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1 150 PROPOSTE PER UN PROGRAMMA DI ALTERNATIVA DELLA SINISTRA (BOZZA A CURA DELL’UFFICIO DI PROGRAMMA DEL PRC OFFERTA ALLA DISCUSSIONE DI TUTTE E TUTTI) INDICE Premessa pag. 1) Democrazia e lavoro contro capitale finanziario: 2 A) Battere la speculazione si può B) Per un’altra Europa C) Opporsi a una gestione del debito tecnocratica e di classe 2) Contro il dogma liberista dell’austerità, per il taglio delle spese superflue e dannose 6 3) Paghi chi non ha mai pagato: 7 A) Patrimoniale B) Lotta all’evasione e fiscalità progressiva 4) Per l’occupazione, i diritti del lavoro, la democrazia 8 A) Previdenza: per una pensione dignitosa B) Dare una prospettiva ai giovani 5) Lo Stato sociale (welfare) non è un lusso 10 A) Sanità B) Assistenza sociale C) Abitare e condizione urbana 6) Per un nuovo modello di sviluppo (I) : Intervento pubblico e rilancio delle politiche industriali e creditizie 15 A) Rilanciare i settori industriali B) Polo pubblico del credito C) Valorizzare il Mezzogiorno 7) Per un nuovo modello di sviluppo (II): Beni comuni, ambiente, sovranità alimentare 19 A) Acqua B) Un altro modello di sviluppo: fonti rinnovabili e economia verde C) Energia D) Trasporti E) Obiettivo: rifiuti zero F) Politiche agricole e sovranità alimentare G) Aree protette 8) Formazione, ricerca, cultura 25 A) Scuola: tornare alla Costituzione B) Università e ricerca: risorse vitali e non costi da abbattere C) Cultura 9) Le nuove strade della comunicazione 28 A) Le nuove tecnologie informatiche B) Sistema delle comunicazioni 10) Democrazia e istituzioni 30 A) La “nostra Europa” (dei popoli, democratica, solidale, pacifista, sociale) e l’ “Europa reale” (della finanza, tecnocratica, bellicista, antipopolare) B) Difendere la Costituzione, garantire e ampliare la democrazia C) L’autonomia locale come presidio democratico e sociale D) Il risanamento dei partiti e della politica

05 150 proposte per un programma di alternativa

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150 PROPOSTE PER UN PROGRAMMA DI ALTERNATIVA DELLA SINISTRA (BOZZA A CURA DELL’UFFICIO DI PROGRAMMA DEL PRC

OFFERTA ALLA DISCUSSIONE DI TUTTE E TUTTI)

INDICE Premessa pag.

1) Democrazia e lavoro contro capitale finanziario: 2 A) Battere la speculazione si può B) Per un’altra Europa C) Opporsi a una gestione del debito tecnocratica e di classe

2) Contro il dogma liberista dell’austerità, per il taglio delle spese superflue e dannose 6 3) Paghi chi non ha mai pagato: 7 A) Patrimoniale B) Lotta all’evasione e fiscalità progressiva 4) Per l’occupazione, i diritti del lavoro, la democrazia 8 A) Previdenza: per una pensione dignitosa B) Dare una prospettiva ai giovani 5) Lo Stato sociale (welfare) non è un lusso 10

A) Sanità B) Assistenza sociale C) Abitare e condizione urbana

6) Per un nuovo modello di sviluppo (I) : Intervento pubblico e rilancio delle politiche industriali e creditizie 15

A) Rilanciare i settori industriali B) Polo pubblico del credito C) Valorizzare il Mezzogiorno

7) Per un nuovo modello di sviluppo (II): Beni comuni, ambiente, sovranità alimentare 19

A) Acqua B) Un altro modello di sviluppo: fonti rinnovabili e economia verde C) Energia D) Trasporti E) Obiettivo: rifiuti zero F) Politiche agricole e sovranità alimentare G) Aree protette

8) Formazione, ricerca, cultura 25 A) Scuola: tornare alla Costituzione B) Università e ricerca: risorse vitali e non costi da abbattere C) Cultura

9) Le nuove strade della comunicazione 28 A) Le nuove tecnologie informatiche B) Sistema delle comunicazioni 10) Democrazia e istituzioni 30 A) La “nostra Europa” (dei popoli, democratica, solidale, pacifista, sociale) e l’ “Europa reale” (della finanza, tecnocratica, bellicista, antipopolare) B) Difendere la Costituzione, garantire e ampliare la democrazia C) L’autonomia locale come presidio democratico e sociale D) Il risanamento dei partiti e della politica

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E) Impegno antifascista F) Giustizia 11) Eguaglianza, libertà, diritti 35

12) Ultimo ma primo per importanza: pace e disarmo 37

PREMESSA Spesso abbiamo sentito (e anche a noi è capitato spesso di) dire che una forza politica ha bisogno di qualificare il suo profilo a partire dalla proposta di pochi punti programmatici e sulla base di poche esemplari battaglie di assoluto rilievo sociale. Non a caso, per noi di Rifondazione Comunista (e non solo per noi) è ancora vivo il ricordo della campagna sulle 35 ore, che a suo tempo caratterizzò fortemente la percezione di massa del nostro partito. Concentrarsi dunque su tre/quattro obiettivi di portata generale, adeguatamente selezionati e calibrati in vista di una loro concreta realizzabilità: si tratta di una giusta indicazione, essenziale per consolidare una proiezione esterna. Un’indicazione che, tuttavia, non sostituisce o contraddice l’esigenza di avere una visione d’insieme capace di caratterizzare, in tutto il complesso degli ambiti tematici, la nostra identità politica: in definitiva, l’esigenza di un Programma compiuto e articolato. Non è tanto da intendersi la riproposizione di un impianto strategico e ideale, più consono ad un documento di rilievo congressuale, quanto piuttosto un Programma di fase, contenente le prescrizioni di una forza politica che si trovasse a governare qui ed ora avendo la forza del consenso e dei voti: uno strumento in grado di assicurare una cornice più generale ai singoli momenti dell’agire politico e dell’impegno sociale, che nel contesto dato sia legato non semplicemente a ciò che in tempi politici ravvicinati si può fare, ma sia dislocato sul registro di ciò che per noi andrebbe comunque fatto. Evidentemente, un tale compito di chiarificazione programmatica non potrebbe esser partorito da una sola testa (né da un pool di teste) e del resto non mancano fonti importanti cui attingere, che già operano per un approfondimento programmatico (dalla Fiom a Sbilanciamoci, ma non solo). In definitiva, tale compito deve realizzarsi attraverso un serrato confronto tra tutti i protagonisti impegnati oggi a sinistra in un duro scontro sociale: forze partitiche, istituzionali, sociali, culturali, associative, di movimento. Insistiamo sul metodo della costruzione democratica e partecipata. Non si tratta di un’esigenza estrinseca e indipendente dal merito; una tale istanza partecipativa costituisce anzi per noi il primo punto di un programma all’altezza di un’alternativa di sinistra. Non a caso, concepiamo l’esito di questo nostro iniziale sforzo come una “bozza”, suscettibile di acquisire una sua veste compiuta solo a valle di un confronto con quelli che riteniamo le nostre compagne e i nostri compagni di strada. Ad essi e al loro vaglio critico la consegniamo, nella convinzione che valga ancora la tradizionale formula: prima i contenuti, poi gli schieramenti.

DEMOCRAZIA E LAVORO CONTRO CAPITALE FINANZIARIO

A) BATTERE LA SPECULAZIONE SI PUO’ 1. Tornare alla separazione tra istituti di credito e banche d’investimento, imposta per legge negli Usa dopo la crisi del ‘29 (legge Glass-Steagall del 1933): regolamentazione bancaria che vieti alle prime di impegnarsi in attività di compra-vendita e operazioni speculative tipiche delle seconde e imponga limiti precisi alla leva finanziaria (rapporto tra capitale proprio e investimenti finanziari delle banche). 2. In particolare: vietare agli istituti di credito di volgersi al mercato dei derivati e di scommettere sulla sicurezza dell’indebitamento dei soggetti economici (attraverso i Credit Default Swaps) coi soldi dei depositanti; vietare la compra-vendita di Credit Default Swaps sui titoli del debito pubblico: cioè di scommettere sul fallimento degli Stati; emanare rigide norme e attivare strumenti di controllo che impediscano alle banche di detenere attività fuori bilancio; proibire le cosiddette “vendite allo scoperto” di titoli (operazioni speculative condotte per lucrare sul ribasso dei titoli stessi). 3. Potenziare normative e politiche di contrasto dei rapporti con i cosiddetti “paradisi fiscali” (identificabili in una settantina di Paesi, secondo la rete internazionale Tax Justice Network): aggravio fiscale per società ivi residenti,

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divieto di finanziamenti pubblici a imprese con filiali in questi Paesi, forte tassazione da e per i Paesi in questione, verifica delle pratiche contabili e fiscali delle aziende con partecipazione pubblica quali Eni e Enel. “Lo richiedono i mercati”. Questa è la formula magica costantemente ribadita e amplificata sui media del nostro Paese, presentata nella veste di un incombente spread (il differenziale tra i titoli di stato nazionali e quelli tedeschi) che continua ad allargarsi a seguito delle incursioni speculative e, conseguentemente, ad aggravare il peso degli interessi a carico del nostro bilancio pubblico: sulla scia di tale formula sono giustificate e imposte le politiche “lacrime e sangue”, cosiddette “di austerità”. “There is no alternative”: non c’è alternativa, si dice. Di fatto, ciò significa che il voto dei mercati prevale su quello dei popoli, che l’interesse di pochi e le leggi dell’economia capitalistica entrano sempre di più in rotta di collisione con gli interessi della stragrande maggioranza, con il suffragio universale e la democrazia. Ma la speculazione non è un destino inevitabile ed è usata per assecondare gli interessi del vigente sistema capitalistico. La massa dei cosiddetti prodotti “derivati”, che sono ordinariamente scambiati “over the counter” cioè al di fuori del mercato finanziario regolamentato, vale oggi nominalmente 466 mila miliardi di dollari, quasi sette volte il Prodotto Interno Lordo (PIL) mondiale, la ricchezza prodotta complessivamente sul pianeta. La metà esatta è in mano alle cinque più grandi banche statunitensi, la prima delle quali, J.P.Morgan, detiene un valore in derivati di 70 mila miliardi di dollari. I Credit default swaps (Cds), la forma più pericolosa di prodotto derivato - contratti assicurativi il cui mercato consente di scommettere sul fallimento di aziende o Stati - sono concentrati in mani americane e hanno come principale oggetto i titoli europei: in particolare, i titoli pubblici e soprattutto quelli italiani (dati DTCC, Depository Trust&Clearing Corporation). Secondo una ricerca della Banca Centrale Europea, negli Stati Uniti le dimensioni di questa finanza-ombra hanno già superato quelle del settore bancario regolato: essa rappresenta infatti il 53% del totale. Ma l’Europa non è da meno: questa “economia da casinò”, che sfugge a qualsiasi regolamentazione, è arrivata a coprire il 28% del mercato finanziario continentale (nel periodo 2005/2007 è cresciuta a un tasso annuo del 20%). Sino ad oggi, da entrambi i lati dell’Atlantico, si è fatto un mare di chiacchiere circa la necessità di introdurre vincoli e regole, senza alcun apprezzabile risultato concreto. In realtà, la speculazione è possibile solo perché nessuno la contrasta: niente vieterebbe al governo e al parlamento di prendere provvedimenti che impediscano gli attacchi speculativi almeno sui titoli pubblici. Ma, per farlo, occorrerebbe mettersi contro il potere finanziario. Non lo hanno fatto gli Stati Uniti (dove i 500 decreti attuativi della riforma per regolamentare il sistema finanziario e bancario, varata a luglio 2010, attendono ancor oggi l’approvazione), non lo fa l’Unione Europea (che anzi, tra il settembre 2008 e il dicembre 2010, ha elargito alle banche continentali senza alcuna contropartita qualcosa come 4.825 miliardi di euro, grosso modo l’equivalente di tre volte il prodotto interno lordo italiano, con conseguente appesantimento dei debiti pubblici). Così, i responsabili (privati) della crisi in cui ormai da quattro anni è immerso l’Occidente vengono salvati; mentre i costi di questa stessa crisi vengono scaricati sui conti pubblici e, con ciò, sui ceti popolari. Il governo Monti non fa eccezione a tale orientamento generale. Per questo occorrerebbe attuare con urgenza almeno le misure (da 1. a 3.) sopra enunciate. Ma ovviamente la dimensione più adeguata per mettere sabbia nella macchina speculativa dovrebbe essere quella europea. Ci si chieda, ad esempio, perché gli interessi pagati dalla Gran Bretagna sui suoi titoli di stato, nonostante un deficit pubblico molto più alto di quello italiano, sono più bassi di quelli che il nostro erario deve pagare (2,2% contro il 6/7% dei nostri bond). La risposta è semplice: perché la Banca d’Inghilterra, come la Federal Reserve statunitense ma contrariamente alla Banca d’Italia e alla Banca Centrale Europea (BCE), può stampare moneta e coprire le necessità di rifinanziamento del suo debito (cosa che di per sé inibisce ogni tentazione speculativa).

B) PER UN’ALTRA EUROPA Occorre con urgenza operare per: 4. Uno spostamento dell’asse del potere decisionale, delle scelte sugli orientamenti di fondo, dalle tecnocrazie alle assemblee parlamentari elette, in particolare dalla BCE al Parlamento europeo. 5. Un radicale cambiamento della missione della BCE, che deve diventare prestatrice di ultima istanza, deve poter erogare prestiti direttamente agli Stati e poter acquistare titoli degli Stati in difficoltà sul mercato primario al tasso ufficiale dell’1,5% . 6. L’abrogazione del Trattato di stabilità e crescita (Maastricht); l’abrogazione dell’ESM, il cosiddetto “Fondo salva stati”(che vincola i prestiti agli Stati in difficoltà al varo da parte dei medesimi di cosiddette “riforme strutturali” dal micidiale contenuto di classe); l’abrogazione del Patto cosiddetto “Europlus”, con conseguente rigetto degli indirizzi in esso contenuti (flessibilizzazione dei rapporti di lavoro e ulteriori stagioni di privatizzazioni). 7. La previsione di una politica industriale continentale, tesa ad invertire i processi di marginalizzazione di molti Paesi, formata a partire da obiettivi definiti dai singoli Stati, successivamente mediati dalle esigenze comunitarie. Ciò dovrebbe essere finanziato anche con la costituzione di un nuovo Fondo Europeo di Sviluppo sociale, Ecologico e Solidale (FESES), a disposizione degli Stati membri a tassi equi, finalizzato all’espansione dell’occupazione e alla qualificazione dei servizi pubblici nazionali, al potenziamento della ricerca e della tutela ambientale. 8. L’adozione di un comune “standard retributivo europeo”, grazie a cui attivare politiche di convergenza salariale (secondo la proposta dell’economista Emiliano Brancaccio).

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9. Una tassa sulle transazioni finanziarie e valutarie a breve termine (Tobin Tax sui flussi speculativi di capitale), concepita non come pedaggio per fare cassa ma come strumento per scoraggiare le suddette transazioni e dunque con un’aliquota sufficientemente alta (certamente più alta dello 0,05% che indicano le proposte ufficiali). Questa tassa deve essere pensata come l’inizio di una politica fiscale che ponga limiti generali alla possibilità di movimento del capitale finanziario transnazionale e vincoli gli investimenti produttivi a regole che ne impediscano, attraverso sanzioni e premialità, una funzione opportunistica quando non predatoria. 10. Un’azione comune dell’Europa tesa al superamento del dollaro quale valuta universalmente adottata per gli scambi internazionali e all’attivazione di una nuova valuta di riferimento. L’Europa è certamente lo spazio ottimale sia per lo sviluppo del Paese che per lo sviluppo della lotta di classe, anche perché dispone della massa critica per limitare – e alla fine annullare – quella completa libertà di movimento del capitale finanziario che è un meccanismo centrale del dominio capitalistico oggi. Ma questo discorso riguarda l’Europa ideale, sulla quale abbiamo giustamente investito e in nome della quale abbiamo adottato l’opzione europeista. Qui la crisi ha costituito uno spartiacque. La sua esplosione e la sua gestione hanno mostrato quale sia la natura dominante del progetto europeo, così come si è realizzato: un progetto che punta a ristrutturare l’Europa comprimendo democrazia, welfare e livelli salariali, che è egemonizzato dal modello monetarista e deflazionista-competitivo della Germania, teso ad addensare nell’area Centro-Nord del continente le maggiori risorse industriali, finanziarie e tecnologiche e quindi destinato a riprodurre ed aggravare le divaricazioni tra Paesi e tra classi. Le scelte recenti, che avocano di fatto la politica di bilancio all’esclusiva pertinenza di istanze a-democratiche e sottopongono i Paesi ad alto debito a punizioni destinate ad affossarne l’economia e la società, inducendo a svendere il loro patrimonio, non fanno che manifestare più acutamente i tratti fondamentali di quest’Europa reale e, nel contempo, rendono ogni giorno più insostenibile – persistendo tali condizioni – la situazione di molti Paesi. Ciò significa che il necessario tentativo di salvare il contenuto progressivo del nostro progetto europeo non può più identificarsi con un’adesione incondizionata all’Europa, ma deve vedere la chiara proposta di una ricontrattazione di tutto l’assetto economico e istituzionale del continente, a partire dalla indisponibilità ad applicare il “patto fiscale” (fiscal compact) e il pareggio di bilancio. In questo quadro, è necessario costruire un’alleanza dei Paesi del Sud e intensificare le relazioni autonome con le aree nordafricana e mediorientale. La ricontrattazione dell’assetto economico e istituzionale europeo va basata sull’azione nazionale e continentale dei movimenti di classe e civili, alla cui ripresa bisogna oggi dedicare il massimo degli sforzi, condensando la forza dei movimenti e quella degli Stati non omologati. Questa è l’unica via per contrastare credibilmente i grandi poteri che stanno dietro al monetarismo europeo. Per contrastare in radice l’Europa tecnocratica e antipopolare che è stata edificata in questi anni e che è ora in profonda crisi, occorre pervenire all’abrogazione dei Trattati in vigore, in cui si è concretizzato l’orientamento neoliberista: questo è il senso di ciò che proponiamo ai punti 6.- 9. La storia europea di questi ultimi due decenni è lì a dimostrare la necessità di una tale netta discontinuità. Dall’inaugurazione dell’euro (1 gennaio 2002) ad oggi, nel nostro Paese il potere d’acquisto delle famiglie italiane è crollato del 40%; nell’Unione Europea, il divario tra Paesi economicamente forti (la Germania su tutti) e Paesi deboli si è approfondito: l’euro ha favorito l’industria esportatrice tedesca e penalizzato le bilance commerciali dei Paesi dell’area mediterranea, i quali non hanno più potuto ricorrere a svalutazioni competitive per dare ossigeno al loro export. Al contrario, la Germania ha accumulato surplus commerciali grazie anche alla compressione dei salari nazionali: i salari tedeschi, più alti in valore assoluto, tra il 2000 e il 2010 sono però cresciuti nominalmente solo dell’11% (nei 17 Paesi dell’area euro, del 27%), i salari reali hanno avuto un aumento nullo (mentre nell’Eurozona c’è stato un aumento medio del 5%) e il rapporto salari/produttività è sceso in Germania di 3 punti percentuale (nell’Eurozona, di mezzo punto). Mentre le economie reali hanno continuato a divaricarsi, il capitale finanziario continentale - a crisi conclamata - ha pensato unicamente a tutelare se stesso. Dal dicembre del 2011 in poi, la Banca Centrale Europea (BCE) è intervenuta prestando a un tasso di interesse bassissimo (1%) altri 1000 miliardi di euro (di cui 240 alle banche italiane) per ricostituire il capitale delle banche europee, così da coprire le voragini aperte nei loro bilanci da fallimentari operazioni speculative, oltre che dalle insolvenze indotte dalla crisi del sistema economico nel suo complesso. La tecnocrazia europea ancora una volta è accorsa a ripianare (con i nostri soldi) il buco. Tutto ciò mette in evidenza la “dimensione usuraia” del modello europeo: le banche prendono a prestito denaro dalla BCE a un tasso dell’1% e poi acquistano titoli degli Stati a tassi superiori lucrando sulla differenza. Mentre il rubinetto che dovrebbe alimentare l’economia reale resta chiuso. Le nostre proposte tendono quindi a voltare radicalmente pagina. Esse sono le stesse per cui si batte il Partito della Sinistra Europea, di cui fanno parte – oltre a Rifondazione Comunista – forze politiche quali Syriza (Grecia), Front de Gauche (Francia), Izquierda Unida (Spagna), Die Linke (Germania).

C) OPPORSI A UNA GESTIONE DEL DEBITO TECNOCRATICA E DI CLASSE 11. Il parlamento italiano non deve ratificare il “Patto fiscale” europeo (Fiscal Compact). Al suo posto, occorre istituire una struttura comunitaria che monitori le politiche fiscali, agendo in direzione di una politica fiscale comune, tenendo conto del debito complessivo (e non solo di quello pubblico), distinguendo tra spese correnti e spese per investimenti che possano far ripartire lo sviluppo (da scorporare dal calcolo del debito e da sostenere con finanziamenti della Banca Europea per gli Investimenti), europeizzando i debiti nazionali eccedenti il 60% del Pil,

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rifinanziando il debito a tassi non più elevati di quelli in essere, abrogando le sanzioni previste per i deficit e i debiti nazionali. 12. L’obiettivo è la stabilizzazione del debito. Ma se le misure sopra prospettate non dovessero trovare l’ascolto politico che meritano e continuasse l’insopportabile massacro sociale ai danni delle popolazioni europee, come è stato sin qui attuato dalle tecnocrazie di Bruxelles (e Berlino), occorrerebbe aprire una difficile ma inevitabile vertenza politica per la rinegoziazione del debito. Il debito pubblico è il conto totale di quanto uno Stato deve ai suoi creditori, il deficit è il saldo annuale di spese e entrate dello Stato. Il debito pubblico è la vittima, non l’artefice della crisi: esemplare il caso della Spagna, dove la crisi del 2008 è stata causata dall’esplosione della bolla immobiliare, a sua volta gonfiata dagli ingenti e improvvidi prestiti da parte delle grandi banche tedesche. In Italia, il debito pubblico ha cominciato ad assumere dimensioni preoccupanti negli anni Ottanta del secolo scorso. Ma la colpa non è della spesa pubblica: da un lato, le entrate dello Stato sono state falcidiate dalla riduzione delle aliquote sugli scaglioni più alti di reddito, dalla bassa tassazione dei redditi da capitale, dalla riduzione se non l'eliminazione delle imposte patrimoniali, dall'elevato tasso di evasione fiscale. Per converso, ad accelerare le uscite, hanno contribuito la corruzione (valutata in 60 miliardi di euro l'anno), il mantenimento di inutili carrozzoni con finalità clientelari e elettorali, le politiche a sostegno delle imprese (tra il 2003 e il 2008 hanno richiesto e ottenuto agevolazioni e sussidi comunitari, nazionali e locali, 840 mila imprese; tra Stato e Enti locali, sono state approvate 1307 leggi di incentivazione per le aziende). Non va dimenticato il ruolo degli interessi sul debito: nel 2010 la spesa per interessi è stata pari a 70,1 miliardi di euro corrispondente all'8,8% dell'intera spesa pubblica e al 45,6% delle entrate tributarie. Così si è accumulato il debito su cui oggi viene attuato (e strumentalmente consentito) il ricatto della speculazione. Ma gli speculatori altri non sono che i principali istituti finanziari (fondi, banche, società assicurative), che beninteso sono soggetti privati. Ad essi è consentito di realizzare enormi guadagni con operazioni di compravendita a danno degli Stati più deboli i quali, ripresentandosi sul mercato finanziario per ottenere nuovi prestiti, sono costretti a pagare interessi sempre più alti (per l'Italia ogni punto di aumento percentuale degli interessi corrisponde ad un maggiore esborso di 35 miliardi di euro). Accanto a ciò, va tuttavia respinto un uso strumentale del tema del debito. In primo luogo, il termine di riferimento pertinente (tenuto sotto controllo dai parametri di Maastricht) non è la dimensione assoluta del debito pubblico ma il suo rapporto con il PIL, con la ricchezza prodotta da un Paese: se si riduce il primo dei due elementi (il debito), ma con esso - a seguito di ripetuti tagli dei redditi e della spesa pubblica - va indietro anche il secondo (la ricchezza prodotta), il problema non si risolve ed anzi si accentua. In secondo luogo, è del tutto evidente che i cosiddetti “mercati” non stanno scommettendo sulla insostenibilità dei debiti pubblici quanto piuttosto sulla tenuta sempre più precaria dell’euro come tale: è lo stato di salute della moneta unica – e dunque il progetto europeo così come è stato sin qui concepito – ad esser posto in questione e a solleticare le tentazioni speculative sui titoli pubblici dei Paesi più esposti. Al punto in cui siamo, si tratta di decidere che Unione Europea si vuole e, più in profondità, se si vuole ancora un’Unione Europea: in primis, lo deve decidere la signora Merkel. La sconfitta degli orientamenti neo-liberisti coincide oggi con la stessa possibilità di esistenza dell’Ue, poiché certamente non si può costruire un assetto continentale equilibrato sullo sterminio sociale dei popoli. Con questa letale contraddizione devono misurarsi quanti (in particolare, François Hollande) sono chiamati a confrontarsi con i diktat tedeschi. Sapendo che non c’è una via di mezzo: il “patto fiscale”, recentemente varato a Bruxelles, non è sostenibile e va respinto, non aggiustato o integrato (esattamente come la sinistra greca respinge in Grecia il memorandum affama-popolo che la Ue vuole imporre). Ha ragione Syriza a controbattere nei confronti dell’establishment di Bruxelles: non siamo noi a voler uscire dall’Europa e dall’euro; siete voi che, sulla base di un insostenibile ricatto sociale, ci volete fuori e operate per l’implosione dell’Unione. A maggior ragione essi dicono questo, essendo ben consapevoli del fatto che l’infausta eventualità di un’uscita dall’euro sarebbe pagata a caro prezzo innanzitutto dal popolo e dai lavoratori greci. In tale stretto passaggio deve svilupparsi la battaglia di una sinistra degna di questo nome: una battaglia che ha come posta in gioco un’altra Europa. E’ una contesa politica difficile e che va condotta sino in fondo. Ma che, ovviamente, si può perdere. In tal senso, sarebbe da irresponsabili non contemplare nella gamma delle possibilità un’extrema ratio, non avere cioè “un piano B” (per usare una felice espressione di Paolo Savona, autorevole economista e già ministro dell’Industria del governo Ciampi). Il debito potrebbe essere stabilizzato in una congiuntura che vedesse andare il tasso di crescita sopra quello che è di fatto previsto (0,7%) e diminuire quello degli interessi. Nella condizione attuale, funestata dal dominio delle politiche di austerità, una stabilizzazione del debito non sarebbe purtroppo sufficiente. Nel deprecabile caso che proseguissero gli orientamenti liberisti oggi egemoni e non trovassero agibilità politica e concreta applicazione le proposte sin qui descritte, occorrerebbe allora negoziare una sua ristrutturazione (tenendo conto che il debito è una debolezza economica relativa se rapportato ad una insufficiente produzione di ricchezza, ma anche una forza politica se il Paese che lo ha contratto è, come l’Italia, “troppo grande per fallire”): moratoria sugli interessi, allungamento delle scadenze di rimborso, ridimensionamento del valore dei titoli. Ciò andrebbe contrattato anche a seguito di una seria indagine sulla formazione del debito (audit), che evidenzi quale parte derivi da impegni per il bene comune e quale, invece, dovuta a ruberie, corruzione, sprechi, opere inutili e dannose, arricchimenti e regalie indebite a banche e imprese e, su tale base, operare una selezione dei creditori (con totale salvaguardia dei piccoli risparmiatori).

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Il “piano B”, peraltro, non deve limitarsi alla questione del debito pubblico. Sia per affrontare responsabilmente l’eventualità di una rottura improvvisa dell’area euro (eventualità nient’affatto allontanata dai ricorrenti pseudo-accordi), sia per meglio sostanziare la dura rinegoziazione complessiva di cui si è detto, è necessario pensare a misure urgenti da attuarsi per evitare che una precipitazione della crisi dell’euro venga pagata come sempre dai ceti popolari: un forte controllo sui capitali in entrata e in uscita e una forte centralizzazione dell’uso delle risorse pubbliche e private sarebbero, in questo caso, condizioni indispensabili per una gestione non catastrofica di tale difficile frangente.

CONTRO IL DOGMA LIBERISTA DELL’AUSTERITA’, PER IL TAGLIO DELLE SPESE SUPERFLUE E DANNOSE

13. Rivedere la formulazione dell’art. 81 della Costituzione, eliminando l’obbligo del pareggio di bilancio e introducendo la “clausola sociale” relativa alla spesa sociale; sottoporre gli indebitamenti pubblici a uno scrutinio di sostenibilità patrimoniale e finanziaria che tenga conto del ritorno futuro degli investimenti. 14. Ridurre le spese militari, per le quali siamo al 3° posto in Europa (al 5° posto nel mondo) sopra Germania, Russia e Giappone (dati SIPRI): riducendo subito di 60 mila unità gli organici delle forze armate (e non di 30 mila in 10 anni, come annunciato dal governo); azzerando l’acquisto dei cacciabombardieri F35 (e non riducendone il numero da 131 a 90, come proposto dal governo) e il programma Forza Nec, con conseguente complessivo risparmio di 28 miliardi di euro (fonte: Rete per il disarmo); predisponendo il rientro immediato dei soldati italiani dall’Afghanistan. 15. Eliminare i trasferimenti alle imprese (che, come dice lo stesso Mario Draghi, inducono corruzione e scarsa propensione a innovare) e utilizzare le risorse così risparmiate per contribuire al finanziamento di una coerente politica industriale nazionale (in proposito, vedere più avanti); fissare un tetto agli stipendi dei manager, non superiore a 20 volte il salario medio, e alle loro liquidazioni (ponendo fine allo scandalo di remunerazioni “d’oro”, come quella conferita a Cesare Geronzi, 17,4 milioni di euro finchè è stato presidente delle Generali, o come la liquidazione di 40 milioni di euro con cui Unicredit ha congedato Alessandro Profumo). 16. Tagliare i privilegi e gli sprechi della politica “con la p minuscola”: tagliare del 25% gli stipendi di parlamentari, di consiglieri e assessori regionali (i più pagati d’Europa), nonchè i costi derivanti dalla moltiplicazione di consulenze e incarichi, di auto blu e grige della Pubblica Amministrazione. 17. Bloccare le cosiddette “grandi opere”, inutili e costose: come la TAV in Val di Susa (costo: 17 miliardi di euro) e il terzo valico Milano-Genova (costo: 6 miliardi). 17 bis. Intervenire sulla materia degli appalti pubblici, sia modificando le normative vigenti (in particolare superando la congiunzione di di progettazione e esecuzione, limitando gli aumenti in corso d’opera, cancellando la “legge obiettivo”), sia favorendo l’autonomia delle amministrazioni periferiche nei confronti dei privati attraverso forme di sostegno, consulenza e controllo di carattere centrale. La proposta 13. è di capitale importanza. Per conseguire il pareggio di bilancio - sciaguratamente divenuto, in luogo del lavoro, la stella polare della nostra Costituzione - si deve procede al taglio della spesa pubblica (in particolare, delle spese sociali), con l'argomentazione che il principale obiettivo è di evitare di accumulare altro debito. Così si cerca di raddrizzare i conti pubblici accanendosi con i redditi medio-bassi e tagliando le spese per il personale, per l'istruzione, per l'assistenza, per i comuni che si occupano delle politiche sociali a livello locale. Ed ecco il taglio di 8 miliardi di euro alla scuola nel triennio 2009-2011; di 10 miliardi alla sanità dal 2011 al 2014, di 15 miliardi di euro a regioni e comuni nello stesso periodo. A ciò vanno aggiunti i tagli della cosiddetta revisione di spesa (spending review) attuata dal governo Monti: alla sanità per circa 17 miliardi di euro (12+ 4,7) e agli Enti Locali per oltre 22 miliardi (15+ 7,2). In primo luogo, si tratta di una politica ingiusta, segnata dalla difesa di privilegi di classe e contraria al dettato costituzionale, a cominciare dai suoi primi articoli (in particolare gli articoli 1 e 3). Va tra l’altro in rotta di collisione con il diritto alla tutela della salute e a cure gratuite per gli indigenti (art.32 della Costituzione), con la gratuità dell’istruzione nella scuola dell’obbligo e il godimento di pari condizioni per il raggiungimento di gradi formativi superiori (art.34), con il diritto a disporre di mezzi adeguati per infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia e per disoccupazione involontaria (art.38). E non solo. Ma, in secondo luogo, è anche del tutto inefficace. Non è vero che il perseguimento del pareggio di bilancio - cioè di un saldo annuale di bilancio non negativo – serva comunque a non appesantire il debito; piuttosto è vero il contrario. Il bilancio di uno Stato non è paragonabile a un bilancio familiare e ha bisogno anche di spese in deficit, distinguendo tra dissipazione, sprechi di ricchezza e, dall’altro lato, investimenti produttivi, creatori di futura ricchezza. Non a caso, economisti e Premi Nobel ci dicono che se si riduce il deficit di un punto percentuale, è assai probabile che ciò porti ad una riduzione del Prodotto Interno Lordo (PIL) di oltre un punto (lo ha autorevolmente sostenuto anche l’ex Segretario al Tesoro Usa, Larry Summers, bocciando le politiche europee e, con esse, la loro ispirazione “tedesca”). Se si deprime la spesa - soprattutto in tempi di recessione - si deprime la domanda, inducendo le imprese a ridurre la produzione e a licenziare, con conseguente calo di occupazione e redditi; e se calano i redditi, non si arriverà a pagare i debiti (che, al contrario, continueranno a lievitare). Inoltre, un prolungato sotto-utilizzo delle capacità produttive abbatterà anche il potenziale produttivo futuro. Ridurre la spesa

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pubblica in un’economia depressa deprime ulteriormente l’economia. E’ precisamente la devastante deriva cui l’Unione Europea ha costretto la Grecia e il suo popolo: dopo cinque pesantissime manovre finanziarie, il debito di questo Paese continua a galoppare ed è oggi al 160%. In Italia, le manovre di Berlusconi e Monti hanno rastrellato nell’ultimo anno e mezzo 140 miliardi di euro, gravanti sulla gran massa dei cittadini “normali” e dei meno abbienti. E’ ora di cambiare strada: le proposte da 14. a 17 bis. indicano qual è quella giusta.

PAGHI CHI NON HA MAI PAGATO

A) PATRIMONIALE 18. Imposizione progressiva a partire dall’1% sui patrimoni immobiliari e finanziari oltre gli 800 mila euro. L’imposta colpisce progressivamente il 5% più ricco della popolazione (per un patrimonio di 900 mila euro, si tratta di una tassa di appena 1.000 euro) a vantaggio del 95%. 19. Reintroduzione di un’imposta progressiva di successione (con una franchigia di 400 mila euro). Tra il 2002 e il 2011, il reddito lordo per famiglia è stato in media di 46 mila euro; un anno fa era sceso a 40 mila euro. Ma anche quest’ultimo è un dato medio: ciò significa che almeno 25 milioni di italiani fanno duramente i conti con la crisi. Le quote di famiglie che non coprono la spesa per beni non durevoli (alimenti, affitto, riscaldamento, trasporti ecc) è salita dal 13,5 del 2008 al 16% del 2010): ad oggi il dato è certamente peggiorato. In particolare, le famiglie operaie hanno diminuito del 40% negli ultimi 12 anni la loro capacità di risparmio. Ma l’aumento della disuguaglianza ha avuto un decorso pluridecennale. Dal 1976 al 2006, la quota dei redditi da lavoro in relazione al PIL è precipitata di 10 punti percentuale come media dei Paesi Ocse, di 15 punti nel nostro Paese. Per converso, dal 1995 al 2008 i profitti netti delle maggiori imprese sono aumentati del 75,4% (mentre la quota degli investimenti è calata del 38,7%) e, dal 1990 al 2008, alle rendite è andata una parte consistente della ricchezza prodotta (+87%). In questo poderoso travaso di reddito, opera di un vero e proprio Robin Hood alla rovescia, emblematiche sono le performances retributive dei grandi manager: le loro retribuzioni sono passate dall’essere 35 volte il salario medio nel 1980 a 350 volte già agli inizi degli anni 2000. Se dai redditi passiamo poi ai patrimoni, vediamo che la ricchezza delle famiglie italiane (dati fine 2010), al netto dei debiti contratti, ammonta alla considerevole cifra di 8.700 miliardi di euro, 6 volte il PIL: se confrontata con il reddito disponibile, scopriamo di essere tra i più ricchi al mondo (più di inglesi, francesi, tedeschi , giapponesi e statunitensi). Siamo più ricchi ma stiamo peggio: perché? In primo luogo, perché questa ricchezza è mal distribuita: il 10% degli italiani possiede il 45% della ricchezza e l’1% di super-ricchi dispone di un patrimonio (13%) equivalente a quello del 60% delle famiglie meno ricche. In secondo luogo, perché solo una parte minore viene destinata allo sviluppo produttivo, mentre il grosso viene tesaurizzato (58% in acquisto di immobili, 37% in attività finanziarie). Invero l’Italia ha una consistente attività manifatturiera, ma il valore complessivo di tale attività è poco capitalizzato e molto indebitato: cioè, i proprietari preferiscono mettere i loro soldi in appartamenti e gioielli piuttosto che nell’azienda. La ragione chiave sta nel fisco: al 2010, le imposte dirette equivalgono al 14,6% del PIL, le imposte indirette al 14%, le imposte sul patrimonio allo 0,2%. Il denaro va quindi dove viene meno colpito: sin qui, in patrimoni e beni improduttivi. E’ ora di invertire la rotta: ci vuole una patrimoniale.

B) LOTTA ALL’EVASIONE E FISCALITA’ PROGRESSIVA 20. Consistente incremento dei fondi a disposizione della lotta all’evasione fiscale (a cominciare da un deciso aumento del numero di ispettori del ministero delle Finanze per le attività di controllo) ai fini di un recupero del 20% dell’evasione fiscale annua; predisporre un meccanismo fiscale che impedisca di accettare la dichiarazione di una perdurante attività societaria in perdita; sovratassa al 15% sui capitali “scudati” (vale 15 miliardi di euro). 21. Tassazione delle rendite finanziarie dal 20 al 23% ; adeguamento delle rendite catastali ai valori di mercato (introito: 12 miliardi di euro); introduzione di un’aliquota fiscale del 75% per i redditi che superano i 200 mila euro ed una del 90% per i redditi sopra il milione di euro. 22. Esenzione per lo scaglione dei redditi più bassi e diminuzione dal 23 al 20% della prima aliquota fiscale; abolizione dell’Imu (e tassazione progressiva sugli immobili con esenzione per la prima casa al di sotto di una certa soglia del valore dell’immobile); restituzione del fiscal drag (drenaggio fiscale: maggiori imposte pagate a causa dell’aumento nominale dei guadagni che fa cadere il contribuente in scaglioni di aliquota superiore), attraverso una riduzione della trattenuta sullo stipendio. 23. Ripristino delle provvidenze fiscali eliminate con le ultime manovre finanziarie (una di Berlusconi e due di Monti): con queste ultime erano state decise meno detrazioni per coniuge e figlio a carico, eliminazione o riduzione delle agevolazioni e delle esenzioni per disabilità (per figlio disabile, per spese di accompagnamento); diminuzione della detrazione d’imposta per acquisto prima casa, canoni di locazione, risparmio energetico, recupero patrimonio edilizio.

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24. Corresponsione agli Enti locali dei mancati trasferimenti a seguito dei tagli operati con le suddette finanziarie: alle regioni (assistenza sanitaria, treni regionali, politiche sociali, case convenzionate) e ai comuni (asili nido, trasporti locali, assistenza) per un totale di 15 miliardi in meno, al netto della spending review (che sottrae a regioni e comuni altri 22 miliardi di euro). 25. Istituzione di un reddito minimo garantito a carico della fiscalità generale, secondo il modello della risoluzione europea del 20 ottobre 2010, volta ad affermare la necessità che gli Stati adottino norme che assicurino almeno il 60% del reddito mediano (livello di reddito su cui si addensa la maggioranza dei redditi percepiti) per tutte le persone che non percepiscono reddito o percepiscono un reddito inferiore, adeguando a tale livello minimi di pensione e l’insieme delle provvidenze sociali. In definitiva, tale misura vale, come platea minima, per disoccupati e inoccupati (requisiti: reddito imponibile uguale o inferiore a 8.000 euro, iscrizione alle liste di collocamento, residenza italiana da almeno due anni) e quale integrazione al reddito (fino a 8.000 euro) per lavoratori precari. 25 bis. Sensibile diminuzione, pur senza annullarne l’efficacia, delle sanzioni nei confronti della piccola evasione: in ogni caso modificando le modalità di riscossione, superando l’esperienza di Equitalia e riconducendo il tutto ad una gestione integralmente pubblicistica. L’art. 53 della nostra Costituzione dice che i cittadini devono pagare le tasse “in ragione della loro capacità contributiva”, sulla base di “criteri di progressività”. Invece, secondo l’Istat, c’è in Italia un’evasione annua di 120 miliardi di euro: oltre il 60% dell’intero gettito Irpef, 8 punti percentuali di PIL. Non si tratta di un destino inevitabile. A dirlo non sono solo i comunisti, lo dice il giornale confindustriale: “Non vi è una ragione tecnica che spieghi perché l’evasione fiscale sia così diffusa nel nostro Paese, tanto da essere un fenomeno di massa. La ragione è politica. Se davvero si volesse, l’evasione fiscale potrebbe essere sostanzialmente debellata con investimenti non elevati” (da un editoriale di A.Provasoli e G.Tabellini su Il Sole 24 Ore). A tale quadro deficitario possiamo aggiungere improvvidi provvedimenti come l’esenzione dall’Ici dell’abitazione principale estesa anche a ricchi e ricchissimi (meno 3,3 miliardi all’anno per l’erario) o la regolarizzazione di 104 miliardi di euro detenuti all’estero e non dichiarati (“scudo fiscale”), tramite il versamento di un obolo del 5% del valore (una trattenuta del 15% sarebbe stata una penalizzazione appena adeguata). Va ricordato che la forte evasione e il basso costo del lavoro sono tra le cause principali della crisi italiana, freno alla concentrazione industriale e al passaggio a settori con un più elevato contenuto tecnologico. Per tornare ad essere competitivi occorre attaccare l’evasione e distribuire il carico fiscale, riducendo le aliquote delle fasce Irpef più basse e rimodulando le aliquote fiscali con l’aggiunta di ulteriori scalettature per colpire i redditi alti. Venti anni fa, i super-ricchi pagavano un’aliquota fiscale del 72%; oggi è del 43%. Fino a dieci anni fa, c’era l’imposta di successione; successivamente, è stata ridotta e poi abolita (dal centro-destra e dal centro-sinistra). In dieci anni, la pressione fiscale è aumentata dal 40,5% del Pil nel 2002 al 45,1% nel 2012. Ovviamente ciò vale per chi non evade. E non vale per tutte le categorie nella stessa misura. Secondo il Rapporto di Lef (Associazione per la legalità e l’equità fiscale), l’Irpef - principale fonte di prelievo (che vale 150 miliardi di euro l’anno) – continua a vedere un incremento del contributo di redditi da lavoro dipendente e pensioni e un calo di quelli da lavoro autonomo e impresa. In particolare, i redditi da lavoro dipendente e pensioni, nel 2010, hanno raggiunto l’81,55% del dichiarato e la quota Irpef derivante da tali redditi ha costituito il 78,42% del totale. Sino ad ora su queste categorie ha pesato la quota di gran lunga maggiore dell’imposizione fiscale. Metà delle società di capitale dichiara un’imposta sul reddito delle società negativa o nulla: come se S.p.A. e S.r.l. lavorassero in perdita! E i lavoratori dichiarano un reddito medio superiore a quello degli imprenditori. E’ ora di invertire la rotta, tornando all’applicazione del dettato costituzionale e a una decisa progressività fiscale.

PER L’OCCUPAZIONE, I DIRITTI DEL LAVORO, LA DEMOCRAZIA 26. Varare una legge sulla democrazia nei luoghi di lavoro che preveda: il diritto all’elezione delle rappresentanze sindacali per tutte le lavoratrici e i lavoratori in maniera proporzionale e senza quote di riserva, la misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali sulla base dei voti ottenuti alle elezioni delle Rsu e del numero di iscritte/i, il voto referendario vincolante delle lavoratrici e dei lavoratori sugli accordi. Perché nei luoghi di lavoro lavoratrici e lavoratori possano eleggere i propri rappresentanti, scegliersi il sindacato, esprimersi sugli accordi. 27. Abrogare il cosiddetto Collegato Lavoro L. 183/2010 e in particolare le norme relative: -all’arbitrato secondo equità che sottrae alle lavoratrici e ai lavoratori la possibilità di ricorrere al giudice del lavoro; -al rafforzamento della certificazione, che puntano alla sostituzione della contrattazione collettiva con il contratto individuale; -alla diminuzione dei poteri del giudice del lavoro. Abrogare l’art.8 della L. 148/2011 (finanziaria bis), che distrugge i diritti del lavoro e la contrattazione collettiva nazionale, con la previsione che i contratti aziendali e territoriali possano derogare tanto il contratto nazionale

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quanto la legislazione a tutela del lavoro. Ripristinare l’obbligo del rispetto della contrattazione collettiva nazionale nel settore ferroviario, soppresso dal Decreto Legge sulle Liberalizzazioni del governo Monti. Abrogare la controriforma Fornero e ripristinare l’art.18 dello Statuto dei lavoratori, estendendo l’obbligo del reintegro delle lavoratrici e dei lavoratori, licenziati illegittimamente, alle imprese di ogni dimensione. Abrogare la controriforma Fornero degli ammortizzatori sociali. Riformare il sistema degli ammortizzatori sociali estendendo a tutti i settori e le tipologie di lavoro gli ammortizzatori conservativi del rapporto di lavoro e il sostegno al reddito in caso di perdita di lavoro (secondo la proposta avanzata dalla Cgil). 28. Abrogare la legge 30/2003 sul lavoro precario. Ridurre a 3 le tipologie di lavoro subordinato: contratto a tempo indeterminato, contratto a tempo determinato solo di fronte a esigenze obiettivamente temporanee individuate dalla legge e/o dai contratti collettivi, contratto di apprendistato. Ricondurre tutta l’area del falso lavoro autonomo alla tutela e ai diritti del lavoro dipendente, stabilendo come criterio identificativo del lavoro dipendente la “doppia alienità”, cioè l’erogazione della forza lavoro in un’organizzazione aziendale predisposta dal datore di lavoro, a cui appartengono direttamente i risultati del lavoro. Da subito fissare una retribuzione minima intercategoriale come media dei minimi contrattuali che operi laddove non risultino applicati contratti collettivi. 29. Ripristinare la legge contro le dimissioni in bianco. 30. Favorire la riduzione dell’orario di lavoro: defiscalizzare la riduzione d’orario e non gli straordinari. 31. Stabilire uno scarto salariale massimo da 1 a 20 (come proposto dalla Confederazione europea dei sindacati): così che la parte alta della “scala salariale” non possa aumentare senza che contemporaneamente aumenti la parte in basso. 32. Varare un Piano per il Lavoro con la creazione diretta di occupazione (non meno di un milione di posti di lavoro in settori di pubblica utilità) da parte di un’apposita Agenzia pubblica, con rami operativi e di gestione negli Enti locali. Salario medio più i contributi: 25 mila euro l’anno a testa (spesa per un milione di addetti: 25 miliardi annui). Noi intendiamo operare in una logica che punti alla piena occupazione, allo sviluppo del welfare e alla disponibilità non mercantile dei beni comuni. L’esatto opposto di quanto è andato affermandosi in questi ultimi decenni. Secondo l’Istat (dati di giugno 2012) la disoccupazione è in Italia al 10,2% (quella giovanile è al 36%), al Sud raggiunge il picco di 48,3%: ma se consideriamo gli scoraggiati che pur essendo senza lavoro hanno smesso di cercarlo, la percentuale sale almeno al 17/18%. Depressione e disoccupazione di massa sono oggi il principale problema (non il debito): come annota il premio Nobel William Vickrey, da un punto di vista macroeconomico la disoccupazione è un male assai peggiore del deficit, in quanto comporta profonde lacerazioni del tessuto sociale (povertà, criminalità, denutrizione, abbandoni scolastici, perdita dell’abitazione, sfascio familiare). Per uscire da questa pericolosa emergenza, lo Stato deve assumere direttamente, attraverso programmi di pubblica utilità, diffusi nel territorio e ad alta intensità di lavoro: ristrutturazione di acquedotti (che oggi perdono il 40% dell’acqua trasportata), ristrutturazione di scuole (metà delle quali sono oggi fuori norma), tutela dei beni culturali e artistici (un immenso patrimonio nazionale purtroppo in larga parte lasciato imputridire), riassetto idrogeologico del territorio e suo adeguamento alle nuove esigenze antisismiche (come reclamano le recenti emergenze di Liguria, Veneto ed Emilia). Parimenti, lo stato sociale – lungi dal dover essere considerato un costoso privilegio – non solo assicura il godimento di diritti conquistati con dure lotte dal movimento operaio ma, in quanto salario indiretto, assolve ad una funzione di stabilizzatore economico (fornendo beni e servizi che altrimenti graverebbero direttamente sulla retribuzione monetaria): non a caso, il Better Life Index, l’indice che misura il livello di disuguaglianza nei diversi Paesi Ocse, include tra i parametri di valutazione non solo i redditi individuali e familiari ma anche la funzionalità e l’eventuale gratuità di beni pubblici (asili nido, trasporti, ospedali ecc.). Secondo l’Istat, seguita a diminuire il potere d’acquisto delle retribuzioni italiane: nel 2011, ogni mese l’inflazione si è mangiata l’1% del salario (il dato più pesante dal 1995). Negli ultimi 15 anni, il divario dei salari netti italiani rispetto ai Paesi industrializzati è ulteriormente aumentato: su 34 Paesi, l’Italia si colloca al 22° posto, con una retribuzione media di 25.155 euro, 1.000 euro in meno della media Ocse e 4.000 in meno della media dell’Eurozona (dati Ocse 2010). Nel nostro Paese, i lavoratori delle micro-imprese (con meno di 10 addetti) guadagnano il 65,6% rispetto a coloro che lavorano in imprese con più di 250 addetti. Queste ultime sono appena 3.502 su un totale di 4 milioni e 300 mila aziende. Il nanismo industriale determina bassi salari e scarsa produttività. E’ questo il vero problema del mondo produttivo italiano; non la scarsa flessibilità, che al contrario è tra le più alte dei Paesi Ocse: tra il 1996 e il 2008 infatti la protezione del lavoro in Italia è fortemente diminuita, precipitando da un indice piuttosto alto (di 3,97) ad uno tra i più bassi (dell’1,89), mentre la flessibilità in uscita (libertà di licenziare) è di molto aumentata. In questo periodo, l’Italia è tra i Paesi che ha visto crescere di più l’indice di disuguaglianza (indice Gini). Contrariamente a quel che ripete l’ideologia dominante, un tale regresso sociale ha avuto effetti tutt’altro che benefici sull’occupazione. E’ ora di cambiare. Non lo diciamo solo noi: lo dice ad esempio anche la Fiom (e non a caso, i punti programmatici sopra indicati coincidono col complesso di richieste recentemente rivolte dal sindacato dei meccanici alle forze politiche della sinistra)

A) PREVIDENZA 33. Ripristino dei termini di pensionamento precedenti la contro-riforma Monti/Fornero.

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34.Tetto massimo per gli importi di pensione a 5.000 euro netti mensili, ivi compresi i cumuli pensionistici; aumento delle pensioni minime; diritto al minimo di pensione indipendentemente dalla contribuzione; importo di pensione mai al di sotto del 60% della retribuzione. 35. Rivalutazione periodica degli importi pensionistici, sulla base della costituzione di un paniere effettivamente rappresentativo dei consumi degli anziani. 36. Porre le pensioni sociali e i sussidi di disoccupazione a carico della fiscalità generale. 37. Permettere ai lavoratori iscritti all’Inps di aumentare la propria contribuzione pensionistica in modo facoltativo e revocabile; scoraggiare fiscalmente il ricorso ai Fondi pensionistici privati. 38. Pervenire gradualmente ad un unico valore della contribuzione, intermedio tra il 33% dei lavoratori dipendenti e il 20% degli autonomi. La preda più ambita dai tecnocrati europei e di casa nostra è la previdenza sociale. Eppure il nostro sistema previdenziale è fondamentalmente in equilibrio. Gli ultimi dati disponibili, relativi al 2009, dimostrano che il saldo tra le entrate contributive e le prestazioni pensionistiche previdenziali al netto delle ritenute fiscali è in attivo per 27,6 miliardi di euro, pari all'1,8% del Pil. Solo un artificio contabile consente alla Corte dei Conti di affermare che il sistema previdenziale è in deficit, addirittura di 77 miliardi nel 2010. Ma ciò dipende dal fatto che il fondo previdenziale è usato anche per il pagamento delle pensioni sociali e dei sussidi di disoccupazione che dovrebbero essere a carico della fiscalità generale, cioè di tutti i contribuenti. Nel 2010 i versamenti per contributi sociali sono ammontati a 214 miliardi di euro, quasi un terzo delle entrate totali dello stato: sottrarne una parte al pagamento delle pensioni risolve molti problemi, senza mettere le mani nelle tasche dei ricchi. Dopo la bellezza di sette contro-riforme nel giro di 20 anni, si torna a intervenire riducendo ulteriormente gli importi e procrastinando a dismisura l’età pensionabile. E’ ora di dire basta: una pensione dignitosa è un sacrosanto diritto, maturato dopo una vita di lavoro e garantito dal differimento di una quota di salario.

B) DARE UNA PROSPETTIVA AI GIOVANI 39. Nel quadro delle misure per l’occupazione, messa a punto di un Piano straordinario per l'occupazione giovanile, nell'ambito della riassunzione della parola d'ordine della pianificazione democratica e pubblica dell'economia, che miri all'obiettivo della lotta alla disoccupazione, al lavoro nero e per la piena occupazione. Tale piano deve essere accompagnato da una intensa campagna informativa sulla valorizzazione e trasformazione del settore pubblico, sia per allontanare ogni possibile sospetto di spesa clientelare e improduttiva, sia – e soprattutto – per affidare alle giovani generazioni una vera e propria missione di ricostruzione dell’Italia civile. 40. Varo di un Piano per l'edilizia residenziale pubblica per le giovani coppie conviventi. 41. Intervento strutturale di riforma e sostegno del diritto allo studio nella scuola dell'obbligo e fino ai cicli superiori di studi universitari, con l'aumento dei finanziamenti pubblici per scuola, Università e ricerca fino al 7% del Pil. Le suddette proposte si aggiungono a quelle della lotta al precariato e dell’introduzione di un reddito sociale, particolarmente importanti per il mondo giovanile e già incluse nella parte generale riguardante il lavoro. La condizione delle generazioni più giovani non è solo lo specchio del Paese. È un'anticipazione cupa di ciò che sarà. I dati che fotografano le generazioni tra i 15 e i 35 anni descrivono un'Italia senza futuro: 36% di disoccupazione giovanile, 4 milioni di precari, 2 milioni e mezzo di NEET, e cioè di giovani fuori contemporaneamente dai processi di formazione e da quelli di produzione. Questa precarietà, questa incertezza, è la cifra esistenziale di milioni di giovani, in balìa degli eventi, privati della stabilità contrattuale e salariale, delle tutele e dei diritti, persino del diritto a vivere dignitosamente. Sulla base di tale constatazione, le proposte che avanziamo allo scopo di affrontare e risolvere la "questione giovanile" diventano cruciali e assumono - tutte - la connotazione di proposte "generali".

LO STATO SOCIALE (WELFARE) NON E’ UN LUSSO 42. No ad una nuova stagione di privatizzazioni. In realtà, oltre al guadagno sugli interessi, il grande potere finanziario guarda a cosa si possa ricavare dalle spoglie del debitore. BCE, Fondo Monetario Internazionale, società di rating dicono agli Stati indebitati: “pagate ciò che il mercato vi impone e se non potete pagare, svendete”. Soprattutto “svendete”, perché il vero disegno della frazione di capitale dominante (in Europa, il capitale tedesco), insieme a mercanti, banche e assicurazioni, è di mettere le mani sulle proprietà degli Stati in difficoltà. Così si scopre che si scrive debito, ma si pronuncia privatizzazione: accaparramento di palazzi, spiagge, parchi, isole, ma anche acqua, scuola, sanità, elettricità, gas, strade e tutto ciò che gli stati possiedono e gestiscono. Beni comuni che la struttura pubblica dovrebbe mantenere gratuitamente a disposizione di tutti per il bene di tutti, sottraendoli al dominio di profitto e rendita. E invece – come anche il governo Monti insegna –

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si continua a perseguire due sole strade, entrambe esplosive: la riduzione delle spese sociali e la svendita del patrimonio pubblico (dal 1992 ad oggi sono stati trasferiti a privati oltre 150 miliardi di euro di patrimonio collettivo, soprattutto imprese pubbliche). Opporsi alla svendita del patrimonio pubblico costituisce una priorità per una politica economica della sinistra: in tale direzione vanno, tra l’altro, il netto responso referendario in difesa della pubblicità del servizio idrico e dei servizi pubblici in generale e la recente importante sentenza della Corte Costituzionale secondo cui non c’è obbligo per gli Enti locali di vendere le aziende municipalizzate pubbliche.

A) SANITA’ 43. Invertire la politica dei tagli che stanno devastando la Sanità pubblica. Sostenere la ricerca e la formazione da intendersi come ineludibili investimenti per il futuro. 44. Modificare l’attuale legislazione sanitaria, trasformando le aziende sanitarie e ospedaliere da casematte dell’aziendalizzazione a presidi di efficienza e di democrazia, entro i quali la Sanità risponda unicamente al criterio delle competenze e sia liberata da logiche politicistiche ed economicistiche. Affrontare con decisione il problema dilagante della corruzione e delle infiltrazioni mafiose. Sottrarre ai governatori e agli assessori regionali alla sanità l’esclusiva del potere dell’ accreditamento di strutture private. 45. Istituire un albo dei direttori generali al quale poter accedere solo in presenza di competenze riconosciute e dal quale obbligatoriamente selezionare i nomi dei direttori generali. Centralizzare a livello nazionale e rendere vincolanti i tariffari delle prestazioni e della tecnologia sanitaria. Creare dei centri di controllo anticorruzione affidati all’autorità centrale. Come l’esperienza internazionale insegna, una buona Sanità non può che essere pubblica. Per questo occorre utilizzare il privato solo come strumento e non come fine. Alla subcultura aziendale della salute intesa come merce va contrapposta l’universalità del diritto alla salute, così come sancito dalla Costituzione e dalla legge 833. L’aziendalizzazione delle Unità sanitarie locali, sancita a partire dai decreti 502 e 517 e confermata dal decreto legge della Presidenza del Consiglio (dlps) 229 del 1999, invece che ottenere una razionalizzazione della spesa ed una autonomizzazione dalla cattiva politica, ha fatto precipitare la sanità nel caos. I costi di gestione, anziché ridursi, sono schizzati alle stelle, giustificando piani di rientro “lacrime e sangue” che stanno praticamente strangolando la Sanità pubblica. Gli assetti politici delle regioni hanno imposto, attraverso la nomina di direttori generali scelti con criteri clientelari, la legge implacabile del trinomio “cattiva politica-affari-corruzione”. Tutto ciò ha finito per colpire di più proprio chi ha più bisogno di essere sostenuto e protetto e cioè le fasce sociali più deboli e vulnerabili. . 46. Rovesciare una visione della sanità centrata tutta sull’ospedale. Sviluppare l’Assistenza domiciliare e l’Ospedalizzazione a domicilio, in accordo con il principio che il ricovero ospedaliero o in strutture residenziali vada riservato a casi non trattabili altrimenti. 47. Rilanciare la Sanità territoriale (il Distretto) e l’integrazione socio-sanitaria. Governare il rapporto fra numero di posti letto e popolazione, in relazione alle esigenze territoriali e alle necessità prevalenti. Ridurre le liste d’attesa, razionalizzando la domanda con l’introduzione del principio dell’appropriatezza prescrittiva e abolendo la pratica ambigua dell’intramoenia. 48. Sviluppare e rilanciare i consultori materno-infantili. 49. Rifondare fin dalla formazione universitaria la figura del medico di famiglia, il quale dovrebbe sburocratizzarsi e essere liberato dalle ambiguità di un ruolo sospeso fra libera professione e dipendenza pubblica. Una cultura della malattia consapevole dell’interdipendenza fra aspetti sociali, ambientali e biopsicologici dovrebbe ispirare questa nuova figura di medico. Valorizzare nei territori e negli ospedali le figure sanitarie specialistiche portatrici di una visione generalistica e unitaria della medicina (internisti, geriatri). Nel corso degli ultimi decenni, interessi politici ed economici convergenti hanno fatto sì che il denaro pubblico si spostasse tutto in direzione del finanziamento dell’Ospedale, nonostante che la domanda sanitaria prevalente sia extraospedaliera. Questa pratica ha fatto sì che la Sanità territoriale andasse incontro a un processo di irreversibile depauperamento e, conseguentemente, che gli ospedali e i pronto-soccorsi finissero per esplodere a causa di una impropria quanto massiccia azione di supplenza del territorio stesso. Gli unici presidi territoriali che si sono sviluppati sono stati quelli privati accreditati che rispondono agli interressi degli imprenditori e dei politici che li creano e li sostengono. Questo sistema soggiace, in particolare in alcune regioni, al controllo del tutto ademocratico dei vari governatori e assessori regionali alla sanità che utilizzano i direttori generali come sentinelle del loro potere. Lo smantellamento della Sanità territoriale ha fatto sì che venissero meno i presupposti che informavano la riforma sanitaria 833. Ci riferiamo alla prevenzione, alle cure intermedie, alla riabilitazione. In particolare l’abbandono dell’orizzonte della prevenzione ha comportato l’impossibilità di diminuire la morbilità e i costi correlati ad essa. La forte riduzione o la burocratizzazione di figure sanitarie in grado di essere gestori di percorsi diagnostici e curativi pensati sulle specifiche esigenze dei singoli pazienti (medici di medicina generale, internisti e geriatri) ha creato i presupposti per una diffusa inadeguatezza prescrittiva di esami e di farmaci, con lievitazione folle dei costi e danno per la salute pubblica. Il ricorso alla istituzionalizzazione come unico rimedio alla cronicità ha aumentato la spesa a

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dismisura e peggiorato la qualità delle cure. Così come l’utilizzo massiccio di figure mediche e paramediche precarie ha creato sacche di supersfruttamento e aumento della spesa per i costi elevatissimi dell’intermediazione.

B) ASSISTENZA SOCIALE 50. Definire i livelli essenziali delle prestazioni sociali per rendere esigibili diritti e servizi uniformemente su tutto il territorio nazionale. 51. Definire un Piano nazionale sulla non autosufficienza, favorendo maggiore integrazione socio-sanitaria, assistenza domiciliare e deospedalizzazione. A tal proposito va ripristinato il fondo nazionale con almeno 1 miliardo di euro. 52. Rifinanziare il fondo nazionale per le politiche sociali con almeno 1,5 miliardi al fine di rafforzare la rete dei servizi sociali pubblici, dall’assistenza alle persone con disabilità agli asili nido, i cui tassi di copertura vanno incrementati per avvicinarli a quelli previsti dal Quadro Strategico Nazionale (QSN) 2007-2013 (12%) e dagli obiettivi di Lisbona (33%). 53. Svincolare dal patto di stabilità interno dei comuni gli investimenti sul sociale. 54. Stabilire a livello nazionale criteri equi di partecipazione alla spesa sociale, vincolati al principio costituzionale di progressività, tutelando redditi bassi e famiglie con persone con disabilità, considerando il lavoro di cura (diretto e indiretto) dei famigliari ed escludendo dal calcolo reddituale trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari esenti da Irpef. 55. Modificare il sistema degli appalti pubblici vietando i ricorsi (formali o reali) al massimo ribasso e prevedendo clausole di tutela dei diritti dei lavoratori sociali, a partire dal rispetto dei contratti nazionali di lavoro (CC.NN.LL.). Inoltre, vanno definite le figure professionali di rilievo nazionale per il comparto sociale al fine di garantire sia l’efficacia delle prestazioni che le tutele dei lavoratori. Nella crisi aumentano disoccupazione, povertà, disuguaglianze. Contemporaneamente lo stato sociale viene smantellato, riducendo così la capacità di risposta ai bisogni, vecchi e nuovi, da parte delle istituzioni pubbliche. L’azzeramento del fondo nazionale sulla non autosufficienza, il quasi azzeramento di quello per le politiche sociali (passato da 1 miliardo nel 2008 a pochi milioni di euro nel 2012), i tagli agli enti locali stanno determinando un forte ridimensionamento, quando non la chiusura, di servizi e prestazioni sociali. I diritti sociali costituzionalmente garantiti vengono così negati. Anziani, persone con disabilità, minori e lavoratori del settore vengono abbandonati a loro stessi in nome del rigore e del bilancio, facendo emergere una concezione folle che considera le risorse per il sociale costi improduttivi da tagliare. “Non si può pensare che lo Stato sia in grado di fornire tutto in termini di trasferimenti e servizi. Sia il privato che lavora per il profitto sia il volontariato no profit sono necessari per superare i vincoli di risorse. Il privato, in più del pubblico, possiede anche la creatività per innovare e per creare prodotti che aiutino i disabili. La sinergia tra pubblico e privato va quindi rafforzata” (Ministro del Lavoro, Elsa Fornero – maggio 2012). Le parole hanno un peso, ma diventano macigni quando si trasformano in realtà. Questo governo, come il precedente, sta favorendo un processo di progressivo arretramento del pubblico per lasciare spazio al mercato, libero di fare profitto anche sul sociale, a partire dalle polizze assicurative per poter accedere a determinati servizi e prestazioni. Lo stato, grazie a Berlusconi, ieri, e a Monti, oggi, non rimuove più gli ostacoli all’uguaglianza sociale. La Costituzione diventa così lettera morta. Finora si è riusciti ad evitare il peggio grazie all’intervento degli Enti locali, che sono riusciti in parte ad ammortizzare l’impatto dei tagli con risorse proprie, e al welfare familiare, con un ulteriore appesantimento del carico del lavoro di cura da parte dei familiari, soprattutto donne, costrette a sostituirsi al pubblico per garantire assistenza. Basti ricordare che solo un anziano non autosufficiente su cinque usufruisce dell’assistenza domiciliare. Invertire la tendenza. Si tratta di sostenere una cultura politica che rimetta al centro il tema delle risorse per il sociale come investimenti per il futuro e non come costi da tagliare, che tenga insieme libertà e uguaglianza, sviluppo economico, sviluppo sociale, giustizia redistributiva. Ma non vogliamo rivendicare maggiore risorse e basta. Vogliamo promuovere un nuovo modello di organizzazione di welfare pubblico e universalistico, in grado di rispondere ai bisogni nella crisi, ma anche di creare quelle condizioni di redistribuzione di reddito e benessere, di prevenzione delle disuguaglianze, facilitanti uno sviluppo sociale, economico e occupazionale sostenibile. Un sistema integrato di servizi, sociali e sociosanitari, ben organizzato, con le giuste professionalità può favorire inclusione sociale e lavorativa delle persone. Un modello di welfare pubblico contro derive caritatevoli e privatistiche. Il pubblico deve riprendere il ruolo chiave di programmazione, attuazione e controllo dei piani di intervento sociale, incentivando la partecipazione dei soggetti del terzo settore e della cittadinanza. Il privato sociale deve allargare la sfera dei servizi pubblici senza sostituirli. I cittadini devono poter partecipare alle scelte che li riguardano e poter valutare l’efficacia degli interventi. I lavoratori sociali, che rappresentano la colonna portante dei sistemi di welfare locale, devono vedersi garantiti i diritti ad un salario dignitoso e ad una maggiore stabilità.

C) ABITARE E CONDIZIONE URBANA 56. Blocco degli sfratti, compresa la morosità incolpevole.

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57. Piano nazionale e territoriale per affitti sociali (così da penalizzare la rendita e governare il mercato); investimento strategico sul recupero urbano e sul riutilizzo ai fini della residenza sociale del patrimonio pubblico e delle aree dismesse. 58. Operare per un serio intervento legislativo che elimini il libero mercato degli affitti e introduca criteri oggettivi per la determinazione dei canoni privati (un nuovo “canone equo”). 59. Prelievo dell’1% sul valore catastale medio dei 6 milioni di immobili vuoti (per l’erario sono oltre 6 miliardi l’anno di entrate); condurre una decisa lotta all’evasione del canone (secondo le statistiche, tra 500 mila e 1 milione e mezzo di canoni vengono nascosti al fisco: per un affitto medio, fanno tra i 3,5 miliardi e i 10 miliardi di euro di reddito sottratti); abolire la cedolare secca sugli affitti (una tassa piatta, non progressiva, che ha regalato circa 1 miliardo e mezzo alla rendita immobiliare) e introdurre una tassazione che rispetti il principio della progressività dell’imposizione sul reddito. 60. Introdurre una moderna (ed europea) legge sui suoli che colpisca la rendita fondiaria parassitaria. Casa. Occorre rompere con l’espressione “emergenza casa”. L’emergenza è provocata da un terremoto, da una catastrofe naturale. Parlare di casa in maniera emergenziale è un modo per espungere la questione dalla politica, farne un problema marginale e circoscritto. Invece, la questione casa e più in generale la questione dell’immobiliare e del peso della rendita nel sistema economico è un tema strutturale della società. Inoltre, il tema dell’abitare e della condizione urbana è il tema della città, del governo democratico del territorio, dello svuotamento della residenza popolare dai centri storici e della sua espulsione economica, è il “case senza gente e gente senza case”. E’ il prevalere delle politiche neoliberiste di deregolamentazione del territorio e di abbandono di qualsiasi idea di programmazione pubblica. E’ la formula imperante della cosiddetta “urbanistica contrattata”, formula pudica che si traduce nella sottomissione del governo pubblico del territorio agli interessi e alle logiche del mercato immobiliare e della rendita fondiaria. In nome dell’emergenza, tutto è permesso. L’emergenza evoca una legislazione di emergenza e la soppressione o sospensione delle regole e dei controlli. Nel nome dell’emergenza sono passate le peggiori nefandezze, le cementificazioni più selvagge, le speculazioni più scandalose; nei casi migliori, essa ha prodotto solo interventi marginali. Bisogna considerare l’abitare come un problema politico generale da affrontare con interventi strutturali. Serve una politica sociale della casa, occorre intervenire in maniera strutturale. Questa è la direzione di marcia strategica che indichiamo: un grande piano nazionale e territoriale per l’abitazione sociale. Serve un intervento, programmato negli anni, con un rapporto solidale tra Stato, Regioni ed Enti locali per aumentare l’offerta di alloggi a canone sociale e portarla verso la media europea, che è circa 4 volte quella italiana. Serve un investimento strategico sul recupero urbano e sul riutilizzo ai fini della residenza sociale del patrimonio pubblico e delle aree dismesse. L’ultima grande iniziativa sull’abitare sociale in Italia è stato il piano di ricostruzione del dopoguerra (l’INA CASA). Nelle diverse condizioni di antropizzazione e di saturazione edilizia del Paese, occorre un intervento di quelle dimensioni che, per le ragioni suddette si deve fondare sul riuso e il recupero urbano e deve avere nel patrimonio pubblico il suo asse fondamentale. Un piano di “valorizzazione umana” del patrimonio pubblico che è evidentemente alternativo alla dismissione speculativa che prepara il governo e che è l’ennesima riproposizione delle forme di finanziarizzazione immobiliare che sono tra le cause della crisi. La politica del recupero urbano è un grande investimento pubblico alternativo alle cosiddette “grandi opere” che devastano il territorio e sono giustamente combattute dalle comunità locali (come è il caso della TAV in Val Susa e non solo). Come la difesa del suolo e il risanamento idrogeologico del territorio, il recupero urbano e il riuso del patrimonio abbandonato e in disuso ai fini dell’incremento dell’edilizia residenziale pubblica sono grandi occasioni di creazione di lavoro, di ammodernamento infrastrutturale, di abbellimento e arricchimento delle città, di risposta alla crisi sociale ed economica.

Come si finanzia una nuova politica sociale dell’abitare? Dal dopoguerra, in Italia, la politica sociale della casa, finché c’è stata, è stata finanziata dai lavoratori. La prima discussione fu con il cosiddetto “Piano Fanfani” del 1949. Forse il principale punto di contrasto con il PCI (relatore di minoranza era Di Vittorio) consisteva nel fatto che si finanziava con trattenute sul mondo del lavoro, invece che con la fiscalità generale. Poi fu la volta della GESCAL, nel 1960, con un prelievo sulle buste paga dei lavoratori dipendenti. Alla sua cancellazione, con la madre di tutte le successive controriforme previdenziali (quella Dini del 1995), è subentrata la crisi e poi la fine dell’Edilizia Residenziale Pubblica (ERP). La nostra proposta è invertire questa impostazione: il finanziamento della politica sociale della casa si fa attraverso il prelievo sulla speculazione fondiaria e immobiliare: sia come restituzione, almeno in parte, di quanto lucrato in questi anni, sia come leva di una nuova politica economica. Alcuni brevi esempi. Ci sono in Italia, oltre 6 milioni di immobili vuoti (spesso coprono l’evasione). L’1% sul valore catastale medio, fa oltre 6 miliardi l’anno di entrate. Secondo le statistiche, tra 500 mila e 1 milione e mezzo di canoni vengono nascosti al fisco. Per un affitto medio, fanno tra i 3,5 miliardi e i 10 miliardi di euro di reddito sottratti. Con l’introduzione della cedolare secca sugli affitti, una tassa piatta che contraddice il principio della progressività dell’imposizione sul reddito, si è regalato circa 1 miliardo e mezzo alla rendita immobiliare.

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Tutto ciò senza neanche mettere mano, come è giusto e necessario, a un serio percorso riformatore e introdurre, per esempio, una moderna (ed europea) legge sui suoli che colpisca la rendita fondiaria parassitaria. Insomma, il peso fiscale va spostato attraverso una imposizione patrimoniale, salvaguardando la casa di abitazione come forma di finanziamento della politica sociale della casa, che è anche leva di una nuova politica economica e sociale. Altre linee di intervento fondamentali, come quella dell’intervento legislativo per eliminare il libero mercato degli affitti e introdurre criteri oggettivi per la determinazione dei canoni privati (un nuovo “canone equo”) e il blocco degli sfratti, compresa la morosità incolpevole, per permettere di decollare alla misura strategica del piano per l’abitazione sociale, vanno considerate dentro questo quadro fondamentale.

Città e territorio. Appare evidente come la crisi economico-finanziaria venga utilizzata strumentalmente come potente ed efficace leva per devastare ulteriormente il territorio e l'ambiente. In una situazione drammatica (dal punto di vista delle risorse economiche disponibili e aggravata da un insensato patto di stabilità), per gli Enti Locali, specificatamente per i Comuni e pur con l'ossigeno dell'IMU (che però graverà pesantemente sul bilancio delle famiglie), la ricerca di introitare oneri di urbanizzazione diventa quasi spasmodica. L'utilizzo della pratica dell'urbanistica contrattata, favorita dall'utilizzo sistematico delle Conferenze dei servizi (che introdotte per eventi eccezionali sono ormai divenute prassi corrente) è diventata ormai la norma per una moltitudine di amministrazioni comunali, alla faccia dell'urbanistica partecipata. Un tempo l'urbanistica progressista vedeva nel contenimento della rendita fondiaria non solo la possibilità di destinare nuove risorse ad usi più produttivi e socialmente più utili, ma anche di rivendicare una democrazia nelle decisioni su quel bene primariamente pubblico e collettivo che è l’uso della città, del territorio, dell’ambiente. Oggi, in questa frenesia di privatismo che sembra coinvolgere sia la camaleontica maggioranza parlamentare sia le variate alternanze maggioranza-opposizione delle Amministrazioni locali, nemmeno le idee sono più di libera disponibilità, come accadrebbe in una pianificazione promossa da proposte dall’Ente pubblico. Esse, invece, in questo modo appartengono privatamente a qualcuno. Il Comune e i cittadini sono, cioè, liberi di discutere solo le impostazioni progettuali e insediative dell’acquirente con cui il proprietario delle aree ha stretto un contratto, di chi – col più caro prezzo pagato – si è comprato anche il diritto di essere padrone delle idee della città e suo interlocutore unico. Siamo praticamente tornati a prima della Legge Ponte del 1967, quella che pose fine alla sciagurata pratica delle “convenzioni” senza Piano Regolatore dopo l'impressionante frana di Agrigento del 1966; oggi abbiamo frane e alluvioni in gran parte ereditate da quel periodo e aggravate in questi ultimi anni, eppure non sappiamo rendercene conto!

61. Per invertire questa tendenza, ormai progressivamente dilagata come prassi diffusa sia tra compagini amministrative di centro-sinistra che di centro-destra occorre: a) Uscire dalle pratiche derogatorie! Abrogando le norme che istituiscono i PII in deroga alla pianificazione pubblica generale, facendosi guidare da interessi e progetti privati che scardinano i dettati del D.M. n. 1444/68 (standard di aree pubbliche, criteri di calcolo del peso insediativo, limiti di altezza e distanza tra nuovi insediamenti e edifici preesistenti, ecc.); b) Salvaguardare e ripristinare il patrimonio di conquiste maturato tra il 1975 con la prima Legge urbanistica regionale della Lombardia e il 1998 con ultima seria Legge urbanistica della Basilicata, sotto l'egida di un INU non ancora filoderegolativo e neomercatista: la conferenza delle Regioni deve sancire l'obiettivo di una base standard “europea” (per altro già previsti) per: i servizi di quartiere, grandi servizi urbani e parchi territoriali non scambiabili con valori economico-finanziari di sostegno alla realizzazione di opere pubbliche; c) Ripristinare il “vigore” dell'art. 13 della L. 10/77 (illegittimamente non trasferito nel TU sull'edilizia nel 2001, ratificata dal Ministro del Tesoro e Finanze Tremonti nel 2004) articolo che obbligava le Tesorerie comunali ad allocare gli oneri di urbanizzazione in un capitolo vincolato a tale scopo, anziché andare a tappare i buchi delle spese correnti, ciò che incentiva la “svendita di territorio” per fare cassa; d) Contrastare l'urbanistica “creativa” degli standard “qualitativi” (in pratica meno aree pubbliche – comprese quelle dei parchi pubblici territoriali - cedute a fronte di opere pubbliche più costose (spesso inutilmente!). Occorre ripristinare il principio del DM n. 1444/68: le aree sono aree e vanno cedute gratuitamente per farne uso pubblico; le opere sono opere ed è giusto poter discutere di quali, quante e quanto costose debbano essere senza compromettere la qualità e densità insediativa della città e del territorio; e) Rendere le VAS (Valutazione Ambientale Strategica) degli strumenti di pianificazione generale di lungo periodo, sovraordinate e cogenti su quelle degli strumenti attuativi e derogatori (AdP, PII, ecc.), che per il loro limitato orizzonte temporale non possono essere “strategiche” se non in modo burocratico e nominale; f) Sancire l'interesse legittimo dei cittadini a ricorrere a tutela e difesa della qualità urbana e ambientale (dando piena attuazione all'Accordo di Aarhus che prevede ciò anche in forma gratuita) contro gli accordi ristretti tra Amministrazioni pubbliche compiacenti e poteri finanziario-politico-immobiliari “forti”, incentivando le forme di partecipazione attiva alle formazione delle scelte insediative e progettuali su città e territorio.

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PER UN NUOVO MODELLO DI SVILUPPO (I): INTERVENTO PUBBLICO E RILANCIO DELLE POLITICHE INDUSTRIALI E CREDITIZIE

62. Formulare una politica industriale nazionale sostenuta da un’Agenzia centrale ramificata territorialmente, che definisca (nel confronto con i diversi attori) un Programma nazionale per l’industria, unifichi metodologie d’intervento, criteri e soggetti della verifica e della valutazione, affiancando e rendendo coerenti le molteplici iniziative regionali e locali di intervento pubblico. Varare un Piano straordinario per la tecnologia. Promuovere ricerca e sviluppo, pervenire alla produzione di tecnologia e di prodotti ad alta tecnologia (settori ad alta intensità di conoscenza e di lavoro). 63. Contro la deindustrializzazione del Paese: a) Bloccare le delocalizzazioni b) Estendere le politiche di intervento pubblico per le aziende in crisi (Prodi bis) alle piccole imprese e regionalizzarne l’attuazione c) Utilizzare le Società Finanziarie Regionali e la Cassa Depositi e Prestiti con funzioni di re-industrializzazione e/o di ingresso nel capitale di società industriali. Il punto di partenza deve essere la constatazione di cosa è oggi il tessuto produttivo in Italia: un sistema caratterizzato da due problemi fondamentali, di eguale peso. Il primo è quello – spesso sottaciuto – della scarsa capitalizzazione delle grandi imprese italiane, fenomeno direttamente correlato all’opposta crescita dei patrimoni dei singoli imprenditori o dei singoli gruppi di azionisti. Tale situazione - che implica investimenti ridotti, capaci di controllare con piccoli pacchetti azionari grandi gruppi, ma incapaci di produrre innovazione e sviluppo – si è acuita con la svendita delle imprese pubbliche avviata negli anni 90 dal centro-sinistra, le quali sono state frammentate ed acquisite da cordate di imprenditori sprovvisti di capitali, privando così il Paese, ben più di quanto non sia accaduto in altre esperienze nazionali, di essenziali bacini di innovazione, progettazione industriale e sociale, lavoro organizzato, qualificato e consapevole. A ciò si aggiunge il secondo problema, cioè la preponderanza di piccole o piccolissime imprese impegnate prevalentemente nella produzione dei tradizionali beni del made in Italy o nelle catene di subfornitura di componenti (in particolare a vantaggio dell’industria tedesca). Piccole dimensioni di impresa e specializzazione produttiva (e basso utilizzo degli impianti) in settori maturi a scarso contenuto tecnologico rappresentano un vincolo di struttura che deve essere assolutamente superato (pur avendo cura di tutelare quelle piccole imprese che siano effetto della semplice esternalizzazione di funzioni secondarie e la cui dimensione sia economicamente funzionale o positivamente integrata nel contesto sociale). Senza un tale superamento, saremo condannati ad assistere alla bassa produttività degli investimenti (coerenti con la bassa specializzazione produttiva), orari di lavoro più lunghi, basso utilizzo degli impianti, impossibilità di consentire la crescita del sistema economico (e con esso dei redditi e dell’occupazione). Per questo le politiche industriali devono avere al centro l’obiettivo di realizzare “economia di specializzazione di seconda generazione” in grado di combinare l’aspetto dinamico delle innovazioni con quello statico delle dimensioni: imprese più grandi e collocate nei settori a maggior contenuto tecnologico, ed in particolare in quelli in grado di anticipare il ciclo economico (eventualmente affiancate da imprese più piccole, quando siano capaci di utilizzare la piccola dimensione come fattore di innovazione). Occorre un salto tecnologico. Nell’ambito di una programmazione degli interventi, va tenuto in massimo conto l’obiettivo di pervenire alla produzione di tecnologia. Elaborare, progettare e realizzare nuova tecnologia conviene molto di più che non acquistarla altrove, magari all’estero. L’attività di ricerca da cui nasce nuova tecnologia è di per sé una attività ad alta intensità di conoscenza e di lavoro, così come la produzione industriale di prodotti ad alta tecnologia. Inoltre, l’utilizzo di una tecnologia proprietaria consente di generare in tutta la filiera del processo produttivo un valore aggiunto più elevato: questo vale anche per l’occupazione (di maggior qualità e in grado di ottenere retribuzioni migliori) sia diretta che indiretta (per ogni posto di lavoro di elevato valore tecnologico se ne creano in media altri 3 o 4). In Italia, al contrario, l’orientamento largamente prevalente è quello di continuare a produrre puntando, come produttività, esclusivamente sull’intensificazione dello sfruttamento di forza lavoro scarsamente qualificata (taylorismo spinto) anziché puntare su ricerca e sviluppo, formazione, innovazione. Il gap tecnologico maturato dall’Italia nei confronti di altri paesi europei ha fatto sì che anche la mole (in alcuni casi ingente) di investimenti realizzati si sia rivelata scarsamente elastica (cioè scarsamente produttiva) in quanto realizzati per rincorrere le innovazioni realizzate da altri, per importarle sic et simpliciter senza che queste generassero alcun effetto moltiplicatore nel sistema produttivo nazionale. Ovviamente un piano straordinario per la tecnologia riguarda sia le produzioni tecnologiche esportabili in altre filiere industriali (beni di investimento come macchine, impianti, sistemi ecc…si pensi all’elettromeccanica) sia i prodotti di consumo che incorporano elevati livelli di tecnologia (elettronica di consumo ecc.). Per realizzare qualsiasi tipo di politica industriale, obiettivo preliminare deve essere quello di mantenere un tessuto industriale contrastando i principali fenomeni di deindustrializzazione. Per questo si propongono almeno tre interventi:

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1) bloccare le delocalizzazioni: va approvata una legge che ostacoli le delocalizzazioni stabilendo tre indirizzi: - La restituzione, in caso di delocalizzazione, di tutti gli incentivi pubblici ottenuti dall’azienda nei dieci anni precedenti. - L’impegno dell’azienda a ricollocare nella stessa area industriale il personale in esubero e, nel caso di inadempienza, la possibilità per un ente regionale, da costituirsi, di espropriare l’area a prezzi calmierati, per poter garantire l’occupazione offrendola a nuovi investitori. - L’inserimento di vincoli urbanistici che vincolino l’area occupata da attività produttive / industriali esclusivamente a queste finalità evitando fenomeni di speculazione urbanistica. 2) Estendere la Prodi bis anche alle piccole imprese e regionalizzarne l’attuazione: La Regionalizzazione del decreto legislativo n. 270/99 è essenziale per impegnare il Governo Regionale, con la nomina dei commissari, in una politica di intervento verso le aziende in crisi, lasciando a livello centrale solo i grandi gruppi, con più sedi e più di 2.000 dipendenti. La Regionalizzazione deve accompagnarsi con: a) L’eliminazione dei limiti dimensionali per permettere l’intervento pubblico su tutte le aziende in crisi. b) Una più esplicita possibilità giuridica del sindacato di chiedere l’intervento straordinario , finalizzato alla tutela dell’occupazione. c) La costituzione di un fondo pubblico di garanzia che sostenga i commissari nella loro opera di ricostruzione aziendale, con finanza e servizi. d) La costituzione di un albo pubblico dei commissari nel quale la graduatoria derivi dai risultati ottenuti nell’opera di risanamento più che in quella di liquidazione. 3) Utilizzare le Finanziarie Regionali (Finlombarda, Veneto Sviluppo, Finpiemonte ecc.) e il Fondo Strategico Italiano (Cassa Depositi e Prestiti) con funzioni di re-industrializzazione e/o di ingresso nel capitale di società industriali: questi veicoli finanziari pubblici vanno utilizzati per realizzare interventi attivi di reindustrializzazione, riqualificazione e riconversione industriale con la finalità di realizzare politiche industriali finalizzate all’occupazione e alla qualificazione del tessuto produttivo. Spesso le lotte dei lavoratori contro la chiusura o la dismissione di aziende si scontrano col fatto che il pubblico, di fatto, non dispone di strumenti di intervento. Questo intervento deve tener conto anche del fatto che in Italia operano molte unità produttive controllate da imprese straniere; questo fatto implica che tutte le decisioni in merito ai livelli di occupazione, alle condizioni di lavoro, alle retribuzioni, a cosa e come si produce vengono prese in altre sedi con il rischio che i costi economici e sociali di tali scelte verranno fatti ricade interamente sul nostro Paese spesso senza nessuna possibilità di interlocuzione o di intervento.

A) RILANCIARE I SETTORI INDUSTRIALI 64. Definire Piani di settore: Piano Energetico nazionale Piano nazionale della Mobilità Piano dell’Industria chimica e petrolchimica Piano della Siderurgia Piano delle ICT Piano dei Servizi pubblici locali. 65. Due interventi essenziali: Ristrutturazione dei distretti industriali per la crescita dimensionale delle imprese; Intervento su scala nazionale per la sicurezza ambientale dei siti produttivi. Si rende necessaria la definizione di politiche industriali di settore: questo non può che avvenire attraverso la predisposizione di programmi specifici da parte del settore pubblico (Governo, Regioni, Enti Locali); la messa disposizione di risorse pubbliche e, conseguentemente, un intervento pubblico da realizzarsi attraverso le società partecipate (Eni, Enel, Finmeccanica ecc.) sia attraverso veicoli pubblici di nuova costituzione. Obiettivo delle politiche industriali deve essere quello di: - creare nuova occupazione, stabile e di qualità; - ammodernare l’apparato produttivo o, meglio ancora, realizzare vere e proprie riforme di struttura che abbiano al centro 3 paradigmi centrali: il nuovo modello energetico, nuovi materiali, nuove forme di mobilità e comunicazione. Si tratta di realizzare un vero e proprio salto tecnologico, una ricostruzione delle filiere industriali, l’individuazione di nuovi settori (ovviamente quelli in grado di anticipare la domanda di beni servizi ad alto contenuto tecnologico e energetico-ambientale). Uno dei testi migliori nel definire il senso e gli obiettivi delle politiche industriali è la vecchia L. 675 del 1977 (Provvedimenti per il coordinamento della politica industriale,la ristrutturazione,la riconversione e lo sviluppo del settore). Secondo tale norma gli indirizzi di politica industriale devono essere diretti “….a stimolare la trasformazione, l'ammodernamento e lo sviluppo del sistema industriale italiano, sia per elevarne il livello tecnologico, sia per adeguare la struttura dell'offerta alle esigenze poste da una migliore collocazione nei mercati internazionali e dallo sviluppo, all'interno, dei consumi collettivi e sociali, sia per favorire il risanamento ecologico degli impianti e dei processi produttivi; ad attuare una politica organica di approvvigionamento e di razionale utilizzazione di materie prime minerarie ed energetiche; ad indirizzare le scelte degli imprenditori verso sistemi e settori produttivi a basso tasso di consumo energetico…”. Un testo quasi perfetto ma rimasto inattuato sia per le resistenze politiche, sia per la

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mancanza di strumenti pubblici efficaci. In particolare, rispetto all’esperienza passata, non dovrebbero essere replicate sia l’eccessiva proliferazione di soggetti di attuazione e controllo, sia l’eccessivo coinvolgimento delle imprese beneficiate nella definizione dei progetti, tradottosi allora in puro e semplice lobbismo a favore dei gruppi più forti. La nostra idea è quella di prevedere Piani di Settore individuando, nell’ambito degli stessi, i possibili soggetti attuatori o partecipanti di carattere pubblico: a cominciare da un Piano nazionale per l’Energia e un Piano nazionale per la Mobilità (per i quali rinviamo alla Sezione successiva). Inoltre: - Un Piano della industria chimica e petrolchimica: il settore chimico è un settore di base (che produce beni necessari ad alimentare altre filiere industriali, dall’edilizia all’auto, dall’igiene al tempo libero) ma anche un campo nel quale sperimentare la realizzazione di nuovi materiali. Il ruolo della petrolchimica per il sistema industriale di un Paese è paragonabile a quello che svolgono le infrastrutture per un territorio: creare condizioni favorevoli allo sviluppo, poiché, entrando con i suoi prodotti in numerosissimi settori della manifattura, trasferisce innovazione e ricerca all’intero sistema produttivo. La chimica è una industria basata sulla scienza, quindi sull’innovazione: nuovi materiali (come la fibra di carbonio) possono essere progettati, brevettati e prodotti da un industria chimica all’altezza (compreso l’obiettivo di quantomeno pareggiare la bilancia commerciale che sconta un disavanzo pari a 9,5 miliardi di euro, attribuibile esclusivamente alla chimica di base). Solo l’Eni dispone delle capacità industriali, scientifiche e finanziarie per una ricostruzione dell’industria chimica e petrolchimica in Italia: in questa partita il ruolo pubblico è fondamentale. - Un Piano della Siderurgia: serve un piano che punti sulla produzione di acciai speciali, comprese le produzioni di Inox, anche attraverso una maggiore verticalizzazione dei prodotti; i prodotti standard, non possono essere una prospettiva per la siderurgia italiana. Per questo si rende necessaria una specifica politica industriale con un preciso indirizzo pubblico, anche per armonizzare le necessità dei produttori con quelle dei consumatori, con misure vincolanti per tutti gli operatori del settore. Per fare questo occorre investire in ricerca e innovazione, (per questo non sono utili tante piccole e medie aziende) e devono essere promosse forme di maggiore cooperazione e sinergie tra i produttori. Vanno mantenuti i prodotti piani, che possono fornire acciaio di qualità per molte applicazioni qualificate. - Un Piano delle telecomunicazioni (ICT): si tratta di un Piano che deve incorporare i contenuti e gli obiettivi elaborati a proposito degli aspetti tecnologici e inoltre deve prevedere precisi obiettivi in termini di realizzazione del progetto di banda larga e ultralarga - fissa e mobile - (rispetto ai quali va infrastrutturato l’intero Paese e non solo le aree più remunerative come quelle metropolitane) nonché le 101 azioni dell’Agenda digitale suddivise nei sei gruppi di lavoro: infrastrutture e sicurezza, e-commerce, e-gov e open data, competenze digitali, ricerca e innovazione e smart communities. L’attivazione di un simile Piano deve tener conto anche di tutte le altre produzioni legate all’ICT (ponti radio, materiali per installazioni telefoniche, hardware e software per le telecomunicazioni ecc.) partendo dai distretti High Tech esistenti (Brianza). (Nel merito, si veda anche più avanti la sezione “Sistema delle comunicazioni”) - Un Piano dei Servizi Pubblici Locali: servizio idrico integrato, ciclo rifiuti, distribuzione locale di energia e gas sono i principali servizi pubblici locali (a cui si aggiunge il Trasporto Pubblico Locale trattato nel punto sulla mobilità). Si tratta di servizi che devono essere gestiti da Aziende Speciali territoriali: cioè soggetti pubblici legati ai territori che, nella gestione di questi servizi, dovranno improntare la propria azione al contenimento delle tariffe/bollette; alla definizione di adeguati livelli occupazionali stabili; all’innovazione tecnologica intesa quale elemento per una gestione in senso ambientale di settori così importanti. Concludiamo questa parte con due importanti approfondimenti. Va attivato un intervento sui distretti industriali. l’ISTAT ha censito 156 sistemi produttivi locali caratterizzati da una elevatissima frammentazione d’impresa: basti pensare che nei 101 distretti analizzati dall’Osservatorio operano 283.000 aziende. Va da sé che le dimensioni di queste, con l’eccezione delle medie imprese leader, sono piccole o piccolissime con tutto quanto ne consegue (nessuna spesa in ricerca e sviluppo, innovazione molto bassa ecc.). In molti casi, inoltre, i distretti funzionano come reti di subfornitura alle aziende leader. Si tratta di un modello che mostra tutti i suoi limiti e che viene aggredito, nelle produzioni Made in Italy dalla concorrenza dei Paesi a basso costo del lavoro. Si rende necessaria una profonda ristrutturazione dei distretti da realizzarsi principalmente attraverso la crescita dimensionale delle imprese in particolare attraverso processi di fusione e aggregazione di unità produttive facenti parte della medesima catena di produzione ma formalmente autonome (è un processo profondamente diverso dai Contratti di Rete introdotti dal governo Berlusconi). Vanno definiti accordi su salute e sicurezza dei siti produttivi e dei territori circostanti, nonché attivate opportune ricognizioni degli effetti di produzioni a rischio ambientale e, ove necessario, interventi straordinari di bonifica eventualmente a carico della proprietà responsabile di violazioni delle norme di sicurezza. Quanto a quest’ultimo punto, emblematica è la situazione dell’area tarantina attorno allo stabilimento siderurgico dell’Ilva, già sotto inchiesta della magistratura. Nel merito, le conclusioni della perizia epidemiologica hanno sintetizzato

drammaticamente la reale condizione di quest’area ionica: "L'esposizione continuata agli inquinanti dell'atmosfera

emessi dall'impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi

dell'organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte". In una società civile degna di tal nome, non

imbarbarita dalla ricerca del profitto a qualsiasi costo ma attenta ai bisogni e alla qualità della vita dei suoi membri,

lavoro e ambiente devono convivere ed essere tutelati: come testimonia la realtà di altre zone altamente

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industrializzate, è possibile preservare la presenza di siti produttivi strategici e, insieme, tutelare la salute e la sicurezza

dei lavoratori e delle popolazioni limitrofe: a tal fine, basterebbe destinare adeguate risorse alla sicurezza degli impianti

e ai relativi aggiornamenti tecnologici.

B) POLO PUBBLICO DEL CREDITO 66. Creazione di un Polo finanziario pubblico per il credito: un servizio pubblico a gestione democratica (sottoposto a verifica da parte di forze sociali, associazioni ambientaliste e di difesa dei consumatori) e con una missione di interesse generale, costituito attraverso la “messa in rete” di banche e istituzioni finanziarie già pubbliche o semipubbliche - come la Cassa Depositi e Prestiti, che va ripubblicizzata in toto – e la nazionalizzazione di banche e compagnie di assicurazione, già privatizzate all’inizio degli anni 90 e giudicate di rilievo strategico. Occorre restituire al popolo il potere di decidere, sottraendolo alle grandi multinazionali, alle banche, agli speculatori. Sulla strada di uno sviluppo socialmente e ambientalmente equilibrato, va assunto un orientamento fondamentale: la decisione sul credito, cioè su cosa debba essere finanziato e cosa no, deve essere una decisione pubblica, politica e non privata. Se costruire pannelli fotovoltaici o cacciabombardieri non può essere una decisione privata. Così come la scelta dei settori ove investire. In questo senso, proponiamo la costituzione di un Polo pubblico del Credito, una leva pubblica (partecipata e controllata democraticamente) di finanziamento dell’attività economica, finalizzata al sostegno dell’occupazione e della formazione professionale, della piccola e media impresa, dell’eco-edilizia e dell’edilizia popolare, di programmi di sviluppo delle comunità territoriali. In tale contesto, siamo per una rinazionalizzazione integrale della Cassa Depositi e Prestiti (CDP), dal 2004 trasformata in S.p.a. con il 30% del capitale societario controllato dalle Fondazioni bancarie private. La CDP è una banca solida, con una liquidità disponibile di 130 miliardi di euro, che le viene da una raccolta di cui l’80% è postale, proviene dal risparmio dei lavoratori. Nella nuova veste di S.p.a., la CDP finanzia gli Enti Locali a tassi di mercato e investe per fare profitto (nel 2010, un utile netto di 2,7 miliardi di euro): mentre prima i prestiti agli Enti locali erano a tassi agevolati. Occorre riconvertire la ragione sociale di questo importante strumento creditizio restituendolo alla sua funzione di ente pubblico finalizzato all’interesse generale.

C) RILANCIARE IL MEZZOGIORNO 67. Piano di investimenti pubblici per un rilancio del Mezzogiorno, imperniato su: una ripresa della politica industriale, qualificata sul piano dell’innovazione, dell’occupazione, della tutela dell’ambiente; la messa in sicurezza del territorio (riassetto idrogeologico e bonifica ambientale, ristrutturazione della rete idrica, riassetto urbano e riqualificazione delle periferie); una ripresa dell’agricoltura, con la valorizzazione commerciale dei prodotti tipici e il sostegno alle filiere biologiche; un sostegno alla produzione culturale e artistica. Il tutto in una nuova e positiva rete di relazioni con i Paesi dell’area mediterranea. La storica arretratezza del Mezzogiorno ha assunto oggi i connotati del degrado generalizzato, così che la Questione meridionale è ancora e sempre di più un paradigma dell’imbarbarimento del vigente sistema sociale. Il Sud che frana - e frana in tutti i sensi - indica quello che può diventare - e già diventa - l’intera società italiana, colpita com’è dagli orientamenti neoliberisti dell’Unione Europea e, più in generale, dalla globalizzazione capitalistica. Per riprendere un discorso innovativo sul Sud e sulle sue prospettive, il punto di partenza non può che essere il profondo divario di occupazione, reddito, spesa sociale, risorse fiscali e legalità, che lo separa dal resto del Paese. La crisi economica, che assume un impatto ancora più devastante proprio nelle aree deboli, è destinata ad accentuare ulteriormente tale divario. I dati sono impietosi: la povertà assoluta e relativa interessa quasi il doppio delle famiglie monoreddito rispetto al Centro-nord. A ciò contribuisce un sistema di welfare insufficiente e inadeguato: nel Mezzogiorno, la spesa socio-assistenziale media annua pro-capite è un quarto di quella del Nord Italia. C’è anche una storia di fallimenti alle spalle di questa situazione. Sul piano economico, gli interventi speciali nel Mezzogiorno, dall’industrializzazione all’assistenzialismo, hanno lasciato irrisolti i nodi strutturali, consegnandoci una profondissima crisi dei poli industriali legati al mercato interno e ai settori innovativi della ricerca e delle comunicazioni. Sul piano del conflitto, le spinte alla riaggregazione sociale, che pure avevano alimentato le vertenze dei braccianti per la riforma agraria e poi dei lavoratori dei poli industriali, non hanno sedimentato conquiste stabili e hanno lasciato una profonda frammentazione sociale, in cui si insinuano facilmente anche i poteri criminali. Occorre una nuova stagione di programmazione economica, a partire dal lavoro e dall’ambiente. La mano pubblica è chiamata ad un forte impegno e a tal fine deve dotarsi di tutti gli strumenti più opportuni: finanziari, tecnologici, manageriali, di controllo. Occorre occupare pacificamente gli spazi urbani moltiplicando i «presìdi di civiltà», a partire dalle scuole pubbliche, ma anche incentivando l’associazionismo e il volontariato consapevole; e parallelamente occorre avviare una vasta opera di risanamento ambientale, curando l’estetica dell’arredo urbano e l’ecosostenibilità delle strutture e dei paesaggi. I termini della questione meridionale sono cambiati: essa va letta in relazione con il sistema-mondo. In particolare, il cambiamento dei flussi delle merci a livello mondiale ha creato una nuova centralità del Mediterraneo. Proprio il Mezzogiorno può diventare un’utile piattaforma di interconnessione fra Asia, Africa e Europa: una macroregione

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aperta, per la quale le vie del mare, del cielo, del ferro non siano solo le vie degli scambi commerciali, ma anche della cooperazione, della cultura e dell’integrazione. Per pervenire ad alti standard di qualità della vita dei cittadini e di capacità di innovazione delle imprese, almeno simili alla media europea, è decisivo aumentare la legalità e la sicurezza, la sanità e la previdenza, la scuola e la ricerca, i trasporti e le connessioni, i servizi urbani e i servizi alle persone. Il tema della criminalità è un banco di prova ineludibile e urgente, ma occorre porsi all’altezza della sfida odierna: facendo i conti con un intero sistema di potere che ha dissipato risorse e inquinato il tessuto sociale e produttivo, costruendo il perverso intreccio tra malaffare, politici e imprenditori, dirigenti pubblici e professionisti corrotti. Le scelte di governo hanno avuto la loro parte, in quanto hanno promosso l’evasione fiscale con i condoni, hanno alimentato il sommerso, hanno allentato la tensione etica e la lotta alla criminalità organizzata. È necessaria una forte azione, che non può essere unicamente repressiva: occorre valorizzare pienamente le risorse di cui dispone il Sud. Si può e si deve fare di più: investendo nell’istruzione avanzata (che oggi sta declinando), incrementando la spesa per ricerca e sviluppo (che si attesta su livelli bassissimi rispetto al quadro europeo). E avviando un progetto di nuova occupazione qualificata per dare lavoro ai giovani, in settori come l’ambiente e il territorio, che rappresentano la grande potenzialità di riscatto del Mezzogiorno: parliamo, in concreto, di produzioni agricole ed alimentari di qualità, della possibilità di attrazione di flussi turistici nazionali ed internazionali e, soprattutto, della possibilità di sviluppare fonti energetiche alternative. Ma da subito occorre anche un piano straordinario di riconversione delle fabbriche. Le poche preesistenze industriali del Sud vanno salvaguardate, accompagnando il blocco dei licenziamenti con l’avvio di nuove e diverse produzioni, rispettose delle persone non meno che degli ambienti: in tale ottica, l’auto elettrica negli stabilimenti Fiat del Sud, tutti a rischio di chiusura, è una strada esemplare da indicare e praticare. Così come è necessario confermare misure esplicite di sostegno al reddito e di contrasto alla povertà. Si tratta di provvedimenti che, se pure parzialmente, hanno già trovato attuazione grazie all’impegno della sinistra: dal salario di inserimento per i giovani inoccupati alle indennità corrisposte nei corsi di formazione finalizzati al lavoro.

PER UN NUOVO MODELLO DI SVILUPPO (II) : BENI COMUNI, AMBIENTE, SOVRANITA’ ALIMENTARE

La crisi ambientale, che mette a rischio la sopravvivenza stessa del pianeta, è la conseguenza, come la crisi economica, delle contraddizioni strutturali del capitalismo, che in nome del profitto assoggetta la natura ad uno sfruttamento indiscriminato. Solo l’intervento pubblico in economia e una pianificazione democratica possono creare le condizioni per la riconversione ecologica del sistema produttivo e assicurare al pianeta la tutela delle condizioni di vita, oggi messa a repentaglio dallo sfruttamento privatistico e indiscriminato delle risorse naturali (come dimostra il disastro ecologico provocato dalla BP).

A) ACQUA 68. L’acqua è una risorsa preziosa scarsa ed esauribile, un bene comune fondamentale alla vita di tutti gli esseri viventi del pianeta, un bene che “abbiamo in prestito dalle future generazioni”. Non è una merce e su di essa non si possono fare profitti. Ci battiamo per dare piena attuazione al referendum del 12 giugno 2011 per cancellare definitivamente la remunerazione del capitale investito. Proponiamo di: 69. riformulare la tariffa al fine di tutelare i consumi necessari e penalizzare lo spreco a partire dai primi 50 litri a persona giornalieri gratuiti (consumo minimo vitale), con aumenti per scaglioni successivi. 70. procedere alla ripubblicizzazione del Servizio Idrico Integrato, verificando i passi politici e giuridici necessari per trasformare le Spa a capitale pubblico in Aziende Speciali Partecipate, sia nel settore dell'acqua che negli altri servizi pubblici, così da scongiurare le alienazioni forzate di capitale pubblico di cui al Decreto Berlusconi-Tremonti del Ferragosto 2011 e al Decreto Monti bis; promuovere una nuova forma di gestione pubblica che faccia della partecipazione attiva dei cittadini e degli enti locali la sua caratteristica principale: protagonismo dei cittadini nel monitoraggio e nella definizione degli obiettivi, nella valutazione dei risultati. In sede europea è necessaria una normativa che sancisca il diritto umano universale all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari, come riconosciuto dalle Nazioni Unite, e promuova l’erogazione di servizi idrici e igienico-sanitari in quanto servizi pubblici fondamentali per tutti. Sosteniamo perciò l'iniziativa dei Cittadini Europei per l'acqua diritto umano e contro la privatizzazione del servizio idrico, affinché: 71. le istituzioni dell’Unione europea e gli Stati membri siano tenuti ad assicurare a tutti i cittadini il diritto all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari; l’UE intensifichi il proprio impegno per garantire un accesso universale all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari.

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72. l’approvvigionamento in acqua potabile e la gestione delle risorse idriche non siano soggetti alle “logiche del mercato unico” e che i servizi idrici siano esclusi da qualsiasi forma di liberalizzazione

B) UN ALTRO MODELLO DI SVILUPPO: FONTI RINNOVABILI E ECONOMIA VERDE 73. Occorre un nuovo modello di sviluppo, a partire da un Nuovo Modello Energetico che affronti la “transizione” verso un’economia a minor intensità energetica, che possa funzionare a fonti rinnovabili e a basse emissioni di carbonio. Vanno sviluppate e utilizzate tutte le fonti rinnovabili: fotovoltaico, solare termico, geotermia, eolico, moto ondoso, biomasse compatibili; e vanno incentivate tutte le filiere dell’efficienza energetica. Un altro modello di sviluppo significa fonti rinnovabili ed “economia verde” (“green economy”), ma non solo. Alcune produzioni possono essere ridotte o dismesse: pensiamo a produzioni particolarmente impattanti e nocive, all’industria bellica ecc. Altre produzioni di base, ed energivore, che comunque servono per mantenere un sistema industriale moderno, devono essere riprogettate per attenuarne gli impatti. Più in generale, molti dei prodotti e delle merci possono essere riprogettati per il loro intero ciclo di vita, recuperando efficienza nell’uso delle risorse e dell’energia necessarie e prevedendo un loro riciclo – riuso a fine vita (in alternativa ai prodotti usa e getta). Per molti di questi prodotti può essere progettato un accorciamento della filiera produttiva, dalle materie prime alla trasformazione, alla produzione e al loro uso finale, razionalizzando i consumi energetici e gli impatti ambientali. Occorre considerare le fonti, le risorse e gli usi energetici in senso complessivo: non solo per l’elettricità, ma per l’energia termica, il raffrescamento, la mobilità, la produzione di merci e manufatti. A questo fine, anche per contenere le delocalizzazioni produttive, tipiche della globalizzazione, che mettono in concorrenza i lavoratori dei diversi paesi, è possibile utilizzare strumenti impositivi che colpiscano la esagerata mobilità dei semilavorati e delle merci, gli impatti ambientali e le emissioni aggiuntive di co2. (carbon tax).

C) ENERGIA La produzione di energia elettrica causa oltre il 22% delle emissioni e quasi il 30% delle emissioni inquinanti nel nostro paese è dovuto ai trasporti. Occorre quindi un paradigma alternativo per energia e trasporti per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici e l’inquinamento di aria, acqua e suoli, per garantire un futuro all’Umanità. Varare un Piano Energetico Nazionale, coordinato tra Stato e regioni, con i seguenti obiettivi: 74. Ridurre drasticamente i consumi di energia attraverso un forte incremento dell’efficienza negli utilizzi e nella produzione di energie; incrementare la produzione e l’uso delle energie rinnovabili. 75. Abbandonare progressivamente il sistema di produzione elettrica accentrata e l’utilizzo di grandi centrali termoelettriche con grandi linee di distribuzione. Eliminare la produzione da carbone; realizzare reti di distribuzione “intelligente” sul territorio, in grado di gestire energie molto variabili nel breve tempo (caratteristica del solare diretto e indiretto). 76. Analogamente, per i fabbisogni termici, per l’acqua calda sanitaria e per il riscaldamento e il raffrescamento possono essere utilizzate le fonti più appropriate e disponibili su un territorio, riprogettando le abitazioni, sia per le nuove costruzioni che per le ristrutturazioni, i locali pubblici e di produzione, i cicli produttivi. 77. Eliminare ogni incentivo per biomasse coltivate o rifiuti e per il solare sui terreni agricoli.

L’esauribilità delle fonti primarie, le alterazioni climatiche dovute ai mutamenti dell’atmosfera, il progressivo inquinamento di aria, acqua e suoli sono provocati in gran parte dai processi di combustione dei fossili utilizzati per la produzione di energia. Essi stanno rendendo insostenibile l’attuale sistema economico e il suo modello energetico. L’attuale sistema viene alimentato per quasi l’80% da grandi centrali il cui rendimento non supera il 30-40%, tranne le centrali a gas a ciclo combinato che hanno rendimenti del 56%. Vanno poi aggiunte le dispersioni dovute alle trasmissioni e alle varie trasformazioni di tensione. Per l’Italia, queste negatività si accompagnano ormai ad una dipendenza energetica dall’estero dell’85%, livello fra i più alti d’Europa, malgrado la penisola sia un Paese fra i più ricchi di sole e di mare. Mantiene un ottimo livello di produzione da idroelettrico, sviluppata quasi un secolo fa. Per ridurre la dipendenza dall’estero, le emissioni climalteranti ed inquinanti e i conseguenti costi economici e ambientali, è indispensabile cambiare radicalmente il nostro paradigma energetico. Prima di tutto realizzando un Piano Energetico Nazionale, coordinato fra Stato e Regioni, che abbia al centro i seguenti obiettivi: a) Ridurre drasticamente i consumi di energia attraverso un forte incremento dell’efficienza negli utilizzi e nella produzione di energie. Fondamentale rendere aderente il tipo di energia fornita all’utilizzo richiesto (la necessità di energia elettrica non supera il 15% del fabbisogno energetico); b) Abbandonare progressivamente il sistema di produzione elettrica accentrata e l’utilizzo di grandi centrali termoelettriche con grandi linee di distribuzione. Eliminare la produzione da carbone; c) Riorganizzazione del sistema energetico in modo distribuito sul territorio, così da rendere aderente la capacità di produzione locale alla domanda. Per questo realizzare una rete di distribuzione “intelligente”, in grado di gestire energie molto variabili nel breve tempo (caratteristico del solare diretto e indiretto); d) Incrementare la produzione da fonti rinnovabili solari: dirette (fotovoltaico, solare termico, termodinamico), indirette (vento, moto ondoso), residui delle biomasse non diversamente utilizzabili. Occorre combattere la concorrenza sleale che si è aperta fra produzione di energia e agricoltura per l’alimentazione. I suoli non vanno

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utilizzati per piantagioni a fini energetici né per installare pannelli solari. Per questo occorre eliminare ogni incentivo per biomasse coltivate o rifiuti e per il solare sui terreni agricoli.

Investendo in ricerca e in politiche industriali pubbliche per impianti di nuova generazione per le rinnovabili, sarebbe possibile da qui al 2020 creare 250.000 nuovi posti di lavoro, con un saldo netto di 100.000 posti in più rispetto all’occupazione oggi esistente nell’insieme del settore energia. Queste scelte, inoltre, permetterebbero di rispettare il Protocollo di Kyoto e il conseguente “pacchetto Clima-Energia. Obiettivo: 20-20-20” varato dall’Unione Europea nel 2008: ridurre del 20% le emissioni di gas a effetto serra, portare al 20% il risparmio energetico e aumentare al 20% il consumo di fonti rinnovabili.

D) TRASPORTI 78. E’ prioritario sviluppare un Piano trasportistico, che favorisca il trasferimento dall’uso quotidiano delle auto e degli autotreni a mezzi alternativi e collettivi (ferroviari, fluviali, marittimi) e che configuri un Sistema Integrato della Mobilità (terra, acqua, aria). In particolare, c’è bisogno di un trasporto ferroviario locale efficiente, con nuovi treni e nuovi chilometri di reti metropolitane e tranviarie, su cui investire le risorse previste per la Tav Torino-Lione e per il 3° valico. In Italia, circa il 90% degli utenti dei servizi ferroviari viaggiano su tratte brevi o brevissime. Costretti a viaggiare su treni sporchi, privi di manutenzione, quasi sempre in ritardo o soppressi. In un contesto dove già oltre il 70% delle risorse economiche pubbliche è destinato a strade e autostrade, le Ferrovie impiegano il 95% delle proprie risorse per l’Alta Velocità, un servizio rivolto al solo 5 % dei passeggeri. Il pendolarismo è otto volte superiore a quello che ogni giorno si sposta sui treni a percorrenza nazionale (un milione e seicentomila contro 200 mila circa). Un servizio migliorato può togliere una quota rilevantissima di spostamenti che oggi avvengono in automobile. Invece, ogni giorno: ritardi, corse soppresse senza avviso, guasti, sovraffollamento, degrado del materiale rotabile e sporcizia sono diventati la triste normalità dei treni locali. Molte linee sono ancora a binario unico, determinando velocità e cadenze dei treni regionali estremamente basse. I trasporti in Italia hanno subito gravi peggioramenti negli ultimi 20 anni. Questo è avvenuto perché decine di miliardi di euro sono stati dirottati sulle linee TAV. Si sono caricati 44 miliardi di euro di debito a carico dello Stato per realizzare le linee che ora verranno messe a disposizione dei nuovi treni di Montezemolo e altre società private. L’Italia ha bisogno di un trasporto ferroviario locale efficiente, con nuovi treni per garantire a tutti i cittadini il diritto ad una mobilità libera e sostenibile. Occorrono nuovi chilometri di reti metropolitane e tranviarie, servono mezzi di trasporto pubblici con energia pulita e servizi innovativi per la mobilità sostenibile. Occorrono stazioni ravvicinate in aree urbane, con parcheggi di interscambio (auto, motorini e bici), facilmente accessibili per i portatori di handicap. I soldi ci sono, è sufficiente utilizzare i 30 miliardi di euro previsti per la TAV Torino-Lione e il 3° Valico. Evitando così un grave danno alla Val di Susa e alla Valle Scrivia, potenziando il sistema ferroviario.

E) OBIETTIVO: RIFIUTI ZERO 79. E’ necessario un cambio di marcia anche sulla gestione dei rifiuti; proponiamo 10 passi verso rifiuti zero: a) separazione alla fonte: organizzare la raccolta differenziata. b) raccolta differenziata "porta a porta", c) impianti di compostaggio prevalentemente in aree rurali d) piattaforme impiantistiche per il riciclaggio e il recupero dei materiali, e) riduzione dei rifiuti f) centri per la riparazione, il riuso e la decostruzione degli edifici, in cui beni durevoli, mobili, vestiti, infissi, sanitari, elettrodomestici, vengono riparati, riutilizzati e venduti. g) sistemi di tariffazione che facciano pagare le utenze sulla base della produzione effettiva di rifiuti non riciclabili da raccogliere. h) realizzazione di un impianto di recupero e selezione dei rifiuti, in modo da recuperare altri materiali riciclabili sfuggiti alla Raccolta Differenziata, i) centro di ricerca e riprogettazione: chiusura del ciclo e analisi del residuo a valle, finalizzata alla riprogettazione industriale degli oggetti non riciclabili, e alla promozione di buone pratiche di acquisto, produzione e consumo. l) raggiungimento entro il 2020 dell' azzeramento dei rifiuti. La logica speculativa neoliberista considera i rifiuti una merce fondamentale del meccanismo di riproduzione del capitale. Il business si concentra su due forme di speculazione: 1) l’occupazione di intere porzioni di territorio attraverso lo smaltimento in discarica dei rifiuti speciali e pericolosi e delle frazioni di rifiuto organico non compostato; 2) la produzione di una minima quantità di energia, attraverso l’incenerimento delle frazioni di rifiuto indifferenziato per intascare contribuiti europei CIP 6. A questa logica distruttiva per le matrici ambientali, noi contrapponiamo quella che riduce a zero la produzione di rifiuti non riciclabili, attraverso: a) politiche di prevenzione della produzione di rifiuti; b) riuso dei materiali finiti recuperabili; c) riciclaggio delle frazioni di materia prima, recuperate con la pratica della raccolta differenziata porta a porta; d) produzione di compost di qualità derivante dal trattamento della frazione

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organica separata dalle altre frazioni; e) produzione di manufatti derivanti dai residui dei rifiuti non altrimenti riciclabili attraverso il procedimento dell’estrusione industriale. Tutti gli indici di sostenibilità ambientale a livello internazionale denunciano un impatto umano superiore mediamente oltre un terzo rispetto alla capacità bioriproduttiva del pianeta. In Italia in media il 65% dei materiali che vengono estratti dall’ambiente con enormi costi energetici ed ambientali ritorna all’ambiente sotto forma di problematica ambientale in discarica e circa un 10% con impatti ambientali ancora maggiori in inceneritori. Ogni anno la produzione di rifiuti urbani si attesta attorno ai 30 milioni di tonnellate di cui 17 finiscono in discarica, 5 negli inceneritori ed il restante 30 % viene riciclato con grandi disparità tra Nord e Sud del Paese. In Europa. L’Unione Europea (Risoluzione PE, 20 aprile 2012) è orientata alla piena attuazione della legislazione sui rifiuti, in particolare che debbano essere fissati obiettivi di prevenzione, riutilizzo e riciclaggio più ambiziosi, tra cui una netta riduzione della produzione di rifiuti e l’impossibilità di inviare a smaltimento materiali riciclabili. La normativa di riferimento è individuata dalla Direttiva 2008/98/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008. Essa individua una specifica gerarchia per la gestione dei rifiuti che definisce il seguente ordine di priorità: a) prevenzione della produzione; b) preparazione per il riutilizzo; c) riciclaggio; d) recupero di altro tipo (ad es. energetico); e) smaltimento. In Italia. A livello nazionale, non è stato recepito ancora nessun obiettivo concreto sulla riduzione degli scarti mentre sul riciclo è stato reso obbligatorio l’obiettivo minimo di raccolta differenziata al 65% entro la fine del 2012. Siamo ben lontani da questi obiettivi che invece devono essere raggiunti quanto prima e comporterebbero una maggior sostenibilità ambientale, la creazione di migliaia di posti di lavoro e la riduzione delle spese di smaltimento. A livello mondiale, sta crescendo sempre più nei movimenti e in decine di Enti Locali la strategia Rifiuti Zero che punta all’eliminazione entro il 2020 dei rifiuti inviati a smaltimento Il Comune di Capannori per primo in Italia nel 2007 ha deliberato l’adesione alla Strategia Rifiuti Zero arrivando in pochi anni a punte di oltre il 90% di differenziata. Ad oggi oltre 75 comuni in tutta Italia hanno aderito alla strategia tra cui anche grandi realtà come Napoli che ha iniziato la conversione del sistema di raccolta dal cassonetto al Porta a Porta. Proponiamo 10 passi verso rifiuti zero (è la proposta dell’omonimo movimento nazionale Rifiuti Zero): a) separazione alla fonte: organizzare la raccolta differenziata (RD). La gestione dei rifiuti non e' un problema tecnologico, ma organizzativo, dove il valore aggiunto non e' quindi la tecnologia, ma il coinvolgimento della comunità chiamata a collaborare in un passaggio chiave per attuare la sostenibilità ambientale. b) raccolta porta a porta: organizzare una raccolta differenziata "porta a porta", che appare l'unico sistema efficace di RD in grado di raggiungere in poco tempo e su larga scala quote percentuali superiori al 70%. Quattro contenitori per organico, carta, multi materiale e residuo, il cui ritiro e' previsto secondo un calendario settimanale prestabilito. c) compostaggio: realizzazione di un impianto di compostaggio da prevedere prevalentemente in aree rurali e quindi vicine ai luoghi di utilizzo da parte degli agricoltori. d) riciclaggio: realizzazione di piattaforme impiantistiche per il riciclaggio e il recupero dei materiali, finalizzato al reinserimento nella filiera produttiva. e) riduzione dei rifiuti: diffusione del compostaggio domestico, sostituzione delle stoviglie e bottiglie in plastica, utilizzo dell'acqua del rubinetto (più sana e controllata di quella in bottiglia), utilizzo dei pannolini lavabili, acquisto alla spina di latte, bevande, detergenti, prodotti alimentari, sostituzione degli shoppers in plastica con sporte riutilizzabili. f) riuso e riparazione: realizzazione di centri per la riparazione, il riuso e la decostruzione degli edifici, in cui beni durevoli, mobili, vestiti, infissi, sanitari, elettrodomestici, vengono riparati, riutilizzati e venduti. Questa tipologia di materiali, che costituisce circa il 3% del totale degli scarti, riveste però un grande valore economico, che può arricchire le imprese locali, con un'ottima resa occupazionale dimostrata da molte esperienze in Nord America e in Australia. g) tariffazione puntuale: introduzione di sistemi di tariffazione che facciano pagare le utenze sulla base della produzione effettiva di rifiuti non riciclabili da raccogliere. Questo meccanismo premia il comportamento virtuoso dei cittadini e li incoraggia ad acquisti più consapevoli. h) recupero dei rifiuti: realizzazione di un impianto di recupero e selezione dei rifiuti, in modo da recuperare altri materiali riciclabili sfuggiti alla RD, impedire che rifiuti tossici possano essere inviati nella discarica pubblica transitoria e stabilizzare la frazione organica residua. i) centro di ricerca e riprogettazione: chiusura del ciclo e analisi del residuo a valle di RD, recupero, riutilizzo, riparazione, riciclaggio, finalizzata alla riprogettazione industriale degli oggetti non riciclabili, e alla fornitura di un feedback alle imprese (realizzando la Responsabilità Estesa del Produttore) e alla promozione di buone pratiche di acquisto, produzione e consumo. l) azzeramento rifiuti: raggiungimento entro il 2020 dell' azzeramento dei rifiuti, ricordando che la strategia Rifiuti Zero si situa oltre il riciclaggio. In questo modo Rifiuti Zero, innescato dal "trampolino" del porta a porta, diviene a sua volta "trampolino" per un vasto percorso di sostenibilità, che in modo concreto ci permette di mettere a segno scelte a difesa del pianeta. 80. Attuare i Piani regionali amianto, completare i censimenti degli edifici pubblici e privati e la mappatura dei territori con presenza di amianto, avviare le bonifiche nelle singole regioni e concludere quelle dei siti di interesse nazionale; prevedere incentivi per la rimozione dell’eternit e sostituzione con il fotovoltaico e per lo smaltimento dei

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piccoli quantitativi di amianto, oltre a sgravi fiscali. Lo smaltimento dei rifiuti contenenti amianto (RCA) dovrebbe far parte dei Piani Regionali dei Rifiuti con la previsione di discariche di medie dimensioni per i conferimenti nella stessa regione da cui provengono. Nell’ambito del tema dei rifiuti, un capitolo a parte va dedicato alla questione amianto, ben lungi dall’essere risolta. Siamo ancora molto lontani dall’aver attuato la legge 257 del ’92, che ha vietato l’estrazione, l’importazione, l’esportazione, la commercializzazione e la produzione di amianto. Sebbene sia stato avviato il processo di dismissione dell’amianto nel nostro Paese, vi sono ancora notevoli quantitativi di questo materiale pericoloso negli edifici pubblici e privati e nei territori. Occorre prevedere espressamente il divieto di utilizzo dell’amianto e il conseguente aggiornamento dei disciplinari tecnici (DM 6 settembre 1994). E’ realisticamente superata la definizione normativa secondo la quale “la presenza di materiale contenente amianto (MCA) in un edificio non comporta pericolo per la salute degli occupanti” dato il trascorrere del tempo e il potenziale rilascio di fibre. Noti epidemiologi hanno affermato che le malattie causate dall’amianto si azzerano solo dopo cinquant’anni dal momento in cui l’ambiente sarà liberato dalla presenza dell’amianto nei luoghi di vita e di lavoro.

F) POLITICHE AGRICOLE E SOVRANITA’ ALIMENTARE In Europa ci impegniamo a: 81. Difendere il bilancio comunitario e il budget agricolo dalle continue minacce di tagli. 82. Valorizzare il criterio del lavoro, il valore aggiunto come base per l’assegnazione di risorse pubbliche a discapito della nuda superficie; lasciare agli stati nazionali una forte quota di risorse da assegnare con criteri accoppiati alla produzione e al lavoro; fissare un tetto massimo di aiuti per azienda agricola che non superi i 300.000 euro; sostenere tutte le iniziative che valorizzano gli accordi di filiera con una equa distribuzione del valore aggiunto che vede oggi un peso enorme delle catene della distribuzione commerciale e una estrema debolezza del settore agricolo. 83. Tutelare nei mercati internazionali le produzioni tipiche di qualità legate al territorio sempre più copiate, imitate, contraffatte. 84. Promuovere modelli agricoli socialmente e ambientalmente sostenibili come il biologico, il biodinamico nonché modelli di commercializzazione come la filiera corta, la vendita in azienda, i mercati equo e solidali. Incentivare tutti gli strumenti capaci di favorire l’aggregazione del prodotto nonché tutte le iniziative in grado di tutelare le imprese dalla volatilità dei prezzi. 85. Penalizzare severamente tutte le aziende che non rispettano i contratti di lavoro. La crisi alimentare condanna alla morte per fame e per sete milioni e milioni di essere umani, a causa delle politiche neo-liberiste che hanno accresciuto nel mondo povertà e squilibri territoriali, hanno concentrato nei Paesi più ricchi i luoghi di trasformazione e commercializzazione delle risorse agricole, hanno organizzato attraverso le multinazionali lo sfruttamento delle terre dei Paesi poveri, negando così il diritto fondamentale al cibo per tutti. Costituiscono per queste ragioni terreno fondamentale di analisi, di proposta e di lotta le questioni della sovranità alimentare e della crisi alimentare e, nel nostro Paese, della difesa dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori italiani e migranti in agricoltura, della tutela dei contadini e dei piccoli produttori agricoli, della valorizzazione dell’agricoltura biologica e dei prodotti tipici, del rifiuto degli OGM, della salvaguardia della bio-diversità, dei terreni agricoli e del paesaggio rurale. Un nuovo modello deve partire da chi la terra la coltiva e chi fruisce dei prodotti dell’agricoltura: l’intera catena alimentare. Per l’agricoltura, l’Unione Europea (Ue) resta una risposta obbligata alla complessità delle economie e delle società post-industriali. La politica agricola è l’unica politica economica (quasi) totalmente finanziata dalla Unione Europea tramite la Politica Agricola Comunitaria (PAC) che nonostante i continui tagli resta la prima voce di spesa dell’UE. Fino agli anni Ottanta la PAC assorbiva il 75% del Bilancio dell’ Unione Europea; oggi quella cifra si è ridotta arrivando al 40% mentre il numero degli agricoltori che vi possono accedere è quasi raddoppiato con l’adesione dei nuovi paesi nell’UE. L’intervento pubblico tramite la PAC ha permesso agli agricoltori nel corso degli anni di avere redditi dignitosi e stabili, di restare in campagna evitando l’esodo verso le aree metropolitane e di presidiare le aree marginali minacciate dalle erosioni idrogeologiche. Anche grazie alla PAC inoltre, i cittadini europei hanno potuto contare su un approvvigionamento sicuro di derrate alimentari a prezzi accessibili, libere da Organismi Geneticamente Modificati (OGM) e prodotte nel corso degli anni sempre più nel rispetto dell’ ambiente, del benessere animale nonché della flora e della fauna selvatica. A dispetto dei continui tagli e delle “riforme” che dovevano portare l’agricoltura comunitaria ad essere più “moderna” “efficiente” “competitiva” “in regola con le regole internazionali sul commercio”, con lo smantellamento delle misure di protezione ad oggi migliaia di aziende agricole stanno chiudendo mentre i 2/3 del reddito delle imprese rimaste in attività provengono dai finanziamenti pubblici della PAC e solo 1/3 dalla vendita dei loro prodotti. Nonostante la perdurante opinione di un mondo agricolo in “declino”, i dati pubblicati dal censimento agricolo europeo ci dicono che sono circa 40 milioni le persone che lavorano nelle aziende agricole europee. Nell’ UE un posto di lavoro su sei dipende dalla produzione agricola. La catena alimentare, dagli agricoltori ai trasformatori, rappresenta

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inoltre il più grande settore economico dell’Unione Europea , gli agricoltori gestiscono il 45% del territorio dell'Unione mentre i ¾ dei posti letto turistici comunitari sono collocati in aree definite rurali. In questi mesi le istituzioni europee ovvero Parlamento, Consiglio e Commissione devono discutere e approvare la nuova programmazione comunitaria 2014 – 2020 e la nuova Politica Agricola Comunitaria. Nonostante la retorica europeista si prevedono nuovi tagli al bilancio comunitario (già oggi appena l’1,11% del Pil Comunitario) e al bilancio agricolo. Eppure grazie all’intervento pubblico della PAC seppur tra mille distorsioni ( 80% delle risorse al 20% dei beneficiari) l’agroalimentare resta il primo settore produttivo dell’UE. Riguardo il bilancio comunitario stiamo seguendo con il massimo dell’attenzione la discussione sul nuovo bilancio comunitario e la nuova programmazione e siamo impegnati a difendere in tutte le sedi il bilancio comunitario ed il budget agricolo. La proposta della Nuova PAC 2014 – 2020 vede forti storture ed un impianto che premia i Paesi continentali a discapito delle produzioni mediterranee. Nel corso delle trattative è risultato pressochè inesistente il ruolo dell’ Italia, con rischi enormi per un settore di eccellenza come il nostro agroalimentare. In Italia l’agroalimentare è il secondo settore produttivo per prodotto lordo vendibile (plv) dopo il metalmeccanico, occupa decine di migliaia di lavoratori e primeggia nel mondo per produzioni di qualità. Eppure questo settore di eccellenza che inorgoglisce il paese nel mondo viene continuamente sottovalutato e bistrattato. La proposta della nuova PAC, avanzata dalla Commissione Europea vede: tagli di risorse importanti; un premio disaccoppiato per superficie che premia la rendita terriera a discapito del lavoro, gli investimenti, il valore aggiunto; discutibili provvedimenti di natura ambientale che penalizzano i piccoli produttori chiamati a complicate e burocratiche pratiche di diversificazione colturale; dubbia selettività dei beneficiari delle risorse comunitarie; scarsa attenzione alle misure di mercato a difesa del reddito agricolo. Le nostre proposte puntano ad invertire radicalmente tali orientamenti. 86. Valorizzare una Pesca responsabile e sostenibile La Pesca viene governata dalle istituzioni comunitarie attraverso la Politica Comune della Pesca (PCP). Complice la debolezza politica dei Paesi mediterranei, la Politica Comune della Pesca è sempre stata fortemente condizionata dai paesi del Nord Europa con politiche assai penalizzanti per i Paesi dell’ Europa meridionale. Il modello di pesca sempre più “industriale” sostenuto da Bruxelles continua a favorire infatti le flotte di grande tonnellaggio a forte impatto ambientale a discapito di modalità di pesca sostenibile e responsabile proprie delle piccole imbarcazioni. In Italia nonostante l’attività di pesca sia assai radicata, con una delle più rilevanti e qualificate marinerie mediterranee il settore vive un periodo molto problematico. Difficilmente infatti un modello di pesca come quello italiano caratterizzato da imbarcazioni riunite in cooperative specializzate nella piccola pesca può essere competitivo in un mercato globale dominato da navi di grande tonnellaggio capaci di pescare a profondità impressionanti e mettendo a rischio i fragili ecosistemi marini. Nel corso degli anni, i governi che si sono susseguiti in Italia non sono riusciti a far valorizzare nelle istituzioni comunitarie un modello di pesca sostenibile, responsabile, capace di dare reddito agli operatori rispettando l’ambiente. Impegneremo tutti i livelli istituzionali in campo nazionale, europeo ed internazionale, affinché venga valorizzata e incentivata la piccola pesca artigianale attraverso politiche che favoriscano la produzione locale, la modernizzazione delle flotte, il potenziamento della formazione professionale e della sicurezza per i lavoratori dei battelli, il rispetto degli stock ittici, la riduzione dei costi di produzione a partire dal caro gasolio.

G) AREE PROTETTE

87. E’ necessario contrastare la politica di progressiva dismissione del sistema italiano di aree protette e delle leggi che lo regolano, riconsegnando pienamente a parchi e riserve naturali quel ruolo strategico nei campi della conservazione della natura, della pianificazione territoriale e della sperimentazione di modelli di economia compatibile ormai riconosciuto a livello mondiale e che in Italia appare da anni non far più parte dell’agenda istituzionale e politica. Dopo aver accumulato decenni di ritardo, a partire dagli anni ’70 il nostro Paese ha conosciuto una straordinaria stagione di costruzione di aree protette e di riflessione teorica e istituzionale su di esse. Il risultato di quella stagione è stata una rete assai variegata di riserve che copre circa il 13% del territorio nazionale e una legge quadro tra le più avanzate del mondo, approvata nel 1991: la 394. La generalizzata accettazione del paradigma neoliberista - anche in vasti ambiti del centrosinistra - ha poi determinato una progressione di tagli finanziari che sta mettendo in discussione l’esistenza stessa di un gran numero di riserve e dei loro organismi di coordinamento. Contestualmente, si è prodotta una perdita complessiva del senso stesso di ciò che rappresentano in termini di civiltà e di patrimonio collettivo il sistema nazionale e i sistemi regionali delle aree protette. E’ indispensabile chiudere la stagione dei progressivi tagli ai bilanci degli enti di gestione, impedire che la legge 394 venga ulteriormente depotenziata e snaturata mediante modifiche che inseguono interessi spuri e non intervengono invece sui pochi nodi gestionali veramente problematici e ormai annosi e impedire l’impoverimento progressivo attualmente in corso quasi ovunque dei sistemi e delle legislazioni regionali. Ma quel che è soprattutto necessario è che si rilanci un grande dibattito nazionale sul significato e il ruolo delle aree protette, raccordandolo a quello in corso

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sulla salvaguardia del territorio e del patrimonio storico-artistico del Paese e a quello sui beni comuni. Le aree protette hanno oggi un ruolo strategico in molti campi: non solo la conservazione della natura ma anche l’educazione ambientale, la pianificazione territoriale e pasesaggistica, la sperimentazione di forme di attività economica in armonia con l’ambiente, la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio storico e della memoria dei territori.

FORMAZIONE, RICERCA, CULTURA

A) SCUOLA: TORNARE ALLA COSTITUZIONE 88. Abrogare le controriforme Gelmini. 89. Incrementare progressivamente la spesa per la scuola pubblica ed eliminare i finanziamenti alle scuole private. 90. Generalizzare la scuola dell’infanzia pubblica, statale e comunale, per tutte e tutti sull'intero territorio nazionale; estendere l’obbligo scolastico a 18 anni e combattere la dispersione scolastica. 91. Incrementare le risorse per il diritto allo studio; ridurre il numero di alunni per classe fino ad un massimo di 25; stabilizzare il personale precario. 92. Difendere la libertà di insegnamento; garantire la laicità della scuola e il pluralismo culturale; garantire il governo democratico della scuola. Le controriforme varate dal ministro Gelmini a partire dal 2008 hanno rappresentato il più profondo ed organico attacco alla scuola pubblica, disegnando un sistema scolastico impoverito - nelle risorse, nel tempo e nella qualità - di ispirazione apertamente classista. Esse si iscrivono in un disegno, che viene da lontano, di frantumazione del sistema scolastico e di distruzione dei suoi fondamenti costituzionali che l'attuale governo, con il concorso delle forze politiche che lo sostengono, sta portando a termine. Vogliamo invertire questa tendenza. Abrogarle per aprire una fase di vere riforme condivise e di nuovo investimento - economico, culturale e politico - sulla qualità dell'istruzione è per noi un obiettivo prioritario. Tra Paesi europei l'Italia è uno di quelli che spende meno per l'istruzione in rapporto alla ricchezza prodotta. Vogliamo che questo non accada mai più. Nell'immediato devono essere recuperati i pesanti tagli operati dal precedente governo e proseguiti dal governo in carica; va garantito inoltre, in tempi certi, almeno il raggiungimento della media europea. Le risorse vanno recuperate tagliando le spese militari, per armamenti e per le cosiddette missioni di pace, ed eliminando i finanziamenti pubblici, diretti ed indiretti, alle scuole private.Intere zone del Paese, in particolare nelle regioni del Sud, sono pressoché prive di scuole dell'infanzia pubblica e i cittadini sono costretti a rivolgersi alle strutture private, spesso confessionali, finanziate da Regioni e Comuni con soldi pubblici. La scuola dell'infanzia pubblica deve essere considerata parte essenziale del sistema scolastico e deve essere garantita dalla Repubblica a tutti i cittadini. La scolarizzazione fino al 18° anno di età è condizione imprescindibile per garantire a tutte e a tutti un livello di formazione adeguato per essere cittadini consapevoli nella vita, nel lavoro e nel proseguimento degli studi. Non può esserci alcuna commistione con la formazione professionale che deve essere uno specifico ed autonomo percorso successivo all'obbligo. Allo stesso tempo devono essere avviate concrete azioni per combattere la dispersione scolastica, a partire dall'incremento delle risorse per il diritto allo studio, per il sostegno e per l'integrazione degli alunni stranieri e dall'estensione su tutto il territorio nazionale del tempo pieno nella scuola primaria e media. I costi dell'istruzione a carico delle famiglie sono costantemente aumentati mentre, per effetto della crisi e delle politiche recessive e antipopolari del governo, cresce in modo esponenziale il numero delle persone che subiscono disagi economici. Di contro, nel corso degli ultimi anni, le risorse per il diritto allo studio, già scarse, si sono ridotte di oltre l'80%. La conseguenza è che la stragrande maggioranza degli studenti in condizioni economiche disagiate non riesce più ad accedere a borse di studio, buoni libro e altri benefici. Vogliamo riportare subito il Fondo nazionale per il diritto allo studio ai livelli prima del 2008 e incrementarlo progressivamente per estendere la platea dei beneficiari. Per effetto dei tagli alla scuola il livello di affollamento delle classi ha raggiunto livelli intollerabili, con gravi danni alla qualità e con gravi problemi per la stessa sicurezza. Vogliamo che sia rispettato il limite di 25 alunni per classe, 20 in presenza di alunni con disabilità, e che si torni indietro dalla costituzione di mega-istituti scolastici, ingovernabili e didatticamente inadeguati. La piaga del precariato nella scuola colpisce più di 200.000 docenti e ATA che, senza garanzie, anche dopo molti anni di servizio, garantiscono il funzionamento del sistema. Vogliamo che il precariato sia definitivamente superato, con l'introduzione dell'organico funzionale, previa abrogazione dei limiti introdotti con la Legge n. 133/08, e con un piano di assunzioni a tempo indeterminato su tutti i posti disponibili, garantendo i diritti acquisiti dei precari. Siamo contrari

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ad ogni forma di assunzione per chiamata in deroga alle graduatorie permanenti. La libertà di insegnamento, garantita dalla Costituzione, è sempre più esposta al rischio di interferenze esterne - di aziende private e degli esecutivi locali, regionali e ministeriali - ed ai condizionamenti di valutazioni come i test INVALSI. Essa deve, invece, potersi esplicare pienamente, nell'ambito e nei limiti delle scelte didattiche adottate collegialmente, e deve essere sottoposta soltanto a processi di autovalutazione e rendicontazione sociale. La scuola pubblica deve rimanere luogo di incontro e di confronto tra le diverse culture. Vogliamo perciò che recuperi fino in fondo la sua ispirazione pluralista, contro ogni ingerenza confessionale – come accade con l'insegnamento della religione cattolica - ed a qualsiasi forma di discriminazione per motivi religiosi, di “razza” e di lingua. Da anni va avanti un processo di aziendalizzazione e di regionalizzazione della scuola, con l'attribuzione di ruoli impropri ai dirigenti scolastici e agli Enti Locali e Regionali. Ciò ha soffocato la spinta alla partecipazione di tutte le componenti scolastiche, ancora molto viva ma incompatibile con le politiche di accentramento dei poteri decisionali. Vogliamo ridare ruolo e poteri agli organi collegiali a tutti i livelli - di istituto, locali e nazionale – per un governo democratico e partecipato delle scuole e dell'intero sistema.

B) UNIVERSITA’ E RICERCA: RISORSE VITALI E NON COSTI DA ABBATTERE

93. Abrogazione integrale della Legge 240/2010 (tristemente nota come “riforma Gelmini”) e opposizione al

Processo di Bologna su scala europea (in atto dal 1999, col fine principale di creare uno Spazio Europeo

dell’Istruzione Superiore, sintonizzato con gli orientamenti di questa Europa).

94. Difesa del valore legale del titolo di studio.

95. Inversione di tendenza rispetto al continuo decremento del Fondo per il Funzionamento Ordinario (FFO), reso

ancora più drastico dalla 133/2008; un piano di investimenti che adegui il FFO alla media OCSE e lo ripartisca

equamente. È urgente attuare un piano di rilancio del sistema universitario, nell’assoluta convinzione che le misure

per una ripresa economica e sociale dell’Italia e dell’Europa non possano che partire dai settori della conoscenza.

L’Italia si colloca oggi ben al di sotto della media europea per finanziamenti all’Università, per numero di studenti

iscritti e laureati, per numero di ricercatori e dottori di ricerca in rapporto alla popolazione. È necessario un

adeguamento della spesa in università e ricerca almeno pari alla media europea.

96. Introduzione di una Legge quadro nazionale per il diritto allo studio, che ne garantisca l’universalità e stabilisca

i livelli minimi delle prestazioni regionali. Per rilanciare il sistema del diritto allo studio universitario appare

prioritario rifinanziare il fondo nazionale così da garantire una borsa a tutti gli aventi diritto, ponendo fine alla

figura dello studente “idoneo” senza borsa. Riteniamo sia oggi più che mai necessario integrare il Fondo previsto

per il 2012 e gli anni a venire cancellando i tagli che sono stati fatti negli ultimi anni: il Fondo statale per finanziare

le borse di studio, infatti, è stato ridotto del 60% circa negli ultimi tre anni. Inoltre: superamento del modello del

prestito d’onore; istituzione di osservatori regionali per il diritto allo studio; superamento della contrapposizione di

fatto, creata dalla “legge Gelmini”, fra reclutamento e rispetto del tetto del 20% per la contribuzione studentesca;

annullamento dell’aumento delle tasse universitarie previsto dalla “Spending Review” (la revisione di spesa varata

dal governo Monti), particolarmente pesante per i fuori corso e del tutto iniquo anche per gli studenti in regola, vero

e proprio attacco al diritto allo studio e pesante ristrutturazione classista dell’università; istituzione di una carta di

cittadinanza studentesca che garantisca l’accesso a servizi e trasporti e la fruizione culturale gratuita;

96 bis. Istituzione di un ruolo unico della docenza; sblocco del turn-over; un piano straordinario per il reclutamento;

introduzione di una sola tipologia contrattuale TD post-doc (contratto di ricerca a tempo determinato successivo al

conseguimento del titolo di Dottore di Ricerca) e abolizione del TDA (contratto per ricercatore a tempo determinato

senza stanziamento delle risorse per il passaggio a Professore associato); valorizzazione del titolo di Dottore di

ricerca; ripensamento radicale dell’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema universitario e della

Ricerca) e delle politiche di valutazione (la valutazione rischia di diventare la leva fondamentale attraverso cui si

condiziona la libertà della ricerca e il suo finanziamento); radicale riforma degli organismi di autogoverno

universitario, escludendo qualsiasi presenza di privati; blocco immediato dei finanziamenti alle università private.

97. Interrompere drasticamente la perversa tendenza al sottodimensionamento del nostro apparato di ricerca e aggiungere al ripristino delle risorse tagliate negli ultimi anni un miliardo di euro per i prossimi cinque anni. Per assicurare al sistema degli Enti Pubblici di Ricerca un’univoca e generale istanza di coordinamento, istituire un Polo per la Ricerca Pubblica, che risponda alla Conferenza permanente tra Stato e Regioni.

Sono questi gli elementi indispensabili per una netta inversione di tendenza e per l’immediata attivazione di un piano di rilancio del sistema universitario. La proposta del Prc per un modello alternativo e

nuovo di università si fonda sull’idea che la conoscenza sia un bene comune e, dunque, che la sua produzione e

fruizione siano incompatibili con la logica della recinzione, della privatizzazione e della mercificazione dei saperi.

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Libertà nell’insegnamento e nella ricerca e universalità del diritto allo studio sono le fondamenta per un sistema

universitario, pubblico, laico, così come garantito dalla Costituzione.

Sono ormai più di vent’anni (da Ruberti in poi) che sul sistema universitario italiano si abbattono invece tagli sempre

più consistenti alle università pubbliche e “riforme” che procedono nella direzione della dequalificazione e dello

smantellamento delle stesse. Da ultimo la riforma Gelmini, che, tra l’altro, ha precarizzato definitivamente la ricerca

universitaria abolendo il ruolo del ricercatore e ha trasformato gli organismi di autogoverno in una governance degli

Atenei oligarchica, in cui si dà più potere decisionali ai Rettori e ai privati dei CdA. Le politiche del ministro Profumo

sono in totale continuità con tale riforma. Mercificazione dei saperi, precarizzazione del lavoro nell’università, logica

del merito e della competizione al posto del diritto allo studio sono gli assi che, “grazie” ai tagli “costituenti” di una

ristrutturazione classista dell’università, hanno animato le controriforme degli ultimi anni, rispetto a cui andrebbe

segnata una radicale discontinuità.

Il Prc è stato ed è, senza se e senza ma, dalla parte degli indisponibili: con studenti, precari, ricercatori e docenti che non

solo si sono opposti alla distruzione dell’università pubblica, ma, lungi dallo sposare una logica meramente difensiva

dell’esistente, hanno proposto un’altra idea di università; con movimenti e lotte che hanno evitato ogni declinazione

corporativa e settoriale dei problemi legati all’università, per farne una questione centrale per la democrazia e la qualità

della cittadinanza e dello sviluppo, connessa all’opposizione al processo di ristrutturazione capitalistico in atto e a una

nuova idea, democratica e partecipata, di università.

La Ricerca di base e le sue applicazioni rappresentano la ricchezza più grande, pari solo alle risorse naturali fornite dal territorio. Su queste ricchezze e risorse e sulla loro tutela deve impostarsi la pianificazione politica del futuro. La spesa complessiva dell’Europa a 27 è, nella stima dell’Eurostat, l’1,9% del Pil per il 2008, mentre quella degli Stati Uniti è stimata al 2,76%: per non parlare dell’Italia, che sta al di sotto di tutti gli altri Paesi considerati e della media dell’Unione Europea a 27. L’Italia ha la più bassa percentuale di ricercatori dell’Unione Europea con la porzione di 3,8 (ogni 1.000 lavoratori) contro la media europea di 6,4 (dato del 2008 con sorgente OECD, Factbook 2010). L’evidente sottodimensionamento della nostra rete di ricerca pubblica richiede interventi finanziari urgenti che partano dal recupero dei tagli subiti negli ultimi 4 anni, oscillanti tra il 9 e il 20% dei fondi ordinari di tutti gli enti di ricerca. E’ indispensabile quantificare un investimento aggiuntivo per il reclutamento: un miliardo di euro in 5 anni che dovrà aggiungersi alle risorse tagliate negli ultimi anni. Oggi, borse di studio, Co.Co.Co. e Assegni di Ricerca sono utilizzati in sostituzione dei contratti di lavoro subordinato a tempo determinato o a tempo indeterminato, impedendo la crescita professionale, una giusta retribuzione e le adeguate tutele. Ciò produce una imperante schizofrenia nelle carriere dei ricercatori, che nel corso della loro crescita professionale si muovono attraverso una miriade di contratti precari per la maggior parte dei quali le tutele sociali sono inesistenti. Questo tipo di carriera caratterizza tutti gli anni considerati più produttivi per un ricercatore e rende, insieme alle retribuzioni più basse d’Europa, l’ambito della ricerca nel nostro paese estremamente poco appetibile per intelligenze provenienti da altri paesi del mondo e della comunità Europea stessa. È anzi alla base della cosiddetta “fuga dei cervelli” e al mancato arrivo di “cervelli” stranieri. Per questo, è ora di voltare radicalmente pagina. E’ ormai indifferibile un profondo riordino del sistema degli Enti pubblici di ricerca che proceda verso il superamento

del sistema della vigilanza da parte di singoli Ministeri, troppo spesso, tradottasi in interferenze indebite sulla libertà di

ricerca e in pressioni volte a produrre e riprodurre in modo clientelare logiche di mercato attraverso “l’indotto” della

ricerca (consulenze, appalti, esternalizzazioni ecc.). Occorre quindi assicurare al sistema degli Enti Pubblici di Ricerca

una governance univoca, istituendo una istanza di coordinamento ed indirizzo generale per le attività di ricerca che

risponda alle esigenze dei territori. Pensiamo ad un Polo per la Ricerca Pubblica che risponda alla Conferenza

permanente tra Stato e Regioni, ciò al fine di assicurare, da un lato l’unitarietà degli indirizzi in materia di ricerca

pubblica, dall’altro la piena disseminazione e l’organico coinvolgimento dei livelli di governo regionali a beneficio

delle istanze e dei fabbisogni territoriali nei settori oggetto delle attività di ricerca.

C) CULTURA 98. La cultura è un bene comune, patrimonio di tutti, non privatizzabile. La cultura è un diritto fondamentale, inalienabile. A tutti va garantito il diritto di accesso alla produzione e alla fruizione della cultura, della produzione artistica e dei beni culturali. 99. Lo Stato deve investire in cultura almeno l’1 % del Pil. Il Fondo unico per lo spettacolo deve essere indicizzato e incrementato. Agevolazioni fiscali per chi investe in cultura. Istituzione di una tassa di scopo per tutti i soggetti che usano le opere culturali. Riduzione dell’Iva al 4 per cento per tutti i prodotti e le attività culturali. 100. Ai lavoratori della cultura vanno garantiti i diritti di tutti i lavoratori: rispetto del contratto nazionale, ammortizzatori sociali, malattie professionali, infortuni sul lavoro, maternità, diritto alla pensione. Va riconosciuto come periodo di lavoro tutto il lavoro “sommerso”. 101. Leggi di sistema per tutte i settori culturali che garantiscano risorse certe e pluralismo dell’offerta culturale, sostegno alla produzione e distribuzione indipendente, normative antitrust, formazione professionale e del pubblico, sostegno all’associazionismo culturale. Costruzione in tutte le città, in tutti i quartieri e in tutte le periferie del paese di una rete di spazi pubblici della cultura: luoghi di incontro, partecipazione, produzione, sperimentazione,

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formazione e fruizione culturale. Rilancio di Cinecittà, del Centro sperimentale di cinematografia e di tutte le istituzioni culturali pubbliche. 102. Leggi che tutelino: il diritto d’autore come compenso economico del lavoro creativo ed artistico e come diritto morale a difesa dell’integrità e del destino della propria opera; la possibilità di scaricare gratuitamente opere audiovisive o musicali dalla rete ad esclusivo uso personale. Costituzione di un “fondo unico per il lavoro creativo” sul quale viene versato il 50 % dell’Iva proveniente dai costi di connessione alla rete. Lotta alla pirateria per uso commerciale. 103. Tutela, conservazione e valorizzazione dei beni culturali ed artistici da parte dello Stato e delle strutture pubbliche. Riforma del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e valorizzazione delle strutture periferiche e di base. Riconoscimento di tutte le professionalità del settore del restauro e dell’archeologia. L’attacco di inedita gravità alla cultura e ai suoi lavoratori da parte dei governi Berlusconi non è stato un fatto accessorio e ininfluente, né determinato e motivato dalla crisi economica e dalla “necessità” di tagli, ma rientra esattamente nell’idea tutta strategica di demolizione della democrazia e delle conquiste dei lavoratori. Cultura e conoscenza sono infatti strumenti e momenti di formazione e di crescita, di consapevolezza critica, di conoscenza della realtà: elementi strategici fondamentali per la democrazia. Per questo hanno subito attacchi così violenti. Sono state eliminate istituzioni determinanti per la vita culturale, molte altre ridotte allo stremo, il Fondo unico dello spettacolo – che serve a finanziare non solo istituzioni culturali pubbliche quali la Biennale di Venezia, non solo i festival e l’associazionismo culturale, ma tutta la produzione culturale, dal cinema al teatro, alla musica, alla danza, alla lirica, allo spettacolo viaggiante fino ai circhi – è stato ridotto a quasi la metà. In Italia si stanzia per tutta la cultura 1 miliardo e ottocentomila euro, pari allo 0,2 % del Pil, mentre la Francia stanzia 12 miliardi di euro l’anno, la Germania 8.6, la Gran Bretagna 5.3. L’investimento dello Stato nella cultura deve essere pari almeno all’1 percento del Pil. Solo l’intervento pubblico può infatti impedire che l’unico filtro regolatore della produzione culturale sia il mercato, solo l’intervento pubblico può creare le condizioni perché la produzione culturale ed artistica sia realmente autonoma, indipendente e libera. Sono calcolati in circa 300.000 i lavoratori impegnati nella produzione culturale. Diventano più del doppio se si considerano quelli della distribuzione e della commercializzazione. A questi vanno aggiunti i lavoratori dei beni culturali. Poi c’è l’indotto, incalcolato e incalcolabile: un’enormità di piccole imprese e piccoli artigiani che lavorano intorno e insieme alle istituzioni culturali (fondazioni lirico sinfoniche, teatri, studi cinematografici, conservatori, scuole di alta formazione professionale) o legati direttamente al territorio e alla produzione culturale. I lavoratori iscritti all’Enpals sono circa 280.000: il 75 percento di loro non riesce ad avere una pensione. Le pensioni erogate non raggiungono di media i 13.000 euro l’anno, con un divario tra uomini e donne che arriva al 40 percento. Restano fuori ovviamente i lavoratori in nero e quelli obbligati alla “partita Iva” che non riescono a versarsi i contributi, la maggior parte dei quali svolgono lavoro “creativo”: quel popolo di artisti o di archeologi o di restauratori, costretto all’ “autoimprenditorialità” e al quale però non è riconosciuta la possibilità di detrarre le spese sostenute per la professione. Chi lavora nei beni culturali, nei settori creativi ed artistici, qualunque “mansione” svolga, deve essere riconosciuto come “lavoratore” che ha e deve avere i diritti di tutti gli altri: rispetto del contratto nazionale di lavoro, ammortizzatori sociali, malattie professionali, infortuni sul lavoro, pensioni, maternità. Nella cultura il lavoro non solo è precario, ma spesso in nero. Sempre intermittente, o meglio apparentemente intermittente perché quello che emerge, quando riesce ad emergere, è solo il frutto di un lavoro molto più lungo e faticoso, sommerso e non riconosciuto: va invece definito come “lavoro” e come tale retribuito.

LE NUOVE STRADE DELLA COMUNICAZIONE A) LE NUOVE TECNOLOGIE INFORMATICHE L’avvento dello strumento informatico ha prodotto una vera e propria rivoluzione nella vita quotidiana di una percentuale sempre più vasta di popolazione, in relazione alla gestione delle informazioni, ai metodi di ricerca e allo stesso formarsi delle opinioni. In tutta evidenza, ciò impone un urgente adeguamento delle norme in fatto di pari opportunità nell’accesso a questa nuova tecnologia e di tutela degli utenti. A tal fine, riteniamo quanto mai necessario avanzare le seguenti proposte: 104. Educazione civica al social networking e web 2.0 28 milioni di Italiani si connettono a Internet regolarmente. Di questi, l’80% usa Facebook e almeno un altro Social Network. I rischi per la propria privacy, in modo particolare per i minori, sono enormi. Proponiamo corsi pubblici gratuiti, rivolti in particolare ai giovani, che educhino “il cittadino 2.0” a esercitare i propri diritti e i propri doveri oltre che a tutelare la propria privacy. Insegnamento che orienti alla multimedialità e alla scelta delle fonti on line. 105. Tariffe Internet più basse

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Chiediamo agli operatori telefonici l’abbassamento delle tariffe, sia standard che “flat” (a quota fissa mensile), dati i diversi sistemi di comunicazione “gratuiti” basati su Internet per Smartphones (telefonini multimediali). Nel 2011 si è infatti registrato un aumento della spesa per collegarsi a Internet in mobilità pari al 52%, per un valore che ormai supera gli 800 milioni di euro. Circa un terzo dei collegamenti ai social network avviene in Italia da un cellulare di ultima generazione: non si può ignorare questo dato e le compagnie telefoniche dovrebbero ridurre i costi. 106. NO alla censura e al controllo degli utenti da parte dei provider (le aziende che forniscono il servizio) Siamo consapevoli che non può esserci la licenza di offendere e insultare senza risponderne. Difendiamo però senza se e senza ma l’articolo 21 della Costituzione e protestiamo contro qualsiasi tentativo di dare la responsabilità dei contenuti pubblicati al gestore del servizio internet. In questo modo si creerebbero pericolosi precedenti. Potrebbe bastare una qualsiasi segnalazione di (presunta) violazione per attivare una sorta di procedura automatica: gestori e fornitori di servizi preferirebbero rispettare le richieste di censura che impelagarsi in querelle legali. E questo porterebbe alla scomparsa di un passaggio necessario: la legittimità della richiesta. Internet finirebbe così per diventare un medium tradizionale nelle mani dei soliti magnati mondiali dell’informazione. 107. Banda larga e abbattimento del divario digitale Il 5% della popolazione italiana, cioè 3 milioni di persone, risiede in aree di Digital Divide (divario digitale esistente tra chi ha accesso alle tecnologie dell’informazione e chi no). La banda larga significa opportunità di informazione, istruzione, condivisione e alfabetizzazione digitale. Basti pensare ai contenuti “on demand” (su richiesta) non accessibili laddove non ci sia la banda larga o comunque non sia garantita una buona prestazione del servizio. Occorre un piano pubblico di investimenti per garantire la diffusione della banda larga: e, in questo quadro, va presa in considerazione la ripubblicizzazione di Telecom, sulla scorta di quanto fatto da altri Paesi che non hanno abbandonato il controllo pubblico su questo delicato settore. Chiediamo un valore di soglia garantito ad ogni cittadino di almeno 1.2 Mega /secondo. Nei piccoli centri diventa determinante la qualità dell'ultimo tratto della rete ADSL e cioè: - la qualità dell'impianto telefonico in casa del Cliente - la qualità del doppino telefonico tra casa e centrale telefonica Telecom - la distanza fra casa e centrale. Chiediamo di aggiornare l'articolo 21 della Costituzione in questo senso: «Tutti hanno eguale diritto di accedere alla Rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale.» (Proposta di Stefano Rodotà di un articolo 21-bis da inserire nella nostra Carta Costituzionale). 108. WIFI libero, gratuito e pubblico Chiediamo un hotspot (area in cui è possibile accedere a Internet) in ogni comune dal quale ogni cittadino possa appunto accedere a Internet previa registrazione al sito dell'amministrazione comunale. 109. Aggiornamento delle leggi sul diritto d’autore e protezione del copyright. Download (il ricevere o prelevare dalla rete un file) gratuito e libera circolazione delle opere digitali per usi non finalizzati al lucro Noi riconosciamo il diritto d’autore come compenso economico del lavoro creativo ed artistico e come diritto morale a difesa dell’integrità e del destino della propria opera. Ma la legge che attualmente regola questa particolare sfera del diritto è ormai inadeguata rispetto alle trasformazioni della rivoluzione digitale. Ci battiamo per svincolare i legittimi interessi economici degli autori da quelli delle industrie editoriali, cinematografiche e musicali e perché sia consentita la possibilità di scaricare gratuitamente opere audiovisive o musicali dalla rete ad esclusivo uso personale e per scopi non commerciali nella modalità del file sharing (condivisione di file attraverso la rete). L'applicazione delle licenze Creative Commons (licenze che forniscono un modo standardizzato per consentire di condividere il lavoro creativo in base a condizioni stabilite dai creatori) rende già oggi possibile la compensazione economica degli autori senza tuttavia limitare la riproduzione e l'utilizzo delle opere digitali per particolari scopi e a determinate condizioni stabiliti dagli stessi autori. Modifica della legge sul diritto d'autore (art. 171 e sgg) per consentire la libera circolazione e il libero utilizzo di opere digitali in ambiti formativi e a scopi non commerciali (scuola, università, ricerca, associazioni) 110. Biblioteche digitali pubbliche Istituzione di biblioteche digitali pubbliche secondo il principio dell'open content (contenuto libero) che consentano la libera disponibilità e il libero utilizzo di libri in formato elettronico 111. Riduzione del tempo di decorrenza della proprietà intellettuale a 20 anni 112. Utilizzo di software open source nella Pubblica Amministrazione Utilizzo di software open source (software “a sorgente aperta”, cioè liberamente disponibili) nella PA per abbattere i costi derivanti dal pagamento delle licenze a grandi aziende che detengono il monopolio della produzione e diffusione di programmi informatici. Chiediamo che tutti gli uffici di natura istituzionale usino programmi Open come http://www.openoffice.org/it/ con un notevole risparmio sulle licenze.

B) SISTEMA DELLE COMUNICAZIONI 113. Legge antitrust, per rompere gli attuali oligopoli e impedire la nascita di nuove posizioni dominanti lesive della

concorrenza e del pluralismo. Chi fa televisione non può possedere testate giornalistiche né case di produzione e

distribuzione cinematografica né essere proprietario di circuiti di sale.

114. Centralità del servizio pubblico radiotelevisivo. Riforma della Rai per garantirne una gestione democratica e

partecipata, pluralista e decentrata. Nomina da parte del Parlamento dei membri del cda su curricula e progetti

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editoriali scelti tra personalità della cultura, del lavoro, dell’informazione, della produzione culturale. Direttore

generale nominato dal cda. Assunzioni per concorso pubblico sia nelle reti che nelle testate.

115. L’etere è un bene pubblico: tutte le emittenti devono rispettare il principio di “interesse generale”.

116. Sostegno alle emittenti locali indipendenti legate al territorio e con gestione partecipata.

- Per far uscire la Rai dalla crisi profonda e strutturale in cui è stata portata e per restituirle il ruolo

centrale nel sistema misto delle comunicazioni, così come deciso dalla Corte costituzionale,

occorre mettere in campo una grande riforma mobilitando e chiamando a discutere le forze sociali

e culturali, l’associazionismo e i movimenti. Occorre elaborare un grande progetto culturale che

renda il servizio pubblico radiotelevisivo all’altezza delle sfide tecnologiche di oggi e di domani, perché la Rai torni ad essere un’azienda democratica e autonoma, decentrata e partecipata, che

dia voce a tutta la produzione indipendente diffusa su tutto il territorio nazionale, pluralista nella

sua offerta culturale nel rispetto dei tanti “pubblici” e sganciata dalle logiche di mercato. Una Rai i

cui vertici sono “nominati” dal Parlamento ma scelti – in base a curricula e progetti editoriali

pubblici - tra personalità del mondo della cultura, dell’informazione, del lavoro, della produzione culturale e dell’associazionismo, che possano realmente garantire professionalità indipendenza e

autonomia. Eliminazione della distinzione tra programmi finanziati dal canone e programmi finanziati dalla pubblicità. Tutta la programmazione Rai è “servizio pubblico” e quindi il principio

ispiratore è la qualità e non l’audience.

Occorre una legge sul sistema delle comunicazioni che contenga una reale normativa antitrust per

rompere il duopolio Rai-Mediaset nel settore televisivo e in quello cinematografico e riaprire il mercato ad una offerta televisiva pluralista, indipendente, diffusa su tutto il territorio e che

risponda ai principi di “interesse generale”.

DEMOCRAZIA E ISTITUZIONI

A)LA “NOSTRA EUROPA” (DEI POPOLI, DEMOCRATICA, SOLIDALE, PACIFISTA, SOCIALE) E L’ “EUROPA REALE” (DELLA FINANZA, TECNOCRATICA, BELLICISTA, ANTIPOPOLARE)

117. Più che una proposta all’altezza della fase, formuliamo in apertura di questa sezione un auspicio. Per imporre nel nostro Continente la primazia della democrazia sull’economia capitalistica occorrerebbero infatti le seguenti condizioni (oggi inesistenti): - il riconoscimento della sovranità all’insieme dei popoli europei, articolato nazionalmente ma teso all’unità politica del Continente e alla pace interna e esterna; - l’adozione del catalogo dei diritti di libertà, civili, sociali, politici della tradizione europea integrati dalle prosecuzioni e dai prolungamenti che ne derivano e garantiti giuridicamente e finanziariamente; - l’assunzione della dignità umana come base della convivenza e dell’eguaglianza, formale e materiale, come compito inderogabile dell’Unione europea; - la determinazione di una democrazia rappresentativa che assicuri al massimo la pluralità culturale, sociale e politica arricchita con istituti di partecipazione e controllo popolare diretto; - la delimitazione delle competenze, attribuendo all’Unione quella sulle grandi strategie della convivenza solidale e dello sviluppo economico e sociale sostenibile, ai singoli Stati quella della scelta dei modi e delle forme di attuazione degli obiettivi strategici fissati dal Parlamento europeo; - la scelta della forma parlamentare di governo (comune a tutti gli stati europei meno uno) nella declinazione che assicuri al massimo grado la responsabilità dell’esecutivo nei confronti della rappresentanza popolare.

Occorrerebbe un processo costituente che traducesse nella dimensione istituzionale dell’Ue le conquiste di civiltà politica raggiunte dai Paesi europei nel secolo scorso, sviluppandole ed arricchendole, sia nel catalogo dei diritti e delle garanzie che li assicurano, sia nelle istituzioni rappresentative e parlamentari di governo. A fare l’Europa della democrazia, della pace, dell’eguaglianza, delle libertà umane, dei diritti, dello sviluppo economico e sociale, dovranno essere i popoli europei, con le loro tradizioni, coscienti della pluralità dei contributi che hanno offerto al progresso delle istituzioni della democrazia e inverarli nella dimensione comune e più alta della politica e dell’economia. Ma i Trattati, da quello di Maastricht a quello di Lisbona, hanno fallito. Il quadro istituzionale dell’Unione europea si è delegittimato rivelandosi tutt’altro che unitario. È diventato il terreno della competizione tra i vari stati: su quale di essi scaricare le conseguenze disastrose della crisi attuale del capitalismo. Tale crisi si è focalizzata in Europa, la quale è divenuta l’anello più debole del sistema capitalistico proprio a causa delle sue istituzioni, del tutto inadeguate a rispondere all’attacco speculativo scatenatosi a seguito del fallimento nel 2008 del sistema bancario statunitense (e poi trasferito sull’euro). Istituzioni comunque del tutto inidonee a fronteggiare la crisi, per una ragione più che evidente,

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interna al sistema istituzionale europeo: in quanto esso è fondato proprio sull’ideologia neoliberista elevata a principio istituzionale unico. Tale principio pervade l’intero sistema, vincolando alle sue pretese ciascuna delle sue istituzioni, ciascuna sua funzione, ciascuna delle normative che lo compongono e che produce. La crisi lo ha travolto con tutte le sue conseguenti implicazioni di ordine strutturale e funzionale. I vertici che si susseguono con interventi più o meno efficaci, faticosamente concordati, lo dimostrano clamorosamente. Clamorosamente poi questi vertici violano i dettami dell’autoregolazione del mercato, ma ne adorano il simulacro: per non intaccare, per difendere gli interessi che simboleggia, quelli dell’illimitato profitto, anche se senza base nell’economia reale. Per tornare a porre all’ordine del giorno la democrazia di un’altra Europa, occorrerebbe una radicale rottura con il suddetto regressivo contesto.

B) DIFENDERE LA COSTITUZIONE, GARANTIRE E AMPLIARE LA DEMOCRAZIA 118. La bozza Vizzini di modifica della Costituzione va respinta. Vanno respinte tutte le proposte di grande o piccola riforma della Costituzione. La Costituzione non ha bisogno di riforme ma di manutenzione, attraverso interventi puntuali e specifici per rafforzare le garanzie dei diritti sociali. 119. La legge elettorale va modificata a costituzione invariata, con l’introduzione di un sistema elettorale proporzionale senza sbarramento (o con sbarramento molto contenuto) che preveda per gli elettori la possibilità di esprimere preferenze sui candidati nei collegi plurinominali. 120. Va vincolata l’applicazione dei risultati referendari, va introdotto il vincolo alla deliberazione parlamentare in tempi certi sulle leggi di iniziativa popolare 121. Va istituito un Procuratore Generale (un Difensore della Costituzione) titolare dell’azione di costituzionalità presso la corte Costituzionale. 122. Va modificato l’art. 81 della Costituzione introducendo vincoli di bilancio che impongano aliquote minime della spesa pubblica da destinare alla soddisfazione dei diritti sociali, ed in particolare alla salute ed all’istruzione. Non va inserito in Costituzione il “fiscal compact”. Va inserita nella Costituzione la salvaguardia e la gestione pubblica e partecipata dei beni comuni.

122 bis. Anche alla luce dei suoi effetti negativi, deve essere rivista la riforma del titolo V della Costituzione, soprattutto laddove produce, attraverso duplicazione e confusione di funzioni, eccessi di federalismo regionale; e laddove prevede esplicitamente l’assunzione del principio della sussidiarietà. In questo ambito va peraltro preservato ed accresciuto il ruolo degli Enti di prossimità (Comuni).

La Costituzione è minacciata: le nuove proposte mirano a sbilanciare l’equilibrio dei poteri a favore del governo, inducono una torsione presidenzialista esaltando la figura del presidente del consiglio, mirano a ridurre l’autonomia del Parlamento, a ridefinire in modo pasticciato l’assetto bicamerale. A questo si aggiunge l’offensiva del PdL per un assetto di tipo semipresidenziale e una ridefinizione in chiave federale dell’ordinamento. La sinistra moderata risponde equivocamente rendendosi disponibile al confronto, perfino adombrando il ricorso futuro ad un referendum sulla forma di stato. Ora, di fronte al fallimento di tutta l’operazione di revisione della Costituzione, si vorrebbe tornare ad un’assemblea costituente. Ma non si tratta solo di questo. La revisione costituzionale procede anche in ragione dell’offensiva neo liberista che muove dagli organismi europei. La recente modifica dell’art. 81 della Costituzione con l’introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio vanifica le garanzie sui diritti contenute in altre parti della stessa Costituzione. Lo stesso dicasi per le previste norme in tema di “Fiscal compact”. E’ nostra opinione che gli interventi sulla Costituzione devono tendere, oltre a non alterare l’equilibrio dei poteri, a rafforzare le garanzie dei diritti dei cittadini e non a ledere tali diritti. Accanto all’intervento di modifica della Costituzione, ed intrecciata ad esso, si sta sviluppando l’iniziativa per la modifica della legge elettorale. Non abbiamo dubbi sul fatto che il “porcellum” vada cambiato, per l’assurdo premio di maggioranza previsto e per l’impossibilità per i cittadini di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento. E, tuttavia, le proposte di modifica in campo sono allarmanti. Esse mirano (con soglie di sbarramento esplicite o implicite, e a maggior ragione con la riduzione del numero dei parlamentari) a un riassetto di tipo multipolare che rafforzi alcuni soggetti (i maggiori) a scapito degli altri. In antitesi, si punta ad un maquillage dell’attuale ( impresentabile) legge elettorale maggioritaria. In buona sostanza, di fronte alla crisi evidente del sistema bipolare maggioritario i partiti maggiori perseguono il tentativo di ridurre il pluralismo per garantire il proprio ruolo egemone. Nel contempo, i correttivi alla riduzione della dialettica democratica vengono ricercati in meccanismi plebiscitari (le primarie) che riducono il confronto alla competizione di leader. Il risultato complessivo di questi indirizzi è l’impoverimento della democrazia in nome di una reiterata e anacronistica celebrazione della “governabilità”, alla quale viene sacrificata l’effettiva rappresentanza dei soggetti sociali. Per tutte queste ragioni riteniamo che l’unica soluzione credibile per ricostruire un tessuto democratico e rilegittimare le istituzioni sia l’ introduzione di un sistema elettorale proporzionale. L’attacco alla democrazia si concretizza anche nella delegittimazione di istituti fondamentali, come il referendum. Il caso esemplare è rappresentato dall’esito del referendum sui beni comuni di cui non si vuole tener conto. Ma l’offensiva non si limita a questo e si estende più in generale alla rappresentanza sociale: si erodono i diritti del mondo

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del lavoro e precipita la questione della rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Nel contempo, il consociativismo parlamentare rende praticamente impossibile per i soggetti sociali e politici non rappresentati incidere. Urge, pertanto, la ridefinizione di meccanismi che consentano l’espressione dei cittadini, di nuovi strumenti di iniziativa popolare, la costituzionalizzazione di nuovi diritti.

C) L’AUTONOMIA LOCALE COME PRESIDIO DEMOCRATICO E SOCIALE 123. Va modificato il patto di stabilità interno, le spese per i servizi sociali e per gli interventi obbligatori del sindaco come ufficiale di governo (sicurezza abitativa, accoglienza, ecc.) vanno scorporate e non conteggiate. Vanno respinti gli ulteriori tagli a regioni ed enti locali previsti nella “spending review”. 124. L’IMU va abolita. I tributi statali vanno separati da quelli locali e va mantenuta la prevalenza del meccanismo dei trasferimenti, collegato al raggiungimento dell’eguaglianza dei diritti garantiti sui territori, a partire dalla dotazione omogenea dei servizi; va rilanciato il ruolo del pubblico e limitata l’influenza del privato a partire dalle norme che regolano i piani regolatori. 125. Nei servizi pubblici va garantita la gestione pubblica, a maggior ragione per i beni comuni a partire dal ciclo idrico integrato, riconoscendo l’autonomia degli enti locali nella scelta delle forme di gestione e rispettando l’esito referendario. Agli organi di gestione vanno affiancate strutture di controllo sociale, a partire dal coinvolgimento degli utenti dei servizi stessi. 126. Siamo contrari alla trasformazione degli organismi democratici in organi di secondo livello. Le province vanno ridotte, dando vita alle città metropolitane e accorpando le più piccole, ma mantenendo gli organi di rappresentanza democratica. La semplificazione e la riduzione degli organi deve concentrarsi sulla pletora di organismi di secondo livello. 127. Nei territori vanno ricostruiti strumenti di partecipazione decentrati, dopo la quasi generale scomparsa delle circoscrizioni. Nelle decisioni relative ai bilanci e nelle scelte strategiche la consultazione vincolante della cittadinanza è obbligatoria. 128. Va modificata la legge 81/93 sull’elezione dei sindaci e gli altri provvedimenti in materia elettorale, restituendo poteri ai consigli, reintroducendo un sistema proporzionale come correttivo rispetto alla riduzione del pluralismo, aggravata dalla diminuzione del numero dei componenti i consigli.

Le modifiche costituzionali già introdotte in tema di autonomie locali hanno prodotto pasticci e minato alcuni fondamenti costituzionali: hanno ridimensionato lo stato in quanto garante dell’unità nazionale e della universalità dei diritti, si è creata una confusione fra stato e regioni in termini di competenze, si è introdotto il principio del federalismo fiscale, l’uguaglianza nella dotazione dei servizi è stata ridotta a “essenzialità” delle prestazioni erogate. I successivi provvedimenti in tema di federalismo fiscale hanno creato le premesse per una sviluppo asimmetrico e per la non eguaglianza dei diritti, per lo stravolgimento del sistema impositivo e per l’alienazione dei beni pubblici. Nel contempo, il sistema delle autonomie locali è stato vessato da tagli irrazionali dei trasferimenti (prima da Berlusconi e poi da Monti) non giustificabili in termini di riqualificazione della spesa, anche in relazione alla già consistente riduzione delle spese messa in atto dagli enti locali, come documentato dalla Corte dei conti. Si è trattato di un attacco alla funzione delle autonomie locali come enti di prossimità e alla loro funzione di garanti di diritti costituzionali fondamentali. Il patto di stabilità interna si è rivelato come uno dei limiti più significativi alla crescita e al godimento di fondamentali diritti. Il federalismo fiscale si è tradotto nell’IMU e nelle addizionali (modalità che sviliscono l’autonomia locale, che eludono il principio di progressività, che sommano impropriamente tributi locali e nazionali e che comprimono pericolosamente i redditi dei soggetti più deboli). I provvedimenti assunti dal governo Berlusconi e poi dal governo Monti hanno di fatto resa obbligatoria la privatizzazione dei servizi pubblici, incentivando le privatizzazioni, rendendo sempre più difficile la gestione pubblica e rendendo praticamente impossibile la gestione dei servizi tramite aziende speciali integralmente pubbliche. Queste iniziative, che si inseriscono in un lungo percorso teso alla privatizzazione dei servizi pubblici locali, hanno l’aggravante di aver disatteso i risultati del referendum. I risultati di tale referendum vanno rispettati. Va garantita la gestione pubblica dei servizi locali e va sollevata l’incostituzionalità dei provvedimenti che hanno contraddetto le indicazioni referendarie. Il contrasto delle privatizzazioni e una iniziativa per la modifica del patto di stabilità interna (un vero e proprio “patto contro il patto di stabilità) sono obiettivi irrinunciabili per ripristinare il ruolo sociale delle autonomie locali. Inoltre, per effetto di normative nazionali e regionali derogatorie, indotte negli ultimi anni dai grandi interessi immobiliari e recepite dalle politiche liberiste, si è inoltre affermata la tendenza ad esautorarle assemblee elettive anche in materia urbanistica. Attraverso l'uso di strumenti come accordi di programma, contratti d'area o varianti a parità di volumetria, ma non di destinazione urbanistica si sono stravolti i piani regolatori, si è promossa un’ulteriore aggressione all’ambiente e si sono estese equivoche relazioni fra pubblico e privato, che in taluni casi hanno dato luogo a veri e propri abusi. Noi chiediamo che gli atti urbanistici passino preventivamente all' esame dei consigli comunali, ripristinando la partecipazione democratica dei cittadini, come richiesto anche dal coordinamento dei consigli comunali dell'ANCI. Alla perdita di autonomia reale e alla crisi di legittimità che hanno conosciuto le autonomie locali ha corrisposto una loro crisi democratica di cui ne sono esempi: la riduzione del pluralismo (attraverso la riduzione del numero dei consiglieri) e quindi l’innalzamento delle soglie di sbarramento per l’accesso

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alla rappresentanza istituzionale , l’esautoramento degli organi elettivi (nel caso dei piccoli comuni e delle province), la loro delegittimazione (anche attraverso il taglio di emolumenti minimi), la quasi totale eliminazione dei consigli di circoscrizione. Il tutto in nome di un taglio ai costi della politica che è in realtà taglio della democrazia, mentre le vere disfunzioni non sono state toccate. Esse sono legate al crescente connubio pubblico – privato nella gestione della cosa pubblica, al dilatarsi di organi non democratici di sottogoverno, a processi decisionali non trasparenti e inquinati da interessi individuali e di parte. Tutto ciò si è abbattuto su una struttura istituzionale che, dai comuni alle regioni, è imperniata sul maggioritario, sull’elezione diretta dei capi degli esecutivi, sull’esautoramento dei consigli a vantaggio degli stessi esecutivi. Questa struttura istituzionale magnificata da più parti ha, in realtà, comportato danni evidenti. Ha provocato delega e disaffezione nel corpo elettorale, ha determinato la perdita di ruolo dei consigli e l’accentramento delle decisioni negli organi esecutivi, ha ampliato a dismisura i poteri dei capi degli esecutivi. Si è trattato di una vera e propria controriforma del sistema delle autonomie. Più in generale, si è avuto lo spostamento del centro dell’azione politica dalla rappresentanza di interessi sociali alla costruzione di coalizioni spesso disomogenee in nome della governabilità. Per tutto questo è necessaria una correzione profonda negli indirizzi di riforma del sistema delle autonomie e nella loro struttura istituzionale.

D) IL RISANAMENTO DEI PARTITI E DELLA POLITICA 129. Per legge i partiti e le associazioni debbono dotarsi di statuti democratici che restituiscano agli iscritti o agli aderenti le principali decisioni in tema di selezione dei gruppi dirigenti, scelte finanziarie, orientamenti politici e programmatici. Vanno previsti strumenti di consultazione degli iscritti e degli associati vincolanti sulle scelte fondamentali. 130. Nel finanziamento pubblico ai partiti vanno garantite condizioni uguali di partecipazione alle competizioni elettorali, a prescindere dalla dimensione della rappresentanza istituzionale o dalla dimensione dei consensi elettorali. Soglie massime vanno fissate nelle spese elettorali 131. Il finanziamento più generale alla politica va garantito attraverso la gratuità dei servizi, il finanziamento delle spese di iniziative politiche e di apparati, secondo criteri rigidi e trasparenti. Il finanziamento è destinato a tutti i soggetti politici e sociali che siano dotati di statuti democratici, che rispettino i valori costituzionali, che assumano finalità trasparenti e che si sottopongano ad un controllo pubblico certificato delle fonti di finanziamento e delle spese. 132. Vanno garantiti emolumenti e condizioni di agibilità alle rappresentanze istituzionali che garantiscano l’esercizio delle funzioni, senza incorrere in indebiti privilegi. Per le assemblee legislative vanno ridotte le indennità di consiglieri e parlamentari, vanno ridotti i vitalizi e vanno soppresse indennità indebite. Va sostenuta l’attività istituzionale nei piccoli comuni anche con un adeguamento delle indennità dei consiglieri. 133. Va separato il finanziamento dei partiti dagli emolumenti destinati alle figure istituzionali. Per l’ausilio alle attività istituzionali vanno escluse le forme di monetizzazione (portaborse, ecc.) sostituendole con l’offerta di servizi. 134. Va posto un vincolo in termini di numero di mandati per le figure istituzionali. Proponiamo che non vi possa essere ricandidatura oltre i due mandati, nei singoli livelli istituzionali. 135. Vanno posti vincoli in termini di candidabilità delle figure istituzionali (elette o nominate) escludendo che possano essere candidati coloro che siano stati rinviati a giudizio per reati non colposi per i quali sia prevista l’interdizione – anche temporanea – dai pubblici uffici, e coloro che si trovino in condizioni di conflitto di interessi per essere titolari o principali azionisti di aziende private titolari di concessioni governative o di appalti pubblici di rilievo europeo.

All’origine della crisi dei partiti vi sono più fattori. Il primo, spesso sottovalutato, è la trasformazione dei soggetti politici indotta dal maggioritario. Con la modifica della struttura istituzionale del paese e le relative leggi elettorali si è compiuto il passaggio dalla centralità della rappresentanza dei soggetti sociali a quella delle funzioni di governo e dal protagonismo dei soggetti collettivi alla personalizzazione della politica. Questi fenomeni hanno modificato non poco il profilo politico e il modo di funzionamento dei partiti politici, rendendoli sempre più opachi come proposta politica, sempre più distanti dai soggetti sociali di riferimento, sempre meno rappresentativi. A questo primo fattore se ne aggiunge un altro, anch’esso spesso sottovalutato, e cioè l’indebolimento del ruolo delle istituzioni e dell’efficacia sociale delle politiche, sempre più condizionate da orientamenti monetaristi e liberisti che con la crisi si sono accentuati sempre di più. Venendo meno l’essenziale funzione redistributiva della spesa sociale è cresciuta l’irrilevanza delle istituzioni e degli stessi partiti. Non solo, nel clima di union sacrè che ha accompagnato la nascita del governo Monti, i soggetti sociali, specie quelli più deboli, sono stati lasciati a loro stessi, senza alcuna difesa. Né questo stravolgimento di ruolo lascia intatte le organizzazioni sociali, a partire dai sindacati, spesso subalterni alle stesse logiche. Il cittadino non ha quindi più rappresentanza. Di qui l’emergere di pulsioni anti istituzionali di sapore fortemente populista e, per altri versi, il rifiuto della politica e il rifugiarsi in una dimensione individuale. Questi fattori costituiscono la cornice essenziale per comprendere il crescente degrado della vita politica, fenomeno non nuovo, ma non per questo meno grave. Al tradizionale sistema clientelare, si aggiungono i danni della superfetazione di organi non elettivi per la gestione di società partecipate dal pubblico, in alcuni casi del tutto inutili, spesso gestite in modo inadeguato e con scarsa capacità. Nuove forme di corruzione si accompagnano al crescente

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ruolo del privato. La tanto declamata “governance”, celebrando il connubuio pubblico-privato, inevitabilmente riduce a tal punto i confini degli interessi del pubblico e del privato da favorire comportamenti illeciti. Non solo, la crescente personalizzazione della politica indebolisce inevitabilmente il controllo collettivo sui comportamenti individuali e i partiti sempre di più tendono a divenire raggruppamenti di interessi individuali, spesso articolati su base locale. Le risposte prevalenti a questo stato di cose eludono le motivazioni principali di questi fenomeni. Esse si concentrano in particolare sui costi della politica, ma anziché ridurre privilegi non giustificabili (che alla fine restano quasi intatti) finiscono con il tagliare la rappresentanza democratica, attraverso la riduzione di parlamentari e consiglieri. Per altri versi non vengono toccati, nell’opera di razionalizzazione, i veri centri di spesa impropria e le vere inefficienze, come nel caso delle società partecipate e degli organi di secondo livello. Né la riduzione del finanziamento pubblico si traduce in un nuovo più equo sistema di finanziamento, ma si mantiene inalterato lo squilibrio a favore dei maggiori partiti e non si favorisce una crescita più generale della partecipazione democratica. Né, infine, vi è una vera riforma dei partiti, a partire dal loro funzionamento interno: la scarsa democrazia interna non viene rimessa in discussione, il cumulo di cariche e di incarichi istituzionali neanche, né più in generale si pongono vincoli sul piano della selezione della rappresentanza istituzionale per impedire conflitti di interessi e occupazione ingiustificabile di ruoli pubblici. La nostra ottica è diversa e muove dall’esigenza di operare un risanamento della vita politica che allarghi (e non riduca) la partecipazione democratica e che, al tempo stesso, risani il sistema dei partiti. Per questo occorre promuovere e sostenere la partecipazione e l’iniziativa sociale anche oltre i partiti, restituire alle istituzioni le loro finalità originarie, disciplinarne l’accesso per impedirne lo stravolgimento, vincolare l’attività dei partiti al rispetto di regole democratiche, sostenendoli finanziariamente in modo trasparente, secondo criteri equi e senza ricadere nella logica dei privilegi immotivati

E) IMPEGNO ANTIFASCISTA

135 bis. Il Prc raccoglie e fa sua la richiesta di chiusura delle sedi e di scioglimento dell’organizzazione Casa Pound,

fatta da tutte le associazioni antifasciste di Firenze (il fascista Casseri, autore della strage di immigrati dello scorso

dicembre 2011, era un frequentatore di Casa Pound) , dal comitato antifascista di Parma (con una interrogazione

della Senatrice del Pd Albertina Soriani), da partiti, movimenti e associazioni di Roma.

Casa Pound Italia con sede principale a Roma, grazie alle provvidenze offerte dal Sindaco Alemanno, è presente in

quasi tutte le Regioni d’Italia. I suoi aderenti si dichiarano “fascisti del terzo millennio”, attaccano la Costituzione,

tappezzano la città con manifesti di oltraggio alla Resistenza e “Onore alla Repubblica di Salò”. E compiono

aggressioni: ultime in ordine di tempo, quelle ai giovani del Pd e a un teatro occupato a Roma, al Circolo ARCI del

quartiere Montanara di Parma, a giovani antifascisti di Lecce e Viterbo.

Secondo quanto scrive Casa Pound Italia, “la Costituzione va riscritta”, perché “opera di uomini che la compilarono

all’indomani della guerra civile e adempirono a quel compito sulla scia dei carri armati stranieri”. “Dobbiamo adeguare

la Costituzione formale alla Costituzione materiale”, dichiara Monti che non è un fascista ma ripropone una formula del

1939 con la quale il fascismo volle superare lo Statuto Albertino, che certo non era di sinistra ma lasciava spazio a

qualche diritto di libertà. Il razzismo, la paura del diverso e dell’ignoto, l’attacco ai diritti dei lavoratori e alla libertà di

scelta del popolo, conditi di quel populismo che ha sempre raccolto consensi nei periodi di crisi, ricordano in modo

inquietante gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, quando partiti liberali e socialdemocratici aprirono le porte al

nazifascismo per garantire i privilegi e il potere dei padroni. Per questo è bene tenere sempre alta la guardia.

F) GIUSTIZIA 136. Vanno abrogate le norme della Bossi Fini, della Fini Giovanardi, della ex Cirielli, va prevista la chiusura dei CIE e abrogato il reato di clandestinità. 137. Va riformato il codice penale moltiplicando, precisando, articolando le misure alternative al carcere. Va abolito l'ergastolo. 138. Va introdotto il reato di "tortura" nel codice penale. Va introdotta la figura del Garante dei detenuti, autonomo da amministrazione e magistratura. 139.Va introdotta l’obbligatorietà di riportare contrassegni identificativi individuali sulla divisa della Forze dell’Ordine. 140. Va resa più efficiente l’azione di contrasto alle mafie ed alla criminalità organizzata. Vanno respinte le proposte che tendono a smantellare la capacità di indagine di polizia e magistratura. 141. Va garantita l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici.

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Il nostro obiettivo è quello di riportare il sistema carcerario nella legalità costituzionale. Esso è, infatti, controlegge, incostituzionale. Il sovraffollamento è di per sè una metafora della grave illegittimità: i posti letto sono circa 45mila mentre i detenuti sfiorano le 67mila unità. Anche questo rende impossibile il trattamento del detenuto teso al reinserimento sociale, come prevede la Costituzione. Il carcere non è vendetta di Stato, come sostiene la deriva giustizialista di cui fascisti e leghisti sono pericolosi propugnatori contro migranti, tossicodipendenti, persone emarginate (da uno Stato Sociale che, pensato per la povera gente, assume sempre più le sembianze di Stato Penale). I nostri obiettivi sono, allora,"decarcerizzazione e depenalizzazione".Vanno, a questo scopo, selezionati i crimini che richiedono, quale sanzione irrinunciabile, la pena detentiva (il carcere deve tornare ad essere, costituzionalmente, sanzione di ultima istanza). Va verificato numericamente l'impatto della recidiva e della custodia cautelare (che presentano, in Italia, una dimensione ipertrofica molto lontana dagli standards europei). Il carcere è diventato una struttura classista: non a caso i due terzi della composizione carceraria sono "detenzione sociale": migranti, tossicodipendenti,"poveracci". I colletti bianchi, i criminali ricchi in carcere vanno pochissimo e per tempi brevissimi. Vanno, soprattutto, abrogate norme che da sole riempiono le carceri: la Bossi Fini contro i migranti; la Fini Giovanardi contro i tossicodipendenti; la ex Cirielli che salva i grandi bancarottieri ed è feroce con i piccoli criminali recidivi. Va finalmente (se ne parla da quattro legislature) riformato il codice penale (in Italia vige ancora il codice fascista Rocco), moltiplicando, precisando, articolando le misure alternative al carcere. Va abolito l'ergastolo, a partire dall'ergastolo ostativo che è l'inveramento drammatico della tremenda dizione burocratica "fine pena mai". Va introdotto il reato di "tortura" nel codice penale. Nel carcere, nei CIE (le galere etniche dei migranti), nei commissariati, nelle caserme il rischio di tortura esiste, ma nel codice penale il reato di tortura non c'è (nonostante le continue ammonizioni e diffide che ci rivolge la Commissione europea). La caserma Ranieri di Napoli, la Diaz e Bolzaneto a Genova, i delitti di Stato di Cucchi, Aldovrandi, Uva, tantissime persone anonime uccise in caserme, commissariati, carceri, galere etniche, alludono a questa necessità. Cosi come uno Stato di Diritto deve prevedere un Garante dei detenuti autonomo da amministrazione e magistratura. E' bene ricordare che la Costituzione italiana adotta la parola "punizione"in un solo caso, all'articolo 13:"E' punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà". Da molti anni la politica si ribella al controllo di legalità e cerca di condizionare l’esercizio della giurisdizione, indebolendo i giudici ed ostacolando l’azione di contrasto alla criminalità. La riforma delle intercettazioni, tenacemente perseguita dal precedente governo, ma sempre all’ordine del giorno, mira a smantellare la capacità di indagine della polizia ed a mettere il bavaglio ai giornalisti per rendere più difficile il controllo dell’opinione pubblica sui comportamenti devianti di rilievo pubblico. Altre riforme mirano a condizionare il controllo di legalità, sottraendo al Pubblico Ministero la direzione delle indagini, mentre si cerca di indebolire il ruolo di garanzia dei giudici, rendendoli vulnerabili agli attacchi dei soggetti più forti. Questi tentativi vanno bloccati. E’ importante ristabilire le condizioni di efficienza nell’esercizio della giurisdizione, sia penale che civile ed assicurare che i giudici possano svolgere il loro ruolo di garanzia con imparzialità, senza essere condizionati da poteri pubblici o privati.

EGUAGLIANZA, LIBERTA’, DIRITTI

142. Laicità,come spazio di un’etica pubblica, nella scuola, nella cultura, nelle scelte della vita, del dolore, della morte. 143. La legge 194 non si tocca! 144. Modifiche legislative per includere i ‘nuovi diritti’ di soggetti esclusi e/o discriminati, unioni civili anche per persone dello stesso sesso; garantire piena cittadinanza a tutte le differenze, secondo le proposte delle comunità glbtq (gay lesbiche bisessuali transgender queer). 145. Cittadinanza piena e universale (anche per uomini e donne migranti); diritto alla libera circolazione; abrogazione della Bossi-Fini e di tutto l’apparato legislativo razzista contenuto nel nostro ordinamento, facilitazione

nei percorsi di ottenimento della cittadinanza formale e sostanziale, diritto di voto alle elezioni amministrative e di

partecipazione alla vita sociale e politica del Paese

Eguaglianza: Un obiettivo che ha caratterizzato per secoli i movimenti progressisti e le spinte emancipatorie. E’ stata alla base delle rivendicazioni delle plebi di tutto il mondo, alla ricerca di sia pur lievi miglioramenti delle loro condizioni di vita e di lavoro, delle masse schiavizzate e oppresse da tutti i colonialismi; è stata (confinata nel cielo della politica) la spinta, l’ascesa egemonica della borghesia della rivoluzione francese. Ma è con la storia (e le teorie) del movimento operaio che la parola eguaglianza ha acquistato il significato pregnante che supera il mero rivendicazionismo e si sostanzia di una critica, materialisticamente fondata e teoricamente avvertita, verso un ordine sociale, quello capitalistico, basato sullo sfruttamento di classe, che così viene demistificato e privato della sua antica pretesa di ‘naturalità’. E’ così che la parola eguaglianza si annoda alla parola libertà, per diventare fondamento di un conflitto sociale, lotta per essere liberi, consapevolezza individuale e movimento collettivo di liberazione. Liberazione da una

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condizione subalterna, servile; una liberazione che si fonderà sul nesso tra condizione sociale e coscienza di tale condizione. Monsignor Camara scriveva:”Se faccio del bene ai poveri mi dicono che sono una brava persona, se mi chiedo perché esistono i poveri mi chiamano comunista”. Era un teologo della liberazione, si poneva domande sgradite al Vaticano che evidentemente considera quest’ordine sociale capitalistico un ordine naturale e riserva ai ‘poveri’ solamente carità, assistenza e speranza nell’aldilà. Tuttavia il grande movimento per l’eguaglianza e la libertà non coincide con l’egualitarismo, né con l’appiattimento né con l’omologazione. Si tratta di costruire uno spazio pubblico in cui gli uomini e le donne possano affermare la loro libertà, si tratta di costruire le basi materiali e sociali delle libertà individuali, la consapevolezza teorica, il sostrato culturale della piena valorizzazione di sé. Non è solo il rischio dell’egualitarismo che va evitato e combattuto: anche quello che il movimento delle donne e le teorie femministe hanno definito come l’universalismo del pensiero unico, quello maschile, quello del genere maschile che storicamente si è assolutizzato. Ecco dunque che l’eguaglianza deve essere attraversata dalle differenze e in primo luogo dalla differenza di genere, una differenza che non comporta disuguaglianza né minorità, ma che stabilisce che i soggetti sono sessuati e che il nesso corpo/mente è fondativo della soggettività umana. Il movimento delle donne, con le sue teorie e le sue pratiche, ha fondato un nuovo percorso di civiltà, mettendo in crisi un ordine sociale e simbolico basato sul predominio maschile, una relazione tra i sessi basata sul dominio e il possesso, una costruzione maschile fondata su un’autorappresentazione di sé come assoluto. E la crisi del maschile, di questo maschile, è una delle ragioni di quel fenomeno sociale devastante che va sotto il nome di femminicidio (137 donne uccise nel solo 2011) e che spesso si consuma dentro la riservatezza della casa e dentro il tempio della famiglia. Già, perché la famiglia è il luogo materiale culturale simbolico, il privato, con cui si è fatto coincidere un ruolo, quello femminile; così come la maternità da scelta d’amore è stata ossificata a dovere, obbligo, ruolo. Queste sono le ragioni per cui una società libera e democratica deve essere fondata sulla parità di genere nei diritti e sulla valorizzazione delle differenze nella costruzione delle soggettività individuali. Oggi, nel tempo della dilatazione totalitaria e pervasiva di questo capitalismo e della sua crisi-ristrutturazione oligarchica, che tende a mettere in mora, se non a cancellare, spazi di democrazia e conquiste sociali, la tematica dei diritti acquista una sua drammatica peculiarità. Si pone con forza, in forme nuove (tutte da ripensare, costruire e organizzare) la lotta per il diritto al lavoro libero e retribuito, per un reddito di esistenza, prima del lavoro e dopo il lavoro, insomma per un reddito non legato alla produzione (basic incom). Diritto alla dignità, alla salute, all’istruzione, diritto alla sessualità libera e consapevole. Sono diritti che si iscrivono negli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione, che vanno stabiliti e articolati con leggi dello stato democratico, che afferiscono alla dignità personale, ma anche alle scelte libere di convivenze che ognuno/a compie secondo il proprio desiderio e la propria ricerca della felicità. Diritti individuali che vengono nominati come “civili” (da ‘civis’, cittadina/o), in quanto costituiscono il presupposto della cittadinanza e che a loro volta presuppongono un contesto, uno stato laico, uno spazio pubblico laico che tuteli e garantisca la dignità e la libera espressione di sé (art.2 della Costituzione).

Migranti: abrogare la legge Bossi-Fini. Ovvero operare per la costruzione di una convivenza basata sulla parità, sulla

lotta allo sfruttamento, sulla valorizzazione delle peculiarità, fra cittadini autoctoni e migranti. Oggi vivono e lavorano

in Italia almeno 5 milioni di persone nate in paesi diversi ma che qui stanno realizzando il proprio progetto di vita, qui

crescono i loro figli, qui, con il loro lavoro e il loro apporto culturale e sociale, garantiscono non solo l’esistenza di

interi cicli produttivi ma modificano in senso positivo e plurale la nostra identità. Ma qui vivono ancora con diritti

negati, con una vita che ruota attorno ad un permesso di soggiorno e al ricatto di un contratto di lavoro che spesso non

arriva, senza diritto di voto e con enormi ostacoli per ottenere cittadinanza formale e sostanziale anche se, spesso, in

Italia sono nati e cresciuti. Operare ad una modifica radicale sia delle norme vigenti che di una cultura xenofoba che è

stata inculcata in questo paese da chi ha preferito far prevalere la guerra fra poveri, è un compito che non riguarda solo i

cittadini e le cittadine migranti ma l’intera società. Maggiori diritti per chi oggi non ne ha, abrogazione delle norme che

impediscono a chi è in questo Paese e si guadagna da vivere di avere una vita regolare, combattere il lavoro nero e

schiavistico e chi ne trae profitto significa non solo migliorare lo standard di vita di chi questo ricatto subisce ma alzare

la soglia della qualità della vita per ognuno. Fino a quando qualcuno sarà costretto a lavorare per un salario inferiore a

quanto stabilito dai contratti, con orari più lunghi, senza possibilità di reagire ai torti pena l’espulsione o la perdita

anche del permesso di soggiorno, anche le lavoratrici e i lavoratori autoctoni saranno costretti ad accettare condizioni di

lavoro peggiori. Fino a quando chi vive in Italia non potrà veder garantito il diritto alla partecipazione politica, alla

piena cittadinanza, esisteranno cittadini di serie A e di serie B. Fino a quando resisteranno e si alimenteranno diffidenze,

speculazioni, assistenzialismi utili solo a mantenere chi è giunto da poco in condizioni di subalternità, ne risentiremo

tutte e tutti. Oggi agire e riportare su binari di civiltà il percorso della Storia è ancora possibile. Si sono creati muri e si

sono alimentati dolori, si sono inculcate barriere fra persone e si sono costruiti veri e propri ghetti nelle metropoli come

nelle province per delimitare spazi di alterità e di disagio non solo di classe. Compito della sinistra di alternativa deve

essere quello di rimuovere decine di anni di scelte sbagliate e di errori politici, culturali e sociali, non attraverso formule

astratte ma rimodulando la vita concreta nei territori, considerando la pluralità culturale come un patrimonio di questa e

delle future generazioni. Si impongono scelte di rottura, come quella di considerare le scelte migratorie come un

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elemento stabile del presente e del futuro, si impone di rompere meccanismi funzionalisti ed economicisti in cui si

considera solo l’arrivo delle braccia e non quello delle persone, si impone quel salto culturale, politico e sociale che

cominci ad intaccare le vicende di un indistinto “noi” separato da un altro opaco “loro”, ma contribuisca alla definizione

di un sostanziale “tutti”.

Dunque, anche in questo ambito tematico, il programma di una sinistra di alternativa ha bisogno di punti di

riferimento e di impegni forti, quelli che abbiamo riassunto nelle anzidette proposte.

PACE E DISARMO 146. No alla guerra. Non partecipare né fornire supporto logistico- ed anzi opporsi - a qualunque azione bellica. Operare per politiche di pace e per una risoluzione concordata delle controversie internazionali. 147. Operare per il disarmo multilaterale di tutti i tipi di armamento e per la denuclearizzazione del pianeta. 148. Ritirare le truppe italiane da tutti i teatri di guerra, a cominciare dall’Afghanistan. 149. Uscire dalla Nato. Ridiscutere gli accordi sulla presenza in territorio italiano delle basi militari Nato e Usa, in vista di un loro progressivo smantellamento. 150. Operare per il riconoscimento dello Stato della Palestina da parte dell’Italia e dell’Unione Europea. Operare per l’accoglimento delle rivendicazioni dei popoli kurdo e saharawi. Da ultimo – ma non certo in ordine di importanza – le nostre proposte nell’ambito della politica internazionale. A cominciare dal netto rifiuto della guerra, anche quando – come purtroppo è accaduto in questi ultimi anni – le prevaricazioni militari si ammantano e auto-giustificano con intenti pseudo-umanitari (interventi di “ingerenza umanitaria”) o con finalità apparentemente pacifiche (missioni di “peace-keaping”, di mantenimento della pace). Tali ipocrisie vanno respinte con fermezza, così come il planetario movimento contro la guerra aveva respinto le criminali quanto fallimentari teorie della “guerra indefinita al terrorismo” e dell’ “esportazione della democrazia”. Occorre battersi perché il diritto internazionale prevalga sull’uso della forza, sottraendo il nostro Paese ad ulteriori avventure in nome della fedeltà atlantica e a danno della sovranità e del diritto dei popoli di decidere in piena autonomia del loro futuro. Per questo occorre porsi l’obiettivo di un’uscita del nostro Paese dalla Nato: un patto militare anacronistico, trasformato nel tempo con modifiche al suo statuto da patto difensivo, di soccorso militare in caso di aggressione ai danni di uno Stato membro, a strumento bellicista giustificativo di mire espansionistiche. Dobbiamo batterci per il rispetto dell’art.11 della nostra Costituzione, per politiche di cooperazione tra i popoli, per un mondo multipolare in cui non vi sia il prevalere di logiche di potenza, per il disarmo e la non proliferazione delle armi di distruzione di massa (non solo nucleari). Bisogna impedire che il nostro Paese continui ad essere utilizzato come pedana di lancio di imprese belliche. Ed è ora di modificare i trattati pluridecennali che consentono una diffusa presenza militare straniera, sfuggendo ad ogni controllo democratico e sottraendo porzioni di territorio alla legittima giurisdizione dello stato italiano. Occorre impegnare il governo italiano, sollecitando in tal senso l’Unione Europea, a intensificare politiche di cooperazione non solo economica, nutrite di scambi culturali e di esperienze istituzionali, tra la sponda Nord e la sponda Sud del Mediterraneo. In questo contesto, va segnalata l’urgenza di una soluzione per un duraturo assetto di pace in Medio Oriente. Un tale esito non può esser raggiunto senza che sia data concreta attuazione al diritto sovrano del popolo palestinese a disporre di uno Stato indipendente, entro le frontiere del 1967, con Gerusalemme Est come capitale, nel rispetto del diritto al ritorno dei profughi: uno Stato che viva pacificamente accanto allo Stato di Israele, secondo quello che prevedono innumerevoli risoluzioni dell’Onu e come chiede a gran voce chiunque operi per la pace (come concretamente facevano nella Striscia di Gaza l’italiano Vittorio Arrigoni, il cui impegno generoso e pacifico a favore della popolazione palestinese è stato violentemente spezzato in circostanze a tutt’oggi da chiarire, e la statunitense Rachel Corrie, schiacciata da un bulldozer dell’esercito israeliano mentre difendeva col proprio corpo alcune case palestinesi). Analogamente, riteniamo urgente la ricerca di una soluzione concordata che dia risposta alle richieste di autonomia dei popoli kurdo e saharawi. Tali urgenti questioni – ma, in generale, tutte le controversie internazionali - vanno affrontate nel rispetto della sovranità dei popoli, del diritto internazionale e, ove sia necessario, nei termini di un percorso negoziato. Siamo contro politiche imperialiste che, sulla base di un preteso “diritto di ingerenza”, sfruttino conflittualità interne agli Stati a giustificazione di interventi armati che in realtà hanno di mira il dominio politico-militare e il controllo delle fonti energetiche. Nei trascorsi venti anni, ciò è avvenuto nella ex-Jugoslavia, in Iraq, in Afghanistan e, da ultimo, in Libia. I risultati sono sotto i nostri occhi: Paesi devastati, popolazioni ridotte alla miseria, strutture economiche già fragili definitivamente dissolte, organismi statuali sfibrati e in perenne emergenza.

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Ci batteremo perché ciò non avvenga ancora e perché il governo italiano non sia ancora una volta supinamente piegato al volere dei suoi alleati atlantici. Purtroppo, venti di guerra tornano ad alzarsi in direzione della crisi siriana e come estrema risposta alla cosiddetta crisi nucleare iraniana. La spinta interventista dell’Occidente rischia di far esplodere il contesto mediorientale, con effetti imprevedibili nei rapporti con i più influenti attori internazionali (in particolare Russia e Cina). La Siria potrebbe diventare il teatro in cui viene messa in scena una riedizione dell’attacco alla Libia: con l’aggravante che, al contrario di quanto accaduto con la vicenda libica, l’intera Unione Europea sembra aggregarsi al carro interventista (compresa la Germania della signora Merkel e la Francia del socialista Hollande). Inutile aggiungere che il nostro governo è per primo scattato sull’attenti. In netta opposizione a tale sciagurata deriva, al fine di avviare una soluzione per la crisi siriana, occorre una metodologia che attivi la diplomazia, riprendendo ad esempio lo spirito della proposta emersa in occasione del vertice dei Paesi Non Allineati: un gruppo di contatto regionale, di cui facciano parte Egitto Arabia Saudita e Turchia ma che includa anche l’Iran (in quanto anche Tehran, alleata di Bashar Assad, non può non “essere parte della soluzione”) e che punti a mettere attorno al tavolo negoziale le parti in causa, previa la cessazione delle ostilità. Il Prc si opporrà a qualsiasi escalation bellico: su questo in accordo con la linea mantenuta appunto da Russia e Cina, le quali hanno posto in sede Onu il loro veto nei confronti di un intervento militare (in Siria come in Iran). (bozza del 29 agosto 2012)