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Dal corpo alla parola nella clinica dei disturbi alimentari
Elena Riva
Visi e corpi di bambine invecchiate, pelle diafana e occhi larghi nei volti scavati, fisici
impuberi, quale che sia l’età anagrafica. Nei disturbi alimentari un involucro uniforme
ricopre differenze profonde: le somiglianze nell’aspetto e nei comportamenti, il
reiterarsi di un pensiero appiattito dal calcolo ossessivo di grammi e calorie, non
appartengono a strutture di personalità uguali, né esprimono un unico significato
evolutivo, psicopatologico e relazionale.
Il clinico interessato a gettare lo sguardo oltre il sintomo riconosce il carattere
multiforme dei disturbi alimentari: corpi replicanti e resoconti anamnestici ripetitivi
rimandano a organizzazioni psichiche e significati affettivi differenti. La cultura e la
mitologia affettiva, più della psicopatologia, conferiscono significato psichico,
relazionale e comunicativo alle condotte alimentari impazzite e agli stili di vita e di
pensiero che le accompagnano.
La narrazione che si snoda nella stanza delle parole lentamente perfora l’involucro
seriale del controllo pseudo-‐razionale, consentendoci di entrare in contatto con un Sé
ancora vitale. Una quattordicenne anoressica descrive al test di Rorschach il proprio
mondo interno come “un vulcano dentro la lava e sopra la terra verde, più fredda …
magari la lava può salire… la parte sotto, con la lava che sale, é molto calda, mentre
quella sopra è fredda” (tav. VIII)
L’intervento psicologico rimuove gli ostacoli che ostruiscono il passaggio alla colata
lavica, e la vitalità emotiva raffreddata e quasi spenta supera lo sbarramento difensivo,
consentendo alla risonanza emotiva del discorso anoressico di raggiungerci.
La frenetica esibizione di prestazioni eccellenti con cui l’anoressica invoca
riconoscimenti alla preziosa soggettività che si nasconde in un corpo sbagliato si placa,
lasciando emergere le fragilità di un soggetto che si rifugia in se stesso per non essere
disprezzato o ferito.
Nel racconto di una giovane adulta non più anoressica, il rapporto fra il Sé autentico e il
suo involucro è personificato in due diverse figure:
Martina è tornata. Nessun debutto. Di soppiatto ha invaso il palco, ha chiuso il sipario,
spento le luci. E’ lì che vive. Lì Maggie muore. Silente delitto.
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Martina piace a tutti ma non a se stessa. Li vede gli uomini come la mangiano. Lei non si
fa più assaggiare. Guarda le persone negli occhi, di quelli golosi schiva l’odore che
lasciano addosso. Non abbassa più lo sguardo, solo se arrossisce, e non per l’abito, ma per
un incontro. Quelli sono giorni rari, speciali, perché s’imbatte in occhi che la trovano,
raggiante, sognante, Maggie. Non è morta. E’ imprigionata in una donna che si odia, a tal
punto si distrugge: la pelle, la superficie, la odia. Maggie non è mai nata lì su, né è emersa
dal mare in superficie, non è lì, dove le unghie di Martina graffiano. Maggie ha aperto un
occhio dopo l’altro da dentro, da un taglio profondo al cranio, al torace, nel cuore di un
corpo, quello massacrato di Martina. Le ha ridato la vita che da anni sognava, credeva
persa, i sogni che non trovava, non amava, la speranza che non sapeva.
Martina è tornata. Da dietro le quinte, come suo solito. Io non applaudo.
La scrittura creativa, espressione della narratività e della competenza riflessiva
acquisite nel lavoro terapeutico, approda alla prima persona singolare: i personaggi
scissi si reintegrano in un Io capace di osservarsi e descriversi, non più artificialmente
compattato da esibizioni narcisistiche ma luogo di ritrovata continuità soggettiva.
L’antica competenza femminile nel linguaggio del corpo che convertiva i conflitti
psichici irrisolti in manifestazioni somatiche, in epoca postmoderna produce condotte
sintomatiche ego-‐sintoniche, espressioni d’intenzionalità inconsapevoli quanto
incoercibili. Chi soffre di disturbi alimentari riempie illusoriamente il vuoto d’identità e
di rapporti con l’auto-‐stimolazione sensoriale, corporea e cenestesica, con la fame, il
dolore e la fatica, garantendo una via di scarico agli affetti attraverso l’esperienza
somatica.
Il paradigma evolutivo non banalizza la sofferenza psichica che si esprime col
linguaggio del corpo, ma la interpreta come manifestazione di una mancata
integrazione fra corpo e mente, fra modelli identificatori e sistemi di valore femminili e
maschili, fra fusione e individuazione.
Dove l’assenza di contatto ed elaborazione simbolica degli affetti costringe a dar voce
nel corpo alla sofferenza psichica, l’adozione di un modello terapeutico integrato
ricostruisce il legame somatopsichico interrotto grazie a un contenimento protettivo
che reintegra la scissione e ripara dall’onnipotenza, anche da quella salvifica del
terapeuta, che non potrebbe da solo fronteggiare il dolore del corpo e della mente,
l’oscillazione fra bisogni inesaudibili e ostinati rifiuti di cure, la trappola invischiante e
distruttiva delle interazioni familiari.
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L’intervento integrato fra chi si prende cura del corpo violato da abbuffate e digiuni e
chi promuove l’elaborazione simbolica degli affetti, fornisce il modello di un
contenitore differenziante e articolato, alternativo all’ invischiamento e alla scissione.
La precocità dell’intervento consente di differenziare i segni di un esordio patologico
che s’innesta su un funzionamento psichico perfezionista e compiacente,
spasmodicamente dedito alla ricerca di eccellenze scolastiche, sportive e sociali, dai
disordini alimentari che esprimono il rifiuto di un corpo pubere troppo brutto e grasso
per essere tollerato dal fragile narcisismo di un adolescente. Ciò permette di
interpretare il significato simbolico e la funzione comunicativa del sintomo prima che
comportamenti e relazioni si sclerotizzino in dinamiche patologiche.
Anoressiche e bulimiche strenuamente si oppongono all’attribuzione di significato
psichico ai comportamenti sintomatici, che banalizzano e minimizzano svuotandoli
d’intenzionalità. Le prime li attribuiscono a malesseri del corpo o a libere scelte della
mente incomprensibilmente osteggiate da medici e familiari, le altre li imputano a
un’impulsività incoercibile che le mortifica, ma che non sanno evitare.
Il tentativo di aprire una breccia nella corazza difensiva è legittimato dalla promessa di
una restituzione del ritratto psichico che emergerà dai colloqui e dai test proiettivi.
Una consultazione limitata nel tempo e definita negli obiettivi supera la paura di
affidarsi e allenta il controllo difensivo, consentendo di rimandare la scelta di
impegnarsi in un percorso terapeutico a quando l’esperienza della restituzione ne avrà
reso meno riluttante o compiacente, più contrattuale, l’adesione.
Per chi soffre di un disturbo alimentare la restituzione del bilancio evolutivo è
un’esperienza intensa che permette di guardarsi e di essere guardati oltre l’involucro
del corpo nemico che nasconde il vero Sé.
L’elaborazione simbolica trasforma i pensieri non pensati in narrazioni attribuendo
significato psichico alla crisi all’interno del quadro evolutivo, intrapsichico e
relazionale in cui si sviluppa.
La possibilità di riflettersi in uno specchio non deformato da desideri e attese altrui
supera la riluttanza ad attribuire significato a comportamenti ed emozioni, e attenua le
angosce d’intrusione e di giudizio evocate dalla valutazione diagnostica.
Il ritratto psicologico tratteggiato in un linguaggio evocativo che utilizza lo stile
comunicativo dell’adolescente per favorire il riconoscimento nell’immagine di sé
ricomposta dallo specchio diagnostico, permette a soggetti dal pensiero concreto,
vuoto di risonanze simboliche e metaforiche, di assistere per la prima volta – non
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ancora di produrla in proprio -‐ all’attribuzione di significato psichico ai prodotti della
propria mente.
Lo stile narrativo della restituzione favorisce l’integrazione e promuove la capacità
riflessiva, mentre la commozione di sentirsi riconosciuti ristabilisce il contatto fra
pensiero e affetti. Quest’esperienza accende una curiosità nuova per la realtà psichica,
intaccando la svalutazione e favorendo un’apertura di credito che è il primo segno
dell’idealizzazione che il rapporto terapeutico dovrà attraversare prima di
trasformarsi in alleanza di lavoro. Lo stupore e il piacere di sentirsi compresa, che nel
corso della terapia saranno di nuovo sopraffatti da angosce d’intrusione e
inglobamento, lasciano una traccia preconscia che sarà preziosa a superare fasi di
stallo e minacce d’interruzione.
Il bilancio evolutivo non equivale a un assessment psicodiagnostico, ma svolge funzioni
preliminari necessarie: ottenere un’adesione di minima al contratto terapeutico e
frapporre una fase di riflessione e attribuzione di senso all’urgenza di far qualcosa
subito, che collude con il carattere agito della domanda.
Nei disturbi alimentari la traduzione corporea della sofferenza psichica interrompe il
lavoro del pubertario: il bilancio evolutivo riavvia il processo di soggettivazione,
armonizzando vecchi e nuovi ruoli affettivi nella continuità di un Sé dotato di
competenze riflessive, in cui i nuovi valori di genere s’integrano con i ruoli e le
relazioni del passato infantile.
L’adolescente anoressica non sa nominare gli affetti: il suo linguaggio è povero e
ripetitivo, le sue risposte emotive non modulate, generiche e superficiali, incapaci di
tradurre le sensazioni corporee in esperienze emotive di dolore e di rabbia, di paura e
d’angoscia: “Non so perché … mi urta, mi dà fastidio…” La verbalizzazione degli affetti
favorisce una percezione più definita del Sé corporeo, corregge un’immagine corporea
distorta e svalutata e riattiva il contatto con un Sé psichico disconnesso dagli affetti.
Nei disturbi alimentari l’afasia emotiva zittisce la realtà psichica sovrainvestendo la
concretezza del reale; gli affetti perdono la funzione d’informare della realtà interna e
di quella esterna, e sono sperimentati come indici di fragilità e debolezza, elementi di
disturbo in un sistema prestazionale iper-‐funzionante.
La psicoterapia sostiene l’elaborazione simbolica e consente di produrre e integrare
significati, liberando un pensiero imbrigliato dalla repressione fantasmatica e incapace
di produrre rappresentazioni simboliche e metaforiche. Jeammet definisce il lavoro
clinico con anoressiche e bulimiche “una riappropriazione attraverso il lavoro psichico
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della propria storia e della propria capacità di pensarla, di pensare le proprie emozioni e
gli avvenimenti che l’hanno segnata” (Jeammet, 2006 pag.20).
La psicoterapia addestra a prestare ascolto agli stati emotivi, trasformandoli da segni
di vulnerabilità e dipendenza in utili indicatori di processi decisionali. Il
rispecchiamento dello sguardo e delle parole del terapeuta attribuisce nuovi significati
affettivi agli stati della mente, consentendo d’interiorizzare la relazione con un oggetto
nuovo, capace di dar nome agli affetti e alle emozioni scisse e collocate nel corpo.
Dar voce agli affetti incistati nel corpo li legittima. Il linguaggio di chi soffre di un
disturbo alimentare cela un pensiero utilizzato non per comprendere se stessi e il
mondo, ma per controllare le emozioni. L’anoressica satura le sedute di ossessive
descrizioni di riti alimentari e dettagliati resoconti di successi scolastici o professionali,
mentre la bulimica vomita sull’interlocutore disperazione, rabbia e vergogna, senza
concedere a se stessa e all’altro spazi di rielaborazione. Il linguaggio anoressico,
concreto e fattuale, è lo specchio di una realtà emotiva scissa e bloccata. Quello
bulimico è, invece, sfogo ed evacuazione, vomito di parole che satura il terrore del
vuoto con un pieno inarrestabile. Nella stanza delle parole s’imparano a sopportare i
silenzi, le sospensioni, le discontinuità, e si può cominciare a pensare.
Nominare e discriminare gli affetti li legittima: l’elaborazione simbolica libera un
pensiero imbrigliato dalla repressione fantasmatica e lo dota di competenze riflessive,
costruendo un ponte fra Sé psichico e corporeo.
La soggettivazione, interrotta dall’incistamento nel corpo della sofferenza psichica, si
riavvia grazie all’immedesimazione con un oggetto nuovo capace di dare nome agli
affetti e significato alle azioni; diventa così possibile tollerare silenzi e sospensioni, e si
può cominciare a pensare.
Nell’intervento terapeutico integrato la discontinuità è rappresentata anche da
relazioni terapeutiche parziali, differenziate e complementari, da un lavoro di rete che
introduce la triangolazione, ed evita di riproporre una relazione totalizzante con un
oggetto onnipotente, che ingloba e divora.
La costruzione narrativa traghetta dal vuoto rappresentativo di una realtà psichica a-‐
simbolica, che utilizza il cibo per controllare emozioni insopportabili, o dal linguaggio
descrittivo dello sfogo, ingabbiato nel controllo anoressico o reso straripante
dall’evacuazione bulimica, al pensiero riflessivo. Le scansioni spazio-‐temporali
introducono il limite, mitigando scissioni e idealizzazioni -‐ tutto o niente, bianco o nero,
pieno o vuoto – e rendendo affrontabili le difficoltà maturative.
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Nella storia di chi soffre di disturbi alimentari l’introiezione di limiti e legami é inibita
nel suo spontaneo sviluppo: la fragilità delle basi narcisistiche impedisce di ricevere
conferme mantenendosi separati, perché dall’Altro dipendono autostima e
legittimazione dei desideri. Nello specchio vuoto della tavola bianca del TAT una
quattordicenne anoressica vede riflesso il difetto identitario, esito del mancato
rispecchiamento alle origini della vita psichica che produce scissione e rifiuto del Sé
corporeo. “Magari è l’immagine di una persona che si sente buona a nulla, e quando si
guarda allo specchio si sente così, si sente invisibile” (tav.16)
Una relazione terapeutica affidabile e non invasiva rinforza le basi narcisistiche e
riavvia lo sviluppo di un Sé bloccato e distorto da intrusioni proiettive. Per nutrirsi di
questa relazione occorre rinunciare però alla protezione dal dolore psichico fornita
dall’identità patologica: essere anoressica assicura visibilità, protegge
dall’annichilimento identitario, definisce e illusoriamente rinforza i confini del Sé
attraverso il potere di resistere alle sollecitazioni a nutrirsi e a prendersi cura di sé.
Perché rinunciare ai vantaggi che derivano da tale soluzione?
Alcune strategie terapeutiche ricorrono a prescrizioni per superare questo precario
ma gratificante equilibrio. Noi tentiamo di far leva sulla fragile alleanza e sulla limitata
contrattualità costruita nella fase di consultazione, accettando il carattere fittizio e
forse addirittura anti-‐terapeutico delle motivazioni fin qui dichiarate: una
soddisfazione intellettuale di stampo marcatamente narcisistico; il bisogno di
consolidare un patologico equilibrio di stallo evitando sia le conseguenze fisiche di
un’eccessiva perdita di peso, sia di precipitare nel temutissimo vortice di avidità e di
ciccia; il desiderio di placare le ansie di genitori esausti e colpevolizzanti con qualche
colloquio, meno traumatico e impegnativo di un’alimentazione forzata o di un ricovero
che obbligherebbe a interrompere la frequenza scolastica Accettiamo queste
motivazioni di copertura contando che nascondano la speranza di un incontro
significativo, che scalfisce le certezze della patologia e apre una breccia d’interesse per
l’altro e per il proprio mondo emotivo. Se è impossibile instaurare una vera alleanza
terapeutica con chi apparentemente non ha nulla da chiedere e trae importanti
benefici dalla malattia, accettiamo quanto per ora ci viene concesso: una distratta
disponibilità all’ascolto, una vaga curiosità, una certa preoccupazione per le
conseguenze fisiche del digiuno: l’aridità e colorito esangue della pelle, la perdita dei
capelli, lo sgretolarsi delle unghie e dei denti.
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Ottenuta questa presenza scettica e prudente, occorre evitare che il rapporto
terapeutico evochi la minaccia di ingerire a forza interpretazioni, come in passato sono
stati ingeriti cibo e desideri materni.
Lo stile relazionale anoressico e bulimico replica le rispettive condotte alimentari: le
anoressiche rifiutano di nutrirsi di parole come di cibo, le bulimiche le ingoiano
voracemente per poi vomitarle interrompendo il trattamento; le une e le altre
alternano avidità e rifiuto, e vivono le interpretazioni come un nutrimento forzato e
indigesto.
Il percorso terapeutico procede controcorrente, aprendo delle brecce, cogliendo dei
segnali di sofferenza mascherati, alludendo ai vantaggi affettivi e relazionali della
rinuncia al sintomo; soprattutto tenta di incrinare la certezza che sottomettersi ai
dettami sadici di un ideale malato sia una scelta di libertà, anzi l’unica vera garanzia di
autonomia.
Nella fase d’avvio il tentativo di dar senso alle azioni e di ripristinare le relazioni si
oppone al lavoro di scissione e oggettivazione del pensiero concreto, sollecitando
interesse per la realtà psichica. Talvolta si ricorre a sollecitazioni narcisistiche e a
interventi che colludono con le difese intellettualizzanti, per suggerire strade
alternative alla sottomissione alle regole autoimposte: l’obiettivo di scalfire la corazza
no entry legittima il ricorso a tali interventi; non si può chiedere di abbandonare il
salvagente della soluzione anoressica prima di aver imparato, se non a nuotare, almeno
a stare a galla e a fidarsi di chi ci nuota accanto.
Per sostare in questa zona franca che collude con le difese narcisistiche, devono essere
pretese alcune garanzie: regolari controlli medici, stabilità del peso e, peri soggetti
adolescenti che vivono in famiglia, l’avvio di un percorso parallelo con i genitori.
La qualità e la continuità della relazione terapeutica è garanzia della continuità
soggettiva, ma anche fonte di angosce d’intrusione e inglobamento, tanto più intense
quanto maggiore è l’idealizzazione del terapeuta. Il timore di dipendere che ostacola
l’avvio del trattamento, a lavori in corso attiva minacce d’interruzione sempre latentì,
soprattutto quando l’intensificarsi del rapporto fa vacillare l’instabile equilibrio fra
solitudine e fusione.
Un setting stabile ma flessibile, che accetta di modificare la frequenza delle sedute per
adattarsi alla distanza relazionale di volta in volta tollerabile, tutela la continuità della
relazione. Occorre riconoscere e rispettare il bisogno di aggrapparsi e il timore di
essere intrusa, ma anche la tensione a sperimentarsi separata che è fisiologica non solo
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in adolescenza, ma in tutti i processi d’emancipazione promossi dalla psicoterapia, a
qualunque fascia d’età.
Nel trattamento dei disturbi alimentari anche il timing della conclusione è complesso
e la scissione fra corpo e mente contribuisce a fornire indicazioni ambigue al riguardo:
a volte netti miglioramenti nella qualità della vita e delle relazioni contrastano con
l’ostinato permanere della malnutrizione; a volte l’aumento di peso e il miglioramento
delle condizioni di salute lasciano inalterata la rigidità del funzionamento psichico.
Rapide risoluzioni del sintomo possono esprimere fughe nella guarigione di un falso Sé
compiacente che non ha, affatto, abbandonato le sue rigidità, mentre aperture emotive
e relazionali possono indurci a proporre una chiusura del trattamento quando la
presenza del terapeuta è ancora necessaria a garantire la stabilità dei progressi.
Quando la psicoterapia sembra procedere in modo soddisfacente, il calo ponderale può
esprimere un transfert negativo scisso e negato. Lo sguardo multifocale dell’équipe,
attento al corpo, alla mente e alle dinamiche familiari grazie alla presenza di più ruoli
professionali, supera l’ostacolo del silenzio verbale che rende impotente l’analista,
rimediando alla cecità selettiva di una relazione transferale idealizzata.
È noto che nelle psicoterapie psicoanalitiche la guarigione non coincide con la
risoluzione del sintomo; il paradigma evolutivo organizza la strategia terapeutica
stabilendo un nesso fra sintomo e blocco evolutivo e considerando come criterio guida
il superamento della situazione di stallo. Sperimentazioni d’autonomia possono essere
accettate sapendo di poter riprendere le sedute al ripresentarsi di nuovi compiti e
ostacoli. In un’ottica evolutiva il criterio terapeutico non è un ipotetico parametro di
normalità e guarigione, ma la capacità di sviluppare le risorse e valorizzarle in
funzione del proprio potenziale e della natura dei compiti da affrontare. Anche quando
permangono compiti irrisolti e comportamenti anti-‐evolutivi, o quando l’immaturità e
la rigidità difensiva sopravvivono alla remissione del sintomo, è necessario talvolta
accettare di sospendere il trattamento per aderire alla richiesta di sperimentarsi da
sola.
Non è raro che conclusioni così concordate si rivelino a posteriori sospensioni
finalizzate a modulare la distanza relazionale per fronteggiare l’angoscia di dipendere.
Quando a distanza di qualche anno l’ex-‐paziente propone di riprendere a incontrarsi, il
rapido e spontaneo riattivarsi della trama narrativa conferma che la relazione non è
stata interrotta ma interiorizzata.
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L’interiorizzazione del terapeuta come funzione integrativa organizzatrice della
soggettività consente di nutrirsi del rapporto anche durante le sospensioni: la
consapevolezza che una rappresentazione sufficientemente integrata di sé e della
propria storia resti depositata nella mente del terapeuta, permette di proseguire il
percorso di soggettivazione anche in sua assenza. L’autonomia soggettiva è promossa
dalla continuità, affidabilità e capacità di contenimento del setting, ma anche dalla
possibilità di decidere se e quando usufruirne.
Claudia sta per partire per la sua prima esperienza di lavoro all’estero dopo aver
conseguito un master, tappa finale del suo tortuoso percorso di studi, una sorta di slalom
fra scelte compiacenti e oppositive nei confronti del padre e dei suoi valori, attraverso cui
ha infine individuato autentiche aree d’interesse.
Dopo una lunga psicoterapia più volte interrotta per motivi di salute e soggiorni studio
all’estero, entrambe pensiamo di essere giunte alla fine del nostro lavoro.
All’ultima seduta Claudia porta un sogno: ha sognato il prof. X, un docente universitario
che l’ha affascinata in passato coinvolgendola in una relazione ad alto tasso
d’idealizzazione. All’epoca in cui il professore era al centro dei suoi pensieri, i miei
tentativi d’interpretare questa relazione alla luce di precedenti esperienze
d’innamoramento narcisistico per sostituti paterni offendevano Claudia, facendola
sentire ingiustamente accusata di volerlo sedurre; anche la decisione del professore di
rendersi irreperibile fuori dagli orari di ricevimento l’aveva ferita, inducendola, non
senza sofferenza, a interrompere il rapporto e a cambiare relatore e argomento di tesi.
“Nel sogno incontro il prof. per caso e gli dico che sto per partire. Sono orgogliosa del mio
progetto e lui mi ascolta con interesse. Parliamo a lungo, come facevamo una volta;
improvvisamente, però, lui mi chiede di non partire: dice di aver lasciato la moglie e di
essere innamorato di me. Sono stupita e turbata, ma mi sento anche molto bene, come
avvolta in una nuvola di protezione e calore, una sensazione che non provavo da tempo.”
Anch’io sono turbata dalla ricomparsa all’ultima seduta di quest’oggetto interno e di
questo clima relazionale. “Al risveglio mi sono agitata, ho pensato che Luca (l’attuale
fidanzato, un compagno di studi) non mi fa sentire così protetta. Poi mi è venuto in mente
come stiamo bene quando discutiamo o andiamo a sciare insieme; come sto bene quando
chiacchiero con le mie amiche o gioco col mio nipotino, quando vado a un concerto con
mia sorella e perfino quando guardo un film sdraiata da sola sul mio letto. Sto bene
quando scrivo o lavoro, e quando insegno italiano ai ragazzi stranieri. Sono molte le
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persone e le situazioni che mi fanno star bene, mentre in passato quando Lui mancava,
chiunque Lui fosse, il mondo mi crollava addosso e non riuscivo più a respirare …”
Al termine della psicoterapia Claudia evoca con nostalgia quel magico sguardo
rispecchiante da cui dipendeva in passato la sua sopravvivenza psichica, che rivissuto e
rielaborato attraverso il transfert narcisistico le ha consentito di recuperare il senso
del proprio valore. Oggi sono altre, meno totalizzanti ed esclusive, le fonti del suo
benessere, saldamente collegate a una molteplicità di compiti e ruoli affettivi e di
relazioni complementari. In procinto di partire per un paese lontano, Claudia evoca
nostalgicamente nel sogno la funzione rispecchiante e contenitiva di quella relazione,
ma sa anche di poterne fare a meno grazie alla ricchezza e alla molteplicità di legami
presenti oggi nel suo mondo interno.