parlare, per evitare le infinite situazioni
fastidiose causate direttamente a noi da altre persone.
I disagi non gravi che ci possono essere causati da luoghi, visioni, immagini.
Tutto fastidioso da evitare agendo con motivazioni di fastidio.
I disagi non gravi che ci possono essere causati dalle fatiche da fare.
In generale, tutte le fatiche che consideriamo, in più, rispetto a quelle che normalmente dobbiamo fare.
Tutti i piccoli sforzi fisici che non accettiamo. Tutte le fatiche intellettuali troppo impegnative per noi. Tutte
le attività forzate che minacciano il nostro ritmo di vita. Ma proviamo disagi, anche all’interno di tutto
quello che dobbiamo fare tutti i giorni.
La storia dell’uomo è stata anche una storia di invenzioni tese ad alleviare, o annullare, quelle piccole
fatiche che in passato dovevamo sopportare. Quindi oggi compriamo molti apparecchi che quotidianamente
ci aiutano (fastidio).
I disagi non gravi che ci possono essere causati da situazioni o condizioni.
Specialmente quando ci troviamo a doverle sopportare in casi in cui vi restiamo impigliati; o in casi che
non ci riguardano, o che non ci interessano.
I disagi non gravi che ci possono essere causati dai rimorsi e dai rimpianti.
Cerchiamo, con motivazione di fastidio, di annullarli.
I disagi non gravi che ci possono essere causati da alcuni stati d’animo o da alcune emozioni.
Situazioni d’animo personalissime, intime, che sono spiacevoli. Già sappiamo che potremo incorrervi e,
come dire?, cambiamo strada con motivazioni di fastidio.
I disagi non gravi che ci possono essere causati dalla noia.
Vi è una motivazione di fastidio quando cerchiamo di combattere questa sensazione che ci spiace sentire.
Allora facciamo qualcosa.
I disagi non gravi che ci vengono dalle incertezze prolungate sul da farsi.
Cerchiamo allora di abbreviarle dentro di noi cercando di farle terminare in qualche modo con
motivazioni di fastidio.
I disagi non gravi che ci possono essere causati dalla curiosità.
Certo, qui non si parla di quelle curiosità che vogliamo colmare perché poi le cose che avremo saputo ci
dovranno servire, fra poco, domani o in futuro, per una certa cosa che abbiamo in mente. Se sappiamo già da
ora a cosa dovrebbe servire questo tentativo di maggiore conoscenza, allora già da ora possiamo dire a quale
categoria motivazionale appartenga quel tentativo di sapere.
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Mentre vi sono anche i casi di curiosità da colmare senza sapere a che serviranno, ma pensando che
potranno esserci utili a qualche cosa. Anche queste sono curiosità del tipo preparatorio; vogliamo colmare
queste curiosità solamente per poterci muovere meglio in futuro per una qualunque cosa (intreccio di
motivazioni).
Né qui si parla di quelle curiosità che ci portano a voler aggiungere, aggiustare, consolidare conoscenze
per un semplice miglioramento intellettuale senza alcun altro scopo che questo. Il completamento di
qualcosa che è dentro di noi: motivazione di valore.
E nemmeno qui si parla della curiosità culturale, che, anch’essa, ha altra motivazione: godimento mentale
(piacere) e/o arricchimento personale (valore).
Allora, tra le curiosità, quali di esse rimangono che hanno veramente motivazione di fastidio?
Rimangono tutte le curiosità: non finalizzate. Quelle che sono da colmare, solo proprio, per sé stesse. La
curiosità per la curiosità.
Una madre torna a casa premendo una mano su una tasca rigonfia. Ai suoi cinque figli dice: “Non è per
voi”. Tra i figli, due già pensano ad altro; altri due vorrebbero sapere di che si tratta ma niente son disposti a
fare per saperlo; uno solo vuole proprio sapere. Interroga la madre (fastidio). Più tardi fa altri tentativi
(fastidio). Di questo tipo sono le motivazioni di fastidio causate dalla curiosità: quando ci sentiamo esclusi
da una conoscenza, e già solo per questo ci troviamo in un disagio, sia pure non grave.
Deve trattarsi di quelle curiosità, tali che l’attività che si svolge per colmarle non si possa inserire in
qualunque altra categoria motivazionale che non sia il fastidio.
Una curiosità su di un modo di fare di un altro? Su di un orologio? Sui gradi di temperatura che ci sono?
Su di un libro? Su di un ragazzo? Come facciamo a capire quando è una curiosità che non ha altre finalità
che se stessa (fastidio)?
Ebbene, allora, proviamo a domandarci: “Se non avessi colmato questa curiosità, che mi sarebbe
successo? Quali conseguenze, a parte il piccolo disagio che sarebbe rimasto?”. Se ci risponderemo: “Niente,
nessuna conseguenza”, in questo caso, c’era stata una motivazione di fastidio. Una conoscenza che non ci
serviva a niente. Sì, come conseguenza ci potranno anche venire delle informazioni utili, ma non era stata
quella la motivazione. Chiediamo, guardiamo, tendiamo l’orecchio: è come un prurito da dover grattar via.
E tutto quello che faremo, o diremo a questo scopo avrà motivazione di fastidio. Sapere non ci serviva a
niente, c’era solo un fastidio da toglierci.
■ FASTIDI STRETTAMENTE PERSONALI
La categoria del fastidio combatte miriadi di fastidi particolari – personali.
Si tratta di fastidi che da altre persone potrebbero anche non essere considerati tali; sono fastidi, proprio
nostri, particolari.
In questo punto abbiamo appuntamento con la signora Rossi. Eccola in
nostro aiuto.
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Inizia: “Sì, vi porto qualche esempio di mie motivazioni di fastidio, qualcosa che mi è capitato veramente.
Non c’è stata alcuna difficoltà a trovarne. C’è solo in me un po’ di ritegno nel dover dire cose mie.
Vediamo: colta al volo, proprio oggi, stavo andando dal Meccanico per riparare l’automobile quando ho
deciso di rimandare, perché avevo sul sedile posteriore un vestito nuovo: avrebbe chiesto, avrei dovuto
rispondere: in me, lo so, motivazione di fastidio.
Nel portafoglio io metto i soldi in ordine crescente. Quando mi accorgo che sono in disordine, li riporto al
loro posto: motivazione di fastidio.
Negli ultimi tempi, ho lasciato a metà una bevanda che aveva il sapore agrodolce che a me non piace.
Per scrivere sul mio diario personale ho cambiato la penna che mi faceva faticare.
Sono andata via dalla compagnia di una persona che stava ricominciando a propormi i soliti ricordi che
non mi interessano.
Ho fatto un po’ di ordine nella mia stanzetta.
Lasciare la bevanda, cambiare la penna, andare via dalla persona, fare un po’ d’ordine: motivazioni di
fastidio.
Dopo aver usato la forbice per un certo tempo, ormai ho capito che è meglio piegare il materiale.
Scegliere un fastidio minore rispetto ad un altro: è una modalità avente motivazione di fastidio.
Da sempre, mi mette a disagio la vicinanza degli uccelli; non è paura, ma mi allontano: motivazione di
fastidio.
Giorni fa, avendo pensato di lavare due stanze di casa, con un calcolo di fastidio, scelsi di lavare prima
quella più grande. Scegliere di incontrare il disagio più grande, prima, o viceversa: è una modalità avente
motivazione di fastidio.
Quando mi tiro su certi pantaloni, non è per sembrare meglio ma perché mi danno impaccio: motivazione
di fastidio.
Quando vado in un certo posto, mi fermo molto prima, per evitare l’incontro con una persona che mi
chiede sempre quello che non gli spetta: modalità avente motivazione di fastidio.
Avevo una tormentosa incertezza: in quale squadra andare? Mi sono costretta a decidere subito, per far
terminare quello stato d’animo: modalità avente motivazione di fastidio.
C’era sicuramente motivazione di fastidio quando chiesi a mia sorella di farmi delle pratiche burocratiche
che mi seccavano. Ed anche quando le chiedo di salire in soffitta al posto mio.
Ogni due giorni mi cambio le calze: motivazione di fastidio.
Spesso prendo con me, se devo andare al Bar, delle persone, solo perché, in verità, mi spiace di andarci da
sola; non lo faccio per alimentare il rapporto con queste persone; nel mio caso, è così: è una modalità avente
motivazione di fastidio.
Ogni volta butto via tutto quello che rimane delle cose di poco prezzo che utilizzo; al contrario di altri che
le conservano: in me, motivazione di fastidio.
Dico: “Voglio togliere quella macchia dal muro”, eppure gli altri non la vedono: in me, motivazione di
fastidio.
Basta. Senza essere pagata, ho cercato di fare del mio meglio”.
Se ne va la signora Rossi.
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Le situazioni del genere sono una varietà immensa che ci muove di continuo.
Ma tutto l’egoismo ci muove di continuo.
Tutti siamo affezionatissimi a noi stessi e non potrebbe essere diversamente.
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FUORI
DALL’EGOISMO
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■ LE DUE CATEGORIE FUORI DALL’EGOISMO
Si è fuori dall’egoismo, mossi da due categorie di motivazioni: altruismo e socialità (onestà e giustizia).
Se la motivazione non è egoistica, non può che rientrare in una di queste due categorie.
Per altruismo, o socialità, viene cercato un risultato a favore di altri.
■ QUALCOSA DI DIVERSO
Il vocabolario definisce l’altruismo: “Nobile propensione dell’animo che muove alla ricerca del bene
degli altri”. Infatti, normalmente, quando si parla di altruismo si intende parlare del complessivo modo di
essere di una persona. Invece qui si dirà, altruismo, soltanto per identificare: una, singola, motivazione,
momentanea.
Per quanto riguarda l’onestà e la giustizia che fanno parte della categoria della socialità, non andremo a
vedere in quale modo il vocabolario le definisca, perché sono parole che hanno, ed hanno ricevuto sempre,
innumerevoli significati.
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L’ALTRUISMO
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■ COSA PUO’ ESSERE ALTRUISMO
Sono, di altruismo, tutte quelle motivazioni con le quali vogliamo fare qualcosa di buono per gli altri.
Il nostro scopo assoluto è un’altra persona, o altri.
Loro hanno preso possesso temporaneamente del nostro animo.
E quindi le motivazioni altruistiche sono sicuramente fuori dall’egoismo.
Possono avere motivazione di altruismo, sia due parole, e sia quattro passi.
Di altruismo, un sorriso, un discorso, un tacere, facilitare una situazione, dire una cosa prima di un’altra,
partecipare ad una difficile missione.
Non sarà difficile capire che possono essere della stessa categoria motivazionale indicare un posto ad uno
sconosciuto che non ce l’aveva chiesto (altruismo) e rischiare la vita per lui (altruismo).
L’altruismo aiuta gli altri nelle loro quattro esigenze egoistiche. Infatti aiuta un altro a star meglio
fisicamente, interviene a sollevare momentaneamente il valore di un altro, regala cose piacevoli ad un altro,
toglie ad un altro le cose fastidiose. Inoltre, l’altruismo cerca di inculcare negli altri, e specialmente nei
piccoli, se stesso e la socialità.
Spesso vogliamo fare qualcosa per qualcuno, perché in quel momento ci ha fatto un po’ pena, per qualche
ragione.
Ma spesso vogliamo anche fare qualche cosa per qualcuno, pur sapendo che quello che noi facciamo è
una cosa superflua rispetto ai suoi bisogni più vivi: nella nostra motivazione altruistica, pensiamo che è
sempre una cosa buona che riceve da noi; la userà, la consumerà, se la troverà; e anche se sul momento non
userà quella cosa o non vorrà seguire quello che abbiamo consigliato, può darsi che poi successivamente
giunga ad apprezzarlo.
Una motivazione di altruismo può rivolgersi verso una persona. Verso più persone. Verso la propria
famiglia. Verso la propria squadra. Può rivolgersi verso gruppi di persone. Perfino verso una persona
qualsiasi a cui capiterà. Verso un’Associazione. Verso un Ente. Può tentare di spingere le cose verso un
obiettivo che si pensa possa andare a favore di tante persone indefinitamente. Può rivolgersi verso il proprio
Villaggio. Verso lo Stato.
Da parte di un piccolo uomo si può voler dare un piccolo aiuto alla propria Comunità, né bisogna pensare
per forza solo ai grandi gesti, ma si può anche pensare alle piccole intenzioni che ognuno di noi può avere
per il migliore funzionamento anche di una piccola cosa: ciò che ci è venuto liberamente in testa, per aiutare
un poco le cose, pur nel nostro piccolo.
Una motivazione altruistica può anche voler andare a favore di tutto il genere umano.
Ci può essere altruismo anche a favore degli animali, esseri che come noi possono trovarsi in difficoltà e
quindi possono essere aiutati in mille modi.
E se quella persona, questo altruismo, non lo avesse voluto?
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Ebbene, se dobbiamo identificare la motivazione, conta solo la nostra intenzione.
■ L’ALTRUISMO E’ MOLTISSIMO
Lo strapotere dell’egoismo è un fatto naturale: viviamo sempre con noi, e non con gli altri. A chi volete
che pensiamo?
Comunque, la capacità di altruismo, in noi, è grandissima.
Nell’animo umano si trovano gli oceani dell’egoismo, ma si trovano anche i mari dell’altruismo. I nostri
altruismi, piccoli o grandi, interrompono molte volte il naturale corso dell’egoismo.
Continuamente motivazioni altruistiche si rivolgono verso i componenti del
nostro nucleo familiare; ci si aiuta l’un l’altro; in special modo dai genitori ai figli.
Fuori della famiglia moltissime motivazioni di altruismo si rivolgono verso le persone che ci circondano.
Spessissimo diamo un aiuto alle persone che conosciamo, fosse pure con una parola. Questi movimenti di
altruismo sono innumerevoli, a favore di tante persone. Vogliamo fare qualcosa per loro, poco o molto.
Sono tantissimi gli aiuti che cerchiamo di dare a conoscenti e amici.
E, a volte, interveniamo anche a favore dei cosiddetti, perfetti estranei.
Molti altruismi, poi, non sono capiti, ed anche questi sono tanti.
Vediamo sempre, preponderante, l’egoismo, ma l’altruismo ha grande presenza nei nostri animi. Chi più,
chi meno, pensiamo a qualcosa di buono per gli altri, o lo facciamo là per là.
E se molti non saranno d’accordo con questo discorso, è solo perché pensano solamente al grande
altruismo, senza sapere che, altruismo, è, ugualmente, quello, piccolo, momentaneo, minuto, di tutti i
momenti.
Dopo aver guardato bene, ci accorgeremo di, quante e quante, spesso nascano dentro di noi, motivazioni
altruistiche: distinguibilissime.
Eppure, di quando in quando, spunta fuori un celebre scrittore o un amico riflessivo a dirci che negli
uomini l’altruismo è solo egoismo mascherato che cerca forme più rispettabili.
Non possiamo dare loro ascolto. Queste persone, è vero, intuiscono che tanta parte di altruismo, pubblico
e privato, non è altro che egoismo travestito, ma, vedendo questo, arrivano alla conclusione sbagliata che
non esiste alcun altruismo. Sarebbe bastato loro guardare un po’ attentamente proprio dentro se stessi.
Alla fine, sono, molte, le persone che veramente non credono ad alcuno altruismo. E, tanti, vi sono,
purtroppo, genitori, che portano i loro figli a pensare questo.
Noi, però, non possiamo dare loro ascolto perché, guardando con attenzione, troviamo, anche dentro di
noi, tante motivazioni di altruismo.
Come si fa a non vedere quante cose si fanno, o si dicono, a favore degli altri?
Come si fa a non vedere quanto altruismo all’improvviso agisce, senza speranza di compenso, né di
reciprocità?
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Per grandi e piccole cose.
■ ANCHE COSTO ZERO
Una motivazione altruistica può costarci molto. Può costarci poco. Può costarci nulla. I costi personali qui
non interessano.
INTERLOCUTORE – Sì: ma che altruismo è, quando non ci costa niente? Grazie che uno è altruista.
AUTORE – Qui, però, questa considerazione non interessa.
INTERLOCUTORE – Ma quale considerazione? Allora, così, tutti sono buoni. E’ mai possibile? Se si fa
del bene a qualcuno, è perché si fa uno sforzo. Insomma ci deve costare qualcosa fare del bene a qualcuno.
Se no, così: non ci sono più persone buone e persone cattive. Che diamine, lo sanno tutti questo. Sarebbe
comodo fare il bene, seduti in poltrona con la pipa in bocca. Allora sarebbero tutti, persone buone.
AUTORE – Non contano i costi personali in questo discorso. Conta solo individuare la motivazione.
INTERLOCUTORE – Non sono d’accordo e non mi piace. E non sono d’accordo nemmeno quando
chiamate, altruismi, le cose che si fanno alle persone di famiglia.
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LA SOCIALITA’
ONESTA’ E GIUSTIZIA
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■ LE REGOLE SOCIALI
In ogni tempo, in tutte le Comunità umane, i consociati rispettano reciprocamente, l’uno verso l’altro, le
regole primarie. Quasi sempre inconsciamente.
Queste regole, dalla prima Comunità in poi, sono sempre le stesse. Stabiliscono doveri e corrispondenti
spettanze. Non rispettarle porta il consociato a diventare disonesto.
Sono immutabili ed indiscusse.
“Io ho fatto male, ma gli altri bambini non devono picchiarmi. Mi spetta”: è la regola della integrità.
Integrità fisica.
Ma anche integrità morale.
“Io voglio andare verso casa. Mi spetta. I compagni non devono rallentarmi”: è la regola della libertà.
Libertà fisica.
Ma anche libertà spirituale.
“Ho staccato questo rametto dall’albero. È mio. Mi spetta. Nessun bambino deve togliermelo”: è la regola
della proprietà.
Proprietà concreta.
Ma anche proprietà ideale.
“Ho rotto il secchio. Sono stato io. Devo dirlo, io, a papà. Agli altri fratellini spetta che dica di essere
stato io, ed a papà spetta che io tenti di aggiustarlo”: è la regola della responsabilità.
Ma, in questa regola primaria, responsabilità: non nel senso generico per cui ognuno deve essere
responsabile, ma solo in un senso specifico: quando si fanno cose non buone: due doveri: bisogna
riconoscere di essere stati, noi, la causa, senza dare la colpa agli altri, e, contemporaneamente, bisogna
pensare a riparare.
“Ieri la mamma ha raccontato la fiaba a mia sorella. Stasera spetta a me. Lei deve raccontarla a me”: è la
regola della distribuzione.
Distribuzione: di pesi o di pene, di cose piacevoli o di gioie, in parti uguali; o in parti disuguali secondo il
merito; o in parti disuguali secondo il bisogno. Quanto più è possibile. O meno disuguale possibile.
Distribuzione di beni o di pesi concreti.
Ma anche distribuzione di beni o di pesi morali-psicologici.
“I cuginetti sono arrivati dopo di noi. A noi spetta giocare, per primi. Loro devono aspettare”: è la regola
della precedenza.
Precedenza fisica.
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Ma anche precedenza ideale.
“Con la bimba abbiamo scambiato la bambola col carrettino. Abbiamo detto: per un giorno. Lei ora mi ha
dato il carrettino ed a lei spetta che io non tenga più con me la bambola”: è la regola dell’accordo.
Accordo verbale, o solo implicito, o solo ideale.
Quindi, le regole primarie sono: integrità, libertà, proprietà, responsabilità, distribuzione, precedenza,
accordo.
Stabiliscono che ad ognuno si debba quello che gli spetta.
Stabiliscono per tutti quello che è onesto e quello che è disonesto.
Piccolissimi, già siamo dotati, in alcuni momenti, di un vantaggio sugli altri: a noi spetta.
Queste regole vengono apprese nei primissimi anni di vita.
Immediatamente i genitori correggono le infrazioni alle regole primarie fatte dai loro bambini. E questi
imparano facilmente e per sempre.
I genitori dicono: “E’ così”.
Poi, davanti casa, le prime esperienze confermano queste regole, mostrandoci come esse siano dovunque,
per tutti.
Per cui poi i primi libri di scuola, ritenendole già acquisite, non ne parlano.
Queste regole primarie, apprese in tenerissima età, rimangono per sempre,
per tutta la vita, l’orientamento dovuto in ogni tipo di comportamento che coinvolga anche gli altri.
Istintivamente, per tutta la vita, noi, senza saperlo, avremo sempre in testa le regole primarie che ci limitano
a favore degli altri. Ci atterremo ad esse, senza rifletterci.
Le regole primarie valgono solo nei rapporti tra le persone, pari tra di loro.
Nell’età della pietra o sotto i grattacieli, agiscono solo tra le persone che si considerano uguali.
Quindi non agiscono in alcuni rapporti: là dove c’è differenziazione sociale fra uomini e donne, uomini e
schiavi, persone di una religione e di un’altra, di una razza e di un’altra, di una casta e di un’altra, ecc., ecc..
Nella prima Comunità, quei cinque trogloditi capirono subito che un’unione sarebbe stata possibile, solo
se si fossero riconosciuti uguali.
Quindi l’uguaglianza è la condizione delle regole primarie.
Nei rapporti in cui essa manca, le regole primarie impallidiscono e scompaiono.
Per questo non troviamo l’uguaglianza tra le regole primarie: lei non è una di esse. E’ sopra di esse.
L’uguaglianza è il loro sole. Le regole primarie sono le regole degli uguali, e la loro giustizia può essere
possibile solo sotto il sole dell’uguaglianza.
Le regole primarie, questa importantissima realizzazione dell’uomo, sono universali.
Apprese da noi all’interno della nostra particolare Comunità, estendono i loro effetti ai rapporti con
chiunque. L’insegnamento, uguale, è stato dato in tutte le Comunità. E possiamo vederlo, in pratica, con
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qualunque persona di qualunque parte del mondo. Ciò, meno nel caso in cui la cultura di una particolare
Comunità sia così primitivamente chiusa al mondo esterno, che le regole primarie possono anche non essere
completamente rispettate nei confronti degli stranieri.
Al di là di una simile eccezione, quello che abbiamo appreso e che ci condiziona nel nostro contesto
comunitario, è automaticamente operante in qualunque altro luogo della terra dove possiamo venire a
trovarci. Le regole primarie valgono nei confronti di qualunque persona straniera che dovessimo incontrare.
In un orrido deserto di un altro paese, nei confronti di quella persona che si sta avvicinando, in una foresta
lontano da casa, nei confronti di quell’uomo strano che sta seduto su di un ramo di un albero, sopra una
cascata dall’altra parte del mondo, nei confronti di quella donna che sta di sotto.
E, se ci capita, rimproveriamo subito un individuo di qualsiasi altro Continente per non aver rispettato col
suo comportamento il principio di una regola primaria. Né ci passerebbe mai per la testa che quello non
capisca le ragioni del rimprovero.
E’ infinito l’ambito dei comportamenti dettati dalle regole primarie.
Infiniti casi, infinite situazioni.
Quando ci sentiamo stretti dal senso del dovere, e là non ci sono leggi o regolamenti che regolino quella
situazione, allora sicuramente ci troviamo sotto una regola primaria.
Si pensi a quali e quante occasioni interpersonali sono coperte dalle regole primarie, facendoci pensare in
termini di onestà o disonestà.
Infinite, le diverse applicazioni che di esse si fanno o si invocano. Infinite applicazioni: ancora di più, se
si pensa che le spettanze riguardano non solo i vantaggi materiali-concreti, ma anche i vantaggi morali-
psicologici.
Inconsce ed infinite sono anche le valutazioni interpretative che adottiamo nei casi concreti.
Infinite interpretazioni spontanee, di qualcosa che è nella testa di tutti.
Ora, mentre certe volte applicando una regola primaria, come dire?, abbiamo in testa anche il suo nome,
invece, molte volte, accade che una regola primaria si imponga, senza che nemmeno noi immaginiamo che
in quel momento stiamo applicando una regola. Tantissime volte ogni giorno abbiamo di fronte, o contro,
altre persone con cui parliamo, o litighiamo, verso le quali cerchiamo di affermare, senza saperlo, il
principio di una regola primaria.
La regola primaria viene obbedita da noi moltissime volte, assolutamente inconsciamente: in questi casi
noi non sapevamo di aver seguito una regola primaria: “Ma è naturale!”: diremmo.
Dirige i nostri comportamenti e quelli degli altri; ancora di più quando capitiamo faccia a faccia. Tutti ci
regoliamo come se fossimo programmati automaticamente con quelle regole.
Ne siamo così pervasi che, se vi obbediamo più volte in una giornata e ci dicessero che abbiamo fatto
questo nei confronti degli altri, noi quasi sempre risponderemmo: “Io? Non me ne sono accorto”. E così
nelle agitate discussioni con gli altri, le regole primarie sono i principi a cui, spesso senza saperlo,
cerchiamo di riferirci. Insomma, nell’onestà e nella giustizia ballano spesso alcune di queste sette regole,
quelle, e non altre.
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Le regole primarie? Solo il gioco delle motivazioni (non ancora trattato) potrà scoprire completamente
quanto comandino dentro di noi, perché esse, ben presenti e nominate in alcuni casi, nella maggioranza dei
casi sono seguite senza che ce ne accorgiamo minimamente. O anche, nei casi minimi, sono scambiate con
la buona educazione con cui non hanno niente a che fare: qualcuno finisce per ringraziare noi, che, invece,
avendo seguito solo il nostro dovere, non andavamo ringraziati.
Poi, quando, fra due persone, uno dei due non nota che possa valere anche in quel caso una regola
primaria, basta che l’altra persona la citi, perché essa riemerga subito fra i due: col suo nome. Poi tale regola
potrà anche essere considerata non applicabile al caso concreto, ma, mai, la sua propria autorità sarà messa
in dubbio.
Le regole primarie legano tutti i consociati in una immensa rete di regolazione.
Alcuni casi trovano dentro di noi regolazione, perché certe volte concediamo inconsciamente una larga
estensione ideale all’essenza di una regola primaria. In certi casi obbediamo ad una regola primaria, perché
nel nostro animo quella regola è arrivata a coprire anche quella situazione, lontanissima dalle sue
applicazioni più consuete. La vita presenta casi così vari, che per alcune situazioni non esisterebbe alcuna
norma, e non si saprebbe come comportarsi con gli altri, se nel nostro animo non si operasse, come dire?, un
allungamento di una regola primaria. Lo spirito invisibile di qualche regola primaria, ritenendo di dovere
essere presente anche là, ci mostra come deve essere un nostro comportamento in quel caso concreto.
Caso estremo: le regole primarie sono così forti che, sia pure in rari casi, si sente nel nostro animo che, in
quel caso particolare, la legge o il regolamento sono stati troppo benevoli verso di noi e allora pensiamo,
come dire?, di pagare di più, in base ad una regola primaria che si fa sentire più severa.
Caso estremo: le regole primarie sono così forti che, sia pure in rarissimi casi, se si è restati senza alcuna
punizione, si sente di doversi punire da soli. Chi ha ucciso senza essere stato scoperto, chi si è ingiustamente
impossessato di preziosi beni, chi ha tenuto chiusa in una camera una persona per anni, ecc., ecc., se si
ritrova poi dentro di sé un’anima che, nel frattempo, ha perso la cattiva scorza, può succedere che desideri,
sia pure fra tante incertezze, darsi una punizione: e qualche volta è veramente successo. Ebbene, qui non è
una legge o un regolamento a provocare questo, ma è una delle regole primarie, da sola. Assolutamente una
regola primaria; anche se poi alcune volte si ricorre proprio alla legge per farsi punire: ma ricorrere alla
punizione della legge è solo, uno, tra i mezzi che si possono scegliere.
Spesso qualcuno ha affermato: “Comunque, ognuno, dentro di sé, sa perfettamente, cosa è giusto e cosa
non lo è”: e si è riferito senza saperlo alle sette regole primarie.
Alle regole primarie si aggiungono le leggi ed i regolamenti.
Le regole primarie e le leggi si mescolano in un tutto unico: le regole sociali.
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Le leggi, orali o scritte, portano con sé anche i loro doveri, in aggiunta a
quelli delle regole primarie.
Però, diversamente da queste, le leggi ed i regolamenti portano anch’essi, sì, doveri verso le altre persone,
ma portano anche doveri verso la Comunità e le sue Istituzioni.
Ora, le leggi della nostra Comunità si imprimono nel nostro animo con la stessa forza delle regole
primarie. Nell’animo di tutti, le leggi ed i regolamenti, valgono quanto le regole primarie. Valgono quanto
quelle, perché ognuno, anche se non lo ha mai pensato distintamente, saprebbe bene che sia le leggi e sia le
regole primarie hanno identiche funzioni. Fin dalle prime Comunità ridussero la rissosità e regolarono la vita
degli individui; ma in questo modo, indirettamente, servirono anche a rendere la Comunità più compatta e
più forte contro quegli agenti, interni ed esterni, che avrebbero potuto distruggerla. Ed anche oggi servono
agli stessi scopi; anche se lo scopo della stessa sopravvivenza della Comunità non si vede più con chiarezza;
se non nelle Comunità più piccole.
Appena siamo un po’ cresciuti, siamo preparati a dover rispettare tutte le regole sociali: sia quando si
presentano come regole primarie, e sia quando si presentano come leggi.
Regole primarie e leggi diventano un corpo unico. Un’unica torta. Un completo amalgama.
Ed anche quando qualcuno vuole mostrare di basarsi, nei rapporti con gli altri, solo sulle regole primarie,
alla fin fine ciò non sempre è vero. “Qui da noi basta solo una stretta di mano” (accordo). Lo proclamano
orgogliosi. Ma non appena sospettano di non poter ricevere il dovuto, ecco che subito vanno a ricorrere alle
leggi.
Le regole primarie che sono universali si mescolano completamente con le leggi ed i regolamenti che
sono locali. Si mescolano nell’unico fiume delle regole sociali, che scorre nel nostro animo con tutte le sue
acque, ormai indistinguibili tra di loro. Le regole universali non si distinguono più dalle leggi locali.
Tutte, sono regole sociali.
Nell’ambito del complesso delle regole sociali, le regole primarie restano impresse nell’animo di tutti,
nello stesso modo. Nessuno mai nel suo animo le sminuisce o le critica e, incredibilmente, non c’è un solo
cittadino del mondo che non le consideri: assolutamente indiscutibili. Si possono solo eludere. Esse
rimangono intatte, marmoree, senza alcun graffio che si possa portar loro.
Invece, ci potranno essere alcune leggi che noi in qualche modo critichiamo.
Critichiamo le leggi stupide, le leggi sorpassate, o le leggi inadeguate per nostri personalissimi modi di
vedere. E soprattutto critichiamo le leggi ingiuste. Ci devono essere, lo sappiamo, le leggi che danno un
vantaggio al Capo, oppure ad una parte dei consociati, ma, quando ci sembra che ciò è stato deciso non per
il bene di tutti ma per interessi egoistici di qualcuno, ecco che consideriamo, ingiuste, quelle leggi.
Ora, sia queste critiche, sia l’odio e il disprezzo delle leggi che possono esistere nell’animo di qualcuno,
sia il disgusto per alcune di esse che ci ostacolano, sia il nostro non volere sottometterci ad errate negative
applicazioni di esse nei nostri confronti, sia l’avere annullato nel nostro animo qualche legge per noi
sbagliata: tutto questo, non va confuso col riconoscimento della loro legittimità.
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Il riconoscimento della loro legittimità c’è sempre.
Le leggi particolari della propria Comunità vengono considerate legittime anche dalle persone più
asociali; anche se queste persone le odiano e le infrangono continuamente. Nessuno nel suo animo
disconosce, proprio nei confronti di se stesso, la legittimità delle leggi e dei regolamenti della sua Comunità.
Implicitamente le consideriamo, le nostre leggi.
Diversa è la situazione in cui ci dovessimo trovare, di passaggio o per poco
tempo, al di fuori della nostra Comunità, presso un altro Paese. In questo caso speciale le leggi di quella
Comunità, non sempre le consideriamo legittime anche per noi; invece dentro ci resteranno, intatte, le regole
primarie che puntualmente regoleranno il nostro comportamento con quegli stranieri.
Perché, infine, nessuno disconosce le leggi della sua Comunità?
Ebbene, agisce su di noi la regola primaria dell’accordo, e le garantisce.
Ebbene, è proprio una regola primaria a legittimare nei nostri animi le leggi ed i regolamenti della nostra
Comunità: la regola primaria dell’accordo.
C’è un accordo inespresso che è implicito nel nostro comportamento.
Sentiamo che un accordo c’è. Proprio perché sentiamo questo, ci sentiamo obbligati in qualche modo. Le
leggi ci sono e sappiamo che ci sono anche per noi.
Se a me non piacessero le leggi della mia Comunità, potrei sempre andare in un’altra Comunità. E se non
mi piacessero neanche là, in un’altra Comunità ancora.
E poi, anche se non lo penso distintamente, nessuno mi impedirebbe di andare a vivere, da solo, fuori da
qualunque Comunità. Nella foresta più intricata, sulla montagna più alta, o in un profondo deserto.
Ed invece resto qua, nella mia Comunità. Anche se non lo penso distintamente, lo voglio. Ma, se, io, resto
qua?
Non è forse vero che dalla Comunità ho ricevuto le strade e la luce di sera? Non è forse vero che la
Comunità mi ha protetto da altri che volevano farmi prepotenza?
Allora io non posso considerare, legittime, tutte le leggi da cui ho ricevuto del bene e, non legittime, altre
leggi. Non è forse vero che è come se avessi un accordo con la Comunità stessa?
Come dentro ad un Ristorante dove già mi avessero servito alcune pietanze, e dove io resti a sedere.
■ QUATTRO POSSIBILITA’ MOTIVAZIONALI
Le regole sociali ci vengono di fronte poco prima di fare una cosa, o di dire una cosa. Oppure già nel
momento in cui cresce nel nostro animo un’intenzione.
La Comunità ce le pone davanti molte volte al giorno. Quante volte?
Certamente più volte in città, che non in campagna ; più volte in un grande Ufficio, che non su di un Faro.
Ogni volta che incontriamo una regola sociale, il nostro animo può darle quattro possibili risposte: una
motivazione egoistica deviante, una motivazione egoistica che rispetta la regola, una motivazione di onestà
o una motivazione di giustizia.
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La risposta dipende, prima di tutto, da come viene da noi sentito il costo della regola: noi sentiamo
indifferenza o contrarietà ad esso?
La nostra contrarietà può derivare dal fatto che la regola sociale è gravosa, o è insopportabile, o noiosa, o
perché ci impedisce di fare altre cose, o di godere di altre cose, oppure dal fatto che ci procura ritardi, ecc.,
ecc..
Attenzione: se nel costo della regola noi non sentiamo alcuna contrarietà, c’è una sola possibilità: una
motivazione di onestà: rispetteremo la regola. Se invece noi avvertiamo un poco di contrarietà nel costo
della regola, allora ci potrà essere una delle altre tre possibilità: o la motivazione egoistica deviante, o la
motivazione egoistica che rispetta la regola, o la motivazione di giustizia.
Ed ancora attenzione: solo l’onestà e la giustizia vogliono veramente rispettare le regole sociali e quindi
appartengono alla socialità, mentre l’egoismo deviante e l’egoismo che rispetta la regola appartengono
all’egoismo.
Tutto questo è nel nostro animo e, guardandovi dentro bene, vedremo anche noi queste quattro strade.
■ LA MOTIVAZIONE EGOISTICA DEVIANTE
Le regole sociali?
Si rispettano e non si rispettano.
Fanno continuamente parte della nostra vita. Con esse abbiamo un rapporto elastico.
Alcune regole non si rispettano; altre sì. La stessa regola, alcune volte non si rispetta, altre volte, sì. Certe
volte si rispetta una regola fino ad un certo punto, altre volte fino ad un altro punto; una parte della regola,sì,
un’altra parte, no. Nella stessa giornata, si rispetta una regola che è molto onerosa e si trasgredisce un’altra
che è facilissima da rispettare. Ci si fissa a rispettare ostinatamente una regola e se ne trasgredisce
tranquillamente un’altra uguale. Tutto ciò in modo discontinuo ed incoerente: come quei bambini piccoli
che si rincorrono confusamente l’un l’altro. Con le regole sociali ci prendiamo e ci lasciamo, come capita, in
modo spensierato. Ma perché, in modo spensierato?
In modo spensierato perché, quando dentro di noi sentiamo contrarietà al costo della regola, allora spesso
non rispettiamo la regola, senza porci alcun problema, quasi automaticamente, senza pensarci troppo. Con le
regole sociali abbiamo a che fare continuamente, ci sono familiari: esse non ci guardano severamente. Le
incontriamo troppo spesso perché da noi si possa dare loro l’importanza che meritano. Con esse sappiamo di
poter scherzare e, quando vogliamo, ritorniamo seri; un minuto dopo sappiamo di potercene distaccare senza
che succeda niente. E’ naturale allora che, quando ci si presenta anche solo una minima contrarietà per il
costo contenuto in una regola, allora spesso la cosa non ci sta bene. Un nostro interesse egoistico particolare
ci motiva a non rispettarla. La sfuggiamo. La evitiamo. La infrangiamo. Non vogliamo sopportare la
contrarietà che sentiamo. Dobbiamo pensare a noi. Senza rispettarla, vogliamo pensare a noi. Facciamo
diversamente da quanto essa prescrive: una motivazione egoistica deviante.
Se riconosciamo di aver infranto una regola, pensiamo, o diciamo:
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“Non esageriamo”. “Non potevo fare diversamente”.
“Tutti fanno così”. “Mi scocciavo”.
“Mi dispiace ma dovevo pensare prima a noi”. “Ma chi se ne importa!”.
“Non fa niente, lo farò la prossima volta”. “Nessuna conseguenza per nessuno”.
“Non sono mica scemo!”. “Avremmo voluto ma non abbiamo potuto”.
“Dovevo pensare a me”. “Che fa? Una volta tanto!”.
“Dovevo badare anche a quella quisquilia?”. “Ho le mie cose da fare”.
“Ci sarebbe voluto troppo tempo”. “Non mi interessa proprio!”.
“Nessuno; proprio io?”. “Mi dovevo fermare?”.
“Sono stato messo, in queste condizioni!”. “Non me ne sono proprio accorto”.
“Era inutile” “E’ una cosa piccolissima”.
Hanno prevalso motivazioni egoistiche devianti.
Esse sono dell’egoismo, ma è stato necessario trattarle qui.
■ LA MOTIVAZIONE EGOISTICA CHE RISPETTA LA REGOLA
Anche qui abbiamo sentito una contrarietà al costo della regola sociale. Però qui rispettiamo la regola. Ma
non ha prevalso la regola stessa come sembrerebbe; ma, anche qui, un interesse egoistico.
Anche se vogliamo rispettare la regola, la motivazione è una motivazione egoistica. E’ un interesse
egoistico che si presenta. Istantaneamente impone l’alt alla contrarietà che abbiamo sentito: la zittisce e ci
motiva a rispettare la regola.
Quindi, in questi numerosissimi casi, siamo visti dagli altri rispettare la regola, ma dentro di noi c’erano
spinte egoistiche. Ci è convenuto fare così per una ragione o per l’altra. E questa ragione o quell’altra: sono
le vere motivazioni, e non la volontà di rispettare la regola, cosa che, né prima né dopo, ci ha mai sfiorato la
mente. Questa ragione o quell’altra, e tante altre: sono loro che abbiamo in testa quando in questi casi
andiamo a rispettare la regola. E quindi sono, loro, le vere motivazioni. Rispettiamo la regola ma dentro di
noi non c’è stato alcun rispetto per essa. Ha solo prevalso un interesse egoistico più forte della contrarietà
sentita. Sembra che sia stata la regola sociale ad imporsi. Sembra che sia stata la regola sociale a fermarci.
Invece, in questi casi, è solo apparenza.
Fra le motivazioni egoistiche che ci fanno rispettare la regola sociale, ci vengono subito in mente i casi in
cui rispettiamo la regola solo per paura delle sanzioni e delle pene della Comunità: non vogliamo rischiare e
questo prevale (motivazione di soldi) e/o (intreccio di motivazioni egoistiche).
Ma le motivazioni egoistiche che in quel momento particolare, ci costringono a rispettare la regola sono
molte altre. Per esempio: solo perché non volevamo rischiare di danneggiare un’amicizia o un rapporto con
una certa persona (relazione) e/o (altre motivazioni specifiche). Solo perché volevamo apparire onesti: “Che
penserebbero di me?” (valore). Solo perché proprio materialmente non possiamo fare altrimenti
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(motivazioni derivanti da quegli ostacoli). Solo perché non vogliamo compromettere un’intera attività
(motivazioni di quella attività) . Solo perché sarebbe difficile farla franca (intreccio di motivazioni
egoistiche) o (una motivazione specifica). Solo perché abbiamo sempre avuto una paura sproporzionata di
trasgredire in ogni caso (una motivazione specifica) o (intreccio di motivazioni egoistiche). Solo perché non
sapremmo come fare e dovremmo sforzarci per impararlo (fastidio). Solo perché avevamo paura di altri
(fastidio) e/o (benessere fisico). Solo perché vogliamo stare tranquilli (intreccio). Solo perché non ne
abbiamo il coraggio (fastidio) e/o (benessere fisico). Solo perché eravamo in dubbio se alla fine ci avremmo
più guadagnato o perso (intreccio) o (una motivazione specifica). Solo perché ci scocciamo (fastidio). Solo
perché abbiamo una sottile timidezza verso quella persona (fastidio). Ecc., ecc..
Questa motivazione egoistica che rispetta la regola non è una motivazione di onestà; però poi succede che
molte motivazioni del genere vengono da noi considerate onestà.
Del resto, nella nostra mente tutto avviene istantaneamente. Vediamo noi stessi rispettare la regola sociale
automaticamente, senza pensieri e col sorriso sulle labbra. Vediamo noi stessi senza alcuna contrarietà,
senza alcuna sofferenza, subito aderire alla regola: sono proprio le condizioni dell’onestà: di fronte alla
regola sociale, la motivazione di onestà è l’unica che non sente contrarietà. Allora pensiamo: “Ecco, sono
onesto”.
In queste situazioni, noi non percepiamo l’interesse egoistico che ci ha fatto rispettare la regola e
nemmeno percepiamo che la sua convincente azione ci ha nascosto quella contrarietà alla regola che
altrimenti ci avrebbe fatto deviare da essa. Vediamo solo onestà.
Quindi ci consideriamo onesti e basta. Questo ci accade perché, in realtà, in
molti casi, quella in cui siamo, non è una situazione, come dire?, nuova. Infatti quasi tutti gli incontri con le
regole sociali non sono cose nuove, ma sono cose antiche.
Poche volte si presenta a noi una situazione completamente nuova, situazione su cui ragionare e decidere
veramente per la prima volta; poche volte, in una vera situazione nuova, possiamo assistere alla regolare
successione degli eventi: da una nostra necessità egoistica che ha sentito contrarietà alla regola, all’arrivo di
un altro interesse egoistico che decide, invece, per il rispetto della regola. Invece, nella maggior parte dei
casi, anche se le varie situazioni ci sembrano vissute per la prima volta, invece quel tipo di regola in quel
tipo di situazione, è ritornata a noi centinaia di volte.
In tantissimi di questi casi, tanto tempo fa, un nostro interesse egoistico ha stabilito , per quel tipo di
regola in quel tipo di situazione, la soluzione del rispetto della regola. E questa soluzione viene poi seguita
da noi automaticamente, all’apparire ogni volta di quel tipo di regola in quel tipo di situazione. A noi ora
quella soluzione può apparire nuova ed il nostro comportamento può apparire fresco ed ossequiente, ma non
è così.
Successe in passato che, all’incontro di un certo tipo di regola in un certo
tipo di situazione, pur con la voglia di eluderne il costo, decidemmo, tutto sommato, come la cosa migliore
per noi, di rispettare ugualmente la regola. E quindi oggi noi stiamo seguendo solo una decisione già presa
in passato: una volta e per sempre. E per questo reagiamo in tutti i casi simili, automaticamente; e per
questo non possiamo più sentire quello che fu sentito in tempi lontani.
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E’ chiaro allora che spesso regaliamo alla nostra onestà quello, che ancora oggi è il frutto di una già
stabilita convenienza egoistica.
In tutti i casi, si capisce che tutti noi, senza alcuna eccezione, finiamo per sentirci, molto più onesti di
quello che siamo. Ed anche normalmente di un’altra persona, di cui notiamo per caso due o tre
comportamenti che semplicemente rispettano la regola, specialmente se ci è simpatica, pensiamo subito che
è una persona onesta.
Hanno prevalso motivazioni egoistiche che rispettano la regola sociale. Esse sono dell’egoismo, ma è
stato necessario trattarle qui.
■ LA MOTIVAZIONE DI ONESTA’
Le motivazioni di onestà, rispettando le regole sociali che sono a favore degli altri o della Comunità, sono
sicuramente fuori dall’egoismo.
Si può avere una motivazione di onestà, solo quando non è stata sentita da noi alcuna contrarietà.
Con alcune regole abbiamo una grande consuetudine e le rispettiamo perché per noi sono innocue. Con
altre abbiamo continua sintonia poiché portano con sé un costo che non sentiamo. Il loro costo non ci
intralcia in alcun modo. Come respirare. Non ci pensiamo. Rispettiamo la regola sociale con una
motivazione di onestà senza farci caso. E’ tanta l’abitudine, che spesso non pensiamo di avere a che fare con
una regola sociale: la viviamo e basta; è il nostro modo di essere, il nostro modo di vivere.
Mi volgo indietro: “Ho rispettato quella regola sociale”: e non trovo altro che un mio modo di essere che
scorre fluidamente senza ostacoli. Non poteva essere altrimenti. Perché non avrebbe dovuto essere così,
considerato che io sono, così? Se non avevo alcun altro pensiero per la testa, perché non avrebbe dovuto
essere così? La mia volontà?
Certo, c’è stata: ho voluto, sia pure in una certa incoscienza, rispettare la regola sociale. Che male mi
faceva? Perché no? Cos’altro avrei dovuto fare?
Non sentiamo alcuno sforzo da fare. Anche quando ci accorgiamo di star pagando un costo, questo costo
ci appare come una cosa naturale.
Invece, tutte le situazioni dove compare un minimo di contrarietà al costo
della regola, tutte, non danno luogo a motivazioni di onestà ma portano ad una delle altre tre possibilità
motivazionali (due, già trattate).
Ma perché, senza contrarietà, si deve per forza andare a finire all’onestà?
Ebbene, qua non c’è scelta; qua non c’è l’interrogativo: questo o quello?: perché c’è solo una cosa. E lo
capiamo se ci mettiamo con l’immaginazione nell’attimo prima di essere onesti: non ci sfiora nemmeno
lontanamente il pensiero di fare diversamente o di fare qualcosa d’altro. Dentro la nostra testa non c’è
alcuna motivazione egoistica particolare. Nemmeno sotto forma di un capriccio. Nemmeno una piccola
esigenza. Nemmeno uno scherzo da fare. Nemmeno un piccolo gusto di trasgredire. A questo punto può
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esistere solo una motivazione di onestà: siamo su un binario unico che ci porta là: manca qualunque
deviazione di una qualunque, sia pure piccolissima, idea diversa. Non si ha altro in testa. Allora non si può
che rispettare la regola sociale. Ragioniamoci, è come una palla su di un piano inclinato senza ostacoli: dove
dovrebbe andare, se non giù? Perché non dovrebbe andarci? Una motivazione di onestà, come dire?, ci
troviamo, a volerla. E’ una volontà in dormiveglia. Onesti?
Quasi, scopriamo di esserlo.
Noi che ci sentiamo persone molto rispettabili obbediamo ad un
grandissimo numero di regole sociali senza mai sentire dentro di noi alcuna difficoltà, come andare in
bicicletta in discesa. E se lo notiamo, pensiamo: “E’ naturale”.
A volte, semmai, rispettiamo senza farci caso regole, che risultano agli altri troppo onerose per esser
seguite. E così può anche succedere che gli altri ci apprezzino per questi comportamenti assai onesti. E,
semmai, qualche altra volta, anche noi stessi ci rendiamo conto di essere stati onesti in modo forte, vedendo
che ne siamo restati danneggiati; eppure noi non vi avevamo sentito alcuna contrarietà, tutto ci è venuto
naturale e spontaneo. Perché l’ho fatto?
Andiamo a cercare la motivazione di questo nostro ottimo comportamento e, andando a fondo del nostro
animo, non troviamo quella così gloriosa motivazione che avremmo pensato di trovarci: troviamo, appunto,
una motivazione di onestà.
Diciamo: “Non mi costa nulla”. “E’ stato normale”. “Ci sono abituato”. Diciamo: “Allora si vede,
evidentemente, che sono una persona civile”. “Non ho sentito alcuna difficoltà”.
Tutti hanno motivazioni di onestà.
Ad un uomo pessimo, al peggiore di tutti, è capitato di aver portato, anche lui, per un tratto, il carico
pesante che si doveva trasportare. Si ferma al semaforo rosso. Terrà fede ad un accordo che ha fatto con un
contadino per avere un vino nuovo. Risponde al regolamento di aggiornamento militare. Occupa meno
spazio possibile per non intralciare altri che possono passare di là. Ma tutte queste cose non gli costano e
non ci pensa nemmeno. Tutte queste cose semplicemente fanno parte del vivere in società. Anche lui certe
volte è onesto.
INTERLOCUTORE – Allora non c’è nessuna differenza tra le persone oneste e le persone disoneste?
AUTORE – Dal punto di vista motivazionale, quando si voglia rispettare una regola sociale non sentendo
alcuna contrarietà (motivazione di onestà), chiunque sia la persona, vi è lo stesso tipo di motivazione.
INTERLOCUTORE – Non c’è nessuna differenza fra me che, poniamo, sono una persona onesta, ed altre
persone che sono disoneste? Non contano le differenze? Invece le differenze ci sono. Si sa che ogni tanto le
persone disoneste possono fare, le oneste; ma le differenze ci sono sempre. Se facciamo un esempio come se
si salisse in un palazzo, le persone oneste, prima di sentire una contrarietà alle regole, devono salire fino al
settimo piano, mentre le persone disoneste sentono contrarietà già al primo piano.
AUTORE – In queste pagine non devono entrare valutazioni di carattere etico.
INTERLOCUTORE – A me basta che dite che le differenze ci sono! Mi basta solo questo.
AUTORE – Ma per dire queste cose bisogna uscire da queste pagine.
INTERLOCUTORE – E ci uscite!
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AUTORE – E va bene, usciamo per un momento da queste pagine per dire che, è vero, le differenze ci
sono.
C’è chi, per buona educazione ricevuta o per proprie ottime elaborazioni, si trova davanti ad un
grandissimo numero di regole sociali senza sentirne alcuna contrarietà, così che il rispettarle lo considera
una trascurabile abitudine; e poi c’è chi, invece, meno disposto civilmente, in esse vede continuamente
ostacoli là dove quell’altro cammina sereno.
Insomma, c’è chi rispetta con motivazione di onestà un numero grandissimo di regole sociali; e chi ne
rispetta un numero molto minore.
■ LA MOTIVAZIONE DI GIUSTIZIA
Nelle situazioni in cui noi sentiamo una contrarietà al costo della regola sociale, ci sarà quindi o una
motivazione che devia dalla regola o una motivazione che, malgrado tutto, la va a rispettare: ambedue
motivazioni egoistiche (già trattate). Quando non sentiamo la minima contrarietà al costo, allora rispettiamo
la regola mossi da una motivazione di onestà (già trattata). Sembra di vedere un sistema idraulico
autonomamente funzionante.
Ogni tanto però accade qualcosa di imprevisto: arriva sulla scena una motivazione di giustizia. Il
tranquillo palcoscenico di quelle idilliache alternanze ne viene sconvolto. In presenza della contrarietà alla
regola, sarebbe previsto il regolare arrivo sulla scena di una motivazione egoistica, l’una o l’altra. Invece,
ecco che arriva rapida e decisa la giustizia. Si prende sulle spalle il costo da sopportare, richiama a sé la
regola e ci passa sotto rispettandola in pieno. La regola stessa, invece di esserne lusingata, ne è stupita:
“Non ce n’era bisogno: noi e le motivazioni egoistiche siamo abituate così; non c’è alcun problema: quando
loro arrivano, noi andiamo”.
La giustizia fa fatica a rispondere: “Per me intervenire è stato un dovere. Dovevo rispettare le aspettative
di altri”.
Si tratta del doveroso senso di giustizia per il vantaggio degli altri che si carica del costo della regola,
proprio là dove questo costo era una cosa che non avremmo voluto sopportare.
Ora è bene venire a sapere subito che, quando diciamo sì ad una regola sociale, le motivazioni di onestà
sono innumerevoli, mentre le motivazioni di giustizia sono rarissime. Una motivazione di giustizia? Una
volta in un mese? Una volta in un anno? Mai in tutta la vita? Ebbene, le cose stanno proprio così.
■ LE TRE CONDIZIONI
Si tratta di una motivazione di giustizia?
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Solo quando è una motivazione che è messa in moto da tre condizioni: un dovere, un guadagno voluto per
gli altri, un essere contro sé stessi (per la contrarietà da sopportare).
Il vantaggio degli altri è: voluto. Il dovere è: costringente. Il costo da pagare è: accettato.
■ UN DOVERE
Un dovere di una regola sociale si presenta a noi..
Lo dobbiamo fare, o lo dobbiamo dire. E’ un dovere particolare in una situazione particolare. Ci blocca.
■ UN GUADAGNO VOLUTO PER ALTRI
Vogliamo dare un guadagno, un vantaggio, ad altri. Abbiamo sentito un dovere. C’è una persona a cui
spetta qualcosa che noi dobbiamo darle. O più persone. O gruppi di persone. O la Comunità stessa.
Dobbiamo lasciare ad altri qualcosa di concreto, o qualcosa che spetta al
loro animo.
Anche se la persona non ci guarda, siamo noi che le andiamo incontro. Anche se lei non se lo aspetta, noi
ci prepariamo a darglielo. Anche se non è presente, noi già parliamo, o agiamo, per il suo vantaggio.
Ne abbiamo l’intenzione precisa. Diamo agli altri quello che noi dobbiamo togliere dalle nostre cose
concrete, o dal nostro animo.
Il nostro scopo assoluto è un’altra persona, o altri. Loro hanno preso possesso temporaneamente del
nostro animo.
E se la persona, questo guadagno, non lo volesse?
Ebbene, se dobbiamo identificare la motivazione, conta solo la nostra intenzione.
■ ESSERE CONTRO SE STESSI
Le motivazioni di giustizia, essendo contro noi stessi, sono sicuramente fuori dall’egoismo.
Sentendo un dovere, voler sopportare una contrarietà, accettarne le conseguenze, significa essere: contro
se stessi.
Quindi, al contrario che nell’onestà dove non si è sentita alcuna
contrarietà, non ci potrà essere una motivazione di giustizia, se non ci sarà un costo da dover sopportare.
Niente giustizia, se non saremo noi, proprio noi, ad esserne coinvolti. Niente giustizia, se non saremo noi,
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proprio noi, ad essere contro noi stessi. Infatti quel guadagno degli altri è in diretta correlazione con una
perdita per noi, tutto voluto da una regola sociale.
Vogliamo volontariamente pizzicarci, o subire un danno.
Essere contro noi stessi è la condizione che ci rende difficile il compito: la giustizia ci può causare solo
un poco di malumore, ma può anche essere in grado di danneggiarci.
Contrarietà, sofferenza: piccole o grandi: da un semplice rincrescimento,
una piccola cosa, un piccolissimo dispiacere, fino ad una vera e propria sofferenza, passando per tutti gli
stadi intermedi.
Non sarà difficile capire che sono della stessa categoria motivazionale lasciare una sedia (giustizia) e
lasciare tutto il proprio mobilio (giustizia).
Piccola contrarietà: ma dobbiamo stare attenti che veramente ci sia. Se ci si sfalda tra le mani, non è una
motivazione di giustizia.
Nell’attimo prima, c’era stato almeno un piccolo dispiacere? Almeno una piccola difficoltà? Un piccolo:
“Uff!”?
Costo contrario: può essere dal punto di vista pratico o dal punto di vista psicologico.
Per giustizia, di volta in volta,
Devo riconoscere. Devo subire. Devo lasciare.
Devo sminuirmi. Devo aspettare. Devo intervenire
Devo rinunziare. Devo parlare contro i miei. Devo dare.
Ecc., ecc..
Anche solo andare a rischiare qualcosa può essere un costo.
Un costo sofferto siamo disposti ad accettarlo di più, quando questa motivazione di giustizia vada a
favore direttamente di altre persone: di più, che non nei casi in cui vada a favore della Comunità. Ma sono
solo numeri: quest’ultima cosa capita ugualmente tantissime volte.
Certo, qualcuno potrebbe domandare: “Ma, se uno vuole una cosa, si può poi ancora dire che è contro se
stesso?”.
A questo si può solo rispondere: “Prova”.
Chi ha voluto, almeno una volta, una motivazione di giustizia sa che in quel momento si è imposto un
dispiacere, sa che lo ha provato; non in altri momenti, non dopo: in quel momento. E darsi un dispiacere per
pensare agli altri è in quel momento: essere contro se stessi.
Volere essere addirittura contro se stessi, è una cosa, come dire?, non normale.
Ora, al di fuori del caso della giustizia, quando si pensa che ci possono essere dentro di noi istinti di
autodistruzione, o quando si dice che qualcuno è autolesionista, o si dice che vuole stare male, ecc., ecc.,
solo le apparenze possono far credere che l’individuo possa veramente essere contro se stesso.
Allora quindi chiediamoci: in tutti questi altri casi, l’individuo, quello che fa, lo fa, per altruismo?
Lo fa, per socialità (per motivazione di onestà o per motivazione di giustizia)?
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No.
Ed allora? Allora che resta?
Resta l’egoismo. Restano tutte le motivazioni egoistiche che sono a nostro favore, e non contro di noi.
Certo, non c’è dubbio che questi individui si infliggano volutamente fasi di dolore, ma questo dolore è al
servizio di motivazioni egoistiche: altro, che contro se stessi: tutto il male, se lo fanno, a loro favore.
Anche il suicidio rientra sempre nell’egoismo: il meglio, per noi, in quel momento.
In tutti questi casi, l’egoismo ha trovato metodi estremi: per affermarsi, per sottrarsi a brutte situazioni,
per godersi fino alla fine i piaceri, per deresponsabilizzarsi, per vendicarsi, per incolpare, per finirla con il
dolore, ecc., ecc..
Alla fine: farsi del male da soli?
Solo l’altruismo e la giustizia possono farlo.
Infatti, essere contro noi stessi non può venire quindi né da tutto l’egoismo che è a favore di sé e né
dall’onestà che non sente contrarietà: può venire soltanto dall’altruismo o dalla giustizia, ed esattamente: da,
alcuni, casi di altruismo, e da, tutti, i casi di giustizia.
■ VENGONO CHIAMATI ONESTI O GIUSTI
Ci sono molti comportamenti che vengono chiamati, onesti o giusti, e non lo sono.
INTERLOCUTORE – Per me, ci sono, le persone giuste. Un giudice del Tribunale, ma bravo. O una
persona che riesce ad essere sempre obiettiva. Per me queste sono persone giuste. Per esempio, una persona
coerente con i propri principi, ma coerente veramente, è una persona giusta.
AUTORE – Certo, possiamo apprezzare queste persone di cui Lei sta parlando. Può darsi benissimo che
siano bravissime persone, ma chi ci dice che abbiano mai avuto una motivazione, di giustizia?
INTERLOCUTORE – Ma allora come dobbiamo chiamarle? Persone ingiuste? Partiamo dal primo: chi
giudica bene gli altri e dà le ragioni e i torti senza fare ingiustizie, questo non è un uomo giusto? Se no, che
cos’è?
AUTORE – Nel momento che manifesta tali buone capacità di intelligenza ed equilibrio, quella persona
non è toccata nella sua persona. Quindi non si tratta di giustizia. Né possiamo mai sapere se il migliore
giudice del Tribunale abbia mai avuto una motivazione di giustizia. Ed anche di uno che abbia fama tra gli
amici di essere una persona obiettiva, anche di questa persona, non si può dire se abbia mai avuto una
motivazione di giustizia. Ambedue però, il giudice e quella persona, potrebbero forse un giorno avere la
possibilità di essere mossi da una motivazione di giustizia, qualora un loro giudizio sarà tale da dover
coinvolgere in modo negativo un loro concreto interesse personale o qualche importante aspetto della loro
personalità, cioè: quando essi stessi siano in ballo.
INTERLOCUTORE – Bisogna per forza cambiare idea?
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■ MAI SE SI VUOLE OTTENERE
La giustizia ci porta all’autolimitazione.
INTERLOCUTORE – Autolimitazione, autolimitazione, va bene; ma ci sono anche i casi in cui uno deve
avere qualcosa, perché è giusto, e allora si devono limitare gli altri!
AUTORE – In questo caso, anche se può sembrare strano, noi non agiamo spinti da una motivazione di
giustizia, ma dal bisogno particolare del risultato a cui tendiamo.
INTERLOCUTORE – Ma non diciamo sciocchezze! Come sarebbe a dire? Quando io mi devo limitare,
mi limito; poi quando è giusto ed ho ragione, e devo ottenere qualcosa, allora non agisco per giustizia?
Quando devo dare, devo dare perché sono giusto; quando devo avere, invece non sono giusto?
AUTORE – Se il mio amico mi deve dare la mia parte degli abiti trovati insieme in una cassa
volutamente abbandonata, ed io glieli chiedo, la mia motivazione è solo quella di avere gli abiti.
INTERLOCUTORE – Ma è proprio il contrario. Io voglio quegli abiti: proprio perché è giusto.
AUTORE – In questo caso, c’è un dovere, ma riguarda solo il mio amico. Per me c’è solo una spettanza e
questa convinzione mi sarà anche utile per ottenere più facilmente quello che chiedo. Ma non sarà stata la
mia motivazione. “Voglio quella cosa”: da qui la motivazione.
INTERLOCUTORE – Ma qua si diventa pazzi! È assurdo. Io voglio gli abiti perché è giusto. Sì, certo,
voglio, anche, avere gli abiti, non dico di no, ma anche per la giustizia. Allora non sono giusto, io?
AUTORE – Questa è la prova: se ad un certo punto a me gli abiti non mi interessassero più, allora io non
li chiederei più al mio amico. Allora dove è andato a finire in questo caso il dovere che è alla base di onestà
e giustizia? Non c’è mai stato. Se ci fosse stato, avrei dovuto continuare a chiedere, ed invece la
motivazione erano solo gli abiti.
Di quelli stessi che ci rimprovererebbero per una nostra infrazione ad una regola sociale, nessuno di essi
ci potrebbe mai rimproverare se noi non agiamo per ottenere. E se nessuno potrebbe mai rimproverarci,
significa che, dalla nostra parte, non c’era alcun dovere.
Mentre un dovere ci vuole costringere, una spettanza è una situazione di cui possiamo benissimo non
avvalerci. A questo punto è chiaro che una spettanza, che possiamo scegliere di volere o non volere, non può
essere oggetto né dell’onestà né della giustizia. Oggetto dell’onestà e della giustizia sono solo i doveri. E, se
noi sfuggiamo ad un dovere, non è cosa indifferente come quando non ci avvaliamo di una spettanza ma è
un atteggiamento riprovato dalla Comunità.
Ed anche qui non ci sarebbero state tutte queste discussioni, se fin dall’inizio avessimo guardato subito se
nell’esempio trattato c’era la presenza di tutte e tre le condizioni della giustizia. Infatti qui, come in tutti i
casi in cui vogliamo ottenere qualcosa, mancavano tutte e tre le condizioni: manca il dovere, manca il
guadagno voluto per gli altri e non c’è l’essere contro se stessi.
Invece il caso opposto avrebbe potuto ammettere una eventuale motivazione di giustizia: il caso in cui
l’amico ci avesse offerto immediatamente gli abiti che a noi fossero stati molto a cuore, e noi avessimo
rinunziato con sforzo interiore, solo ritenendo che spettassero solo a lui.
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■ ESPERIMENTO
Le motivazioni di giustizia sono rarissime. Vediamo.
Siamo fuori di una stanza. Dentro, sette persone stanno discutendo circa l’interpretazione da dare ad un
controverso regolamento. Noi, da fuori, non possiamo sentire nulla; però conosciamo l’argomento e
conosciamo molto bene le persone con tutte le loro situazioni personali.
Qualcuno ci viene a riferire che quattro di loro stanno sostenendo che la cosa debba andare fatta e che tre
stanno sostenendo esattamente il contrario. Scatta l’esperimento. Vogliamo scommettere che i quattro che
interpretano il regolamento nel senso attivo sono proprio i quattro che noi sappiamo avere interesse
personale a che la cosa sia fatta? E vogliamo scommettere che i tre che sostengono la tesi opposta, guarda
caso, sono proprio i tre che noi sappiamo avere interesse contrario? Chi vuole scommettere?
Nessuno?
Perché?
Non è vero forse che, tutti e sette, discutendo, avranno in bocca continuamente le parole, giusto e
giustizia? E allora?
Nessuno vuole scommettere?
Solo se infatti qualcuno sostenesse a malincuore la tesi che lo danneggia, sentendo un dovere a favore
degli altri, solo in questo caso eventualmente sarebbe mosso da una motivazione di giustizia.
■ CHI GLIELO SPIEGA?
Se ho voluto una motivazione di giustizia, è normale che io non venga compreso dagli altri e che il mio
comportamento venga interpretato nei modi più vari.
Gli altri non possono pensare che la mia motivazione possa essere stata contro di me; e quindi ciò che ho
fatto, o ho detto, se lo spiegano a modo loro.
Chi glielo spiega?
Le motivazioni di giustizia possono facilmente finire per restare sconosciute.
Per esempio, per motivazione di giustizia, ho parlato, io, importante uomo politico della mia Nazione,
contro il mio Paese, a favore di altri della Nazione confinante.
A favore loro, che reclamavano contro le condizioni opprimenti loro imposte da noi.
Ho sentito il dovere assoluto di riconoscere la verità. Ho parlato del male fatto a loro negli ultimi tempi.
Ho pensato che proprio la mia importante posizione politica era obbligata a quel dovere.
97
Ad un certo punto, ho sentito fortemente nascermi dentro la necessità che poi mi ha costretto; e non era
generosità (altruismo), ma dovere.
Non mi era mai capitata una cosa così sconvolgente. Coraggioso ed impaurito, bagnato di sudore freddo,
prima di parlare lo sapevo: “Chissà cosa mi capiterà”. Mentre parlavo mi si lacerava il cuore ma è stato più
forte di me. A costo della mia stessa persona, si doveva scegliere, a loro spettava la verità. Lo sforzo che ho
fatto, lo posso sapere soltanto io.
C’erano state le tre condizioni nel mio animo. Ed erano chiare, tutte e tre: una motivazione di giustizia.
I miei mi hanno guardato a bocca aperta. Più tardi mi sono dimesso. Poco
tempo dopo sono stato esiliato per tradimento. A me, traditore? A me che amo immensamente la mia patria?
La regola primaria dell’integrità e/o quella della libertà e/o quella della proprietà e/o quella della
responsabilità hanno agito su di me. Per quali siano state, dovrò guardare dentro di me. Chi glielo spiega?
Per esempio, per motivazione di giustizia, ho voluto riferire a mia figlia il consiglio che il vecchio nonno
mi aveva raccomandato di darle.
Mia figlia mi aveva detto di non dire niente, di quella sua difficoltà. Ma io avevo ugualmente confidato la
cosa al nonno e questi mi aveva affidato un consiglio per lei. Ecco perché, tornato a casa, a me non andava
bene il fatto di riportare a mia figlia quel consiglio: c’era la possibilità di potere essere rimproverato da lei,
di cui, lo confesso, ho soggezione.
All’apparire di questa contrarietà stavo pensando di non dire niente.
Ma poi, ad un certo punto, ho sentito fortemente nascermi dentro un dovere che poi mi ha costretto:
“Accada quel che accada”. Lo sforzo che ho fatto, lo posso sapere soltanto io.
A favore di mia figlia e del nonno. Nel rapporto di lontananza in cui essi sono, a lei spettava di sapere che
il nonno si era preoccupato per lei, ed al nonno spettava che la sua sollecitudine fosse riferita.
In questo caso, l’essere contro me stesso è consistito in un rischio: se mia figlia si fosse arrabbiata, mi
sarebbe dispiaciuto molto.
C’erano state le tre condizioni nel mio animo: una motivazione di giustizia.
Quando poi mia figlia si è arrabbiata veramente, mia moglie mi ha detto:
“Perché glielo hai detto? Per fare bella figura?”.
Forse la regola primaria dell’accordo, allungandosi in qualche modo fin là, ha agito su di me. Chi glielo
spiega? Ed io ho tentato di spiegarlo a mia moglie: “Un dovere unico e forte: non c’è stato altro”, ma lei non
mi ha creduto.
Per esempio, per motivazione di giustizia, sono venuto alla decisione di pagare la tassa al Capoquartiere.
Ciò è stabilito per tutti, alla fine di ogni mese.
Io non avevo mai voluto pagarla, pur essendo un ottimo cittadino che ha sempre pagato tutte le tasse.
Eppure, di quella, avevo sempre rifiutato il pagamento. Poi, dopo anni, la rettitudine del mio animo ha avuto
la meglio: “Tutti dobbiamo contribuire per il Quartiere; se no, è finita”.
Ad un certo punto, ho sentito fortemente nascermi dentro un dovere che poi mi ha costretto. Mi sono
dovuto costringere a pagare al Capoquartiere.
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A lui spettava. Ma non è stata una motivazione di onestà col costo inavvertito: lo sforzo che ho fatto, lo
posso sapere soltanto io: ho avuto l’impressione di essermi dovuto togliere una cifra enorme, un vero sforzo
per una cifra obiettivamente modesta. E pensare che in altri casi pago delle tasse, che gli altri non pagano.
C’erano state le tre condizioni nel mio animo: una motivazione di giustizia.
Quando l’ho detto ad un amico, questi subito: “Hai avuto paura che ti
scoprissero, eh?”.
Poi quasi subito ho finito per abituarmi a questo fatto e non c’è stato più alcuno sforzo da fare. Sono
passato da una motivazione di giustizia a motivazioni di onestà. E se ho notato questo cambiamento è
un’ulteriore prova che, allora, c’era stata una sofferenza volutamente sopportata.
Una legge dello Stato ha agito su di me. Chi glielo spiega?
Per esempio, per motivazione di giustizia, io, agricoltore povero, ho deciso di dare alla affamata famiglia
del mio vicino l’ultima rimanenza dei cereali.
Lui mi aveva aiutato al magro raccolto del mio campo.
Ad un certo punto, ho sentito fortemente nascermi dentro un dovere che poi mi ha costretto. Secondo me,
a lui spettava.
E gliel’ho dato pur sapendo che il giorno dopo alla mia famiglia sarebbe mancato da mangiare.
Sono andato a casa sua, ma mi sentivo come se fossi stato trasportato sotto braccio da una persona più
forte di me; mal di stomaco al pensiero di quando sarei tornato a casa. Lo sforzo che ho fatto, lo posso
sapere soltanto io.
A favore di un’altra famiglia. Non era stata pietà: io lo conosco quel sentimento: solo dovere.
Il mio bambino l’indomani forse non avrebbe avuto da mangiare. Ma io avevo pensato che anche mio
figlio, come facente parte della famiglia, avrebbe dovuto subire quello che era giusto.
C’erano state le tre condizioni nel mio animo: una motivazione di giustizia.
Mio padre mi ha investito come un ciclone: “Tu hai avuto paura di quei
miserabili?”.
La regola primaria della distribuzione ha agito su di me. Chi glielo spiega?
Per esempio, per motivazione di giustizia, ho ripreso ad usare il mio sapone.
Partito il mio amico, io ho subito preso il suo sapone profumato, lasciando inoperoso il mio.
Ma già al secondo giorno ho sentito dentro di me una stupida vocina che mi diceva: “Non devi”. Ed io le
rispondevo pensando: “Che fa? Non esageriamo”. Il giorno dopo la vocina era già diventata una voce
importuna.
Ad un certo punto, ho sentito fortemente nascermi dentro un dovere che poi mi ha costretto. Ho ripreso il
mio sapone ed in quel momento, nessuno ci crederebbe, mi è costato: la cosa mi ha innervosito. Un
dispiacere per un sapone?
Certo, piccolo, ma c’è stato. Lo sforzo che ho fatto, lo posso sapere soltanto io. A favore del mio amico.
A lui spettava.
C’erano state le tre condizioni nel mio animo: una motivazione di giustizia di una modalità.
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Se qualcuno avesse potuto raccontare al mio amico quello che era successo,
lui mi avrebbe detto: “E’ ridicolo”.
La regola primaria della proprietà ha agito su di me. Chi glielo spiega?
Per esempio, per motivazione di giustizia, quando noi, al Comune, ci riunimmo per decidere secondo
saggezza a chi si dovesse assegnare quel terreno oltre la collina, io detti il mio voto a favore di uno
Straniero.
E sorpresi tutti: il mio voto si ritorceva contro il desiderio di un mio carissimo amico.
Ad un certo punto, avevo sentito fortemente nascermi dentro un dovere che poi mi ha costretto. A favore
di uno che non mi interessava. Lo dovetti fare perché, per me, a quell’uomo spettava.
Prima del voto, quel mio amico, avendo conosciute le mie intenzioni, aveva cercato di convincermi
affinché potessi cambiare idea, ma io gli dissi: “Tu adesso non mi crederai: ho un gran dispiacere nei tuoi
confronti: ma è più forte di me”.
Lo sforzo che feci, lo posso sapere soltanto io.
C’erano state le tre condizioni nel mio animo: una motivazione di giustizia di una modalità.
Contro me stesso: ciò testimoniato, al momento del voto, dal cuore che mi batteva all’impazzata, e poi
sono stato male tutta la giornata col cuore che andava veloce. Sulle altre due condizioni non avrei potuto
avere alcun dubbio: dovere e guadagno per la Comunità.
Ma mia moglie dandomi l’infuso di biancospino mi disse: “E’ sempre la tua
voglia di fare il protagonista!”.
La regola primaria dell’accordo agì in qualche modo su di me: c’è un implicito accordo fra me e la
Comunità affinché, quando sono in Consiglio, io giudichi bene, in suo nome. Chi glielo spiega?
Per esempio, per motivazione di giustizia, nel tornare dal lavoro mi sto costringendo a fare a piedi un
larghissimo giro intorno a quei campi coltivati.
Fino a poco tempo fa attraversavo questi campi ed arrivavo subito a casa. Poi è intervenuta la proibizione
della Comunità: proibito attraversare. Si tratta però di una proibizione non protetta né da controlli, né da
sanzioni.
Nei primi tempi io ho continuato ad attraversarli perché ho subito ritenuto eccessiva quella proibizione:
“Calpestarli? E che fa?”.
Ma, a poco a poco, ho invece interiorizzato totalmente le ragioni del divieto: un’interiorizzazione
assolutamente imprevedibile. Ho pensato che anche io dovevo collaborare.
Ad un certo punto, ho sentito fortemente nascermi dentro un dovere che poi mi ha costretto.
Da venti giorni convinco me stesso a fare tutto il giro: un chilometro in più. Ogni giorno, giunto al punto,
mi innervosisco: “La strada è qua, nessuno mi direbbe alcunché, ed io vado di là! Io solo: una cosa da
pazzi”. Ed ancora dopo venti giorni la cosa mi costa: non c’è giorno in cui io non imprechi, contro un altro
me stesso.
Lo sforzo che sto facendo, lo posso sapere soltanto io. A favore della Comunità. Ma alla Comunità spetta.
Ci sono le tre condizioni nel mio animo: una motivazione di giustizia di una modalità.
100
Ieri mio fratello, vedendomi ancora arrivare in ritardo, mi ha detto: “Ma sei
cretino?”.
Un regolamento della Comunità agisce su di me. Chi glielo spiega?
Per esempio, per motivazione di giustizia, nel Bar, io ho voluto dire ad una odiosissima donna facente
parte del gruppo avverso, che lei aveva avuto ragione in una discussione avuta con me tempo prima.
Di un poeta che appartiene ideologicamente al suo gruppo, io avevo sostenuto: “Quel poeta vale poco”.
Avevamo litigato fortemente.
Essendomi poi trovato a cambiare idea su quel poeta, improvvisamente, a tradimento, dopo parecchio
tempo, ad un certo punto, ho sentito fortemente nascermi dentro un dovere che poi mi ha costretto. A favore
proprio di una persona dell’altro gruppo. Io avevo il dovere di dire che aveva avuto ragione. A lei spettava.
Ho pensato che a lei sarebbe spettato quel riconoscimento proprio perché quella discussione si era svolta
allora, molto accanitamente, davanti a tutti.
Ma come fare a costringermi a regalarle quella soddisfazione? Come fare anche a superare il disagio di
riprendere l’argomento? Alla fine mi sono costretto a parlare, anche se ho scelto un momento in cui eravamo
soli. Avrei dovuto farlo davanti a tutti, come allora; ma, anche così, lo sforzo che ho fatto, lo posso sapere
soltanto io.
C’erano state le tre condizioni nel mio animo: una motivazione di giustizia.
Sparsasi la notizia nel Bar, un mio amico mi ha detto: “Sei un debole”.
Debole io? Eppure io sono stato molto forte.
La regola primaria della responsabilità, allungandosi in qualche modo fin là, ha agito su di me. Chi glielo
spiega?
■ FIGLIE DIVERSISSIME
La motivazione di onestà e la motivazione di giustizia, essendo ambedue figlie delle regole sociali,
rientrano nella stessa famiglia: la categoria della socialità.
Ma, come i figli di una stessa madre spesso sono persone ben diverse, così onestà e giustizia sono
motivazioni molto diverse tra di loro. Non sembrano nemmeno essere figlie delle stesse madri. Pur essendo
sorelle, sono le sorelle più diverse che ci possano essere: la giustizia sopporta la contrarietà del costo della
regola e riesce a sopraffare le motivazioni egoistiche, l’onestà invece si presenta fischiettando, è bella la
vita, non ha scontri, strada liscia.
La giustizia ci porta in qualche modo a sopportare qualcosa, l’onestà fa una passeggiata salutare senza
sentire alcun inconveniente. La giustizia viene da noi subita, sofferta, cielo rannuvolato; l’onestà cammina
in una giornata di sole.
101
L’onestà ripete automaticamente comportamenti già adottati tante volte. E,
se l’onestà è abitudine di tutti i giorni, vorrà dire che difficilmente ci troveremo in una situazione, di specie
completamente nuova. La giustizia, invece, essendo molto più rara, sarà sempre una novità assoluta. Il suo
arrivo avverrà sempre in modo nuovo.
La motivazione di giustizia si carica della contrarietà da sopportare e quindi
colpisce noi stessi.
Non solo è fuori dall’egoismo, ma cammina contro noi stessi.
Noi, contro noi.
Non solo, fuori; ma: contro.
La motivazione di onestà è anch’essa fuori dall’egoismo, ma lei non è contro di noi. Sì, è vero, deve
pagare qualcosa, ma questo è tranquillamente previsto dal momento che viviamo in Comunità. Come
quando si deve pagare un biglietto per entrare, e restare, in un luogo a pagamento: si sa, è previsto, è
normale. In quel momento, siamo in sintonia con la Comunità. Noi sappiamo che, se si vuole vivere in
Comunità, ci sono le regole sociali da rispettare. Abbiamo fatto la scelta di vivere in società. Se la nostra
scelta fosse stata diversa, nessuno ci avrebbe potuto impedire di andare a fare gli eremiti senz’alcuna regola
sociale.
Qualcuno potrebbe dire: “Ma poi, in fondo, ambedue rispettano le regole sociali”. Costui evidentemente
non ha notato le differenze (ora trattate). Non sono stati sufficienti per lui né l’indifferenza, al posto di una
decisione seccante, né l’abitudine, al posto della novità, né l’essere con noi, al posto dell’essere contro di
noi. Allora forse lo si potrà ancora convincere mostrandogli quella che è la differenza-regina, la differenza
che separa, in modo assoluto, l’onestà dalla giustizia. Ebbene, guardando dentro di noi, noi vogliamo una
motivazione di onestà: “Perché c’è quella regola”. Vogliamo, invece, una motivazione di giustizia: “Perché
c’è quella persona”.
L’onestà vede la regola. La giustizia vede la persona, le persone, o la Comunità. Le regole sociali,
primarie o scritte, hanno quasi sempre dentro di sé una preoccupazione: un guadagno per gli altri. Ma la
motivazione di onestà non guarda dentro l’animo della regola e ne scorge solo l’aspetto esteriore. Vede solo,
come dire?, un cartello. Ecco perché dice: “C’è quella regola”. Diversamente, la motivazione di giustizia
prende l’anima della regola dentro di sé e ne interiorizza la preoccupazione: va dato a quella persona il
dovuto. Dice: “A quella persona spetta”. L’egoismo protesta, ma lei non l’ascolta. Ha, come proprio scopo,
altre persone, non noi.
Cartello ←→ persona: queste due visioni diversissime rendono l’onestà e la
giustizia diversissime fra di loro. Una motivazione è il cartello, l’altra motivazione è la persona.
■ L’ONESTA’ E LA GIUSTIZIA VISTE DA VICINO
Per molte parole, nella testa della gente, non c’è un solo significato.
102
Così è per la parola giustizia. In tutti i tempi, si è parlato, e scritto, di giustizia, ma ognuno intendendo
qualcosa di diverso da quello che era inteso dagli altri. La nobile parola ha ricoperto con il suo mantello, ora
una cosa, ora un’altra, e tantissime altre cose.
Da ciò è venuta la conseguenza che ci resta un vuoto di giustizia. Essa stessa ha sempre sentito questo suo
vuoto, per cui, non avendo saldo ancoraggio, si è sempre resa disponibile per qualunque cosa, paga soltanto
di conservare la sua nobiltà di origine.
Troppi significati: nessun significato.
Nebbia tra i filosofi e confusione nel senso comune della gente.
Giudiziosamente il senso comune della gente vorrebbe sempre riferire la
giustizia a leggi determinate, ma non sa precisamente a quali; invece spesso i filosofi l’hanno identificata
con proprie astrazioni ideali.
L’onestà e la giustizia?
Come? Quando?
L’onestà e la giustizia non possono volteggiare nell’aria, attivando se stesse al sentire una musica, oppure
al calar del sole. Si devono invece per forza attivare nei confronti di determinate regole.
La socializzazione degli esseri umani non si fonda sull’altruismo, tutt’altro:
si fonda solo sulle regole. Ma quali sono queste regole? A quali regole dobbiamo rispondere?
Non c’è da andar lontano per trovarle: sono là, belle e pronte, nell’animo umano: le regole sociali. Se
troviamo puntualmente in tutti gli uomini, nessuno escluso, le sette regole primarie e le leggi della propria
Comunità, questo non è un caso fortuito: la socializzazione le ha precisamente così fissate nei nostri animi.
Troviamo quelle, e non altre. Allora bisogna ancora chiederci: “Quali sono le regole?”.
Stiamo uscendo dall’indeterminatezza.
Non indeterminate vaporose leggi, semmai spesso chiamate, naturali; e nemmeno l’insensata esclusione
delle leggi della propria Comunità. Le prime non furono mai determinate, e per le seconde, niente esclusione
poiché anche l’ultimo di noi se ne sente vincolato (già trattato).
Di quelle regole sociali: nessuno direbbe: “No, non sono, proprio quelle, le regole”. Nessuno direbbe che
la propria socialità abbia altre premesse. Se nessuno potrebbe dire: “C’è altro”, perché noi, pensando
pensando, e ignorando la realtà, dovremmo ancora cercare a che cosa si debbano riferire la giustizia e
l’onestà?
Astrazioni ideali: molti grandi pensatori hanno trattato in questo modo
proprio una cosa, la giustizia, che va inserita concretamente in mezzo ai rapporti tra gli uomini. La giustizia
deve essere ricercata mentre andiamo al mercato, nella camera del Governo, con i vicini di casa, sui posti di
lavoro, nei rapporti internazionali, nei bagni pubblici, ecc., ecc..
L’idea di giustizia nacque per giudicare i rapporti fra gli uomini e quindi solo in mezzo a questi rapporti
deve essere vista.
Certamente ci sono stati molti pensatori che si sono portati a considerare la
giustizia in mezzo ai comportamenti umani, riuscendo ad individuarne anche qualche caratteristica. Però,
volendo applicare poi con coerenza le loro formulazioni, non si può fare a meno di trarre la conclusione che
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debba esserci dentro la loro giustizia, anche l’onestà: per esempio, senza sentire alcuna contrarietà, ogni
giorno sparecchio la tavola.
Chissà se questi filosofi avranno notato la cosa; ma, se sì, avranno dovuto intimamente sopportarla,
perché nelle loro ideazioni non trova mai posto il concetto di onestà, distinto da quello di giustizia.
Al contrario, il senso comune della gente maneggia ogni giorno le parole onestà e giustizia e intuisce in
qualche modo che dovrebbero essere due cose diverse. In pratica però non le distingue e mescola tutto. Qual
è l’onestà? Qual è la giustizia? Se c’è una grande onestà, la giustizia dove trova posto? Un comportamento
onesto, lo si può chiamare anche giusto? Ecc., ecc..
Il senso comune non può distinguere l’onestà dalla giustizia e si serve delle due parole, come capita.
Ancora peggio, quando alcuni filosofi hanno persino inserito anche l’altruismo nel loro concetto generale
di giustizia, mentre il senso comune della gente sa ben distinguere tra chi vuole aiutare gli altri e chi ha un
dovere verso di essi.
La libertà dell’altruismo, messa insieme alla costrizione della giustizia?
Non possono stare insieme.
Ancora peggio, quando il senso comune certe volte non distingue fra la
giustizia e le belle disposizioni dell’animo: se qualcuno ti raccomanda: “Sii giusto”, spesso vuole dirti: “Sii,
insieme, onesto, buono, equilibrato, intelligente, magnanimo e forte”; ed anche qualcosa in più.
La giustizia è rimasta allora, a tutti i livelli, sciolta da significati precisi.
Nessuno ne porta esempi chiari presi dalla vita di tutti i giorni. La Storia stessa non ne indica nemmeno
uno; né potrebbe mai farlo.
Finisce allora che, di volta in volta, vengano chiamati, giusti, comportamenti ed uomini, che non lo sono.
Che si doveva fare?
Non trovandola né nella Storia ufficiale, né nelle storie tramandate oralmente, né nella vita di tutti i
giorni, quella parola, la usiamo disinvoltamente, per una cosa o per l’altra. “Comportamento giusto”, “Uomo
giusto”: quasi sempre a sproposito; ma chi ce lo dice?
Inoltre, presso alcuni popoli, vengono chiamati, Giusti, con la g maiuscola, gli uomini considerati, i più
eccellenti fra tutti; ma senza alcun legame con l’elemento del dovere che è la caratteristica centrale di
qualunque giustizia.
Infatti sono stati chiamati, Giusti, alcuni uomini della storia delle religioni o, Giusti, alcuni uomini amici
dell’Umanità, scienziati filantropi, benefattori, o coloro che hanno rischiato la vita per salvare altri. Eppure
la differenza fra altruismo e dovere è una differenza che a nessuno può sfuggire. Ma intanto come si
sarebbero dovuti chiamare?
Generosi? Grandi altruisti?
Non piaceva.
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Ora, nei comportamenti principali di tutti questi Giusti non si trova forse nemmeno un grammo del
sentimento di giustizia: nelle loro imprese non c’è la doverosità e nemmeno le altre due condizioni della
giustizia. Niente a che fare con la giustizia: sono eroi dell’altruismo.
Accanto a questi però si può pensare che ci siano, o ci siano stati, anche i veri e propri eroi della giustizia,
i giusti. E sono, o sono stati, coloro che hanno salvato, liberato, risanato un’altra persona, o gruppi di altre
persone, per aver sentito il dovere, con gravi sofferenze e rischi personali, di rispettare una regola sociale
che chiunque altro in quel momento, al loro posto, avrebbe rifiutato. Sempre di eroi si tratta, ma questi, sì,
giusti.
Basta: si è constatato a sufficienza le confusioni che si fanno su onestà e giustizia.
Ora, invece, per la prima volta, ne possiamo fissare i significati. Ora, finalmente, dopo aver guardato bene
nell’animo umano queste due parole trovano il loro corpo.
Camminando sul viale della socialità, abbiamo incontrato due figure.
La prima figura, una figura dal volto sereno e dalla corporatura normale, l’abbiamo vista passare
spessissimo sul viale. La seconda figura, dal portamento nobile e dallo sguardo deciso, l’abbiamo incontrata
pochissime volte.
Non ce ne sono altre.
La prima, l’abbiamo capito, è l’onestà. La seconda, l’abbiamo capito, è la giustizia.
Avendo una volta improvvisamente rivisto la giustizia, l’abbiamo fermata e
le abbiamo fatto proprio una fotografia. L’onestà, già l’avevamo fotografata. Così ora abbiamo le precise
sembianze di tutte e due: le caratteristiche, dell’una e dell’altra, quelle trovate nell’animo umano.
Ora sappiamo la giustizia come è fatta. Esiste, ed è fatta così; e non in altri modi. Così anche per l’onestà.
Abbiamo fatto loro, per testimonianza, la fotografia. Al posto di teorie o di pensieri confusi: una
fotografia. Abbiamo loro stretto la mano.
L’onestà e la giustizia erano, dove si trovavano le regole sociali. Quello era il modo per trovarle: cercarle
dalle parti delle regole sociali. Dove cercarle, se non dalle loro parti?
Sotto i mari?
Ed erano anche dove c’è gente. Quello era il modo per trovarle: nei posti dove ci sono persone. Dove
cercarle, se non tra la gente?
In cielo?
Ora, come fare a non distinguere nel nostro animo queste due figure? Come fare a lasciarle indistinte, se
hanno motivazioni così diverse tra di loro?
Strappiamo le fotografie? Vogliamo pensarle con la stessa faccia?
A questo punto nessuno lo vorrebbe più.
E poi, una volta distinte queste due forme nell’animo umano, che nome dare
loro?
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Queste due forme, avremmo dovuto chiamarle, motivazione sociale A e motivazione sociale B? Oppure,
motivazione sociale fluente e motivazione sociale sofferente? Oppure, motivazione sociale tic e motivazione
sociale tac?
Non è forse vero che chiunque chiamerebbe, onestà, la prima figura, e, giustizia, la seconda? Chi,
conoscendo la vita, darebbe loro nomi diversi da questi?
Ma, comunque, qui, non è certo il nome da dare a queste due forme che è la cosa importante. Anche se
non volessimo dare loro alcun nome, la cosa importante è invece aver trovato e descritto precisamente quali
sono le forme motivazionali di quando vogliamo ubbidire veramente alle regole sociali. Sono queste: la
forma, comunissima, quasi senza pensarci e la forma rarissima con la quale vinciamo il costo della regola.
E, come dire?, in mezzo, niente. Ed il fatto che, al di là della comune e facile onestà, vinciamo il costo della
regola con la motivazione di giustizia così raramente: è uno strano panorama che non abbiamo mai visto.
Eppure, è questo il vero panorama. Prima, questo, non lo sapevamo. Per quando rispettavamo le regole
sociali, pensavamo in tutt’altro modo: non avremmo mai pensato che tutto si risolvesse in una facile
socialità di cui quasi non ci accorgiamo e, soprattutto, non avremmo mai pensato che un minimo costo
personale noi non lo superiamo mai, oppure lo superiamo forse una volta all’anno (motivazione di giustizia).
Superare un semplice costo di una regola, così raramente: è una sorpresa, chi l’aveva mai pensato? E questo
in tutti, ed anche in noi che, semmai, siamo persone molto oneste. Solo analizzare noi stessi ci potrà far
vedere quanto sia rara una motivazione di giustizia.
Qualcuno potrebbe dire: “Sì, ma poi come potremo abituarci ad abbandonare l’idea, sia pure confusa,
della nobiltà della giustizia, se dovremo considerare, motivazione di giustizia, per esempio, l’aver chiuso il
cancello, o altre cosettine del genere?”.
Si è abituati a vedere la giustizia, a cavallo, con un vestito luccicante, proprio quella giustizia che nessuno
è mai riuscito a dire cosa sia veramente, e per la quale ci sono solo ragionamenti, come dire?, sentimentali.
Invece, si potrà vedere le cose in modo diverso, se si considererà che, questa giustizia qui, è ugualmente
nobilissima e preziosissima. Nobilissima: perché vuole sopportare qualcosa che noi, senza di essa, non
vorremmo sopportare, e preziosissima: perché è rarissima. Nel chiudere quel cancello, noi ci sentiremo,
nobili, pensando che quella motivazione di giustizia è una cosa rarissima per la sua difficoltà, e proprio
questa sua difficoltà costituisce, evidentemente, essa stessa, nobiltà.
Intanto l’onestà e la giustizia, ambedue, si rimirano allo specchio contente,
dicendo all’unisono: “Ecco l’abito che sento finalmente su misura per me; non più abiti troppo larghi o
troppo stretti: questo è l’abito che aspettavo da sempre”.
Onestà e giustizia: non si può far finta di non averle viste. Ci sono queste due motivazioni nell’animo
umano. Le ignoriamo? Come fare a negare la loro esistenza dentro di noi?
Esistono e vivono. Dovremmo tornare indietro negando di averle viste? Dovremmo tornare indietro come
faranno molti che, pur avendo seguito fin qui, sentiranno subito la nostalgia di quel vuoto dorato della
giustizia di prima, e di quella estrema indeterminatezza dell’onestà di prima? Invece qui ci sono l’onestà e la
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giustizia in carne ed ossa che si muovono nel mondo. Qui sono forma vivente: al posto delle descrizioni
teoriche. A quali cognizioni affidarsi?
Certamente alla visione diretta. Fuori di una stanza è arbitrario dire ciò che ci può essere all’interno, ma
quando entriamo e vediamo quello che c’è dentro, ebbene, conta solo questo, e non certo le supposizioni
che si facevano prima.
E’ così, e non in altro modo. Vuoi anche tu guardarti bene dentro? Vedi le stesse cose? Vuoi allora
applicare, per sempre, quei concetti a quelle parole e, d’ora in poi, pensare e parlare in questo modo?
Quindi l’onestà e la giustizia con le loro precise forme motivazionali (già trattate) non sono una brillante
invenzione fatta a tavolino: ma sono quello che sono. Tutto questo è venuto, guardandoci dentro.
Ma non è forse vero che è proprio guardando bene dentro l’animo umano che, in tutti i tempi, si sono
potute conoscere le forme, universalmente accettate, di tanti atteggiamenti comuni a tutti gli esseri umani?
Se no, da dove? E’ proprio guardando bene dentro di noi, e dentro gli altri, che sappiamo perfettamente
cos’è l’altruismo, cos’è l’amore del denaro, il desiderio di rivalsa, la fobia degli insetti, ecc., ecc.. Sappiamo
perfettamente come agiscono molte cose che troviamo nell’animo di tutti. Sappiamo da cosa hanno origine.
Conosciamo le loro coordinate. Ma sempre siamo arrivati a ciò non ragionandovi dall’esterno come
marziani appena sbarcati, ma naturalmente avendo guardato bene dentro il nostro animo e poi avendo
ascoltato, o letto, quello che gli altri sentivano dentro il loro. Tale condivisione è stata decisiva e ha portato
la conferma definitiva.
Ebbene, per arrivare a conoscere onestà e giustizia c’è lo stesso percorso da fare: prima guardiamo dentro
di noi e poi vediamo che è lo stesso per tutti. Perché mai allora, solo per onestà e giustizia, non dovremmo
usare lo stesso procedimento che è stato usato per conoscere tutti gli altri comportamenti umani? Perché
mai dovremmo tardare a convalidare definitivamente l’onestà e la giustizia, quali si presentano in tutti gli
animi umani?
Ed, anzi, queste, sono forme fissate in modo così preciso, come
difficilmente altre.
Queste due forme si trovano nell’animo di tutti gli uomini: uguali, come dire?, in fotocopia. A chiunque
mostrano la loro fisionomia, sempre la stessa.
Infatti se una persona qualsiasi si mette a guardare dentro di sé, alla fine penserà: “Sì, è vero, distinguo
chiaramente quando adotto una delle quattro possibilità motivazionali di fronte alle regole sociali. E
distinguo chiaramente le mie risposte positive: le motivazioni di onestà e le motivazioni di giustizia. E ora
so che cosa vuol dire: essere onesto; e so cosa vuol dire: essere giusto”.
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IL GIOCO
DELLE
MOTIVAZIONI
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■ SI PUO’ FARE UN GIOCO
Di questo libro ci possono essere due livelli di comprensione: il livello di chi lo avrà letto, e quello
maggiore di chi farà dentro di sé il gioco delle motivazioni.
Vogliamo provare a farlo?
La domanda è rivolta a quelli che vogliano conoscere meglio se stessi.
Infatti, non c’è persona che possa pensare di conoscersi in modo completo.
Sì, è vero, vivendo sempre con noi stessi, noi già ci conosciamo molto bene. Ma con il gioco delle
motivazioni andremo più in là. Alcuni nostri modi di essere diventeranno più chiari. Alcune zone opache si
illumineranno. Alcune cose si riveleranno diverse da quello che pensavamo.
E poi ci accorgeremo di conoscere meglio anche gli altri.
Come si inizia? Cosa scegliere da esaminare?
Andremo a vedere le manifestazioni che più ci hanno incuriosito.
O quelle su cui abbiamo dei dubbi.
Vorremo capire il perché di alcune nostre azioni, discorsi, parole, gesti.
Vorremo capire, in anticipo, il perché di una nostra intenzione di dire, o di fare, una cosa.
Vorremo accertarci che, con quella cosa che abbiamo fatto, o detto, siamo usciti veramente fuori
dall’egoismo.
Ecc., ecc..
Poi potrà succedere che ci appassioneremo al gioco e allora andremo alla ricerca di noi stessi con più
frequenza, dando soluzioni a quelle curiosità che dovessero sorgerci.
Il gioco delle motivazioni è un metodo individuale di autoconoscenza.
La sua tecnica: dall’esterno rientrando all’interno.
Volta per volta, vuole fare luce su una singola motivazione di una singola
manifestazione esteriore. Vuole dare il suo proprio colore a questo puntolino motivazionale. Il suo proprio
colore: la sua natura.
Poi, a poco a poco, con l’illuminazione di più puntolini, arriveremo facilmente a conoscenze complesse.
Ci risulteranno chiari, sentimenti, reazioni, tendenze, modi di essere, strategie psicologiche, cose del
presente e del passato: arriveremo a conoscenze profonde.
E conoscere meglio se stessi: serve.
Dall’uso del gioco delle motivazioni ci verranno effetti benefici.
Non è meglio, in tutti i casi, conoscere il territorio su cui viviamo, anziché non conoscerlo?
In fin dei conti, non è meglio conoscere i sentimenti che ci agitano?
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Non è meglio capire, prima di dire, o di fare, una cosa, quali siano, in fondo, le nostre vere motivazioni, e,
semmai, così rinforzare la nostra intenzione o, semmai, rinunziarvi: “E’ solo per questo? Allora, no”.
Questa conoscenza ci porterà maggiore padronanza di noi stessi. Potremo percorrere a cavallo larghi
territori, quali proprietari e padroni.
Degli altri, capiremo molte più cose.
Capiremo di più le loro motivazioni, cosa che nella vita quotidiana non è di poco conto.
In più, finiremo per capire che, comunque essi siano, non stanno proprio sull’altra sponda, come qualche
volta avevamo pensato, ma, pur essendo molto diversi da noi, stanno sulla nostra stessa sponda.
Se saremo ben disposti verso di loro: mano e sguardo di padre.
E ci sarà possibilità di poterli aiutare: come loro veramente serve.
Mentre sta facendo tutte queste promesse, il gioco delle motivazioni si
accorge ugualmente dei sorrisini di compatimento che gli rivolgono coloro che sanno quanto grande sia la
complessità della mente umana e quanto intricati i suoi percorsi. Se lui potesse parlare, direbbe: “La
conosco, ben io, questa complessità. Proprio per questo porto un valido aiuto”.
Ed a coloro che gli dicono: “E’ assurdo pensare di poter motivare minuziosamente tutto” risponderebbe:
“Allora, provate ad usarmi, prima di parlare; e vi accorgerete che io sono un bel dono”.
■ METODO DI CONVALIDAZIONE INCORPORATO
Diversamente dagli altri pensieri sulla psiche umana, qui, di tutto quanto scritto finora, viene offerto
anche il metodo di convalidazione. Ed il metodo di convalidazione, per chi voglia farlo, è proprio il gioco
delle motivazioni.
Coloro che faranno dentro di sé il gioco delle motivazioni vedranno che tutte le motivazioni del
cosiddetto egoismo sono motivazioni tutte appartenenti a quelle quattro categorie; vedranno che sono quelle,
e non altre. Così, fuori dell’egoismo troveranno altruismo e socialità. E , all’interno della socialità, vedranno
le due forme che sono proprio così, e non in altro modo.
Sarà allora anche verificato e convalidato tutto quello che è stato scritto all’interno delle categorie. E tutto
sarà visto, ora, vivo, quello che era solo stampato su carta.
■ COME SI GIOCA
Andranno sempre ricordate le sei categorie motivazionali: benessere fisico, valore, piacere, fastidio,
altruismo e socialità comprendente onestà e giustizia.
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Il gioco delle motivazioni va avanti così: si coglie una nostra manifestazione già espressa, o una che
vogliamo esprimere. Si cercano, quelle che sono state, o sono, le sue motivazioni. Arrivati alla motivazione,
si stabilisce a quale categoria appartenga.
Manifestazione → motivazione → categoria.
Infatti, come in un gioco, abbiamo davanti a noi sei grandi scatoloni aperti, ognuno rappresentante una
categoria motivazionale; e solo lo scatolone della socialità ha due aperture differenti per onestà e giustizia: e
noi avremo una nostra manifestazione da dover riporre dentro il proprio scatolone.
Facendo il gioco delle motivazioni, ci si accorgerà che non c’è motivazione
che non si trovi in queste categorie.
Questi sono gli ingredienti che formano l’impasto.
Tutta la nostra vita é racchiusa in queste sei categorie.
A chi gli dirà: “In psicologia, schematismi, griglie e steccati non vanno bene”, il gioco delle motivazioni
può solo rispondere, antipaticamente: “Se non mi usi, non te lo posso dimostrare”. E così, a chi gli dirà: “Se
si offrono sette cassetti e basta, é logico che poi finisce che tutta la roba va in uno di essi, ma, con ipocrite
forzature”, il gioco delle motivazioni, ancora antipaticamente, risponde: “Provami, e potrai vedere che tutta
la caotica vita psicologica dell’uomo può venire ordinata in questi cassetti con grande sollievo per tutti”.
■ LA MOLLA VUOL TORNARE A POSTO
Se tiriamo una molla, non appena la lasciamo, quella se ne vuole ritornare al proprio posto. Qui, questo è
il pericolo. Per poter fare il gioco delle motivazioni, non dovremo lasciare la presa su quei significati, diversi
dal solito, usati fin qui.
EGOISMO – Contiene quattro categorie motivazionali.
Per il senso comune, l’egoismo è qualcosa di riprovevole. Qui invece è solo: pensare verso sé.
BENESSERE FISICO – E’ la categoria motivazionale che comprende tutte le motivazioni che mirano a
tenere in buono stato la nostra salute fisica, comprese le iniziative di poco conto.
VALORE – Per il senso comune, valore è una parola grossa. Qui è invece una categoria motivazionale,
che comprende anche motivazioni di minimissima entità.
PIACERE – Per il senso comune piacere, è solo piacere di una certa entità. Qui invece è una categoria
motivazionale, che comprende anche piaceri minimissimi.
Per dare al gioco la sua migliore funzionalità, dobbiamo abituarci a mettere nella stessa categoria i piaceri
fisici e quelli intellettuali. Hanno ben diversi contenuti, ma sono assolutamente assimilabili fra di loro: gli
uni e gli altri sono le cose piacevoli che noi aggiungiamo alla vita. Distinguerle, facendone due categorie
diverse, non ci aiuterebbe.
FASTIDIO – E’ una categoria motivazionale, che comprende le motivazioni che cercano di evitarci tutti i
tipi di disagio, non grave.
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Anche qui, per dare al gioco la sua migliore funzionalità, dobbiamo abituarci a mettere nella stessa
categoria i fastidi fisici e quelli mentali. Hanno ben diversi contenuti, ma sono assolutamente assimilabili
tra di loro: gli uni e gli altri sono le situazioni fisiche o mentali che ci mettono a disagio senza che ci sia da
parte nostra alcun dovere di sopportarle. Distinguerle, facendone due categorie diverse, non ci aiuterebbe.
FUORI DALL’EGOISMO – Ci sono due categorie motivazionali.
ALTRUISMO – Per il senso comune, altruismo è parola che indica, più che altro, una caratteristica
complessiva dell’animo di qualcuno. Qui invece è una categoria motivazionale, che comprende singole
motivazioni, di un momento particolare. A favore degli altri, semmai anche motivazioni di minimissima
entità.
SOCIALITA’ – Ha due facce: onestà e giustizia, motivazioni che significano ora qualcosa di ben preciso.
■ SOLO MANIFESTAZIONI ESTERIORI
Oggetto del gioco delle motivazioni sono le manifestazioni esteriori. Quello che abbiamo esternato, o
tutto quello che abbiamo intenzione di esternare: tutto quello che facciamo e tutto quello che diciamo.
Vanno escluse naturalmente le manifestazioni esteriori che sono comportamenti riflessi: sbadigliare;
scostare repentinamente la mano da una cosa bollente; trovarsi improvvisamente a cantare per un buon
momento del cervello; fare uno sguardo severo solo per un improvviso cambio di luminosità; trovarsi
involontariamente a ticchettare con le dita solo per scarico di energia; tossire; certe risate spontanee;
stiracchiarsi appena alzati; ecc., ecc..
Del pari, vanno escluse le manifestazioni esteriori che sono venute fuori al seguito di emozioni subitanee
di gioia, di sorpresa, di disappunto, di rabbia, ecc., ecc..
Dal gioco delle motivazioni va escluso tutto il mondo interiore, quel mondo
che rotola solo nella nostra mente.
Le manifestazioni esteriori da vedere sono: tutti i movimenti, i gesti, le azioni, le attività, le parole, le
frasi, i discorsi.
■ I NON FARE E I NON DIRE
Sì, non si devono prendere in considerazione i pensieri, ma solo le manifestazioni esteriori: però c’è
un’eccezione: i non fare, e i non dire, possono essere presi in esame: ma soltanto quando siano il risultato di
una specifica decisione, con la consapevolezza di aver eliminato contemporaneamente una manifestazione
che avrebbe voluto venir fuori.
Si tratterà di una astensione che, prevalendo, ha impedito ad una manifestazione di venir fuori.
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C’è la signora Rossi per fare degli esempi?
Eccola. Inizia: “Non è stato difficile trovare esempi per questo argomento.
Farò due esempi; e, per il secondo, vi prego di credere che le cose sono andate proprio così come ve le
dico. Primo esempio: ultimamente avevo una gran voglia di mangiare una certa cosa che mi fa un po’ male
allo stomaco ma riuscii a rinunziarvi. Questo mio non fare è, un non fare, suscettibile di essere esaminato.
Non l’ho mangiata, con una motivazione di fastidio, per non stare poi un po’ male.
Secondo esempio: messa sotto accusa ed interrogata tempo fa, preferii non dire la mia conoscenza di un
mio amico potentissimo. Ne ero molto tentata, ma alla fine lo esclusi. Questo mio non dire, è, un non dire,
suscettibile di essere esaminato. Decisi così, perché pensavo che la mia innocenza dovesse essere difesa solo
da se stessa: motivazione di valore.
Questo era l’ultimo appuntamento che avevamo, vi saluto. Spero di esservi stata utile”.
■ LA MOTIVAZIONE
Ogni motivazione produce le proprie manifestazioni esteriori. Proprio il fatto stesso che una
manifestazione è venuta fuori indica che dietro c’era stata una spinta.
Per spingere fuori una manifestazione, ogni volta deve esserci stata una
forza ben valida che è la motivazione, senza la quale tutto sarebbe rimasto dentro. Anche un piccolissimo
gesto, una piccola parola, un qualunque movimento, per venire fuori, hanno bisogno di avere dietro di sé
una vera forza propulsiva. Questa forza propulsiva è la motivazione. Ogni motivazione, per spingere fuori
una manifestazione, deve essere forte; se non ci riesce, significa che non era forte quanto necessario.
Per il gioco delle motivazioni, una motivazione debole, che non riesca a produrre alcuna manifestazione,
non esiste.
Si deve, e si può motivare tutto. Tutto, significa: anche quelle cose che, innumerevoli, come dire?, ci
troviamo ad aver fatto o ad aver detto, pensando che non ci fosse alcuna intenzionalità. Ci troviamo, é vero:
ma a monte di queste manifestazioni c’é sempre: una motivazione.
Per tutto quello che si fa, e per tutto quello che si dice, una motivazione
precisa c’è sempre; anche quando sembri di no. Le nostre parole non escono mai dalla nostra bocca per
prendere un poco d’aria; le nostre azioni non escono mai dalle nostre braccia per fare una passeggiata
rilassante. Anche quando sembrano distratte, casuali, automatiche, sono venute fuori perché c’era sempre
una precisa necessità. Anche le manifestazioni più insignificanti, più piccole, più inosservabili, tutte, hanno
avuto una forza motivazionale dietro di loro. Se no, non sarebbero venute fuori.
Tutto quello che facciamo e diciamo è lo specifico frutto di una decisione; sì, di una precisa decisione,
anche nei casi in cui non ne sappiamo niente.
Non lo sappiamo, ma, mai, si alza un braccio senza una motivazione precisa. Mai, si cammina o si fa una
qualunque cosa senza una motivazione precisa. C’è sempre una precisa motivazione quando si parla; sia
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quando noi prendiamo l’iniziativa di dire qualcosa agli altri e sia per tutto quello che diciamo all’interno di
uno scambio verbale.
Certe cose, sembra che si facciano, come dire?, senza una ragione, ma non è mai così. Una ragione (la
spinta motivazionale) c’è sempre, per cui chi farà il gioco delle motivazioni non dirà mai a se stesso: “Non
c’era alcun motivo”, “Sono venuto qua perché mi trovavo”, “Lo dicevo per dire una cosa”, “Ho visto quella
cosa e allora ho detto così”, “Ho fatto solo una constatazione”, “Perché non avevo niente da fare”, ecc., ecc..
Gli esseri viventi non possono vivere senza movimenti. I movimenti vengono dalle motivazioni.
Conoscere le motivazioni significa conoscere gli esseri viventi.
Solo sapendo il vero motivo delle azioni, si possono capire le cose. E’ come la chiave che apre la porta.
Senza quella chiave si continuerà a girare confusamente intorno.
Vediamo, comprendiamo, giudichiamo, ma conta solo la vera motivazione che è, o è stata, dentro di noi
o dentro colui di cui si parla.
Chi vorrà fare il gioco delle motivazioni dovrà cambiare un’abitudine ben radicata in lui, facendo, in
questo, una piccola rivoluzione. Non dovrà, come fa sempre quando pensa a queste cose, guardare a quello
che ha detto o a quello che ha fatto e da ciò trarre le risposte. Al contrario, pur guardando naturalmente a
quello che ha espresso, lui, per capire, dovrà riportarsi: al prima, nella sua mente; e solo da là trovare le vere
spiegazioni. Chiunque a cui si chiede: “Perché lo hai detto?” o “Perché lo hai fatto?”, invariabilmente si
mette a spiegare le cose espresse, si mette a discuterne in vario modo; invece, chi vorrà fare il gioco delle
motivazioni dovrà rivoluzionare questo modo di pensare: infatti, pur sempre tenendo conto di quello che ha
detto, o fatto, dovrà invece andare a cercare quale era stata la sua spinta interna. In questo caso, cambia
tutto: non più l’analisi, la valutazione di quanto detto, o fatto, ma individuare la spinta motivazionale interna
che ha fatto uscire fuori quello che è venuto fuori. Non più: “E’ giusto quello che ho detto” o “Lo dovevo
fare” o “Dirlo, ci voleva proprio” o “E’ opportuno che io lo faccia” o “Io avevo ragione”, ma le risposte
consisteranno invece nel nome delle categorie. E’ questa l’unica difficoltà che dovremo superare per usare il
gioco delle motivazioni: andare dietro la fonte a vedere cosa c’è. E, proprio per questo cambio di abitudine,
il gioco delle motivazioni diventa sconvolgentemente nuovo.
INTERLOCUTORE – E se anche io volessi fare il gioco delle motivazioni?
AUTORE – Ebbene, per qualunque cosa, Lei dovrà vedere, dentro di sé, cosa c’era a costituire la
motivazione. Cerchi di ricordarsi di qualcosa di oggi e vediamo.
INTERLOCUTORE – Vediamo: oggi, a tavola, ho detto: “Questa minestra non mi piace”.
AUTORE – E, allora, perché lo ha detto?
INTERLOCUTORE – Perché lo dovevo dire, era logico.
AUTORE – No, queste spiegazioni non spiegano. Quasi sicuramente non c’era un senso del dovere per
doverlo dire, né la logicità può essere mai quello che l’ha spinta a parlare: queste sono le considerazioni del
dopo.
INTERLOCUTORE – E allora perché l’ho detto?
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AUTORE – Bisogna trovare la motivazione che c’era prima di parlare: benessere fisico, o valore, o
piacere, o fastidio, o altruismo, o onestà, o giustizia, o più motivazioni insieme di queste categorie. Se Lei
vedrà bene, potrà tranquillamente inserire il motivo di quella frase in una di queste categorie.
INTERLOCUTORE – Ieri sera, davanti al televisore, di quel ragazzo che sta sempre in TV, ho detto che
non sa nemmeno di che parla. E allora? L’ho detto perché è vero.
AUTORE – E non è così. Si può mai dire che la verità possa essere motivazione? Lo veda Lei stesso:
c’era la verità a motivare quello che Lei ha detto?
INTERLOCUTORE – E va bene; ma, comunque, è seccante fare questo gioco. Io non lo farò. Io mi
conosco già bene. Io vorrei conoscere di più solo, le donne.
AUTORE – Cambia tutto. Non più i ricamati commenti del dopo. Non più i giudizi del dopo, su quanto
sia stato vero, o intelligente, quello che si è detto, od opportuno quello che si è fatto: tutto questo non serve
se si vuole capire. Semmai diciamo: “E’ giusto, giustissimo, sacrosanto, quello che ho detto” e poi, col
gioco delle motivazioni, può capitare che vediamo che c’è una impensabile motivazione egoistica, per
esempio, valore, o fastidio, o altro. Allora diamo pure agli altri quelle spiegazioni, ma, con noi stessi, se
vogliamo chiarezza: solo la motivazione del prima, racchiusa nella sua categoria.
■ LE MODALITA’
Ugualmente interessante di quando cerchiamo la motivazione delle nostre manifestazioni, è cercare la
motivazione di qualche modalità che l’accompagna.
Infatti mentre certe volte, semmai, la motivazione della manifestazione è evidente, la ragione di una sua
specifica modalità può non apparire del tutto chiara. Allora, se avrà attirato la nostra curiosità, anche una
modalità potrà essere oggetto del gioco delle motivazioni; ne cercheremo la motivazione. A seconda dei
casi, ci chiederemo: “Perché proprio in quel momento?”. “Perché proprio quella cosa?”. Oppure: “Perché
proprio in quella maniera?”. Oppure: “Perché proprio quel posto?”. Oppure: “Perché proprio in quella
misura?”. Ecc., ecc..
E ci risponderemo, per esempio: “Questa è una modalità di fastidio, dentro una motivazione di benessere
fisico”. “Quella era una modalità di valore che accompagnava la motivazione di fastidio”. Oppure: “E’ una
modalità di piacere all’interno della motivazione di onestà”. Oppure: “Era una modalità di valore per la sua
motivazione di altruismo”. Oppure: “C’è stata anche quella modalità di piacere dentro quella motivazione di
piacere”. Ecc., ecc...
Per capire, bisognerebbe sempre distinguere la motivazione principale dalla motivazione della modalità.
Io ho inviato quarantadue rose gialle ad una mia zia per il suo compleanno, e così il mio amico che l’ha
saputo mi ha detto che gliele avevo inviate per mostrare sempre “il mio stile di grandiosità” (valore). Ed io,
sia pure perplesso, ho finito anche io, dentro di me, per pensare così: “L’ho fatto per quello, per valore;
ecco, finito”. Invece, in realtà, se avessi saputo distinguere le cose, semmai avrei visto che c’era una
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motivazione principale di relazione (non ancora trattata), e che la motivazione di valore era solo la
motivazione di una modalità.
■ DOPO POCO
Il gioco delle motivazioni lavora sempre retrospettivamente.
Ed anche quando vogliamo chiarire una cosa che non ancora abbiamo fatto, stiamo guardando
motivazioni, già sorte, e che pensiamo porteremo a termine.
Comunque, le motivazioni devono essere colte, come dire?, quando sono ancora fresche. Passato molto
tempo, il ricordo di allora potrebbe essere diventato confuso. Le motivazioni sono solo quelle che si
trovano: immediatamente prima della manifestazione esteriore.
Sia che stiamo per separare le tribù, e sia che stiamo per comprare una bevanda, va vista la motivazione
che è nella nostra testa, prima della manifestazione, in quel momento particolare. Immediatamente prima.
Eppure, per qualche caso particolare, ciò ci sarà impossibile: quando, in
difficoltà a capire una motivazione, riusciremo a capirla solo andando a ritroso nel tempo: fino a dove
eravamo piccolissimi. Alcuni bambini, piccolissimi, solo alcuni, inconsciamente, scelgono per sé modi di
essere a cui resteranno poi sempre fedeli: “Sarò sempre sincero”, oppure: “Parlando, non voglio far
dispiacere nessuno”, oppure: “Voglio essere sempre forte”, oppure: “Meglio non esprimersi decisamente”,
oppure: “Sarò sempre giusto”, oppure: “Meglio essere compagnucci con tutti”, oppure: “Mi devo sempre
proteggere a dovere”, oppure: “Mentendo si ottiene di più”, oppure: “Meglio mettersi sempre dalla parte dei
più forti”, oppure: “Vorrò sempre essere ricco”, oppure: “E’ bello stare contro la maggioranza”, ecc., ecc..
Se sapremo ridiventare di quell’età, là vedremo che inconsciamente abbiamo adottato per noi, per vivere
meglio, alcuni modi di essere, particolari, solo nostri. Modi di essere per avere più controllo o per aver più
protezione dagli altri, o per avere più forza, o per essere meglio accettati, o per sentirci valorizzati, o per
proteggerci meglio in tutti i casi della vita, ecc., ecc.: modi di essere che quasi sempre stiamo continuando
ad usare senza saperlo. Ecco che allora la motivazione di oggi, che sembrava spiantata, inquadrata in quel
modo di essere, che in qualche modo fu deciso allora, potrà ora essere capita (intreccio di motivazioni) o
(valore) o (relazione) o (altro).
■ GIUNGERE SUL FONDO
Non siamo abituati a pensare così, ma il gioco delle motivazioni ci chiede di tradurre tutto nelle sue
categorie. Per noi, spazzolare i capelli o andare a incontrare una persona non sono niente altro che quello;
mentre, per il gioco delle motivazioni, sono qualcos’altro, che si raggiunge solo se traduciamo quello
spazzolare e quell’incontrare nelle proprie categorie di appartenenza.
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In molti casi è facile trovare la nostra motivazione. Spesso è così facile che ci troveremo a risponderci
direttamente col nome della categoria.
In altri casi invece si dovrà faticare. Il gioco delle motivazioni non ci ha detto che sarebbe stato tutto
facile. Né ci ha detto che non ci sarebbe voluto, all’inizio, un periodo di tirocinio. Potrà capitare allora che
certe volte non riusciremo a capire perché vogliamo dire, o fare, una certa cosa: “Questo non mi sembra; di
quest’altro non sono sicuro, e allora è mai possibile che io stesso non capisca le mie motivazioni? No, voglio
vedere bene, ci voglio pensare bene”.
Potrà capitare che la motivazione che abbiamo formulato non ci riesca a spiegare le cose: ci è venuta in
mente, lei, ma lei stessa è compresa in un’altra motivazione. E se non ci potremo fermare neanche a questa,
dovremo scendere ancora più giù. Certe volte sarà necessario arrivare: all’ultima risposta. Per arrivare fin là,
una serie di: “Perché?” dovrà perseguitare accanitamente le motivazioni provvisoriamente indicate. “Ma
perché, questo, veramente?”: questa domanda dovrà aggredire le risposte falsamente conclusive. “Sì, va
bene, ma perché questo?”, “D’accordo, ma, anche questo, perché?”. Giunti sul fondo, là troveremo la
categoria motivazionale che alla fine ci spiegherà perfettamente il nostro comportamento.
Infatti, tutte le motivazioni sono legate a sette ancore.
Queste ancore sono: benessere fisico, valore, piacere, fastidio, altruismo, onestà e giustizia.
Quindi, l’ultima motivazione trovata: dovremo tradurla nella sua categoria.
Se poi queste discese, attraverso traduzioni successive, non saranno andate
fino al fondo, allora ciò ci porterà all’errore.
Infatti, quand’è che sbaglieremo nel trovare la categoria?
Quando non avremo, come dire?, sbucciata completamente la motivazione, quando ci saremo fermati
prima del tempo, ad un certo punto.
■ CASO PER CASO
Si deve vedere caso per caso.
Poche volte si possono capire le cose subito.
E non si dovrà lasciarsi convincere dalla pigrizia affidandosi a risposte immediatamente facili.
Una persona che conosco mi ha chiesto se potevo dargli un certo attrezzo
per un periodo di tempo. Ho detto: “Sì”. Perché l’ho detto?
E’ ovvio: per aiutare: è una motivazione di altruismo. Questa risposta facile ed immediata non ha visto
che in questo momento ho in mente solo di tener buono il rapporto che ho con quella persona (relazione)
(non ancora trattata).
Con la mia grande influenza politica mi sto adoperando affinché la mia
Nazione arrivi alla pace. Perché lo sto facendo?
E’ ovvio: per il bene della Nazione: è una motivazione di altruismo. Questa risposta facile ed immediata
non ha visto che questa avrebbe potuto essere la vera risposta, solo in un mio passato; oggi non ha visto che
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faccio tutto questo, solo perché intuisco che per le prossime elezioni a me gioverebbe la pace (intreccio di
motivazioni egoistiche) o (altra motivazione).
Il venditore mi ha dato subito l’involto. Dico: “Ma non ci hai messo
l’olio?”, e lui: “C’è tutto”, ed io: “Sei così veloce che non me ne ero accorto”. Perché ho detto questa
ultima frase?
E’ ovvio: per cercare di diminuire il mio errore: è una motivazione di valore. Questa risposta facile ed
immediata non ha visto che, in quel momento, dell’errore, non me ne importava niente; la verità è che
temevo che il venditore si fosse dispiaciuto con me e gli ho fatto un complimento di contrappeso
(relazione).
Ho dato un buon consiglio a mio marito.
E’ ovvio: per aiutarlo: è una motivazione di altruismo. Questa risposta facile ed immediata non ha visto
che, in quel caso, a me non interessava nulla aiutarlo in quella cosa là, mentre avevo solo intenzione di fargli
sentire quello che sapevo (valore).
Senza alcuno sforzo ho detto: “Non occuperò più la strada”. Perché l’ho
detto?
E’ ovvio: perché è doveroso: è una motivazione di onestà. Questa risposta facile ed immediata non ha
visto che l’ho detto, solo per non fare brutta figura con tutti gli altri che lo stanno già facendo (valore).
■ SOSTITUZIONI MIGLIORATIVE
Capitano sempre i momenti in cui bisogna spiegare a noi stessi, o agli altri, i motivi delle nostre azioni.
Ebbene, può anche capitare che, se c’è una motivazione a portata di mano che è migliore di quella vera,
noi subito, inconsciamente, la prendiamo.
Perché non dovrebbe essere quella?
Ci prendiamo una motivazione di onestà o di giustizia. Oppure una motivazione, anche egoistica, ma
migliore di quella vera. Ma, più di tutto, ci prendiamo una motivazione altruistica.
L’altruismo è il nostro più grande rifugio.
Pensiamo spesso che sono, di altruismo, motivazioni di tutt’altro genere, in perfetta buona fede: “L’ho
fatto per loro”, “Lo voglio dire per lei”, e subito pensiamo ad altro.
Se l’altruismo potesse parlare, griderebbe: “Basta, basta, basta! Dalla mattina alla sera, tutti voi, infilate
nella mia casa tutta la vostra robaccia. Ne sono stufo! Ci credete in buona fede? Non me ne importa. Voglio
la mia casa libera da tutto il resto”.
Così, siccome tutti siamo irresistibilmente portati a rifugiarci nella spiegazione dell’altruismo, allora,
almeno nel gioco delle motivazioni, dovremo esaminare, con tripla attenzione, le cose che facciamo per gli
altri.
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■ LE CONSEGUENZE
Infinite conseguenze nascono da qualunque cosa facciamo: conseguenze psicologiche o concrete; su noi
stessi, sulle altre persone o sulle situazioni; buone o cattive; previste o impreviste. Ma il gioco delle
motivazioni ci avverte di non interessarci in alcun modo delle conseguenze non volute.
La nave va dove deve andare, le onde da lei provocate andranno dove andranno.
Tu hai saputo capire che la tua motivazione per cui hai letto libri per tutta la vita è una motivazione di
piacere, ed è stata solo una conseguenza, non una motivazione, l’essere diventato più colto e più saggio
(valore). Io, a mia volta, Direttore di scuola ho capito che lavoro fino a tardi solo per il mio prestigio
personale (modalità di valore), ed il buon andamento della scuola è invece nient’altro che una conseguenza
che mi è indifferente e che mi può stare a cuore solo nella misura in cui anch’essa mi possa valorizzare.
Niente confusione, come invece avviene normalmente alle altre persone, che, nei loro giudizi su se stessi
e sugli altri, si lasciano troppo influenzare dalle conseguenze, che non sono sempre valido indizio di
motivazione. Peggio ancora, con gli avvenimenti della Storia.
“Le mie parole hanno favorito pure lui: io favorisco le persone”; “Con quello che ha detto ha creato il
caos: voleva creare il caos”; “Con quella decisione quel personaggio storico impoverì quel Paese: volle
impoverire quel Paese”; “Con il mio lavoro ho dato da mangiare a tante famiglie: sono anche un
filantropo”; ecc., ecc..
Prima e dopo
Tutti, quando fanno del bene o si comportano onestamente, sentono dentro di sé un compiacimento
interiore che sembra accompagnare quello che hanno fatto. Questo compiacimento ha, in tutti i tempi, come
dire?, inquinato tutto quello che è stato sempre chiamato virtù. Molti scritti religiosi, molti Santi si sono
turbati per questo. In tutti i tempi, i Filosofi si sono occupati di questo, ed anche altri Scrittori. Addirittura,
in qualche caso, per questo, si è negata l’esistenza del bene nell’animo umano giungendo a pensare che
allora, in esso, tutto, è egoismo. Anche le persone intorno a noi, le più sensibili, a volte si accorgono che il
bene che fanno è, come dire?, un po’ sporcato.
Ma ora basta. Il bene può risorgere, integro e libero da sospetti.
Fin qui non si è capita, a riguardo, una cosa decisiva: il prima e il dopo. Prima, sorge la motivazione, da
sola, pura e diretta, e, solo dopo, un attimo dopo o un’ora dopo, sorge quel compiacimento. Quindi quello
che conta è che quello che chiamiamo il bene nasce in noi, da solo, senza alcun compiacimento, che viene
invece solamente in un secondo momento. E, se viene solo in un secondo momento, allora che importanza
può più avere ciò che è soltanto una conseguenza?
Ebbene, questa differenza di tempi non era stata mai notata. Ora respiriamo meglio.
Bisognerà stare attenti a non confondere l’intimo compiacimento che viene dopo le nostre azioni
meritevoli e che è solo una conseguenza psicologica, con la motivazione, che viene prima.
Quel compiacimento è costituito da quei sentimenti benefici che seguono l’aver praticato l’altruismo,
l’onestà o la giustizia. Seguono: significa che non sono la motivazione. La motivazione è altro; dopo
vengono le conseguenze.
119
Dall’altruismo, per fortuna, questo valore, cammina discosto: lo sentiamo, non subito, per cui ci sarà
meno pericolo di confusione. Invece per l’onestà e la giustizia le cose vanno diversamente: quando andiamo
a cercare la nostra motivazione, qualche volta il valore ha già fatto una corsa all’indietro e si fa trovare là:
“Essendo una persona onesta, non avrei potuto fare diversamente” (valore); “Se non avessi fatto così, non
avrei potuto guardarmi più in faccia” (valore); “Voglio sempre essere onesto con gli altri ed anche questa
volta ho voluto esserlo” (valore). Se troveremo questo tipo di pensieri, là dove siamo andati a cercare la
motivazione, non ce ne dovremo fidare. Il pensiero di valore: “Sono soddisfatto di me”: viene dopo; ma
quello che conta è il prima.
Se poi in qualche modo il valore si trovava veramente prima, ed ha
costituito la motivazione, allora tutto il discorso cambia, perché non ci sarà stata motivazione di altruismo,
né di onestà né di giustizia, ma una motivazione proprio di valore.
Ma al di là di questo caso particolare, la vera motivazione, quella che ci aveva guidato, se la rivediamo un
attimo prima di manifestarsi, era stata una pura motivazione di socialità o di altruismo, e non di valore. Il
valore, prima, non c’era proprio.
■ INAFFIDABILE – AFFIDABILE
L’autoconoscenza è inaffidabile?
Qui è diverso.
Sarà molto affidabile chi vorrà fare il gioco delle motivazioni, perché sarà proprio una persona che vorrà
conoscere il, vero, se stesso. Nessuno gli avrà imposto di farlo, non avrà alcuna ragione particolare di farlo,
eppure lo vorrà fare: solo per conoscere se stesso. E intenzioni serie danno, quasi sempre, risultati seri.
Chi prenderà l’abitudine ad usare il gioco delle motivazioni finirà per impegnarsi nel compito di verificar
le cose. Avrà tenacia, vorrà capire. Per questo già avrà eliminate dalla sua testa le tante risposte che
comunemente si danno e che non servono, perché si riferiscono a tante altre cose, e non alla spinta interna
che è l’unica spiegazione valida.
Chi per conoscere meglio se stesso si affiderà al gioco delle motivazioni non
si fiderà completamente di se stesso.
Scoprirà che motivazioni dolcificate, da lui subito credute vere, risultano poi inesistenti.
Vorrà arrivare al cuore del perché.
Vorrà arrivarci, anche se per arrivarci dovrà essere un po’ sgradevole con se stesso, sarà giudice
imparziale. Impegnarsi in tutto questo e poi fare come tutti gli altri sarebbe illogico.
Al contrario degli altri, andrà diritto allo scopo. Mentre gli altri restano al centro, lui camminerà anche per
i vicoli malfamati. Mentre gli altri si cullano nelle loro certezze, lui farà chiarezze e distinzioni.
Non solo vorrà eliminare i minuetti, ma certe volte metterà tutto sottosopra.
Forse non avrà letto i tanti libri di psicologia in cui si parla delle resistenze difensive, però lui ugualmente
le terrà d’occhio.
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Coraggioso, se troverà cose inaspettate e non buone, penserà subito: “Non posso far finta di non vedere”.
■ PIU’ DI UNA MOTIVAZIONE
A volte c’è una sola motivazione; ma ci possono anche essere due motivazioni insieme; si agisce, o si
parla, per accontentare nello stesso tempo due motivazioni diverse: “Non solo per questo, ma anche per
quello”.
A volte, ci sono tre, o più, motivazioni insieme: “Non solo per questo, ma
anche per quello e per quell’altro”.
■ IL METODO DELLE ESCLUSIONI
Certe volte ci può capitare di essere incerti, quando, di motivazioni, ne abbiamo due nella testa: “Quale,
delle due?”. Oppure: “Tutte e due insieme?”. “E’ stato altruismo o benessere fisico?”, “E’ stato soltanto
fastidio o c’era anche valore?”.
E così pure, preventivamente: “Ci sono qui due motivazioni che possono essere: perché dunque voglio
cambiare zona?”. “Tra le tre motivazioni che possono essere: perché dunque mi accingo a contribuire a quel
piano internazionale per quella parte del mondo?”.
In tutti questi casi di incertezza, potremo usare il metodo delle esclusioni.
Vediamo quindi come funziona questo metodo.
Con il metodo delle esclusioni dobbiamo ipotizzare che, delle due motivazioni pensate, ne scompaia una.
Dobbiamo immaginare, ogni volta, una situazione retta da, una, sola motivazione: con l’altra scomparsa.
Solo allora potremo vedere se la motivazione che da sola fosse restata in campo, da sola, sarebbe riuscita a
spingere fuori la manifestazione che c’è stata.
Nella prima ipotesi, dobbiamo immaginare noi stessi prima di fare, o dire, quella cosa che abbiamo fatto,
o abbiamo detto, ma dopo avere con una operazione di fantasiosa immaginazione provveduto ad eliminare le
condizioni, psicologiche o concrete, dalle quali poteva arrivarci in mente la seconda, delle due motivazioni
in questione. Entrati nella nuova situazione mentale nella quale vediamo noi stessi solamente con la prima
motivazione in testa, dobbiamo solo chiederci se avremmo fatto ugualmente , o se avremmo detto
ugualmente, la cosa in esame: “Sì?”, “No?”.
Così dobbiamo fare per la seconda ipotesi, in cui dobbiamo calarci in un’altra situazione immaginaria
nella quale, stavolta, siano state escluse le condizioni, psicologiche o concrete, dalle quali poteva arrivarci la
prima, delle due motivazioni in questione. Restati solamente con la seconda motivazione in testa, avremmo
fatto, o detto, ugualmente la cosa in esame? “Sì?”, “No?”.
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Per escludere prima l’una e poi l’altra motivazione, bisognerà immaginare condizioni ben diverse da
quelle che c’erano state. Completamente inedite. Bisognerà immaginare situazioni diverse, che stanno solo
in questa immaginazione. Bisognerà immaginare noi stessi, noi stessi un po’ diversi da quello che siamo.
Certe volte ci si deve vedere agire all’interno di ipotesi strampalate, o addirittura estreme.
In qualche caso, dovremo creare l’ipotetica situazione iniziando così: “Se, per magia”, “Se, con la
bacchetta magica”.
Potremo perfino provare un piacevole stupore a vederci decidere nelle
nuove condizioni.
In altri casi ancora, ce ne potrà anche derivare un certo divertimento.
Questo metodo sarà per noi molto interessante e il risultato sarà nitido.
Prima c’era un dubbio, dopo c’è la sicurezza.
Una cosa, è intuire ed un’altra cosa è sapere per certo.
Per esempio, era restata una fetta di dolce ed io ho detto a mia moglie: “La mangio, io”. Un po’ mi
sembra che l’ho detto solo per prevenire mia moglie golosa che non dovrebbe mangiarla per ragioni di
salute (altruismo), ed un po’ mi sembra che l’ho mangiata io solo perché mi piace moltissimo (piacere). Io
tendo a pensare all’altruismo ma voglio sapere veramente come siano state le cose. Io stesso, non lo so.
Allora allestisco la prima ipotesi immaginaria:
Altruismo - Piacere
Dentro questa ipotesi immagino che quella torta non mi piaccia molto: l’avrei mangiata ugualmente, per
mia moglie? Allora mi rispondo: “No” ed allora scrivo “no” sotto altruismo
Altruismo - Piacere
no
Poi immagino la seconda ipotesi:
Altruismo - Piacere
Qui immagino che mia moglie non abbia problemi di salute: l’avrei mangiata ugualmente, quella torta,
perché mi piace moltissimo? Allora mi rispondo: “Sì” ed allora scrivo “sì” sotto piacere.
Altruismo - Piacere
sì
Così, col metodo delle esclusioni, ho saputo quello che non sapevo prima: c’era una motivazione di
piacere.
Per esempio, ho cambiato negozio di alimentari. Un po’ mi sembra che l’ho fatto perché il nuovo negozio
ha prodotti migliori (intreccio di motivazioni) ed un po’ mi sembra che l’ho cambiato solo perché, quando
entravo nel negozio di prima, parlavano poco con me e più con gli altri (valore). Ma io voglio sapere
veramente come siano state le cose. Io stesso, non lo so. Allora allestisco la prima ipotesi immaginaria:
Intreccio – Valore
Dentro questa ipotesi immagino che tutti i negozi di alimentari abbiano, per legge, tutti, gli identici
prodotti: avrei cambiato ugualmente negozio? Allora mi rispondo: “Sì” ed allora scrivo “sì” sotto valore
Intreccio – Valore
sì
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Poi immagino la seconda ipotesi
Intreccio – Valore
Qui immagino che, in ogni negozio di alimentari del mondo, ci siano, a servire i clienti, solo
efficientissimi robot: avrei cambiato ugualmente negozio, perché il nuovo negozio ha prodotti migliori?
Allora mi rispondo: “Sì” e scrivo “sì” sotto Intreccio
Intreccio – Valore
sì
Così, col metodo delle esclusioni, ho saputo quello che non sapevo prima: c’erano insieme sia una
motivazione di valore e sia un intreccio di motivazioni.
Un consiglio è assolutamente necessario: servirsi di carta e penna per poter seguir meglio i ragionamenti
come è stato fatto su.
Ebbene, prendiamo un foglietto e scriviamo nella sua parte superiore le motivazioni in dubbio, già
tradotte nel nome della loro categoria. Poi mettiamo un frego sulla prima motivazione. Nella parte inferiore,
mettiamo un frego sulla seconda motivazione.
A questo punto incominciamo a ragionare sulla ipotesi immaginaria della parte superiore. Eliminata
mentalmente la prima motivazione, vediamo se avremmo fatto, o detto, ugualmente la cosa in esame. Se lo
avremmo fatto ugualmente, scriviamo subito “sì” sotto la seconda motivazione. Se invece, non lo avremmo
più fatto, vi scriviamo sotto “no”.
Dopo ciò, ci dedicheremo a ragionare sulla ipotesi immaginaria della parte inferiore, scrivendone anche
qui il risultato, “sì” o “no”, sotto la prima motivazione.
Che tipo di risultato potremo avere alla fine?
Primo risultato: una sola motivazione ce la fa.
Secondo risultato: tutte e due ce la fanno.
Terzo risultato: nessuna delle due ce la fa.
Il primo risultato ci dice che, una sola motivazione, lasciata da sola nella sua ipotesi, ce l’avrebbe fatta a
spingere fuori la manifestazione. L’altra, da sola, non ce l’avrebbe fatta: quest’ultima motivazione nella
nostra mente non è esistita. Quindi, conclusione: c’era stata quella unica motivazione.
Il secondo risultato ci dice che, alla fine delle rispettive ipotesi, tutte e due le motivazioni, da sole, ce
l’avrebbero fatta. Quindi, conclusione: due motivazioni insieme.
Il terzo risultato ci dice che nessuna delle due motivazioni, da sola, ce l’avrebbe fatta. Questo risultato
sembrerebbe sbagliato; verrebbe di pensare: “Non è possibile”. E invece ci capiterà di registrarlo. Bisogna
pensare allora che le due motivazioni, anche se nessuna delle due ce l’avrebbe fatta da sola, ebbene,
appoggiandosi l’una con l’altra, hanno determinato la manifestazione; insieme, ci sono riuscite. Quindi,
conclusione: anche qui due motivazioni insieme.
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■ GLI INTRECCI
Certe volte, ostinati a cercare una, o due motivazioni, non ci riusciremo: perché non avremo considerato
che in qualche caso ci può essere un intreccio.
Un intreccio? Un intreccio di che?
Un intreccio di innumerevoli motivazioni.
Un intreccio di innumerevoli motivazioni, strettamente unite insieme.
In questi casi la manifestazione è causata da molteplici motivazioni.
La motivazione non è una sola, o due, o tre, distinguibili, sia pure a fatica. No, qui c’è un intreccio di
molte motivazioni, che non possono essere indicate distintamente. Guardando dentro di noi, non ci è dato di
vedere alcuna motivazione particolare. “Per tante cose”. “Lo voglio fare per tante cose”, “L’ho detto per
tante cose”: troppe motivazioni, e troppo mescolate tra di loro.
Un intreccio motivazionale è come un gomitolo di lana, formato però da fili di colori diversi. Volete che
io vada a guardare tutti i fili, uno per uno?
E quanto mi durerebbe questo lavoro? E’ meglio di no.
Concluderemo soltanto: “E’ un intreccio di motivazioni”.
Però a questa situazione, in due casi, si può dare una risposta diversa. Vi è
tutto un certo tipo di intreccio di motivazioni che possiamo unificare sotto il nome: soldi. E vi è tutto un
altro tipo di intreccio di motivazioni che possiamo unificare sotto il nome: relazione. Una volta dato un
nome unitario, in questi casi, avremo una risposta ben chiara.
Comunque: le categorie motivazionali sono sei, e non ce ne sono altre. Sono sei e attenzione: non
confondiamo soldi e relazione con le categorie motivazionali. Soldi e relazione sono solo un espediente
pratico per chiamare con una sola parola sintetica un intreccio di motivazioni.
Penseremo: “L’ho detto per relazione”, penseremo: “L’ho fatto per soldi”, e
questo espediente ci consentirà di capire meglio le cose.
■ GLI INTRECCI CHIAMATI: SOLDI
I soldi servono a tutto. Sono quasi onnipotenti. E quindi, soldi, per questo, sintetizzerà un intreccio
motivazionale.
Lavorare per guadagnare. Parlare per averne di più. Agire per perderne di meno.
Diremo: “Soldi” anche quando il fine particolare non siano proprio i soldi, ma qualunque altro bene da
noi voluto per fini economici e che quindi all’occorrenza possa essere tradotto comunque in soldi.
Penseremo: “Soldi” per qualunque manifestazione esteriore che miri a difendere o a migliorare le nostre
condizioni economiche. In strada raccogliere da terra una vitarella che ci serve (soldi); per difficoltà
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economiche chiudere una propria fabbrica andata in perdita (soldi); comprare un terreno pensando di
lasciarlo inutilizzato in attesa di una vendita conveniente (soldi); stirare fino al massimo il tubetto del
dentifricio (soldi); ladro specializzato in gioielli, prepararsi ad una uscita (soldi); aggiustare l’unico cappotto
che si possiede, pur potendo ricomprarlo (soldi); ecc., ecc..
■ GLI INTRECCI CHIAMATI: RELAZIONE
Del tutto inconsce sono le motivazioni di relazione. Nessuno sa di esprimerle mentre agisce o mentre
parla.
Vi sono gesti, azioni, parole e discorsi che hanno una propria motivazione specifica che è: relazione.
“Perché gli domando questo?”: potrebbe essere: relazione. “Perché ho toccato la spalla di quella persona?”:
spesso ci risponderemo: “Relazione”. “Perché, alla fine, l’ho richiamato?: potrebbe essere stato: relazione.
“Perché sto guardando attentamente quella cosa?”: potrebbe essere: relazione.
Le manifestazioni che hanno motivazione di relazione sono: fili che
uniscono. Una manifestazione che ha motivazione di relazione è un filo steso fra noi ed uno degli altri.
Proviamo quindi ad immaginare che, fra noi ed ognuna delle altre persone, ci sia una serie di fili
(motivazioni di relazione) che ci uniscono: fili che ci uniscono, stesi in collaborazione, per lo stesso
rapporto, da noi e dall’altra persona. E proviamo ad immaginare che, in ogni rapporto, man mano, col
passare del tempo, questi fili appassiscano e cadano. E noi, se lo vogliamo, li andiamo a rimpiazzare con
altri fili freschi.
Finché tra due persone resta steso anche un solo filo, vuol dire che il rapporto c’è. Senza nemmeno un
filo, non c’è rapporto.
Fra noi ed ogni altra persona, stendiamo molti fili, pochi fili o pochissimi fili. Con alcuni ne stendiamo
ogni giorno, e più volte in una giornata. Con altri siamo più misurati. Con altri ancora ne stendiamo
pochissimi, semmai solo quelli strettamente necessari.
Ogni rapporto con ogni altra persona è diverso da tutti gli altri; se potessimo vedere tutti i fili di tutti i
nostri rapporti con gli altri, ebbene, la loro freschezza, la loro quantità e la loro qualità ci mostrerebbero che
ogni rapporto è diverso dagli altri.
Per conservare un certo rapporto così come sta, stendiamo sempre gli stessi
fili. Per renderlo più stretto, stendiamo un numero maggiore di fili e tutti di buona qualità relazionale. Per
regolarlo in modo un po’ diverso, ne cambiamo numero e qualità. Per non farlo finire, stendiamo solo alcuni
fili a questo scopo.
Un rapporto molto stretto è quello dove sono stesi, fra le due persone, fili recenti, di buona qualità, robusti
e numerosi. Un rapporto che ci interessa poco è quello dove sono stesi solo fili esili, e non sono stati
rimpiazzati quelli caduti.
125
Ci sono poi i casi in cui non vogliamo avere alcun rapporto con una persona. Allora non stendiamo alcun
filo di relazione verso quella persona; nemmeno uno della cosiddetta buona educazione, la quale è sempre
portata da motivazioni, tutte, di relazione.
Possiamo voler chiudere il rapporto che abbiamo con un’altra persona, ed allora verrà meno da parte
nostra qualunque ulteriore manifestazione con motivazione di relazione rivolta a quella persona. Le
togliamo il saluto o interrompiamo i messaggi su Internet.
Attenzione: ogni nostro rapporto con altri può essere nutrito solo dalle manifestazioni di relazione.
Perfino una serie di grandi altruismi, ricevuti e riconosciuti come tali, non sono in grado di creare un
rapporto, se non sono accompagnati qua e là da gesti di relazione. Anzi, noi, pur contenti di ricevere questo
altruismo che ci aiuta, d’altra parte ci sentiamo offesi da quella persona che ci vuole aiutare sempre, se essa,
pur avendone l’occasione, non ci riserva un minimo di manifestazioni di relazione. Così non c’è rapporto.
Per tutti, sono solo le manifestazioni di relazione quelle deputate al rapporto. Quello è il nutrimento del
rapporto. Infatti i rapporti mangiano solo questo tipo di cibo e rifiutano tutto il resto; e perfino quando si
stanno estinguendo non riescono a nutrirsi con altro che non sia quello.
Gli altri ci contattano con gli altri tipi di motivazione?
Ebbene, nessuno di essi serve in alcun modo al rapporto. E’ come se ci fosse una parte di noi che si
occupa esclusivamente dei rapporti con gli altri e che appare, come dire?, programmata a cogliere, fra le
tante comunicazioni in arrivo, solo e soltanto quelle che sono di relazione; le altre, le scarta. Questa parte di
noi è capace, come dire?, di leggere solo quelle. E così ci avverte della precisa condizione attuale di ogni
rapporto.
Accoglie volentieri quelle manifestazioni, riconoscendone la funzione.
Certo, purtroppo, la sua programmazione non può essere perfetta. Qualche volta sbaglia. Ci hanno detto:
“Vuoi venire con me?”: era una manifestazione di relazione stesa verso di noi o vi erano altre motivazioni?
Ci hanno guardato negli occhi: era una manifestazione di relazione verso di noi o c’erano altre
motivazioni?
Ci hanno fatto una mimica comica e noi abbiamo riso: una motivazione egoistica o una motivazione di
relazione?
Ci hanno fatto qualcosa che noi avevamo chiesto loro: per motivazione di relazione o per altre
motivazioni?
Ci hanno chiesto: “Che hai fatto ieri sera?”: vi era una motivazione di relazione, una pura curiosità
(fastidio) o altre motivazioni?
Per tenere i rapporti deve essere espressa, per forza, tutta una serie di parole, attività, gesti, discorsetti,
sguardi, ammiccamenti. Ognuno usa le manifestazioni adatte, in base al tipo di rapporto che ha in mente di
tenere in quel momento. Inconsciamente.
Tutti gli avvicinamenti, i toccamenti, i sorrisi, le frasi che hanno
motivazione di relazione, anche se sembrano non avere ragioni, invece hanno tutti un loro posto preciso nel
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trattamento di quello specifico rapporto. Nell’abitudine più consueta, nell’apparente disattenzione, quelle
manifestazioni hanno una, necessariamente precisa, collocazione all’interno di un certo rapporto.
Molte volte, le manifestazioni di relazione devono essere poste là dove devono stare. Tanto è vero che,
certe volte, se ci accorgiamo di aver mancato di esprimere una manifestazione di relazione al momento in
cui doveva essere espressa, allora cerchiamo, più in là, di rimpiazzarla, semmai, con un’altra, di contenuto
diverso ma equivalente in quanto a motivazione.
Le manifestazioni di relazione devono venir fuori come devono venir fuori.
Tanto è vero che, se la manifestazione di relazione non è venuta fuori così come doveva venire fuori, spesso
cerchiamo di rimediare subito, o più in là, riportandola a quello che avrebbe dovuto essere.
Le manifestazioni di relazione vengono espresse con estrema precisione e mai con casualità. Siamo
minuziosamente precisi per quello che vogliamo che sia, in quel momento, ogni particolare rapporto. Di un
certo filo di relazione si può fare a meno; di un altro, no. Aggiungiamo un filo di relazione in più ad un
rapporto, ne togliamo qualcuno ad un altro rapporto. Si toglie un certo tipo di filo e si sostituisce con un
altro diverso. Se ne mettono di deboli; o se ne mettono di robusti. Certe volte, è come se pensassimo: “Va
bene, ora lo metto, un filo” e ci fermiamo dicendo qualcosa. Oppure, con un’altra persona: “Se ne può fare
anche a meno, di questo filo” e le passiamo accanto senza guardare dalla sua parte.
C’è un continuo inconscio modellamento del rapporto fatto da ambedue le parti, che poi si influenzano
anche reciprocamente. Si aggiungono gesti e toccamenti, o si diminuiscono; si aggiunge un guardare in più,
o si diminuisce; si aggiungono più frasi, o si diminuiscono; si aggiungono più secondi di vicinanza, o si
diminuiscono; si aggiunge una maggiore larghezza al sorriso, o si diminuisce; ecc., ecc..
Le misure sono state già decise. Poi, pur sempre non discostandosi troppo da queste basi, certe volte, può
anche influire a cambiare un poco le cose il buon umore o il cattivo umore in cui ci troviamo al momento.
Le manifestazioni di relazione che esprimiamo, molte, non sono frutto di vere e proprie decisioni: niente
di tutto questo. Noi sentiamo solo, di doverle esprimere. Per esempio, quando, con motivazione di relazione,
diciamo ad uno: “C’eri anche tu”, certamente abbiamo sentito che quella manifestazione di relazione ci
voleva là, in quel momento; allora, in quell’attimo, il sentire fa tutt’uno con il dire.
Al contrario, se ne ha coscienza solo quando lo pensiamo prima, specificatamente, di voler esternare una
manifestazione di relazione.
Facendo il gioco delle motivazioni, come stia andando il rapporto, se migliorando o peggiorando: non ci
interesserà in alcun modo. Avendo individuata la motivazione, diremo soltanto: “Relazione”, e solo questo
ci interesserà.
Cominceremo a capire allora quante svariate manifestazioni hanno
motivazione di relazione. Tutte queste manifestazioni, per come si sono presentate, potrebbero essere state
esternate rientrando in una qualsiasi categoria motivazionale, e non essere di relazione.
Perciò dobbiamo vedere bene. Quando abbiamo detto: “E fino a che ora voi lavorate?” potremmo aver
voluto colmare una curiosità, oppure, nel nostro animo, è stata relazione?
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Quando abbiamo iniziato a parlare dicendo: “Adesso non è più come una volta” potremmo aver voluto
esternare una lamentazione, oppure è stata relazione?
Quando abbiamo pensato di avvicinarci potremmo aver voluto vedere meglio una cosa, oppure è stata
relazione?
Se facciamo un movimento cogli occhi potremmo voler aiutare, oppure è relazione?
Se abbiamo intenzione di spostare la sedia potremmo voler stare più larghi, oppure è relazione? Ecc., ecc..
Bisognerà vedere caso per caso.
Le manifestazioni verbali che hanno motivazione di relazione hanno svariati contenuti. Per motivazione
di relazione, possono venirci subito in mente quelle cose di contenuto poco importante che diciamo agli altri
quando, pur di stendere qualche filo di relazione che in quel momento sentiamo di dover stendere, diciamo
una sciocchezza qualsiasi; o parliamo delle condizioni meteorologiche; o quando, passando davanti ad un
persona che si sta soffiando, le diciamo: “Ti stai soffiando, eh?”; o quando esprimiamo tutti i modi consueti
e necessari della buona educazione, tutti aventi motivazione di relazione. Però, se penseremo solo a questo,
non ci renderemo conto che, per motivazione di relazione, cerchiamo ugualmente di non usare solamente
contenuti banali o scoloriti, e diciamo anche cose interessanti. Ma, alla fine, anche se non risulteranno tali,
l’importante è aver piazzato quel filo di relazione. Diciamo cose di noi. Chiediamo agli altri di loro.
Facciamo qualche commento su qualcosa di interesse comune. Chiediamo come sia andata a finire una
vicenda dell’altra persona. Intavoliamo discorsi nuovi. Portiamo domande su qualche cosa. Portiamo
informazioni. Esponiamo curiosità. Aggiungiamo conferme. Riprendiamo discorsi. Diciamo cose scherzose
o divertenti. Ecc., ecc..
Sì, per motivazione di relazione, diciamo anche cose interessanti ed
intelligenti. Ma è facile capire, però, che siamo in un caso speciale, nel quale il contenuto di quello che
diciamo: non è la cosa importante.
Ebbene, solo in questo caso, il contenuto della nostra manifestazione non ha importanza per noi, perché è
un contenuto libero che non deve accordarsi con la motivazione. Alla motivazione di relazione, il contenuto,
risulta abbastanza indifferente. Quel contenuto, o un altro: è lo stesso. E questa cosa capita solo qua.
E’ brutto quindi per noi: quando una nostra motivazione di relazione non produce l’effetto dovuto:
quando ha finito per seccare, o addirittura, contrariare proprio la persona destinataria, che non ha
minimamente intuito che, la nostra, era solo una motivazione di relazione; e noi, poi, dobbiamo restare
sull’argomento a sostenere un discorso di cui in quel momento non ci importa niente. Quando anche non
dovessimo perfino difendercene.
Ciò quando quella persona non ha capito qualcosa; quando ha analizzato troppo sul serio quello che le
abbiamo detto; quando l’abbiamo fermata proprio quando aveva fretta; quando c’è stato un fraintendimento.
E se poi si è irritata proprio per il contenuto di quello che abbiamo detto. Ci restiamo a bocca aperta. Non
va bene così, non vale. Paradossalmente la stessa manifestazione, che era nata per unire, finisce per avere un
risultato di allontanamento. Abbiamo l’amaro in bocca. Siamo frastornati. Se noi stessi conoscessimo
chiaramente quale era stata la nostra motivazione, penseremmo: “Un momento, non era il contenuto la cosa
importante, ma la motivazione di relazione che avevo”.
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Per vedere come relazione sintetizza un intreccio motivazionale, basta chiedersi quante sono le ragioni
per tenere in piedi un determinato rapporto: con un nostro uomo, con nostra cugina, con l’agricoltore di quel
campo, con il Custode del palazzo, con la Sciamana dell’altra montagna, con ogni impiegato del nostro
Ufficio, con l’uomo delle banane, ecc., ecc.; e soprattutto con le persone con cui viviamo sotto lo stesso
tetto. Si vedrebbe subito che le motivazioni per tenere in piedi quei determinati rapporti sono valide e
numerose. Per nostra comodità, al loro posto, diremo: relazione.
Così anche per quei rapporti che noi teniamo, in qualche modo, in piedi, e di
cui crediamo non averne alcuna ragione: “Che me ne importa di quella persona? Certo, ci trattiamo, ma
nient’altro”.
Fino ad arrivare alle persone incontrate per caso, quelle che, lo sappiamo, non rivedremo mai più: eppure,
anche per questi rapporti, in quei pochi momenti, stendiamo fili di relazione. E addirittura non è raro il caso
in cui, stando tutti fermi, guardiamo per caso, un attimo in più, una persona sconosciuta e quella, come
dire?, risponde, senza volerlo, con qualche piccolo movimento degli occhi, della bocca, o uno sbuffare in
sordina (motivazioni di relazione).
Ma se le motivazioni di relazione servono a nutrire il rapporto, come è che poi le esterniamo anche con lo
sconosciuto che non vedremo più?
Bisogna allora pensare che, su tutti i rapporti, si impone un comportamento di ripetizione atavica, da
sempre chiesto a tutti dalla Comunità: “Dovete stare tutti uniti”. Tenere anche questi rapporti ci è stato
inculcato e lo abbiamo sempre visto fare. Dall’inizio di tutte le Comunità, ad oggi, nella nostra Comunità,
l’esigenza si è tramandata fino a noi. Quindi, anche le manifestazioni di relazione di questi altri rapporti
sono mosse, anch’esse, da un intreccio di motivazioni: una buona unione di tutti i componenti della
Comunità viene ricercata anche da noi perché rafforza la nostra Comunità in cui viaggiamo. Rafforzando la
Comunità, indirettamente rafforziamo noi stessi. C’è sotto un intreccio di motivazioni e per nostra comodità,
al loro posto, diremo anche qui: motivazione di relazione.
Una grande quantità di motivazioni di relazione si rende necessaria nell’ambito dei rapporti con le
persone con cui abitiamo stabilmente insieme. Si tratta del rapporto fra genitori e figli, fra marito e moglie,
fra prigionieri della stessa cella, fra amici che condividono un appartamento, ecc., ecc..
In questi rapporti aumentano a dismisura sia le motivazioni di piccolissimo altruismo con tutte le loro
intenzioni, e sia le motivazioni di relazione. Troveremo spesso: relazione, per nutrire questi rapporti.
Quando siamo fuori casa, abbiamo bisogno di molte motivazioni di relazione, ma quando siamo dentro
casa e vi abbiamo questo tipo di rapporto continuativo, le motivazioni di relazione: allora, sono
innumerevoli. Le usiamo con grande frequenza. Devono puntellare continuamente il rapporto.
Per motivazione di relazione, tantissime cose si fanno, innumerevoli cose l’altra persona deve venire a
sapere.
Perciò non dobbiamo pensare che queste comunicazioni siano soltanto
quelle che potremmo chiamare, comunicazioni di servizio: quelle che riguardano il materiale andamento
della casa, la situazione economica, i problemi del mangiare e del dormire, le serrature che non funzionano.
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Invece, per motivazione di relazione, ci si informa su mille cose: si fanno precisazioni e chiarimenti; si
danno notizie di tutti i tipi, si fanno commenti su cose che si fanno, o interessano, ambedue; ci si interroga
su quello che stiamo facendo, si valutano insieme le situazioni comuni, ci si consiglia; si annunciano i propri
spostamenti; si dicono le cose dette dagli altri; ci si raccontano le cose avvenute fuori casa a sé e agli altri;
ci si informa su proponimenti e progetti; si dice come vanno alcune cose; ci si riferisce cose che ci capitano
sia fuori e sia interiormente; ecc., ecc.. Servono innumerevoli parole, frasi e discorsi.
Ancora di più, se le persone di quella casa hanno buoni rapporti.
E se poi si vogliano anche bene, col gioco delle motivazioni vedremo che potrebbe anche avere
motivazione di relazione dire cose più personali: riferire aspirazioni e desideri; mostrare come sono i nostri
modi di fare; spiegare il nostro carattere; descrivere i nostri sentimenti e le nostre reazioni; dire alcune cose
che pensiamo; riferire, per condividerle, sensazioni, impressioni, nostre cose; spirituali e concrete; ecc.,
ecc.: in poche parole, aprire l’animo. “Se stiamo insieme, certe cose, di me, le devi sapere; solo per questo;
perché io, in questo caso, non ho alcun altro bisogno interiore per dirtelo, nemmeno uno”; “Per il rapporto
che abbiamo, questo, te lo devo dire”; “Ti parlo di me perché viviamo insieme e ci amiamo”.
Innumerevoli cose, comprese quelle di nessunissima importanza che sembrano proprio non avere alcuna
motivazione, in questi rapporti stretti, potrebbero avere spesso motivazione di relazione. Senza saperlo,
anche tutte quelle sciocchezze, le diciamo all’altro, come se considerassimo che, anche quelle vanno dette,
servono al rapporto (motivazione di relazione).
In questo tipo di rapporti, tantissime motivazioni sono, di relazione. I gesti, i movimenti, le azioni, le
parole, le frasi, i discorsi che capitano nella rete della nostra attenzione, in questi rapporti, molti,
appartengono al benessere fisico, al piacere, al fastidio, all’altruismo, all’onestà o alla giustizia, ma,
moltissimi, hanno motivazioni di relazione.
Quindi identiche frasi ed identiche azioni che fuori casa con altre persone
potrebbero avere motivazioni di ben precise categorie, invece in casa potrebbero anche avere motivazione di
relazione.
E, come per tutte le motivazioni di relazione, tutte queste manifestazioni sono necessarie al rapporto.
Tanto è vero che, se vengono a mancare, il partner ce lo fa notare: “Se continui così, allora, come vogliamo
andare avanti?”.
Anche in questi rapporti stretti, tutte le manifestazioni di relazione devono essere precisamente quello che
devono essere. E lo devono essere perfino per quanto riguarda, come dire?, la contabilità del dare e
dell’avere morale. Alcuni di noi stabiliscono inconsciamente se tale contabilità debba essere, per noi, in
attivo o in passivo, debito o credito, nei confronti del partner; e poi precisamente, in che misura debba
esserlo (relazione). Sarà così che sapremo spiegarci alcuni nostri comportamenti che sembravano non aver
ragione di essere.
Altruismo e relazione
La pratica del gioco ci farà notare che certe volte bisognerà distinguere dentro di noi se una motivazione
sia di altruismo o di relazione. Infatti il contenuto di alcune motivazioni di relazione consiste proprio in un
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fare qualcosa per gli altri. E allora la stessissima cosa può essere detta, o fatta, per motivazione di relazione
o per motivazione di altruismo.
Certe volte, volendo tenere un rapporto in modo cordiale, o volendo che quella persona non si dispiaccia,
le facciamo, o le diciamo, cose che sembrano proprio altruistiche; e, semmai, non lo sono.
Facciamo qualcosa soccorrendo una persona che conosciamo?
Rivolgiamo un complimento ad uno?
Diciamo un rimedio ad un altro?
Taciamo una cosa?
Ci chiedono una cosa e gliela facciamo?
Apriamo una discesa a mare?
Altruismo o relazione?
Ma perché dobbiamo distinguere, se non l’abbiamo mai fatto?
Perché sono cose completamente diverse: la motivazione di relazione consiste in un intreccio di
motivazioni quasi tutte egoistiche, e non va confusa con l’altruismo.
Bisogna vedere caso per caso nel nostro animo. La risposta verrà. Il gioco delle motivazioni distingue
subito. Con motivazione di relazione, abbiamo sentito di voler assegnare quella manifestazione a quel
rapporto: “Ci vuole per il rapporto”. Con motivazione di altruismo, non pensiamo al rapporto: “Voglio dare
questo, non al rapporto, ma a quella persona”. Nulla ce lo richiederebbe. L’altruismo è libero.
La persona che riceve questi gesti, a sua volta, non distingue. Noi poi, quasi
sempre, molte di queste manifestazioni, le consideriamo, direttamente altruistiche. E allora diciamo: “Ho
fatto tanto per lui!”, là dove, semmai, ci sono state solo motivazioni di relazione.
Vorremmo sempre trovare altruismo ed invece qualche volta è relazione. Lo sappiamo: relazione, va
bene; ma altruismo, è un’altra cosa.
INTERLOCUTORE – E va bene, che fa? C’è tanto male nel mondo! Che fa, se interpretiamo un poco
meglio le cose che fanno gli altri per noi?
AUTORE – Certo, non fa niente. Però le confusioni non sono mai produttive: proprio per noi stessi. Il
gioco delle motivazioni ci aiuta anche qui, essendo il primo a capire tutta la confusione che c’era.
INTERLOCUTORE – Non è meglio, per esempio, che uno mi dà una cosa? Non è meglio riceverla, che
non riceverla? Quante storie! Significa che qualcuno fa qualcosa per me.
AUTORE – Eppure, altruismo e relazione sono due motivazioni diversissime. Da fuori, un altruismo ed
un gesto di relazione sembrano identici, ma, da dentro, l’altruismo, sia pure piccolissimo, è altruismo, ed
invece il gesto di relazione contiene in sé, quasi tutte, motivazioni egoistiche (intreccio di motivazioni).
E ci può essere anche un protagonista di moltissime motivazioni di relazione, e quindi un intrattenitore di
moltissimi calorosi rapporti con gli altri, che è convintissimo di essere una persona generosa (altruista): ed
invece, può anche essere, l’uomo più egoista del mondo. Ed anche gli altri dicono di lui: “È una bravissima
persona!”.
INTERLOCUTORE – Non me ne importa. E poi io preferisco una cosa di relazione, più che una cosa di
altruismo.
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■ E’ COMPRESO
Certe volte la motivazione si serve di una sola manifestazione esteriore.
Altre volte si deve servire di più manifestazioni.
E’ ovvio che tutte le azioni, e tutte le parole che servono la stessa motivazione appartengono ad essa. Vi
sono comprese. Tali manifestazioni hanno tutte quella stessa motivazione.
Ci sono, poi, dei casi in cui la cosa non si fa conseguire immediatamente: né subito completamente, né
subito facilmente. In tale necessità noi facciamo di tutto:
A – affinché l’obiettivo non venga mancato;
B – affinché la cosa venga portata a termine completamente;
C – affinché l’attuazione della cosa venga facilitata;
D – affinché il risultato venga reso il più efficace possibile;
E – affinché le cose vengano fatte il meglio possibile.
Tutte le manifestazioni poste in essere per ottenere i punti A, B, C, D, E, sono tutte comprese nell’unica
motivazione di cui sono al servizio.
■ ALL’INTERNO DEGLI SCAMBI VERBALI
C’è un’altra persona che sta là ed io comincio a parlarle.
Per questa iniziativa da me presa, quale motivazione?
Benessere fisico? Valore? Piacere? Fastidio? Altruismo? Onestà? Giustizia? O più insieme? O un
intreccio di motivazioni? O soldi? O relazione?
Dal nulla che c’era prima, la parola, o la frase, con cui ho iniziato a parlare devono aver avuto una decisa
spinta motivazionale. Mi sbaglierei se pensassi che possano venir fuori, così, senza una ragione.
Però, se io già avrò una certa dimestichezza col gioco delle motivazioni,
vorrò anche andare a vedere mie parole, frasi, o gruppi di frasi, all’interno degli scambi verbali con gli altri.
Spesso vorrò capire perché, ad un certo punto, ho detto una certa cosa. Mi sbaglierei se pensassi che
qualcosa che sia stato detto durante uno scambio verbale possa venir fuori, così, senza una ragione.
Aperto lo scambio verbale per una motivazione iniziale, poi al suo interno possono fiorire mille altre
motivazioni. Ogni cosa che diciamo all’interno di uno scambio verbale ha una sua precisa motivazione.
Nemmeno un: “Certo”, nemmeno un: “Così è?”, nemmeno un: “Accidenti!”, possono mancare di una loro
specifica motivazione, la quale potrà essere trovata dal gioco delle motivazioni.
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Alcune parole o frasi nello scambio verbale hanno motivazione di relazione. Ha motivazione di relazione
tutto quello che diciamo quando le parole degli altri si aspettano una qualche risposta o quando
semplicemente si aspettano da noi qualche continuazione o qualche sì di conferma; sentiamo che è il nostro
turno di parlare, anche se non ne abbiamo voglia. Bisogna pur dire qualcosa. Durante lo scambio verbale
dobbiamo replicare, dobbiamo parlare noi; proprio solo per questo, diciamo una semplice cosa, ed in questi
casi non approfittiamo in alcun modo di quella replica per portare avanti nostre altre motivazioni
(motivazione di relazione).
Ed ancora ha motivazione di relazione tutto quello che diciamo quando è necessario un po’ di
prolungamento dello scambio e diciamo qualcosa solo per questo, parole prive di qualunque altra
motivazione. Ognuno sente quanto deve durare lo scambio e sente che esso non deve finire prima del tempo
(motivazione di relazione).
Oltre a questo, quelle motivazioni all’interno degli scambi verbali, quelle che vogliono contribuire, solo e
semplicemente, all’arricchimento dello scambio, senza avere alcun’altra motivazione che questa, anch’esse,
hanno motivazione di relazione.
Abbiamo questo tipo di motivazione di relazione quando lavoriamo a favore soltanto dello scambio
verbale, non servendocene per un nostro interesse quale che sia (trattato fra pochi righi): nemmeno solo per
dire una nostra piccola scelta di valore (un’opinione a cui teniamo un poco). Le parole che hanno questo tipo
di motivazione vogliono solo far fiorire lo scambio, vogliono solo farlo bello. Si contribuisce, l’uno e l’altro,
ad una buona costruzione insieme, cosa che poi ha la funzione di unire in qualche modo l’una persona
all’altra (motivazione di relazione).
Replicare, prolungare ed arricchire: sempre lo stesso tipo di esigenza.
E tali necessità, di replicare, di prolungare, e di arricchire, siccome sono proprio a favore del rapporto che
abbiamo con quella persona, hanno motivazione di relazione. Come vedere due giocolieri che, per il tempo
necessario, tengono su una palla che rimbalza dall’uno all’altro senza cadere.
Allora, quando dobbiamo replicare, quando dobbiamo prolungare e quando vogliamo arricchire lo
scambio, senza approfittarne per portare avanti alcun altra motivazione: sembra che non ci sia alcuna
motivazione, ma la motivazione è lo scambio stesso e quindi il rapporto con gli altri (relazione).
In tantissimi casi, poi, certo, invece, ci serviamo dello scambio verbale per nostre motivazioni particolari.
Ci serviamo dello scambio verbale per portare avanti le nostre diverse e molteplici motivazioni.
E’ chiaro che, facendo il gioco delle motivazioni, andremo a vedere, come siano queste motivazioni.
Certamente, a volte, mentre parliamo con gli altri, ad un certo punto,
semmai diciamo una cosa, cercando di sapere qualcosa per la nostra salute (benessere fisico).
Certamente, a volte, fra tante motivazioni, anche quelle che sono di valore si
presentano con i loro scopi particolari. Semmai vogliamo dire una nostra cosa, o ricordare nostre cose
buone, o precisarne altre, o difenderci da qualcosa (valore).
Ma il tipo di motivazione di valore che si presenta miliardi di volte è quello che ha solo l’unico e semplice
scopo di dire le nostre opinioni: quelle che portano dietro le spalle, poco o molto, valore. Diciamo agli altri
questi nostri modi di pensare. L’occasione è buona. Non vogliamo solo stare ad ascoltare. Non vogliamo
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essere i valletti del discorso. Forse siamo sciocchi e non lo sappiamo, ma non siamo comunque pezzi di
legno. Le nostre opinioni sono vere. E ciò, nel nostro parlare con gli altri, accade spessissimo. Infatti se le
nostre opinioni che portano molto valore dietro le spalle sono poche, moltissime, invece, sono quelle che ne
portano poco; ma anche queste, con motivazione di valore, noi le vogliamo dire, spessissimo. Infatti, se si
dovessero eliminare le motivazioni di questo tipo, ci ritroveremmo poi tra le mani dei tessuti verbali pieni di
buchi.
Ci sono alcuni di noi che esprimono opinioni, spesso acute e molto personali.
Ma gli altri? Quelli che non sono tanto sicuri di sé e non hanno fiducia nelle proprie opinioni personali?
Ebbene, è lo stesso: infatti, in queste scelte di valore, la cosa che diciamo potrà anche essere qualcosa che
abbiamo letto o sentito da altri; potrà anche essere una cosa che tutti hanno già sentito mille volte; potrà
anche essere una cosa che tutti già pensano: ugualmente, questa cosa, ad un certo punto, ha valore dietro le
spalle, la sentiamo come una nostra produzione, l’abbiamo fatta nostra, l’abbiamo in qualche modo
convalidata, e la diciamo come una nostra opinione.
Gli scambi con gli altri, allora, sono stracolmi di tutte le opinioni avanzate per sola motivazione di valore.
“Non bisogna sempre fidarsi”: sento che in questo momento l’ho pensato, io, (valore); “Avere un cane in
casa è per l’uomo una grande consolazione”: sento che in questo momento lo comunico, io (valore); “Ci
vorrebbe un manico”: sento che in questo momento l’ho capito, io (valore); “Fosse stato per me, avrei fatto
bruciare tutta la città”: sento che in questo momento è un’opinione, mia (valore); “E’ un inverno molto
freddo”: sento che in questo momento è una constatazione, mia (valore); “Ci sarebbe voluta più
autorevolezza”: sento che in questo momento è un pensiero, mio (valore).
Se tutte queste frasi avevano veramente motivazione di valore, significa che infatti, io: né volevo più
cautele, né volevo indurre una migliore assistenza per un cane, né volevo che mi prestassero un manico, né
volevo spingere le cose affinché fosse bruciata la città, né volevo avere dei panni pesanti, né volevo che si
pensasse che potessi essere, io, quello che aveva più autorevolezza. E non solo io non cercavo queste cose,
ma non volevo né cercavo qualunque altra cosa.
E le cose che sappiamo?
Non solo le opinioni, ma anche le piccole cose che sappiamo e che introduciamo nel discorso spesso
possono anche avere motivazioni di valore: noi le sappiamo.
Certamente, a volte, semmai diciamo una cosa perché vogliamo avere
qualche nuova cosa bella (motivazione di piacere).
Certamente, a volte, semmai diciamo qualcosa mettendo le mani avanti per
evitarci cose che ci mettono a disagio (motivazione di fastidio).
Certamente, a volte, semmai le nostre parole vogliono portare un aiutino ad
altri (motivazione di altruismo).
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Certamente, a volte, semmai nelle nostre parole ci sono motivazioni
doverose (motivazione di onestà o motivazione di giustizia).
E, certamente, a volte, poi semmai parliamo anche per non perdere certi
interessi che non dobbiamo perdere (motivazioni di soldi).
O, certamente, a volte, poi semmai vengono trasportate motivazioni di
relazione. Quindi qua ci sono, altre, motivazioni di relazione, che non sono quelle di relazione per replicare,
allungare ed arricchire lo scambio verbale (già trattate). Qua c’è motivazione di relazione, quando
specificatamente vogliamo tenere in buono stato il rapporto con frasi che, nel caso abbiano veramente
motivazione di relazione, semmai potrebbero essere, per esempio: “…….. allora mi devi far vedere dov’è la
tua casa”, “…….. per te sono apposta venuto qua”, “…….. e proprio per questo volevo dirtelo”, “…….. e
potevi dirmelo prima”, “…….. perciò ho aspettato molto”, ecc., ecc. (relazione).
O, certamente, a volte, poi semmai diciamo cose per ottenere situazioni da
cui ci potrebbero venire, complessivamente, cose buone (intreccio di motivazioni).
Se noi potessimo disporre della trascrizione di tutta la registrazione sonora di quello che abbiamo detto
lungo un’intera giornata, e volessimo trovare in essa, una per una, tutte le nostre motivazioni, ebbene, ciò
non sarebbe impossibile.
Una frase: motivazione di piacere;
un gruppo di frasi: motivazione di relazione;
una parola: motivazione di onestà;
un’altra: motivazione di benessere fisico;
quelle due frasi: tutte e due a cooperare per motivazioni di valore ed altruismo;
quella frase: motivazione di giustizia;
quell’altra frase: anch’essa per due motivazioni, di soldi e fastidio;
quelle frasi che mirano tutte ad indirizzare le cose verso una situazione da cui scaturirebbero molte cose
forse complessivamente buone per noi: intreccio di motivazioni.
Ecc., ecc..
■ LE CATEGORIE
Ci sono differenze tra persona e persona, ma tutti andiamo verso le identiche mete: benessere fisico,
valore, piacere, fastidio, altruismo e socialità.
Nella prima culla ci sono benessere fisico, piacere e fastidio.
Poco dopo arriva il valore.
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Non a caso, i quattro bisogni egoistici innati arrivano per primi.
Non a caso, più tardi, altruismo, onestà e giustizia, i comportamenti appresi dalla Comunità.
Dopo che abbiamo trovato la nostra motivazione, dobbiamo inserirla nella categoria motivazionale cui
appartiene.
Il gioco delle motivazioni si caratterizza proprio per quest’ultima operazione. Proprio con quest’ultimo
pensamento il gioco delle motivazioni illumina la nostra psicologia.
INTERLOCUTORE – Ma io già lo faccio il gioco delle motivazioni: solo che non inserisco nelle
categorie. E allora?
AUTORE – E, quindi, va bene. Ma non basta.
INTERLOCUTORE – Perché non basta? Se ho trovato la motivazione, veramente vera, che ragione c’è di
metterla per forza nella categoria? Io so già che cosa è stato. Perché mi devo ancora sforzare il cervello?
AUTORE – Avere trovato la vera motivazione è il migliore punto di partenza. Ma è solo il punto di
partenza. Questa conoscenza non sempre basta. Occorre dare una famiglia a quello che abbiamo trovato. E
la prova che non sempre quella conoscenza basta, l’avremo quando ci capiterà di non sapere in quale
categoria debba essere inserita la motivazione che abbiamo trovato. La nostra motivazione, la vediamo, è
quella, è là davanti a noi: “L’ho fatto per quello”, o “Voglio dirlo per questo”, eppure non riusciremo a
capire a quale categoria debba appartenere. Se ci dovremo fermare a questo punto, avremo saputo poco.
Non potrà bastare aver trovato la motivazione, se dopo non riusciremo ad inserirla nella sua categoria.
Avremo saputo esprimere la motivazione in qualche modo, ma la sua natura ci sarà sfuggita.
Del resto, qualunque sapere ha sempre avuto bisogno di usare categorie di
conoscenza.
Un fenomeno, incluso nella propria categoria, risulta più chiarificato.
Così con il gioco delle motivazioni: una motivazione, solo se inserita nella sua categoria, potrà essere
veramente conosciuta.