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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DEL SALENTO FACOLTA’ DI INGEGNERIA CORSO DI LAUREA IN INGEGNERIA DEI MATERIALI TESI DI LAUREA IN MATERIALI NON METALLICI SINTESI E CARATTERIZZAZIONE DI UNA NUOVA CLASSE DI DISPOSITIVI MEDICI IMPIANTABILI A BASE DI COLLAGENE PER APPLICAZIONI IN TISSUE ENGINEERING Relatore: Laureando: Ing. ALESSANDRO SANNINO ESPOSITO MATTEO COSIMO ANNO ACCADEMICO 2009-2010

Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

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L’obiettivo di questo lavoro di tesi è stato quello di realizzare e caratterizzare scaffold (biodegradabili e biocompatibili) tubolari, altamente porosi in collagene per la rigenerazione del sistema nervoso periferico e di sperimentare una nuova tecnica di sterilizzazione per questi dispositivi medici, la sterilizzazione termica, analizzandone approfonditamente l’impatto sulle proprietà di interesse ingegneristico.

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DEL SALENTO

FACOLTA’ DI INGEGNERIA

CORSO DI LAUREA IN INGEGNERIA DEI MATERIALI

TESI DI LAUREA

IN

MATERIALI NON METALLICI

SINTESI E CARATTERIZZAZIONE DI UNA NUOVA CLASSE DI

DISPOSITIVI MEDICI IMPIANTABILI A BASE DI COLLAGENE

PER APPLICAZIONI IN TISSUE ENGINEERING

Relatore: Laureando:

Ing. ALESSANDRO SANNINO ESPOSITO MATTEO COSIMO

ANNO ACCADEMICO 2009-2010

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INTRODUZIONE

Nonostante i notevoli progressi scientifici e tecnologici raggiunti negli ultimi anni in

ambito medico e biomedico, migliaia di persone muoiono ancora in attesa di un

trapianto di organi o tessuti a causa della mancanza di donatori o di dispositivi adatti

a sostituirli.

Le protesi artificiali costituiscono una soluzione spesso solo temporanea, che non

permette il completo recupero di tutte le funzioni; i trapianti possono essere causa di

rigetto (nel caso di trapianto di organi) o di nascita di forme tumorali (nel caso di

trapianto di tessuti), e sono, comunque, legati alla disponibilità di donatori

compatibili. Inoltre, l’insorgere frequente di focolai di infezione nei siti di

intervento rappresenta, ancora oggi, una delle complicazioni più indesiderate.

Gli sforzi prodotti in questi ultimi anni nel tentativo di rivoluzionare gli approcci

clinici e terapeutici, con l’obiettivo di realizzare nuovi dispositivi medici in grado di

riparare, ripristinare o riprodurre efficacemente le funzioni di un organo o un tessuto

mal funzionante o danneggiato (per cause patologiche o traumatiche) derivano

proprio dall’esigenza di superare i numerosi limiti dei metodi di intervento

tradizionali e hanno portato alla nascita di un nuovo campo del sapere: l’Ingegneria

Tissutale.

L’espressione “Ingegneria Tissutale” è la traduzione italiana di “Tissue

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Engineering”, termine coniato ufficialmente nel 1988 dalla National Science

Foundation per definire un campo di studi multidisciplinare che si avvale dei

principi e dei metodi delle scienze biologiche e dell’ingegneria, oltre che della

chimica e della fisica, per realizzare dei sostituti artificiali bioattivi in grado di

indurre la riparazione e la rigenerazione di tessuti o organi [1].

Il metodo della Tissue Engineering, altamente innovativo, prevede la semina di

cellule su complesse strutture 3D (scaffold), realizzate con opportuni materiali e

dotate di specifiche proprietà e, generalmente, la loro coltivazione in appositi

incubatori (bioreattori), fino alla colonizzazione dello scaffold ed alla produzione di

nuovo tessuto.

Le applicazioni della Tissue Engineering possono essere classificate in due ampie

categorie: applicazioni terapeutiche, nelle quali il tessuto viene cresciuto

direttamente nel paziente (in vivo) o all’esterno del paziente (in vitro) e poi

trapiantato; e applicazioni diagnostiche, nelle quali il tessuto è creato in vitro, e poi

utilizzato per testare il metabolismo e l’assorbimento di un farmaco, la tossicità, la

patogenicità, e così via. Le caratteristiche dei materiali per ognuna di queste due

ampie categorie sono in generale diverse ma possono spesso sovrapporsi.

Grazie alla piena comprensione sia dei meccanismi che sono alla base dei processi

cellulari che dell’organizzazione e dell’architettura dei tessuti, e all’ausilio delle

continue innovazioni offerte dalla chimica, dalla fisica, dalla scienza e tecnologia

dei materiali e dall’ingegneria, la Tissue Engineering ha, dunque, come obiettivo

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quello di progettare e sviluppare dei costrutti (scaffold) all’interno dei quali far

ricrescere o rigenerare uno specifico tessuto, in vitro o in vivo.

L’Ingegneria Tissutale possiede, dunque, tutti gli strumenti e il potenziale per

permetterci di pensare alla possibilità concreta che, in un futuro non lontano, saremo

capaci di produrre un vero e proprio serbatoio di tessuti, o addirittura organi,

sintetizzati ex vivo, e questo rappresenta senz’altro il traguardo più stimolante di un

settore in continua evoluzione.

Uno tra i più importanti biomateriali utilizzati per le realizzazione di scaffold per

applicazioni biomediche è il collagene che, grazie alle sue caratteristiche biologiche

e alle sue proprietà meccaniche e chimico-fisiche, è diventato una risorsa primaria

nella sintesi di prodotti e dispositivi per la rigenerazione di tessuti e organi. Molti

polimeri naturali e i loro analoghi sintetici sono stati e sono utilizzati quali

biomateriali ma le peculiarità del collagene sono tali da renderlo unico nelle

modalità di interazione e integrazione all’interno dell’organismo.

L’obiettivo di questo lavoro di tesi è stato quello di realizzare e caratterizzare

scaffold (biodegradabili e biocompatibili) tubolari, altamente porosi in collagene per

la rigenerazione del sistema nervoso periferico e di sperimentare una nuova tecnica

di sterilizzazione per questi dispositivi medici, la sterilizzazione termica,

analizzandone approfonditamente l’impatto sulle proprietà di interesse

ingegneristico.

Dopo l’iniziale resoconto sullo stato dell’arte, saranno riportati dei cenni sulle

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tecniche utilizzate fino ad ora per la produzione degli scaffold e sulla biologia del

sistema nervoso periferico. Successivamente ci si soffermerà sui materiali e metodi

utilizzati durante il processo di sintesi, fabbricazione, reticolazione e sterilizzazione

dello scaffold, con un’accurata descrizione degli strumenti utilizzati, delle

tecnologie applicate e delle modalità di esecuzione delle prove. Infine, l’ultima parte

sarà dedicata all’analisi dei risultati ottenuti ed ad alcune raccomandazioni per il

futuro.

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L’INGEGNERIA TISSUTALE: STATO DELL’ARTE

Nell’ultimo secolo, la speranza di vita degli uomini è notevolmente aumentata. Di

pari passo è aumentata anche la richiesta di riparare o di ristabilire la funzionalità di

tessuti e organi malati o danneggiati. A differenza di alcuni piccoli animali come le

lucertole, le salamandre e alcuni tipi di rane, che sono in grado di rigenerare le

zampe o la coda in seguito alla loro perdita, gli animali più grandi come l’uomo non

hanno questa capacità. E’ sorprendente come il corpo di questi animali sappia quale

parte del corpo far ricrescere, e che lo sappia fare esattamente con la stessa forma.

Nell’uomo, invece, le cellule non hanno la capacità di ricrescere e organizzarsi

nell’architettura anatomica precedente. Infatti, numerosi tessuti dell’organismo

umano non sono in grado di rigenerare spontaneamente (è ben noto che la capacità

delle cellule di proliferare non garantisce la rigenerazione di un tessuto adulto

lesionato) e anche i tessuti che sono in grado di farlo possono non rigenerare

spontaneamente quando gravemente danneggiati (e.g., ossa). Essi, inoltre, tendono a

“ripararsi”, intervenendo nel sito della lesione con le formazione di tessuto

connettivo (i.e., tessuto cicatriziale, che chiude la ferita e limita l’ulteriore

estensione del danno), piuttosto che rigenerare.

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2.1 La Tissue Engineering

Attualmente gli approcci principali per far fronte alla perdita o alle lesioni di tessuti

e organi sono la chirurgia ricostruttiva, il trapianto o il ricorso a dispositivi

meccanici (e.g., macchine per emo-dialisi). Tuttavia, tutte queste strategie

presentano, ancora oggi, dei limiti considerevoli e degli aspetti indesiderati: la

chirurgia può dar luogo a problemi di lungo termine (il cancro al colon spesso si

sviluppa dopo il trattamento chirurgico dell’incontinenza perché l’urina può

penetrare nel colon), il trapianto è fortemente condizionato dalla sempre maggiore

scarsità di donatori (in Europa i problemi renali causano più di 30.000 morti

all’anno a fronte di 2.000 ÷ 3.000 trapianti), i dispositivi meccanici non sono in

grado di svolgere tutte le funzioni di un singolo organo (perciò non possono

prevenire il progressivo deterioramento del paziente).

Nel tentativo di trovare una soluzione a questi problemi, ovvero di rivoluzionare gli

approcci clinici e terapeutici, con l’obiettivo di realizzare nuovi dispositivi medici

per mezzo dei quali ripristinare o migliorare efficacemente la funzionalità di organi

o tessuti mal funzionanti o danneggiati (per cause patologiche o traumatiche), è

emersa una nuova scienza, l’Ingegneria Tissutale.

Con il termine “Ingegneria Tissutale” si traduce l’espressione anglosassone “Tissue

Engineering” coniata ufficialmente nel 1988 dal National Science Foundation per

indicare un nuovo campo multidisciplinare che applica i principi e i metodi

dell’ingegneria e della biologia per la comprensione delle relazioni

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struttura/funzione dei tessuti dei mammiferi e che sviluppa sostituti biologici per la

rigenerazione, il mantenimento o il miglioramento delle prestazioni dei tessuti

stessi. È seguita nel 1998 la definizione della Commissione Europea: “l’Ingegneria

Tissutale è la rigenerazione dei tessuti biologici attraverso l’uso di cellule ottenute

con l’aiuto di strutture di supporto e/o biomolecole”.

In altre parole, la Tissue Engineering ha l’obiettivo di realizzare opportuni

supporti/sostituti biocompatibili e bioattivi su cui far avvenire i processi biologici

per indurre la rigenerazione di un particolare tessuto o organo.

La sfida dell’Ingegneria Tissutale è duplice: da un lato ha il compito di progettare

un supporto (scaffold) che permetta alle cellule di organizzarsi in strutture

complesse, dall’altro ha il compito di capire e riprodurre le condizioni che

consentono a queste ultime di crescere, moltiplicarsi e differenziarsi nei diversi tipi

di tessuti.

Quindi, da un lato, gli scaffold devono essere progettati in modo da disciplinare

l’adesione e la migrazione cellulare (attraverso la chimica superficiale e la

morfologia), favorire la proliferazione (attraverso la diffusione di sostanze nutritive

e fornendo appropriati segnali biochimici e meccanici) e tutte le attività cellulari

(attraverso l’adsorbimento di proteine, fattori di crescita e altre molecole), aiutare le

cellule ad esprimere il fenotipo specifico e controllare la formazione della ECM.

Dall’altro, è di fondamentale importanza identificare i fattori endogeni che

prevengono la rigenerazione spontanea e causano la modifica del micro-ambiente

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cellulare conseguente alla lesione, sopprimendo o limitando l’azione dei fattori

inibitori, in modo da istruire le cellule verso la rigenerazione piuttosto che la

riparazione.

In generale, un costrutto di Ingegneria Tissutale è formato, dunque, da una

componente cellulare che viene seminata su una matrice di base (lo scaffold),

costituita da una componente artificiale o naturale, che garantisce un supporto e una

guida per la crescita e lo sviluppo delle cellule e dei tessuti di interesse, permettendo

loro di organizzarsi in particolari strutture biologiche (Fig. 1).

Fig. 2.1 Il metodo della Tissue Engineering

Per poter fornire in vitro l’ambiente funzionale per lo sviluppo del tessuto e i

nutrienti necessari, inoltre, si utilizza un incubatore, detto bioreattore. I bioreattori

sono generalmente definiti come dei dispositivi in cui si sviluppano processi

biologici e biochimici sotto stretto monitoraggio, sotto condizioni ambientali

controllate e sotto condizioni operative date (pH, temperatura, pressione, apporto di

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elementi nutritivi, smaltimento scorie, ecc.). L’alto grado di riproducibilità, il

controllo e l’automazione introdotti attraverso l’utilizzo dei bireattori per specifici

processi biologici hanno permesso lo sviluppo di applicazioni su larga scala [1].

I materiali utilizzati per la realizzazione di scaffold per l’Ingegneria Tissutale

possono essere divisi in organici sintetici (tra cui, ad esempio, i poliesteri alifatici e

il polietilenglicole), organici naturali (collagene, gel di fibrina, acido ialuronico,

chitosano, gelatina, etc.), inorganici sintetici (idrossiapatite, fosfato di calcio, vetro

ceramico) e inorganici naturali.

I materiali di tipo polimerico sono tra i più utilizzati per applicazioni di Ingegneria

Tissutale. Essi possono essere divisi in 3 gruppi: polimeri sintetici, polimeri

naturali, polimeri derivanti da una combinazione dei polimeri precedenti.

Per quanto riguarda i polimeri sintetici, sono definite tutte le proprietà chimiche e

fisiche, come ad esempio peso molecolare, tempo di degradazione e idrofobicità, e

sono di facile fabbricazione. Tra i più popolari polimeri sintetici organici

ricordiamo: l’acido poli-lattico (PLA), l’acido poli-glicolico (PGA), il loro

copolimero (PLGA), il poli-caprolattone (PCL), etc.; il poli-etilenglicole (PEG); il

poliuretano (PU); etc.

I polimeri naturali comprendono le proteine della matrice extracellulare (ECM) e i

loro derivati, la cellulosa, il chitosano, etc. Il più importante di questi composti è il

collagene.

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Il collagene è la principale proteina strutturale negli animali e la più abbondante nei

mammiferi (più del 30% di tutte le proteine dei vertebrati). Nell’uomo costituisce

circa il 6% del peso corporeo: più del 90% delle proteine extracellulari dei tendini e

delle ossa, e più del 50% di quelle della pelle sono costituite da collagene. Il

collagene rappresenta l’elemento primario della matrice extracellulare, alla quale

conferisce le proprietà di framework di supporto (struttura scaffold-like),

permettendo e mediando le interazioni tra le cellule arrangiate al suo interno, e

garantendo, così, la stabilità meccanica e biochimica dei tessuti. L’onnipresenza di

questa scleroproteina e il suo arrangiamento architetturale determinano proprietà

fondamentali dei vari tipi di tessuto connettivo, quali la resistenza meccanica e

l’attivazione del processo di coagulazione del sangue, oltre che la conformazione

anatomica e la morfologia.

Molti polimeri naturali e i loro analoghi sintetici sono stati e sono utilizzati quali

biomateriali per la realizzazione di scaffold per applicazioni biomediche ma le

peculiarità del collagene sono tali da renderlo unico nelle modalità di interazione e

integrazione all’interno dell’organismo.

Il collagene, infatti, è altamente biocompatibile (antigenicità e immunogenicità

molto basse), resistente alla proteolisi (grazie alla sua struttura molecolare) ma

facilmente riassorbibile (con possibilità di modularne ad hoc il profilo di

biodegradabilità tramite opportuni trattamenti), sinergico con i componenti bioattivi

e compatibile con i polimeri sintetici; ha ottime proprietà emostatiche ed è

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opportunamente modificabile tramite i suoi gruppi funzionali. Inoltre, le sue

macromolecole sono in grado di formare delle fibre caratterizzate da elevata

resistenza e stabilità. Tutte queste caratteristiche fanno del collagene un substrato

ideale per lo svolgimento delle funzioni cellulari: adesione, migrazione,

proliferazione, etc. Esso, inoltre, può essere processato in svariate forme (polveri,

microparticelle, mini-pellet, grani, soluzioni e dispersioni, gel, film, sponges, etc.)

per trovare naturale applicazione in numerosi settori, tra cui, come detto, quello

medico e biomedico, ma anche in quello cosmetico, farmaceutico e alimentare.

In definitiva, i polimeri naturali possono ricreare meglio l’ambiente cellulare nativo

e non producono prodotti di degradazione tossici per l’organismo, mentre quelli

sintetici danno la possibilità di un controllo delle proprietà meccaniche e chimiche

migliore dei precedenti, oltre a vantaggi in termini di costo e riproducibilità.

2.2 Lo scaffold

Se l’obiettivo della prima generazione di materiali e dispositivi biomedici, durante

gli anni ’60 e ’70, era quello di ottenere adeguate proprietà fisiche tali da uguagliare

il tessuto sostituito e quello della seconda generazione (anni ’80) di indurre reazioni

controllate nell’ambiente fisiologico, l’obiettivo dei biomateriali di nuova

generazione è quello di combinare queste due proprietà in modo tale da stimolare

specifiche risposte cellulari a livello fisiologico.

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Un passo fondamentale compiuto dall’Ingegneria Tissutale è stato proprio quello di

comprendere l’importanza rivestita dal substrato nel processo di rigenerazione

tissutale, ovvero dalla capacità di progettare e sviluppare particolari e adeguate

matrici tridimensionali, o scaffold, in grado di svolgere determinate e specifiche

funzioni di sostegno e di guida, oltre che di protezione e di signalling per le cellule.

Essi, infatti, idealmente dovrebbero essere in grado di mimare fedelmente il

microambiente cellulare (specifico per ogni particolare tessuto), di favorirne

l’adesione, la proliferazione e la migrazione, ovvero di svolgere la funzione

normalmente svolta dalla matrice extracellulare (ECM), ma anche garantire la

vascolarizzazione del neo-tessuto, oltre che permettere il trasporto di nutrienti e

biomolecole (fattori di crescita, geni, etc.) [2].

Una volta esplicate tali funzioni, inoltre, questi costrutti devono poter essere

riassorbiti senza la necessità di interventi addizionali di rimozione, portando alla

completa integrazione del tessuto rigenerato nell’organismo.

Essi, dunque, giocano un ruolo chiave nella strategia di intervento alla base del

metodo dell’Ingegneria dei Tessuti. Scaffold tridimensionali porosi sono stati

ampiamente usati in applicazioni di Ingegneria Tissutale e numerosi studi, basati sul

loro utilizzo, sono stati condotti, in vitro, per comprendere approfonditamente i

meccanismi di interazione cellula-scaffold, e in in vivo, nel tentativo di indurre la

rigenerazione dei tessuti [4].

Tuttavia, nonostante i sorprendenti progressi compiuti negli ultimi anni grazie ai

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mezzi tecnologici e scientifici sempre più potenti che consentono analisi e sempre

più approfondite e accurate, effettuate nel tentativo di comprendere a fondo i

meccanismi di base dei processi biologici e di replicarli, molti problemi rimangono

ancora da risolvere nell’ottimizzazione delle loro performance.

Diversi requisiti fisici e strutturali si sono rivelati da subito fondamentali per il

corretto e efficace funzionamento di uno scaffold. Tra essi, i più importanti sono:

struttura tridimensionale con un’elevatissima porosità interconnessa (intorno

al 95%) in modo da massimizzare il rapporto area/volume e favorire le interazioni

cellula-substrato, ovvero, la migrazione e la crescita delle cellule, nonché, il

trasporto dei nutrienti anche nelle parti più interne dello scaffold [4-7].

dimensione ottimale del poro (quella che permette da un lato di determinare

un passaggio selettivo dei vari tipi di cellule, l’adesione e la crescita delle stesse, e

dall’altro di ottenere adeguate proprietà meccaniche) che può variare all’interno di

un range che va da 20 µm (limite inferiore sotto in quale gli scaffold sono inattivi)

fino a 100- 200 µm (limite superiore oltre il quale non svolge la funzione di

selezionatore di cellule) [4-7]; da notare che tale range varia in base alle

caratteristiche del tessuto da rigenerare e delle relative cellule [5, 6];

presenza di pattern e gradienti di porosità, che influenzano l’adesione, i

percorsi di migrazione e la densità e l’omogeneità di distribuzione delle cellule

all’interno della matrice [5];

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biocompatibilità e biodegradabilità, affinché, lo scaffold possa interagire ed

essere assorbito dall’organismo senza problemi, in particolar modo, con una

velocità di degradazione controllata e simile a quella di ricrescita del nuovo tessuto;

appropriate superficie specifica e chimica superficiale , tali da garantire

l’adesione, la proliferazione e la differenziazione cellulare [5];

proprietà bio-meccaniche comparabili con quelle del tessuto considerato e, in

particolare, capacità di sostenere i carichi;

capacità di replicare forme complesse in base ai difetti tissutali da sostituire;

possibilità di rilasciare in maniera controllata fattori di crescita, farmaci,

nutrienti e geni incorporati al loro interno;

2.2.1 La progettazione degli scaffold

La struttura degli scaffold usati nell’Ingegneria Tissutale deve essere progettata per

incontrare un numero consistente di requisiti come la biocompatibilità, la velocità di

degradazione, la morfologia e la capacità di rispondere adeguatamente agli stimoli

meccanici [7]. Tali requisiti spesso risultano essere in conflitto tra di loro:

l’incremento delle caratteristiche meccaniche, ad esempio, richiederebbe uno

scaffold con una densità maggiore, mentre, per favorire l’interazione cellula-

substrato, è richiesto uno scaffold altamente poroso [8].

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Diversi metodi sono stati sviluppati per produrre scaffold porosi. I più importanti

sono [2]:

Solvent casting \ particulate leaching: questa tecnica prevede la produzione di

una soluzione di polimero in cloroformio con l’aggiunta di particelle porogene con

un diametro specifico per produrre una sospensione uniforme (Mikos e al., 1994-

1996). Il solvente viene fatto evaporare permettendo la formazione di una struttura

altamente porosa;

Gas foaming: per eliminare la necessità di solventi organici nel processo di

formazione dei pori, è stata introdotta questa tecnica che usa un gas come agente

porogeno. Il processo comporta la saturazione di un polimero biodegradabile (PGA,

PLLA, PLGA) con anidride carbonica (CO2) ad alta pressione. La pressione del gas

è fatta decrescere poi rapidamente fino alla pressione atmosferica. Usando questa

tecnica si ottiene uno scaffold altamente poroso con dimensioni dei pori maggiori di

100 μm, ma i pori sono fortemente disconnessi.

Fiber bonding: questa tecnica consiste nell’unione di fibre di PGA seguendo

2 diverse tecniche:

1) le fibre di polimero sono immerse in una soluzione di PLLA,

successivamente il solvente viene fatto evaporare, formando in questo modo una

struttura in cui rimane intrappolato il PLLA. A questo punto il composito così

ottenuto viene riscaldato al di sopra della T di fusione di entrambi i polimeri, il

PLLA fonde per primo riempiendo tutti i vuoti lasciati dalle fibre. Questa tecnica

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genera un dispositivo con una porosità intorno all’80% con pori di diametro di circa

500 μm;

2) Le fibre di polimero sono nebulizzate con PLLA o PLGA disciolte in un

solvente, successivamente il solvente evapora lasciando le fibre incollate con il

polimero;

Entrambe le tecniche permettono di produrre scaffold altamente porosi, ma

utilizzano solventi che potrebbero rivelarsi tossici per le cellule se non rimossi

completamente. Per rimuovere queste sostanze, i dispositivi devono essere essiccati

sotto vuoto per diverso tempo;

Separazione di fase \ emulsione: sono tecniche basate sull’aggiunta di un

agente porogeno. Includono le tecniche di emulsione, del freeze-drying e della

separazione di fase liquido/liquido, e permettono di ottenere porosità intorno al 90%

e dimensioni dei pori di circa 100 μm;

Esistono anche nuove tecniche di produzione degli scaffold che offrono la

possibilità di generare una migliore interconnessione dei pori; fra queste, la più

innovativa è la prototipazione rapida (RP). Questo processo permette di realizzare

un oggetto tridimensionale attraverso deposizioni successive di strati di materiale,

utilizzando una serie di dispositivi controllati da un computer seguendo un modello

bidimensionale della selezione dell’oggetto da ottenere. Tra le principali tecniche di

RP ricordiamo:

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3D printing: il materiale in polvere viene compattato con un solvente o

collante sottoforma di strati sottili. Progressivamente questi strati sono compattati

per formare il dispositivo finale. Un parametro fondamentale di questa tecnica è la

granulometria delle polveri;

Fused deposition modelling (FDM): questa tecnica consiste nella

deposizione piano dopo piano tramite una testina dalla quale fuoriesce un polimero

semifuso;

Stereolitografia: questa tecnica si utilizza con polimeri fotosensibili ed è

suddivisa in 4 fasi: preparazione, costruzione, pulizia e post-trattamento. Attraverso

un raggio laser si effettua la polimerizzazione di un polimero allo stato liquido strato

per strato fino ad ottenere il dispositivo finale;

Selective laser sintering: permette la sinterizzazione laser di un materiale

sotto forma di polvere.

In questo lavoro di tesi verrà utilizzata la tecnica dello spinning associata alla

tecnica della liofilizzazione, brevettata per la prima volta dal’Ing. A. Sannino e altri

[34]: tale tecnica permette di ottenere scaffold altamente porosi di forma tubolare

senza ricorrere all’ausili di complessi sistemi di stampo.

La tecnica prevede che una sospensione collagene in acqua, iniettata all’interno di

un tubo in PVC o silicone a sua volta posto all’interno di uno stampo cilindrico in

rame, venga fatta ruotare molto velocemente (spinning) intorno all’asse

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longitudinale dello stampo stesso, per un determinato periodo di tempo e ad una

specifica velocità di rotazione. In questo modo, a causa della differenza di densità

tra i componenti della miscela, il collagene tende a sedimentare verso le pareti

interne del contenitore (tubo), mentre l’acqua rimane nelle zona centrale.

La sospensione viene, poi, sottoposta ad un rapido congelamento (freezing)

immergendo lo stampo in un bagno di azoto liquido, in modo da fissare

(“congelare”) la separazione di fase così ottenuta. In seguito alla rapida

solidificazione, infatti, il collagene rimane confinato nella regione più esterna del

lumen del tubo. Il freezing della sospensione determina la formazione di una rete

interconnessa di cristalli di ghiaccio, che crescono e si sviluppano nella direzione

della diffusione del calore (radiale).

La successiva sublimazione del solvente (acqua), concentrato principalmente nella

regione centrale del lumen del tubo, ottenuta attraverso il processo di liofilizzazione,

porta all’ottenimento di una struttura tubolare, altamente porosa.

Questa particolare tecnica consente di ottenere supporti tubolari le cui pareti

esibiscono una struttura porosa caratterizzata da allineamento radiale dei pori ma,

soprattutto, nei casi di estrema sedimentazione, da un vero e proprio gradiente

di porosità radiale, per il quale la regione più esterna della parete del tubo mostra

una maggiore frazione volumetrica di solido e una minore dimensione media dei

pori rispetto alla regione più interna, in accordo con la necessità di dotare il

campione di determinate proprietà di permeabilità per i fattori nutrienti delle cellule.

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Questa significativa differenza nella distribuzione dei pori è da attribuire all’effetto

combinato della sedimentazione, dovuta allo spinning, e del trasferimento di calore,

dovuto al freezing.

Così, la regione interna della parete del tubo forma una zona permeabile alle cellule

che possono migrare all’interno dello scaffold dalla parte interna del tubo, mentre la

regione esterna della parete costituisce una “barriera” impermeabile alle cellule ma

non alle proteine. Uno scaffold avente una simile struttura può facilitare lo studio

della direzione di migrazione cellulare durante la rigenerazione del nervo

periferico.

2.3 La componente cellulare

Il metodo della Tissue Engineering (Fig. 1) si avvale, dunque, oltre che di

complesse strutture di supporto (naturali o artificiali) progettate ad hoc, anche della

componente cellulare.

Le cellule utilizzate possono essere specifiche del particolare tessuto che si vuole

rigenerare (differenziate o progenitrici) oppure staminali (embrionali o adulte);

inoltre, possono essere autologhe (provenienti da parti sane dello stesso paziente),

allogeniche (provenienti da organismi della stessa specie) o xenogeniche

(provenienti da organismi di specie diverse). Esse devono essere capaci di

proliferare e rigenerare in condizioni controllate e riproducibili.

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Cellule mature isolate tramite biopsia tissutale possono essere reimpiantate nello

stesso donatore evitando reazioni di rigetto e trasmissione di malattie, ma non sono

le migliori data la bassa capacità replicativa.

Le staminali, al contrario, sono cellule indifferenziate capaci di rigenerare per tempi

prolungati. Le cellule staminali adulte hanno mostrato una sorprendente versatilità

ed un discreto potenziale proliferativo, per questo sono adatte per la rigenerazione

tissutale, anche se, rispetto le cellule staminali embrionali, possiedono un potere

proliferativo più limitato [3].

2.4 La rigenerazione dei tessuti ed organi

Il ricorso sempre più ampio all’uso di biomateriali nella fabbricazione di dispositivi

medici per Terapie Avanzate (Tissue Engineering) ha permesso la realizzazione di

sistemi innovativi per il trattamento di numerose patologie o difetti: sistemi per il

trasporto mirato di medicinali e per la rigenerazione di muscoli cardiaci infartuati e

di tessuti come la pelle, la cartilagine, le ossa, i vasi sanguigni e i nervi [9].

Nonostante ciò, molti sono ancora i problemi incontrati nella rigenerazione di

tessuti più complessi come, ad esempio, fegato e reni. Le maggiori difficoltà

riscontrate sono principalmente due. La prima consiste nella difficoltà di strutturare

i diversi tipi di tessuto che compongono gli organi più complessi; la seconda

consiste nel facilitare la vascolarizzare di una struttura tridimensionale complessa e

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ciò pone notevoli limiti alle dimensioni massime da sostituire.

Molti progressi sono stati compiuti dalla Medicina Rigenerativa negli ultimi anni

per quanto riguarda la rigenerazione di vari tipi di tessuti, ma il sogno della

comunità scientifica è quello di poter creare ex vivo tessuti e organi completamente

nuovi da impiantare.

2.4.1 La rigenerazione della pelle

Lo sviluppo di nuovi materiali e il miglioramento dei materiali esistenti per

promuovere la rigenerazione della pelle costituiscono una vasta area di ricerca nella

Tissue Engineering. I traumi della pelle possono essere causati dal calore, da agenti

chimici, dalle folgorazioni, dai raggi ultravioletti, dall’energia nucleare, oppure, da

incidenti che determinano l’usura del derma [9].

La pelle è stato il primo tessuto a essere ingegnerizzato e ad essere impiantato su un

paziente. Sono state messe a punto diverse tecniche per ottenere un tessuto

ingegnerizzato utilizzabile in, particolare, nei casi clinici di maggiore gravità

(innesti di pelle di cadaveri o xeno-innesti), ma spesso tali metodi non sono immuni

da ulteriori problematiche, come ad esempio, il rigetto del tessuto stesso da parte

dell’organismo [9].

Un altro metodo è quello di favorire la rigenerazione naturale attraverso l’innesto di

pelle autologa, ma il deficit tissutale che si crea nel sito di prelievo (donor site)

Page 23: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

rappresenta un limite notevole di questa tecnica [9].

Oggi l’Ingegneria Tissutale permette di ottenere il tessuto in vitro attraverso colture

tridimensionali di fibroblasti prelevati, ad esempio, dalla placenta dei neonati e posti

su scaffold polimerici, in modo che producano una miscela di fattori di crescita e

proteine per la formazione della ECM [9].

Tali scaffold sono caratterizzati da una elevatissima porosità, necessaria per

permettere la diffusione di nutrienti, proteine e acqua e, dunque, per prevenire la

disidratazione del tessuto, ma anche da proprietà meccaniche e strutturali

comparabili a quelle della pelle e da una cinetica di degradazione controllata [9].

2.4.2 La rigenerazione della cartilagine

Negli ultimi anni una delle aree di ricerca più importanti dell’Ingegneria Tissutale è

stata quella relativa alla rigenerazione della cartilagine. I difetti della cartilagine non

possono essere adeguatamente curati con le normali procedure cliniche e la ricerca

di nuovi metodi di cura ha portato al miglioramento delle condizioni di vita di

milioni di pazienti [9].

I polimeri studiati per rigenerare la cartilagine possono essere di due tipi: polimeri

non degradabili e polimeri degradabili; tuttavia oggi i ricercatori protendono a

utilizzare maggiormente polimeri degradabili poiché permettono di ottenere scaffold

temporanei [9].

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Rispetto ad altri tessuti, la cartilagine possiede caratteristiche che consentono una

facile ingegnerizzazione; essa, infatti, non ha grandi esigenze nutrizionali e non

richiede la formazione di nuovi vasi sanguigni, perciò lo scaffold può essere

progettato in modo da avere un’elevata densità cellulare, minimizzando la porosità

necessaria per l’apporto di nutrienti e ossigeno e l’eliminazione delle scorie [9].

2.4.3 La rigenerazione dell’osso

È noto che il corpo umano è in grado di auto-riparare i piccoli difetti dell’osso

prodotti in seguito a traumi. Tuttavia, difetti più grandi necessitano di interventi

clinici adeguati.

I primi materiali utilizzati per la realizzazione di scaffold per la rigenerazione

dell’osso erano di natura ceramica (e.g., titanio), ma, spesso, questi dispositivi

avevano tempi lunghi di riassorbimento. Oggi si sono fatti strada polimeri

contenenti idrossiapatite con migliori proprietà di riassorbimento [9].

Per questo tipo di difetti, la Tissue Engineering ha sviluppato scaffold con

un’elevata densità e un’alta stabilità meccanica, in grado di fungere da ancoraggio e

da indicatore strutturale per le cellule [9].

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2.4.4 La rigenerazione dei condotti vascolari

Una delle principali malattie del sistema vascolare (vasi sanguigni) è costituita

dall’arteriosclerosi, che determina un restringimento dei vasi che ostruisce il

passaggio del sangue. Un trattamento clinico di questo difetto consiste nel bypassare

l’area interessata con un innesto artificiale o un innesto autologo [9].

Tuttavia, non sempre sono disponibili innesti autologhi, perciò l’Ingegneria

Tissutale ha sviluppato diverse procedure per ottenere innesti artificiali

biocompatibili. Una di queste tecniche prevede la coltivazione di cellule endoteliali

dell’aorta bovina, cellule del muscolo liscio e fibroblasti. Il primo step di tale

tecnica prevede la disposizione su un manicotto di forma cilindrica di una coltura di

collagene e cellule del muscolo liscio, in modo da formare la cosiddetta tunica

liscia dei condotti vascolari; successivamente, tale struttura viene ricoperta con i

fibroblasti per l’ottenimento della tunica avventizia e, infine, si procede con

l’estrazione del manicotto e con la semina delle cellule endoteliali per promuovere

la formazione della tunica intima [9].

2.5 La rigenerazione del sistema nervoso periferico

2.5.1 Cenni di anatomia e biologia del sistema nervoso

Il sistema nervoso umano “raccoglie” informazioni all’interno del corpo e

dall’ambiente esterno e organizza le reazioni più appropriate dirigendo l’attività

Page 26: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

muscolare e l’attività degli organi interni. Si suddivide in sistema nervoso centrale

(SNC), composto da cervello e midollo spinale, e sistema nervoso periferico (SNP),

costituito dai nervi, che rappresentano le “vie di trasmissione” degli impulsi nervosi

provenienti dal sistema nervoso centrale.

In questo studio cercheremo di capire più a fondo l’anatomia e il funzionamento del

sistema nervoso periferico. Come già accennato, il SNP trasmette segnali elettrici

tra il SNC e i recettori motori e sensoriali in modo da regolare tutti i movimenti e le

sensazioni. I neuroni (Fig. 2.2) sono le cellule specializzate che permettono di

condurre questi impulsi elettrici.

Il neurone è costituito da un voluminoso corpo centrale, chiamato soma, in cui

vengono prodotti gli impulsi nervosi e da prolungamenti lunghi e sottili, attraverso

cui viaggiano gli impulsi stessi. Esistono 2 tipi fondamentali di questi

prolungamenti: i dendriti, più corti e ramificati, che ricevono gli stimoli dalla

periferia, e gli assoni (ogni neurone possiede un solo assone), che trasporta gli

impulsi elettrici verso la periferia.

Gli assoni sono spesso lunghissimi (raggiungono il metro di lunghezza) e sono

caratterizzati da un rivestimento isolante, la cosiddetta guaina mielinica. La regione

terminale in cui incontra la cellula è detta sinapsi. La guaina mielinica è prodotta

dalle cellule di Schwann che circondano gli assoni. Ogni cellula di Schwann riesce a

ricoprire con la mielina solo piccolissimi tratti di assoni, per questo motivo, intorno

all’assone, occorrono numerose cellule di questo tipo. Alcune piccole aree degli

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assoni non sono circondate dalla guaina mielinica, tali zone sono chiamate nodi di

Ranvier e permettono la trasmissione dei segnali in maniera molto più veloce.

Fig. 2.2 Il neurone

Migliaia di assoni sono raggruppati insieme all’interno di una guaina di tipo

connettivo, chiamato perinevrio. Infine, tutto il nervo è protetto da uno strato di

tessuto connettivo che prende il nome di epinevrio che ha la funzione di proteggere

il nervo dalle aggressioni fisiche esterne [10].

2.5.2 Danneggiamento di un nervo

Quando un assone viene danneggiato, la parte collegata direttamente al soma

continua a sopravvivere (parte prossimale), mentre la restante parte (parte distale) in

condizioni normali muore.

Più in particolare, nel momento in cui l’assone viene danneggiato si ha la perdita di

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materiale nervoso fino a quando non interviene la membrana a chiudere la soluzione

di continuità e a cicatrizzare la ferita. Contemporaneamente il segmento distale

dell’assone degenera perché privo della sua fonte di nutrimento; il processo di

degenerazione può durare anche più di un mese anche se il collegamento sinaptico

si interrompe quasi istantaneamente.

In alcune situazioni, gli assoni del sistema nervoso possono rigenerare e ristabilire

connessioni sinaptiche grazie a dei fattori neurotrofici prodotti dalle cellule di

Schwann che mantengono vitale il corpo cellulare e stimolano la ricrescita

dell’assone che raggiunge il tessuto bersaglio seguendo i segnali chimici nella

matrice extra-cellulare; laddove questo non fosse possibile si capisce l’importanza

della presenza di un opportuno supporto che funga da ponte per ristabilire il

collegamento nervoso interrotto.

2.5.3 Trattamenti clinici sul nervo danneggiato

I principali trattamenti clinici attualmente utilizzati per curare le lesioni complete

dei nervi sono la sutura diretta dei due monconi e l’innesto di nervo autologo [12].

La sutura diretta permette di ricollegare le due estremità di un nervo lesionato.

Questo approccio può essere utilizzato solo quando la distanza tra i due monconi

nervosi adiacenti è inferiore a 5 mm. Per distanze maggiori si creano tensioni che

impediscono un recupero adeguato del nervo [12].

Page 29: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

I trapianti di nervo autologo sono usati per trattare i difetti con una distanza

superiore ai 5 mm. Tale tecnica consiste nel prelevare dal paziente stesso una parte

di nervo (solitamente il nervo surale) da utilizzare come innesto per collegare i

monconi nervosi lesionati. La procedura, tuttavia, presenta diversi svantaggi, tra cui:

il sacrificio di una parte sana da cui prelevare l’innesto, la difficoltà di trovare

adeguati spessori e distanze di innesto, la limitata disponibilità di siti donatori e la

necessità di più interventi chirurgici [12-15].

2.6 Sviluppi recenti nella progettazione di scaffold per la rigenerazione del SNP

Per ovviare a tutti questi problemi, l’Ingegneria Tissutale ha cercato delle

alternative meno invasive basate sull’utilizzo di innesti sintetici. Tra le più

interessanti ed efficaci la tecnica della tubulazione si è mostrata fin dai primi

tentativi in grado di facilitare e stimolare la rigenerazione nervosa (SNP). Per

tubulazione si intende il ricorso ad un condotto tubolare (nerve conduit o nerve

chamber), opportunamente progettato, per guidare la riconnessione tra le estremità

(monconi) di un nervo periferico danneggiato (reciso) e indurre la rigenerazione del

segmento nervoso.

Fig. 3.3 Rappresentazione schematica della tecnica della tubulazione

Page 30: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

Tali scaffold oltre a fornire un substrato ideale (in termini di morfologia e risposte

agli stimoli meccanici) allo svolgimento delle funzioni cellulari permettono, inoltre,

di: regolare il microambiente al loro interno, grazie alla possibilità di incorporare

nella struttura biomolecole o, eventualmente, cellule precedentemente seminate e

coltivate; evitare l’infiltrazione di cellule infiammatorie e/o inibitorie all’interno del

lumen del tubo, prevenendo il fenomeno di riparazione (cicatrizzazione) naturale; di

dirigere l’elongazione degli assoni attraverso il gap [16-18].

Questo dispositivi vengono progettati utilizzando numerose varietà di polimeri

naturali e sintetici. In particolare, alcuni componenti della ECM, come il collagene,

hanno portato all’ottenimento di un nervo rigenerato di buona qualità, in termini di

numero e diametro medio degli assoni rigenerati, di grado di mielinazione, di

distanza massima del gap lungo la quale la rigenerazione può essere ottenuta con

successo e di velocità di rigenerazione [16, 19].

Per ottenere una buona rigenerazione dei nervi periferici, gli scaffold tubolari porosi

devono presentare proprietà adeguate come: una buona biodegradabilità, una

porosità orientata radialmente (maggiore verso l’interno e minore verso l’esterno),

in modo da impedire ai miofibroblasti (agenti cicatrizzanti) di arrivare presso i siti

danneggiati del nervo, ma contemporaneamente, permettere alle proteine e agli

agenti nutrienti di penetrare all’interno del sito in cui avviene la rigenerazione e

apportare il loro contributo positivo [20].

Page 31: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

MATERIALI E METODI

Lo scaffold ha un ruolo molto importante nell’Ingegneria Tissutale e deve possedere

proprietà adeguate per promuovere l’adesione e la crescita cellulare e per favorire la

rigenerazione di tessuti o organi danneggiati da patologie, traumi o procedure

chirurgiche. Tra le proprietà più importanti, gli scaffold devono possedere: porosità

adeguata, composizione chimica appropriata, proprietà meccaniche e termiche

desiderate [4, 5, 13, 21].

In questo capitolo si analizzerà il materiale utilizzato per la fabbricazione dello

scaffold, il collagene, specificandone la struttura e le proprietà, successivamente

verrà descritta la tecnica di ottenimento dello slurry e, infine, verranno illustrate la

tecnica di fabbricazione degli scaffold e gli strumenti utilizzati per la

caratterizzazione delle proprietà fisiche, meccaniche e morfologiche di interesse

ingegneristico.

3.1 Il collagene

Il collagene è la proteina strutturale principale del corpo umano, rappresentando

circa il 30% di tutte le proteine dei vertebrati; più del 90% delle proteine che

compongono il tendine e l’osso e più del 50% delle proteine della pelle sono

costituite da collagene [23].

Page 32: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

Il collagene gioca un ruolo molto importante nella formazione e nel mantenimento

di tessuti e organi ed è coinvolto in numerose funzioni cellulari. Il collagene, infatti,

è il costituente principale della matrice extracellulare (ECM), ovvero di quella rete

organizzata di proteine (elastina, laminina, fibronectina, proteoglicani) responsabile

del sostegno, della stabilità meccanica e biochimica dei tessuti, e della regolazione

delle interazioni tra le cellule e tra cellule ed ECM [22]. In condizioni normali, la

ECM è mantenuta sotto costante remodelling da parte dell’organismo. Il

remodelling è un processo che avviene continuamente nel corpo umano e consiste

nell’assorbimento della vecchia ECM e nella sintesi di nuova.

Il danneggiamento di un tessuto innesca il meccanismo di riparazione, attraverso il

quale l’organismo produce una risposta uniforme, che si traduce in un aumento

dell’attività cellulare e in un incremento di sintesi di collagene. Il processo di

riparazione serve a minimizzare l’estensione iniziale del danno e preserva le

funzioni del tessuto. L’incremento della sintesi di collagene è un’importante aspetto

di questo processo [26].

L’eccellente biocompatibilità, le buone proprietà emostatiche, la buona adesione

cellulare, l’elevata biodegradabilità (regolabile attraverso vari trattamenti di

stabilizzazione esogena), la bassa antigenicità, la non tossicità e le singolari

proprietà meccaniche hanno reso il collagene uno tra i più usati biomateriali per

applicazioni biomediche. Tutte queste proprietà, oltre alla sua composizione

chimica, influenzano notevolmente la bioattività di uno scaffold, cioè la sua capacità

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di stimolare, di indurre o influenzare i comportamenti e le risposte cellulari. Per tutti

questi aspetti, il collagene è considerata la proteina che nel prossimo futuro darà i

migliori risultati [22].

Esistono 19 differenti tipi di proteine riconducibili alla famiglia del collagene,

accomunate dalla stessa struttura molecolare, in grado di conferire proprietà

biologiche specifiche ai vari tipi di tessuti connettivi. I vari tipi di collagene si

differenziano per variazioni nella lunghezza della tripla elica, nella natura e nella

dimensione di porzioni terminali della struttura non a elica, nelle modalità e nei

livelli di assemblamento e formazione delle strutture più complesse.

Il collagene di tipo I è quello predominante nelle specie animali e nell’uomo. Da

questa proteina derivano le proprietà biomeccaniche e la resistenza a trazione delle

ossa, della pelle, dei tendini dei legamenti e della cartilagine. La molecola base del

collagene di tipo I è costituita da 3 catene polipeptidiche, chiamate catene-α. Le 3

catene sono organizzate in modo tale da formare una tripla-elica. Gli altri tipi di

collagene più diffusi nei vertebrati sono il tipo II e III [22 - 28].

Tale molecola si è dimostrata essere il substrato ideale nei processi riparativi e

rigenerativi: molti tipi di cellule (epiteliali, endoteliali, fibroblasti, osteoblasti ecc)

sono in grado si aderire alle fibre di collagene di tipo I, di proliferare, di migrare e

orientarsi per formare o riparare un tessuto.

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3.1.1 Sequenza strutturale del collagene di tipo I

La struttura base della molecola del collagene di tipo I è costituita da 3 catene

polipeptidiche, due delle quali identiche, denominate catene-α1(I), e l’altra, di

differente composizione, chiamata catena-α2(I). Ogni catena polipeptidica contiene

circa 1000 aminoacidi. Un aminoacido è un monomero con un’unità ripetitiva base

che può legarsi ad altri aminoacidi (Fig. 3.1).

Fig 3.1 Struttura di un amminoacido

L’aminoacido più semplice è la glicina (Gly) in cui R=H (Fig. 3.2).

Ogni catena ha una struttura ripetitiva del tipo (- Gly – X – Y -)n dove Gly

rappresenta la glicina, X e Y rappresentano le posizioni solitamente occupate,

rispettivamente, dalla prolina (Pro) e dall’idrossiprolina (Hyp). La catena è

organizzata in modo che ogni terzo residuo sia occupato dalla glicina.

Fig 3.2 Struttura della glicina

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La prolina è un amminoacido primario ed è l'unico ad avere il gruppo amminico

secondario. In Fig 3.3 è rappresentata la sua struttura:

Fig 3.3 Struttura della prolina

In Fig 3.4 si può notare come la glicina formi un gomito sottile all'interno dell'elica,

e che la prolina e l'idrossiprolina piegano dolcemente la catena proteica a forma di

elica.

Fig 3.4 Struttura delle catene α

Da notare, infine, che il collagene bovino ha una composizione istologica identica a

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quella del collagene umano. Le tre catene-α si combinano tra loro a formare una

triplice elica; quest’ultime si legano e si organizzano tra loro associandosi

lateralmente e longitudinalmente per formare le fibrille e poi ancora a formare le

fibre (Fig 3.5) [11].

Fig. 3.5 Stadi di formazione delle fibre di collagene

3.2 La sintesi dello slurry

Esistono diverse procedure per la sintesi di preparati a base di collagene da

utilizzare per la realizzazione di matrici e substrati da impiegare come scaffold per

Page 37: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

la rigenerazione tissutale. Per la fabbricazione delle neuro-guide oggetto di studio si

è partiti da sospensioni concentrate di collagene (soluto) in acqua (solvente),

comunemente denominate slurry, quali materiali di base. senza l’aggiunta di altri

materiali come i glisaminoglicani (GAGs)

La scelta dell’utilizzo del solo collagene è motivata dai sorprendenti risultati (in

termini di rigenerazione assonale e risposta dell’organismo ospite) già ottenuti in

seguito all’utilizzo di questi dispositivi in test preliminari condotti su modello

animale, nonché dalla volontà di evitare l’impiego di materiali (i.e.,

glicosamminoglicani) il cui ruolo/effetto (inibitorio secondo alcuni autori) sul

processo di rigenerazione del nervo è dibattuto [29-33].

3.2.1 Preparazione della sospensione a base di collagene

La sintesi dello slurry, sebbene preveda la semplice solubilizzazione delle fibre di

polimero in acqua distillata, è un processo che richiede particolare cura e attento

monitoraggio, per prevenire, in seguito all’idratazione e al miscelamento,

l’alterazione della delicata struttura del collagene.

In questo studio sono state prodotte sospensioni con concentrazioni di collagene pari

a 1%wt, 2% wt, 3% wt e 5% wt. Il collagene utilizzato è prodotto dalla Kensey-Nash

Corporation (Exton, PA) ed è un collagene di tipo I in forma fibrillare, estratto da

derma bovino e purificato per via enzimatica, disponibile in commercio sotto forma

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di fiocchi (Fig. 3.6).

Fig. 3.6 Collagene

L’esatta quantità di proteina da dissolvere per ottenere la concentrazione desiderata,

stabilita a monte dell’operazione, viene dapprima pesata, tramite una bilancia di

precisione (mod. Sartorius) e poi riversata, in piccole dosi, in un becker incamiciato,

contenente acqua distillata mantenuta in costante agitazione da un miscelatore

magnetico (mod. Velp Scientifica) e a una temperatura sufficientemente bassa (<

10°C) da un sistema di raffreddamento custom-built, cercando di evitare la

formazione di grumi.

La necessità di condizionare la temperatura deriva dalla volontà di prevenire la

possibile denaturazione delle fibre di collagene (ossia la rottura dei ponti H intra- e

inter-molecolari), che, in queste condizioni, comincerebbe, per effetto del calore

generato in seguito alla miscelazione, intorno ai 28°C. La verifica delle condizioni

termiche viene effettuata da un controller che mediante una termocoppia posta sulla

superficie direttamente a contatto con la sospensione in miscelazione, ne misura la

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temperatura.

La miscelazione viene effettuata, come detto, mantenendo in costante debole

agitazione la sospensione per mezzo di uno stirrer magnetico (o di uno shaker

meccanico), a temperatura controllata (e pamb) per almeno 12 ore, per permettere lo

swelling e la completa solubilizzazione delle fibre.

3.2.2 Processo di degasazione

Per eliminare le inclusioni di aria inevitabilmente introdotte a causa della

miscelazione, lo slurry viene, poi, trasferito in una provetta, posta all’interno di una

centrifuga (IEC CL31 Multispeed, Fig. 3.8) per effettuarne la degasazione (R =

9000 rpm, t = 15 min).

Fig. 3.8 Centrifuga IEC CL31 Multispeed

La sospensione è, quindi, pronta per l’uso e va conservata a 4°C per non più di un

mese, tempo oltre il quale è molto probabile si verifichino fenomeni di

contaminazione batterica o degradazione. Nel caso di riutilizzo ri-miscelare e

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centrifugare se necessario.

3.3 La fabbricazione di uno scaffold

3.3.1 La tecnica dello spinning

Per la fabbricazione degli scaffold è stata utilizzata, come già ampiamente riportato,

la tecnica dello spinning (dall’inglese spin = ruotare) brevettata dall’ingegnere

Alessandro Sannino (ricercatore presso l’Università del Salento) e colleghi.

La sospensione degasata di collagene viene iniettata in un contenitore tubolare in

PVC o silicone, rivestito con un sottile foglio di rame e sigillato all’estremità

inferiore con un tappo in polisilossano, utilizzando una pipetta graduata e

procedendo con molta cura per evitare l’introduzione di bolle d’aria.

Il tubo in PVC viene, poi, inserito in uno stampo in rame (Fig. 3.9), quest’ultimo

chiuso e serrato direttamente all’utensile rotante, il Dremel (Fig. 3.10), dalla sua

parte superiore.

Fig 3.9 Stampo in rame con inserto in PVC

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La scelta del rame è dovuta alla elevata conduttività termica che caratterizza questo

materiale, che permette un rapido raffreddamento della sospensione di collagene,

scongiurandone ogni rimescolamento.

Fig 3.10 Dremel con relativo supporto.

A questo punto sì da il via allo spinning: lo stampo (montato in posizione verticale)

viene fatto ruotare in aria a una velocità angolare molto elevata (R, rpm) per un

determinato tempo di spinning (ts, min), per indurre, a causa della elevata forza

centrifuga, la sedimentazione del soluto verso la parete interna del tubo (spinning

phase). Trascorso ts, lo stampo viene immerso rapidamente in un bagno di azoto

liquido (T = -195°C), dove continua a ruotare alla stessa velocità angolare (R) per

uno specifico tempo di freezing (tf, min), per fissare la separazione dei due

componenti (freezing phase). Al termine della fase di freezing, lo stampo viene

estratto dal fluido criogenico e il tubo di PVC contenente la sospensione congelata

rapidamente rimosso dallo stampo di rame e posto in un freezer a una temperatura

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di -45°C.

Il sottile rivestimento in rame si è rivelato molto efficace nel contenere le

deformazioni che il tubo contenitore subisce a causa dell’elevata forza centrifuga

cui è sottoposto durante lo spinning e nel facilitarne la sfilatura dallo stampo al

termine del freezing, garantendo al contempo una maggiore continuità nel

trasferimento di calore in direzione radiale rispetto al caso di eccessivo gioco tra

tubo e parete interna dello stampo. L’operazione di sfilatura del campione dallo

stampo richiede molta attenzione, perché la struttura ottenuta è molto fragile e può

andare incontro a danni permanenti.

3.3.2 La liofilizzazione

Il prodotto così ottenuto (sospensione congelata caratterizzata da una netta

separazione di fase al suo interno) viene posto in un liofilizzatore (Advantage

Freeze-Dryer, Virtis), strumento in grado di imporre una ben determinata storia di

temperatura e pressione (Fig. 3.11).

Page 43: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

Fig 3.11 Liofilizzatore

Il processo fondamentale cui va incontro il campione in seguito alla liofilizzazione è

la sublimazione del solvente, ovvero la transizione diretta dalla fase solida a quella

gassosa [35].

Osservando il diagramma del punto triplo dell’acqua ci si accorge, infatti, di come

questo sia possibile solo in particolari condizioni di temperatura e pressione (Fig.

3.12).

Fig 3.12 DDS dell’acqua (punto triplo: T=0,01 °C, P=6,04*10-3

atm)

La possibilità di eliminare il solvente (acqua in questo caso) senza passare

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attraverso lo scongelamento/rimescolamento della sospensione, ovvero attraverso la

fusione dei cristalli di ghiaccio e la conseguente distruzione dei pattern cristallini

ricreati in seguito al congelamento, permette di ottenere un costrutto deidratato

costituito unicamente da collagene: i cristalli di ghiaccio, in seguito alla

sublimazione dell’acqua, “scompaiono” lasciando rapidamente il posto al vuoto, e

trasformandosi in pori. Questo trattamento consente di generare matrici dalla

struttura sponge-like, in cui il network di pori interconnessi finale è l’esatta replica

del network di cristalli di ghiaccio esistente prima della sublimazione, e il collagene,

che non va incontro ad alcuna modifica del suo arrangiamento spaziale in seguito

alla transizione di fase, ne costituisce le trabecole.

La ricetta utilizzata in questa operazione (Fig 3.13) prevede due fasi: nella prima,

dopo un pre-vuoto iniziale (fino ad una pressione di 500 mTorr), la temperatura

viene portata da Tamb a -40°C, ad una velocità di 0,9 °C/min. La pressione viene

quindi ridotta a 200 mTorr mentre la temperatura mantenuta costante per circa 60

minuti: in questo intervallo temporale i campioni congelati vengono prelevati dal

freezer e inseriti nella camera del freeze-dryer. Nella seconda fase, la temperatura

viene portata repentinamente a 0°C e mantenuta a questo valore per 17 ore: in

queste condizioni avviene, ad una pressione minore di 100 mTorr, la sublimazione

primaria, cioè, l’eliminazione delle molecole d’acqua separatesi dalla parte solida.

L’ultima fase della ricetta prevede, sempre in condizione di vuoto spinto, il

riscaldamento dei prodotti (T = 20°C) per 120 minuti: questo step può essere

interpretato come una sublimazione secondaria in cui si eliminano le molecole di

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acqua legate chimicamente al collagene.

Fig 3.13 Ricetta operativa del liofilizzatore

3.3.3 La sformatura

Attraverso la tecnica della liofilizzazione è possibile ottenere matrici caratterizzate

da elevata porosità (fino a circa il 90%) [32]. I campioni, però, al termine del

processo si trovano ancora nel tubo in PVC dal quale vanno sformati prestando

molta cura: a causa della struttura microporosa, della geometria macroscopica

(forma tubolare a parete sottile) e della estrema sensibilità del collagene all’umidità

gli scaffold sono, infatti, in questa fase, molto deformabili, e anche piccole

sollecitazioni possono provocarne il collasso della struttura.

Per prima cosa il tubo in PVC viene spogliato dalla sottile lamina di rame che lo

avvolge; successivamente, utilizzando, delle pinzette da laboratorio, viene sfilato il

-50

-40

-30

-20

-10

0

10

20

30

0 200 400 600 800 1000 1200 1400

Tempo (min)

Tem

per

atu

ra (

° C

)

Page 46: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

tappo in polisilossano (Fig. 3.14).

Fig 3.14 Estrazione del tappo dall’interno del tubo

A questo punto, con l’aiuto di un perno, lo scaffold viene spinto fuori dal tubo (Fig.

3.15).

Fig 3.15 Estrazione dello scaffold dall’interno del tubo

3.3.4 La reticolazione

Gli scaffold in collagene così ottenuti non possiedono ancora le proprietà richieste

Page 47: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

nel campo bioingegneristico per essere impiantati all’interno degli organismi,

infatti, a contatto con i fluidi corporei nel sito d’impianto, il collagene andrebbe

incontro ad una rapida dissoluzione e non permetterebbe allo scaffold di esplicare le

sue funzioni. A causa di ciò, gli scaffold tubolari porosi in collagene devono essere

sottoposti a determinati trattamenti per stabilizzare la struttura del collagene contro

la rottura e la scissione delle catene peptidiche, per aumentare la biocompatibilità,

per conferire una maggiore rigidezza alle matrici e una maggiore integrità

strutturale [36]. Queste proprietà possono essere ottenute attraverso opportuni

trattamenti di reticolazione (cross-linking) esogena, che permettono di introdurre

legami forti (covalenti) inter- e intra-molecolari addizionali nell’architettura

strutturale del collagene [37-39].

La densità dei cross-links introdotti artificialmente, per via chimica o fisica, con la

reticolazione influenza notevolmente le proprietà meccaniche (resistenza

meccanica), le proprietà biologiche (velocità di degradazione in vivo) e le proprietà

termiche (temperatura di denaturazione) [38]. Infatti, un maggior numero di legami

covalenti porta all’ottenimento di scaffold caratterizzati da maggiore stabilità, sia

chimica che fisica.

La stabilità chimica si manifesta con una maggiore resistenza alla degradazione

enzimatica in vitro e in vivo. La velocità di biodegradazione, inoltre, può essere

modulata agendo sull’intensità del particolare trattamento di reticolazione utilizzato,

in modo tale da avere un tempo di riassorbimento simile a quello di rigenerazione

Page 48: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

del tessuto. Infatti, se durante le prime fasi lo scaffold deve guidare la formazione

del neo-tessuto, successivamente deve poter essere riassorbito dall’organismo, in

modo da non ostacolare il processo naturale di remodeling che avviene

continuamente nel nostro corpo.

La stabilità termica si manifesta, invece, con un incremento della temperatura di

denaturazione del collagene. La temperatura di denaturazione è la temperatura alla

quale la struttura a tripla elica del collagene si rompe, poiché vengono meno i

legami deboli (legami idrogeno, legami di Wan der Waals, ecc.) che tengono

insieme la tripla elica. Sebbene non sia possibile collegare direttamente la

temperatura di denaturazione alla densità di reticolazione e, quindi, al numero di

legami covalenti, è stato dimostrato che un grado di reticolazione maggiore

determina una maggiore temperatura di denaturazione negli scaffold e, quindi, una

maggiore stabilità termica.

In generale, la stabilità termica e le proprietà chimico-fisiche degli scaffold in

collagene possono essere modulate attraverso il metodo, il tempo e l’intensità di

reticolazione.

3.3.4.1 I principali metodi di reticolazione

Esistono 2 classi di reticolazione: la reticolazione chimica, che si avvale di agenti

chimici reticolanti; la reticolazione fisica, che si avvale di tecniche come i raggi UV

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e la somministrazione di calore [39].

Tra i reticolanti chimici, il più importante è sicuramente la glutaraldeide (GTA). La

GTA è stata ampiamente utilizzata, poiché induce un elevato numero di legami

covalenti nelle strutture in collagene e permette di raggiungere proprietà

termomeccaniche tra le più alte [38, 40]. Inoltre, diversi studi hanno dimostrato che

passando dalla reticolazione con GTA ottenuta trattando il collagene in soluzione

acquosa, alla reticolazione indotta attraverso vapori di GTA, aumenta il tempo di

degradazione [38,40]. Ciò nonostante, l’utilizzo della GTA nel campo biomedico è

limitato a causa della sua forte citotossicità [38, 40].

Un altro importante agente reticolante è il dimetil-suberimidato (DMS), che pur

dimostrando una minore citotossicità, induce un minore numero di legami covalenti

rispetto alla GTA e perciò, permette di raggiungere proprietà termomeccaniche più

basse [38].

Tra i reticolanti più efficaci c’è la formaldeide. Essa possiede una molecola molto

piccola che penetra facilmente all’interno della struttura della tripla elica del

collagene, assicurando la formazione di legami covalenti molto forti. Tuttavia,

anche il suo utilizzo in ambito biomedico è molto limitato a causa della forte

citotossicità [40].

Altri reticolanti utilizzati spesso sono l’esaetilene-diisocianato (HMDC) e il

dimethyl 3,30-dithiobispropionimidate (DTBP). In particolare, il DTBP risulta

essere un buon reticolante a causa della presenza di legami bisolfuro [38].

Page 50: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

Molte tecniche di reticolazione, inoltre, sono ottenute combinando la reticolazione

chimica con la reticolazione fisica [38, 41].

In questo studio si è fatto ricorso all’utilizzo della reticolazione termica. Tale

metodo di reticolazione permette di eliminare i problemi legati alla citotossicità dei

reticolanti chimici, induce un elevato numero di legami covalenti, permette di

preservare l’integrità strutturale e la morfologia dello scaffold e, infine, di ottenere

la resistenza alla biodegradazione voluta [41].

3.3.4.2 La reticolazione termica (DHT)

Nell’ambito del presente studio, gli scaffold sono stati trattati facendo ricorso

unicamente alla reticolazione termica, o DeHydroThermal cross-linking. Essa

prevede il riscaldamento dei campioni, in condizioni di vuoto spinto (p < 100

mTorr), ad una temperatura di 121°C per tempi ben determinati (in questo studio 24

e 48 ore).

Fig 3.16 Stufa da vuoto

Page 51: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

Tale trattamento, condotto in una stufa da vuoto (Fig. 3.16), determina un

incremento della temperatura di denaturazione poiché provoca la rimozione delle

molecole di acqua ancora presenti nella struttura del collagene e determina la

formazione di cross-link tra le triple-eliche (inter-chain), quale risultato delle

reazioni di condensazione in seguito a esterificazione o formazione di una ammide.

Inoltre, il grado di reticolazione può essere modulato variando la durata e l’intensità

di esposizione del trattamento, permettendo di ottenere un controllo preciso della

velocità di degradazione dello scaffold.

3.3.5 La sterilizzazione

La sterilizzazione è un termine assoluto per indicare la distruzione di ogni forma di

vita [42]. La ricerca di un processo di sterilizzazione efficace e che non danneggi

l’integrità strutturale, le proprietà e la funzionalità dei dispositivi medici

impiantabili, come ad esempio quelli costituiti da collagene, rappresenta ancora

oggi uno dei problemi più importanti nel campo dei biomateriali.

La sterilizzazione può essere classificata come fisica o chimica e può essere

effettuata con sostanze liquide, gassose, oppure, attraverso radiazioni

elettromagnetiche. Nell’agosto del 2002 la FDA (Food and Drug Administration) ha

effettuato una classificazione dei vari metodi di sterilizzazione individuando 2

classi: metodi tradizionali e metodi non-tradizionali [42].

Page 52: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

I metodi di sterilizzazione tradizionali sono: a secco con calore; in umido con

calore; con ossido di etilene (EtO) in camera a vuoto; con radiazioni (elettroni o

raggi γ); con sterilizzanti chimici liquidi. I metodi non-tradizionali sono: EtO usato

in assenza di camera da vuoto; iniezione di EtO in polimeri porosi in combinazioni

con processi quali il metodo a secco, il metodo a diffusione, il metodo a iniezione,

raggi ultravioletti, gas combinato a plasma, sistemi a vapore e altri [42].

La ricerca di un processo di sterilizzazione efficace che non alteri o danneggi

l’integrità strutturale, le proprietà e la funzionalità di dispositivi medici impiantabili

(protesi e scaffold), in particolare di quelli costituiti da biomateriali come il

collagene, rappresenta oggi una tra le più importanti sfide nel campo dell’Ingegneria

Tissutale.

3.3.5.1 I principali metodi di sterilizzazione

I più importanti metodi utilizzati nella pratica per la sterilizzazione di biomateriali o

dispositivi medici, verranno ora descritti e messi a confronto in modo da illustrare

vantaggi e svantaggi e, infine, verrà illustrato il metodo utilizzato per questo lavoro:

la sterilizzazione termica.

La sterilizzazione con calore in umido è ottenuta dalla saturazione del vapore sotto

pressione. I vantaggi di questo procedimento sono: tempi di esposizione al processo

ristretti, ma sufficienti a distruggere ogni forma di vita (15 min a 121°C e 1 atm);

Page 53: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

forte e rapida penetrazione; nessuna tossicità. Lo svantaggio principale è

rappresentato dal fatto che il collagene è un biomateriale altamente sensibile

all’umidità (water-sensitive) [44].

L’ossido di etilene (EtO) permette di ottenere gli stessi risultati della sterilizzazione

con calore in umido senza riportare gli effetti negativi di questi processi. Nonostante

ciò, l’EtO lascia numerosi residui tossici che hanno bisogno di molto tempo per

essere eliminati [42 - 46, 48].

Gli sterilizzanti liquidi includono, ad esempio, la glutaraldeide, formaldeide e acido

peracetico. Il liquido comunemente più usato è la glutaraldeide, esso è un potente

agente biocida. È usato quando il calore umido, il calore secco o altri metodi di

sterilizzazione non possono essere usati sul materiale. Risulta essere, però, un

agente chimico tossico [42, 45, 46].

Il metodo delle radiazioni comprende: le micronde, raggi β, raggi UV, raggi X, i

raggi γ e gli elettroni. Numerosi studi dimostrano, però, che tali metodi sono

altamente dannosi per le molecole del collagene [42]. Tra quest’ultimi metodi, i

raggi γ sono quelli che hanno riscosso più interesse.

La possibilità di utilizzare radiazioni γ per la sterilizzazione dei materiali biomedici

ha avuto un significativo sviluppo perché può essere effettuata dopo che i

contenitori sono stati . Tuttavia l’efficacia delle radiazioni dipende dal dosaggio

utilizzato. Le radiazioni γ a 1 Mrad riescono a sterilizzare molti materiali, ma a

questo basso dosaggio, sono altamente dannose per il collagene [42-47]. Il

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danneggiamento del collagene è chiaramente dimostrato dal venir meno

dell’integrità strutturale della proteina e da una drammatica diminuzione della

resistenza alla degradazione enzimatica [44]. Infatti, dall’analisi del peso molecolare

si osservano catene peptidiche con un elevato range di pesi molecolari differenti,

sinonimo della rottura dei legami inter- e intra-molecolari [43, 45, 46, 49]

Risultati leggermente migliori sono stati ottenuti con l’utilizzo di raggi elettronici,

ma permangono ancora molte delle criticità riscontrate con i raggi γ [45].

3.3.5.2 La sterilizzazione termica (DHS)

Nel nostro caso (scaffold altamente porosi prodotti mediante la tecnica dello spin-

casting e sfruttando il processo di liofilizzazione, e reticolati seguendo una

procedura di reticolazione termica standard) si è deciso di utilizzare la

sterilizzazione termica, o “Dry-Heat Sterilization” (DHS), metodo riconosciuto

come “tradizionale e certificato dalla FDA”.

Il metodo consiste nel porre gli scaffold reticolati in una stufa da vuoto in

condizioni standard (2 ore a 160°C, sotto vuoto spinto). Gli scaffold, prima di essere

posti in stufa, sono alloggiati in contenitori di alluminio, come in Fig. 3.17. In

questo modo tutte le spore di batteri eventualmente presenti sugli scaffold vengono

eliminate, dato che già alla temperatura di 121°C tutti i batteri muoiono.

Page 55: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

Fig 3.17 Crogiuolo in alluminio

In questo studio cercheremo di dimostrare che l’impatto di questo tipo di

sterilizzazione sulla morfologia e sulla geometria della struttura tubolare (forma,

diametri, spessori della parete), e sulle proprietà microscopiche della struttura

tubolare degli scaffold (orientazione, forma e dimensione) è trascurabile.

3.4 I metodi di caratterizzazione

Le strutture tubolari porose degli scaffold in collagene ottenute attraverso la

combinazione della tecnica dello spinning e del freeze-drying sono state

caratterizzate attraverso l’utilizzo di determinati apparecchi.

A tal fine sono stati utilizzati il reometro per stabilire le proprietà viscoelastiche

(analisi dinamico-meccanica, o DMA), il calorimetro a scansione differenziale

(DSC) per le proprietà termo-fisiche e il microscopio elettronico a scansione (SEM)

per le proprietà macro e micro - morfologiche

Page 56: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

3.4.1 Il reometro

Il reometro è uno spettrometro dinamico che studia le relazioni sforzo-deformazione

dei fluidi, dei liquidi o di una sospensione, permettendo così di prevedere il

comportamento di un materiale sotto determinate condizioni di utilizzo. Le tecniche

di misura si basano sull’applicazione di uno sforzo di taglio che permette di

calcolare l'entità e la velocità della deformazione o, viceversa, nell'applicazione di

una deformazione con una certa velocità per misurare lo sforzo.

In particolare, il reometro rotazionale ARES (Advanced Rheometric Expansion

System, Fig. 3.18) a controllo di deformazione, ha un range operativo della coppia

torcente che va da 2*10-6 a 2*10-1 Nm, quello della forza normale da 2 a 2000 g. Il

motore ha una modalità di funzionamento dinamica (sinusoidale) ed una stazionaria.

In regime di funzionamento dinamico, lo strumento ha una frequenza operativa

massima di 100 rad/sec. Per la misura degli sforzi, lo strumento è accessoriato con

trasduttore multirange per misure su fluidi a bassa e alta viscosità. Infine, per misure

ad alte temperature, lo strumento dispone di un forno costituito da una camera a

convezione forzata che racchiude il campione.

Page 57: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

Fig 3.18 Reometro

La deformazione è applicata dal motore elettrico, mentre il momento torcente con

cui reagisce il campione alla deformazione applicata, è rilevato dal trasduttore.

Attraverso le prove effettuate al reometro è possibile calcolare il valore di grandezze

quali la viscosità in regime stazionario η, il modulo complesso G*, la viscosità

complessa η*, la deformabilità complessa J*, lo storage modulus e il loss modulus.

La deformazione di scorrimento vale:

K

dove:

γ rappresenta la deformazione applicata;

θ è pari alla deviazione angolare del motore in radianti;

Kγ rappresenta la costante di deformazione.

Page 58: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

Lo sforzo di taglio è espresso invece dalla seguente relazione:

KM

dove:

τ rappresenta la forza generata dal momento torcente per unità di area della

superficie di riferimento;

M è pari al momento torcente opposto dal campione alla deformazione;

Kτ rappresenta la costante dello sforzo.

Per quanto riguarda lo sforzo normale, vale la seguente relazione:

ZZ FKN

dove:

N è lo sforzo normale;

FZ rappresenta la forza normale.

Il valore delle costanti di taratura è dato dalla dalle seguenti relazioni:

H

RK

3

10

2

R

GK C

dove:

Page 59: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

GC rappresenta la costante gravitazionale;

R è pari al raggio dei piatti [ mm ]

H è il gap tra i piatti [ mm ].

Nel presente studio sono state effettuate prove su sospensioni di collagene e acqua

con una concentrazione di collagene rispettivamente del 1%, 2%, 3%, 5% per

calcolare la vistosità, il modulo G’ e G’’e, infine, determinare l’andamento tan δ. I

tool utilizzati presentano una geometria piatto-piatto, uno dei quali ruota con

velocità angolare Ω, mentre l’altro rimane fisso (Fig. 3.19).

Fig. 3.19 Piatti del reometro

3.4.2 Il calorimetro a scansione differenziale (DSC)

Il DSC è uno strumento in grado di misurare il flusso termico necessario a

mantenere alla stessa temperatura il provino e il campione di riferimento, quando

questi vengono riscaldati con velocità controllata o mantenuti a temperatura

Page 60: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

costante (Fig. 3.20).

Fig. 3.20 Il DSC Mettler

Il calore totale Q fornito (o sviluppato) durante un processo endotermico (o

esotermico) è pari all’integrale, esteso a tutto il periodo del processo, della

differenza di flusso termico.

dTdt

dHQ

f

i

)(

Poiché si opera a velocità di riscaldamento costanti, si ha proporzionalità fra

intervalli di tempo e temperatura e il calore totale è proporzionale all’area sottesa

nel termogramma.

Durante una fase di transizione, in prossimità dei valori di temperatura ad essa

relativi, il grafico modificherà visibilmente il suo andamento.

Lo scopo principale di questo tipo di test fisico è di ricavare le informazioni sui

parametri termodinamici di un materiale associati alle transizioni di fase indotte

termicamente indipendentemente dalle condizioni di prova [50].

Page 61: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

In particolare, in questo studio si è voluto osservare come varia la temperatura di

denaturazione del collagene (temperatura alla quale si rompono i legami secondari

della tripla elica del collagene) in funzione della reticolazione e della sterilizzazione.

La temperatura di denaturazione è definita come la temperatura alla quale avviene la

transizione del collagene da tripla elica a randon-coil. Durante la fase di transizione

i legami deboli che tengono legate le 3 catene del collagene e stabilizzano la

struttura a tripla elica vengono rotti a causa della somministrazione di calore [51].

3.4.2.1 Il DSC: funzionamento

La macchina è predisposta mettendo sui rispettivi alloggiamenti i due crogioli

identici scelti in modo da resistere alle temperature di prova senza interagire con il

campione in esame. Uno dei due crogioli rimane vuoto in quanto servirà come

riferimento, mentre nell’altro è posto il materiale da esaminare.

A questo punto si chiude ermeticamente l’alloggio dei due crogioli in modo da

isolare l’ambiente di prova dall’esterno. Una volta inserito il programma termico,

all’interno dell’alloggio contenete il materiale da analizzare viene creata

un’atmosfera inerte con un flusso continuo e uniforme di azoto.

Una volta iniziata la prova, il calore ceduto riscalda sia il campione che il provino di

riferimento in ugual modo. Ogni variazione di temperatura tra i due è dovuta a

fenomeni che insorgono nel materiale da analizzare. Se il campione subisce una

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transizione di fase indotta dalla temperatura, la quantità di calore fornito alla cella

campione viene assorbito o liberato dal campione stesso, e si svilupperà una

differenza di temperatura tra la cella campione e la cella di riferimento. Il sistema

strumentale di controllo rileva questa differenza di temperatura e fornisce più o

meno calore alla cella campione in modo da annullare la differenza di temperatura.

L’energia necessaria per neutralizzare questo squilibrio è direttamente monitorata

come variazione di corrente in funzione della temperatura.

Durante tutto l’arco dell’esperimento un sistema di termocoppie raccoglie i dati di

temperatura e li invia ad un elaboratore che mediante l’apposito software elabora il

segnale elettrico registrato fornendo un termogramma con la quantità di calore

ceduta o acquistata in funzione della temperatura (Fig 3.21). Una volta terminata la

prova il sistema di raffreddamento permette all’operatore di aprire la macchina e

rimuovere i crogioli.

Fig. 3.21 Esempio di curva al DSC

Page 63: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

3.4.2.2 Analisi termica al DSC

Le serie di campioni analizzate sono riassunte nelle Tab. 3.22 e 3.23:

%wt collagene Nessun

trattamento

DHT

(121°C–24 h)

DHT

(121°C–48 h)

1 % N=3 N=3 N=3

2 % N=3 N=3 N=3

3 % N=3 N=3 N=3

5 % N=3 N=3 N=3

Tabella 3.22 Scaffold analizzati al DSC a differenti tempi di reticolazione

%wt collagene DHT (121°C–24 h) +

DHS (160°C–2 h)

DHT (121°C–48 h) +

DHS (160°C–2 h)

1 % N=3 N=3

2 % N=3 N=3

3 % N=3 N=3

5 % N=3 N=3

Tabella 3.23 Scaffold analizzati al DSC reticolati e sterilizzati

3.4.3 Il microscopio elettronico a scansione (SEM)

Le tecniche di microscopia elettronica si basano sull’analisi delle interazioni fascio

di elettroni/campione e consentono ingrandimenti elevatissimi utili, ad esempio, per

studiare fenomeni che non sarebbe possibile osservare con i normali microscopi

ottici. Il microscopio ottico a scansione elettronica (SEM) è uno dei più versatili

strumenti per l’investigazione della microstruttura dei materiali. Paragonato al

microscopio ottico, esso espande il range di risoluzione di più di un ordine di

grandezza, sino a 10 nm. Gli ingrandimenti arrivano 150.000x. La profondità di

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campo, che può variare da 1 nm a 10.000x a 2 nm a 10x, supera di 2 ordini di

grandezza quello ottico.

Nel SEM i diversi punti del campione sono esplorati da un sottile fascio elettronico

con un energia fino a 30 keV che scansiona per linee parallele tutta la superficie del

campione e focalizza l’immagine all’interno del microscopio.

L’interazione tra elettrone e campione da origine a molti segnali. Le interazioni

comunemente utilizzate sono le seguenti:

a) Interazione di tipo elastica elettrone-nucleo (elettroni backscatterati). Gli

elettroni backscatterati (BSE) hanno alta energia (maggiore di 50 eV) e sono

scatterati con un angolo molto piccolo; sono dovuti all’interazione con strati

molto spessi (alcuni µm) rispetto a quelli interessati nella produzione dei

secondari; portano informazioni relative al numero atomico del materiale

studiato e quindi danno indicazioni sulla composizione chimica.

b) Interazioni di tipo anelastica elettrone-elettrone (elettroni secondari). Gli

elettroni secondari (SE) sono emessi dall’interazione tra il fascio incidente e

gli elettroni della banda di conduzione debolmente legati, e provengono da

spessori superficiali del campione (≈10 nm); hanno bassa energia (pochi

eV). Si definiscono elettroni secondari tutti quelli provenienti dal campione

con energia inferiore a 50 eV. Gli elettroni secondari sono utilizzati per

ottenere immagini ingrandite fino a 200.000x con una risoluzione fino a 5

nm. Gli SE forniscono informazioni sulla topografia delle superfici e sulla

Page 65: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

presenza e distribuzione di campi magnetici o elettrici.

c) Raggi X. Queste radiazioni sono caratteristici degli elementi che

compongono il campione in esame, possono essere registrati e discriminati

sulla base della loro lunghezza d’onda o dell’energia. L’intensità di queste

radiazioni è proporzionale alla concentrazione dell’elemento nel campione.

L’analisi ai raggi X fornisce informazioni specifiche sulla composizione, la

distribuzione e la quantità degli elementi del campione.

I diversi elettroni emessi sono catturati dai rispettivi rilevatori.

3.4.3.1 Caratteristiche e componenti del SEM

Le sorgenti di elettroni. Le sorgenti che generano gli elettroni sono di tre tipi:

filamento di tungsteno (effetto termoionico), emettitore di LaB6 (effetto

termoionico), FEG (field emission gun).

Le lenti. Le lenti servono a ridurre il diametro del fascio (crossover diameter), a

convogliare gli e lungo l’asse ottico e a focheggiare l’immagine. Sono generalmente

presenti da una a tre lenti condensatrici che controllano le dimensioni del fascio. La

lente obiettivo è l’ultima nel percorso degli elettroni verso il campione. Subito dopo

la lente obiettivo c’è il diaframma, il cui foro centrale determina la dimensione

finale reale del fascio. L’apertura della lente obiettivo controlla il diametro finale, la

corrente e l’angolo di convergenza del fascio elettronico.

Page 66: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

Parametri importanti del SEM. I parametri importanti che determinano la qualità

dell’immagine nel SEM sono:

Densità di corrente di elettroni emessa;

Densità di corrente del fascio;

Luminosità;

Massima luminosità teorica per gli emettitori ad effetto termoionico.

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3.4.3.2 Funzionamento del SEM

Lo schema di un SEM è mostrato in Fig 3.24.

Fig 3.24 Schema di un microscopio elettronico a scansione

Il fascio elettronico è emesso da un filamento di tungsteno riscaldato ed è

focalizzato da un sistema di lenti elettromagnetiche (di solito due condensatrici ed

una lente obiettivo).

I voltaggi di accelerazione vanno da 1 a 30 kV. La corrente degli elettroni primari,

attraverso la superficie del campione, è 10-8 - 10-7 A. Tale corrente, può essere

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incrementata usando una fonte di elettroni più brillante, come catodi di esabouro di

lantanio (LaB6) o i catodi ad emissione di campo. Per generare il vuoto richiesto

(che serve a non creare ostacolo al moto degli elettroni lungo il loro percorso verso

il campione), è usata una pompa. Il fascio elettronico scandaglia il provino. Un

generatore di scansione che controlla la corrente delle bobine di scansione, deflette

il fascio lungo linee molto vicine tra loro.

L’ingrandimento cambia variando la corrente nelle bobine delle lenti obiettivo.

Quando il fascio primario di elettroni giunge sulla superficie del campione,

determina una serie di fenomeni emissivi. In particolare, sono emessi degli elettroni

che determinano la formazione dell’immagine su un tubo a raggi catodici (CRT).

3.4.3.3 Analisi morfologiche al SEM

Nei campioni analizzati al SEM per la determinazione della struttura e della

morfologia deve essere completamente assente l’acqua (campioni anidri), oppure,

l’acqua contenuta non deve essere rilasciata nel momento in cui il provino è portato

sotto vuoto.

I campioni selezionati devono avere forme tridimensionali e sono adagiati su un

supporto porta-campione che generalmente è costituito da un vetrino per

microscopio, oppure, da una basetta in alluminio. Per fissare i campioni può essere

usato nastro bi-adesivo conduttivo a base di grafite, oppure, una pasta collante a

Page 69: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

base di grafite o argento.

Nel caso in cui il campione non sia costituito da materiale conduttivo, deve essere

reso conduttivo almeno nel suo strato superficiale attraverso la copertura di un

sottile film di oro, carbonio sottoforma di grafite, oppure, altri metalli.

Il SEM ha permesso l’analisi della struttura porosa e della morfologia degli scaffold

ottenuti attraverso lo spinning e sottoposti a reticolazione e sterilizzazione. Sono

state scannerizzate diverse sezione trasversali. Per questo lavoro è stato utilizzato un

SEM EVO 40 ZEISS che permette di raggiungere diverse pressioni di lavoro e un

vuoto molto spinto (10-4 bar). In particolare, sono stati studiati scaffold (Tab. 3.25)

caratterizzati dai seguenti parametri di sintesi: n = 27000 rpm, Ts = 15 min, Tf = 2

min.

%wt collagene Nessun

trattamento

DHT

(121°C – 24 h)

DHT (121°C – 24h) + Sterilizzazione

(160°C – 2 h)

1 % N=6 N=6 N=6

2 % N=6 N=6 N=6

3 % N=6 N=6 N=6

5 % N=6 N=6 N=6

Tabella 3.25 Scaffold analizzati al SEM

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RISULTATI E DISCUSSIONE

Sono state prodotte 4 distinte serie di scaffold, caratterizzate da concentrazioni di

collagene differenti, in particolare: 1%wt, 2%wt, 3%wt e 5%wt, realizzando 25

campioni per ciascuna serie.

Sebbene la particolare tecnica di fabbricazione (spinning) offra la possibilità di

ottenere una elevata precisione e ripetibilità nelle caratteristiche geometriche

(macroscopiche) e strutturali degli scaffold, l’abilità dell’operatore è di

fondamentale importanza per il corretto svolgimento di tutte le fasi del processo

produttivo (molte delle quali prevedono una grande manualità), considerato che

anche il minimo errore può inficiare la complessa struttura delle protesi,

traducendosi in difetto (e non sempre si riesce a risalire alla causa che lo ha

generato).

Gli scaffold sono stati prodotti cercando di rispettare le seguenti dimensioni

obiettivo della geometria tubolare:

Diametro interno ≈ 1,8 mm

Diametro esterno ≈ 3 mm

Lunghezza ≈ 20 mm

Per lo spinning della sospensione di collagene (slurry) è stato utilizzato, come

Page 71: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

precedentemente accennato (Cap. III, Par. 3.3), uno stampo in rame con un foro di

diametro pari a 5,1 mm e una lunghezza di 40 mm, all’interno del quale viene

alloggiato il tubo di PVC contente lo slurry. In Fig. 4.1 è rappresentato il disegno

costruttivo dello stampo in rame.

Fig. 4.1 Stampo in rame

Prima di essere introdotto all’interno dello stampo in rame il tubo in PVC,

caratterizzato da Dint ≈ 3 mm e Dest ≈ 4,5 mm, è stato avvolto da un sottile foglio di

rame dello spessore di 0,1 mm. Tale operazione risulta essere molto utile perché

limita le deformazioni cui il tubo in PVC è soggetto durante la forte rotazione

impressa con lo spinning, ne facilita la sformatura dallo stampo in rame e permette

di ridurre il gioco tra la parete interna dello stampo e la parete esterna del tubo,

spesso causa di notevole eccentricità del foro dello scaffold.

Per quanto riguarda il set up dei parametri di processo (velocità di rotazione R,

tempo di spinning ts, tempo di freezing tf), sono stati utilizzati dei valori tali da

Page 72: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

garantire condizioni di estrema sedimentazione, al fine di ottenere matrici che

presentassero, nella loro struttura, evidenti fenomeni di sedimentazione, ovvero un

foro passante ben definito, pori di forma e geometria allungata con orientazione

radiale dei pattern di micro-porosità, ed, infine, un vero e proprio gradiente nella

dimensione e distribuzione dei pori.

Per tutte le serie si scaffold sono stati adottati i seguenti parametri di spin-casting:

R = 30000 rpm;

ts = 15 min, tf = 2 min;

tubo in PVC con 1 foglio di rivestimento in rame;

e le seguenti condizioni di trattamento post-fabbricazione:

reticolazione DHT standard a T = 121°C, p = 100 mTorr, per due tempi di

esposizione (24h e 48 h);

sterilizzazione DHS standard a T = 160°C, p = 100 mTorr, per 2h.

4.1 Caratterizzazione reologica dello slurry (reometro)

Il primo tipo di analisi condotta ha riguardato la caratterizzazione delle proprietà

reologiche (viscoelastiche) degli slurry, indagate per mezzo del reometro.

Come detto nel Cap. III, questo strumento consente di studiare le relazioni sforzo-

Page 73: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

deformazione nei corpi fluidi, permettendo così di prevedere il comportamento di

un materiale sotto determinate condizioni di utilizzo, ovvero di ricavare, attraverso

prove specifiche e modalità di test molto particolari, il valore di grandezze quali la

viscosità in regime stazionario η, il modulo complesso G*, la viscosità complessa

η*, la deformabilità complessa J*, lo storage modulus (G’) e il loss modulus (G’’).

Nell’ambito del presente studio l’attenzione è stata focalizzata sulla determinazione

della viscosità η e dei moduli G’ G’’, attraverso i quali ricavare G e tan δ.

Le prove sono state effettuate su slurry con una concentrazione di collagene pari a

1%wt, 2% wt, 3% wt, 5% wt. Per ogni serie di slurry sono state condotte 3 prove e

successivamente è stata ricavata una curva media per ogni tipo di prova.

In Fig. 4.2 è riportato il grafico con l’andamento delle curve medie delle viscosità

dei 4 tipi di slurry: dal loro confronto si può notare che al crescere della shear rate

(velocità di deformazione di taglio) la viscosità diminuisce. Tale comportamento è

tipico di un fluido non-newtoniano, perciò possiamo desumere che la sospensione in

collagene rientra all’interno di tale categoria di materiali. Inoltre, si può notare che

al crescere della concentrazione di collagene, i valori di viscosità aumentano.

Page 74: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

1 10 100

1

10

100

Vis

cosi

ty [P

a s]

Rate [s-1]

slurry 1%

slurry 2%

slurry 3%

slurry 5%

Fig. 4.2 Andamento della viscosità

Successivamente sono state effettuate delle prove di frequecy sweep per

caratterizzare il materiale dal punto di vista dinamico-meccanico: sono stati

determinati i moduli G’ e G’’ e tan δ in funzione della frequenza per un fissato

valore di deformazione. Per la scelta di tale valore di deformazione è stata eseguita

preliminarmente una prova di strain sweep, cioè una prova dinamica controllata in

frequenza in cui varia la deformazione. Il valore della deformazione preso in

considerazione è quello che ricade nella zona in cui il materiale presenta una

viscoelasticità lineare, cioè nella zona in cui modulo elastico non varia con la

deformazione ε.

La Fig. 4.3 rappresenta lo strain sweep test effettuato su uno slurry con una

concentrazione di collagene al 3% wt. Si è scelto di effettuare le prove di frequecy

sweep test imponendo una deformazione dell’1%.

Page 75: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

0,01 0,1 1 10

0,1

1

10

100

log

G',

G'',

tan

[Pa]

log

G'

G''

tan

Fig. 4.3 Prova di strain sweep effettuata su slurry 3% wt

In Fig. 4.4 e in Fig. 4.5 sono rappresentate le curve medie delle prove eseguite sui 4

tipi di slurry per determinare G’ e G’’ in modo da poterle confrontare: si può

osservare che sia il modulo G’, sia il modulo G’’ crescono all’aumentare della

concentrazione di collagene e all’aumentare della frequenza.

1 10 100

0,1

1

10

100

log

G' [

Pa]

log frequency [rad/s]

slurry 1%

slurry 2%

slurry 3%

slurry 5%

Fig. 4.4 Andamento di G’

Page 76: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

1 10 100

0,1

1

10

100

log

G''

[Pa]

log frequency [rad/s]

slurry 1%

slurry 2%

slurry 3%

slurry 5%

Fig. 4.5 Andamento di G’’

Infine, la Fig. 4.6 rappresenta l’andamento di tan δ dato da G’’/ G’:

1 10 100

1

log

tan

log frequency [rad/s]

slurry 1%

slurry 2%

slurry 3%

slurry 5%

Fig. 4.6 Andamento tan δ

A questo punto possiamo calcolare il modulo elastico:

* 2 2( ') ( '')G G G

Con G’ e G’’ calcolati in corrispondenza di f = 1 rad/s. otteniamo:

Page 77: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

- G* (1%) = 0.81 Pa - G* (3%) = 10.83 Pa

- G* (2%) = 2.76 Pa - G* (5%) = 36.65 Pa

Come potevamo attenderci, il valore di G* aumenta all’aumentare della

concentrazione di collagene.

4.2 Caratterizzazione termica (DSC)

Come già accennato nel Cap. III, la calorimetria a scansione differenziale (DSC) è

una tecnica utilizzata per studiare cosa accade nei polimeri quando vengono

riscaldati o raffreddati in maniera controllata. In particolare, con il DSC possono

essere messe in risalto le temperature alle quali avvengono le transizioni termiche

all’interno del polimero, cioè le temperature alle quali si verificano i cambiamenti di

stato di un polimero. In Fig. 4.7 è rappresentata una tipica curva ottenuta al DSC per

analizzare scaffold in collagene:

Page 78: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

Fig. 4.7 tipica curva al DSC

Possiamo subito notare che la Fig. 4.7 presenta 3 picchi endotermici: il primo

rappresenta il picco di denaturazione (transizione da una struttura a tripla elica a una

conformazione random-coil, con rottura dei ponti idrogeno inter e intra-molecolari a

causa del riscaldamento e del rilascio parziale di acqua), il secondo rappresenta il

picco evaporazione dell’acqua residua fortemente legata e i cambiamenti della

conformazione della super-elica (cominciano a essere liberati prodotti a basso peso

molecolare), mentre l’ultimo picco rappresenta la degradazione termica del

collagene, che porta alla distruzione della struttura molecolare e alla

decomposizione del materiale.

exo

end

o

Hea

t f

low

ΔQ

,

Denaturazione termica: si ha

una transione dalla tripla elica

alla conformazione random coil

Evaporazione dell’acqua residua

fortemente legata e cambiamenti

della conformazione della super-

elica (cominciano a essere liberati

prodotti a basso peso molecolare)

Degradazine termica:

decomposizione

Page 79: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

Dall’analisi al DSC è possibile notare che il secondo e terzo picco sono posizionati

sempre in un range di temperature molto ristretto che vanno, rispettivamente, da

195°C a 210°C e da 300°C a 305°C, rispettivamente. Invece, il primo picco

(denaturazione termica) risente in maniera non trascurabile sia della concentrazione

del collagene sia dei trattamenti termici effettuati.

Dall’analisi dei dati ottenuti al DSC opportunamente graficati, possono essere fatte

alcune considerazioni:

1 ) Analisi della variazione della Td in funzione della concentrazione di collagene a

parità di trattamenti termici.

Dalle Fig 4.8, 4.9, 4.10, 4.11 e 4.12, possiamo notare che a parità di tipologia e

condizioni di trattamento post-fabbricazione (reticolazione e sterilizzazione),

variando la concentrazione di collagene la temperatura di denaturazione si sposta

verso temperature più alte e, in particolare, aumenta al crescere della

concentrazione di collagene.

A titolo esemplificativo, possiamo notare che:

In Fig. 4.8 (scaffold solo liofilizzati) la Td varia da 54,6±1,8°C per scaffold

con concentrazioni di collagene pari all’1% a 72,8±0,2°C per scaffold con

concentrazioni di collagene pari al 5%.

Page 80: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

1% 2% 3% 5%40

50

60

70

80

TE

MP

ER

AT

UR

E, (°

C)

(Mean ± sd; n=3)

Campioni liofilizzati

Fig 4.8 scaffold solo liofilizzati

In Fig. 4.9 (scaffold reticolati 24h a 121°C) la Td varia da 54,9±4,9°C per

scaffold con concentrazioni di collagene pari all’1% a 73,1±0,2°C per scaffold con

concentrazioni di collagene pari al 5%.

1% 2% 3% 5%40

50

60

70

80

90Campioni liofilizzati, DHT 24h

TE

MP

ER

AT

UR

E, (°

C)

(Mean ± sd; n=3)

Fig 4.9 scaffold reticolati 24h

In Fig. 4.10 (scaffold reticolati 48h a 121°C) la Td varia da 58,4±2,5°C per

scaffold con concentrazioni di collagene pari all’1% a 77,4±6,1°C per scaffold con

Page 81: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

concentrazioni di collagene pari al 5%.

1% 2% 3% 5%40

50

60

70

80

90

TE

MP

ER

AT

UR

E, (°

C)

(Mean ± sd; n=3)

Campioni liofilizzati, DHT 48h

Fig 4.10 scaffold reticolati 48h

In Fig. 4.11 (scaffold 5%, reticolati 24h a 121°C, sterilizzati 2h a 160°C) la Td

varia da 58±1,4°C per scaffold con concentrazioni di collagene pari all’1% a

71,8±1°C per scaffold al 5%.

1% 2% 3% 5%40

50

60

70

80

TE

MP

ER

AT

UR

E, (°

C)

(Mean ± sd; n=3)

campioni liofilizzati, DHT 24h, sterilizzati 2h

Fig 4.11 scaffold reticolati 24h, sterilizzato 2h

In Fig. 4.12 (scaffold reticolati 48h a 121°C, sterilizzati 2h a 160°C) la Td

varia da 53,2±2,3°C per scaffold con concentrazioni di collagene pari all’1% a

Page 82: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

77,6±3 ,1°C per scaffold 5%.

1% 2% 3% 5%40

50

60

70

80

90

TE

MP

ER

AT

UR

E, (

°C)

(Mean ± sd; n=3)

campioni liofilizzati, DHT 48h, sterilizzati 2h

Fig 4.12 scaffold reticolati 48h, sterilizzato 2h

La tendenza della Td ad aumentare al crescere della concentrazione del collagene a

parità di tipologia, di durata e di intensità di trattamento termico di reticolazione,

può essere spiegata attraverso il concetto di “polimer in a box”, secondo il quale la

velocità di sfaldamento delle fibre è abbassata dalla vicinanza tra le molecole

circostanti presenti all’interno delle fibre stesse. Infatti, all’aumentare della

concentrazione di collagene, la densità molecolare e il numero di legami covalenti

inter e intra-molecolari naturali aumentano. Le molecole fungono da scatola,

intrappolando la configurazione molecolare del polimero. In questo modo, le

configurazioni molecolari possibili si riducono cosi come l’entropia delle fibre che

si disgregano, abbassando di conseguenza la velocità di sfaldamento.

2 ) Analisi della variazione della Td in funzione dei trattamenti termici a parità di

concentrazione di collagene.

Page 83: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

Mantenendo costante la concentrazione di collagene e variando l’intensità dei

trattamenti termici, come ad esempio, l’intensità della reticolazione, si assiste, con

l’intensificarsi del trattamento, ad un aumento della temperatura di denaturazione.

Ciò indica che il trattamento di reticolazione a cui sono stati sottoposte le varie

serie di scaffold aumenta il grado di reticolazione e, di conseguenza, determina un

aumento della stabilità termica dello scaffold stesso.

Inoltre, attraverso il processo di sterilizzazione, oltre a eliminare eventuali agenti

patogeni (batteri, spore ecc.), permette di ottenere un leggero aumento della Td sia

per i campioni reticolati 24h, sia per i campioni reticolati 48h. Ciò indica che il

processo di sterilizzazione ha apportato un ulteriore aumento del grado di

reticolazione e della stabilità termica degli scaffold in collagene.

1% 2% 3% 5%40

50

60

70

80

90

TE

MP

ER

AT

UR

E, (°

C)

(Mean ± sd; n=3)

F-D

F-D, DHT24

F-D, DHT48

Fig 4.13 Confronto tra scaffold liofilizzati, scaffold reticolati 24h a 121°C e scaffold reticolati 48h

a 121°C.

Page 84: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

In Fig 4.13 è rappresentato il confronto tra scaffold liofilizzati, scaffold reticolati

24h a 121°C e scaffold reticolati 48h a 121°C. Possiamo notare come, ad esempio,

nel caso di scaffold con una percentuale di collagene pari al 5% si passi da una Td di

72,8±0,2 per scaffold liofilizzati a una Td di77,4±6,1 per scaffold liofilizzati e

reticolati 48h a 121°C.

1% 2% 3% 5%40

50

60

70

80

90

TE

MP

ER

AT

UR

E, (°

C)

(Mean ± sd; n=3)

F-D

F-D, DHT48

F-D, DHT48, S2

Fig. 4.14 Confronto tra scaffold liofilizzati, scaffold reticolati 48h a 121°C e scaffold reticolati

48h a 121°C e sterilizzati 2h a 160°C.

In Fig. 4.14 è rappresentato il confronto tra scaffold liofilizzati, scaffold reticolati

48h a 121°C e scaffold reticolati 48h a 121°C e sterilizzati 2h a 160°C. Sempre a

titolo esemplificativo, possiamo osservare come, nel caso di scaffold con una

concentrazione di collagene pari al 3%, si passi da una Td di 67,4±2,1 per scaffold

liofilizzati a una Td di 76,4±1,5 per scaffold liofilizzati e reticolati 48h a 121°C e

sterilizzato 2h a 160°C.

Page 85: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

1% 2% 3% 5%40

50

60

70

80

TE

MP

ER

AT

UR

E, (°

C)

(Mean ± sd; n=3)

F-D

F-D, DHT24

F-D, DHT24, S2

Fig. 4.15 Confronto tra scaffold liofilizzati, scaffold reticolati 24h a 121°C e scaffold reticolati

24h a 121°C e sterilizzati 2h a 160°C.

Infine, in Fig. 4.15 è rappresentato il confronto tra scaffold liofilizzati, scaffold

reticolati 24h a 121°C e scaffold reticolati 24h a 121°C e sterilizzati 2h a 160°C.

Come ultimo esempio, possiamo notare come, nel caso di scaffold con una

concentrazione di collagene pari al 3%, si passi da una Td di 67,4±2,1 per scaffold

liofilizzati a una Td di 69±3,6°C per scaffold liofilizzati e reticolati 24h a 121°C e

sterilizzato 2h a 160°C.

4.3 Caratterizzazione morfologica al SEM

Attraverso l’analisi morfologica al SEM è stato condotto uno studio per determinare

sia le caratteristiche geometriche macroscopiche (forma, diametri e spessore delle

pareti del tubo) sia le caratteristiche microstrutturali (orientamento, forma e

Page 86: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

dimensione media dei pori) degli scaffold.

Sono state analizzate le sezioni superiore, media e inferiore di 6 scaffold con una

percentuale di collagene pari al 3% wt, poiché, tale concentrazione ha mostrato

avere: buone proprietà reologiche (viscosità) per ottenere una buona iniettabilità

della sospensione all’interno dello stampo; permettere di raggiungere un buon

compromesso tra le proprietà morfologiche (porosità e gradiente di porosità) e le

proprietà termiche (Td) volute; e, infine, permette di ottenere scaffold facilmente

maneggiabili durante le fasi d’impianto.

In particolare, per ognuno dei sei scaffold sono stati misurati: il diametro interno

(ID) e il diametro esterno (OD) delle tre sezioni: superiore (UCS), media (MCS),

inferiore (LCS), prima e dopo ogni trattamento. Successivamente, con l’ausilio di

un apposito software, sono stati misurati area, perimetro, diametro medio (MPD) e

rapporto di forma dei pori (AR).

Nella Tab. 4.17(1)

sono riportati i dati medi con deviazione standard dei diametri

interni ed esterni per ognuna delle tre sezioni raggruppati per tipologia di

trattamento:

Page 87: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

CAMPIONE Diametro Interno Tubo ID, [mm] Diametro Esterno Tubo OD, [mm]

LCS MCS UCS LCS MCS UCS

F-D 1,8±0,08 1,84±0,08 1,78±0,13 2,97±0,05 3±0,11 2,93±0,1

F-D, DHT24 1,83±0,09 1,81±0,08 1,98±0,48 3,02±0,07 2,96±0,05 2,72±0,51

F-D, DHT24, S2 1,78±0,07 1,84±0,06 1,76±0,13 2,92±0,04 2,99±0,1 2,9±0,08

Tabella 4.17 Valori medi e deviazione standard del diametro interno ed esterno delle strutture

tubolari. (1) F-D: campioni liofilizzati; F-D DHT24 samples: campioni liofilizzati e reticolati 24h; F-D DHT 24h

S2 samples: campioni liofilizzati e reticolati 24h e sterilizzati 2h.

Dai dati riportati in Tab. 4.17, si nota che il diametro interno (ID) delle tre sezioni

relative ad una classe di scaffold (i.e. scaffold F-D) assumono valori omogenei. Ciò

indica che il particolare processo di fabbricazione utilizzato in questo studio per

ottenere gli scaffold porta alla realizzazione di scaffold tubolari omogenei lungo la

direzione assiale e non determina differenze sostanziali dei parametri

macrogeometrici delle 3 sezioni osservate.

Inoltre, confrontando le sezioni dei campioni, prima e dopo i trattamenti termici,

possiamo notare che sia la reticolazione termica, sia la sterilizzazione termica non

comportano variazioni rilevanti del diametro interno ed esterno e quindi, possiamo

dire, che i trattamenti termici a cui sono sottoposti gli scaffold non influenzano i

parametri macrogeometrici.

Le Fig. 4.18, 4.19 e 4.20 rappresentano degli esempi indicativi e mostrano,

rispettivamente, la sezione superiore (UCS), media (MCS) e inferiore (LCS) di uno

scaffold osservato al SEM per effettuare le misure del diametro interno (ID) ed

Page 88: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

esterno (OD). In alto a destra di ciascuna immagine, sono riportati i valori dei

diametri interno ed esterno della geometria tubolare.

Fig 4.18 Sezione superiore dello scaffold (UCS)

Fig 4.19 Sezione media dello scaffold (MCS)

Page 89: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

Fig. 4.20 Sezione inferiore dello scaffold (UCS)

Per quanto riguarda l’analisi della microstruttura porosa è stato utilizzato un

software specifico (Scion Image Analysis 4.0, Scion Corporation, Frederick, MD)

che ha permesso di rielaborare le immagini ottenute al SEM e di calcolare area,

perimetro, diametro medio (MPD) e rapporto di forma dei pori (AR).

Per ogni sezione trasversale di un dato campione sono state scelte 4 regioni da

analizzare al software, prima e dopo i trattamenti termici (Fig. 4.21). Tali regioni

sono state opportunamente ingrandite in modo da mettere in evidenza i pori e la

struttura porosa della sezione dello scaffold. Per ogni regione della sezione sono

stati presi in considerazione 25 pori, per un totale di 100 pori analizzati per ogni

sezione trasversali.

Page 90: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

Fig. 4.21 Micrografia SEM della sezione trasversale presa in considerazione per la scelta e

l’analisi dei pori e dettaglio della regione da analizzare.

Nella Tab. 4.21(1)

sono riportati i dati del perimetro medio e dell’area media con

deviazione standard dei pori misurati sulle 3 sezioni delle 3 classi di scaffold

analizzati:

CAMPIONE Area, [µm

2] Perimetro, [µm]

LCS MCS UCS LCS MCS UCS

F-D 416,94±103,05 493,03±177,77 481,13±123,88 310,37±68,16 352,64±109,61 354,95±69,9

F-D, DHT24 390,65±82,03 488,5±203,96 505,34±125,89 302,53±66,47 345,95±138,86 396,92±109,33

F-D, DHT24, S2 407,32±119,11 486,35±148,18 730,89±332,29 302,53±82,25 345,64±125,16 515,77±191,11

Tab. 4.21 Area e perimetro medio dei pori delle sezioni degli scaffold analizzati. (1) F-D: campioni

liofilizzati; F-D DHT24 samples: campioni liofilizzati e reticolati 24h; F-D DHT 24h S2 samples: campioni

liofilizzati e reticolati 24h e sterilizzati 2h.

Anche da questa indagine quantitativa possiamo notare che l’area e il perimetro dei

pori nelle 3 sezioni trasversali relative ad una stessa classe di scaffold (i.e. scaffold

Page 91: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

F-D) stesso scaffold non presentano differenze consistenti. Quest’ultima

considerazione conferma quanto detto precedentemente per il diametro interno ed

esterno delle strutture tubolari: il processo di fabbricazione utilizzato in questo

studio (spinning + freeze drying) per ottenere gli scaffold porta alla realizzazione di

scaffold tubolari omogenei lungo la direzione assiale e non determina differenze di

rilievo per quanto riguarda il perimetro e l’area media dei pori delle 3 sezioni di una

classe di scaffold.

Inoltre, confrontando i le sezioni dei campioni prima e dopo i trattamenti di

reticolazione e sterilizzazione termica, non si notano variazioni ragguardevoli

dell’area e del perimetro medio. Di conseguenza, possiamo affermare che i

trattamenti termici a cui sono sottoposti gli scaffold non influenzano l’area e il

perimetro dei pori

Infine, nella Tab. 4.22(1)

sono riportati i dati riguardanti diametro medio e rapporto

di forma dei pori analizzati per ogni sezione di ogni classe di scaffold.

CAMPIONE Diametro Medio Pori MPD, [µm] Rapporto di forma AR

LCS MCS UCS LCS MCS UCS

F-D 210,1±48,2 212,2±66,5 259,3±62 3,01±0,79 2,88±1,11 4,46±1,37

F-D, DHT24 198,8±47,2 220,8±65,9 265,2±67,1 3,03±0,87 3,19±0,97 4,29±1,31

F-D, DHT24, S2 211,9±51,8 227,2±70,1 323,3±81,8 3,37±0,98 3,55±1,55 4,72±1,27

Tab 4.22 Diametro medio e rapporto di forma dei pori analizzati. (1) F-D: campioni liofilizzati; F-D

DHT24 samples: campioni liofilizzati e reticolati 24h; F-D DHT 24h S2 samples: campioni liofilizzati e reticolati

24h e sterilizzati 2h.

Per calcolare il diametro medio dei pori e il rapporto di forma sono state utilizzate le

Page 92: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

formule:

2

b+a25,1

22

MPD ),min(

),max(

ba

baAR

dove a e b sono gli assi maggiore e minore dell’ellisse (costruita dal software) che

meglio riproduce la sezione trasversale di un poro e il fattore 1,5 è un fattore

correttivo che tiene conto del fatto che i pori potrebbero non essere stati sezionati in

corrispondenza del loro diametro massimo.

Anche osservando i dati relativi al diametro medio dei pori (MPD) possiamo vedere

che i dati risultano essere molto omogenei sia per quanto riguarda le 3 sezioni

relative ad ogni classe scaffold. Inoltre, i vari trattamenti non influenzano la

dimensione media del diametro dei pori.

Infine, è interessante osservare i dati relativi al rapporto di forma (AR). Essi variano

in un range molto ampio: da 2,88 a 4,72 in una scala che va da 1 per i pori di forma

circolare, a 7 per i pori di forma molto allungata, con un valore medio di circa 3.6.

Questo indica che i pori hanno una forma colonnare notevolmente allungata,

costituendo dei veri e propri canali porosi: tale risultato è la conseguenza del

particolare processo di fabbricazione utilizzato, per effetto del quale si sommano i

contributi dati dalla sedimentazione (generata dalla forte rotazione imposta alla

sospensione) e dal gradiente di trasferimento del calore (generato dal rapido

congelamento in azoto liquido della sospensione stessa) imprimendo la peculiare

Page 93: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

morfologia porosa.

Dalle immagini, inoltre, si può notare come l’orientazione radiale dei pori sia

accompagnata da un gradiente di porosità che caratterizza sia il numero sia la

dimensione dei pori lungo il raggio della sezione tubolare. Nella Fig. 4.23, ad

esempio, risulta evidente che la superficie esterna è caratterizzata da una più alta

densità relativa e una ridotta dimensione media dei pori rispetto la superficie

interna, caratterizzata, invece, da una frazione volumetrica di solido minore e una

dimensione media dei pori maggiore. Come detto nel Cap. II, una tale struttura

facilita la migrazione cellulare dall’interno del tubo verso l’esterno e impedisce

l’ingresso delle cellule dall’esterno, ma allo stesso tempo, permette l’ingresso degli

agenti nutrienti e delle proteine che, rispetto alle cellule, hanno dimensioni minori.

Fig. 4.23 Gradiente di porosità di uno scaffold

In definitiva, l’analisi morfologica delle caratteristiche macrostrutturali (forma,

Page 94: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

diametri e spessore delle pareti del tubo) e l’analisi dei parametri microstrutturali

(orientamento, forma e dimensione media dei pori) degli scaffold condotta al SEM

ha confermato che il processo di sedimentazione e il trasferimento del calore per

effetto del gradiente termico avvengono in maniera omogenea lungo la direzione

assiale dello scaffold, inoltre, ha mostrato che i trattamenti termici di reticolazione e

sterilizzazione hanno impatti trascurabili o nulli sulle caratteristiche morfologiche

macro e microstrutturali degli scaffold.

Ad esempio, nelle Fig. 4.24 sono riportate i particolari delle sezioni superiore di uno

scaffold, prima e dopo i trattamenti termici:

Fig. 4.24 (a) Sezione superiore di uno scaffold liofilizzato

Page 95: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

Fig. 4.24 (b) Sezione superiore di uno scaffold liofilizzato e reticolato termicamente 24h

Fig. 4.24 (c) Sezione superiore di uno scaffold liofilizzato reticolato termicamente 24h e

sterilizzato termicamente 2h

Page 96: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

CONCLUSIONI

Scaffold a base di collagene per la rigenerazione del sistema nervoso periferico sono

stati prodotti utilizzando una tecnica innovativa di spin-casting associata al processo

di liofilizzazione. Tale tecnica permette di ottenere strutture tubolari con un elevata

porosità interconnessa ad orientazione preferenziale.

L’obiettivo del presente lavoro di tesi è stato quello di valutare l’impatto di

trattamenti post-fabbricazione (prevalentemente termici) sulle proprietà degli

scaffold.

La reometria ha permesso, anzitutto, di caratterizzare, nelle sue proprietà

viscoelastiche, la sospensione a base di collagene utilizzata quale materiale di

partenza per la produzione degli scaffold stessi.

In particolare, le prove di viscosità hanno dimostrato che la sospensione di

collagene e acqua (slurry) assume un comportamento tipico dei fluidi non

newtoniani (al crescere della velocità di deformazione, la viscosità diminuisce);

inoltre, la viscosità della sospensione aumenta al crescere del contenuto di

collagene. Le prove di frequecy sweep, condotte per caratterizzare il materiale dal

punto di vista dinamico-meccanico, hanno permesso, invece, di determinare

l’andamento dei moduli G’ e G’’ e di constatare che entrambi aumentano

all’aumentare della concentrazione di collagene (e, dunque, anche G).

Page 97: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

La microscopia ha permesso, invece, di mettere in luce che la tecnica presentata

(spinning) permette di produrre strutture tubolari omogenee (in maniera semplice e

ripetibile e senza il ricorso a complessi sistemi di stampo) e altamente porose, che

esibiscono un gradiente di porosità ad orientazione radiale.

Tale risultato è dovuto all’effetto combinato dato dalla netta separazione di fase tra

solido (collagene) e liquido (acqua) che si riesce a imprimere, in caso di condizioni

di sedimentazione estreme, facendo ruotare vorticosamente la sospensione, e

dall’elevato gradiente di trasferimento del calore, che si riesce a sviluppare

imponendo a quest’ultima un rapido congelamento.

In questo modo la superficie esterna dello scaffold è caratterizzata da una maggiore

frazione volumetrica di solido e una ridotta dimensione media dei pori rispetto la

superficie interna, caratterizzata, invece, da una frazione volumetrica di solido

minore e una dimensione media dei pori maggiore.

Inoltre, il confronto dei campioni prima e dopo i trattamenti di stabilizzazione

(reticolazione) e sterilizzazione, ha permesso di osservare che questi non

determinano variazioni apprezzabili sia della proprietà geometriche e morfologiche,

a livello microscopico e macroscopico, che di quelle fisico-strutturali.

La calorimetria ha permesso, infine, di analizzare anche le proprietà termo-fisiche

degli scaffold. I dati ottenuti dimostrano che la temperatura di denaturazione del

collagene varia sia in funzione della sua concentrazione selezionata per la sintesi

delle sospensioni di partenza, sia in funzione del tempo di esposizione ai trattamenti

Page 98: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

termici post-fabbricazione.

Infatti, le prove condotte al DSC hanno mostrato che la Td degli scaffold, a parità di

tipologia, di durata e di intensità dei trattamenti termici, cresce all’aumentare della

concentrazione di collagene e che, mantenendo costante la concentrazione di

collagene e variando l’intensità del trattamento di reticolazione, essa cresce in

seguito all’intensificazione del trattamento termico.

Questi risultati indicano che una maggiore concentrazione di collagene incrementa

la formazione di legami inter e intra-molecolari naturali e induce un maggior grado

di reticolazione all’interno degli scaffold. In definitiva, l’aumento della

concentrazione di collagene e l’intensificazione dei trattamenti termici producono

una maggiore stabilità termica delle strutture degli scaffold in collagene.

Infine, è stato osservato che il processo di sterilizzazione termica ha, anche esso, un

leggero effetto reticolante, poiché, è stato osservato un incremento della Td degli

scaffold.

Lavori futuri potrebbero riguardare lo studio di altri metodi di sterilizzazione con

scaffold tubolari con un elevato gradiente di porosità radiale.

Inoltre, potrebbero essere svolti studi sull’influenza della sterilizzazione sulla

velocità di rigenerazione del tessuto in vivo e di degradazione dello scaffold.

Page 99: Sintesi e caratterizzazione di una nuova classe di dispositivi medici impiantabili a base di collagene per applicazioni in tissue engineering

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