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VALUTAZIONE PUNTUALE E SERIA DELLA RIFORMA DEL LAVORO
Articoli tratti dal sito http://www.pietroichino.it/ e da http://www.irenetinagli.it/
OLTRE IL JOBS ACT: NUOVE MISURE PER IL
LAVORO
da L'Economia del Corriere della Sera 26 Giugno 2017.
TENIAMOCI IL JOBS ACT O SONO GUAI DI IRENE TINAGLI
Caro Direttore,
nel momento in cui il governo avanza nuove idee per sostenere
l’occupazione è importante aprire un dibattito serio sugli strumenti da
mettere in campo. Per questo ho appezzato molto l’articolo di Dario Di
Vico di lunedì scorso sulle ipotesi di possibili correttivi al Jobs Act.
Credo tuttavia che la prima cosa che tutti noi dovremmo fare sia evitare la
tentazione di una riedizione degli sgravi del Jobs Act, una sorta di “Jobs
Act 2.0”. Quelle misure erano e devono restare temporanee. Il loro
obiettivo era dare una scossa ad un mercato del lavoro in crisi da troppo
tempo.
Ha ragione chi dice che era una misura anticiclica: la stessa che hanno fatto moltissimi altri Paesi
durante la crisi, dalla Francia agli Stati Uniti - d’altronde sarebbe una follia spendere tutti quei soldi
nei periodi in cui le imprese assumono a prescindere. Ma l’efficacia di quelle misure (e i risultati
sull’occupazione sono oggettivamente positivi) è legata non poco proprio alla loro temporaneità, al
fatto che le imprese hanno voluto prendere su un treno che pensavano unico. Se si inizia a lanciare il
messaggio che quel treno periodicamente ripasserà, è probabile che le imprese non reagiranno con la
stessa solerzia.
Il secondo errore da evitare è attribuire al Jobs Act colpe che non ha, e cercare quindi di modificarlo
per affrontare problemi che non può risolvere alla radice. Mi riferisco in particolare ai giovani, che
spesso faticano più di un cinquantenne a trovare lavoro, e ai contratti a tempo determinato che, al
diminuire degli sgravi per le assunzioni a tempo indeterminato, sono tornati a salire.
La difficoltà occupazionale dei giovani non è legata solo al costo del lavoro ma alle competenze,
all’esperienza, alle imprese sempre meno disposte ad investire per formare giovani e orientate a
lavoratori subito operativi. Per questo il Jobs Act da solo non può bastare – anche se, va detto, la
riduzione della disoccupazione giovanile dal 43% al 34% è un risultato notevole in così poco tempo.
Sarà però difficile poter migliorare ancora molto insistendo sugli sgravi o rendendoli più selettivi,
così come sembra orientato fare il Governo (e in realtà come ha già fatto perché già esistono sgravi
specifici per l’assunzione di giovani).
Gli studi internazionali concordano in larga parte sul fatto che sgravi troppo selettivi, vincolati a
condizioni soggettive ed oggettive troppo rigide tendono ad essere inefficaci. Per poter ridurre
ulteriormente la disoccupazione giovanile occorre aspettare gli effetti di riforme come l’alternanza
scuola lavoro, la diffusione delle competenze digitali, la nuova Agenzia per le politiche attive. E’
chiaro, ci vorrà tempo, ma un ragionamento serio richiede anche uno sguardo di medio-lungo periodo.
Sui contratti e tempo determinato, invece, le considerazioni sono altre. E’ vero, come sostiene il
giuslavorista Tiraboschi, che i contratti temporanei di per sé non sono un problema, fluidificano il
mercato e dobbiamo concentrarci solo sulle transizioni. Ma l’esperienza e gli studi ci mostrano che
possono creare problemi nei momenti di crisi. L’economista Pierre Cahuc, insieme a due colleghi
spagnoli, ha analizzato i casi di Francia e Spagna. Prima della crisi avevano entrambe tassi di
disoccupazione attorno all’8%. Con la crisi la Francia ha visto crescere la disoccupazione di 2 punti
(nel 2013 era al 10%), la Spagna invece di quasi venti punti (nel 2013 sfiora il 27%). Pur tenendo
conto dei diversi sistemi-paese, gli economisti imputano questa differenza alla diversa normativa dei
contratti, e stimano che il 45% dell’incremento della disoccupazione spagnola si sarebbe potuto
evitare se la Spagna avesse avuto la stessa normativa francese, che è più rigida sulla rescissione dei
contratti temporanei. Da questo punto di vista l’ipotesi del governo di una riduzione strutturale del
costo dei contratti a tempo indeterminato per incentivarne l’uso potrebbe essere una scelta
lungimirante, che forse non aumenterà l’occupazione nel breve periodo, ma potrà dare stabilità al
mercato del lavoro e competitività alle imprese. Così come sarebbe positiva l’introduzione di uno
sgravio per le aziende che fanno formazione, avanzata da Marco Leonardi: renderebbe meno fragili i
lavoratori, più qualificato il nostro mercato del lavoro e più produttive le imprese. Anche in questo
caso, però, difficilmente si potranno vedere effetti immediati. Ma d’altronde, superata l’emergenza,
solo scelte ponderate e lungimiranti potranno consolidare la ripresa e darle un respiro più ampio.
MERCATO DEL LAVORO: L’EREDITA’ DELLA CRISI
E IL PESO DEL DEBITO
Sul versante del lavoro dal 2015 le cose sono andate un po’ meglio, ma peggio che
nella maggior parte della UE: perché noi non abbiamo ancora risolto il problema del
debito pubblico, né rimosso le grandi strozzature, tasse e burocrazia innanzitutto, che
impediscono al Pil di crescere a un ritmo sufficiente
.
Articolo di Luca Ricolfi, sociologo, professore di Analisi delle politiche pubbliche nell’Università di
Torino, pubblicato sul Messaggero e sul sito della Fondazione David Hume il 25 novembre 2017 –
In argomento v. anche la mia intervista del 17 ottobre, Mercato del lavoro: i risultati ottenuti e quel
che resta da fare – A questo articolo di Luca Ricolfi ne farà seguito nei giorni prossimi uno mio .
.
Come spesso succede nei divorzi fra coniugi, anche nell’imminente,
e a quanto pare ineluttabile, divorzio fra il Pd e le tre sigle della
Sinistra Purosangue (Mdp, Si, Possibile), le ragioni vere, le ragioni
ultime della separazione, non si conoscono con certezza: antipatie
personali? disaccordi sulla suddivisione dei seggi in Parlamento?
dissensi politici sui programmi?
Una cosa però la sappiamo con sicurezza: le ragioni dichiarate, quelle
che riempiono i telegiornali e le pagine dei quotidiani, vertono
essenzialmente sul mercato del lavoro. La Sinistra Purosangue
attacca frontalmente le politiche occupazionali di questi anni, a
partire dal Jobs Act; il Pd non solo non si sogna di rinnegare quelle
politiche, ma attribuisce ad esse il merito di aver creato un milione di
posti di lavoro.
Temo che nessuna di queste due posizioni regga a un’analisi fredda.
Tuttavia penso che vi sia un’asimmetria: il punto debole della Sinistra Purosangue sono le proposte,
quasi tutte penalizzanti per le imprese e melanconicamente ispirate a un mondo che non c’è più; il
punto debole della sinistra riformista, invece, è la descrizione, il racconto di questi anni. Un racconto
che, con il comprensibile obiettivo di difendere quel che si è fatto, rischia di non vedere né quel che
realmente è accaduto, né quel che si sarebbe potuto fare, di più e di meglio.
Che cosa è accaduto, fra il 2014 e oggi?
Sì, è vero, i posti di lavoro dipendente sono aumentati di circa 1 milione. Ma questo non prova che
ciò sia avvenuto grazie alle politiche del governo: senza un’analisi statistica accurata, che al momento
manca (e probabilmente è inattuabile, con i dati di cui si dispone), si potrebbe altrettanto bene
sostenere che il merito è della ripresa dell’economia europea, che a sua volta sarebbe merito della
Bce e del Quantitative Easing. Giusto qualche giorno fa Draghi è sembrato dire proprio questo,
quando ha messo in relazione la politica monetaria e i 7 milioni di nuovi posti di lavoro creati
nell’Eurozona negli ultimi 4 anni. E se proprio volessimo farci un’idea, rozza e approssimativa, degli
eventuali meriti delle politiche attuate in Italia, quel che dovremmo fare non è certo confrontare gli
ultimi quattro anni (di lenta ripresa) con i precedenti quattro (di crisi profonda), ma semmai chiederci
come è andata nel resto d’Europa. Ebbene, se lo facciamo (grafico 1), il risultato è desolante: fra il
2013 e il 2016 gli occupati sono cresciuti del 2.2% in Italia, ma del 3.8% (quasi il doppio) in Europa.
A fronte del +2.2% dell’Italia, la Francia ha fatto +2.7, la Germania +3.9%, il Regno Unito +5.2, la
Spagna: +6.9. Solo 8 paesi (fra cui Grecia e Cipro) hanno fatto peggio di noi, mentre ben 24 su 33
hanno fatto meglio.
Grafico 1
Fonte Eurostat
Se poi andiamo a vedere la composizione di questi nuovi posti di lavoro, il quadro si fa ancora più
allarmante. Il tasso di occupazione precaria era all’11% a metà degli anni ’90, è cresciuto di un paio
di punti nel ventennio successivo, ma poi, in soli tre anni, fra il 2014 e il 2017, ha fatto un ulteriore
balzo di altri 2 punti: oggi è al massimo storico, oltre la soglia del 15% (grafico 2). E questo record
si mantiene anche se teniamo conto della riduzione del numero delle collaborazioni, ossia del tipo di
contratti che il Jobs Act e la decontribuzione si preoccupavano di disincentivare.
Grafico 2
Fonte Istat
Questo dato sembra contrastare con le cifre che vengono spesso presentate a difesa delle politiche di
questi anni, cifre da cui risulta che l’incremento di posti di lavoro è equidistribuito: mezzo milione di
posti di lavoro permanenti (stabili), mezzo milione di posti di lavoro temporanei (precari). Ma è una
trappola statistica, e non è un buon argomento a favore delle politiche che si vogliono difendere. La
realtà è che il tasso di occupazione precaria in Italia, anche dopo i record negativi macinati nel triennio
2015-2016-2017, resta relativamente contenuto: il 15% è più o meno la media europea, un dato
analogo a quello della Germania, e migliore di quelli di Francia e Spagna (grafico 3). Ma un paese
che ha “solo” il 15% di lavoratori a termine, se vuole evitare che il tasso di precarietà salga, è costretto
ad assumere a tempo indeterminato almeno l’85% dei nuovi dipendenti. Se ne assume a tempo
indeterminato solo il 50%, inevitabilmente registrerà un aumento del tasso di occupazione precaria.
Ecco perché hanno ragione sia quanti si rallegrano che metà dei nuovi posti di lavoro siano stabili,
sia quanti deplorano che il tasso di precarietà sia in continua ascesa.
Grafico 3
Fonte Eurostat
Parlando di record negativi, ce n’è purtroppo anche un altro che abbiamo conquistato in questi anni:
nel 2016 l’Italia è diventata il paese con il tasso occupazione giovanile più basso d’Europa (grafico
4). E’ vero che è da molti anni che siamo agli ultimi posti, ma non era mai successo che fossimo il
fanalino di coda.
Grafico 4
Fonte Eurostat
Quanto al tasso di occupazione complessivo, nonostante i progressi degli ultimi anni, siamo ancora
al di sotto dei livelli pre-crisi, ma anche qui è importante distinguere: il tasso di occupazione degli
italiani è ancora sotto di un punto, quello degli stranieri di quasi 10. E questo non perché gli stranieri
abbiano conquistato più posti degli italiani, ma per la ragione opposta: nel decennio della crisi gli
italiani hanno perso più di 1 milione di posti di lavoro, gli stranieri ne hanno conquistati quasi 800
mila, ma il loro tasso di occupazione è crollato lo stesso perché l’afflusso di stranieri è stato eccessivo
rispetto alle capacità di assorbimento del mercato del lavoro (grafico 5).
Grafico 5
Fonte ISTAT
Qual’ è il bilancio, dunque?
Se proviamo a sgombrare il campo dalle controversie ideologiche mi pare piuttosto semplice. In
questi ultimi quattro anni, sul versante del lavoro, le cose sono andate meglio di prima, ma peggio
che nella maggior parte degli altri paesi europei. Ed è normale che sia così, perché noi non abbiamo
ancora risolto il problema del debito pubblico (che anzi si è un po’ aggravato), né rimosso le grandi
strozzature, tasse e burocrazia innanzitutto, che impediscono al Pil di crescere a un ritmo sufficiente.
Possiamo fare tutte le leggi che vogliamo per regolare o deregolare il mercato del lavoro, ma il
problema di fondo resta sempre quello: se il Pil non cresce almeno a un ritmo del 2-3% l’anno, è
impossibile garantire sia un flusso cospicuo di nuovi posti di lavoro, unico modo sano di dare un po’
di ossigeno alle famiglie, sia un aumento della produttività, unico modo per essere competitivi sui
mercati internazionali. Anche il problema del tasso di precarietà dipende in modo cruciale dalla
dinamica del Pil: finché il Pil ristagna, o cresce poco, è normale che le imprese temano che la domanda
che oggi c’è domani non ci sia più, e si cautelino con i contratti a termine. Pensare che il trend si
possa invertire aumentando i vincoli e i costi delle imprese è semplicemente ingenuo.
Questo, mettere le imprese in grado di creare posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, è il nodo
vero. Ma è un nodo che, in quanto passa per una significativa riduzione del debito pubblico, nessuna
forza politica è in grado di affrontare sul serio.
I VERI EFFETTI DELLA RIFORMA DEL LAVORO
Articolo pubblicato sul sito della Fondazione David Hume il 26 novembre 2017, a seguito della
pubblicazione, sullo stesso sito e sul quotidiano il Messaggero, dell’articolo di Luca Ricolfi, Mercato
del lavoro: l’eredità della crisi ..
L’ultimo articolo di Luca Ricolfi sugli effetti della riforma del lavoro del 2015 costituisce un
contributo prezioso, su di un tema spinoso, all’innalzamento del livello di un dibattito fin qui
pesantemente inquinato sia dalla faziosità, sia da un uso dei dati statistici, da tutte le parti in contesa,
per il quale l’aggettivo “grossolano” è un eufemismo. In questo dibattito in un paio di occasioni ho
commesso anch’io, involontariamente, un errore nella lettura del dato statistico sul numero dei nuovi
rapporti di lavoro stabili e di quelli a termine, creati nell’ultimo triennio: è vero che i primi sono più
numerosi dei secondi, ma ha ragione Luca Ricolfi quando osserva che essi sono in percentuale
inferiore rispetto allo stock che si registrava all’inizio del triennio, determinandosi così una sua sia
pur modesta riduzione.
Il terzo dei cinque grafici che corredano l’articolo di Luca Ricolfi
Detto questo, propongo di arricchire il quadro statistico fornito e illustrato da Luca Ricolfi con due
dati ulteriori, che mi paiono importanti per una valutazione degli effetti della riforma: due dati
entrambi sorprendenti, resi ancor più sorprendenti se considerati congiuntamente. Il primo è quello
che vede una sostanziale invarianza, negli ultimi anni, del numero dei licenziamenti in rapporto al
numero dei contratti di lavoro a tempo indeterminato in essere, siano essi costituiti prima dell’entrata
in vigore della riforma del 2015, o dopo: un dato che obbliga a una riflessione approfondita sul peso
relativo che hanno la legge da un lato, dall’altro la cultura diffusa e le relazioni sindacali, nel
determinare i comportamenti degli imprenditori e in particolare la loro propensione all’esercizio della
facoltà di recedere dal rapporto con i dipendenti. Parrebbe che una riduzione incisiva del vincolo al
recesso produca, almeno nel breve periodo, un mutamento del comportamento degli imprenditori
molto meno rilevante di quanto ci si sarebbe atteso. Resta da chiedersi se e quanto su questo mancato
effetto della riforma pesi la volatilità del dato legislativo e in particolare il rischio di una controriforma
a seguito delle prossime elezioni politiche, oppure a opera della Corte costituzionale; e se un
mutamento più rilevante debba attendersi nel medio periodo, se la riforma supererà indenne questi
due scogli.
Il secondo dato sorprendente, apparentemente contraddittorio rispetto al primo, è quello che dà conto
della drastica riduzione del contenzioso giudiziale registratasi fra il 2012 – anno nel quale è entrata
in vigore una prima parte della riforma dei licenziamenti e dei contratti a termine – e la metà del 2017.
I dati forniti dal ministero della Giustizia consentono di quantificare questa riduzione intorno ai due
terzi. Gli stessi dati dicono, per converso, che questa riduzione si sta verificando soltanto nel settore
del lavoro privato: in quello del pubblico impiego, dove né la riforma del 2012 né quella del 2015
hanno avuto applicazione, il flusso dei nuovi procedimenti iscritti a ruolo resta sostanzialmente
invariato. Il che autorizza a ipotizzare, in attesa di verifiche rigorose, che siano proprio quelle due
riforme la causa del fenomeno osservato.
La riduzione del tasso di contenzioso giudiziale costituisce un fatto di grande rilievo, non solo per
l’amministrazione della Giustizia, ma anche e soprattutto per il sistema delle relazioni industriali; e
indirettamente anche per l’efficienza del sistema economico nel suo complesso. Il tasso di
contenzioso giudiziale italiano in materia di lavoro costituiva un’anomalia negativa, nel panorama
europeo: solo in Italia la regola era che ogni licenziamento fosse accompagnato da un ricorso al
giudice del lavoro e che dunque il severance cost per entrambe le parti fosse normalmente appesantito
dalle spese legali e dall’alea di un giudizio sulla quale pesa sempre molto l’orientamento personale
del magistrato. Solo in Italia avvocati e giudici erano di fatto protagonisti di primaria importanza del
sistema delle relazioni industriali.
Il fatto che quell’anomalia stia avviandosi a essere superata, in parallelo con l’allineamento del nostro
diritto del lavoro rispetto allo standard prevalente nei grandi Paesi occidentali, costituisce un
progresso non disprezzabile nella direzione di una maggiore attrattività dell’Italia per gli investitori
stranieri. Che è la precondizione, insieme alla riduzione del debito pubblico e dunque della pressione
fiscale, per quella crescita economica senza la quale non può crescere né il potere contrattuale né il
benessere dei lavoratori.
Quanto al fatto che il superamento di quell’anomalia non si accompagni a un aumento della frequenza
dei licenziamenti, esso ci autorizza forse a ritenere che l’unica categoria in qualche misura
danneggiata dalla riforma dei licenziamenti del 2012-2015 sia quella degli avvocati giuslavoristi.
Esso dovrebbe comunque convincere anche chi ha a cuore sopra ogni altra cosa la sicurezza e il
benessere dei lavoratori dipendenti regolari dell’opportunità che la riforma del lavoro non venga
manomessa prima che si siano potuti verificare in modo rigoroso e valutare pragmaticamente i suoi
effetti.
LAVORO: COSA E’ IMPUTABILE AL JOBS ACT E
COSA NO
Non c’è stato aumento dei licenziamenti – L’aumento dell’occupazione è un effetto
soltanto indiretto, dovuto alla crescita – Alle riforme del 2012 e 2015 è invece
imputabile il drastico calo del contenzioso giudiziale in materia di cessazione dei
rapporti di lavoro
Articolo di Pietro Ichino pubblicato sul sito della Fondazione David Hume il 26 novembre 2017, a
seguito della pubblicazione, sullo stesso sito e sul quotidiano il Messaggero, dell’articolo di Luca
Ricolfi, Mercato del lavoro: l’eredità della crisi.
L’ultimo articolo di Luca Ricolfi sugli effetti della riforma del
lavoro del 2015 costituisce un contributo prezioso, su di un tema
spinoso, all’innalzamento del livello di un dibattito fin qui
pesantemente inquinato sia dalla faziosità, sia da un uso dei dati
statistici, da tutte le parti in contesa, per il quale l’aggettivo
“grossolano” è un eufemismo. In questo dibattito in un paio di
occasioni ho commesso anch’io, involontariamente, un errore nella
lettura del dato statistico sul numero dei nuovi rapporti di lavoro
stabili e di quelli a termine, creati nell’ultimo triennio: è vero che i
primi sono più numerosi dei secondi, ma ha ragione Luca Ricolfi
quando osserva che essi sono in percentuale inferiore rispetto allo
stock che si registrava all’inizio del triennio, determinandosi così
una sua sia pur modesta riduzione.
Il terzo dei cinque grafici che corredano l’articolo di Luca Ricolfi.
Detto questo, propongo di arricchire il quadro statistico fornito e illustrato da Luca Ricolfi con due
dati ulteriori, che mi paiono importanti per una valutazione degli effetti della riforma: due dati
entrambi sorprendenti, resi ancor più sorprendenti se considerati congiuntamente. Il primo è quello
che vede una sostanziale invarianza, negli ultimi anni, del numero dei licenziamenti in rapporto al
numero dei contratti di lavoro a tempo indeterminato in essere, siano essi costituiti prima dell’entrata
in vigore della riforma del 2015, o dopo: un dato che obbliga a una riflessione approfondita sul peso
relativo che hanno la legge da un lato, dall’altro la cultura diffusa e le relazioni sindacali, nel
determinare i comportamenti degli imprenditori e in particolare la loro propensione all’esercizio della
facoltà di recedere dal rapporto con i dipendenti. Parrebbe che una riduzione incisiva del vincolo al
recesso produca, almeno nel breve periodo, un mutamento del comportamento degli imprenditori
molto meno rilevante di quanto ci si sarebbe atteso. Resta da chiedersi se e quanto su questo mancato
effetto della riforma pesi la volatilità del dato legislativo e in particolare il rischio di una controriforma
a seguito delle prossime elezioni politiche, oppure a opera della Corte costituzionale; e se un
mutamento più rilevante debba attendersi nel medio periodo, se la riforma supererà indenne questi
due scogli.
Il secondo dato sorprendente, apparentemente contraddittorio rispetto al primo, è quello che dà conto
della drastica riduzione del contenzioso giudiziale registratasi fra il 2012 – anno nel quale è entrata
in vigore una prima parte della riforma dei licenziamenti e dei contratti a termine – e la metà del 2017.
I dati forniti dal ministero della Giustizia consentono di quantificare questa riduzione intorno ai due
terzi. Gli stessi dati dicono, per converso, che questa riduzione si sta verificando soltanto nel settore
del lavoro privato: in quello del pubblico impiego, dove né la riforma del 2012 né quella del 2015
hanno avuto applicazione, il flusso dei nuovi procedimenti iscritti a ruolo resta sostanzialmente
invariato. Il che autorizza a ipotizzare, in attesa di verifiche rigorose, che siano proprio quelle due
riforme la causa del fenomeno osservato.
La riduzione del tasso di contenzioso giudiziale costituisce un fatto di grande rilievo, non solo per
l’amministrazione della Giustizia, ma anche e soprattutto per il sistema delle relazioni industriali; e
indirettamente anche per l’efficienza del sistema economico nel suo complesso. Il tasso di
contenzioso giudiziale italiano in materia di lavoro costituiva un’anomalia negativa, nel panorama
europeo: solo in Italia la regola era che ogni licenziamento fosse accompagnato da un ricorso al
giudice del lavoro e che dunque il severance cost per entrambe le parti fosse normalmente appesantito
dalle spese legali e dall’alea di un giudizio sulla quale pesa sempre molto l’orientamento personale
del magistrato. Solo in Italia avvocati e giudici erano di fatto protagonisti di primaria importanza del
sistema delle relazioni industriali.
Il fatto che quell’anomalia stia avviandosi a essere superata, in parallelo con l’allineamento del nostro
diritto del lavoro rispetto allo standard prevalente nei grandi Paesi occidentali, costituisce un
progresso non disprezzabile nella direzione di una maggiore attrattività dell’Italia per gli investitori
stranieri. Che è la precondizione, insieme alla riduzione del debito pubblico e dunque della pressione
fiscale, per quella crescita economica senza la quale non può crescere né il potere contrattuale né il
benessere dei lavoratori.
Quanto al fatto che il superamento di quell’anomalia non si accompagni a un aumento della frequenza
dei licenziamenti, esso ci autorizza forse a ritenere che l’unica categoria in qualche misura
danneggiata dalla riforma dei licenziamenti del 2012-2015 sia quella degli avvocati giuslavoristi.
Esso dovrebbe comunque convincere anche chi ha a cuore sopra ogni altra cosa la sicurezza e il
benessere dei lavoratori dipendenti regolari dell’opportunità che la riforma del lavoro non venga
manomessa prima che si siano potuti verificare in modo rigoroso e valutare pragmaticamente i suoi
effetti.