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Saggio di Ernesto Hofmann presentato al SIGLA CONVIVIUM 2012
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evoluzione tecnologica e svilupo economico
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Cosa c’è al di là delle nuvole dell’IT?
ernesto hofmann
evoluzione tecnologica e svilupo economico
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Possiamo immaginare che l’intera macchina economica si presti a essere
approssimativamente rappresentata come un grande ruota che viene mossa dall’innato
desiderio umano di migliorare le proprie condizioni.
Sono quindi i consumi, checchè se ne dica, a spingere l’economia; e se i consumi
si fermano si entra in un periodo di cosiddetta recessione economica.
I consumi, a loro volta, tendono a innalzare il livello medio di vita (più cibo e di
migliore qualità, migliori indumenti, case più confortevoli, …), ma ciò provoca anche
una certa disaffezione verso lavori meno qualificati e più logoranti, che diventano
appetibili per popolazioni meno ricche. E in un’epoca di globalizzazione ciò determina il
fenomeno dell’outsourcing, o meglio dell’offshoring.
Inoltre un più elevato livello di vita richiede anche migliori sistemi educativi e
sanitari (i cui costi come si vedrà tendono a crescere vistosamente). Non solo: vengono
anche richiesti servizi locali come strade, fognature, negozi, sale di intrattenimento, e
soprattutto mobilità. Ma tutto ciò richiede a sua volta energia. E quindi entrano in gioco
le fonti di energia: ci sono? Sono accessibili? A che costi? Con quali garanzie?
Inquinano l’ambiente? Domande tutte lecite, ancorchè di difficile risposta.
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E servono anche materiali, sempre più sofisticati: alluminio, rame,
lantanio, mercurio, uranio,…L’estrazione di tali materiali richiede ulteriore energia.
Bisogna allora avere nuove idee, bisogna saper innovare. Ma per innovare
serve un complessivo sistema culturale che non è costituito solo di scuole e università,
ma di qualcosa di più articolato e sottile: il gusto del nuovo, la fantasia, la propensione al
rischio, i capitali di investimento, le sinergie intellettuli,…
Tutto ciò crea le premesse per un’infrastruttura produttiva nella quale ancora una
volta l’elemento chiave, in uno scenario globalizzato, diventa la competitività, di cui il
costo del lavoro resta una voce fondamentale.
il fenomeno dell’outsourcing-offshoring
Il fenomeno dell’offshoring, cui si è appena accennato, ossia la delocalizzazione
del processo produttivo da parte di un'azienda con il trasferimento di tutti o parte degli
stabilimenti in un paese diverso da quello dell'azienda stessa, viene praticato solitamente
dalle aziende dei paesi sviluppati ed industrializzati non solo per poter produrre in paesi
dove la manodopera ha un prezzo minore, ma anche perchè nei paesi di origine, dove il
benessere è aumentato, si nota una certa disaffezione verso alcune attività considerate di
basso livello intellettuale.
Il fenomeno non riguarda soltanto il trasferimento di attività verso paesi come la
Cina e l’India ma coinvolge anche i Paesi dell’Est europeo.
Questi ultimi infatti, dopo essere recentemente entrati nell'Unione Europea, sono
diventati particolarmente allettanti per i paesi dell'Europa occidentale che desiderano
delocalizzare i servizi: le barriere linguistiche sono pressoché inesistenti, le normative
ridotte al minimo e il costo degli stipendi inferiore in media del 40%.
C’è da aggiungere che il fenomeno dell’offshoring viene avvertito in modo
diverso se esso riguarda il mondo dei servizi piuttosto che quello dell’industria.
Differentemente dal decentramento dei processi industriali, la delocalizzazione dei
servizi non infastidisce più di tanto le popolazioni occidentali perchè, diversamente da
ciò che talvolta accade nell'industria, il lavoro non viene trasferito in fabbriche dove le
condizioni sono precarie e i lavoratori sottopagati, ma in uffici dove i lavoratori sono ben
retribuiti e molto preparati, siano essi in India, nell'Europa dell'Est oppure in Cina.
Tuttavia, il processo non si svolge senza proteste: il vasto ceto medio dei paesi
occidentali, infatti, inizia a preoccuparsi di perdere il proprio posto di lavoro.
Il problema, poi, sembra molto più grande per i paesi di lingua inglese perchè è
intuibile che tale lingua sia conosciuta in Cina, e soprattutto in India, ben più di altre
lingue come il tedesco, il francese , l’italiano o lo spagnolo.
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Un recente studio dell’università Americana di Princeton ipotizza che nel
prossimo decennio siano a rischio negli USA circa 50 milioni di posti lavoro, ossia quasi
un terzo dell’intera forza lavoro; mentre un altro studio della McKinsey stima che circa
l’11% della forza lavoro nel settore privato dei paesi più ricchi sia suscettibile di essere
trasferita (offshored) verso i paesi emergenti.
C’è quindi un’inquietudine legata alla paura della disoccupazione. Tuttavia due
economisti del Fondo Monetario Internazionale, Mary Amiti e Shang-Jin Wei,
sostengono che: "Le aziende che mettono in atto la delocalizzazione migliorano la
propria produttività, riuscendo così a creare nuovi posti di lavoro".
La nuova produttività, spiegano gli economisti del FMI, in un contesto
sufficientemente concorrenziale abbatte i prezzi, provocando un aumento dei consumi e,
di conseguenza, della domanda di lavoro. Ricerche empiriche svolte negli Stati Uniti e in
Inghilterra confermano i risultati dello studio, che rileva un ulteriore dato in grado di
tranquillizzare gli osservatori più critici: il fatto che non aumentano solamente i servizi
delocalizzati dai paesi occidentali, ma anche i posti di lavoro che vengono "importati"
(insourcing) negli stessi paesi occidentali da aziende estere.
Più recentemente l’ Economist è arrivato ad affermare che nel medio termine tutto
il mondo non potrà che beneficiare di un complessivo miglioramento della produttività
con una più equa distribuzione della ricchezza prodotta.
Resta comunque il fatto che l’economia occidentale è oggi tuttora in difficoltà.
il ruolo dirompente dell’Information Technology: l’ automazione
Ma al di là dell’offshoring c’è un fenomeno ancor più dirompente nell’ambito
dell’occupazione, ed è il crescente livello di automazione nelle diverse attiviità umane
indotto dalla sempre più ampia diffusione dei computer e, più in generale,
dell’Information Technology.
Il fenomeno dell’automazione delle attività umane si è evoluto in modo
progressivo e ha coinvolto non solo coloro che sono addetti alla costruzione di un
particolare prodotto o all’erogazione di un certo servizio.
Nell'economia tradizionale, fino a poco tempo fa, l'informatica era una delle tante
risorse d’impresa. Il reparto IT (Information Technology) era un reparto come altri e
quindi come la contabilità o come il magazzino parti. I prodotti del reparto IT potevano
migliorare il funzionamento di alcuni reparti, ma la sua funzione poteva apparire simile a
quella di un tornio migliore in un'impresa meccanica, ossia un utile utensile.
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Se si prendono quale esempio i processi di relazione tra impresa e cliente, fino a
pochi anni or sono i clienti di un’impresa utilizzavano solo indirettamente le strutture
informatiche di quest’ultima. Era comunque il personale di una specifica organizzazione
o impresa che, a fronte di una specifica richiesta di un cliente, si rivolgeva al sistema
informativo per ottenere il servizio richiesto, che poteva essere l’aggiornamento di un
conto corrente, l’emissione di un biglietto, la prenotazione di un posto, l’ordine di un
manufatto.
Ora, invece, sono i clienti stessi che, tramite Internet, possono accedere
direttamente ai sistemi informativi delle aziende per tutti i processi che li riguardano.
Sorge in tal modo una sorprendente simbiosi impresa-cliente: così come nascono
equivalenti situazioni impresa-fornitore, impresa-dipendente, impresa-canale di vendita,
etc….
Le aziende possono individuare sempre meglio le esigenze e i comportamenti di
persone o entità con cui si relazionano, così come queste ultime possono osservare,
studiare e persino confrontare tra loro le aziende. E tutto ciò in tempo reale e su scala
mondiale.
Una simile evoluzione è avvenuta, anche se in modo diverso, nelle attività umane
più direttamente coinvolte nella costruzione di un particolare manufatto, attività che
sempre più spesso vengono attuate da dispisitivi di vario genere guidati da uno specifico
software in azione su uno o più computer.
In un simile scenario nasce allora un serio dubbio, che è quello che sia la stessa
tecnologia a creare disoccupazione. Una simile visione luddista viene in genere rifiutata
facendo appello alla teoria delle onde di distruzione creativa ipotizzate dall’economista
Schumpeter.
La teoria delle onde di distruzione creativa, secondo Schumpeter, consente di
spiegare l'alternarsi, nel ciclo economico, di fasi espansive e recessive.
Le innovazioni, infatti, non possono venire introdotte in modo costante, ma si
concentrano in alcuni periodi di tempo, caratterizzati da una forte espansione. Le fasi di
espansione sotto la spinta soprattutto di nuove tecnologie vengono definite di "distruzione
creatrice" per il drastico processo selettivo che le contraddistingue. Molte imprese
spariscono, altre nascono o si rafforzano.
Oggi però sembra che questo meccanismo non sia del tutto in grado di spiegare
quanto sta accadendo. C’è un sospetto, ed è quello che la tecnologia si stia sostituendo
all’uomo in troppe attività.
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Di fatto si sta assistendo a una nuova sostanziale rivoluzione economica. Per
diversi millenni il lavoro umano è stato essenzialmente manuale e l’energia necessaria
veniva acquisita da animali, da schiavi o al massimo da vento e acqua.
Poi con l’avvento della macchina a vapore, e quindi dell’elettricità e poi del
petrolio si è avviata una lunga fase (duranta almeno due secoli) di semi-automazione
delle attività umane.
L’energia acquisita serviva a muovere materiali e macchinari sotto la costante
guida del’uomo.
Ora però, all’alba del terzo millennio, con il pieno utilizzo di computer di tutte le
taglie, si assiste a una progressiva e sempre più diffusa automazione di attività della più
varia natura.
Al tempo stesso nelle società più evolute sono proprio i costi dell’istruzione, con
la quale si cerca di preparare individui creativi che non possano essere sostituiti da
macchine, a crescere vertiginosamente.
Sembra quasi che la tecnologia si stia impadronendo dell’uomo rendendolo un
proprio addetto, e ribaltando così il ruolo subalterno che essa aveva sempre avuto nei
confronti dell’uomo stesso.
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la capacità di innovare
Per non perdere occupazione e per continuare a essere produttivi bisogna allora
saper innovare, ossia creare nuove attività nelle quali l’uomo non sia rimpiazzabile da
una macchina. Ma cosa vuol dire saper innovare?
Un’impresa sorge per creare qualcosa di nuovo. Non solo come prodotti o servizi,
ma anche come posizionamento sul mercato, come strategia di distribuzione, di
marketing, di relazioni con il cliente, e più in generale di processo…
Innovare vuol dire quindi saper cogliere le molteplici sollecitazioni – anche
piccole – che provengono sia dall’esterno sia dall’interno dell’impresa stessa e quindi
saper reagire in modo nuovo e tempestivamente. Spesso occorre persino anticipare gli
scenari futuri pianificando per tempo le risposte alle future esigenze.
Saper innovare è tuttavia una caratteristica più tipica del singolo che dell’impresa
ed è in generale determinata sia dalle caratteristiche innate, sia dall’educazione sia
dall’ambiente nel quale quella stessa persona opera.
Educare vuol dire saper introdurre un individuo in una realtà complessa, e quindi
richiede di poter sviluppare una totalità di atteggiamenti dell’individuo stesso, soprattutto
in rapporto al mondo che lo circonda.
Se il potenziale umano di una comunità viene abilitato da un sistema educativo
che insegna a innovare, cioè a saper rispondere per tempo ai continui mutamenti della
realtà, quella stessa comunità manterrà livelli di vita di eccellenza in rapporto al proprio
tempo.
Vi sono aspetti tipici che caratterizzano la capacità di innovare: creatività,
conoscenza, fiducia, visione senza pregiudizi della realtà, razionalità quale apertura al
reale, e prontezza a mutare le proprie convinzioni sulla base di ciò che il mondo presenta.
Dal punto di vista del business innovare vuol dire allora saper interpretare i
desideri dei propri clienti, ma anche saper rendere felici i propri collaboratori: innovare
significa perciò mettere in atto un processo di educazione continua.
Nel contesto italiano si constata che purtroppo le tipiche imprese italiane, ossia le
PMI (piccole e medie imprese), non hanno sufficienti contatti - e spesso nemmeno uno
stesso linguaggio comune – con Università e Centri di Ricerca. Le PMI non dispongono
quindi di una sufficiente informazione sugli incentivi per l’innovazione e sulle relative
procedure di accesso, né della necessaria capacità progettuale.
Per fortuna a fronte di un simile contesto ci sono tuttore qualità tipicamente
italiane, quali l’estrema flessibilità delle PMI e la ben nota la genialità degli
imprenditori italiani, che spesso sono riusciti a capitalizzare su tecnologie già esistenti
per farne una leva di competitività.
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Ma nel mondo odierno, così fortemente correlato ossia globalizzato e nel quale
l’informazione in tempo reale è diventata il bene più prezioso, l’elemento cruciale
diventa l’Information Technology. Essa è ormai il fondamento sul quale diventa
possibile la realizzazione di quasi tutte le soluzioni innovative in ogni settore
dell’economia.
Per le PMI la sfida di restare al passo con l’ Information Technology è ineludibile
e ciò soprattutto per mantenere la competitività.
Non c’è oggi più alcun dubbio sul fatto che sul fondamento dell’IT vengono
attuate le più rilevanti innovazioni, quando queste poi non riguardano l’IT stessa, che tra
le tante tecnologie sembra essere proprio la più innovativa.
Può allora essere utile segnalare che Thomson Reuters Corporation, uno dei
maggiori cosiddetti business data provider, ha recentemente pubblicato la classifica dei
primi 100 global innovators dell’anno 2011 (http://top100innovators.com), ossia delle
imprese che si sono distinte, a livello mondiale, come leader per quanto attiene all’attività
di innovazione tecnologica.
La classifica è stata formulata con metriche che fanno riferimento a vari aspetti
dell’innovazione e correlate all’attività brevettuale e scientifica di tali imprese. Si tratta di
imprese che hanno una significativa produzione di invenzioni e che stanno lavorando su
sviluppi tecnologici riconosciuti come innovativi dagli uffici brevetti di tutti i principali
paesi del mondo, e per i quali richiedono protezione a livello globale.
Il 2011 si è confermato come un anno di sostanziale crisi, ma le 100 grandi
aziende prese in considerazione hanno generato da sole 400.000 posti di lavoro a livello
globale nel 2010. E’ questo un significativo incremento rispetto al 2009 (e non è stato
considerato l’impatto indiretto sull’indotto).
La massima concentrazione di imprese ad alta tecnologia si trova negli USA dove
ha sede ben il quaranta per cento delle aziende in classifica.
A seguire viene il Giappone, che nella suddetta classifica presenta almeno
un’impresa in dodici dei 16 ambiti tecnologici presi in considerazione.
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L’unica altra nazione ad alto contenuto di innovazione in Oriente è la Corea del
Sud, con quattro grandi imprese innovatrici su cento.
Quello che sorprende assolutamente è l’assenza in classifica della Cina. La Cina è
diventata la prima nazione produttrice di brevetti al mondo, ma non ha alcun’impresa
che sia tra le prime 100 innovatrici del mondo.
Emerge con chiara evidenza ciò che si sospettava , ossia che l' allarme per il
cosiddetto «rallentamento della Cina» è in realtà la preoccupazione per un
«riorientamento della Cina», ossia un «riaggiustamento della Cina» verso il basso. I
mercati finanziari si stanno da tempo chiedendo se quella che nel 2011 è diventata la
seconda economia del mondo riuscirà a diventare davvero una superpotenza sviluppata,
superando entro un paio di decenni gli USA.
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Come si vede, saper innovare realmente non è poi così semplice come potrebbe
sembrare, ossia non bastano piani strategici o colossali investimenti: occorre qualcosa di
più, che è proprio quel contetso culturale cui prima si è fatto riferimento, e che forse
manca tuttora alla Cina (e all’India).
In Europa, non soprende che sia la Francia a distinguersi per il tasso innovativo
delle sue società pubbliche: il Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica (CNRS,
completamente pubblico), il Commissariato per l’Energia Atomica (CEA, parzialmente
pubblico) e IFP-Energie Nouvelles (l’ex Istituto Francese del Petrolio ora riconvertito
verso lo studio delle nuove fonti di energia). Ancora una volta paga un contesto culturale
innovativo consolidato da decenni, per non dire da secoli.
Nella classifica oltre alla Francia ci sono ovviamente la Germania, l’Olanda, la
Svizzera, la Svezia. Sorprende un poco che l’Inghilterra sia presente solo con l’azienda
anglo-olandese Unilever. Ma la soprpresa maggiore viene dal minuscolo Liechtenstein
che con i suoi 160 chilometri quadrati e con una popolazione di 35.000 persone è
presente in classifica con una delle cento compagnie più innovative al mondo, la Hilti
Corporation, un'impresa che sviluppa e produce prodotti per aziende edili.
L’Italia, ahimè, in questa classica è del tutto assente.
ulteriori considerazioni su automazione e occupazione
C’è da aggiungere che senza la capacità di innovare e quindi di creare nuove
figure professionali l’automazione indotta dalla tecnica può creare notevoli problemi
occupazionali.
E si può anche notare quanto impegnativi dal punto di vista economico siano i
servizi di istruzione e sanitari, come mostrato nella figura che segue e che si riferisce a
dati USA.
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Ma resta il sospetto che automazione non voglia dire solo produttività ma anche
disoccupazione.
Il sospetto che la tecncologia potesse rendere l’uomo suo schiavo era era stato
espresso con chiarezza per la prima volta da Martin Heidegger nella sua conferenza “La
questione della tecnica” (tenuta a Monaco nel 1953). Secondo Heidegger si
era ormai verificato un vero e proprio capovolgimento di ruoli tra uomo e tecnologia.
Se in Eschilo, nel Prometeo incatenato, l’uomo era padrone della
tecnologia, pur nelle limitazioni di quest’ultima, con Heidegger appare un uomo “a
disposizione” della tecnologia. L’ambizione di questa è infatti di fare tutto ciò che può
fare, mentre l’uomo vorrebbe capire cosa si deve fare e cosa non si deve fare.
La tecnica (tecnologia), secondo Heidegger, sembra ormai
indipendente dalle finalità dell’uomo e si evolve secondo una propria volontà di potenza
che sembra inarrestabile. L’economia e le tendenze della società sembrano
completamente determinate dalle evoluzioni tecnologiche. Le onde distruttive di
Schumpeter ridefiniscono, in funzione delle tecnostrutture disponibili, gli scenari
economici e le tendenze sociali seguono, per così dire, a ruota.
Quasi in questo spirito, un libro appena uscito, Race Against the Machine: How
the Digital Revolution Is Accelerating Innovation, Driving Productivity, and Irreversibly
Transforming Employment and the Economy di Erik Brynjolfsson, e Andrew McAfee
(entrambi dell’MIT), pone in serio dubbio la convinzione che le nuove tecnologie
dell’informazione e della comunicazione distruggano posti di lavoro a breve termine, per
poi ricrearne di più sul lungo periodo.
Secondo Brynjolfsson e McAfee l’Information Technology in questi ultimi anni
ha permesso ai leader di alcuni settori di guadagnare molto più che nel passato, mentre al
tempo stesso soprattutto con il software ha sostituito moltissimi lavoratori, offrendo così
benefici ai proprietari delle imprese ma non ai loro dipendenti.
Brynjolfsson e McAfee riportano nel loro breve libro (disponibile solo come
ebook) alcuni grafici molto interessanti dei quali di seguito ne vengono riportati due
particolarmente significativi.
Da questi grafici si può facilmente vedere come i salari siano cresciuti solo in
settori ad elevata specializzazione (addirittura di iperspecializzazione) e come, inoltre, il
numero di posti di lavoro negli ultimi anni sia persino diminuito.
Brynjolfsson e McAfee affermano che mentre i bit possono essere distribuiti a
costo zero istantaneamente in tutto il mondo, la stessa cosa non si può fare con gli atomi
(ovvero con le entità materiali).
Così come tutti oramai sanno può essere fatto per la musica, i giornali, i libri,
questo è vero anche per i processi gestionali, che vengono inglobati nel software a
vantaggio di chi deve decidere e comandare.
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E’ una visione che contrasta decisamente con quella di Robert Solow (premio
Nobel per l’economia) il quale afferma che le innovazioni tecnologiche possono creare
disoccupazione, ma localizzata (2007, The last 50 years in growth theory and the next 10,
http://relooney.fatcow.com/OREP-Solow_1.pdf).
Solow ha elaborato un modello economico secondo il quale circa quattro quinti
nella crescita marginale dell'output per unità di lavoro negli Stati Uniti deriva dal
progresso tecnico, poichè non può derivare né dalla crescita del capitale né dalla crescita
della forza lavoro.
Su tempi più lunghi l’occupazione complessiva, così come i salari, non dovrebbe
soffrire a causa delle innovazioni tecnologiche.
La tesi di Solow è stata in un certo senso confermata dal presidente francese
Nicolas Sarkozy che recentemente (maggio 2011) alla riunione del G8 a Parigi ha
affermato; “ Voglio rifiutare l’inevitabile e Internet deve essere una delle 4-5
priorità della Francia come la ricerca e sviluppo in settori chiave come la
tecnologia. Ci stiamo impegnando ma non stiamo investendo a sufficienza nella
rete. Per me è una priorità, anche rispetto all’educazione e alle pari
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opportunità…”. Facendo riferimento a uno studio della McKinsey, Sarkozy ha
affermato che a fronte dei posti di lavoro distrutti dall’adozione di Internet
quest’ultima tecnologia abbia finito col crearne oltre il doppio. Probabilmente è troppo presto per ritenere che gli ultimi dieci anni abbiano
dimostrato che la tecnologia stia rivelandosi un boomerang per l’economia.
Sta di fatto che l’Information Technology, pur nella sua complessa e talora
contraddittoria realtà, sembra aver provocato un vero e proprio ribaltamento di tipo
copernicano del business.
Mentre fino a pochi anni fa erano le persone che creavano il mercato attraverso
consumi, norma, culture e imprese, ora sembra che sia il mercato, soprattutto finanziario,
a dettare, attraverso imprese sempre più multinazionali e transnazionali, norme e cultura e
quindi a trasformare le persone in puri clienti.
In un simile scenario è intuibile che i modelli di business attraverso i quali le
imprese cercando di affermarsi si evolvano e richiedano nuove conoscenze e nuove
strategie.
l’evoluzione delle tecnologie per la mobilità
Secondo molti osservatori si sta entrando ormai in un’era industriale che molti già
definiscono post-PC. Questo non significa che i personal computer spariranno, ma
secondo molti osservatori (come Gartner, Forrester, l’Economist, IDC, e altri) la quantità
di smartphone e tablet installati supererà quella dei personal computer (desktop e laptop):
del resto il sorpasso è già avvenuto nell’autunno del 2011.
Secondo Morgan Stanley nel 2020 ci saranno probabilmente oltre 10 miliardi di
dispositivi mobili in circolazione. Tali dispositivi utilizzeranno combinazioni
diversificate di applicazioni software: già nel solo 2011 quasi venti miliardi di queste
verranno installate. La crescita di dispositivi mobili trainerà anche una grande crescita di
dati digitali. Secondo Cisco nel 2015 oltre sei exabyte (ossia 6 x 1018
byte), equivalenti a
un centinaio di miliardi di copie di una comune rivista italiana, verranno trasferite
attraverso il Web ogni mese.
In un mercato globalizzato, nel quale le imprese competono per individuare
continuamente nuovi clienti, gli smartphone forniscono un nuovo potente strumento di
lavoro. Il solo mercato relativo al mobile-commerce nel 2015 viene valutato da ABI
Research a oltre 160 miliardi di dollari.
Ma il dato forse più significativo è quello fornito dalla World Bank (report:
Mobile Telephony 2009): 10 cellulari in più ogni cento persone nelle nazioni più evolute
si riflettono in una crescita del prodotto interno lordo dello 0.8%.
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Uno degli aspetti più curiosi dell’importanza del telefono cellulare come
strumento di marketing è che per molte persone il suo numero è ormai più stabile nel
tempo dell’indirizzo di casa.
E’ quindi evidente che un crescente numero di persone opera ormai nell’ambito di
un mondo cosiddetto online. E nel futuro tale mondo sarà costituito da un’infrastruttura di
telecomunicazioni assolutamente pervasiva, cioè in grado di raggiungere tutti, e con una
capacità di trasmissione (bandwidth) persino più elevata di quanto necessario.
Secondo un recente studio di IDC ci sono attualmente più di un miliardo e 200
milioni di utenti che accedono a Internet. 700 milioni possiedono un proprio Personal
Computer, mentre oltre due miliardi di persone possiedono un telefono cellulare.
Nell’ambito di questa vasta popolazione ci sono almeno trecento milioni di
persone che lavorano per imprese di vario genere. Queste persone elaborano e scambiano
enormi quantità di informazioni, tanto da venir identificate, secondo un nuovo
neologismo, come iWorker, ossia come operatori dell’informazione.
Uno degli aspetti più significativi di questa nuova realtà del mondo del lavoro è che
gli iWorker utilizzano in proprio, e molto spesso a casa, apparecchi elettronici che
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vorrebbero poter riutilizzare nello stesso modo sul posto di lavoro. Essi infatti usano
molteplici dispositivi che permettono di accedere a Internet per le più diverse attività
personali, quali ricerca di informazioni, gestione di testi, e-commerce, networking
sociale, fruizione di contenuti multimediali di vario genere quali musica e filmati,
videogiochi,..
Nasce così una crescente pressione sui reparti ICT delle varie imprese affinchè le
capacità di interazione con Internet, acquisite personalmente, possano essere integrate
proficuamente nell’attività di lavoro. E ciò che maggiormente colpisce è la velocità con la
quale questo fenomeno stia ormai dilagando, soprattutto a causa di una popolazione di
utenti molto giovani (tra 18 e 30 anni) che non prova alcuna timidezza nello sperimentare
sempre nuove possibilità applicative.
Inoltre si vanno anche differenziando i dispositivi elettronici che possono essere
utilizzati. Secondo lo stesso studio di IDC alla fine del 2009 erano oltre sei miliardi i
dispositivi in grado di connettersi a Internet, e tra essi ci sono computer, printer, telefoni
cellulari, smart-phone, camera-phone, MP3 player, dispositivi per videogiochi, macchine
fotografiche digitali, dispositivi di videosorveglianza, GPS di vario tipo, dispositivi
elettronici per la medicina, lettori RFID e barcode, slot machine, e molto altro ancora.
Di fatto già quattro dispositivi su cinque non sono computer veri e propri, mentre
oltre la metà può essere considerata elettronica di consumo. Quest’ultima nel corso dei
prossimi tre anni crescerà sul mercato mondiale molto più rapidamente dei computer,
raddoppiando praticamente i propri volumi.
Gestire un simile fenomeno, così complesso, così rapido e così dirompente, non è
più prerogativa delle sole grandi imprese, ma sta diventando un’esigenza di quasi ogni
impresa in qualunque parte del mondo. Sapersi adattare a questa realtà è quindi essenziale
per poter mantenere il proprio livello di competitività rispetto agli altri.
Basti pensare alla disinvoltura con la quale milioni di giovani in tutto il mondo
sono ormai in grado di interagire tra di loro o, nell’ambito delle loro professioni, con
datori di lavoro, clienti e altri operatori; passando disinvoltamente dalle email ai
messaggi sms, dalle conferenze su Web alle applicazioni sociali, come Facebook o
Twitter, per scambiare qualsivoglia tipo di informazione e nei formati piùdiversi, dal
testo alla foto e al video.
Il numero e la varietà delle interazioni nell’ambito di questa popolazione sta
crescendo rapidamente. E anche se non tutti i dispositivi dell’elettronica di consumo
entreranno a far parte del mondo del lavoro molti di essi ne verranno certamente a fare
parte. E tra questi un ruolo fondamentale avranno certamente i dispositivi che
favoriscono la mobilità pur mantenendo l’accesso a Internet.
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Occorre allora distinguere gli aspetti hw da quelli sw, ossia i dispositivi elettronici
veri e propri dalle applicazioni utilizzate. In termini di rapidità di crescita nel breve
periodo la parte del leone sembra ormai chiaro che la debbano fare gli smartphone per
l’hw e le applicazioni sociali per il sw.
Secondo IDC nel corso dei prossimi tre anni entrambe queste due tecnologie
raddoppieranno la loro presenza sul mercato. Ma nell’ambito di una simile evoluzione
appaiono anche difficoltà e rischi tutt’altro che irrilevanti: sicurezza, affidabilità,
disponibilità, privacy,..
I dati aziendali possono essere trasferiti sui nuovi dispositivi elettronici? Qual è la
politica aziendale? Cosa accade se il dispositivo (come del resto il PC) viene perduto, per
esempio in treno o su di un taxi, e contiene dati sensibili per l’impresa? Viceversa l’
iWorker può memorizzare sugli archivi aziendali informazioni personali?
In che misura può essere realizzato il nuovo mescolamento di attività (personali-
aziendali) sui nuovi dispositivi di elettronica di consumo, quali soprattutto gli
smartphone?
In che misura dovrà crescere la capacità di memorizzazione di dati multimediali e
di gestione delle applicazioni sociali da parte delle imprese? E’ intuibile che tali sfide
devono essere trasformate in opportunità affinchè le imprese possano far leva su quello
che resta il loro asset principale, ossia le persone; soprattutto se queste persone sono
giovani e quindi naturalmente innovative. Non c’è tecnologia tanto innovativa quanto lo
sono la giovinezza e la freschezza di idee, e soprattutto la volontà di non adeguarsi
rigidamente a schemi e modelli preesistenti: e ciò in ogni attività umana.
l’evoluzione dei social network
Un’altra importante conseguenza provocata dalla diffusione di Internet è la
creazione per mezzo di opportune applicazioni software di molteplici social network
(ovvero reti di relazioni sociali, o anche social media), che vengono a costituirsi tra
individui per stabilire contatti in ambiti differenti, come professioni, amicizie, relazioni
sentimentali,…
Nell’ambito di queste reti si possono creare profili individuali, stabilire liste di
contatti, inserire informazioni personali quali fotografie, e scorrere i contatti stessi. Le
caratteristiche della specifica rete ne determinano l’utilità per le persone che ne fanno
parte. Attualmente alcune di queste reti sociali, come Facebook, Myspace, Twitter,
Linkedln, stanno crescendo vertiginosamente, tanto che il numero di contatti giornalieri
su Facebook sembra abbia persino superato quelli di Google.
Da molti decenni sono stati condotti diversi studi sulla natura delle reti sociali in
generale, per comprendere la psicologia delle persone che ne fanno parte, le loro
abitudini, i vantaggi, i pericoli, i limiti,… Si è anche cercato di capire come reti sociali
diverse possano interagire. Le reti sociali sono ormai una realtà così concreta da
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richiamare anche l’attenzione del mondo del business in quanto le imprese possono
utilizzarle sia per la gestione del proprio personale sia per quella dei clienti, potenziali
o acquisiti.
L’interfaccia dei più comuni social network ha una struttura ben definita. La
pagina stessa agisce quasi come una lavagna elettronica sulla quale è possibile caricare
informazioni sotto forma di testo, fotografie, video.
C’è un continuo aggiornamento di informazioni via via che la persona aggiunge le
proprie o legge le risposte ai suoi messaggi o ancora vede che altri hanno inserito proprie
osservazioni.
Per alcuni social network, come per es. Twitter, le informazioni che si possono
condividere si riducono solo a brevi messaggi di testo che funzionano quasi come
telegrammi. Twitter peraltro ha avuto grande successo soprattutto in caso di situazioni
anomale o di calamità per informare rapidamente la propria comunità.
Anche nei social network c’è stata una progressiva evoluzione, dai primi tentativi
intorno all’anno duemila fino alla loro attuale enorme diffusione.
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Una prima generazione di social network, come Copains d’avant e Classmates,
permetteva agli utenti di utilizzare soltanto liste di amici. Erano sostanzialmente liste
piatte che indicavano le scuole e le classi che erano state frequentate.
Copains d’avant, per esempio, creata nel 2001, permette agli iscritti di ritrovare
gratuitamente i loro vecchi compagni di scuola così come le attuali attività professionali
di questi ultimi.
La sua diffusione in Francia aveva portato questa rete a essere la più frequentata,
fin quando nel 2010 è stata superata da Facebook.
Una seconda generazione di reti sociali, della quale fanno parte siti come
LinkedIn, Viadeo, Xing, ha cercato di ampliare il numero dei possibili contatti, dagli
amici agli amici degli amici, secondo la teoria dei sei gradi di separazione per la quale
qualunque persona può essere collegata a qualunque altra persona attraverso una catena
di conoscenze con non più di 5 intermediari.
Infine una terza generazione di reti sociali è costituita da tecnologie quali
Myspace, Facebook, Bebo. Queste sono le prime vere e proprie reti sociali, e l’enorme
successo di Facebook, che si avvia ad avere un miliardo di iscritti, ne è un lampante
esempio. La loro tecnologia è decisamente più evoluta e permette connessioni
multidimensionali e reali conversazioni tra utenti, in piena conformità con la teoria dei
grafi.
In realtà le reti sociali si avviano oggi a diventare uno strumento di business di
primaria importanza.
Attraverso unificazione delle comunicazioni, di cui si vedrà più avanti, i clienti di
un’impresa così come i dipendenti di quest’ultima quale che essa sia, possono creare
vere e proprie comunità che vengono a far parte di un’ancor più ampia comunità che è
quella dell’intero World Wide Web costitutita da più di un miliardo di persone.
l’evoluzione degli smartphone
Nell’ambito dell tecnologia degli smartphone, e più in generale dei dispositivi di
telefonia mobile, sta emergendo uno scenario pressochè darwinistico, strutturato quindi
secondo il meccanismo della selezione naturale.
Non sembra che esista un cosiddetto disegno intelligente che favorisca uno
smartphone rispetto ad altri in virtù di qualche specifica caratteristica.
In effetti quello che potremmo definire come un ecosistema, ossia il mercato degli
smartphone, è popolato oggi da almeno quattro famiglie di prodotti, differenti per sistemi
operativi, per hardware, per tipo di schermo e per metodo di input (iPhone, Android,
Symbian e Blackberry), ma come si vedra poco più avanti non tutte sembrano egualmente
competitive.
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E come in un tipico scenario darwinistico anche nell’ecosistema degli smartphone
sembrano esserci dei superpredatori, ossia animali che non temono nessun'altra specie, a
eccezione di un loro compagno più grande.
In questo momento i due superpredatori sembrano essere l’ iPhone e gli
smarphone basati su Android di Google
L’ iPhone con oltre centomila applicazioni disponibili e con circa il 15% del
mercato non sembra avere timori per il suo futuro.
Sembrerebbe che anche RIM (Research in Motion, la ditta canadese che produce
il Blackberry) occupi una posizione dominate nel mercato. Secondo stime dell’IDC un
paio di anni fa in questo specifico segmento di mercato la RIM doveva occupare circa il
30%, ma stime più recente, anche di altri analisti, hanno ridotto di molti punti percentuali
la sua quota di mercato.
Infatti pare che RIM stia perdendo parte della propria clientela a favore di
Android e, in misura minore, di iPhone.
Infatti dal punto di vista dell’utente medio Android sembra offrire tutto quello che
offre Blackberry (e anche di più) per un prezzo spesso inferiore, dispone di oltre
diecimila applicazioni, può essere utilizzato su diversi tipi di hardware.
Android inoltre offre una naturale integrazione tra Gmail e i Webservices di
Google. Non c’è quindi da stupirsi se il suo mercato cresca così rapidamente.
Piuttosto la domanda è come si contrappongano oggi i due superpredatori, ossia
iPhone (che usa iOS) e Android.
Le differenze tra Android e iOS sono essenzialmente due. Android è Open
Source, ossia il codice sorgente è disponibile a tutti e liberamente modificabile. Questa è
la ragione per la quale viene ujtilizzato da tanti dispòsitivi mobili.
In secondo luogo Android è scritto in Java (come anche Blackberry) mentre iOS è
sviluppato in C-Objective.
Poiche Android è sviluppato in Java, che è un linguaggio interpretato, ciò
significa che le istruzioni di Android stesso vengono scritte ma poi interpretate da un
altro software presente nel dispositivo che lo utilizzerà secondo quell’archittetura
hardware. E’ intuibile che Andorid offra così il vantaggio di essere eseguibile su
hardware molto diversi. Ma di contro c’è anche lo svantaggio che deve utilizzare una
certa quantità di risorse in più quando viene eseguito rispetto a un sistema nativo. Ma
ancora va osservato che la vertiginosa crescita di potenza dei microprocessori è in grado
di compensare ampiamente questo svantaggio di disegno.
Molti dispositivi (NOKIA, Samsung, Sony Ericsson, Fujitsu,..) utilizzano la
piattaforma Symbian che, benchè matura e Open Source, non ha avuto grande successo
negli USA e questo ne ha in un certo qual modo limitato l’evoluzione tanto che oggi si
assiste a una riduzione di quota di questo mercato, a vantaggio soprattutto di Android.
Tra l’altro la piattaforma Symbian non sembra fruire di un parco applicazioni così
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evoluto come quello di Andorid, e soprattuto di iPhone, anche se recentemente la Nokia
ha lanciato il suo Ovi.
C’è infine la piattaforma Windows Mobile che alla data non ha avuto ancora
modo di emergere in modo significativo. Recentemente è stata introdotta una nuova
versione, Windows Phone 7, completamente differente da tutte le precedenti versioni di
Windows Mobile. Questa nuova versione riunisce in una sola piattaforma i contenuti di
Xbox LIVE e Zune. Inoltre gestisce social network quali Facebook e Twitter e conterrà
un’edizione Mobile di Office 2010.
Le proiezioni degli analisti la collocano comunque al di sotto del dieci per cento
di mercato.
Ci sono infine altre piattaforme di consistenza percentale molto minore che non
mette conto di essere descritte in questa breve analisi.
il ruolo del cloud computing
La vertiginosa crescita degli smartphone e dei tablet è probabilmente il più forte
segnale che viene dal mondo dell’informatica a dirci che l’intero scenario si sta
evolvendo verso un’infrastruttura complessiva nella quale ciò che viene a modificarsi in
maggior misura è l’accesso alle informazioni e la loro elaborazione.
E’ una vera e propria rivoluzione, non solo tecnologica ma anche sociale e
culturale, che potremmo definire , come qualcuno ha già fatto, infinite computing, ossia
elaborazione senza limiti. Questa rivoluzione è la naturale convergenza di tre tendenze
che sono rispettivamente la crescita esponenziale della capacità di elaborazione dei
microprocessori, un accesso sempre più facile a tali risorse, e infine una sorprendente e
continua diminuzione dei costi sia dell’hardware sia del software. L’informatica sta di
fatto diventando la tecnologia più economica che esista in rapporto a ciò che può offrire.
Ma c’è di più. Nella vita di tutti i giorni siamo ormai abituati a non acquistare
più oggetti ma piuttosto servizi. La distribuzione dell'energia elettrica, il noleggio di dvd
o il noleggio di mezzi di trasporto ci hanno abituato a non dover più possedere un
generatore di corrente o una raccolta di dvd o un’autovettura.
Questa tendenza offre molteplici vantaggi in termini di eliminazione di costi di
manutenzione, dimensionamento, ...
La fruizione del servizio ha guidato anche il mondo dell'IT a orientarsi verso i
servizi piuttosto che i prodotti.
E allora il poter offrire un’intera infrastruttura informatica a un singolo utente, e
poterla fatturare sulla base dell’effettivo utilizzo che se ne fa, è il naturale punto di arrivo
di una strategia nata ancora negli anni Sessanta del XX secolo e denominata
virtualizzazione.
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Con tale strategia si voleva mettere a disposizione dell’utente, quale che
questi fosse, più risorse di quante egli ne possedesse in realtà fisicamente. Il che ricorda
un pò il modo di operare della nostra mente quando fantastica l’attuazione di un
qualsivoglia processo. Che è quanto Einstein chiamava un Gedankenexperiment.
Poichè Internet è stato tradizionalmente rappresentato graficamente da una nuvola
(cloud), e poichè proprio le tante risorse presenti su Internet potevano essere messe a
fattor comune, è nato un modello di informatica che ha preso il nome di cloud computing,
denominazione ormai diventata di uso comune.
Il problema per un'impresa allora, indipendentemente dalla sua dimensione,
risiede nel capire che cosa le serve e a quale società affidarsi per avere una soluzione
virtuale completa che permetta di migliorare i livelli di sicurezza e di ridurre i costi
operativi, semplificando al tempo stesso l'amministrazione e la gestione delle risorse
informatiche.
Non solo, è necessario garantire a utenti e IT la massima libertà possibile,
offrendo strumenti cloud incentrati sull’utente e non più sul dispositivo.
Il cloud computing è trasversale, nel senso che interessa ormai tutte le imprese
(come persino i singoli) sempre più alla ricerca di soluzioni che in un modo quasi
copernicano ribaltino il modello informatico: se prima l’informatica era incentrata
sull’infrastruttura ora essa è incentrata sulle applicazioni.
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Il maggior pregio della crescente capacità di elaborazione infatti non è tanto nel
fatto che questa permette di accelerare i processi di pianificazione e realizzazione di un
prodotto o di un servizio, quanto nel fatto che consente di ipotizzarne simultaneamente
una grande molteplicità per decidere quale sia il migliore.
Ciò in definitiva aiuta anche la mente umana ad accrescere la sua capacità di
astrazione ed è quindi anche un notevole fattore di miglioramento culturale. In definitiva
si possono ideare prodotti e servizi cui non si sarebbe neppure mai pensato.
E poichè , soprattutto con il cloud compoting, la capacità di elaborazione diventa
di fatto infinita, si può chiedere persino all’infrastruttura elaborativa di ideare essa stessa
qualcosa di nuovo, che a noi non sarebbe venuto in mente.
Si può dire veramente che dopo millenni in cui l’ìntelligenza umana ha
camminato su due gambe, quella della teoria (ossia il modello) e quella della pratica
(ossia l’esperimento) nasce ora la possibilità di utilizzare una terza gamba, che è quella
della simulazione attuata dal computer.
Biologi, ingegneri ,architetti, artisti, avvocati, scrittori, … possono pensare più
velocemente e più arditamente ,e possono anche potenziare la propria fantasia in un modo
che qualche secolo fa poteva essere consentito forse al solo Leonardo da Vinci.
In estrema sintesi si può affermare, senza retorica, che solo la tecnologia stessa, e
soprattutto l‘Information Technology, può oggi rispondere alla sfida posta dalla crescente
complessità della realtà nella quale si vive.
si potrebbe rendere più etico il mondo finanziario?
In relazione a quanto è stato detto finora potrebbe essere utile un esempio, al
momento del tutto immaginario ancorchè tecnicamete possibile, di come la tecnologia
informatica potrebbe sanare una delle maggiori inquietudini attuali: quella dei mercati
finanziari.
Chi ha del denaro vorrebbe ovviamente proteggerlo dalla naturale svalutazione in
cui esso incorre nel tempo, e questo vale anche per piccoli investitori che hanno
faticosamente prodotto quel denaro.
La domanda che sorge spontanea nella loro mente è cosa fare di quel denaro.
L’investimento più tipico è quello del cosiddetto mattone, ossia l’investimento
immobiliare. Ma c’è anche la possibilità di investire in Borsa e con questo dare in un
certo senso fiato a tutte quelle imprese che si quotano e che traggono dalla Borsa (oltre
che dalle banche) la linfa essenziale al loro metabolismo.
Ma i titoli in Borsa, come tutti sanno, sono una realtà molto volatile e fluttuante.
Situazioni politiche, sociali, volatilità di fonti energetiche o di materiali, possono
fortemente influenzare il valore dei diversi titoli. La gestione di questi ultimi non è
ancora una scienza esatta ma è fluttuante anche in funzione dei comportamenti degli
investitori, spesso emotive: quelli che Keynes chiamava the animal spirits.
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Sarebbe utile potersi muovere sulla base di conoscenze consolidate. Forse non ci
sarebbero esagerati guadagni, ma nemmeno esagerate perdite, e si ridurrebbero di molto
le opportunità per le speculazioni.
Ciò che occorrerebbe in definitiva sarebbe una conoscenza più precisa del profilo
finanziario degli investitori. Molti di essi oggi, protetti da un’assoluta anonimia, possono
operare speculazioni, spesso traumatiche soprattutto per i piccoli investitori.
Ma le le banche dovrebbero ben conoscere chi sono i loro clienti e quindi sulla
base di informazioni ben consolidate sapere quanto realistiche siano le loro operazioni
finanziarie. Come esiste una conoscenza centralizzata da parte della Banca d’Italia
dell’andamento dei vari istituti di credito italiani (la ben nota matrice) così potrebbe
essere utile ricollegare in un unico database centralizzato le informazioni attinenti alle
attività finanziarie dei singoli. Un sistema informatico (senza assolutamente violare la
privacy dei singoli) potrebbe ben scoprirne eventuali azzardi speculativi non corretti.
In tal modo il valore dei titoli sul mercato nazionale potrebbe essere ben più
realistico di quanto non accada oggi, e di conseguenza a minori guadagni speculativi
potrebbero corrispondere minori perdite per inaspettate bolle finanziarie.
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Se il meccanismo venisse poi esteso alla comunità internazionale, e il mondo
fnanziario è ormai in gran parte globalizzato, il beneficio strutturale che ne conseguirebbe
sarebbe ben evidente: un andamento molto più lineare delle varie Borse mondiali.
Minori guadagni speculative, ma costanti miglioramenti nel valore degli stock per
tutte quelle imprese che realmente innovano, e che quindi ripagano la fiducia che in esse
hanno avuto i loro investitori.
Una vera e propria democrazia finanziaria piuttosto che quella pericolosa anarchia
attuale che vede alcuni arricchirsi spropositamente a fronte di una massa di piccoli
investori che spesso perdono i propri risparmi.
Evidentemente, ma questo è solo un accenno, in un simile schema non ci sarebbe
posto per i cosiddetti prodotti derivati che tanto danno hanno fatto negli ultimi anni.
Ancora una volta la tecnologia potrebbe riparare ai guasti che essa stessa ha
indirettamente contribuito a creare.
E c’è infine da osservare che in ogni caso il denaro di carta sta sempre più
perdendo terreno di fronte al denaro elettronico che come tale è costantemente
tracciabile.
ipotesi conclusive
Spesso il ricorso ad analogie, metafore o vivaci immagini intuitive aiuta la
comprensione di un fenomeno meglio che non il timido attenersi a rigorose teorie non
sempre facili da maneggiare.
Nel caso dell’attuale evoluzione tecnologica dell’IT nell’ambito delle applicazioni
di business sembra stia avvenendo qualcosa di non molto dissimile da quanto già
avvenuto quasi un secolo fa con la corrente elettrica. Dalla fine dell’Ottocento per molti
decenni voltaggi, frequenze, tipologie di motori elettrici si sono succeduti in ambito
industriale e in ambito domestico. La tecnologia elettrica era però qualcosa di alieno al
comune percepire di quell’epoca.
Ma poco alla volta sono emersi standard di distribuzione e di utilizzo sempre
meglio definiti. E l’elettricità ha finito quasi con lo scomparire dal livello della coscienza.
Ormai ci si accorge dell’esistenza della corrente elettrica solo quando manca. Si
accendono interruttori, si utilizzano dispositivi come radio, TV, telefono,
elettrodomestici, ascensori, e via dicendo, senza mai domandarsi da dove venga l’energia
che li alimenta e come sia strutturata. Potrebbe essere prodotta localmente o
remotamente, ma è del tutto indifferente per chi la utilizza. La tecnologia è stata, per così
dire, nascosta all’utente.
Qualcosa di simile sta progressivamente avvenendo anche nell’IT. Ormai con
Internet, con il PC, con la grafica,… gli utenti non pensano più all’IT. La tecnologia è
diventata una protesi del cervello.
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Ciò può avere conseguenze molto rilevanti nella gestione del business,
riconducendo la strategia e la conduzione dello stesso nel suo proprio alveo che in
defnitiva è più umano che tecnologico.
L’uomo oltre a essere un animale sociale è anche un animale commerciale e da
millenni definisce e ridefinisce le regole di questa primaria attività.
Oggi che anche la tecnologia informatica comincia a essere nascosta, come era
avvenuto con l’elettricità, chi definisce i processi di business utilizza l’IT, ma quasi
indirettamente, dando preminenza alle regole del business stesso e non a quelle della
programmazione software.
Cosa potrà accadere allora nei prossimi anni?
La globalizzazione in atto nell’economia determinerà, non c’è dubbio, nuovi
livelli di competitività, non solo tra le imprese ma anche tra i lavoratori. Si imporranno
nuove generazioni e nuove competenze. Si parla spesso della difficoltà che hanno
persone di mezza età che hanno perso il posto perché l’impresa di cui facevano parte è
fallita o è stata costretta a ridurre il personale. Il fenomeno che si sta notando è che anche
di fronte a una parziale ripresa dell’economia molte di queste stesse persone non riescono
a rintrare nel mondo del lavoro. C’è certamente una forte concorrenza da parte di
generazioni più giovani, e quindi meno costose e più forti fisicamente, ma c’è un ulteriore
fattore da considerare. La tecnologia si evolve con grande rapidità e quindi occorre
sapersi mantenere aggiornati in pressochè ogni attività per restare competitivi.
Questo vale per i singoli come per le imprese. Le attività che sono
manifestamente algoritmiche, o che nascondono elementi di algoritmicità nei loro
processi, sono insidiose perché in parte o del tutto trasferibili su supporti informatici.
C’è da aggiungere che la relazione che esiste, soprattutto nelll’attuale mondo
globalizzato, tra lavoro, produttività e soddisfazione personale è diventata quanto mai
complessa e sembra ridurre progressivamente le possivbilità individuali di
autodeterminazione.
Come è stato detto all’inizio di questo testo, l’economia globalizzatata tende a
produrre un numero crescente di prodotti e servizi che quindi hanno bisogno di un
numero crescente di acquirenti.
E inoltre, come anche è stato già detto, molte attività che sembravano distintive
dell’uomo, e come tali potenziali elementi di successo personale, sembrano ormai alla
portata di computer sempre meno costosi.
Alcune attività sembravano alla portata solo di una vera élite intellettuale, quali
per esempio il gioco degli scacchi; ma oggi quasi ogni grande maestro è perdente contro
un computer opportunamente organizzato.
Altre attività che sembrano più indefinite, come quelle di un poeta, di un
sacerdote, di un giocatore di pallone, di un manager,… sono molto meno a rischio,
proprio perché non c’è alcuna manifesta algoritmicità nel loro operare.
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Il genetista Luigi Luca Cavalli Sforza afferma (L’evoluzione della cultura,
Codice 2010): “.. le capacità intellettuali eccezionali sono quasi sempre specializzate; è
probabile che ogni individuo abbia un lato del proprio intelletto molto sviluppato; anche
se magari non lo ha mai scoperto e non lo scoprirà mai. ..”
La famiglia svolge ancora un ruolo fondamentale, ma non è più sufficiente a
trasmettere verticalmente una cultura così complessa com’è diventata quella dell’odierna
civiltà umana, sempre più interconnessa globalmente.
Il grande compito di una scuola veramente moderna dovrebbe essere allora quello
di individuare le capacità di ciascuno affinchè quest’ultimo, e quindi la società in cui
vive, ne possa pienamente beneficiare. Le scelte fondamentali della vita devono avvenire
in gioventù: dopo è troppo tardi.
Per le imprese un simile scenario vuol dire ovviamente necessità e capacità di
innovare in continuazione e quindi capacità di modificare dinamicamente i processi di
creazione e di distribuzione di prodotti e servizi.
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L’Information Technology ha l’ambizione di essere l’instrumentum principe di
una simile strategia. Non solo: l’IT consente oggi di dislocare geograficamente
(delocalizzare) non solo le imprese ma anche i singoli che ne fanno parte, in uno scenario
di crescente mobilità individuale.
Si è così forse all’inizio di una nuova grande trasformazione socio-economica che
però, a differenza delle precedenti, sembra coinvolgere l’intero pianeta.
Non si può ancora valutare la portata di una simile evoluzione, ma è auspicabile
che la crescita economica di un mondo globalizzato sia in grado di distribuire il
benessere, in modo più equo, a una più grande parte dell’umanità.
E’ enormemente difficile intuire dove potrà arrivare l’Information Technology.
Ma molte cose che erano state previste nei decenni passati si sono effettivamente
verificate.
Altre non erano state invece previste e ci hanno quasi colto di sorpresa. Al tempo
dei grandi computer negli anni sessanta-settanta pochi avrebbero immaginato lo
straordinario successo dei personal computer, di Internet, degli smartphone, delle reti
sociali, degli ebook, e via dicendo.
La figura che precede vuole sinteticamente mostrare come l’IT si stia espandendo
a 360 gradi in tutte le direzioni dello scibile umano. I cerchi in rosso sono già in gran
parte ben definiti. Quelli più esterni, in verde, possono essere più o meno perseguibili e
avere successo. Ognuno di essi (e moltissimi sono sati omessi) richiederebbe qualche
parola di commento.
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Ma l’obiettivo della figura non è quello di discutere le singole opportunità dell’IT
nei decenni a venire, quanto piutosto di dare un’idea immediata, ancorchè puramente
intuitiva, di quanto ancora grandi, e in un certo senso inespresse, siano le possibilità di
questa tecnologia che sembra veramente essere la ruota del terzo millennio.
Una cosa è quasi certa: l’IT darà un grande potere all’uomo. Un potere che forse
l’uomo desiderava da tanto tempo. E ciò può ricordarci quanto raccontava Cicerone:
“ "Visne igitur", inquit, "o Damocle, quoniam te haec vita delectat, ipse eam
degustare et fortunam experiri meam?" Cum se ille cupere dixisset, conlocari iussit
hominem in aureo lecto strato pulcherrimo textili stragulo, magnificis operibus picto,
abacosque conplures ornavit argento auroque caelato….in hoc medio apparatu
fulgentem gladium e lacunari saeta equina aptum demitti iussit, ut inpenderet illius beati
cervicibus…”(Tusculanae Disputationes, Liber Quintus, 61-62).
Il cortigiano Damocle aveva lusingato il tiranno Dionigi di Siracusa dicendogli
quanto fosse fortunato a godere di tutto quel potere e di tutti quei privilegi. Allora Dionigi
lo mise al suo posto, ma gli fece sospendere sopra il capo una spada tenuta solo da un
crine della coda di un cavallo. Con ciò Dionigi voleva far comprendere a Damocle che
un grande potere vuol dire anche una grande insicurezza e una grande responsabilità.
Venti secoli dopo Nietzsche avrebbe però esclamato in uno dei suoi splendidi
aforismi che mai Damocle danza meglio che sotto la spada.
Questo è probabilmente il nostro destino tecnologico.
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