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Filosofia 5^A
L’empirismo inglese: Locke e Hume
JOHN LOCKE (1632- 1704)Locke Studia come avviene la conoscenza umana. Sostiene che:
la mente è una tabula rasa, un foglio bianco su cui l’intelletto “scrive” le idee fornite dai sensi. Tutto ciò che esula dall’esperienza, cioè dai sensi, non è conoscibile.
LE IDEE SEMPLICI E LA PASSIVITÀ DELLA MENTE
L’esperienza fornisce tutte le idee che sono solo idee semplici, sia che derivino dall’esperienza
esterna o interna:
Esperienza esterna, proviene dalle cose naturali e produce le idee di sensazione o
sensazioni (colore, forme, sapori), tutte le qualità che attribuiamo alle cose; il materiale da
costruzione della nostra mente, che ha una funzione passiva e raccoglie le idee provenienti dai
5 sensi;
Esperienza interna, è relativa allo spirito dell’uomo, che ci permette di conoscere i nostri
pensieri, dubbi, sensazioni (gioia, rabbia, dolore, noia) e vissuti. L’esperienza esterna produce
le idee di riflessione, cioè tutte quelle idee che si riferiscono a operazioni del nostro spirito.
Locke mantiene il principio cartesiano secondo cui avere un’idea significa percepirla, cioè esserne coscienti; attraverso questo principio, nel primo dei 4 libri del Saggio, critica gli innatisti sostenendo la tesi che non esistano principi innati. Per elaborare la critica parte da un unico argomento: le idee non ci sono quando non sono pensate, quindi per l’idea esistere significa essere pensata. La critica di Locke si basa quindi su
due argomentazioni:
1. LE IDEE INNATE dovrebbero esistere in tutti gli uomini, in realtà non è così perché da
soggetti, come i bambini, selvaggi e quelli con deficit mentali, non sono pensate e quindi non esistono.
2. I PRINCIPI ETICI, che dovrebbero essere innati, in quanto universali secondo Locke non lo
sono perché non esiste consenso sulle norme morali (ciò che è giusto per un popolo
non lo è per un altro) RELATIVISMO ETICO (RISALENTE ALLA SOFISTICA – V SEC a.C. –
Protagora “siamo misura di tutte le cose”).
L’ATTIVITÀ DELLA MENTE
Chiara Ponti 5^ A A.S. 2014 - 2015 Pag. 1
Filosofia 5^A
La nostra mente non è solo passiva, ma anche attiva perché paragona, confronta e riunisce le
idee semplici ed elabora le idee complesse in modi infinitamente vari. Le idee complesse, infinite
di numero, sono però riconducibili a tre categorie fondamentali:
Idee di modo: del complesso che non possiedono un’esistenza autonoma, ma dipendente
da una sostanza, come l’idea di bellezza, manifestazione di una sostanza;
Idee di sostanza: che vengono considerate come entità particolari distinte e sussistenti di
per sé (es. oro, cavallo, rosa, mela).
Idee di relazioni: idee complesse che nascono dal confronto delle idee fra loro per cui
l’intelletto stabilisce un rapporto fra di esse (es. idea di padre, madre, figlio, nonno,
suocero, genero, alunno). Tra loro ci sono quelle di causa ed effetto (fumo incendio).
LA CRITICA ALL’IDEA DI SOSTANZA Locke ha elaborato un’importante critica dell’idea di sostanza che, insieme alla critica di Hume al concetto di causalità, costituisce uno dei contributi più efficaci dell’empirismo allo sviluppo critico del pensiero moderno. Locke critica l’idea di sostanza corporea e spirituale considerate come “x” sconosciute, per
spiegare questo ricorre alla storia dell’indiano a cui viene chiesto su cosa poggi la terra; egli
risponde “su un grosso elefante”; alla successiva domanda su cosa poggi l’elefante, dice “su una
grossa tartaruga” . Quando gli viene chiesto su cosa poggi la tartaruga egli risponde “su qualcosa
che io non conosco affatto”. Quindi l’idea alla quale noi diamo il nome generale di sostanza non è
altro tale supposto, ma sconosciuto sostegno delle qualità effettivamente esistenti.
La sostanza corporea è il substrato sconosciuto delle qualità sensibili, mentre la sostanza
spirituale è il substrato sconosciuto di quello che fa lo spirito.
Egli non giunge a negare la sostanza, ma si limita a sostenere che è inconoscibile, oscura.
Berkeley nega la sostanza materiale, mentre Hume negherà sia la sostanza materiale che spirituale.
FORME DI CONOSCENZA L’esperienza fornisce il materiale della conoscenza, ma non è la conoscenza stessa che ha
sempre a che fare con le idee, anche se non si riduce alle idee. Consiste nella percezione di un
accordo o di un disaccordo delle idee tra loro, quindi la conoscenza può essere di due tipi:
1. onoscenza intuitiva per evidenza immediata è la più chiara e certa che l’uomo possa
raggiungere e che ci permette di conoscere immediatamente che, per esempio, il dolce non
è amaro, che il verde non è il rosso, che il suono del violino non è il pianoforte, fondamento
di ogni altra conoscenza. Essa è quindi il fondamento della certezza dell’evidenza di ogni
altra conoscenza;
2. Dimostrativa, per evidenza non immediata, ma basata su un procedimento o
dimostrazione della ragione che è portata a ragionare. In questa conoscenza individua le
certezza dell’esistenza di Dio, formulando la prova della sua esistenza a posteriori
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(partendo dall’esperienza) e, utilizzando il principio di causalità, sostiene che il nulla non
può produrre nulla. Se c’è qualcosa e la sua esistenza è testimoniata dai sensi, allora
questo qualcosa è stato prodotto da qualcos’altro; non potendo risalire all’infinito in questa
catena di cose che esistono e sono causate da altro, dobbiamo ammettere l’esistenza di un
essere eterno, onnipotente, sommamente intelligente potente che ha prodotto ogni cosa,
tale essere è Dio.
3. Conoscenza delle cose esistenti al di fuori delle idee noi siamo certi degli oggetti che
vediamo, quando non li vediamo più non ne siamo più certi, ma è probabile che esistano.
Le conoscenze che abbiamo sono certe in piccola quantità e sono sensibili (intuitiva) e non
sensibili (esistenza del nostro io, per intuizione, ed esistenza di Dio). Accanto alla
conoscenza certa, limitata all’intuizione e alla sensazione attuale, esiste la conoscenza
probabile, probabilistica e quindi non assoluta, per la sua conformità con l’esperienza
passata o con la testimonianza di altri uomini.
La conoscenza certa e quella probabile costituiscono il dominio della ragione, da quest’ultima si
distingue la fede, che si basa sulla rivelazione, la cui attendibilità comunque è decisa dalla
ragione. Per ciò la fede non può turbare, né negare la ragione.
DAVID HUME (1711 - 1776)L’EPILOGO IRRAZIONALISTICO DELL’EMPIRISMO
Il ‘700 è l’età dei lumi (immagine metaforica per indicare la ragione umana) in continuità con la
cultura razionalistica che celebra la ragione come fonte dell’uomo.
In contrapposizione al razionalismo sta la filosofia empiristica il cui maggior rappresentante è
David Hume, filosofo scozzese, con il quale l’empirismo raggiunge le conseguenze estreme, approdando allo scetticismo.
Il suo obiettivo è comprendere la natura umana; a differenza dei filosofi precedenti, che hanno
individuato nella ragione umana il tratto distintivo dell’uomo, Hume ha come tesi di fondo la
convinzione che la natura umana è molto complessa per cui la ragione è condizionata anche da altre componenti, come gli istinti e i sentimenti, che rappresentano i veri moventi delle azioni umane. Secondo lui l’esperienza non dà validità alla conoscenza che, ricondotta nei suoi legittimi confini, è solamente probabile.
VitaHume nasce il 26.04.1711 a Edimburgo in Scozia. Studia giurisprudenza. Tra il 1739 e 1740 scrive
Trattato sulla natura umana. Nel 1742 compone la prima parte dei Saggi morali e politici. Dal 1745 al 1748 ha incarichi politici; nel 1748 scrive Ricerca sull’intelletto umano (rielaborazione della prima
parte del Trattato). Nel 1752 compone una Storia dell’Inghilterra – pubblicazione di La ricerca sui
principi della morale (rielaborazione della terza parte del Trattato). Nel 1757 Storia naturale della
religione - composizione dei Dialoghi sulla religione naturale (pubblicati postumi nel 1779). Nel
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1763 è segretario del conte di Hartford, due anni dopo torna in Inghilterra, dove dal 1769 fa una
vita ritirata e tranquilla. E muore il 25.08.1776.
LA TEORIA GNOSEOLOGICAHume vuole costruire una scienza della natura umana su base sperimentale che offra un’analisi sistematica delle varie dimensioni che costituiscono la natura umana: dalla ragione al sentimento,
dalla morale alla politica.
Hume è convinto che l’uomo costituisce la “capitale” del regno del sapere ed è indispensabile
studiarla in modo scientifico. Alla base del procedimento seguito da Hume stanno l’empirismo e
una tendenza anti-metafisica.
IMPRESSIONI E IDEE Hume nell’analizzare la conoscenza umana considera:
1. la portata e la forza dell’intelletto umano;
2. la natura delle idee
3. le operazioni che compiamo nei nostri ragionamenti.
Hume si occupa di conoscenza riprendendo la teoria empiristica secondo cui la conoscenza
umana è costituita da percezioni; il primo passo che fa è dividere le percezioni della mente in due classi in base alla forza e vivacità con cui colpiscono lo spirito:
1) impressioni sono le percezioni nel momento in cui sono attuali, quelle cioè che penetrano
con maggior forza ed evidenza nella conoscenza, quando cioè colpiscono la nostra coscienza.
Sono tutte le sensazioni, passioni ed emozioni, nell’atto in cui vediamo o sentiamo, amiamo o
odiamo, desideriamo o vogliamo.
2) idee o pensieri Le immagini illanguidite sbiadite, illanguidite delle impressioni che si
formano quando pensiamo / ricordiamo un’impressione vissuta nel momento precedente
all’attuale.
IMPRESSIONE
Dolore provato per un calore eccessivo
IDEA
Ricordo del dolore
Vivace e forte Meno vivace e forte
Precede l’idea Deriva dalla corrispondente impressione
LOCKE BERKELEY HUME
L’unico oggetto della
conoscenza umana è
l’idea, ma riconosce al di
là di essa, la realtà
dell’io, di Dio e delle
cose.
Nega la materia, ma
ammette la realtà degli
spiriti finiti e dello spirito
infinito di Dio, entrambe
riconducibili alle idee
Risolve totalmente la realtà nel
molteplice delle idee attuali e non
ammette nulla al di là delle cose.
Per spiegare la realtà del mondo e dell’io
usa soltanto le impressioni, le idee e i
loro rapporti. La conclusione scettica è
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inevitabile
Hume nega l’esistenza delle idee astratte, perché secondo lui esistono solo idee particolari, assunte come segni di altre idee particolari a esse simili.
L’abitudine spiega la capacità di richiamare un gruppo di idee tra loro simili, cioè la funzione del
segno; l’abitudine, considerata da Locke e Berkeley una funzione puramente logica del segno
concettuale, diventa in Hume un fatto psicologico.
LA CRITICA ALLA METAFISICAHume ha una concezione filosofica che nega valore alla metafisica, perché secondo lui le idee su
cui essa si fonda sono astratte e non riconducibili all’esperienza percettiva e come tali
rappresentano delle costruzioni arbitrarie senza fondamento. Nella Ricerca sull’Intelletto Umano
utilizza parole pungenti nei confronti dei libri di teologia e metafisica affermando che “contengono
solo sofisticherie ed inganni” e dovrebbero essere bruciati.
Per il filosofo conoscere significa stabilire delle relazioni tra le idee, cioè connetterle. È
consapevole di aver scoperto una legge che caratterizza l’intelletto umano, il principio di
associazione, una sorta di legge gravitazionale della mente umana, secondo cui la mente umana
ha una tendenza ad associare. Essa è una “dolce forza” che ci trasporta inavvertitamente da
un’idea all’altra:
per somiglianza;
per contiguità nello spazio o nel tempo;
per relazione di causa – effetto.
Hume ritiene che l’associazione stia alla base delle “idee complesse” di Locke, anche se si
propone di mostrare come ad esse non corrisponda alcuna impressione. Lo spazio e il tempo non sono “impressioni”, ma modi con cui le impressioni si dispongono dinanzi allo spirito.
MORALE E SOCIETA’Hume recupera l’idea dell’io su base emozionale, negando la tesi del razionalismo per cui la
ragione era anche il fondamento dell’agire umano (come sosterrà in seguito anche Kant); afferma
inoltre che il fondamento della morale è il sentimento, in particolare di simpatia, che
rappresenta l’agire umano e porta gli uomini ad essere solidali gli uni con gli altri; il sentimento di simpatia è il fondamento dell’etica e dell’agire sociale.
LA CRITICA DI HUME ALL’IDEA DI SOSTANZAHume riprende le argomentazioni di Locke nella critica all’idea di sostanza, distinguendo tra
sostanza materiale e spirituale, ovvero l’io (anima). La nostra mente percepisce solo le impressioni
delle singole cose (oro lucentezza, colore, levigatezza).
LOCKE HUME
(oro lucentezza, colore,
levigatezza) Esperienza costante
e ripetuta ci presenta in
(oro lucentezza, colore, levigatezza) Esperienza costante
e ripetuta ci presenta in connessione tali qualità e la nostra mente è spinta a pensare che tali qualità appartengano
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connessione tali qualità ad un’entità che identifichiamo come una cosa
sostanza è il nome che per abitudine siamo soliti attribuire
ad un determinato insieme di impressioni costantemente
associate tra loro.
L’errore che la mente commette consiste nel ritenere esistente la cosa come sostanza, mentre è una semplice compresenza di singole proprietà. Critica anche la sostanza spirituale sostenendo che sia un flusso caotico di impressioni che caratterizzano la nostra vita interiore (freddo, amore, odio) e per abitudine siamo portati a
pensare che esse abbiano un fondamento unitario che i filosofi identificano come anima, ma che per Hume è una semplice compresenza di singolo proprietà dello spirito. Nel Trattato
sulla Natura umana afferma che quando le nostre percezioni sono assenti, cioè nel sonno profondo, infatti per tutta a sua durata non esistiamo. La morte, secondo Hume, è il
quietamento totale dell’uomo perché con questo evento tutte le nostre percezioni vengono
soppresse e l’uomo, di conseguenza, viene interamente annientato.
LA CRITICA DI HUME AL PRINCIPIO DI CAUSALITA’La critica al concetto di causalità di Hume, insieme alla critica al concetto di sostanza di Locke è il
più importante risultato conseguito per la filosofia moderna. Il concetto di causalità è di ordine sia
metafisico che scientifico:
metafisico se è vero è la causa del principio primo di causalità (origine platoniche –
metodo tomistico parte dai sensi, ne costata i concetti fondamentali arriva al principio di
causalità e infine al concetto di Dio). Criticare questo principio significa colpire nel cuore la metafisica. Scientifico è importante perché da quando è nata la scienza moderna che ricerca le cause efficienti che produce il fenomeno. Si ha una nuova visione della natura di ordine oggettivo, non soggettivo; lo scienziato deve ricercare l’ordine di causa – effetto tra le cose. L’ordine
causale è a vantaggio dell’uomo (“sapere è potere” - Bacone)
La relazione di causa – effetto non è né necessaria né oggettivo, ma soggettivo; non è la
realtà ma la mente dell’uomo che porta, in virtù della “dolce forza” a collegare un fenomeno A
(esempio fuoco) a un fenomeno B (esempio incendio). I fenomeni si presentano contigui e in successione, uno dopo l’altro (hoc post hoc questo dopo questo) con contiguità, regolarità e costanza perché l’esperienza ci presenta costantemente associati determinati fenomeni che nella nostra mente si ripetono proprio perché essa fa esperienza costante di fenomeni ripetuti. La mente è portata, per abitudine, a credere1 che A sia causa di B.
La nostra mente commette l’errore di trasformare l’ “hoc post hoc” in “hoc propter hoc”.
Secondo Hume non possiamo conoscere a priori ma si può conoscere solo a posteriori. Non è
1 credenza è una predisposizione naturale dell’uomo che lo porta a pensare in maniera arbitraria che l’esperienza fatta in passato si
ripeterà anche in futuro (il sole che sorge e tramonta) per cui la mente crede che anche domani sarà così (scetticismo scientifico)
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contraddittorio pensare che domani il sole potrebbe non sorgere perché la non esperienza non può
garantire nulla al futuro. Non ci sono certezze: da qui lo scetticismo scientifico di Hume ovvero
quella concezione filosofica, che Kant non condividerà, secondo cui la scienza non è fonte di certezze assolute. La scienza non certa dà origine allo scetticismo metafisico, che secondo Hume non è un
sapere né certo né valido. Questo concetto viene condiviso da Kant che gli riconosce di “averlo
svegliato dal sonno dogmatico2”.
Immanuel Kant 2 Dogmatismo: il dogma è una concezione secondo la quale esistono verità indiscutibili che, come tali, devono essere accettate.
Consiste nell’accettare opinioni o dottrine senza interrogarsi preliminarmente sulla loro effettiva conoscenza.
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Capitolo 1: Dal periodo precritico al criticismoLA VITA Immanuel Kant nasce nel 1724 a Könisberg, capoluogo della Prussia orientale (oggi
corrisponde alla cittadina di Kalinimbarg della Russia) da famiglia di origine scozzese. Viene
educato, in particolare dalla madre e nel Collegium Friediricanum, nello spirito religioso del
pietismo3 di cui la madre era convinta seguace. Uscito dal collegio studia filosofia, matematica, teologia e della fisica newtoniana; dopo gli studi diventa precettore privato nelle case patrizie.
Nel 1755 ottiene la libera docenza presso l’università di Könisberg dove svolge per 15 anni i
corsi liberi su varie discipline; nel 1766 è sottobibliotecario nella biblioteca reale e nel 1770
diventa professore ordinario di logica e metafisica a Könisberg, fino alla morte.
L’esistenza di Kant è priva di avvenimenti drammatici e di passioni, con pochi affetti e amicizie,
interamente concentrata sullo sforzo continuo di pensiero che si accompagna ad uno stile di vita
rigidamente abitudinario. Non è estraneo agli avvenimenti politici del suo tempo; simpatizza
con i francesi per gli ideali della rivoluzione diretta a realizzare l’ideale di libertà politica. Il suo
ideale politico era la costituzione repubblicana fondata sul principio di libertà dei membri di una società, sul principio di indipendenza di tutti e sulla legge dell’eguaglianza, come
cittadini. Il contrasto con il governo prussiano dopo la pubblicazione della seconda edizione (1794)
de La religione entro i limiti della sola ragione. Kant ne Il conflitto delle facoltà (1798), rivendica la
libertà di pensiero e di parola, contro gli arbitri del dispotismo, anche nei confronti della religione.
Negli ultimi anni Kant viene preso da una debolezza senile che lo priva gradualmente di tutte le
sue facoltà.
Muore nel 1804.
CORNICE STORICO – CULTURALE, La cornice storica – culturale in cui vive Kant è
l’Illuminismo (derivazione tedesca “rischiaramento dalle tenebre per mezzo della luce della
ragione”), il più importante movimento culturale dell’Europa nel Settecento che coinvolge tutti i
campi del sapere (filosofia, letteratura). Nasce nell’Inghilterra di fine Seicento, dalla filosofia di
John Locke (1632 - 1704), si sviluppa principalmente in Francia, dagli anni 30 del Settecento, per
poi diffondersi nei maggiori paesi d’Europa.
L’espressione “età dei lumi” rimanda alla metafora secondo la quale si esalta la ragione e prevale un atteggiamento critico verso la tradizione e le religioni positive (Voltaire), che alimentano l’ignoranza e la superstizione. Gli illuministi si propongono di liberare gli uomini dall’ignoranza e
dalle false credenze per mezzo della luce della ragione.
3 Pietismo: corrente del protestantesimo sorta nel 1600 caratterizzata da rigore etico e una robusta vita di fede. Questa corrente
protestante nella quale viene educato Kant è fondamentale per capire la sua visione della morale come dovere incondizionato e
assoluto.
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Filosofia 5^A
KANT E L’ILLUMINISMO: Nel 1784 Kant scrive un testo Risposta alla domanda: che cos’è
l’illuminismo?” in cui definisce l’Illuminismo come «l’uscita dell’uomo dallo Stato di minorità4» inteso
come «l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro». Lo Stato di minorità è
imputabile a se stessi ed è dovuta non tanto al difetto di intelligenza, ma alla mancanza del
coraggio necessario per utilizzare al meglio la nostra ragione; da qui il motto degli illuministi
«Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza» in modo critico, libero e
autonomo.
Secondo gli illuministi, e Kant, bisogna saper usare la ragione liberamente e pubblicamente, ciò significa assumere un atteggiamento problematizzante nei confronti della realtà e di ogni tesi
preconcetta (ragione = organo di verità), lottando contro la tradizione, l’autorità, il potere politico, le
religioni, le metafisiche. Inoltre secondo loro bisogna sforzarsi di sottoporre ogni realtà al tribunale della ragione5 per distinguere il vero dal falso e individuare ciò che può migliorare la
società, utilizzando la ragione come strumento di progresso. La ragione necessita di un uso
critico, la filosofia di Kant viene infatti chiamata criticismo: il sapere non è erudizione, ma lo
strumento di progresso con un valore civile, finalizzato a migliorare la vita dell’uomo.
Da ciò deriva una diversa interpretazione della figura dell’intellettuale e del suo compito: non è più
il sapiente dedito a speculazioni metafisiche, ma un uomo tra gli altri uomini che lotta per rendere più abitabile il mondo attraverso un’opera di divulgazione culturale (enciclopedia) e ricerca del rapporto con il pubblico. I PERIODI DELLA FILOSOFIA DI KANT Le opere di Kant si dividono in tre periodi:
Fino al 1760, in cui manifesta interesse per le scienze naturali;
Fino al 1781, in cui manifesta interesse metafisico;
Dal 1781 in poi, in cui manifesta interesse per la filosofia trascendentale.
LE PRINCIPALI OPERE DEL PERIODO CRITICO Le opere principali di Kant sono:
Critica della ragion pura, 1781, in cui affronta il problema gnoseologico, la conoscenza;
Critica della ragion pratica, 1788, in cui affronta il problema dell’etica e morale6
Critica del giudizio, 1790, in cui affronta il problema dell’estetica, più precisamente il
sentimento e in particolare il tema della bellezza.
Kant attua una rivoluzione in campo filosofico, sia in campo gnoseologico (conoscenza) ed etico –
morale.
1. IL PRIMO PERIODO (fino al 1760) in cui prevale l’interesse per le scienze naturali. Nel
periodo precritico gli studi di Kant sono sia filosofici che scientifici; i suoi scritti infatti rispondono
4Stato di minorità quando noi non sappiamo usare la nostra ragione.5Portare ogni verità davanti al tribunale della ragione. Kant si propone di portare davanti al tribunale della ragione la ragione
stessa per chiarirne strutture e possibilità, nonostante ritenga che i confini della ragione possono essere tracciati solo dalla ragione
stessa che, essendo autonoma non può essere guidata nel suo procedimento dall’esterno. 6 Etica e morale saranno divise in Hegel
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agli interessi naturalistici propri della sua formazione universitaria come testimoniato dall’opera
Storia naturale universale e teoria del cielo, del 1755, che descrive la formazione dell’intero
sistema cosmico a partire dalla fisica newtoniana.
Accanto ad altre ricerche sui fenomeni fisici, occorre segnalare la dissertazione per la libera
docenza del 1755. La frase della Critica della ragion pratica “Il cielo stellato sopra di me e la legge
morale dentro di me” incisa sulla sua tomba, sintetizza i suoi interessi riscontrabili sia nel periodo
precritico che in quello critico:
A.Natura: richiama a ciò che va oltre e tende all’infinito;
B.Metafisica: approda ad un esito scettico, secondo lui la metafisica non è una scienza.
Tuttavia si dichiara innamorato deluso della metafisica e riconosce l’anelito perenne7 dell’uomo per la metafisica. La ragione umana è spinta in maniera naturale ad
interrogarsi su questioni di natura metafisica:
a) Da dove veniamo?;
b) Dove andiamo?: il finito non ci basta, da qui la questione
gnoseologica (l’anima esiste? Dio esiste?);
c) Il senso della vita.
2. IL SECONDO PERIODO, arriva fino al 1781; in esso prevale l’interesse filosofico e si determina l’orientamento verso l’empirismo inglese e il criticismo. In questo periodo prevalgono gli interessi filosofici e un primo delinearsi di temi e motivi che
confluiranno nel criticismo. Kant ricorre all’immagine dell’oceano “tenebroso senza sponde o fari” e
di “un abisso senza fondo” in cui soltanto con timore e diffidenza ci si avventura. L’anelito ci porta
ad avventurarci oltre l’orizzonte dell’infinito; l’isola dei fenomeni è la metafora che ci permette di
conoscere in maniera valida e certa, per cercare di andare oltre il finito; la metafisica è un ambito
che va oltre le possibilità conoscitive dell’uomo che si pone delle domande fondamentali:
a. qual è l’origine del cosmo (cioè l’archè da cui tutto ha origine)?;
b. esiste Dio (domanda centrale nella metafisica medievale, in particolare nella patristica
di S. Agostino e nella scolastica di S. Tommaso)?
LA DISSERTAZIONE INAUGURALE DEL 1770. Di questo periodo fa parte la dissertazione inaugurale del 1770 (titolo originale La forma e i principi del mondo sensibile e intellegibile – De mundi
7L’anelito perenne , nasce nell’età della ragione, e ci porta ad avventurarci oltre l’orizzonte del finito. La metafisica è un ambito che
va oltre le conoscenze possibili dell’uomo. Kant utilizza la metafora dell’isola e dell’oceano: noi abitiamo l’isola dei fenomeni, che è
l’unico mondo che possiamo conoscere scientificamente (valido e certo), ma siamo spinti a navigare nell’oceano. Questa immagine è
già presente negli scritti precritici, quando paragona la metafisica ad un oceano senza sponde, insondabile, un abisso senza fondo. La
metafisica è un ambito che va oltre le conoscenze possibili dell’uomo.
Isola = è il mondo dei fenomeni, cioè la realtà così come ci appare ed è conoscibile (uti apparent), diversa dalla conoscenza
noumenica, ciò così com’è. Indica la cosa in sé che non è conoscibile (uti sunt);
Mare = rappresenta l’ambito della metafisica, cioè l’ “abisso senza fondo”
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sensibilis atque intellegibilis forma et princiipis), elaborata per la nomina a professore ordinario
all’università di Konisberg, rappresenta lo spartiacque tra il periodo precritico e quello critico.
Il 1769 è l’hanno della “grande luce”, cioè della grande intuizione, che Kant svilupperà nella Critica
della Ragion pura; questa sua intuizione è una vera e propria rivoluzione, paragonata alla
rivoluzione scientifica copernicana; come Copernico ha ribaltato il rapporto plurisecolare terra –
sole passando dalla visione geocentrica, così Kant ha ribaltato il rapporto tra soggetto e oggetto
nella visione collettiva:
RIVOLUZIONE SCIENTIFICA COPERNICANA
RIVOLUZIONE KANTIANA
si passa dalla visione
plurisecolare geocentrica (terra
immobile al centro
dell’universo), alla visione
eliocentrica (sole al centro
dell’universo)
Ribaltamento del rapporto soggetto – oggetto del processo
conoscitivo, superando la teoria della centralità dell’oggetto e
ponendo al centro il soggetto8 che caratterizza la filosofia del
processo conoscitivo. Se non ci fosse un soggetto in grado di
conoscere non avrebbe senso la realtà. Non è più il soggetto
che si adegua passivamente all’oggetto ma l’oggetto che si
adegua al soggetto che è dotato di forme pure a priori senza
le quali la conoscenza sarebbe impossibile. “Benché ogni
nostra conoscenza inizi dall’esperienza essa non si esaurisce
interamente in essa”.
La Dissertazione è la soluzione critica del problema dello spazio e del tempo, che secondo lui
non sono proprietà delle cose, realtà ontologica, nemmeno semplici rapporti tra corpi, ma le forme
pure a priori della sensibilità, cioè le condizioni necessarie senza le quali non potremmo conoscere
sensibilmente le cose9. In essa, Kant sottolinea come le posizioni reciproche delle parti della materia presuppongano determinazioni spaziali e di conseguenza il concetto di spazio è originario. Kant distingue tra:
CONOSCENZA SENSIBILE: dovuta alla ricettività (o passività del soggetto), che ha per
oggetto il fenomeno, cioè la cosa come appare. A sua volta la conoscenza sensibile si può
distinguere in:
materia, cioè la sensazione, ovvero una modificazione degli organi di senso e che
testimonia le presenza dell’oggetto da cui è causata;
forma, cioè la legge, che ordina la materia sensibile ed è indipendente dalla sensibilità.
Questa conoscenza è costituita da spazio e tempo che:
non derivano dalla sensibilità (che la presuppone); sono intuizioni “pure”; precedono ogni conoscenza sensibile e sono indipendenti da essa;
8Centralità del soggetto: carattere della filosofia moderna - rinascimentale9Conoscere sensibilmente una cosa significa spazializzarla e temporizzarla.
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Filosofia 5^A
sono condizioni soggettive e necessarie della mente umana per coordinare a sé, in
virtù di una legge, tutti i dati sensibili;La conoscenza sensibile si distingue in:
I. apparenza: è anteriore all’intervento dell’intelletto logico;
II. esperienza: consiste nel confronto operato dall’intelletto tra una molteplicità di
apparenza; è una forma di conoscenza riflessa; dall’apparenza all’esperienza si va
attraverso la riflessione. I suoi oggetti sono i fenomeni.
CONOSCENZA INTELLETTUALE: Kant condivide l’idea tradizionale che essa abbia la
possibilità di cogliere le cose uti sunt, ossia nel loro ordine intellegibile (i “noumeni”), a differenza
della sensibilità che le percepisce uti apparent, ossia come appaiono i fenomeni
Successivamente il filosofo si stacca da questa distinzione e si pone coerentemente alla
prospettiva criticistica, insistendo sempre di più sui limiti dell’intelletto.
3. IL TERZO PERIODO (dal 1781 in poi) in cui si determina la filosofia trascendentale. Di
questo periodo fa parte la Critica della Ragion pura del 1781, in cui analizza la questione
gnoseologica, semplificata nella seconda edizione del 1787, in particolare per quanto riguarda la
deduzione trascendentale.
Il criticismo come filosofia del limiteLa filosofia di Kant è detta criticismo perché si contrappone al dogmatismo10, e il filosofo fa
della critica lo strumento per eccellenza della filosofia. “Criticare” per Kant significa,
conformemente all’etimologia greca “giudicare”, “distinguere”, “valutare”, “soppesare” ecc,
ossia interrogarsi programmaticamente circa il fondamento di determinate esperienze umane, si interroga sulle possibilità della conoscenza umana, cercando di capire le forme
di conoscenza. Chiarisce:
le possibilità le condizioni che permettono l’esistenza di determinate esperienze;
la validità i titoli di legittimità e non che le caratterizzano; i limiti i confini di validità.Nel criticismo di Kant è centrale e qualificante l’aspetto del limite, tanto che esso si
configura come una filosofia del limite11, un’interpretazione dell’esistenza che cerca di
stabilire, nei vari settori esperienziali, le “colonne d’Ercole” dell’umano, oltre il quale
l’umano non può inoltrarsi: fissa i confini oltre i quali la conoscenza non è valida e
possibile, e dentro i quali la conoscenza è valida, certa, legittima (oltre i quali la
10Dogmatismo: il dogma è una concezione secondo la quale esistono verità indiscutibili che, come tali, devono essere accettate.
Consiste nell’accettare opinioni o dottrine senza interrogarsi preliminarmente sulla loro effettiva conoscenza.11Filosofia del limite o “ermeneutica della finitudine”: questa espressione è stata usata da Nicola Abbagnano, inaugura e sintetizza
l’interpretazione anti-idealistica di Kant che si è sviluppata all’interno della filosofia italiana del secondo dopoguerra.
Chiara Ponti 5^ A A.S. 2014 - 2015 Pag. 12
Se tradizionalmente l’etica dipendeva dalla metafisica, con
la crisi progressiva delle metafisiche tradizionali, con Kant
nasce il problema dell’etica – morale autonoma rispetto
alle speculazioni ontologiche che, come vedremo dipende
dalla ragione.
Filosofia 5^A
conoscenza è illegittima): riconosce il carattere finito o condizionato delle possibilità
esistenziali che non garantiscono di fatto l’onniscienza e l’onnipotenza dell’individuo12.
Questa filosofia del finito non equivale a una forma di scetticismo13 perché tracciare il limite di un’esperienza significa nel contempo garantirne la validità entro il limite stesso. L’assunto di base della filosofia critica “è di reperire nel limite della validità la validità del
limite”. L’impossibilità per la conoscenza di trascendere i limiti dell’esperienza diventa la base
dell’effettiva validità della conoscenza stessa.
Il criticismo non è solo una scoperta geniale di Kant, ma anche il risultato di determinate condizioni e istanze intellettuali della sua epoca e di tutto il pensiero precedente, in
particolare:
1. della rivoluzione scientifica; 2. della crisi progressiva delle metafisiche tradizionali.
La metafisica non è più la “regina delle scienze”, con lo scetticismo di Kant infatti essa non è più il fondamento dell’etica: è
necessario rifondare la morale non nella religione, ma nella ragione.
Capitolo 2: La critica della ragion puraIl problema generale
La Critica della ragion pura è un’analisi critica dei fondamenti del sapere. Ai tempi di Kant
l’universo del sapere, che prende la forma di un’indagine valutativa, si articola in:
Scienza (fisica e matematica), un sapere fondato e in continuo progresso
Metafisica, non sembra aver trovato il cammino sicuro della scienza perché fornisce le
soluzioni più disparate (antitetiche).
Hume ha minato alla base i fondamenti ultimi della metafisica e della scienza, è inevitabile un
riesame globale della struttura e della validità della conoscenza per rispondere in modo
esauriente alla domanda sulla scientificità dei due campi del sapere.
12Lo stesso discorso vale per la morale.13Scetticismo kantiano : Kant non approda allo scetticismo se non in parte, ma non in modo radicale come quello di Hume, perché
l’illuminista riconosce l’ambito di validità in modo assolutamente certo; approda solo allo scetticismo metafisico, che è un sapere né
certo né valido. Riconosce a Hume di “averlo svegliato dal sonno dogmatico”. Il kantismo si distingue dall’empirismo perché 1.rifiuta
i suoi esiti scettici 2. Spinge più a fondo l’analisi critica, cercando di fissare le condizioni di possibilità e i limiti di validità dei
meccanismi conoscitivi, etici, sentimentali…
Chiara Ponti 5^ A A.S. 2014 - 2015 Pag. 13
Filosofia 5^A
Kant non condivide lo scetticismo scientifico di Hume14, infatti secondo il filosofo criticista non si
deve dubitare del valore della scienza; ne condivide lo scetticismo metafisico15 le riconosce una
certa nobiltà e importanza. Tuttavia si dichiara innamorato deluso della metafisica e riconosce l’anelito perenne16 dell’uomo per la metafisica.La ricerca kantiana sui fondamenti del sapere è un’indagine rivolta alla matematica e alla fisica e
alla metafisica, lungo due percorsi paralleli.
Nella Critica Kant cerca di dare delle risposte a:
Com’è possibile la scienza (matematica e fisica pure)? cerca di chiarire le condizioni
che le rendono possibili come scienze.
Com’è possibile la metafisica come disposizione naturale? A cui si aggiunge la terza
domanda com’è possibile la metafisica come scienza? cerca di scoprire “se” esistano le
condizioni tali che possano legittimare le sue pretese di porsi come scienza o “se” essa è
condannata alla non-scientificità.
I giudizi sintetici a prioriQuali sono le condizioni che rendono possibile la conoscenza? Kant si interroga sulle
possibilità della conoscenza umana, cercando di chiarire quali sono le condizioni che la rendono possibile:
1. L’esperienza cioè la condizione imprescindibile (rimanda all’empirismo “ogni conoscenza
parte dall’esperienza”) e il limite oltre il quale non c’è conoscenza, per cui dove non c’è
esperienza non c’è conoscenza; per Kant l’esperienza si divide in:
14Secondo Hume non possiamo conoscere a priori ma si può conoscere solo a posteriori. Non è contraddittorio pensare che domani
il sole potrebbe non sorgere perché la non esperienza non può garantire nulla al futuro. Non ci sono certezze: da qui lo scetticismo
scientifico di Hume ovvero quella concezione filosofica secondo cui la scienza non è fonte di certezze assolute. Hume ritiene che
l’esperienza da un momento all’altro può smentire le verità fondamentali della scienza perché l’esperienza da un momento all’altro
può smentire le verità fondamentali della scienza. Kant sostiene invece che tale realtà non sussiste, in quanto l’esperienza, essendo
condizionata dalle categorie dell’intelletto e dall’io penso non potrà mai smentirne i principi perché essi rappresentano l’ordine
oggettivo della natura che coincide con le condizioni formali del soggetto. 15La scienza non certa dà origine allo scetticismo metafisico, che secondo Hume non è un sapere né certo né valido. Questo
concetto viene condiviso da Kant che gli riconosce di “averlo svegliato dal sonno dogmatico”.16L’anelito perenne , nasce nell’età della ragione, e ci porta ad avventurarci oltre l’orizzonte del finito. La metafisica è un ambito che
va oltre le conoscenze possibili dell’uomo. Kant utilizza la metafora dell’isola e dell’oceano: noi abitiamo l’isola dei fenomeni, che è
l’unico mondo che possiamo conoscere scientificamente (valido e certo), ma siamo spinti a navigare nell’oceano. Questa immagine è
già presente negli scritti precritici, quando paragona la metafisica ad un oceano senza sponde, insondabile, un abisso senza fondo. La
metafisica è un ambito che va oltre le conoscenze possibili dell’uomo.
Isola = è il mondo dei fenomeni, cioè la realtà così come ci appare ed è conoscibile (uti apparent), diversa dalla conoscenza
noumenica, ciò così com’è. Indica la cosa in sé che non è conoscibile (uti sunt);
Mare = rappresenta l’ambito della metafisica, cioè l’ “abisso senza fondo”
Chiara Ponti 5^ A A.S. 2014 - 2015 Pag. 14
Filosofia 5^A
DATITÀ BRUTA, insieme di dati caotici che ci arrivano attraverso i sensi, che precede
l’opera unificatrice dell’intelletto che costituisce il materiale e fonte della conoscenza sensibile per cui ogni nostra conoscenza comincia con l’esperienza;
ORDINE UNITARIO DEI DATI SENSIBILI SECONDO LE FORME PURE A PRIORI
2. Le forme pure a priori17 ovvero:
SPAZIO E TEMPO – che derivano dalla
sensibilità (è la facoltà con cui gli oggetti ci sono
dati intuitivamente attraverso i sensi e le forme
pure a priori di spazio e tempo)
LE 12 CATEGORIE (o concetti puri) – che
derivano dall’intelletto (in senso stretto è la
facoltà con cui pensiamo i dati sensibili tramite i
concetti puri o le 12 categorie)
L’IDEA DI ANIMA, MONDO E DIO – forme pure a
priori della ragione (razionale – è la facoltà con
cui, procedendo oltre l’esperienza cerchiamo di
spiegare globalmente la realtà mediante le idee
mediante le sue forme pure a priori)
Dimostrato che il sapere poggia su giudizi sintetici a priori, Kant deve spiegare la loro
provenienza. Infatti se non derivano dall’esperienza, da dove provengono i giudizi sintetici a priori? La conoscenza è sintesi di materia e forma (espressione aristotelica), ovvero sintesi:
di un elemento a posteriori (MATERIA), ovvero l’esperienza MA “Benché ogni nostra
conoscenza inizi dall’esperienza essa non si esaurisce interamente in essa”, da ciò derivano le forme pure a priori. Per “materia” della conoscenza si intende la molteplicità caotica e mutevole delle impressioni che derivano dall’esperienza (elemento empirico o a posteriori).
di un elemento a priori (FORMA), che avviene prima dell’esperienza (innatismo kantiano18).
Per “forma” della conoscenza si intende l’insieme delle modalità fisse attraverso cui la mente ordina, secondo determinati rapporti (elemento razionale o a priori).
Kant intende mostrare che la conoscenza umana può essere universale e necessaria, ma al
tempo stesso feconda. Per questo motivo il filosofo apre la Critica della ragion pura con un’ipotesi
17ESEMPI : 1.Occhiali colorati o occhiali permanenti attraverso cui la realtà si adegua al soggetto; 2.Programmi interni fissi del computer; 3.Intelaiatura, sistema di caselle, schedario in cui si sistemano gli oggetti e gli eventi (Karl Popper)18 Innatismo kantiano che si distingue dal tradizionale che affonda le sue radici nel platonismo (l’anima ha dentro di sé le idee delle
cose che ha contemplato nella pianura del mondo delle idee); l’innatismo viene sviluppato nella filosofia medievale scolastica e poi
nella filosofia moderna dl razionalismo (vedi tabella di confronto con empirismo). L’innatismo kantiano è dunque diverso da quello
tradizionale perché i suoi schemi a priori sono ciò attraverso cui si conosce; per Kant conoscere vuol dire giudicare, cioè formulare
giudizi, cioè connettere un soggetto ad un predicato.
Chiara Ponti 5^ A A.S. 2014 - 2015 Pag. 15
Forme trascendentali (trascendentale
non è sinonimo di trascendente cioè
ciò che va oltre l’esperienza) sono la
condizione gnoseologica necessaria
per conoscere e coincide con le forme
pure a priori e coincidono con le forme
pure a priori, che unitamente
all’esperienza ci permette di
conoscere.
Filosofia 5^A
di fondo che, secondo lui, risulta immediatamente convalidata dall’esistenza di “giudizi sintetici a
priori”.
Per Kant conoscere vuol dire giudicare, cioè formulare giudizi, cioè connettere un soggetto ad un predicato; es. “il cielo oggi è azzurro”, questo esempio è una conoscenza, cioè un giudizio in
cui avviene la connessione fra due concetti: il primo che funge da soggetto (cielo) e l’altro che
funge da oggetto (è azzurro).
Kant è convinto che la conoscenza umana19, in particolare la scienza, offra il tipico esempio di principi assoluti, verità universali e necessarie, che valgono ovunque e sempre allo stesso modo. Infatti la scienza presuppone alla propria base, alcuni principi immutabili che sono i “pilastri” su cui essa si regge. Esempio le proposizioni denominate da Kant giudizi sintetici a priori:
1. GIUDIZI che consistono nel connettere un predicato con un soggetto;
2. SINTETICI perché il predicato dice qualcosa di nuovo e di più rispetto al soggetto;
3. A PRIORI in quanto universali e necessari perché non possono derivare dall’esperienza, che
non dice che ogni evento debba necessariamente dipendere da cause, ma solo che finora
(nel passato) è stato così.
Secondo Kant, i giudizi fondamentali della scienza non sono:
né GIUDIZI ANALITICI A PRIORI , cioè giudizi enunciati a priori, senza bisogno di ricorrere
all’esperienza, in essi il predicato non fa che esplicitare, con un processo di analisi basato sul
principio di non-contraddizione, quanto è già implicitamente contenuto nel soggetto, quindi sono
infecondi.
Es. “i corpi sono estesi” in cui il concetto di esteso non aggiunge nulla al concetto di corpo.
CARATTERISTICHE Infecondi o sterili (analitici) per cui il predicato non dice nulla di nuovo rispetto al soggetto
Universali e necessari per cui non hanno bisogno di convalide empiriche
Questi giudizi simboleggiano la concezione razionalista (deduttivistica) della scienza che
pretendeva di partire da alcuni principi a priori (le idee innate) per derivare da essi tutto lo scibile,
delineando il modello di un sapere universale e necessario.
né GIUDIZI SINTETICI A POSTERIORI , cioè giudizi in cui il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al
soggetto aggiungendosi o sintetizzandosi ad esso, a posteriori.
Es. “i corpi sono pesanti” formulato solo dopo aver fatto esperienza di più oggetti corporei, dal
momento che il peso, a differenza dell’estensione non è collegato a priori con il concetto di corpo.
CARATTERISTICHE Fecondi (sintetici) per cui il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto;
19 Conoscenza umana. La conoscenza è costituita da giudizi sintetici a priori, conoscere significa giudicare, ovvero connettere un
soggetto a un predicato
Chiara Ponti 5^ A A.S. 2014 - 2015 Pag. 16
Filosofia 5^A
Particolari e non necessari (contingente20) perché derivano dall’esperienza.
Questi giudizi simboleggiano la concezione empiristica (induttivistica) della scienza che pretende di
fondare quest’ultima esclusivamente sull’esperienza, delineando il modello di un sapere fecondo,
ma privo di universalità e necessità.
Kant ritiene:
contro il razionalismo, che la scienza derivi dall’esperienza;
contro l’empirismo che alla base dell’esperienza vi siano dei principi inderivabili
dall’esperienza stessa.
Nella visione kantiana la scienza risulta feconda in un duplice senso:
1) il contenuto e la materia che deriva dall’esperienza;
2) la forma, che deriva dai giudizi sintetici a priori che ne rappresentano i quadri
FORMULA DELLA CONCEZIONE DELLA SCIENZA: Scienza = esperienza + principi sintetici a priori.3) concettuali di fondo, in virtù di questi ultimi, essa è anche a priori, cioè universale
e necessaria.
I giudizi sintetici a priori sono propri della matematica e della fisica, la spina dorsale
della scienza cioè l’elemento che conferisce stabilità e universalità. L’errore di Hume,
secondo Kant è proprio quello di non cogliere la differenza tra i giudizi sintetici (che
esprimono il collegamento percettivo di due fatti concomitanti) e il principio di causalità
“ogni evento ha una causa” che è un giudizio sintetico a priori. Es. “il calore dilata i metalli” formulata in virtù dell’esperienza presuppone alla propria
base il giudizio sintetico a priori della causalità.
CARATTERISTICHE Fecondi (sintetici) il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto, amplificano la
conoscenza, come i giudizi sintetici a posteriori Universali e necessari (a priori) non derivano dall’esperienza
Questi giudizi simboleggiano la concezione criticistica della scienza, la spina dorsale della
scienza cioè l’elemento che conferisce stabilità e universalità. Senza alcuni principi assoluti di
fondo la scienza non potrebbe sussistere. Mentre il ricercatore “humiano” a ogni passo brancola
nel buio, non sapendo se anche nel futuro ogni evento dipenderà da cause o se ogni oggetto
d’esperienza sarà collocato nello spazio e nel tempo, lo scienziato “kantiano” è certo a priori di tali verità, anche se per sapere quali siano le cause che producono gli eventi o che cosa vi sia nello spazio e nel tempo ha bisogno di ricorrere alla testimonianza dell’esperienza.
20 Contingente ciò che potrebbe essere, ma anche non essere.
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Filosofia 5^A
La conoscenza vera secondo Kant è costituita da questo tipo di giudizi che unisce la priorità
(universalità e necessità) alla fecondità (sinteticità). La conoscenza è sintesi di materia e forma o
connessione di dati che può fornire solo l’esperienza, ma la sintesi è impossibile senza gli elementi
razionali, cioè le forme pure a priori.
La rivoluzione copernicana kantianaKant opera una rivoluzione copernicana in ambito gnoseologico21 perché come Copernico ha
rivoluzionato la visione astronomica plurisecolare passando dalla visione gnoseologica alla visione eliocentrica, così Kant ha ribaltato il rapporto tra soggetto e oggetto nella visione collettiva.
Per Kant ma il soggetto ha un ruolo attivo, mentre
RUOLO PASSIVO DEL SOGGETTO
NELLA TRADIZIONE (Eraclito, i Pitagorici e
Platone)
RUOLO ATTIVO DEL SOGGETTO IN KANT
nella tradizione la mente si limitava a riflettere, come uno specchio, un ordine già costituito, un tutto ordinato perché dominato dal logos. Compito del filosofo era decodificare l’ordine della realtà, come il tuffatore di Delo va in profondità e non rimane in superficie, così il filosofo deve decodificare la realtà in maniera approfondita.
La mente umana non si limita a riflettere un ordine già costituito, ma il soggetto ha un
ruolo attivo e centrale (già presente nella
filosofia umanistico – rinascimentale, ovvero
quella moderna)
la realtà non è intersecante (il disordine è solamente apparente), ma un tutto ordinato perché dominato dal logos, (universo = cosmos = ordine, alla base della realtà ordinata e razionale) e il filosofo deve decodificare quell’ordine
la realtà non è un tutto ordinato, i dati sono una
materia caotica, se non ci fossero gli elementi a
priori non ci sarebbe la possibilità di conoscere
Il soggetto ha un ruolo passivo per cui la mente si adeguava alla realtà.
l’io è legislatore del mondo, o più precisamente
“della natura” (come il legislatore dà leggi per
ordinare la realtà, così l’io è legislatore ed ordina
la realtà) che conferisce ordine alla realtà per
cui essa non è già intrinsecamente ordinato
(centralità del soggetto22), ma è la realtà, cioè
21Confronto con la rivoluzione copernicana a pag. 3
Chiara Ponti 5^ A A.S. 2014 - 2015 Pag. 18
Filosofia 5^A
l’oggetto, che si modella sulle forme a priori attraverso cui lo percepiamo.Essendo il fondamento della natura, l’io è anche il
fondamento della scienza che studia. Infatti i
pilastri ultimi della fisica, che in concreto si
identificano con i principi dell’intelletto puro,
poggiano sui giudizi sintetici a priori della mente,
che al loro volta derivano dalle intuizioni pure di
spazio e di tempo e delle 12 categorie
Le facoltà della conoscenza e la Critica della ragion
puraKant distingue tre facoltà conoscitive su cui basa la Critica della ragion pura:
Sensibilità è la facoltà con cui gli oggetti ci sono dati intuitivamente attraverso i sensi e le
forme pure a priori di spazio e tempo;
Intelletto (in senso stretto) è la facoltà con cui pensiamo i dati sensibili tramite i concetti
puri o le 12 categorie;
Ragione è la facoltà con cui, procedendo oltre l’esperienza cerchiamo di spiegare
globalmente la realtà mediante le idee mediante le sue forme pure a priori.
LA PARTIZIONE DELLA CRITICA DELLA RAGION PURA L’opera si divide in due tronconi:
La dottrina degli elementi, studia le forme pure a priori, si divide a sua volta in:
estetica trascendentale che studia le forme a priori della sensibilità, ovvero gli
elementi formali della conoscenza (spazio e tempo);
logica trascendentale che studiale le forme a priori del pensiero, ovvero intelletto e
ragione; si divide in:
1. analitica trascendentale studia le forme pure a priori dell’intelletto (le 12
categorie);
2. dialettica trascendentale studia le forme pure a priori della ragione (le
idee).
La dottrina del metodo, studia l’applicazione delle forme pure a priori
N.B. Intelletto e ragione non sono sinonimi. Sono due facoltà del pensiero umano oggetto di studio
filosofico nella logica trascendentale.
22Centralità del soggetto : conquista fondamentale per il passaggio all’idealismo che sviluppa la posizione kantiana sostenendo che è
l’io a creare la realtà indipendentemente dal soggetto che la conosce (Kant) o addirittura la crea (idealismo)
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RAGIONE (IN SÉ UTI SUNT) INTELLETTO (PER NOI UTI APPARENT)
Definizi
one
Facoltà che spinge l’uomo al di là del
finito, a cercare i principi primi e le cause
ultime del reale tramite l’anelito perenno
che ci spinge verso la metafisica, oltre
l’esperienza, oltre il finito. È la facoltà
dell’infinito dell’assoluto e
dell’incondizionato.
Facoltà che consente all’uomo di
conoscere l’orizzonte dell’esperienza,
(l’isola che abitiamo, l’isola della verità con
la scienza) entro cui può conoscere
legittimamente. È la facoltà del finito.
Oggett
o
L’oggetto verso cui è attratta la ragione è il
noumeno, cioè la realtà considerata
indipendentemente da noi.
Ha come oggetto il finito, è la facoltà del
fenomeno, del finito, conosce solo il
fenomeno.
Limiti La realtà noumenica può essere pensata
con la ragione, ma non conosciuta perché
per Kant conoscere è diverso da pensare.
Il soggetto può pensare a Dio, all’anima e
al cosmo ma non può conoscerli, perché
gli mancano le condizioni necessarie per
conoscerli.
La conoscenza intellettiva, legata e
dipende da quella sensibile, rappresenta
l’unica fonte di conoscenza unica, certa,
valida e possibile all’uomo per conoscere il
finito. Attraverso questa facoltà il soggetto
può pensare i dati che ci arrivano
dall’esperienza grazie alle categorie che
sono concetti puri, universali e propri di
ogni uomo (es. unità, pluralità e totalità)
concetto di trascendentaleIl concetto di trascendentale, che nella tradizione indicava “quelle proprietà universali comuni a
tutte le cose”, cioè quelle che “eccedono” o “trascendono” le categorie in senso aristotelico, per
Kant è connesso all’ “a priori” che non esprime una proprietà ontologica della realtà in sé,
ma solo una condizione gnoseologica che rende possibile la conoscenza della realtà fenomenica. Il concetto di “trascendentale” non è sinonimo di trascendente, ma è ciò che va oltre l’esperienza, infatti il filosofo lo identifica con lo studio delle forme pure a priori e non con gli elementi a priori in quanto tali.
L’estetica trascendentaleNell’Estetica trascendentale Kant studia la sensibilità e le sue forme a priori, ovvero spazio e tempo. Egli considera la sensibilità “ricettiva” perché essa non genera i propri contenuti, ma li
riceve e li accoglie per intuizione della realtà esterna o dall’esperienza interna.
La sensibilità è anche attiva perché organizza il materiale delle sensazioni che sono tramite le
forme pure a priori della sensibilità cioè le intuizioni empiriche che vengono organizzate
Chiara Ponti 5^ A A.S. 2014 - 2015 Pag. 20
Filosofia 5^A
attraverso lo spazio e il tempo che sono le forme a priori della sensibilità, cioè le intuizioni pure della sensibilità
Lo spazio è la forma del senso esterno, cioè quella rappresentazione, necessaria per il
fondamento di tutte le intuizioni esterne e che pone tutte le cose una accanto all’altra.
Il tempo è la forma del senso interno, cioè quella rappresentazione a priori che sta a
fondamento dei nostri stati interni e del loro disporsi l’uno dopo l’altro, ovvero secondo un
ordine di successione. È unicamente dal senso interno che ci giungono i dati del senso esterno, il tempo si configura anche, indirettamente come la maniera universale attraverso cui
percepiamo tutti gli oggetti. Se ogni cosa è nello spazio ogni cosa è però nel tempo (tutti i
fenomeni in generale, ossia tutti gli oggetti dei sensi, cadono nel tempo). È la forma universale in assoluto, gli stati interiori non sono localizzabili nello spazio, ma ogni cosa è
nel tempo.
Kant giustifica l’apriorità dello spazio e del tempo con:
argomenti teorici generali nella “esposizione metafisica”
argomenti tratti dalle scienze matematiche, nella “esposizione trascendentale”.
L’ESPOSIZIONE METAFISICANell’ esposizione metafisica, Kant confuta:
1. La visione empiristica, che considera spazio e tempo come nozioni tratte dall’esperienza;
Kant invece afferma che spazio e tempo non possono derivare dall’esperienza;
2. La visione oggettivistica, che considera spazio e tempo come entità a se stanti o recipienti
vuoti; perché se spazio e tempo fossero davvero dei recipienti vuoti, cioè degli assoluti a sé
stanti dovrebbero continuare ad esistere anche quando sono “vuoti” cioè senza oggetti.
Puntualizza che spazio e tempo non sono contenitori in cui si trovano gli oggetti, ma dei quadri
mentali a priori entro cui connettiamo i dati fenomenici. Pur essendo “ideali” o soggettivi rispetto
alle cose in se stesse, sono tuttavia “reali” e “oggettivi” rispetto all’esperienza (nell’ipotesi in cui
noi portassimo sempre lenti azzurre, tale colore per noi sarebbe altrettanto “reale” per i vari
oggetti). Per questo motivo Kant parla di idealità trascendentale e realtà empirica dello spazio e
del tempo. Kant rifiuta l’oggettivismo di Newton, cioè la sua concezione dello spazio e del
tempo come realtà ontologiche a sé stanti, Kant non si avvicina allo scienziato inglese per la
sua dottrina di spazio e tempo come coordinate assolute dei fenomeni, facendo di essere delle
condizioni a priori del conoscere.
3. La visione concettualistica che considerava spazio e tempo come concetti esprimenti i
rapporti tra le cose. Contro l’interpretazione concettualistica Kant afferma che spazio e tempo
non possono essere considerati come concetti in quanto hanno una natura intuitiva e non
discorsiva, perché noi, ad esempio, non astraiamo il concetto di spazio dalla constatazione dei
vari spazi, ma intuiamo i vari spazi come parti di un unico spazio, presupponendo in tal modo la
rappresentazione originaria di spazio, che risulta un’intuizione pura a priori.
Chiara Ponti 5^ A A.S. 2014 - 2015 Pag. 21
Filosofia 5^A
L’ESPOSIZIONE TRASCENDENTALENell’esposizione trascendentale Kant giustifica l’apriorità dello spazio e del tempo attraverso considerazioni epistemologiche sulla matematica che tendono a una fondazione filosofica.
Egli considera la geometria e l’aritmetica delle scienze sintetiche a priori per eccellenza:
sintetiche in quanto ampliano le nostre conoscenze mediante costruzioni mentali che
vanno oltre il già noto a priori in quanto i teoremi geometrici e aritmetici valgono
indipendentemente dall’esperienza.
Il punto di appoggio delle costruzioni sintetiche a priori della matematica risiede nelle intuizioni di spazio e di tempo. Infatti la geometria è la scienza che determina sinteticamente a priori la proprietà delle serie numeriche, basandosi sull’intuizione pura di tempo e di successione, senza la quale lo stesso concetto di numero non sarebbe mai sorto. In quanto a
priori, la matematica è anche universale e necessaria, immutabilmente valida per tutte le menti pesanti.
La seconda parte della dottrina degli elementi è la logica trascendentale che ha come specifico
oggetto di indagine “l’origine, l’estensione e la validità oggettiva” delle conoscenze a priori che sono proprie dell’intelletto (Analitica trascendentale) e della ragione (dialettica trascendentale).
L’analitica trascendentaleSensibilità e intelletto son entrambi indispensabili alla conoscenza poiché “senza sensibilità
nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I pensieri
sono contenuto [senza intuizioni] sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche”.
Nella prima parte dell’analitica trascendentale, l’analitica dei concetti, Kant risponde alla domanda
“che cosa sono i concetti?”
LE CATEGORIELe intuizioni sono affezioni cioè qualcosa di passivo, mente i concetti sono “funzioni”, cioè
operazioni attive che consistono nell’ordinare, o unificare, diverse rappresentazioni “sotto una
rappresentazione comune”. I concetti possono essere empirici, cioè costruiti con materiali ricavati
dall’esperienza concetti empirici o puri, cioè contenuti a priori nell’intelletto.
Le categorie sono quei concetti basilari della mente che costituiscono le supreme funzioni
unificatrici dell’intelletto. E poiché ciascun concetto è il predicato di un giudizio possibile, le
categorie coincidono con i predicati primi, cioè quelle grandi “caselle” entro cui rientrano tutti i
predicati possibili.
Chiara Ponti 5^ A A.S. 2014 - 2015 Pag. 22
Filosofia 5^A
CATEGORIE ARISTOTELICHE CATEGORIE KANTIANE
Le categorie per Aristotele sono: LE CARATTERISTICHE FONDAMENTALI
DELL’ESSERE; hanno un significato ontologico
cioè LEGES ENTIS cioè dell’essere. I MODI FONDAMENTALI CON CUI SI PREDICA (si dice e si pensa) l’essere; senza di esse non potremmo pensare.Il filosofo individua 10 categorie1) SOSTANZA (Socrate è un uomo)2) QUALITA’ (Socrate è brutto)3) QUANTITA (Socrate è basso)4) RELAZIONE (Socrate è lontano)5) AGIRE (Socrate sta spiegando la lezione)6) SUBIRE (Socrate viene ascoltato)7) LUOGO (Socrate è lungo il fiume)8) TEMPO (Socrate è del IV sec. a.C.)9) AVERE (Socrate non porta le scarpe)10) GIACERE (Socrate è seduto).
Coerentemente con l’indirizzo soggettivistico
della sua filosofia ritiene che le categorie non siano solo LEGES ENTIS, con un significato
gnoseologico – trascendentale, ma sono modi di funzionamento dell’intelletto unifica e sintetizza la molteplicità dei dati che
conosciamo attraverso la sensibilità e l’intelletto.
Le categorie per Kant sono i concetti puri o predicati primi cioè le supreme funzioni unificatrici dell’intelletto.
Hanno un’accezione puramente gnoseologico-trascendentale, in quanto
rappresentano dei modi di funzionamento dell’intelletto (semplici leges mentis), che non
valgono per la cosa in sé, ma solo per il fenomeno.
Kant rimprovera ad Aristotele di aver ritenuto le categorie in modo casuale e frammentario cioè
servirsi di un principio sistematico comune, formula il proprio elenco sulla base del seguente “filo conduttore”: poiché pensare è giudicare (e poiché giudicare significa attribuire un predicato
ad un soggetto) ci saranno tante categorie (cioè tanti predicati primi) quante sono le modalità di
giudizio. E poiché la logica generale raggruppa i giudizi secondo la qualità, la quantità, la relazione e le modalità, Kant fa corrispondere a ogni tipo di giudizio un tipo di categoria. Le
categorie individuate da Kant sono 12:
QUANTITÀ QUALITÀ RELAZIONE MODALITÀ
UNITÀ REALTÀ
penso a
qualcosa di
realmente
esistente
DELL’INERENZA E SUSSISTENZA (SOSTANZA E ACCIDENTE)
POSSIBILITÀ E IMPOSSIBILITÀ penso ad un fatto come
possibile o impossibile
PLURALITÀ NEGAZIONE
penso qualcosa
di non esistente
DELLA CAUSALITÀ E DIPENDENZA (CAUSA - EFFETTO) Causalità penso ad un
ESISTENZA – INESISTENZA penso a ciò che è e non
può non essere;
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(es. cavallo
alato di Platone)
fenomeno da cui proviene un
altro fenomeno;
Dipendenza penso ad un
fenomeno da cui dipende un
altro fenomeno.
TOTALITÀ LIMITAZIONE
penso a
qualcosa che
non è una tale
altra realtà (es.
Sara non è
Chiara)
DELLA COMUNANZA (azione reciproca tra agente e paziente) es. medico che fa
la puntura ad un paziente.
NECESSITÀ – CONTINGENZA
NECESSITÀ Penso a
qualcosa di
necessariamente esistente
CONTINGENZA Penso a
qualcosa di non necessario
che c’è ma potrebbe anche
non esserci.
L’io penso kantiano Una tappa fondamentale della rivoluzione copernicana kantiana è costituita dalla concezione dell’io
penso detto anche “appercezione” o “autocoscienza trascendentale”.
Che cos’è? Non è l’io individuale o empirico (soggetti che hanno un modo diverso di pensare) di
ciascun soggetto, ma è la struttura mentale (unificatrice e sintetizzatrice) uguale in tutti gli uomini
grazie alla quale possiamo conoscere intellettivamente il mondo fenomenico. L’io penso svolge,
dunque, un’attività unificatrice e sintetizzatrice senza la quale l’uomo non potrebbe pensare
alcunché.
Come in Aristotele le categorie hanno bisogno del giudizio per essere adoperate, così in Kant esse
hanno bisogno dell’ “Io penso”, cioè del pensare in atto, per esercitare la loro funzione unificatrice.
Esse sono dunque le facce del prisma del pensare, sono atti unificatori, ma non atti in atto.
La soluzione kantiana può essere articolata in:
1. poiché tutti i pensieri presuppongono l’io penso L’UNIFICAZIONE DEL MOLTEPLICE DERIVA DA UN’ATTIVITÀ SINTETICA CHE HA LA SUA SEDE NELL’INTELLETTO. La molteplicità delle cose non è un’unità, ciò che unifica il molteplice è l’io
penso, infatti l’intelletto svolge questa funzione unificatrice attraverso l’io penso; il fondamento
del soggetto è l’oggetto; per Kant l’oggetto presuppone il soggetto, il quale introduce nella
natura l’io legislatore della natura23;
Distinguendo tra l’unificazione (il processo tramite il quale si attua la sintesi del molteplice)
e l’unità stessa (il principio in base a cui si realizza l’unificazione), Kant identifica la suprema unità fondatrice della conoscenza; con l’io penso cioè l’identica struttura mentale che
23Non è un ordine indipendente dal soggetto, sono l’io penso e le sue forme a priori a introdurre l’ordine nella natura (differente
rispetto al concetto tradizionale – intrinsecamente ordinato – era concepito come l’io che sta al centro e si oppone al soggetto – il cui
fondamento era nell’oggetto stesso).
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accomuna gli uomini (“appercezione” o “autocoscienza” trascendentale). Infatti senza tale
autocoscienza le varie rappresentazioni non si configurerebbero come “mie” e quindi
risulterebbero impossibili;
L’attività dell’io penso si attua tramite giudizi che sono i modi concreti con cui il molteplice
dell’intuizione viene pensato.
2. e poiché l’io penso pensa tramite le categoriei giudizi si basano sulle categorie, che sono le diverse maniere di agire dell’io penso, cioè le dodici
funzioni unificatrici in cui si concretizza la sua attività sintetica;
3. ne segue che tutti gli oggetti pensati presuppongono le categorie di conseguenza, gli oggetti possono essere pensati solo se categorizzati.
L’io penso è dunque il principio supremo della conoscenza umana che permette ad ogni realtà di entrare nel campo dell’esperienza e divenire un oggetto per-noi. Nello stesso tempo
rappresenta ciò che rende possibile l’oggettività cioè l’universalità e la necessità del sapere.
L’io penso non è un io creatore, ma ha un carattere solo formale e quindi finito, perché si
limita semplicemente a ordinare una realtà che gli preesiste e senza la quale la sua stessa conoscenza non avrebbe senso.
Fenomeno e Noumeno Il concetto kantiano "per noi" è chiamato, in altri termini, fenomeno, o apparenza sensibile, gli
oggetti dell'esperienza cioè la cosa uti apparet, ovvero la realtà come ci appare tramite le forme a priori che sono proprie della nostra struttura conoscitiva. Il fenomeno è percepito attraverso la sensibilità, non è un'apparenza illusoria, ma un oggetto reale, anche se soltanto
nel rapporto con il soggetto conoscente. Il fenomeno ha una peculiare oggettività (universalità e necessità) che consiste nel fatto di valere allo stesso modo per tutti gli intelletti
umani. Il fenomeno è l'oggetto proprio della conoscenza umana che è sempre sintesi di un elemento materiale e di uno formale; la conoscenza per Kant non può estendersi al di là
dell'esperienza (insieme dei fenomeni) altrimenti non è conoscenza, ma un vuoto pensiero.
La realtà non si esaurisce nel fenomeno perché se c'è un “per noi” deve per forza esserci anche
un “in sé” ossia un x metafenomenica (che va oltre l'esperienza) che si fenomenizza solo in rapporto a noi. Il concetto kantiano "in sé" è chiamato noumeno, realtà pensabile, intellegibile puro; indica la realtà uti est, considerata nel suo ordine intellegibile, indipendentemente da noi e dalle forme a priori attraverso cui la conosciamo. Il noumeno è percepito attraverso la
conoscenza intellettuale, è il necessario correlato dal fenomeno. La cosa in sé costituisce il
presupposto del discorso gnoseologico di Kant che distingue tra significato positivo e uno negativo del noumeno:
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in senso positivo in cui il noumeno è l'oggetto di un'intuizione non sensibile, cioè di una
conoscenza extra fenomenica a noi preclusa;
in senso negativo, l'unica che possiamo legittimamente adoperare, in cui il noumeno è il
concetto di una cosa in sé che non può mai entrare in rapporto conoscitivo dell'uomo.
Il noumeno quindi più che una realtà è un concetto – limite che serve ad arginare le nostre
pretese conoscitive; quindi l'intelletto può soltanto pensare le cose in sé nella loro possibilità, sotto forma di x ignote.
La dialettica trascendentale Nell’Estetica e nell’Analitica Kant dimostra come sia possibile il sapere scientifico; nella Dialettica
trascendentale invece affronta il problema se la metafisica possa essere anch’essa costituirsi come scienza. Già il termine dialettica intesa come “logica della parvenza” o apparenza illusoria
lascia intuire la risposta negativa di Kant a tal proposito.
Per “dialettica trascendentale” Kant intende l’analisi e lo smascheramento dei ragionamenti fallaci (ingannevoli) della metafisica che nonostante la sua infondatezza rappresenta “un’esigenza
naturale e inevitabile della mente umana”. La filosofia vuole chiarire la genesi profonda di questo
anelito / esigenza.
LA GENESI DELLA METAFISICA E DELLE SUE TRE IDEE La metafisica è un parto della ragione; la
ragione è l’intelletto stesso che come facoltà logica unificatrice dei dati sensibili tramite le categorie, è inevitabilmente portato a voler pensare anche senza dati. In ciò è simile a una
colomba che, presa dall’ebrezza del volo e avvertendo l’impedimento dell’aria, immagini di poter
volare anche senza l’aria, non rendendosi conto che l’aria, pur essendo un limite al suo volo ne è
la condizione immanente, in mancanza della quale essa precipiterebbe a terra.
Kant ritiene che questo voler procedere oltre i dati esperienziali derivi dalla nostra innata tendenza
all’incondizionato e alla totalità, cioè: la nostra ragione, mai paga del mondo fenomenico, che è il
campo del condizionato e del relativo, è irresistibilmente attratta verso il regno dell’assoluto e
quindi verso una spiegazione globale e onnicomprensiva di ciò che esiste.
Questa spiegazione fa leva su tre idee trascendentali proprie della ragione che costritutivamente
portata a unificare:
i dati del senso interno mediante l’idea di “anima”, che è l’idea della totalità assoluta dei fenomeni
interni;
i dati del senso esterno mediante l’idea di “mondo”, che è l’idea della totalità assoluta dei
fenomeni esterni;
i dati interni ed esterni mediante l’idea di “Dio”, inteso come totalità di tutte le totalità e
fondamento di tutto ciò che esiste.
L’errore della metafisica consiste nel trasformare queste tre esigenze (mentali) di unificazione dell’esperienza in altrettante realtà dimenticando che non abbiamo mai a che fare con la cosa in
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sé, ma solo con la realtà non oltrepassabile del fenomeno. La dialettica trascendentale vuole
appunto essere lo studio critico e la denuncia impietosa dei fallimenti del pensiero quando
procede oltre gli orizzonti dell’esperienza. Per dimostrare l’infondatezza della metafisica, Kant
prende in considerazione le tre pretese scienze che ne costituiscono l’ossatura: la PSICOLOGIA RAZIONALE, che studia l’anima. Kant ritiene che la psicologia razionale o metafisica sia fondata su di un “paralogismo” cioè su di un ragionamento errato che consiste
nell’applicare la categoria di sostanza (categoria applicabile solo ai dati sensibili) all’io penso,
trasformandolo in una “realtà permanente”, chiamata “anima”. In realtà l’io penso non è un
oggetto empirico, ma soltanto un’unità formale, cioè la condizione formale suprema del costituirsi dell’esperienza. In realtà noi non possiamo conoscere l’io noumenico, ma solo l’io quale appare a noi stessi tramite le forme a priori, ossia l’io fenomenico;
la COSMOLOGIA RAZIONALE, che indaga il cosmo, ovvero il mondo inteso nella sua totalità. Questa
pretesa scienza vuole fare uso della nozione di mondo come totalità assoluta dei fenomeni cosmici, è destinata a fallire in quanto noi possiamo sperimentare questo o quel fenomeno,
ma non la serie completa dei fenomeni. I filosofi che hanno cercato di dare una risposta razionalmente fondata a questioni di natura metafisica intorno al mondo nella sua totalità (es. il mondo è finito o infinito, sia temporalmente che spazialmente?; di che cosa è composto il
cosmo? Di elementi semplici o composti?; nel mondo regna la necessità o la libertà?; all’origine del
mondo c’è un essere trascendente o no?) si sono imbattuti in errori, ovvero antinomie (nomos =
legge, contro la legge), conflitti della ragione in cui una tesi è l’opposto dell’antitesi; questo
crea veri e propri “conflitti della ragione con se stessa”, che si concretizzano in copie di
affermazioni opposte, dove l’una (la tesi) afferma e l’altra (l’antitesi) nega e non è possibile
decidere tra le due;
PRIMA ANTINOMIA
Tesi Antitesi
Critica: il mondo ha un suo inizio nel tempo e,
rispetto allo spazio, è chiuso dentro limiti.
Critica: il mondo non ha né un inizio, né limiti
nello spazio, ma è infinito così rispetto al
tempo come rispetto allo spazio.
Prolegomeni: il mondo ha un limite secondo il
tempo e secondo lo spazio
Prolegomeni: il mondo è infinito secondo il
tempo e lo spazio.
SECONDA ANTINOMIA
Tesi Antitesi
Critica: nel mondo, ogni sostanza composta
consta di parti semplici, e in nessun luogo
esiste qualcosa che non sia o il semplice o ciò
Critica: nel mondo, nessuna cosa composta
consta di parti semplici, e in nessuna parte del
mondo esiste alcunché di semplice.
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che ne risulta il composto.
Prolegomeni: tutto nel mondo consta del
semplice.
Prolegomeni: non vi è niente di semplice, tutto
invece è composto.
TERZA ANTINOMIA
Tesi Antitesi
Critica: La causalità in base a leggi di natura
non è l’unica da cui sia possibile far derivare tutti i
fenomeni del mondo. Per la loro spiegazione si
rende necessaria l’ammissione anche d’una
causalità mediante libertà.
Critica: non c’è liberta alcuna, ma tutto nel
mondo accade esclusivamente in base a
leggi di natura
Prolegomeni: vi sono nel mondo della cause con
libertà
Prolegomeni: non vi è libertà tutto invece è
natura
QUARTA ANTINOMIA
Tesi Antitesi
Critica: Del mondo fa parte qualcosa che – o
come suo elemento o come sua causa –
costituisce un essere assolutamente necessario
Critica: in nessun luogo – né nel mondo, né
fuori del mondo – esiste un essere
assolutamente necessario che ne sia la
causa.
Prolegomeni: nelle serie delle cause cosmiche
vi è un certo essere necessario
Prolegomeni: in quella serie non vi è niente
di necessario, tutto è contingente.
L’idea di mondo è al di là di ogni esperienza possibile, non può fornire alcun criterio atto a decidere
per l’una o per l’altra delle tesi in conflitto.
la TEOLOGIA RAZIONALE O NATURALE, che specula e riflette filosoficamente su Dio. Tutti i
filosofi, fin dall’antichità hanno preteso di fondare riflessioni razionalmente formate per dimostrare l’esistenza di Dio. Secondo Kant la questione della teologia razionale naturale risulta priva di valore conoscitivo in quanto rappresenta l’ideale della ragion pura, cioè quel
supremo “modello” personificato di ogni realtà e perfezione che i filosofi hanno designato con il
nome di ens relissimum, l’essere da cui derivano e dipendono tutti gli esseri. Poiché questo ideale
ci lascia totalmente nell’ignoranza circa la sua realtà effettiva, la tradizione ha elaborato tutta una
serie di “prove dell’esistenza di Dio”, che Kant raggruppa in 3 classi:
1. LA PROVA ONTOLOGICA che risale a sant’Anselmo, ma che Kant assume nella forma cartesiana,
ricava l’esistenza di Dio dal semplice concetto di Dio affermando che come essere perfettissimo
non può mancare dell’attributo dell’esistenza. Distinguendo tra piano mentale e piano reale, Kant
obietta che non è possibile saltare dal piano della possibilità logica a quello della realtà ontologica
perché l’esistenza può essere contrastata solo per via empirica e non dedotta per via puramente
intellettiva. Kant sostiene infatti che “l’esistenza non è un predicato” cioè non è una proprietà
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logica, ma un fatto che si può affermare mediante l’esperienza. Pertanto la differenza tra cento
talleri reali e cento talleri pensati non risiede nella serie delle loro proprietà concettuali identiche,
ma nel fatto che gli uni esistono e gli altri no. Di conseguenza, la prova ontologica o è impossibile o
è contraddittoria:
impossibile se vuol derivare da un’idea una realtà;
contraddittoria se nell’idea del perfettissimo assume già quell’esistenza che vorrebbe
dimostrare entrambi fallace.
È un uso illegittimo del principio della causalità ( CATEGORIA ) pertanto si tratta di argomentazioni
sostanzialmente infondate
2. LA PROVA COSMOLOGICA che costituisce il filtro delle “vie” tomistiche gioca sulla distinzione tra
contingente e necessario, affermando che “se qualcosa esiste, deve anche esistere un essere
assolutamente necessario stesso esisto, deve quindi esistere un essere assolutamente
necessario”.
Secondo Kant questo argomento un uso illegittimo del principio del principio di causa perché,
partendo dall’esperienza della catena degli enti etero causati (i contingenti), pretende di
innalzarsi, oltre l’esperienza, a un primo anello incausato (il necessario). Ma il principio di
causa è una regola con cui connettiamo i fenomeni tra loro e che quindi non può affatto servire
a connettere i fenomeni con qualcosa di trans-fenomenico.
L’argomento si fonda su una serie di forzature logiche e quindi ricade nella prova ontologica;
dopo essersi elevato all’idea del perfettissimo, cioè ens realissimum che non può fare a meno
di esistere e legano forzatamente tra di loro (necessario - perfettissimo), l’argomento pretende
di aver dimostrato delle realtà. Anche la prova cosmologica implica la logica di quella
ontologica, che da puri concetti vuol far scaturire delle esistenze. Anche questo argomento,
che in sostanza parte dell’esperienza per saltare al di là di essa, risulta dunque
inequivocabilmente fallace e privo di autentica capacità dimostrativa.
3. LA PROVA FISICO – TEOLOGICA (si riferisce allo studio di Dio) o PROVA FISICO - TELEOLOGICA (che
significa “studio degli scopi”, indica considerazione dei fini in quanto tutto ciò che vediamo ha un
fine e origine di ogni fine è Dio, per cui dire “teleologico” è come dire finalistico). Considera l’ordine,
la finalità e la bellezza del mondo per innalzarsi a una Mente ordinatrice, identificata con un Dio
creatore, perfetto e infinito. Essa ha trovato fortuna anche presso gli illuministi, che l’hanno
espressa con il noto argomento secondo il quale se c’è un orologio deve per forza esserci un
orologiaio. Anche questa prova, secondo Kant, è minata da una serie di forzature logiche e
dall’utilizzazione mascherata dell’argomento ontologico.
a. Essa parte dall’esperienza dell’ordine del mondo, ma pretende di elevarsi subito all’idea di
una causa ordinante trascendente, dimenticando che l’ordine della natura potrebbe essere
un frutto della natura stessa e delle sue leggi immanenti. Infatti afferma che tale ordine può
scaturire dalla natura che concepisce Dio non solo come causa dell’ordine del mondo, ma
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anche come causa dell’essere stesso del mondo, ossia come Creatore. Esso identifica la
causa ordinante con l’essere necessario creatore, ricadendo così nella prova cosmologica, la
quale ricade a sua volta in quella ontologica.
b. La prova pretende di stabilire, sulla base dell’ordine cosmico, l’esistenza di una causa
infinita e perfetta. Noi sappiamo che in questo universo una gradazione di ordine però
relativa ai nostri parametri mentali e non certo infinito e priva di imperfezioni. Se affermiamo
che la Causa del mondo e infinitamente perfetta, saggia; è perché altri, saltando “l’abisso”
che separa il finito dall’infinito, identifichiamo sottobanco, l’ipotetica causa ordinante con
l’idea della realtà perfettissima di cui parla l’argomento ontologico.
Come Kant, con tali critiche, abbia inteso mettere in discussione la dimostrabilità razionale e
metafisica della sua esistenza. In sede teorica, Kant non è ateo, agnostico, in quanto ritiene che la
ragione umana non possa dimostrare né l’esistenza di Dio, né la sua non-esistenza.
N.B. Queste prove possono essere raggruppate a loro volta in due gruppi:A. A POSTERIORI che partono dalla constatazione del mondo, l’analizzano per arrivare a
dimostrare che Dio esiste; queste due prove sono state effettuate da Aristotele e S. Tommaso
d’Aquino (l’Aristotele cristiano);
B. A PRIORI che sono prove formulate indipendentemente dall’esperienza; esse sono formulate
da Anselmo d’Aosta e Cartesio.
A POSTERIORI ARISTOTELE: Aristotele fornisce una prova dell’esistenza di Dio, tratta dalla teoria del
movimento o divenire inteso come possibilità di assumere nuove condizioni o forme. Egli afferma
che tutto ciò che è in moto è necessariamente mosso da altro; in questo processo di rimandi
non è possibile risalire all’infinito perché altrimenti il movimento iniziale rimarrebbe inspiegato.
Deve per forza esserci principio assolutamente primo e immobile, causa iniziale di ogni movimento possibile che Aristotele identifica in Dio; S. TOMMASO D’AQUINO Partendo dalla critica della dimostrazione ontologica di Anselmo,
Tommaso afferma che la dimostrazione a priori non è valida perché parte dalla definizione di Dio,
anch’essa tutta da dimostrare perché l’uomo non ha una nozione adeguata di Dio visto che EGLI
sfugge al campo dell’esperienza sensibile. Allora l’unico modo per dimostrare l’esistenza di Dio
con la ragione è partire dall’esperienza, cioè con una dimostrazione a posteriori. Tommaso
privilegia come punto di partenza il mondo esteriore, i sensi, poiché ritiene che “nulla è nell’intelletto che prima non è stato nei sensi”. Egli quindi dimostra l’esistenza di Dio con le
celeberrime 5 vie, già esposte nella “Somma contro i gentili”, sono espresse nella loro
formulazione classica nella “Somma teologica”; ognuna di esse rappresenta un’argomentazione
atta a sostenere la tesi del filosofo:
I. La prima via: la prova cosmologica fondata sul concetto di movimento, ricalca la
dimostrazione del motore primo immobile di Aristotele. Essa parte dal principio secondo cui
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Filosofia 5^A
“tutto ciò che si muove è mosso da altro”, non è possibile procedere all’infinito e dobbiamo
riconoscere che a un certo punto esiste un motore non mosso da nullo, ma capace di
generare movimento di per sé; questo primo motore sarà quindi Dio.
II. La seconda via: la prova causale siccome ogni effetto rimanda ad una causa efficiente,
nell’ordine delle cause efficienti non si può risalire all’infinito altrimenti non vi sarebbe una
causa prima o ultima, e quindi neppure tutte le cause intermedie. La causa efficiente prima è
Dio.
III. La terza via si fonda sui concetti di necessità e di contingenza, cioè sul rapporto tra
necessario e possibile: tutte le cose esistenti potrebbero anche non esistere e quindi sono
contingenti e possibili. Ma nella serie degli esseri contingenti bisogna risalire a qualcosa di
necessario, cioè a qualcosa che esiste necessariamente di per sé altrimenti dovremmo
ammettere che la realtà deriva dal nulla. L’essere originario e necessario è quindi Dio.
IV. La quarta via si riferisce ai gradi di perfezione di una determinata qualità: nelle cose si
trovano il “meno” e il “più” di tutte le qualità che esisteranno anche nel grado massimo. La
causa dell’essere, della bontà e di ogni perfezione è Dio.
V. La quinta via si desume dalla finalità delle cose: le cose naturali, sebbene prive di
intelligenza appaiono tutte dirette a un fine; questo non potrebbe accadere se non fossero
governate da un essere dotato d’intelligenza. Questo essere che ordina tutte le cose è Dio.
A PRIORI Anselmo d’Aosta: Nel Proslogion Anselmo ricorre a un’argomentazione che parte dal concetto
di Dio per giungere a dimostrarne l’esistenza come “ciò di cui non si può pensare nulla di
maggiore”. Chi nega l’esistenza di Dio, deve possedere il concetto di Dio poiché è impossibile
negare la realtà di qualcosa che non si pensi. Ora il concetto di Dio è il concetto per cui non si può
pensare nulla di maggiore. Ma ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore non può esistere nel
solo intelletto, poiché se fosse solo nell’intelletto, lo si potrebbe pensare anche come esistente
nella realtà, e cioè come maggiore, ma in tal caso ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore
sarebbe qualcosa di maggiore. E dunque impossibile che ciò di cui non si può pensare nulla di
maggiore, ovvero Dio, esista solo nell’intelletto e non nella realtà. La sua dimostrazione ontologica
si basa su due presupposti:
1. Ciò che esiste nella realtà è maggiore, cioè “più perfetto” di ciò che esiste solo
nell’intelletto;
2. Negare che ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore (cioè Dio) esista nella realtà
significhi contraddirsi, perché vorrebbe dire pensare che si può pensarlo maggiore cioè
esistente nella realtà. Quindi è impossibile che ciò di cui non si può pensare nulla di
maggiore, ovvero Dio esista nel solo intelletto e non nella realtà.
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Cartesio: la dimostrazione dell’esistenza di un Dio perfetto e buono ha in Cartesio un valore
gnoseologico (come l’uomo conosce, gnoseologia – teoria della conoscenza) poiché Dio costituisce il fondamento e la garanzia sia della verità di ciò che l’uomo conosce, sia dell’esistenza del mondo esterno. Cartesio elabora le sue prove sull’esistenza di Dio con un
procedimento a priori, cioè patendo dal cogito e precisamente dall’analisi dei contenuti del pensiero.
Alle due prove Cartesio aggiunge la tradizionale prova ontologica secondo cui non è possibile
concepire Dio come essere sovranamente perfetto senza ammetterne l’esistenza, perché
l’esistenza è una delle sue perfezioni necessarie.
HHannah Arend t annah Arendt, nasce il 14 ottobre 1906 a Hannover; cresce a Konisberg e Berlino. Diventa
studentessa di filosofia di all'università di Marburgo, allieva di Martin Heidegger con cui ha una
relazione sentimentale segreta, scoprendone tardi i suoi rapporti col nazismo da cui si dissocia,
non riuscendo tuttavia mai del tutto a cancellare l'amore e la devozione verso il suo primo maestro.
Dopo aver chiuso questa relazione, Hannah Arendt si trasferisce a Heidelberg dove si laurea con
una tesi sul concetto di amore in Sant'Agostino, sotto la tutela del filosofo (ex psicologo) Karl
Jaspers, pubblicata nel 1929. A causa delle sue origini ebraiche, nel 1933 non può ottenere
l'abilitazione all'insegnamento nelle università tedesche.
Nel 1929 sposa il filosofo Gurther Anders, da cui si separa nel 1937, lascia la Germania per Parigi,
dove conosce il critico letterario marxista Walter Benjamin e aiuta gli esuli ebrei fuggiti dalla
Germania nazista.
Dopo l'invasione e occupazione tedesca della Francia durante la Seconda Guerra mondiale, e il
conseguente inizio delle deportazioni di ebrei e ebree verso i campi di concentramento tedeschi,
Hannah Arendt deve nuovamente emigrare con il marito Heinrich Blücher, sposato nel 1940, negli
Stati Uniti, con l'aiuto del giornalista americano Varian Fry. Diventa attivista nella comunità ebraica
tedesca di New York, e scrisse per il periodico in lingua tedesca Aufbau.
Dopo la seconda guerra mondiale si riconcilia con Heidegger e testimonia in suo favore durante un
processo in cui è accusato di aver favorito il regime nazista.
Nel 1951 ottiene la cittadinanza americana e nello stesso anno pubblica il Saggio sulle origini del
totalitarismo che le apre la carriera universitaria.
Nel 1961 viene inviata dal giornale “New Yorker” al processo Eichmann a Gerusalemme.
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Filosofia 5^A
Nel 1963 pubblica La banalità del male in cui sostiene che all’origine della banalità non c'è la
stupidità, ma la mancanza di pensiero critico quindi obbedienza cieca all’autorità.
Successivamente l'università scozzese di Aberdeen la invita a tenere prestigiose conferenze.
Comincia a scrivere La vita delle menti, opera non conclusa.
Muore il 4 dicembre 1975 in seguito ad un attacco cardiaco ed è sepolta al cimitero del Bard
College, in Annandale-on-Hudson, US-NY.
La “Banalità” del male Il totalitarismo produce una società di individui spersonalizzati, irresponsabili, docili e colonizzati sin nelle loro coscienze. In colui che si adatta completamente a questo regime si
può incontrare la “banalità” del male.
La malvagità umana, infatti, non sorge, per Arendt, da abissali profondità (come per Freud),
ma dall’assenza di pensiero critico cui si giunge con la fine del dialogo della coscienza con se
stessi, quel dialogo dove l’alter interiore ci aspetta di ritorno dalle nostre azioni, approvandole o dichiarandole inaccettabili. Quando tale dialogo non ha più luogo, diventiamo eticamente ottusi e ci trasformiamo in strumenti del male. Il totalitarismo vive di questa banalità.
IL PROCESSO CONTRO EICHMANN La Arendt approfondisce tale argomento in un libro molto noto, La banalità del male. Eichmann a
Gerusalemme (1963), scritto in occasione del processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann,
uno degli ufficiali del Reich responsabile della Shoà, che aveva mandato a morte centinaia di
migliaia di ebrei. A lui era stato attribuito l’incarico di provvedere alla “soluzione finale”, cioè allo
sterminio degli ebrei internati.
La Arendt, che aveva assistito al processo tenutosi a Gerusalemme come inviata speciale del
“New Yorker”, si convince che oltre che “radicale” il male dei campi di sterminio è “banale”
COMPLICI DEL MALELa Arendt si convince che un male tanto “estremo” e “radicale” come quello dei totalitarismi
novecenteschi non può essere concepito solo come il prefetto mostruoso di alcuni carnefici
demoniaci e malvagi. Per esplicarsi in tutta la sua terribile virulenza, infatti, esso deve contare sul
supporto e la collaborazione di una vasta parte della società (intellettuali, scienziati, militari, medici,
ecc.), che contribuisce attivamente con la sua opera a far funzionare la macchina infernale
dell’organizzazione nazista o che fa finta di non vedere i crimini mostruosi che si consumano sotto
i suoi occhi.
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Filosofia 5^A
Queste riflessioni, condotte da una donna ebrea, attirarono le critiche dello stesso mondo ebraico,
che vide in esse una sottovalutazione del fenomeno nazista e delle sue atrocità.
L’espressione stessa “Banalità del male” fece scandalo; in realtà tale espressione, a differenza di
come alcuni vollero credere, non implica una banalizzazione del male, ma al contrario mette in
luce la possibilità che l’uomo apparentemente normale, diventi complice e strumento del male.
La riflessione arendtiana, dunque, lungi dal banalizzare la questione del male, la rende
profondamente inquietante.
LA ZONA GRIGIASecondo la Arendt questa “zona grigia” è composta da uomini comuni, padri di famiglia
apparentemente del tutto normali nella vita privata quotidiana, di ogni ceto e professione, che non
presentano particolari “patologie” e che risultano “banalmente” allineati agli ordini superiori fino a
commettere atrocità disumane. Hanno rinunciato a pensare in proprio e si sono trasformati in
esecutori di comandi superiori.
LA MENTALITÀ DEL GREGARIOTali ordini prescrivono di “uccidere” non un nemico in guerra, ma persone che non rispondono ai
parametri di umanità stabiliti dal regime: gli Ebrei, ma anche i malformati, gli ammalati, i disabili, i
malati di mente, gli anziani o i diversi come gli omosessuali o i rom.
È noto che Hitler cominciò la sia operazione di sterminio col concedere una “morte pietosa” agli
“incurabili” ed è noto che egli intendeva estendere il programma di eutanasia ai tedeschi”
geneticamente imperfetti (cardiopatici o tubercolotici).
Eichmann, già prima di entrare nel partito e nelle SS aveva dimostrato di avere una mentalità del
gregario.
I totalitarismi sono il risultato di un male banale. Eichmann si è reso carnefice di un male così
terribile a causa dell’assenza di pensiero critico.
OBBEDIENZA CIECA E ASSENZA DI PENSIEROLa virtù dell’obbedienza cieca e acritica è invocata come un nuovo imperativo categorico da
applicare senza pensare.
L’assenza di pensiero autonomo è ciò che appare alla Arendt come uno dei tratti
caratteristici e l’emblema della banalità del male.
“la coscienza di Eichmann era come un contenitore vuoto; essa non aveva un proprio linguaggio,
ma articolava la lingua della società rispettabile” (la banalità del male)
LA MANCANZA DI IDEEEichmann, scrive la Arendt, era un uomo” senza idee” e “tale mancanza di idee” (molto diversa
dalla stupidità nel senso dell’incapacità di comprendere) ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo”.
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Quella “mancanza di idee” e quella “lontananza dalla realtà” possono essere “molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo. Questa fu la lezione di
Gerusalemme”. L’antidoto alla mancanza di idee è la curiosità.
LA TRASFORMAZIONE DEGLI UOMINI IN “FUNZIONARI”...Con la complicità d persone come Eichmann, lo sterminio poté realizzarsi senza ostacoli e, salvo
qualche eroico episodio, non venne opposta resistenza alla deportazione di massa.
Per Arendt non solo ogni regime totalitario, ma “forse, ogni burocrazia” tende a “trasformare gli uomini in burocrati, in funzionari e in semplici rotelle dell’ingranaggio amministrativo”. In
esso risiede la radice del male: nella capacità di “disumanizzare” l’uomo.La BUROCRAZIA, pur essendo uno strumento fondamentale utile per far funzionare
l’amministrazione di un bene pubblico, può portare alla burocratizzazione L’uomo nelle vesti di
ingranaggio amministrativo può diventare pericoloso.
... E IN CIECHI ESECUTORI DI ORDINIEichmann, organizzatore dell’industria della morte, è l’esempio di uomo che non si pone alcun
problema circa i fini dell’azione. “Con grande zelo e cronometrica precisione” eseguiva gli ordini riguardanti il trasporto di “milioni di uomini, donne e bambini verso la morte”Eichmann incarna un modello di “razionalità strumentale” che fu criticato da Horkheimer,
filosofo della scuola di Francoforte. La razionalità strumentale ignora i fini, limitandosi solo a
valutare l’efficienza dei meri mezzi. È una razionalità pericolosa.LA MANCANZA DI PENSIERO
Come scrive la Arendt in un brano de La vita della mente. Ciò che colpiva di Eichmann era la
mancanza non di intelligenza, ma di pensiero, cioè la mancanza di quella attitudine peculiare,
propria della persona, a sottoporre al giudizio tutto ciò che accade, così come le proprie azioni
e scelte, senza affidarsi ciecamente a regole e ordini dati.CHE COSA SIGNIFICA PENSARE?
Per la Arendt il pensiero umano è la facoltà di distinguere “bene e male”, “ciò che è giusto da
ciò che è sbagliato”
L’esercizio del pensiero, quindi, può acquisire un’importante e profondo significato etico-politico,
soprattutto in alcuni momenti storici
L’ANTIDOTO DEL PENSIERO UMANOIl recupero del pensiero critico è un efficace antidoto contro le tentazioni del male totalitario, latenti e sempre in agguato anche in un mondo posto-totalitario, che minacciano la democrazia.La Arendt è stata una implacabile critica delle storture delle società democratiche.La lotta per la democrazia è, per la Arendt, una responsabilità quotidiana perché la democrazia è in pericolo a causa delle tendenze dominanti che deformano i poteri e le facoltà peculiarmente umane, quali la LIBERTÀ, il PENSIERO, la RESPONSABILITÀ
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N.B. le analisi che la Arendt dedica alla ricostruzione delle dinamiche del TOTALITARISMO
sono sorrette da una RIFLESSIONE ANTROPOLOGICA ed ETICA più ampia.
IL “MALE TOTALITARIO” È DEFINITIVAMENTE SCONFITTO? Arendt avverte che il totalitarismo è un pericolo che può ripresentarsi, magari in forme
diverse e disseminato sotto le vesti di un’apparente democrazia.
Perché?
Le “tentazioni” totalitarie rimangono latenti in un mondo post-totalitario. Com’è già successo ci sono elementi (di ordine socio-politico o ideologico) che in un mondo non
totalitario hanno preparato il terreno per la nascita dell’esperienza totalitaria.
IL DOVERE DI VIGILARE Il totalitarismo non va visto come un corpo estraneo che, una volta sconfitto, non potrà ma più
ripresentarsi, ma come un terribile male della storia occidentale che può fare la sua ricomparsa
sulla scena del mondo.
Da qui il dovere della memoria e della vigilanza contro il pericolo della rimozione
La filosofia, in particolare, ha un importante compito critico-costruttivo in due direzioni: verso il
passato e verso il presente/futuro.
GLI “ANTIDOTI” CONTRO IL “MALE TOTALITARIO” Per individuare gli “antidoti” contro le tentazioni totalitarie, sempre in agguato e latenti in un
mondo post-totalitario. Quali?
Pensiero critico
Etica (etica del volto, dignità umana, giustizia/uguaglianza/libertà)
Memoria storica (cfr Primo Levi) “Tu che... ...Ricordati, non dimenticare”
Per fornire risposte adeguate per rendere migliore il mondo e la vita di ogni essere
Lo spettacoloLa Banalità del male – processo a Eichmann (spettacolo teatrale di e con Paola Bigatto)
14 ottobre 1963
Università di Chicago – Corso di laurea in ingegneria, corso di teoria politica.
IL PROCESSO, LO SCOPOLo scopo del processo è rendere giustizia e BASTA! Qualunque altro scopo anche il più nobile
non può pregiudicare quello che è il compito essenziale della legge soppesare le accuse per
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fare giustizia e combinare la giusta pena. La giustizia vuole che l’imputato sia processato, difeso, giudicato. E che tutte le altre questioni (anche se più importanti),
Com’è potuto accadere?, Perché è accaduto?;
Perché gli Ebrei? perché i tedeschi?
Quale fu il ruolo delle altre nazioni? Fino a che punto gli alleati sono da considerare
corresponsabili?;
Come hanno potuto i capi ebraici contribuire allo sterminio degli Ebrei? Perché gli Ebrei
andavano alla morte come agnelli al macello?
Che tutte queste questioni siano lasciate da parte. La giustizia vuole che si giudichi soltanto un UOMO.
L’IMPUTATO, KARL OTTO ADOLF EICHMANN(magro, di mezza età, statura media, dentatura irregolare, occhi miopi, calvizie)
Era rinchiuso in una gabbia di vetro costruita appositamente per lui, che per tutto il processo se ne
sta con il collo incurvato sul banco, mai una volta si gira a guardare il pubblico. Per tutto il
processo cerca disperatamente (riuscendo quasi sempre) di mantenere l’autocontrollo, anche se
ha un tic al labbro.
La giustizia vuole che si giudichino le sue AZIONI e NON:
Le sofferenze degli ebrei;
Il popolo tedesco;
L’umanità;
Il razzismo e l’antisemitismo (le ideologie);
LA GIUSTIZIA VUOLE CHE SI GIUDICHI SOLO UN UOMO (i fatti). L’imputato viene catturato in
un sobborgo di Buenos Aires la sera dell’11 maggio 1960, trasportato in Israele, tradotto dinnanzi
al tribunale distrettuale di Gerusalemme ’11 aprile 1961 doveva rispondere di 11 imputazioni avendo commesso:
crimini contro il popolo ebraico; crimini contro l'umanità; crimini di guerra sotto il regime nazista.
La legge contro i nazisti per i nazisti e i loro collaboratori prevede che UNA PERSONA CHE ABBIA
COMMESSO UNO DI QUESTI CRIMINI E’ PASSIBILE DELLA PENA DI MORTE. Richiesto su
ciascun punto se si considerasse colpevole Eichmann rispose “non colpevole nel senso dell’atto
d’accusa”. Per tutta la durata del processo Eichmann si sforzò, quasi sempre senza riuscirsi di
spiegare in che senso egli non si sentisse colpevole nel senso dell’atto d’accusa. Secondo il quale
elle avrebbe agito non solo per alti propositi, ma ben sapendo che le sue azioni erano criminose.
MA Eichmann era convintissimo di non essere (nel profondo del suo animo) “un lurido bastardo”,
come egli si esprimeva.
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Quanto alla consapevolezza affermò (sbalordendo tutti) che ricordava perfettamente che non si
sarebbe sentito la coscienza a posto soltanto se non avesse fatto tutto ciò che gli era stato
ordinato (che però era trasportare milioni di uomini, donne e bambini verso la morte). Però una
mezza dozzina di psichiatri lo aveva dichiarato normale (pare che uno avesse anche esclamato
“più normale di quanto non lo sia io dopo che l’ho visitato”, un altro aveva addirittura trovato che
tutta la sua psicologia nei rapporti con il padre, con la madre, con i fratelli fosse non solo normale
ma IDEALE) evidentemente quell’uomo non era affetto da infermità mentale, e non si può
nemmeno dire che fosse animato da un folle odio per gli Ebrei, o antisemitismo; personalmente
egli disse “io non ho mai avuto nulla contro gli Ebrei”. Ma nessuno gli ha creduto né il pubblico
ministero (la cosa non lo riguardava), né l’avvocato difensore (che non gli diede peso), né i giudici,
(forse troppo buoni, o troppo compresi dentro i principi basilari della loro professione per poter
accettare che una persona comune, NORMALE, non svanita, né indottrinata, né cinica potesse
essere a tal punto incapace di distinguere il bene dal male.
E così da alcune occasionali menzogne, preferirono concludere che semplicemente era bugiardo,
che mentiva e così trascurarono il più importante aspetto morale, ma anche giuridico del caso:
EICHMANN ERA NORMALE (nel senso che non era un’ECCEZIONE tra i Tedeschi della
Germania nazista), MA sotto il Terzo Reich soltanto le eccezioni potevano comportarsi come
generali normali.
VITA DI EICHMANNEra nato il 19 marzo del 1906 a Solinghen, una città della Renania, ma crebbe a Lintz dove il
padre era stato trasferito. A quanto sappiamo soltanto Adolf, maggiore di 5 figli non riuscì a portare
a termine gli studi superiori e neppure a diplomarsi alla scuola di avviamento nella quale studiava.
[ I movimenti totalitari europei (fascisti e comunisti dopo il 1930) arruolarono i loro uomini da una
massa di gente manifestamente indifferente che tutti gli altri partiti avevano lasciato da parte
perché o troppo apatici, o troppo stupidi. Potenzialmente questa massa esiste SEMPRE, in ogni
Paese, forma quella folta schiera di persone che si dichiara politicamente neutrali, che non
aderisce mai a nessun partito, che fa fatica ad andare a votare.]
Eichmann ragazzo fa il minatore nella società mineraria, amministratore presso la società elettrica
austriaca e poi presso quella petrolifera. Il ragazzo a 26 anni non aveva nessuna prospettiva di
carriera, l’unica cosa che sapeva fare era vendere, ma era un ambizioso quindi si reputava
probabilmente un fallito agli occhi del suo ceto sociale, della sua famiglia ed anche di se stesso.
MA il 1932 segna una svolta nella sua vita, nella primavera egli aderisce al partito nazista
austriaco su invito di un giovane avvocato di Lintz, Ernst Kaltenbrunner che in seguito diventerà
capo supremo dell’RSHA(ufficio centrale per la sicurezza del Reich), impiccato a Norimberga.
Come Eichmann dice nel suo processo “io fui piuttosto inghiottito dal partito, senza accorgermene
e senza aver avuto il tempo di decidere”. Non ebbe né il tempo né il desiderio di informarsi bene:
NON CONOSCEVA IL PROGRAMMA DEL PARTITO NAZISTA, non aveva MAI letto Main Kamft
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semplicemente Bruner gli disse “perché non entri nelle SS” e lui rispose “già ma perché no?”.
PERO’ non c’era alcuna possibilità di carriera nel partito nazista austriaco, allora andò in Germania
dove segue un corso di addestramento militare (ma perché non diventare soldato?) ma la vita era
monotona e faticosa, così mentre cercava una via di fuga scopre che ci sono dei posti liberi al
Servizio di Sicurezza del Fuhrer nelle SS e fa domanda. (Malgrado gli sforzi del pubblico ministero
CHIUNQUE poteva vedere che quell’uomo non era un mostro e alcuni potevano anche dubitare
che fosse un buffone. D’altronde i capi delle masse sostituiscono invariabilmente le persone di
talento con ECCENTRICI O IMBECILLI la cui mancanza di intelligenza e di creatività offre loro la
migliore garanzia di sicurezza. Gli uomini sono per DEFINIZIONE sospetti la capacità umana di
pensare indica che una persona PENSANDO possa CAMBIARE IDEA (la vera istruzione totalitaria
è quella che fa si che le idee non vengano).
Così nel 1934 viene arruolato e assunto e dopo 4 – 5 mesi viene assegnato al nuovissimo ufficio
che si occupava degli EBREI. (Fino dal 1933 il governo aveva escluso gli Ebrei da tutti gli uffici
pubblici, che comprendevano anche l’insegnamento delle scuole e l’industria del divertimento
(cinema radio). Nel 1935 vengono emanate le LEGGI DI NORIMBERGA che ebbero un effetto
molto grave di cui però si parla raramente in questi termini: esse sfavorivano e vietavano i rapporti
sessuali fra Ebrei e non Ebrei, ma questa situazione era già esistente di per sé; molti Ebrei le
percepirono come legalizzazione dei divieti non scritti e stabilizzazione della loro presenza in
Germania.
Perché gli Ebrei si risvegliassero fu necessaria nel novembre del 1938 la cosiddetta Cristal Nacht,
la notte dei cristalli; dove negozi sono distrutte, tutte le sinagoghe incendiate più di 20000 uomini
deportati in campi di concentramento Fino a quella data la SOLUZIONE FINALE PER GLI EBREI
DELLA GERMANIA ERA L’EMIGRAZIONE che tendeva a espellere, non a uccidere, ma a
mandare fuori gli Ebrei dalla Germania).
Con l’anschelus, l’annessione dell’Austria al Reich tedesco, Eichmann viene mandato a Vienna ad
attuare un programma per l’emigrazione forzata24 degli Ebrei. Qui a Vienna Eichmann scopre di
avere delle doti speciali: organizzare e negoziare. Organizzò così bene il meccanismo per
l’emigrazione forzata degli Ebrei che invitò a Vienna i funzionari per le comunità Ebraiche di
Berlino perché lo ispezionassero e questi rimasero di sasso che dissero: “è come una fabbrica
automatica, come un laboratorio collegato a una panetteria. A capo si infila un Ebreo che possiede
ancora qualcosa (un negozio, un conto in banca) e questo percorre l’edificio da uno sportello
all’altro e sbuca al capo opposto senza un soldo, solamente con un passaporto il cui si dice devi
lasciare la nazione entro 15 giorni altrimenti finirai in un campo di concentramento”. Con questo
sistema burocratico l’Austria è ripulita nel giro di 18 mesi di almeno 150'000 Ebrei costrette a
lasciare la loro casa, la loro terra, a emigrare a Shangai, in Bolivia; gli unici posti che accogliessero
24Da prendere assolutamente alla lettera: qualsiasi Ebreo a prescindere da desiderio o cittadinanza doveva essere fatto emigrare PER FORZA
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ancora queste persone. Eichmann diventa lo SPECIALISTA DELLA SOLUZIONE EBRAICA,
avendo dal ’37 al ’41 addirittura 4 promozioni, passando da sottotenente a tenente-colonnello.
Niente più lontano da lui che essere cattivo (alla Riccardo III), era molto diligente (non avrebbe mai
ucciso un suo superiore per elevarsi di livello) e pensava alla carriera, non aveva alcun motivo per
essere crudele: EGLI NON CAPI’ MAI QUELLO CHE STAVA FACENDO, ma non era stupido
semplicemente non aveva idee (cosa molto diversa dalla stupidità) e questa mancanza di idee lo
aveva predisposto per diventare uno dei maggiori criminali del suo tempo, perché la mancanza di
idee e la lontananza dalla realtà possono essere molto più pericolosi di tutti gli istinti malvagi. È
stata questa la lezione del processo di Gerusalemme.
Nel marzo del 1939 Hitler invade la Cecoslovacchia e Eichmann è mandato immediatamente a
Praga pe r l’attuazione di un nuovo centro per l’emigrazione forzata. Nell’ottobre del 1939 (un
mese dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale 1 settembre 1939) è richiamato a Berlino per
diventare il capo del Centro Nazionale per l’emigrazione degli Ebrei. Ma non era più possibile
pensare di risolvere la questione ebraica attraverso l’emigrazione forzata, anche perché il Reich si
era trovato con 2 milioni di ebrei in più, non solo per l’impossibilità di spostare gli Ebrei da un
paese all’altro in tempo di guerra, ma anche perché proprio con lo scoppio della guerra il governo
nazista diventa scopertamente totalitario e criminale: il passo decisivo è il decreto, firmato da Hitler
che fondeva il servizio di sicurezza delle SS, organo del partito, con la polizia regolare di Stato:
l’organizzazione si trovò dentro la parte del partito più estremista (nessuno protestò a quanto si
sa). Comunque è da questa fusione che nasce l’ufficio centrale per la sicurezza del Reich: RSHA il
cui primo capo fu Reinhard Heydrich e dopo la sua uccisione, 1942, gli successe Ernst
Kaltenbrunner. L’ufficio centrale per la sicurezza del Reich era diviso in 7 sezioni principali, la IV
sottosezione era la polizia segreta di Stato (GESTAPO) il cui capo era Heinrich Müller essa si
occupava degli avversari dello Stato, a sua volta divisa in due sottosezioni:
IV A si occupa degli oppositori, divisa in 4 sottosottosezioni, contro coloro accusati di:
1. Comunismo;
2. Sabotaggio:
3. Liberalismo;
4. Omicidio.
IV B, si occupa delle sette
1. Cattolici
2. Protestanti
3. Massoni
4. Ebrei (il cui capo era Eichmann, posizione non di primissimo piano, ma che lo divenne
quando a partire dal ’43 cioè dalla disfatta la questione ebraica acquista un ruolo di
primo piano, di settimana in settimana, di giorno in giorno fino ad arrivare ad acquisire
proporzioni fantastiche).
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Il capo della sezione IV B era una nullità, per questo il suo capo era Muller, che prendeva ordini da
Heydrich, che prendeva ordini da Himmler che prendeva ordini direttamente da Hitler.
Come risolvere la questione ebraica, diventata impossibile l’emigrazione forzata (scoppio della
guerra, canali ingorgati, trasporti impossibili). Le soluzioni proposte (le idee partorite) da Eichmann
erano:
1) Spostare tutti gli Ebrei d’Europa nel Governatorato Generale, Polonia occidentale occupata
dai nazisti allo scoppio della guerra, ma venne bocciata perché il capo nazista di quella
parte di Stato sarebbe dovuto diventare il capo dello Stato Ebraico ;
2) Raccogliere tutti gli Ebrei di Europa in un’unica grande città: fu scelta Tenesiestat o Teresi,
Cecoslovacchia, ma troppo piccola per contenere tutti gli Ebrei d’Europa, così diventa un
campo per gli Ebrei privilegiati, che inganna il corpo esterno, unico campo dove erano
ammesse le ispezioni internazionali;
3) Trasportare tutti gli Ebrei in Madagascar, per mascherare il passo successivo: lo sterminio.
Poiché non esiste un luogo dove trasferire tutti gli Ebrei l’unica soluzione possibile era
l’eliminazione e quindi lo sterminio. Decisivo è stato il giorno in cui si sono risvegliati e hanno
dovuto crederci (in politica prima o poi tutto si aggiusta, ma non Auschwitz che non siamo preparati
a comprendere).
Il male non ha la dimensione della profondità, non è radicale, il pensiero, che di solito va alle radici
quando incontra il male resta frustrato perché non trova nulla. Soltanto il pene può essere radicale.
22 giugno 1941, Hitler attacca l’Unione Sovietica è l’operazione Barbarossa. Il 31 di luglio, un
mese dopo Heydrich riceve una lettera da Göring, primo ministro di Prussia, che lo invitava a
prendere una decisione per la soluzione finale del problema Ebraico.
Heydrich convoca Eichmann, quest'ultimo ricorda il giorno della convocazione e lo racconta al
processo “H. cominciò con un discorso sull’emigrazione forzata, ma poi mi disse il fuhrer ha
ordinato lo STERMINIO FISICO DEGLI EBREI, li per lì io non afferrai bene il significato di quello
che aveva detto data la cura con cui aveva scelto le parole poi capì e non dissi nulla perché non
c’era nulla da dire”.
IL GERGO DELLA SOLUZIONE FINALE Il nome convenzionale dell'operazione era SOLUZIONE FINALE.
H. disse ad E. che il gergo dell'operazione doveva rispondere ad un determinato codice:
uccisione soluzione finale, evacuazione o trattamento speciale; Deportazione
trasferimento, lavoro nell’Europa orientale. Con un semplice sistema linguistico del genere i nazisti implicati sapevano benissimo quello che
stavano facendo, ma ai loro stessi occhi la soluzione finale non coincideva con l’idea tradizionale
di delitto. E Eichmann che era un uomo così ligio alle parole d'ordine e alle frasi fatte, era proprio
la persona ideale, ma questo sistema linguistico menzognero non era, come Eichmann costata
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ben presto, una difesa perfetta nei confronti della realtà delle cose. (Dublino “rimasi con una
specie di tremito interiore ”).
Giuridicamente era responsabile anche se si era occupato solamente del trasporto degli Ebrei e
non dell'uccisione, infatti lo stesso avvocato difensore cercò di trovare delle circostanze attenuanti.
I giudici più e più volte sollevano la questione morale (giuridicamente non rilevante):“Ma l'uccisione
degli Ebrei aveva mai provocato in lui delle crisi di coscienza?”, come può non avere e non fare
sorgere in sé il l'innata ripugnanza per il crimine?. Il momento decisivo per la coscienza di E. deve
essere stato qualche mese dopo l'incontro nell'ufficio di H., il 20 gennaio del 1942, quando ha
avuto luogo la conferenza di Vansee, che riunisce tutti i ministri del Reich e tutti gli alti funzionari,
compreso E. che aveva il compito di stendere il verbale. Dove vengono informati dell'operazione e
della soluzione finale, e qui viene pianificata. H. era preoccupato che qualcuno si rivoltasse
all'operazione: mai fu più infondata. H. riscontra il più perfetto accordo e tutti salutarono la
soluzione finale con entusiasmo; la seduta non durò più di un'ora, un'ora e mezza, dopodiché ci fu
un brindisi e tutti andarono a cena, una festicciola in famiglia. Questo sarebbe stato il momento
decisivo per la coscienza di E., anche se aveva fatto di tutto per parteciparvi, aveva sempre nutrito
qualche dubbio su una soluzione così violenta, tutti quei dubbi sono fugaci ed egli stesso disse “mi
sentii come una specie di Ponzio Pilato”, libero da ogni colpa. Tutti si contendevano l'onore di
partecipare e prendere le redini dell'operazione (“chi era lui per avere idee proprie?”); non vedeva
nessuno contrario alla soluzione finale. La stessa società tedesca di 80 milioni di persone si era
protetta con le stesse bugie e menzogne. Tra il gennaio del 42 e l'autunno del 44 (all'insaputa di
Hitler la soluzione finale era stata lasciata cadere) egli diventa l'elemento chiave della soluzione
finale (mai avrebbe voluto) in quanto si occupava in maniera specifica dei mezzi di trasporto.
- materiali per il trasferimento
- controllare quali campi avrebbero potuto assorbire più ebrei
- avere in mano abbastanza Ebrei al momento giusto
Per E. diventa un lavoro e per Hitler uno dei principali obiettivi di guerra per gli Ebrei è
letteralmente la fine del mondo, con un andamento molto diverso a seconda del paese in cui la fine
del mondo accade; un esempio di non violenza è la Danimarca (occupato nel '40 e rispettato nel
43) quando furono invitati a puntarsi la stella gialla, il primo a mettersi la stella gialla sarebbe stato
il loro re, e di conseguenza tutta la popolazione. Questo avrebbe portato a una “rivoluzione” da
parte della popolazione danese e le immediate dimissione dei ministri. I nazisti si trovano di fronte
a una resistenza aperta e cambiano mentalità: non vedono più lo sterminio degli Ebrei come una
cosa ovvia e sabotarono gli ordini di Berlino, tutta la loro durezza si era sciolta permettendo il
trapelare, anche se timido di vero coraggio.
Le parole sono una forma di azione L'azione è l'unica facoltà umana che può fare miracoli. Il
percorso dell'uomo verso la morte, per interrompere il percorso sono necessarie le azioni per
creare qualcosa di nuovo. Nel marzo 1944 l'ufficio di E. viene trasferito a Budapest, pensando che
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ci potessero essere rivolte da parte degli Ungheresi utilizzò cautele, ma al contrario “tutto andò
come in un sogno”, che per gli Ebrei ungheresi fu un incubo spaventoso (6 mila persone).
La condanna a morte era la condizione scontata. L'idea di far parte di un processo grandioso
aveva forgiato le menti di quegli uomini che si erano trasformati in assassini; I nazisti più estremisti
forgiano le menti attraverso il soffocamento della pietà attraverso le parole, o slogan “queste sono
battaglie che le generazioni future non dovranno più combattere” oppure “ciò che ci attendiamo da
voi è sovrumano”. Gli istinti pietosi non erano più rivolti all'altro ma a se stessi (che peso gravoso
ho sulle mie spalle? Che cose terribili sono costretto a compiere), ingannando non solo gli altri ma
anche se stessi.
Ultimi mesi di guerra sono trascorsi a Berlino, con le mani in mano, mostrando qualche volta alla
croce rossa internazionale il campo in Polonia (Teresi).
Nel novembre 1945 termina la seconda guerra mondiale in Europa e E. è immediatamente
catturato mentre fugge verso la svizzera e rinchiuso in un campo per SS, senza che sia scoperta
l'identità. Con l'apertura del processo di Norimberga il suo nome si presenta con preoccupante
frequenza, E. decide di scappare, riuscendovi e rifugiandosi in una boscaglia presso Amburgo
dove visse per diversi anni facendo il taglialegna sotto falso nome. Solo nel 1950 riesce a mettersi
in contatto con un'associazione segreta clandestina di ex SS; attraverso loro riusci a scappare in
Italia, qui un francescano (sapendo benissimo chi egli fosse) lo aiuta fornendo un passaporto falso
sotto il nome di Riccardo Clem. Si rifugia in Argentina dove scrive alla moglie dicendole che “lo zio
dei suo bambini è ancora vivo”, vive facendo i lavori più strani e nel 52 si fa raggiungere dalla
famiglia senza però rilevare di essere il padre dei suoi figli. Nel 1960, otto anni dopo e la nascita di
un altro figlio, aveva appena finito di costruire la casetta di legno senza acqua e corrente,
poverissimi. Unica consolazione era chiacchiera re con ex SS del suo glorioso passato di gerarca
nazista insediata in Argentina dopo la fine della Guerra. 11.05 1960 ore 18:30 viene afferrato da 3
uomini e trasportato a Gerusalemme.
Il 14 aprile 1961 comincia il processo e l'11 agosto dopo 114 udienze, la corte si aggiorna e torna a
riunirsi l'11 dicembre per leggere la sentenza, colpevole delle 15 accuse. 15,12,1961 viene
pronunciata la PENA DI MORTE.
L'avvocato difensore disse che il difeso aveva compiuto solo “azioni di Stato”. E. disse che i
giudici non lo avevano capito e che lui era stato comandato solo perché sono stato obbediente”. La
filosofa afferma però che obbedire e appoggiare in politica sono la STESSA COSA, da cancellare
dal dizionario di persone politiche.
Per fare giustizia occorreva un tribunale internazionale, perché crimini diversi come gravità e come
essenza. Il crimine supremo era un crimine contro il popolo ebraico, era un crimine contro
l'umanità.
Il 22 marzo 1962 processo d'Appello.
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29 maggio seconda sentenza e domanda di grazia di E. e invito a usare clemenza negate il 31
maggio. La pena di morte si svolge a mezzanotte dello stesso giorno. E. viene impiccato, il suo
corpo cremato e le sue ceneri sparse sulle acque del Mediterraneo E. va alla forca con dignità,
respinge l'assistenza del pastore protestante, calmo a testa alta con le mani legate perfettamente
se stesso. Ultime parole “tra breve, signori, ci rivedremo”, non credendo nelle stesse cose che
stava facendo. Spaventosa banalità del male, normalità spaventosa d tutte le facoltà messe
insieme, il crimine è legale e la regola. C'è comunque una libera e autonoma capacità di giudizio,
anche quando è frastornata dalla presenza di altre idee. Anton Smith, sergente dell'esercito
disperso, aiutando fornendo documenti falsi ai partigiani Ebrei (documenti e armi del esercito) e il
partigiano Ebreo, per 5 mesi quando fu scoperto, arrestato e giustiziato, come l'ebreo che
testimonia al processo ad Eichmann. Come tutto sarebbe stato diverso se ci fossero stati più
episodi da raccontare. La lezione:
dal punto di vista politico: sotto il terrore la maggioranza si sottomette ma qualcuno no;
dal punto di vista umano: è qualcosa che si può e si deve ancora ragionevolmente
pretendere che questa terra resti un posto dove la convivenza umana sia ancora possibile.
Spettacolo Teatrale: La Banalità del male
Il giorno 21 gennaio 2015 noi della classe quinta A abbiamo assistito allo spettacolo teatrale
intitolato La banalità del male portato in scena dall'attrice, regista e drammaturga Paola Bigatto al
Centro Asteria di Milano, che in un lungo monologo di un’ora circa di spettacolo reinterpreta
l’omonimo libro della filosofa Hannah Arendt, scritto in occasione del processo al nazista Eichmann
(1906 – 1962), svoltosi a Gerusalemme.
Lo spettacolo è impostato come una lezione universitaria tenuta dalla Arendt il 14 ottobre
1963 presso l’università di Chicago, dove insegnava, chiarendo le sue posizioni sul processo.
Il monologo si apre con un chiarimento sullo scopo del processo, che è quello di rendere
giustizia, soppesando le accuse e comminando la giusta pena, senza tener conto delle questioni
morali (com’è potuto accadere?, perché è accaduto?; perché gli Ebrei? perché i tedeschi?; quale
fu il ruolo delle altre nazioni? Fino a che punto gli alleati sono da considerare corresponsabili?;
come hanno potuto i capi ebraici contribuire allo sterminio degli Ebrei? Perché gli Ebrei andavano
alla morte come agnelli al macello?). L’imputato deve essere processato, difeso e giudicato per i
crimini attribuitigli.
L’attrice prosegue con la descrizione fisica di Eichmann (rinchiuso in una gabbia di vetro),
magro, di mezza età, statura media, dentatura irregolare, occhi miopi, incipiente calvizie.
Sottolinea poi il suo atteggiamento e comportamento durante il processo. L’imputato se ne sta con
il collo incurvato sul banco, non si gira mai verso il pubblico, e cerca di mantenere l’autocontrollo,
nonostante un tic al labbro.
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Filosofia 5^A
Segue il racconto dei momenti salienti della vita di Eichmann: nascita e famiglia, studi
incompleti, lavoro senza prospettive di carriera e il suo percorso nelle SS. La narrazione è
intercalata da riflessioni sul totalitarismo e sulla modalità di scelta dei suoi uomini, ovvero quella
massa di individui che non hanno idee, tipica di quella massa di gente manifestamente indifferente
non considerata da gli altri partiti perché o troppo apatica, o troppo stupida. Proprio questo tipo di
individuo è quello preferito dai totalitarismi che li arruolano. Proprio gli eccentrici o gli imbecilli, per
la loro mancanza di intelligenza e di creatività, costituiscono la miglior garanzia di sicurezza per il
regime. Non pensando non possono cambiare idea. Eichmann, osserva la Bigatto era molto
diligente e pensava solo alla carriera, semplicemente non aveva idee e quindi non capì mai quello
che stava facendo; questa mancanza di idee lo aveva predisposto per diventare uno dei maggiori
criminali del suo tempo, perché la mancanza di idee e la lontananza dalla realtà possono essere
molto più pericolosi di tutti gli istinti malvagi. L’attrice osserva che <<Il male non ha la dimensione
della profondità, non è radicale, il pensiero, che di solito va alle radici quando incontra il male resta
frustrato perché non trova nulla. Soltanto il bene può essere radicale>>.
La Bigatto afferma infatti che la svolta della vita di Eichmann è il 1932, quando aderisce al
partito nazista austriaco su invito del futuro capo del RSHA (l’ufficio per la sicurezza del Reich). Nel
1934 viene assegnato al nuovissimo ufficio che si occupa degli EBREI, già esclusi nel 1933, poi
fatti emigrare forzatamente in altri Paesi d’Europa, grazie al meccanismo ideato da Eichmann dal
1938, dopo la notte dei Cristalli.
Il 20 gennaio 1942 la Conferenza di Vansee, informa funzionari e ministri dell’operazione
della soluzione finale, pianificata in tale occasione. Questa riunione avrebbe potuto rappresentare
un’opportunità per la coscienza di Eichmann, che nutriva qualche dubbio nei confronti di questa
soluzione, dubbi fugati in fretta, tanto che egli stesso disse “mi sentii come una specie di Ponzio
Pilato”, libero da ogni colpa.
In seguito alla disfatta del 1943, si pone il problema di risolvere definitivamente la questione
Ebraica e nell’ottobre dello stesso anno comincia lo sterminio ebraico. Durante tutta questa
operazione viene imposto un codice preciso (uccisione soluzione finale, evacuazione o
trattamento speciale; deportazione trasferimento, lavoro nell’Europa orientale) per non far
comprendere agli altri Stati l’operazione, ma agli stessi occhi dei nazisti la soluzione finale non
coincide con l’idea tradizionale di delitto, nonostante sappiano benissimo cosa stanno facendo. Le
parole sono una forma di azione, l’azione è l’unica facoltà umana che può creare qualcosa e
interrompere il percorso dell’uomo verso la morte.
Alla fine della guerra Eichmann viene catturato e rinchiuso in un campo per nazisti.
Successivamente scappa e solo nel 1950 si rifugia in Argentina, raggiunto nel 1952 dai figli.
Eichmann viene catturato in un sobborgo di Buenos Aires la sera dell’11 maggio 1960, trasportato
in Israele, tradotto dinnanzi al tribunale distrettuale di Gerusalemme l’11 aprile 1961 deve
rispondere di 11 imputazioni avendo commesso:
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crimini contro il popolo ebraico;
crimini contro l'umanità;
crimini di guerra sotto il regime nazista.
L’attrice fa notare secondo la legge contro i nazisti (e collaboratori) UNA PERSONA CHE ABBIA
COMMESSO anche UNO solo DI QUESTI CRIMINI E’ PASSIBILE DELLA PENA DI MORTE. Per
questo dopo 114 udienze viene condannato a morte e l’impiccagione viene eseguita dopo il
processo d’appello il 31 maggio del 1962. Le sue ultime parole sono agghiaccianti: “tra breve
signori ci rivedremo” e rivelano la spaventosa banalità del male.
Lo spettacolo volge al termine e si chiude con la lezione di Gerusalemme:
dal punto di vista politico: sotto il terrore la maggioranza si sottomette ma qualcuno no;
dal punto di vista umano: si deve ancora ragionevolmente pretendere e fare perché la terra
resti un posto dove la convivenza umana sia ancora possibile.
All'interno di una scenografia essenziale dai rimandi scolastici, una cartellina, una lavagna e una
cartina, vestita in stile anni ’60, Paola Bigatto parla agli uomini d’oggi, giovani e non, allestendo
una rappresentazione che corre lungo tre piani - giuridico, storico e filosofico - per stimolare una
riflessione più che mai attuale: la pericolosità dell’inerzia mentale che diventa incapacità di
distinguere il bene dal male, lasciando l’uomo in un aberrante abisso di vuota indifferenza.
L'attrice, in un'ora circa di spettacolo, ha riproposto in maniera fedele le idee esposte dalla Arendt
nel suo saggio.
Le origini del totalitarismoL’ORIGINE DEL TOTALITARISMO
L’origine dei totalitarismi è un’opera una delle più importanti opere storico-politiche del Novecento,
Pubblicata nel 1951 di stampo storico – politico, la Arendt analizza le cause e il funzionamento dei
regimi totalitari, considerati come una conseguenza tragica della società di massa, dove gli uomini
sono resi “atomi”, sradicati da ogni relazione interumana e privati dello stesso spazio pubblico in
cui hanno senso l’azione e il discorso, giungendo ad elaborare in maniera costruttiva una visione
democratica e partecipava alla politica.
Nella prefazione fa una revisione dell’opera e chiarisce lo scopo generale dell’opera, cioè capire i
totalitarismi come si sono radicati, comprendere che cosa sono e di narrare e comprendere quanto
è avvenuto:
che cosa succedeva?
perché succedeva?
come era potuto succedere?
“Il primo momento adatto per meditare sugli avvenimenti contemporanei con lo sguardo
retrospettivo dello storico e lo zelo del politologo, la prima occasione per cercar di narrare e
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Filosofia 5^A
comprendere quanto era avvenuto [...] ancora con angoscia e dolore e, quindi, con una tendenza
alla deplorazione, ma non più con un senso di muta indignazione e orrore impotente. [...]
Era, comunque, il primo momento in cui si poteva articolare ed elaborare gli interrogativi con cui la
mia generazione era stata costretta a vivere per la parte migliore della sua vita adulta: che cosa
suc cedeva? Perché succedeva? Come era potuto succedere ?
(Le origini del totalitarismo, trad. it.,
Edizioni di Comunità, Milano 1966, pp. XXVII-XXVIII)
Il contributo della Arendt è particolarmente rilevante sotto due aspetti:
a. quello storico-politico, in quanto analizza i tratti fondamentali della storia europea moderna e contemporanea in particolare, il periodo che va dagli ultimi venti anni dell'Ottocento fino alla Seconda guerra mondiale;
b. quello filosofico-politico, in quanto elabora uno schema generale del regime totalitario, con esclusivo riferimento al nazismo e allo stalinismo, visti come due
fenomeni riconducibili alla medesima idea di totalitarismo.
Il libro si divide in tre parti:
1. La prima è dedicata allo studio del fenomeno dell'antisemitismo, una delle premesse del
totalitarismo
2. La seconda dedicata all’imperialismo, che per la prima volta, aspira al «dominio politico»
oltre che a quello economico.
a. L’antisemitismo;
b. la crisi dell'imperialismo;
c. il fenomeno inedito dell’avvento della società di massa e
“senza classi”.
sono la causa del totalitarismo nella Germania nazista e nell'Unione Sovietica stalinista
3. la terza parte del libro si sofferma ad analizzare proprio i caratteri del totalitarismo nella
società di massa, che instaura il suo potere attraverso il binomio ideologia-terrore.
Questa terza e ultima parte è la più rilevante sotto il profilo filosofico-politico, in quanto la Arendt
afferma che l'essenza del totalitarismo consiste appunto nell'intreccio perverso di «terrore e
ideologia». Il terrore è esercitato sia attraverso la polizia segreta (spionaggio) sia attraverso i
campi di concentramento, che hanno la funzione di annientare gli oppositori politici trasformati in
«nemici»:
“L'inferno nel senso più letterale della parola era costituito da quei tipi di campi perfezionati dai
nazisti, in cui l'intera vita era sistematicamente organizzata per infliggere il massimo tormento
possibile”.
Di grande rilievo è la trattazione finale. L'ideologia totalitaria che ha la pretesa di fornire una
spiegazione totale della storia e di conoscere a priori tutti i segreti, senza bisogno di confrontarsi
con i fatti concreti.
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Inoltre l’ideologia totalitaria che ha la pretesa di fornire una spiegazione totale della storia e di
conoscere a priori tutti i segreti a priori tutti i segreti, senza bisogno di confrontarsi con i fatti
concreti.
Inoltre, l’ideologia totalitaria mira direttamente alla “trasformazione della natura umana”, e a
capovolgere le stesse norme della logica.
“La società dei morenti, in cui la punizione viene inflitta senza alcuna relazione con un reato, lo
sfruttamento praticato senza un profitto e il lavoro compiuto senza un prodotto, è un luogo dove
quotidianamente si crea l'insensatezza. Eppure, nel contesto dell'ideologia totalitaria, nulla
potrebbe essere più sensato e logico: se gli internati sono dei parassiti, è logico che vengano
uccisi col gas; se sono dei degenerati, non si deve permettere che contaminino la popolazione; se
hanno un'«anima da schiavi» (Himmler), non è il caso di sprecare il proprio tempo per cercare di
rieducarli.”
Dal punto di vista organizzativo, l’ideologia e il terrore si esplicano attraverso gli strumenti del
partito unico e della polizia segreta, controllati completamente dal capo supremo, a cui rendono
personalmente conto. La volontà del capo è l’unica legge del partito, che tutti i burocrati devono
rispettare e far rispettare. Il potere viene a distribuirsi in maniera gerarchica, secondo il grado di
maggiore (o minore) prossimità al capo: quanto più si è vicini al leader, tanto più si ha potere:
Per adoperare il linguaggio dei nazisti è la dinamica instancabile “volontà del Fuhrer” – e non i suoi
ordini – che diventa la “legge suprema” in uno Stato totalitario.
Gli individui sono isolati totalmente nella sfera politica ed estraniati in quella dei rapporti sociali. Il
regime totalitario si regge sulla distruzione della vita politica democratica, ottenuta diffondendo
paura e sospetto tra gli individui (non più cittadini) isolati. Esso distrugge anche la vita privata delle
persone estirpando ogni radice sociale e rendendole tra loro nemiche: questa è un’atroce novità
del moderno totalitarismo rispetto al vecchio dispotismo.
La Arendt enfatizza la condizione di isolamento degli uomini nella società di massa, dove il
conformismo sociale è una minaccia costante alla libertà politica. In questo il totalitarismo è «una
potenzialità» e «un costante pericolo», anche dopo la scomparsa delle sue forme storiche del
Novecento (il nazismo e lo stalinismo).
LA POLITEIA PERDUTA25
25 Con l’espressione “politeia perduta” la filosofa indica la politica, sostanzialmente la crisi della politica della modernità, nella sua
forma più genuina. Arendt sostiene che la modernità abbia perso la dimensione genuinamente politica dell’uomo che la filosofa vede
nell’antica Grecia. La politica può prendere tante forme, in realtà c’è anche una forma sana. La Arendt intravede nella POLIS
GRECA del V sec. a.C. la nascita della democrazia, secolo di sofisti e Socrate, terza dimensione.
La democrazia greca si basa sulla partecipazione dei cittadini al bene comune, la vita politica si basa sulla libertà e il dialogo, cioè
l’uso della parola, non a caso i sofisti insegnavano l’arte del ben parlare (retorica e dialettica). Il linguaggio esprime il pensiero,
quindi la politica si basa sul logos, cioè pensiero e ragione. La vita politica e genuina si fonda sul pensiero e sul linguaggio, nel
momento in cui smarrisce queste due facoltà peculiari dell’uomo, la politica entra in crisi. La politica genuina si fonda, oltre che sul
pensiero e sul discorso, anche sull’azione perché la politica genuina è anche prassi, non solo parola, a volte servono anche delle
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La causa profonda e prima del totalitarismo è la scomparsa dall'orizzonte della modernità della dimensione genuinamente politica dell'uomo, presente nella polis dell'antica Grecia.
L'esperienza dell'antica polis, non rappresenta un modello per il presente, ma l'occasione per una disamina critica del presente e della moderna espropriazione dei diritti della cittadinanza e della democrazia diretta, cioè della politica tout court.
L'opera in cui la Arendt discute mirabilmente questo problema è Vita activa: la condizione umana, pubblicata nel 1958 negli Stati Uniti. La tesi centrale del libro è che, a partire dalla fine
della polis greco-romana (Atene di Perocle - V secolo a.C., secolo di Socrate e sofisti), l'agire, 26 inteso come civiltà dell'azione e del discorso o, come scrive Alessandro Dal Lago e cioè come
esser-fuori dell'individuo, fuori dalla sua sfera privata di isolamento e di intimità», è stato
sostituito prima dal «fare» e poi dal «lavorare», teso unicamente ad assicurare la pura
sopravvivenza.
L'oggetto del saggio è la «vita attiva», contrapposta alla «vita contemplativa», che sono i due
momenti fondamentali (come avevano già affermato Platone e, soprattutto, Aristotele) della condizione umana. Però la Arendt, diversamente dai pensatori classici, parla di «condizione» e non di «natura» umana, ritenendo che essi sono esseri condizionati per la loro natura27.
Le condizioni dell'esistenza umana sono «vita, natalità e mortalità, mondanità, pluralità e terra», anche se l'uomo non si riduce alle sue sole condizioni, le quali non lo determinano mai in
maniera assoluta:
“nobili gesta”, azioni che fanno il bene comune.
Con l’espressione vita contemplativa si intende la nascita della filosofia che rimanda alla capacità di meravigliarsi dell’uomo, il
motore la forza che genera la domanda e l’interrogativo, la molla della ricerca filosofica. 26AGIRE, una delle tre dimensioni di vita attiva:
1. Lavoro, proprio dell’ANIMAL LABORANS;
2. Fare, l’operare propria dell’HOMO FABER;
3. Agire propria dell’ZOON POLITIKON, (animale politico) tipica dell’uomo politico.
Quindi si occupa anche del lavoro (HOMO FABER, costruzione degli oggetti). 27Arendt non utilizza la parola natura per indicare la natura dell’uomo, ma “condizione” in quanto condizionato da alcune vincoli:
nessuno di noi ha scelto di nascere. L’essere nati in un secolo piuttosto che in un altro (chiamato macrosistema per le scienze
umane) ci influenza: l’epoca storica, clima e atmosfera culturale (es. vivere nell’era delle comunicazioni veloci e sofisticate, con
una socializzazione alla rovescia).
Vivere in un determinato contesto forma una psiche diversa (es bombardamenti), così come la morte (Hidegher: noi siamo esseri
per la morte), il grande limite che ci aspetta: non sappiamo dove, come, quando, ma sappiamo che è un limite e chi è credente sa
che è solo una trasformazione e non il fine di tutto.
Il lavoro è una necessità da 12000 anni; in quel epoca gli uomini vivevano di caccia e pesca (società acquisitiva), si è passati poi
alla rivoluzione agricola 12000 anni fa e infine all’homo faber.
L’uomo è legato alla terra perché l’uomo è impastato di terra (bisogni di vestiti, cibo) gli animali non hanno questi bisogni biologici
e spirituali, ecco perché dobbiamo mantenerci in vita e siamo soggetti alle condizioni della terra, in quanto creature legate alla terra
anche se non siamo meramente questo, ma abbiamo anche bisogni di tipo spirituale e sociale (conoscenza).
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“Oggi possiamo quasi dire di aver dimostrato anche scientificamente che, sebbene noi ora viviamo, e probabilmente vivremo sempre, soggetti alle condizioni della terra, non siamo
meramente creature legate-alla-terra”.
(Vita activa. La condizione umana, trad. it., Bompiani, Milano 1997, p. 10).
La “vita activa”28, cioè l'agire umano, si articola in tre forme fondamentali:a) l'attività lavorativa (o animal laborans);
b) l'operare (o homo faber);
c) l'agire (o zoon politikón).
1) L'attività lavorativa
“corrisponde allo sviluppo biologico del corpo umano, il cui accrescimento spontaneo,
metabolismo e decadimento finale sono legati alle necessità prodotte e alimentate nel processo vitale dalla stessa attività lavorativa. La condizione umana di quest'ultima è la vita
stessa”
(Vita activa, la condizione umana, Bompiani, Milano 1997)
Il lavoro trasforma l'uomo animal laborans che provvede al mantenimento della propria vita e di
quella altrui. Ciò non comporta la fabbricazione di oggetti duraturi: l'attività lavorativa è
l'energia che si sprigiona e «si consuma» per provvedere alle esigenze fondamentali della vita.
Si tratta di un'attività senza fine perché dura finché dura la vita. 2) L'operare29 è, invece, «l'attività che corrisponde — scrive la Arendt — alla dimensione non-
naturale dell'esistenza umana, che non è assorbita nel ciclo vitale sempre ricorrente della specie
e che, se si dissolve, non è compensata da esso. Il frutto dell'operare è un mondo "artificiale" di
cose, nettamente distinto dall'ambiente naturale». L'operare è tipico dell'homo faber, che ha
avuto grande sviluppo a partire dall'età moderna e che è colui che costruisce, l'uomo tecnologico il quale tende a produrre oggetti duraturi (opere), tanto da trasformare la stessa faccia della Terra.
3) l’ultima forma della vita activa è l’agire, tipico dello zoon politikón:
28È l’oggetto del saggio, l’uomo non è solo vita attiva, ma anche vita contemplativa (siamo capaci di porci con un atteggiamento di
stupore e meraviglia di fronte alle bellezze, si nutre di ragione perché lo stupore è il terreno su cui nasce la domande e le domande)
che ha fatto nascere le grandi opere dello spirito umano che nasce dal fanciullino dentro di noi (Pascoli), la filosofia, e le grandi opere
artistiche. La domanda è il motore della ricerca per le risposte. 29Il lavoro è un’attività libera o non libera? Non libera in quanto necessità: non possiamo fare a meno di fare politica, non a caso
era tipica nella cultura antica degli schiavi che lavoravano per mantenere la vita degli altri. (es. faraoni). È un’attività senza fine
perché dura tutta la vita, in quanto creature legate alla terra per cui il fardello sulle nostre spalle (vita biologica) che opprime e
consuma lo spazio vitale (gran parte della nostra vita la passiamo a lavorare). La vera saggezza è rendere positiva la vita: l’operare
è la seconda condizione fondamentale dell’uomo, che gli consente di trasformare ciò che la natura offre (tecnica del fuoco)
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“L'azione, la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose
materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità, […] che è
specificamente la condizione — non solo la conditio sine qua non (senza la quale non c’è vita
politica), ma la conditio per quam (con la quale c’è vita politica, nasciamo all’interno della
famiglia e successivamente il nostro orizzonte sociale si allarga sempre di più coinvolgendo
sempre più persone) — di ogni vita politica”.
(Vita activa cit. p. 7)
Delle tre manifestazioni della «vita activa» la più importante è l'ultima, la prassi politica, grazie
alla quale gli uomini comunicano tra loro attraverso il linguaggio (il discorso) e le nobili gesta. Fra la civiltà dell'antica polis greco-romana, esaltava i valori dell'interazione comunicativa tra gli uomini liberi, veri e propri cittadini, in quanto protagonisti diretti della vita pubblica. L’uomo ha quindi una sorta di seconda vita, quella politica, che si differenziava,
e si poneva in diretto contrasto con l'associazione naturale della famiglia, che aveva il suo
centro nella casa (oikìa).
Tra tutte le attività praticate nelle comunità umane, Aristotele riteneva che solo l'azione (praxis) e il discorso (lexis) appartenessero veramente all'agire politico. E prima ancora della
fondazione della polis - osserva la Arendt - l'azione e il discorso erano considerati le attività più elevate dell'uomo:
“La grandezza dell’Achille omerico può essere compresa solo se lo si concepisce come chi “è autore di
grandi pensieri e pronuncia grandi discorsi”. Diversamente dal mondo moderno di intenderle, tali parole
non sono considerate grandi perché esprimevano grandi pensieri; al contrario, come sappiamo dagli ultimi
versi dell’Antigone, era piuttosto la capacità di pronunciare grandi parole, con cui rispondere ai colpi inferti
dagli dei, che avrebbe insegnato a pensare nella vecchiaia. Il pensiero era secondario rispetto al discorso,
ma discorso e azione erano considerati coevi ed equivalenti, dello stesso rango e dello stesso genere; e
ciò originariamente significava l'azione politica si realizza nel discorso, ma anche che trovare le parole
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opportune al momento opportuno significa agire. Solo la mera violenza è muta 30 , e per questa ragione
soltanto essa non può mai essere grande”
(Vita Activa)
Essere politici, cioè vivere nella polis, per i Greci significava abbandonare la violenza e riporre ogni fiducia nella forza persuasiva del discorso. Al contrario, la sfera della costrizione e della necessità era considerata pre-politica, tipica della famiglia, (il capofamiglia potere dispotico sugli schiavi, sui figli e sulla moglie) o degli imperi barbarici dell'Asia. La comunità naturale della casa era ritenuta dai Greci il frutto della necessità: bisognava provvedere, tramite il
lavoro (attività non libera, ma tipica degli schiavi), al nutrimento e a tutti gli altri bisogni biologici dei figli. È per questo che gli schiavi venivano considerati letteralmente «non-uomini», perché sottoposti al regno della costrizione e cioè non liberi dalla necessità.
Al contrario, la polis era la sfera della libertà. Il soddisfacimento delle necessità naturali della
sfera domestica mediante l’opera degli schiavi costituiva il presupposto per liberare il cittadino dalle incombenze materiali e consentirgli così di dedicarsi interamente al protagonismo pubblico. Alla radice della coscienza politica greca si trovava, dunque, una straordinaria consapevo-lezza della superiorità della vita libera sul regno della necessità naturale.
Tale orientamento si è mantenuto anche presso i Romani, ma con la crisi del loro impero e l'affermarsi della società cristiano-medioevale la civiltà della politica decade e, con essa,
anche il primato della vita attiva. Già con Platone e Aristotele era iniziato il processo di pensiero che avrebbe portato alla svalutazione della «vita attiva» a vantaggio della «vita contemplativa». L'autrice ritiene che questo processo di negazione della vita attiva e, al suo
interno, di sparizione dell' «agire politico» nell'ambito di un'indistinta sfera del «fare» sia al
tempo stesso:1. un processo inevitabile ;2. un processo negativo portato a termine dalla modernità attraverso la rivoluzione cartesiana, discende la nuova epistemologia, caratterizzata dall’abbandono del tentativo di comprendere la natura di conoscere non prodotte all’uomo è il trionfo dell’homo faber.
Dal dubbio cartesiano discende la nuova epistemologia, caratterizzata dall'abbandono del
tentativo di comprendere la natura, di conoscere le cose non prodotte dall'uomo, per
indirizzarsi esclusivamente alle cose che devono la loro esistenza all'uomo: trionfo dell'homo
faber. Ma anche l'homo faber deve cedere il posto all' animal laborans, cioè al primato
30VITA ATTIVA la politica è fondata non sulla forza o sulla violenza, ma su due pilastri, l’azione e il discorso. La grande politica è
fatta di grandi parole, ma il grande politico non è solo autore di grandi parole; il grande Achille (159), l’eroe greco in cui la politica
è estranea all’uso della violenza, come aveva affermato Platone, che aveva cercato a Siracusa di convincere prima il tiranno
Dionigi il vecchio e poi il giovane, di non utilizzare la violenza. Quando una persona usa la violenza vuol dire che non sa usare la
parola per convincere per sgridare e persuadere. La violenza non può mai essere grande e quindi è estranea alla politica e si realizza
nel discorso e nell’azione. Propria dello ZOON politikon, terza forma di vita attiva.
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dell'attività che ha come unico scopo la conservazione materiale della vita. Con sguardo pessimistico, la Arendt ritiene che nel mondo moderno l'agire politico, cioè la parte più nobile e
propriamente umana, sia divenuto «impossibile» e che la stessa attività di produzione degli oggetti (il «fare» produttore delle «opere») stia cedendo il posto al meschino darsi da fare per sopravvivere. La fine della politica ci consegna in modo ineluttabile alla «società del lavoro» e ci trasforma in «impiegati». Dal cupo pessimismo di Vita activa trapela, proprio nelle pagine finali, una luce di speranza derivante dalla forza del pensiero, presente negli uomini che si dedicano all'arte e alla ricerca scientifica. E alla Vita della mente (1978), l'ultimo, incompiuto, della Arendt, è incentrato proprio
sull’analisi del pensiero e del linguaggio che fa da tramite tra il mondo sensibile e quello della
mente.
La nuova «banalità del male»di Bruno Forte
5 gennaio 2014
Esattamente cinquant'anni fa Hannah Arendt, la filosofa ebrea tedesca allieva di Martin Heidegger e di Karl
Jaspers, pubblicava l'edizione definitiva del suo libro "La banalità del male", frutto del lavoro svolto a
Gerusalemme come inviata del "New Yorker" per seguire lo storico processo ad Adolf Eichmann.
Il criminale nazista responsabile dello sterminio di milioni di Ebrei era stato catturato l'anno prima a Buenos
Aires dove aveva vissuto indisturbato per anni.
Il "reportage" della Arendt si sviluppava in una serie preziosa di considerazioni morali, che furono poi
raccolte e ampliate nel libro. La tesi che emerge dalle straordinarie pagine di questo testo è per molti aspetti
sconcertante: «Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non
erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre
istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe
insieme» (282). Il messaggio che scaturiva dal caso Eichmann, quello «che il suo lungo viaggio nella
malvagità umana ci aveva insegnato», era per la Arendt «la lezione della spaventosa, indicibile e
inimmaginabile banalità del male» (259). Su questa lezione mi sembra importante ritornare perché, fatte
salve le ovvie differenze fra quello che fu "il male assoluto" e quelli che sono i mali del nostro presente, non
c'è dubbio che molti di essi derivino dalla mentalità del "così fan tutti", giustificata dai cattivi maestri della
scena pubblica, in particolare di quella politica. Provo ad articolare questa riflessione sull'insinuante presenza
della "banalità del male" su tre fronti, che convergono nel male endemico e distruttivo della corruzione: la
perdita diffusa del senso del dovere; il rimando alle altrui responsabilità per scaricare le proprie; la
disaffezione nei confronti del bene comune, a favore di quello personale o della propria "lobby".
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Il senso del dovere è a fondamento della coscienza morale e del comportamento che ad essa si ispira. Nella
sua essenza esso consiste nella disposizione ferma a compiere il bene perché è bene e a fuggire il male per
l'unica ragione che è male. Applicato all'etica del lavoro questo principio comporta la cura rigorosa da
mantenere nell'assolvimento dei propri compiti, a prescindere dal riconoscimento altrui e dalla ricerca pur
così naturale di gratificazioni. Fare bene ciò di cui si è incaricati - purché ovviamente non contrasti con la
legge morale inscritta in ciascuno di noi, com'è riassunta nei precetti del Decalogo - vuol dire contribuire alla
qualità della vita di tutti, fino a poter avvertire il senso del giusto orgoglio di aver fatto la propria parte per
migliorare l'esistenza collettiva. Essere paghi del bene compiuto non è egoismo: esattamente al contrario è
uno dei volti dell'amore per gli altri, che è alla base della legge morale. Un servitore dello Stato che
rimandasse colpevolmente a domani ciò che può fare oggi nel dare risposte a chi richiede i suoi servizi,
specialmente nell'ambito delle necessità dello stato sociale, cadrebbe in una mancanza etica, che dovrebbe
pesargli a prescindere da qualsivoglia sanzione (peraltro spesso inesistente o ignorata). Si pensi, per fare due
esempi ben noti, ai tanti casi di esasperante lentezza della giustizia o ai continui rimandi della politica
nell'affrontare questioni urgenti e necessarie, come la riforma dell'attuale, pessima legge elettorale. Se questa
sensibilità morale è richiesta specialmente a chi deve assolvere a un servizio pubblico, essa mi sembra sia
doverosa per tutti, perché indispensabile al bene di tutti.
La perdita del senso del dovere viene per lo più giustificata dal rimando alle responsabilità altrui: se sono i
capi a dare il cattivo esempio, si comprende come il meccanismo di deresponsabilizzazione si diffonda a
macchia d'olio. I cattivi maestri si possono trovare tuttavia in molti ambiti della scena pubblica: si tenga
conto dell'influenza che hanno specialmente sui giovani alcuni comportamenti o stili di vita immorali di
protagonisti dello spettacolo e dello sport; o si pensi alle autogiustificazioni o addirittura alla semplice
negazione della responsabilità giuridica o morale che figure di rilievo della politica danno di propri
comportamenti scorretti, perfino quando essi siano stati accertati e condannati a più livelli di azione
giudiziaria. Questo modo di fare corrompe le scelte e le motivazioni di tanti: i corrotti diventano a loro volta
corruttori, e questi si giustificano con la logica perversa del "così fan tutti". È un veleno che dilaga
facilmente: «Si comincia con una piccola bustarella, ed è come una droga», afferma Papa Francesco,
stigmatizzando una prassi che porta tanti a dar da mangiare ai loro figli "pane sporco". In tal senso, la
corruzione è peggio del peccato, perché erode in profondità la coscienza morale e induce a sguazzare nella
"banalità del male".
La diffusione di comportamenti corrotti va poi di pari passo con la crescita della disaffezione al bene
comune, che è forse oggi la malattia dell'anima più insidiosa per la nostra società: la sola logica che sembra
debba giustificare le scelte diventa quella del "che me ne viene?". La preoccupazione del benessere proprio e
della propria lobby prevale su ogni considerazione che finalizzi l'agire al maggior bene di tutti. Si perde così
il senso dell'impresa collettiva, del sogno e della speranza di una giustizia più grande; si spegne nei cuori la
passione per ciò che è possibile, da fare al servizio degli altri per la costruzione di un domani migliore per
tutti. Non sorprende in questo clima avvelenato che i giovani provino disgusto per l'impegno sociale e
politico e preferiscano rintanarsi nel privato della propria ricerca di vantaggi e di sicurezze per il futuro. A
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questa mentalità che riduce il male a banalità si può reagire in un solo modo, ritrovando il senso della serietà
della vita, del suo spessore morale, della dignità unica e irripetibile dell'esistenza personale.
Relazione sull’articoloQuesto articolo è stato pubblicato sul “Sole 24 ore” un anno fa da Bruno Forte in occasione dei 50 anni dalla
pubblicazione de La Banalità del Male, Eichmann a Gerusalemme di Hannah Arendt. Secondo l’autore, il
messaggio di questo testo è ancora attuale e, fatte salve le ovvie differenze, ci aiuta a capire che molti dei
mali del nostro tempo derivano dalla mentalità del "così fan tutti", sostenuta e giustificata in particolare dai
politici.
La “banalità del male” è presente su tre fronti che convergono nel male della corruzione, e precisamente:
la perdita del senso del dovere;
lo scaricare le proprie responsabilità su altri;
la disaffezione nei confronti del bene comune, sostituito da quello personale o della propria "lobby".
Il primo sta alla base della coscienza morale e consiste nel voler compiere il bene perché è bene ed
evitare il male per il solo fatto che è male. Bruno Forte afferma che questo principio deve essere alla base
del proprio lavoro, prescindendo dal riconoscimento altrui e dalla ricerca di gratificazioni, purché ciò non
contrasti con la legge morale presente in ogni uomo. Fare il proprio dovere contribuisce a migliorare la
qualità della vita di tutti e a farci sentire orgogliosi del bene compiuto. Questa sensibilità morale è
richiesta soprattutto a chi deve assolvere a un servizio pubblico: i servitori dello Stato rivelano una
mancanza etica quando non forniscono risposte e non prendono decisioni (attuale legge elettorale).
L’articolo continua sostenendo che la perdita del senso del dovere viene giustificata di solito
scaricando la responsabilità sugli altri, specialmente sui capi che danno il cattivo esempio. Così la
deresponsabilizzazione si diffonde a macchia d'olio. I cattivi maestri sono presenti anche nei settori dello
spettacolo e dello sport e coi loro comportamenti immorali influenzano specialmente i giovani. Spesso
figure di rilievo della politica autogiustificano o addirittura negano le proprie responsabilità giuridiche o
morali, anche se accertate o condannate dai giudici. Questo modo di fare è un veleno che dilaga facilmente
e i corrotti diventano a loro volta corruttori. Papa Francesco sottolinea questo aspetto con queste parole
“Si comincia con una piccola bustarella, ed è come una droga”; la corruzione è il più grave dei peccati
perché intacca la coscienza morale in profondità, e porta l’uomo a “sguazzare nella "banalità del male"”.
I comportamenti corrotti comportano la disaffezione verso il bene comune, per cui le scelte sono
giustificate solo dalla risposta all’interrogativo "che me ne viene?". Si perdono così il senso della
collettività, della giustizia, del servizio agli altri per costruire un domani migliore per tutti. Si spiegano in
tal modo il disgusto dei giovani per l’impegno sociale e politico e il loro rifugiarsi nel privato, ricercando
vantaggi personali e sicurezze per il futuro. Questo modo di pensare riduce il male a banalità e si può
combattere solo ritrovando il senso della serietà della vita e della dignità umana.
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L’articolo si conclude affermando che il primo passo per rifiutare la nuova banalità del male e
combatterla è l’indignazione, che però deve essere accompagnata da un impegno serio e duraturo al servizio
del bene comune. La domanda di Gesù “Quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma
perde o rovina se stesso?” riassume in modo chiaro come la banalità del male possa essere contrastata: serve
una tensione etica e spirituale che dia dignità e bellezza alla fatica del vivere, rendendo importante e grande
ciò che sembra semplice e banale.
Riflessione sulle “nuove banalità del male”
In questo articolo Bruno Forte mette in evidenza l’insinuante presenza della banalità del male oggi:
la PERDITA DEL SENSO DEL DOVERE, molto diffusa e grave perché è il fondamento della coscienza
morale; perdere il senso del dovere significa perdere il fondamento della coscienza morale. In una
società che rivendica spesso e giustamente i diritti la riflessione ci aiuta a ricordarci che non
dobbiamo perdere il senso del dovere.
L’autore ci invita a ritrovare il senso del dovere, l’antidoto è quindi ritrovare il fondamento della
coscienza morale; il dovere è anche la fermezza nel compiere il bene, (perché il dovere vuol dire
fermezza nel fare il proprio dovere. Non è fatto solo di buone intenzioni, di questo sono capaci tanti se
non tutti. Il dovere va oltre ogni intenzione. Es. il dovere di studiare degli studenti). L’autore che il
dovere è l’assolvimento dei propri compiti con cura rigorosa, cioè fare bene i propri incarichi che
competono i nostri ruoli.
Vuol dire fare la propria parte per migliorare l’esistenza collettiva, l’antidoto è anche l’amore per il
bene comune perché il male banale è anche la perdita dell’amore per il bene comune.
La LOGICA PERVERSA DELLA DERESPONSABILIZZAZIONE: scaricare sugli altri la propria
responsabilità, la mentalità del “così fan tutti”. È un terribile veleno: bisogna recuperare la
sensibilità morale, la logica della responsabilità personale, senza scaricare sugli altri la
responsabilità. Questa logica perversa si diffonde a “macchia d’olio”: i cattivi maestri influenzano
anche i giovani nei cattivi comportamenti.
CHE COSA FARE? CON QUALI ANTIDOTI CONTRASTARE LA BANALITA’ DEL MALE?
1. Recuperare il senso di responsabilità della vita (la serietà della vita, che non è un gioco);
ritrovare lo spessore morale della vita, come pure il valore della dignità;
2. Indignazione nei confronti di male banale, ecco perché l’appello al risveglio;
3. L’impegno serio al bene comune;
Ricercare dei valori assoluti non è un rifugio consolatorio, ma un’esigenza.
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La filosofia dell’infinitoLa filosofia idealistica, i cui esponenti sono Fichte (1762 - 1814),
Schelling (1775 - 1854) e Hegel (1770 -1831), è l’espressione filosofica del Romanticismo, vasto movimento culturale che caratterizza gli ultimi decenni del ‘700 e la prima metà dell’ ‘800. È una delle correnti dell’ ‘800 accanto a Marxismo e Positivismo che si sviluppano nella seconda metà del secolo.
Col termine “Romanticismo” si indica infatti il movimento filosofico,
letterario e artistico che nasce in Germania negli ultimi anni del ‘700 e coinvolge tutta l’Europa nei primi decenni dell’Ottocento. Storicamente il romanticismo tedesco ha come luogo di nascita la città di Jena dove si riuniscono, in un circolo, alcuni intellettuali. Le sue caratteristiche principali sono:
- l’esaltazione del sentimento;
- il desiderio di infinito.
L’avvento e la diffusione del Romanticismo sono preparati dalla filosofia tedesca di fine ‘700 e dal movimento dello Sturm und Drang (tempesta ed impeto) i cui letterati esaltano il sentimento forte tempestoso e passionale che è la categoria spirituale predominante del romanticismo, il valore supremo inteso come qualcosa che sentiamo affiorare.
I motivi romantici non si trovano tutti e contemporaneamente in ciascun autore, ma la
presenza anche solo di alcuni di essi in un determinato scrittore autorizza a parlare di
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aspetti romantici della sua opera. Un esempio è costituito da Hegel: il fatto che polemizzi contro il primato del sentimento e contro certe posizioni del circolo di Jena non implica che
egli non abbia nulla a che fare con il Romanticismo; pur non rientrando nella “scuola romantica” in senso stretto, Hegel partecipa profondamente al clima culturale romantico del quale condivide soprattutto il tema dell’infinito. IL RIFIUTO DELLA RAGIONE ILLUMINISTICA E LA RICERCA DI ALTRE VIE D’ACCESSO ALLA REALTÀ E ALL’ASSOLUTO I romantici sono tutti d’accordo nel respingere la ragione illuministica prevalentemente empiristico-scientifica ritenuta incapace di comprendere la realtà profonda dell’uomo, dell’universo e di Dio che aveva sbarrato le porte alla metafisica.
I romantici cercano altre vie di accesso alla realtà e all’infinito.
Alcuni individuano nel sentimento l’organo più funzionale per rapportarsi alla vita e per penetrare
nell’essenza dell’universo. Il sentimento acquista un valore predominante, soprattutto grazie allo
Sturm und Drang che denuncia l’incapacità della ragione, nei limiti a essa imposti da Kant, di
attingere la sostanza delle cose e le realtà superiori e divine.Questo sentimento è qualcosa di più profondo e “intellettuale” del sentimento comunemente inteso come un’ebrezza indefinita di emozioni potenziato di “riflessione” e di filosofia. Il
sentimento è in grado di aprire a nuove dimensioni della psiche appare talora come l’infinito stesso. In ogni caso esso si configura come il valore supremo.
L’esaltazione del sentimento procede parallelamente al culto dell’arte vista come “sapienza del mondo” e “porta aurorale” della conoscenza cioè come ciò che precede e anticipa il discorso logico e nello stesso tempo lo completa. L’artista, e in particolare il poeta, è
“esploratore dell’invisibile”. Questo concetto dell’arte, come intuizione meta-filosofica che
può attingere le profondità originarie della vita e possedere l’infinito è espresso da Schelling.
La valorizzazione dell’arte creativa implica il primato del linguaggio poetico e musicale, visto
come “parola magica” in cui si concretizza l’essenza stessa dell’arte.
La musica diventa la “regina delle arti ” poiché fa vivere l’esperienza stessa dell’infinito. L’arte è anche un modo per ergersi sopra la caoticità e sopra il dolore del mondo.
Anche la religione è una via d’accesso privilegiata al reale e una forma di sapere immediato che riesce a cogliere il Tutto nelle parti, l’Assoluto nel relativo, il Necessario nel contingente.
Nel movimento romantico ci sono anche filosofi, come Hegel che, pur condividendo le critiche all’intelletto illuministico, ritengono solo un rinnovato esercizio della ragione possa fornire spiegazioni dell’essere e dell’assoluto. Hegel infatti polemizza contro le varie filosofie
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del sentimento e della fede, affermando che solo mediante la logica e la ragione è possibile un discorso fondato sull’infinito. Rifacendosi alla distinzione kantiana tra intelletto e ragione, Hegel addossa al primo tutti i difetti
che i romantici avevano attribuito alla scienza “analitica” ed empiristica dell’Illuminismo, e
assegna alla seconda, intesa alla maniera “dialettica”, tutte le prerogative che i poeti avevano ascritto nell’arte o alla fede, ossia:
la virtù di andare oltre la superficie del reale e di coglierne le strutture profonde; idoneità a captare l’infinito e l’assoluto; l’attitudine a pensare in modo sintetico e organico, cioè spiegare le parti in relazione al
tutto;
la predisposizione ad afferrare la dimensione storica della realtà.
Mentre Kant ha costruito una filosofia del finito basato sul principio del limite, l’oltre-limite ciò che
rifugge dai contorni definiti e si sottrae alle leggi dell’ordine e della misura. Pertanto
l’anticlassicismo dei romantici costituisce una tendenza generale della loro sensibilità e del loro
spirito. L’infinito è il protagonista principale dell’universo culturale romantico.
Infinito = tema caro ai romantici e Hegel, la cui filosofia può essere definita filosofia dell’infinito, al
contrario di Kanti (ermeneutica della finitudine). L’infinito è desiderio da parte dei romantici, il finito
è caratterizzato dalla sofferenza, dal dolore, dal caos, dalla morte, dal negativo, il male, il tempo
che è comunque un vincolo (GLOBALIZZAZIONE SUPERAMENTO DEL TEMPO). Proprio
perché la realtà è caratterizzata da questi elementi c’è un’aspirazione forte ad una realtà diversa,
un desiderio che porta a trovare e ricercare v
ie di accesso all’infinito che possono essere:
1. Sentimento, in particolare espressione del sentimento è l’arte
2. Fede
3. Filosofia, in particolare posizione di Hegel
4. Natura
I Romantici sono bramosi di trascendere le barriere del finito. Questo tema è il protagonista
principale del Romanticismo:
1. La visione panteistica, più seguito dai poeti e filosofi tedeschi e caratteristico. Secondo questa
concezione c’è identità tra finito e infinito. Infatti la parola pan (tutto) teismo (Dio), non c’è
distinzione e l’infinito non trascende il finito è un tutt’uno è dentro il finito, è immanente, dento
l’infinito stesso religiosità cosmica, tutto è Dio, immanentismo. Il panteismo può essere di due
tipi:
Naturalistico spinoziano – goethiano (cfr pag. 335 e 345-346) radici lontane, nella
filosofia arcaica della Grecia antica (Eraclito, l’universo è Dio). In questo caso l’infinito si
identifica con la natura, famosa espressione spinoziano “deus sive natura”, Dio come la
natura, cioè è la natura. Un’altra visione è quella di Giordano Bruno.
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Goethe è convinto che la natura e Dio sono strettamente congiunti e fanno tutt’uno; la
natura è l’abito vivente della divinità, perciò si può giungere a Dio solo attraverso la natura.
Quindi la natura non è un puro sistema di forze meccaniche come sostengono i materialisti.
Hegheliano idealistico come sostiene Hegel tutto è idea o ragione, quindi l’infinito si
identifica con la ragione o idea (concetto di panlogismo). Nel giovane Hegel questa idea
ancora non c’è (collegio di tubinga) e condivide il modello trascendentistica.
2. La visione trascendentistica secondo il quale l’infinito trascende il finito quindi non si
identificano, è tipico delle religioni storiche:
Ebraismo
Cristianesimo
Islamismo
dove troviamo la distinzione tra Dio (infinito) e la natura, ovvero la creazione (finito).
Tra le ambivalenze del Romanticismo c’è trascendentismo e immanentismo.
L’OTTIMISMO AL DI LÀ DEL PESSIMISMO Il Romanticismo sembra il trionfo del pessimismo,
nasce dalla coscienza dell’infelicità e dall’anelito verso l’infinito, cioè da un desiderio di andare oltre gli ostacoli che stringono l’esistenza da ogni parte.
Romanticismo e dolore così legati che nasce l’autocompiacimento della sofferenza stessa,
intesa come il prezzo che ogni individuo deve pagare per entrare nella schiera dei grandi. Ma secondo alcune storie della filosofia il Romanticismo è sostanzialmente ottimista. Questa
apparente antitesi nasce dalla mancata distinzione tra la predisposizione romantica verso gli
stati d’animo melanconici e la visione complessiva del mondo. Anche se nella letteratura romantica il tema del dolore, il pessimismo sono molto presenti il Romanticismo tende in realtà a scoprire, al di là del negativo, la realtà del positivo. La sua
visione provvidenzialistica del reale e la sua mentalità a sfondo religioso presuppongono
infatti un’accettazione di fondo dell’essere.
Quando non c’è i romantici tendono a sublimare il negativo nella dimensione dell’arte, oppure
in quella della storia e della politica. Al di là della caoticità e dolorosità del mondo ricercano un senso o un piano capace di riscattare il male e di trasformarlo in un momento del farsi complessivo del bene. I romantici finiscono dunque per approdare a una forma di ottimismo cosmico o storico che
nel dolore, nell’infelicità e nel male scorge delle manifestazioni parziali e necessarie di un Tutto che nella sua globalità è pacificato e felice.
La celebrazione massima dell’ottimismo romantico è rappresentata dall’idealismo panlogistico di Hegel secondo cui il mondo è la manifestazione di un’infinita Ragione che abita in ogni momento della vita e della storia, facendo sì che la realtà sia sempre ciò che
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deve essere, cioè razionalità e perfezione. Hegel fa della dialettica la legge stessa della realtà, ritenendo che in essa, al di là della possibile “coscienza infelice” dell’individuo, tutto sia positivo.
Non è solo qualcosa di razionale, ma è potenziato di filosofia e quindi riflessione. Il Romanticismo
esalta il sentimento perché considera lo strumento privilegiato, come “organo” che serve per
comprendere la realtà profonda della vita umana.
Pascal diceva che il filosofo non si arriva a Dio solo con la ragione ma col cuore, il sentimento è la
via d’accesso all’infinito, la porta della conoscenza.
Hegel nelle opere della maturità, pur condividendo alcune tematiche, afferma che all’infinito si
raggiunge solo con la ragione filosofica che ha il compito di comprendere l’essenza della realtà.
L’arte è considerata la regina delle arti dai Romantici, in particolare la musica, come la poesia, il
cui linguaggio è particolarmente esaltato perché ci permetto di vivere l’esperienza forte dell’infinito.
Sono una sorta di “mano luminosa” che ci solleva dal dolore dell’esistenza, in quanto è molto forte
nei Romantici il tema del dolore.
L’uomo ha a disposizione delle ancore di salvezza che caratterizza la vita di ognuno di noi,
unitamente alla fede, altra via di accesso all’infinito.
Uomini che hanno sofferto il dolore, che hanno dedicato altre opere d’arte; sono loro stessi
personaggi del dolore.
Nel Romanticismo al di là del pessimismo prevale l’ottimismo, la vita di fatto è intrecciato di questi
due elementi.
C’è la consapevolezza che il dolore è dentro l’esistenza umana; la filosofia hegeliana è
l’espressione per eccellenza dell’ottimismo romantico perché H. ha una concezione razionale della
realtà “tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale” (Lineamenti di filosofia
del diritto) vuol dire che realtà e ragione si identificano: la realtà è razionale intimamente,
governata dalla ragione, astuta che si serve degli uomini, in particolare dei grandi personaggi, per
portare a compimento i propri fini e i propri scopi.
Quindi la ragione non è caos: Nietzsche (da una componente irrazionale) tutto danza
sull’irrazionalità, non domina la ragione.
Per Hegel tutto è governato dalla ragione, diversa da quella tradizionale (capacità di distinguere
bene male giusto e sbagliato, criticare e soppesare. Pensiero e capacità critica, pianificare in
anticipo, valutare anticipatamente le conseguenze dell’azione) in quanto essenza stessa della
realtà che governa il mondo e la realtà.
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George Wilhelm Friedrich Hegel1. VITA
Nasce il 27.08.1770 a Stoccarda, segue i corsi di filosofia e di teologia all’Università di Tubinga dove diventa amico di Schelling e Holderin.
Vive con grande entusiasmo gli avvenimenti della Rivoluzione francese che esercita sul suo
pensiero un’influenza duratura. Quando Napoleone entra a Jena nel 1806 Hegel è entusiasta e mantiene questo entusiasmo che non diminuisce quando aderisce allo Stato prussiano.
Terminati gli studi Hegel fa il precettore in case private e abita dal 1793 al 1796 a Berna. A
questo periodo risalgono i primi scritti rimasti inediti La vita di Gesù e La positività della religione cristiana. Tornato in Germania, nel 1797 fa il precettore privato a Francoforte sul Meno.
ra il 1798 e il 1799 compone alcuni scritti di natura teologica; nel 1800 lavora a un primo breve
abbozzo del suo sistema pure inedito. Morto il padre grazie a una cospicua eredità, si reca a Jena,
dove nel 1801 pubblica il suo primo scritto intitolato Differenza fra il sistema filosofico di Fitche e
quello di Schelling, dello stesso anno è la dissertazione per l’abilitazione alla libera docenza De
orbitis planetarum.
Nei due anni successivi Hegel collabora con Schelling al “Giornale critico della filosofia”. Nel 1805
diventa professore a Jena e redattore capo di un giornale bavarese ispirato alla politica
napoleonica.
Nel 1808 dirige il ginnasio di Norimberga; nel 1816 è nominato professore di filosofia a
Heidelberg; nel 1818 viene chiamato all’Università di Berlino. Comincia allora il periodo del suo
massimo successo. Muore a Berlino il 14 novembre 1831.
2. SCRITTIGli scritti del periodo giovanile rivelano un interesse religioso-politico, che nelle grandi opere della
maturità si trasforma in un interesse storico-politico. Hegel studia e interpreta la storia umana e la
vita dei popoli.
Gli scritti giovanili, composti tra il 1793 e il 1800, vengono pubblicati soltanto all’inizio del XX
secolo, sono opere di natura teologica e un primo abbozzo del suo sistema, composto a Jena nel
1800.
Nel suo primo scritto filosofico Differenza fra il sistema filosofico di Fitche e quello di Schelling
(1807), nella cui prefazione il filosofo dichiara il suo distacco dalla dottrina si Schelling.
A Norimberga, Hegel pubblica Scienza della logica, una parte nel 1812 e l’altra nel 1816.
A Heidelberg dà alle stampe, nel 1817, l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, più
compiuta formulazione del suo sistema. Nelle due successive edizioni, nel 1827 e nel 1830, Hegel
aumenta di molto la mole dello scritto. Un’ulteriore edizione in tre volumi col nome di Grannde
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enciclopedia viene realizzata dagli allievi dopo la morte del maestro, tra il 1840 e il 1845 con
aggiunta di lunghe annotazioni ricavate dai suoi appunti e dalle sue lezioni...
3. LE TESI DI FONDO DEL SISTEMA Le tesi di fondo dell’idealismo di Hegel sono:
1- La risoluzione del finito nell’infinito:
L’espressione “rivoluzione del finito nell’infinito” significa che per Hegel la realtà non è un insieme
di sostanze autonome, ma un organismo unitario in cui tutto ciò che esiste è una parte o una
manifestazione.
Tale organismo non ha nulla al di fuori di sé e rappresenta la ragion d’essere di ogni realtà,
coincide quindi con l’assoluto e con l’Infinito; i vari enti del mondo invece essendo manifestazioni di
esso, coincidono con il finito. Il finito, come tale, non esiste, perché non è un altro che
un’espressione parziale dell’infinito. Come la parte non può esistere se non in connessione con il
tutto, così il finito esiste unicamente nell’infinito e in virtù dell’infinito.
L’hegelismo si configura quindi come una forma di monismo panteistico, cioè come una teoria che
vede nel mondo (nel finito) la manifestazione o la realizzazione di Dio (dell’infinito). L’assoluto per
Hegel è un soggetto spirituale in divenire, in cui tutto ciò che esiste è “momento” o “tappa” di un
processo di realizzazione. La realtà non è sostanza, ma soggetto, ciò significa che essa non è qualcosa di immutabile e di già dato, ma un processo di auto-produzione che soltanto alla fine, cioè con l’uomo (lo spirito) e le sue attività più alte (arte religione e filosofia), giunge a
rivelarsi per quello che è veramente.
2- L’identità tra ragione e realtà (panlogismo);
CONCETTO DI PANLOGISMO (tutto … pensiero parola e ragione) è un concetto hegeliano
secondo cui tutto è razionale, come sostiene il celebre aforisma31 tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale (Lineamenti di filosofia del diritto – 1821), in altre parole
il soggetto spirituale infinito che sta alla base della realtà viene denominato da Hegel idea o
ragione, termini che esprimono l’identità di Ragione e Realtà. Questa identità riassume e sintetizza
il senso stesso dell’hegelismo (filosofia di Hegel).
con la prima parte “tutto ciò che è razionale è reale” Realtà e ragione si identificano per cui
la realtà è razionale; la razionalità non è pura idealità e astrazione, ma è massimamente concreta
che si dispiega nella storia, nella realtà e nella natura. La ragione “governa” il mondo in maniera
astuta (astuzia della ragione) che utilizza gli uomini per i propri scopi per cui gli uomini non sono
liberi (es. Napoleone).
Viceversa con la seconda parte della formula la realtà non è materia caotica ma il dispiegarsi
della razionalità. La razionalità si manifesta nella realtà in due modi
31Un aforisma o aforismo (dal greco ἁφορισμός, definizione) è una breve frase che condensa - similmente alle
antiche locuzioni latine - un principio specifico o un più generale sapere filosofico o morale.
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1- in modo inconsapevole nella natura non ha consapevolezza di essere razionale,
non c’è pensiero;
2- in modo consapevole nell’uomo.
Ragione e reale e realtà razionale non possono essere diversi da come sono, cioè la
necessaria, totale e sostanziale identità di realtà e razionalità. La ragione non è SOLO una facoltà umana propria dell’uomo che ci consente di conoscere la
realtà, di pensare e di agire eticamente, ma è la struttura stessa del reale.
La realtà non è caos proprio perché la razionalità si manifesta nella storia e nella realtà secondo
una serie ascendente di gradi in cui ogni grado è il risultato di quello precedente e il presupposto del seguente. La realtà si auto-crea attraverso un progressivo aumento (H. ha abbandonato la visione cristiana
della realtà, per una visione panteistica). Hegel è un panteista perché non c’è la distinzione finito-infinito (identificazione tra Dio e creatura).
Anche il negativo è funzionale alla realizzazione del bene, il male non è più tale lo è apparentemente. Il panteismo hegeliano è la massima espressione del Romanticismo.
Tutto è razionale e quindi tutto ciò che è, è ciò che deve essere (critica di giustificazionismo
rivolta dai suoi contemporanei32) domina la categoria filosofica della ragione e della necessità,
ogni momento della realtà, anche il dolore e il negativo (negazione del fiore perché possa
nascere il frutto) sono funzionali alla realizzazione del positivo.
Hegel ritiene che la realtà sia una totalità processuale necessaria, formata da una serie ascendente di “gradi” o “momenti”, ciascuno dei quali rappresenta il risultato di quelli precedenti e il presupposto di quelli seguenti.
3- La funzione giustificatrice (giustificazionismo).
LA FUNZIONE DELLA FILOSOFIAGià nella filosofia antica (Platone e lo Stato ideale fondato sulla giustizia e non sulla forza o sulla
violenza / epicureismo, stoicismo scetticismo, ellenismo III sec. a.C., che prospettano la felicità
ideale) e nella filosofia moderna (Campanella, la città ideale, Erasmo da Rotterdam, Tommaso
Moro) la filosofia aveva avuto il compito di prospettare un dover essere ideale33.
Hegel per spiegare il compito della filosofia utilizza la metafora della nottola di Minerva (un animale
notturno che inizia il suo volo sul far del crepuscolo quando la luce viene meno e le tenebre hanno
il sopravvento sulla luce) perché la filosofia arriva sempre troppo tardi a dire come deve essere il
mondo, giacché sopraggiunge quando la realtà ha compiuto il suo processo di formazione.
La filosofia ha quindi il compito di comprendere ciò che è avvenuto nella storia, interpretare il reale,
non prospettare un dover essere della realtà: per H. la filosofia ha un compito descrittivo,
ermeneutico, cioè interpretativo, constatare ciò che è avvenuto e comprendere l’intrinseca
32Kierkegaard criticherà H. proprio per questa sua posizione in quanto secondo lui l’esistenza è dominata dalla libertà 33 Se tutto ciò che è è razionale tutto ciò che è è razionale perché ciò che è è ciò che deve essere
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struttura, cioè l’essenza profonda della realtà. Ha il compito di chiarire e esplicitare la legge
razionale immanente nelle cose e negli eventi della storia e della natura. La razionalità si dispiega
in modo inconsapevole nella natura. Quindi la metafora ci permette di capire che il compito del
filosofo non è prospettare un dover essere ideale.
GIUSTIFICAZIONISMOLa filosofia implica un atteggiamento programmaticamente giustificazionista nei confronti della
realtà. Hegel consapevole di questa critica rivolta dai suoi contemporanei si difende. Proprio per
evitare che la sua filosofia fosse scambiata per una banale accettazione della realtà in tutti i suoi
aspetti, anche in quelli più immediati, compreso l’errore, il male, ha sentito la necessità di fare una
puntualizzazione in cui afferma che quando egli parla di realtà dicendo che si identifica con la
ragione non intende il lato accidentale e superficiale delle cose, ma la sostanza, cioè l’essenza
profonda della realtà.
Secondo alcuni critici, questa affermazione dimostra come l’hegelismo non si riducibile ad una
forma di giustificazionismo. Hegel, con questo intervento “difensivo” escludere dall’accezione
filosofica di “realtà” gli aspetti “superficiali” o “accidentali” dell’esistenza immediata. Nella
prosecuzione del paragrafo, lasciando intendere come il corso o la trama del mondo non possa
mai fare a meno, negli aspetti essenziali di essere necessariamente razionale, Hegel polemizza
contro la “separazione della realtà dall’idea” conclude che “scienza filosofica ha da fare solo, e non
esser poi effettivamente: ha da fare perciò con una realtà di cui quegli oggetti, istituzioni, condizioni
ecc. sono solo il lato esterno e superficiale”.
Un noto filone interpretativo, che va da Engels a Marcuse pur ammettendo gli aspetti
“conservatori” del pensiero hegeliano, ha tuttavia cercato di mostrare come esso possa venir letto
anche in modo dinamico e rivoluzionario. Secondo loro l’aforisma di Hegel significherebbe, in
sostanza, che il reale è “destinato” a coincidere con il razionale mentre l’irrazionale è destinato a
perire.
Una tale lettura, più che un “interpretazione” di Hegel è una specie di “correzione” del suo sistema
alla luce degli ideali rivoluzionari dei suoi propugnatori; Engels distingue, nella filosofia di Hegel, il
cosiddetto “metodo” (classificato come “rivoluzionario”), dal cosiddetto “sistema” (classificato come
“conservatore”).
Questa distinzione è stata in seguito contestata da più parti e non la troviamo neppure nel giovane
Marx, “per il quale non ha senso parlare di contraddizione fra metodo e sistema in Hegel, che anzi
è proprio il metodo di Hegel a spiegare le conclusioni reazionarie della sua filosofia”. Questa sua
maniera di rapportarsi a Hegel ha trovato meno seguito di quella engelsiana a causa di ben
precise circostanze storico-culturali (in primo luogo al fatto che i suoi scritti filosofici sono stati
conosciuti molto tardi) e non certo alla minore fondatezza della sua interpretazione (esegesi).
In conclusione i testi di Hegel documentano in modo chiaro e inequivocabile il suo atteggiamento
fondamentalmente giustificazionista nei confronti della realtà.
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4. LA DIALETTICALa dialettica è legge,
sia ontologica (essere), cioè di sviluppo della realtà, nel senso che la realtà diviene in
modo processuale, seguendo lo schema triadico, TAS, tesi, antitesi, sintesi. Quindi la realtà
diviene secondo questo schema. La realtà è intrinsecamente dialettica.
sia logica, cioè lo strumento che ci consente di comprendere la realtà perché se la realtà
è scritta secondo uno schema triadico, per comprendere la realtà è necessario utilizzare la legge logica.
I tre momenti della dialettica:
1. TESI coincide con le determinazioni singole delle cose, la realtà infatti è costituita da una molteplicità di determinazioni. Dal punto di vista logico il primo momento del nostro pensiero che coglie le singole determinazioni è detto momento astratto o intellettuale, è la
forma più bassa e semplice di pensiero.
Utile da una parte, perché ci consente di cogliere i singoli aspetti della realtà, ma non è la forma più completa di pensiero, non ci consente di cogliere la realtà nella sua totalità; ha il limite di cogliere le singole determinazioni come statiche e separate. Non ci
permette di cogliere la realtà nella sua totalità.
IL VERO è L’INTEROPer capire la critica al pensiero astratto possiamo utilizzare un esempio che è Hegel stesso a
farci: l’esempio dell’assassino condotto al patibolo per essere ucciso, la gente che assiste
viene suddivisa in:
popolo che lo considera un assassino,
le donne che lo vedono come un uomo bello robusto interessante.
un conoscitore di uomini (esperto di psiche umana) che vede in quel delinquente una storia di vita, troverebbe nella vita di quell’uomo dei rapporti difficili, cattivi tra i genitori, con un passato travagliato.
Hegel conclude “pensare in modo astratto significa non vedere nell’assassino nient’altro che (questa astrazione dell’essere egli) un assassino e mediante questa semplice qualificazione
cancellare in lui ogni essenza umana”. Ci permette di cogliere dei frammenti nella realtà, e non
nella sua interezza “vedere nell’assassino solo un assassino”.
Con questo esempio ci dice quali sono i limiti del pensiero astratto fermo restando la sua realtà, esso non ci permette di cogliere tutti gli avvenimenti e le sfumature di un avvenimento o di un fatto, errore in cui frequentemente gli uomini incorrono. Il pensiero astratto deve
essere superato perché non ci consente di cogliere la realtà dell’essere:
la realtà è una trama di relazioni;
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la verità non consiste in una considerazione parziale delle cose, ma la verità è la visione completa e globale di esse. Un singolo aspetto non ci fornisce mai la realtà nella sua interezza e pertanto non ci conduce alla realtà;
“IL VERO È L’INTERO”, la troviamo nella Prefazione della Fenomenologia dello spirito. Ogni
cosa ha una motivazione, un senso, un significato razionale (ciò che è, è ciò che deve essere)
che risiede nella sua relazione con altri momenti particolari ma necessari. Ogni momento è particolare e contingente; la filosofia è quella forma di sapere che ci permette di cogliere la realtà: è scienza del reale, la scienza che consente di cogliere la realtà nella sua complessità e concretezza. La verità è quindi l’assoluto, la filosofia ci
permette di cogliere l’assoluto. Le vie di accesso all’infinito, l’arte, la musica, la fede e la
filosofia.
La verità non è una dimensione statica ma dinamica proprio perché la ragione diviene; la
verità non coincide con i frammenti della realtà in quanto non è una concezione parziale della realtà. per comprendere la realtà non ci si può limitare alla concezione parziale della realtà. Il pensiero astratto – intellettuale, l’intelletto non ci permette di comprendere la realtà nella
sua interezza, di comprendere tutte le sfaccettature della realtà.
2. SINTESI Il secondo momento è quello propriamente dialettico o della negazione,
ANTITESI (momento negativo o razionale), ciò che va contro la tesi, la negazione della tesi. Ogni
determinazione implica una negazione (Eraclito)
luce determinazione che indica il buio, l’immagine della fiamma che continua ad
essere luce permette di cogliere la realtà.
Gemma determinazione che indica il fiore, il quale implica un’altra determinazione.
“ogni determinazione è una negazione”
L’essere vecchio implica la negazione di essere giovane (redenzione del negativo).
Vedi ottimismo e pessimismo. Il panlogismo hegeliano è la massima celebrazione dell’ottimismo romantico. Ogni cosa si definisce anche per ciò che non è. L’essere sazio non essere affamato.
La forma di pensiero che ci permette di cogliere la relazione degli opposti è il pensiero razionale, dialettico
negativo che riesce a cogliere la realtà nel suo interno dinamismo (il pensiero intellettuale coglie le singole
relazioni) questo pensiero coglie la relazione di relazione e riesce a cogliere che ogni cosa non ha senso nel
suo isolamento, ma soltanto nella relazione con tutte le altre (riconoscere la realtà che non dipende solo da
me).
3. ANTITESI Il terzo momento è quello speculativo, o positivo o razionale, momento della
sintesi cioè la negazione della negazione, ovvero la riaffermazione potenziata del positivo. Il
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temine che usa Hegel è Aufhebung34, la riaffermazione potenziata (concetto di gradi
ascendenti) del positivo e questa potenzialità ha un percorso ascendente. Quindi il pensiero che ci consente di cogliere la sintesi è il pensiero speculativo, filosofico; il pensiero positivo e razionale che ci consente di cogliere la realtà nella sua complessità. La sintesi si configura
come una ri-affermazione potenziata dell’affermazione iniziale, ottenuta tramite la negazione della
negazione intermedia. L’Aufhebung esprime l’idea di “superamento” che è al tempo stesso, un
togliere.
La morte sembra essenziale e funzionale; attraverso un processo dialettico, di divenire attraverso una serie ascendente di gradi e momenti in cui ogni momento è il risultato del precedente (fiore risultato della gemma) e al tempo stesso è il presupposto, ovvero la
condizione, di quello successivo: il fiore è il presupposto del frutto.
Nell’hegelismo c’è una sorta di redenzione del relativo, matrice religiosa (studio collegiale
protestante nella giovinezza per preparare i pastori) che si riflette nella filosofia.
SINONIMI DA UTILIZZARE PER L’IDEALISMO Ragione o Idea o Spirito o Assoluto 5. LA CRITICA ALLE FILOSOFIE PRECEDENTI
Alla base delle realtà sta la Ragione o Idea, corrente filosofica.
HEGEL E L’ILLUMINISMOHegel rifiuta la maniera illuministica di rapportarsi al mondo. Gli illuministi infatti consideravano l’intelletto il giudice della storia ed erano costretti quindi a pensare che il reale non fosse
razionale, dimenticando così che la vera ragione (lo spirito) è proprio quella che prende corpo nella storia e abita in tutti i suoi momenti. La ragione degli illuministi esprime solo le esigenze e le aspirazioni degli individui: è una ragione finita e parziale, cioè un “intelletto astratto” che
pretende di dare lezione alla realtà e alla storia stabilendo come esse dovrebbero essere,
mentre la realtà è sempre necessariamente ciò che deve essere.
HEGEL E KANTHegel si contrappone anche a Kant che aveva voluto costruire una filosofia del finito, della quale
faceva parte integrante l’antitesi tra l’essere e il dover essere, cioè tra la realtà e la ragione. In
campo gnoseologico, le idee della ragione erano per Kant meri ideali, idee “regolative” che
spingevano la ricerca scientifica all’infinito, verso una compiutezza e una sistemazione
inconoscibili. In Kant l’essere (realtà) non si adeguava mai al dover essere (razionalità), per
Hegel invece questa adeguazione è necessaria.
A Kant Hegel rimprovera anche la pretesa di voler indagare la facoltà del conoscere prima di procedere a conoscere. Pretesa che egli paragona all’assurdo “proposito di quel tale Scolastico,
d’imparare a nuotare prima di arrischiarsi nell’acqua”.34Il termine è un termine tecnico adoperato per indicare il procedimento della dialettica, che abolisce, e nello stesso tempo conserva , ciascuno dei due momenti. Il termine quindi ha due significati: 1.conservare e ritenere; 2. cessare metter fine, senza però essere annullato.
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HEGEL E IL ROMANTICISMO (il Romanticismo nasce come reazione all’illuminismo) il Romanticismo esalta la dimensione
irrazionale dentro di noi, il R. critica la ragione circoscritta nell’ambito del finito (nell’isola che noi
abitiamo) perché la ragione romantica è aperta all’infinito, che i romantici tanto desiderano (a
cui non possiamo accedere secondo Kant). La filosofia ha il compito di comprendere questa razionalità di comprendere l’infinito non prospettando un dover essere.
La filosofia deve prospettare un mondo nuovo contro una realtà ingiusta e oppressiva che
toglieva agli uomini la libertà che non coincideva col dover essere caotica e irrazionale. Una
ilosofia che avesse un compito prescrittivo
HEGEL E MARX (che farà parte della sinistra Hegeliana dopo la morte di H.- 1831) critica Hegel e
uno dei motivi è il compito della filosofia perché per Marx la realtà, ingiusta e alienante tra
oppressi e oppressori è una società che va cambiata prospettare un dover essere in cui l’essere
non coincide con il dover essere, come per Hegel. Il compito del filosofo è smascherare
l’alienazione, i mali della società capitalistica e borghese (differenza fondamentale del positivismo)
e prospettare una nuova società senza alienazione, dove l’uguaglianza sia reale, di fatto
(sostanziale) e non solo formale (tutti gli uomini sono uguali dalla rivoluzione francese che nella
realtà non è concreta) prospettando una società con uguaglianza, possibile SOLO con il
comunismo.
ACCIDENTE è ciò che è ma potrebbe anche non essere. L’accidentale è un’esistenza che non ha
maggior valore del possibile, escludendo dalla realtà in senso forte che non si identifica con il mero
e accidentale accaere bensì con i grandi eventi che lasciano un segno nella storia del mondo (es.
colpito da un sasso che magari causa una ferita è un evento grava ma non paragonabile a un fatto
accaduto a Napoleone), un conto sono gli eventi legati ai fatti e un conto è la realtà vera e propria,
sostanziale della storia. È la storia della civiltà che ha una sua razionalità; anche H. sarà criticato
da K perché quest’ultimo metterà al centro della riflessione filosofica il singolo, cioè l’uomo
concreto e la sua esistenza concreta.
LA CONCEZIONE HEGELIANA DELLA VERITA’La concezione hegeliana di verità si trova nella Prefazione della Fenomenologia dello spirito, dove
Hegel afferma che “il vero è l’intiero”, l’intero si completa attraverso il suo sviluppo dove ogni realtà
è un momento. Ogni momento è particolare e contingente, la verità non è una dimensione statica
ma dinamica proprio perché la ragione diviene; la verità non coincide con i frammenti della realtà
in quanto non è una concezione parziale della realtà, ma l’assoluto.
La regola del divenire è la dialettica, di cui Hegel tratta nell’Enciclopedia, che è al tempo stesso sia
legge ontologica, cioè di sviluppo della realtà nel senso che la realtà diviene in modo processuale,
seguendo lo schema triadico, tesi, antitesi, sintesi, sia legge logica cioè lo strumento che ci
consente di comprendere la realtà.
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Il primo momento della dialettica è la tesi che coincide con le determinazioni singole delle cose; dal
punto di vista logico il primo momento del nostro pensiero che coglie le singole determinazioni è
detto momento astratto o intellettuale, utile perché ci consente di cogliere i singoli aspetti della
realtà, ma non è completo perché non ci consente di cogliere la realtà nella sua totalità. Esso ha il
limite di cogliere le singole determinazioni come statiche e separate, impedendoci di cogliere
l’assoluto.
Pensare in modo astratto secondo Hegel significa vedere solo una parte della verità; per spiegare
il concetto di verità propone l’esempio dell’assassino condotto al patibolo per essere ucciso. La
gente che assiste non vedrà in quell’uomo “nient’altro che un assassino”, cancellando in lui “ogni
essenza umana”. Quindi il pensiero astratto non ci permette di cogliere la realtà nella sua interezza
perché non ci permette di cogliere tutti gli avvenienti e le loro sfumature; dal momento che ogni
cosa ha una sua motivazione, un senso, un significato razionale che risiede nella sua relazione
con altri momenti particolari e necessari per attingere alla verità è necessaria la totalità.
CONCETTO DI TRASCENDENTALE
Trascendentale per Kant non è sinonimo di trascendente, cioè di ciò che va oltre
l’esperienza, ma è la condizione gnoseologica necessaria per conoscere e coincide con le
forme pure a priori che unitamente all’esperienza ci permette di conoscere.
KierkegaardL’esistenza come
possibilitàLA VITA
Kierkegaard nasce in Danimarca, a Copenaghen, il 5 maggio 1813. Educato dal padre nel clima di
una severa religiosità, si iscrive alla facoltà di teologia di Copenaghen di ispirazione hegeliana. Nel
1840 si laurea con una dissertazione intitolata Sul concetto di ironia con particolare riguardo a
Socrate. Nel 1841 – 1842 va a Berlino e ascolta le lezioni di Schelling, dapprima entusiasta poi
deluso. Torna a Copenaghen e scrive i suoi libri. Muore l’11 novembre 1855.
Gli incidenti esteriori della vita del filosofo sono poco numerosi e apparentemente insignificanti: il
fidanzamento, mandato a monte, l’attacco di un giornale satirico, la polemica contro l’ambiente
teologico di Copenaghen. In realtà hanno nell’interiorità di Kierkegaard. In particolare, nel Diario il
filosofo parla di un “grande terremoto” prodottosi a un certo punto della sua esistenza che lo
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costringe a mutare il proprio atteggiamento di fronte al mondo, ma i biografici non sono riusciti a
determinarla.
Sempre nel Diario, Kiekegaard parla di una “scheggia nelle carni” che probabilmente gli impedisce
di condurre in porto il fidanzamento con Regina Olsen. Anche qui nessun motivo preciso, nessuna
causa determinata, ma solo il senso di una minaccia oscura e inafferrabile , eppure paralizzante,
che impedisce a Kierkegaard di intraprendere la carriera di pastore e che lo induce a porsi in un
“rapporto poetico”, cioè di distacco e lontananza con le sue opere che pubblica sotto pseudonimi
diversi. Questi elementi biografici vanno tenuti continuamente presenti per comprendere
l’atteggiamento filosofico di Kierkegaard.
L’ESISTENZA COME POSSIBILITA’ E FEDENon è solo un momento contro l’idealismo romantico, anche se molti dei suoi temi si pongono in
antitesi rispetto ai temi dell’idealismo romantico difesa dei suoi temi (la difesa della singolarità
dell’uomo, rivalutazione dell’esistenza concreta contro la ragione astratta, la rivalutazione delle
alternative inconciliabili) contro la sintesi conciliatrice della dialettica, della libertà come possibilità.
Questi punti fondamentali della filosofia kierkegaardiana che costituiscono una via radicalmente
diversa rispetto alla filosofia romantica europea indirizzato la filosofia europea. Tale alternativa
comincia ad acquistare risonanza solo alla fine del ‘900 prima nel pensiero teologico, poi in quello
filosofico.
La prima e fondamentale caratteristica dell’opera e della personalità di Kierkegaard è dunque il
tentativo di ricondurre l’intera esistenza umana alla categoria della possibilità intesa in senso
positivo come effettiva capacità dell’uomo, proprio nel limite trova la spinta per realizzarsi.
Kierkegaard, invece, scopre e mette in luce il carattere negativo di ogni possibilità che entri a
costituire l’esistenza umana. Qualunque possibilità, infatti, oltre che “possibilità-che-sì” è sempre
anche “possibilità-che-non” qualunque possibilità cioè implica la minaccia del nulla.
Kierkegaard vive, e scrive, sotto il segno di questa minaccia, incarna dunque la figura così del
“discepolo dell’angoscia”, che sente gravare su di sé la possibilità annientatrici e terribili
prospettare da ogni alternativa esistenziale.
“Ciò che io sono è un nulla questo mi procura la soddisfazione
di conservare la mia esistenza al punto zero
tra la saggezza e la stupidaggine”.
Il “punto zero” è l’indecisione permanente, l’equilibrio instabile tra le opposte alternative che si
aprono di fronte a qualsiasi possibilità, l’impossibilità di ridurre la propria vita a un compito preciso
di riconoscersi e attuarsi in una possibilità unica. L’unità della personalità consiste in una
condizione di indecisione e di instabilità.
Una seconda caratteristica del pensiero di K è lo sforzo costante di chiarire le possibilità
fondamentale che si offrono all’uomo cioè quegli stadi o momenti della vita che costituiscono le
alternative fondamentali dell’esistenza, tra le quali l’individuo è generalmente indotto a scegliere..
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Il terzo elemento portante del pensiero di Kierkegaard è il tema della fede e, in cristianesimo, unica
religione in cui il filosofo intravede un’ancora di salvezza. Soltanto il cristianesimo secondo lui
insegna quella “dottrina dell’esistenza” che è l’unica vera e nello stesso tempo offre con l’aiuto
soprannaturale della fede, una via per sottrarre l’uomo all’angoscia e alla disperazione.
LE POSSIBILITA’ DELLA LIBERTA’L’esistenza è caratterizzata dalla possibilità, un insieme di possibilità che:
a. pongono continuamente l’uomo di fronte a una scelta tra alternative inconciliabili;
b. implicano una componente ineliminabile di rischio.
Per questi motivi la scelta ha sempre un carattere drammatico e angosciante.
IL RISCHIO DELL’ESISTENZA UMANAOgni possibilità è:
una “possibilità che sì”
una “possibilità che no”
Di fronte all’uomo si aprono non solo possibilità e di realizzazione, ma anche di infelicità e di
scacco. “nella possibilità tutto è ugualmente possibile” questo è il suo lato terribile.
LA POSSIBILITA’ COME LA “PIU’ PESANTE” CATEGORIA DELL’ESISTENZA“La possibilità – come scrive K. ne il concetto dell’angoscia del 1844 - è la più pesante delle
categorie”.
L’orizzonte del possibile, indefinito e infinito, genera nell’uomo l’inquietante sentimento
dell’angoscia.
LA CRITICA ALL’HEGELISMOK. come Schopenhauer è critico nei confronti di Hegel. È il padre dell’esistenzialismo dell’ ’800 e
del ‘900, in quanto:
- rifiuta la visione razionalistica e ottimistica hegeliana, perché secondo lui nella vita il
dolore e la sofferenza sono insopprimibili. Dolore e sofferenza sono dentro la realtà stessa;
queste tematiche esistenziali emergono con la loro forza nella prima metà dell’Ottocento, ed
evidenziano gli aspetti negativi dell’industrializzazione, denunciati poi da Marx.
- rovescia la prospettiva del sistema hegeliano, nel senso che il centro della riflessione non
è più il tutto e l’intero che coincide con il vero, lo spirito, MA il singolo con la sua concreta
esistenza.
- accusa la filosofia hegeliana di essere una filosofia astratta, sterile, sostanzialmente
non feconda in quanto, a suo avviso, quello che interessa la filosofia è la vita che è libertà, non
è una passeggiata, è una cosa seria: è qualcosa di estremamente prezioso, proprio per questo
impegnativo e drammaticamente lacerante. L’idea gli viene da Socrate, quando stende la sua
tesi di laurea sul concetto di ironia; il filosofo greco prende l’idea della VITA COME IMPEGNO
in quanto S. è vissuto e morto per la verità. L’idealismo ha trascurato questa verità concreta
dimenticando la categoria dell’esistenza del singolo, quale uomo concreto in nome di concetti
astratti, mentre K. ci ricorda che l’uomo nella sua concretezza è unico, non rimpiazzabile.
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- L’ESISTENZA HEGEL E KIERKEGAARDKIERKEGAARD HEGEL
L’esistenza è il regno della libertà e della
possibilità, non quello della necessità
L’esistenza è il regno della necessità del dover
essere. Gli uomini si illudono di essere libere,
ma sono “marionette” che “l’astuzia della
ragione” muove.
LA CRITICA ALL’HEGELISMOL’antihegelismo è parte integrante della difesa dell’esistenza portata avanti da Kierkegaard; la
filosofia di Hegel gli sembra radicalmente opposta alla sua, ingannevole ed illusoria. Secondo
Kierkegaard l’esistenza non si lascia riunire e conciliare nella realtà di un unico processo
dialettico in cui l’opposizione delle alternative è solo apparente.
Alla Ragione hegeliana, che assorbe completamente e dissolve in sé gli individui concreti, Kierkegaard contrappone l’istanza del singolo, cioè dell’esistente come tale. Contesta ad
Hegel il fatto di aver trasformato il genere dell’uomo in un genere animale, poiché negli animali
il genere è superiore al singolo, mentre nel genere umano il singolo è superiore al genere.
Questo è l’insegnamento fondamentale del cristianesimo, è il punto su cui bisogna combattere
la battaglia contro la filosofia hegeliana, e in generale, contro ogni filosofia che si illuda di avvalersi di una riflessione “oggettiva”. “La verità è una verità per me”, non l’oggetto del
pensiero, ma il processo con cui l’uomo se ne appropria, la fa sua e la vive cioè
l’appropriazione della verità è la verità. Alla riflessione soggettiva connessa con l’esistenza,
in cui il singolo uomo è direttamente coinvolto e che non è oggettiva e disinteressata, ma
appassionata e paradossale. Compito dei filosofi è l’inserimento della persona singola concreta, con tutte la sue esigenze,
nella ricerca filosofica. Kierkegaard combatte tutta la vita contro il panteismo idealistico, cioè
contro la pretesa di identificare l’uomo e Dio, affermando invece “l’infinita differenza qualitativa”
cioè contro la pretesa di identificare l’uomo e Dio, affermando invece l’ “infinita differenza
qualitativa” tra finito e infinito. Più nel dettaglio questa è la critica di Kierkegaard alla prospettiva
hegeliana.
L’idealismo hegeliano abolisce l’individuo, in quanto lo priva della capacità di pensare,
sostenendo che è il pensiero a pensare se stesso “attraverso” l’individuo. E poiché solo l’assoluto può pensare adeguatamente l’assoluto, quando l’uomo lo pensa smarrisce la propria
identità e diventa egli stesso assoluto, perdendo la sua cifra singolare. Secondo Kierkegaard ciò è
inaccettabile per ragioni etiche oltre che metafisiche.
Kierkegaard ammette:
1) che il pensiero è separato dall’esistenza concreta
2) che sono possibili vari gradi di astrazione
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3) tale astrazione non è però mai totale, altrimenti viene meno il soggetto che pensa: il filosofo danese contesta la posizione astratta dell’idea di essere con cui Hegel comincia la propria riflessione perché in Hegel manca il soggetto concreto e ineludibile
del pensiero.
La rivalutazione kierkegaardiana della scelta individuale che la influenza significa affermare che il soggetto si inserisce nei condizionamenti storici, economici e politici che la influenzano, senza garanzie precostituite, poiché sono sempre presenti e operanti il caso, la problematicità, il rischio della scelta. Gli stessi valori sono per loro natura interiori e non possono mai attuarsi in misura piena e in maniera oggettiva nella storia, ma solo nel
soggetto che agisce. Tali valori operano anche all’interno della storia che però non va intesa come lo sfondo, il mezzo per l’attuazione dell’assoluto, ma come il farsi incerto e privo di garanzie, dell’individuo. Questa dinamica è per K. “dialettica” solo nel senso che si realizza nella tensione tra contrari (e non in un processo triadico). È una dinamica “extra-logica” che nella sua concretezza non approda mai alla conciliazione. La dialettica kierkegaardiana è quindi “qualitativa”, perché
non si sviluppa da un vuoto gioco del pensiero, ma dalla tragica concretezza della vita e si compie non nel quietismo hegeliano della sintesi, cioè dell’et-et, ma nella drammatica imposizione di un aut-aut.
GLI STADI DELL’ESISTENZAAut-aut è una raccolta di scritti che presentano l’alternativa tra i due stadi fondamentali
dell’esistenza: la vita estetica e la vita morale che non sono due gradi di un unico sviluppo e
costituiscono ciascuno una vita a sé con le sue opposizioni interne e si presentano all’uomo come
un’alternativa che esclude l’altra.
Lo stadio estetico è la forma di vita di chi esiste nell’attimo fuggevolissimo e irripetibile ,
nutrendosi di immaginazione e riflessione insieme. L’esteta è dotato di un senso finissimo per
scoprire quanto l’esistenza offre di più interessante e vive le diverse situazioni della vita concreta come se fossero il frutto dell’immaginazione poetica che è banale, insignificante e
meschino, costruendo per se stesso un mondo luminoso che esclude uno stato di permanente ebrezza intellettuale35. La vita estetica non tollera la ripetizione tipica della
quotidianità di una vita regolare.
La figura di don Giovanni, il protagonista del Diario di un seduttore, rappresenta questo stadio perché sa trarre godimento non dalla ricerca sfrenata e indiscriminata del piacere, ma dalla scelta dei piaceri più intensi e appaganti.
35L’esteta ricerca il piacere, non solo quello sensibile, ma anche il piacere intellettuale; non a caso bandisce: tutto ciò di insignificante banale e meschino; la ripetizione, la normalità e la routine che gli procura noia.
L’esteta ricerca la novità; vive poeticamente in quanto il poeta è colui che riesce a cogliere nella normalità la straordinarietà.
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Tuttavia anche nella sua forma “perfetta”, la vita estetica conduce necessariamente alla noia e, in ultimo, alla disperazione che rivela l’ansia dell’esteta di una vita diversa. Kierkegaard
spiega che il numero eccezionalmente alto delle conquiste di don Giovanni (seduttore per
eccellenza) si spiega con la sua insoddisfazione per ogni relazione. Ciò non dipende
dall’inadeguatezza delle varie amanti, ma dall’incapacità di don Giovanni36 di trovare in una donna, quell’infinita di piacere e di realizzazione che sta cercando.Proprio lasciandosi andare completamente alla disperazione, si può uscire dalla pura esteticità, per
riagganciarsi con un “salto” all’altra alternativa possibile, quella della costituita dalla vita etica.
“sceglie dunque la disperazione”, suggerisce Kierkegaard poiché “non si può disperarsi senza
sceglierlo”.
Con la scelta della disperazione nasce dunque la vita etica che stabilità e continuità. Lo stadio
etico è il dominio della riaffermazione di sé, del dovere e della fedeltà a se stessi, cioè dominio
della libertà, poiché in essa l’uomo si forma e si afferma da sé.
Nella vita etica l’uomo singolo si adegua all’universale e rinuncia a essere l’eccezione. Così
come la vita estetica è incarnata dal seduttore, la vita etica è rappresentata dalla figura del
marito37. Il matrimonio, infatti, per Kierkegaard è l’espressione tipica dell’eticità, in quanto
compito che può essere proprio di tutti. 36
Seduttore per eccellenza; di fronte alla vita ci si può comportare come don Giovanni, l’esteta che vuole il godimento e ricerca il godimento immediato, concepisce la vita come seduzione. Vive la vita attimo per attimo, senza un autentico impegno etico; Si rifiuta di costruire una quotidianità fatta di impegni e doveri, ricercando lo straordinario; Non ha una moglie; Desidera conquistare tutte le donne; Tenta di sedurle in maniera anche raffinata e non volgare, cioè non solo con l’avvenenza fisica, ma è un seduttore intellettuale; Usa le armi della seduzione amate dall’universo femminile: la sensibilità, la gentilezza, la finezza d’animo; una volta conquistata e sedotta, l’abbandona; Sceglie di non scegliere, una non scelta apparente, perché noi non possiamo non scegliere; Ha un bisogno continuo di novità: se si ferma è perduto; Chiunque vive esteticamente è disperato.
37Altra alternativa possibile, più alta rispetto alla precedente: implica stabilità continuità; lo stato etico è il dominio del dovere, della fedeltà a sé e agli altri. Il marito è l’uomo che ha scelto di scegliere: ecco il dominio della libertà, l’uomo è fedele alla sua essenza. Questa vita nasce con la scelta di una possibilità di vita totalmente diversa rispetto a quella estetica: è simboleggiata dal marito e padre di famiglia e lavoratore: gli elementi che caratterizzano la vita sono normalità, matrimonio e lavoro. È lo stadio della responsabilità etica, della famiglia e del lavoro, quindi anche lo stadio del dovere, che si presenta come l’elemento fondamentale di una vita basata sulla responsabilità. Un’altra caratteristica importante è l’impegno e la fedeltà ai propri compiti, un’esistenza normale fatta di diritti e doveri, sentimenti stabili, continuità, fedeltà. È evidente la differenza con don Giovanni che voleva in ogni momento la novità; al contrario la vita etica si fonda sulla continuità, ma la scelta della normalità: un’altra differenza sostanziale è la ricerca di scegliere, mentre don Giovanni sceglieva di non scegliere. Assume in pieno la responsabilità della propria libertà. Quindi pur collocandosi su un piano più alto rispetto a quella estetica, la vita etica rivela anch’essa la sua insufficienza, in quanto in essa l’uomo non riesce a trovare veramente se stesso, la propria singolarità genuina in quanto nell’uomo c’è un’ansia di infinito che non si lascia racchiudere nei limiti di una tranquilla esistenza di marito e di impiegato , lavoratore; l’uomo non riesce a realizzare se stesso in questi due ambiti. Da qui la necessità di un’esperienza esistenziale più profonda, la vita religiosa, l’unica che può: vincere la disperazione e aiutare l’uomo a realizzarsi come singolo.
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La persona etica, inoltre, vive del proprio lavoro che costituisce la sua vocazione e lo mette in relazione con altre persone.
La caratteristica della vita etica è costituita dalla scelta che l’uomo fa di se stesso: si tratta di
una scelta assoluta, perché non è la scelta di una determinazione finita, MA la scelta della libertà, cioè, in fondo, della scelta stessa. Effettuata questa scelta, l’individuo scopre di possedere una storia in cui riconosce la propria
identità con se stesso e penetra più profondamente nella radice che lo unisce all’umanità intera.
In virtù della scelta l’individuo non può rinunciare a niente della propria storia, neanche agli
aspetti più dolorosi e crudeli, e nel riconoscersi in questi aspetti, egli si pente. Il pentimento costituisce l’ultima parola della vita etica e ne rivela l’insufficienza e manifestando la necessità di passare al dominio della religione. La scelta assoluta è dunque il pentimento,
riconoscimento della propria colpevolezza. Questo è lo scacco finale della vita etica per cui
essa tende a trapassare nella vita religiosa.
La vita religiosa 38
Anche tra lo stadio etico e lo stato religioso c’è un abisso, un’opposizione ancora più radicale che
K. chiarisce nell’opera timore e tremore, dove raffigura la vita religiosa rifacendosi al personaggio
biblico di Abramo e alla sua vicenda. Il sacrificio di Isacco non è suggerito ad Abramo da una
qualche esigenza morale, ma da un comando divino che contrasta con la legge morale e con gli
affetti naturali. In altri termini l’affermazione del principio religioso sospende interamente l’azione
del principio morale: tra i due principi non c’è possibilità di conciliazione o di sintesi. Optando per il
principio religioso, l’uomo di fede sceglie di seguire i comandi divini anche a costo di infrangere le
norme morali e giungere così a una rottura totale con tutti gli altri uomini. Del resto la fede non è un
principio generale, ma un rapporto privato tra l’uomo e Dio, un rapporto assoluto con l’Assoluto. La
fede è il dominio della solitudine; da ciò deriva il carattere incerto e rischioso della vita religiosa.
Come può l’uomo sapere con certezza di essere l’eletto colui al quale Dio ha affidato un compito
talmente eccezionale da esigere e giustificare la sospensione dell’etica? L’unico segno indiretto è
la forza angosciosa con cui chi è veramente eletto da Dio si pone proprio questa domanda.
L’angoscia dell’incertezza è la sola assicurazione possibile; la fede è appunto certezza
angosciosa. C’è nella fede una contraddizione ineliminabile: essa è paradosso e scandalo, il cui
segno è Cristo, Dio e uomo.
38È la forma autentica di esistenza, incontro del singolo con la singolarità di Dio, la fede per Kierkegaard è un ”rapporto assoluto con l’Assoluto”, cioè l’apertura totale a Dio. Quindi l’emblema di questa vita che si affida a Dio è Abramo, simbolo della fede, di un’adesione totale a Dio, scandalosa per la ragione, ma anche per la stessa vita etica. La fede è scandalo e paradosso. Abramo è vissuto 70 anni nel rispetto della legge morale, riceve da Dio l’ordine di uccidere il figlio Isacco, quindi di infrangere la legge per cui è vissuto. Abramo in nome della sua fede assoluta con l’Assoluto accetta di diventare assassino del figlio, alza su di lui il coltello contro la legge morale e contro l’affetto naturale. Quella di Abramo è una scelta tragica: la prova che Dio ha dato per testare la sua fede è fermata dall’angelo.
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Filosofia 5^A
Analogamente l’uomo è posto di fronte a un bivio credere o non credere. Se da un lato è il singolo
uomo a dover scegliere, dall’altro ogni iniziativa umana è esclusa perché Dio è tutto e da lui deriva
anche la fede. La vita religiosa è quindi imprigionata in questa contraddizione inesplicabile che
costituisce l’essenza stessa dell’esistenza umana: il paradosso, lo scandalo, la necessità e
insieme l’impossibilità di decidere, il dubbio, l’angoscia.
K è dunque convinto che la religione cristiana riveli la sostanza della vita dell’uomo, ma la sua
concezione del cristianesimo è molto lontana da quella delle religioni ufficiali.
L’ANGOSCIADopo aver delineato gli stadi fondamentali della vita come alternative reciprocamente escludentisi
e come situazioni dominate da irrimediabili contrasti interni, Kierkegaard approfondisce la propria
ricerca e giunge al punto centrale da cui le alternative e contrasti si originano: l’esistenza come
possibilità.
“L’angoscia si riduce nell’avvenire;
il possibile, infatti, corrisponde completamente all’avvenire”
nelle due opere fondamentali Il concetto dell’angoscia e la malattia mortale, il filosofo analizza la
situazione di radicale incertezza, instabilità e dubbio in cui l’uomo si trova “costituzionalmente”. Nel
Concetto dell’angoscia tale analisi assume il punto di vista dei rapporti dell’uomo con il mondo,
mentre nella Malattia mortale quello della relazione della relazione dell’uomo con se stesso.
L’angoscia è strettamente connessa con il peccato, ed è anzi a fondamento dello stesso peccato
originale. Adamo è “innocente” finché resta “ignorante”, cioè finché non conosce le proprie infinite
possibilità; ma tale ignoranza contiene già in sé l’elemento che determinerà, e tale elemento non è
né calma né riposo, né turbamento né lotta, perché non c’è alcunché da cui riposarsi o contro cui
lottare. È un niente che genera l’angoscia. A differenza del timore e di altri stati analoghi che si
riferiscono sempre a qualcosa di determinato, l’angoscia non si riferisce a nulla di preciso. Essa è il
pur sentimento della possibilità.
Nell’ignoranza di ciò che può, Adamo possiede potere nella forma della pura possibilità, e
l’esperienza vissuta di questa possibilità è l’angoscia che è libertà finita, cioè limitata e impastoiata,
che si identifica con il sentimento della possibilità.
L’angoscia si radica nell’avvenire; il possibile, infatti, corrisponde completamente all’avvenire. Il
passato genera angoscia solo nel caso in cui si presenti come possibile futuro, cioè come
possibilità di ripetizione: una colpa passata genera angoscia solo se non è veramente passata,
cioè solo se è possibile ricadervi, giacché diversamente genererebbe pentimento. L’angoscia è
legata a ciò che non è ma può essere, alla possibilità del nulla o alla possibilità nullificante.
L’angoscia è strettamente legata alla condizione umana: essa infatti manca, o è presente in grado
minore, in quei momenti o in quelle forme di vita in cui l’uomo si rende simile agli animali (nelle
condizioni di eccessiva felicità o in certi soggetti privi di spirito). Ma anche in questi casi l’angoscia
è sempre lì, pronta a catturare di nuovo la preda. Anche se la povertà spirituale sottrae l’uomo
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all’angoscia, non bisogna dimenticare che l’uomo sottratto all’angoscia è schiavo delle circostanza,
che lo sospingono di qua e di là senza meta.
L’angoscia è dunque la più gravosa e al tempo stesso la più necessaria tra le categorie umane. Le
parole più terribili pronunciate da Cristo non sa quelle che esprimono infatti la sofferenza per ciò
che accade, ma quelle che Cristo rivolge a Giuda “ciò che tu fai, affrettalo!”.
Kierkegaard collega l’angoscia al principio dell’infinità o onnipotenza, del possibile “nel possibile,
tutto è possibile” anche e soprattutto il negativo. Per questo ogni possibilità favorevole è spesso
annientata dall’infinito numero delle possibilità sfavorevoli.
“Quando si sa che dalla vita non si può pretendere nulla è che il lato terribile, la perdizione,
l’annientamento abitano a porta a porta con ciascuno di noi; che ciascuna delle angosce che noi
teniamo può piombare su di noi a ricordarci che essa è di gran lunga più facile che non la
possibilità”
È quindi l’infinita o indeterminatezza, delle possibilità a rendere l’angoscia insuperabile e a farne la
condizione fondamentale dell’uomo nel mondo.
L’onnipotenza della possibilità supera di gran lunga l’umano muoversi accortamente tra le cose
finite, e induce l’individuo “a riposare nella provvidenza”.
DISPERAZIONE E FEDEL’angoscia è la condizione in cui il possibile pone l’uomo rispetto al mondo, è la condizione in cui il
possibile pone l’uomo rispetto alla sua interiorità, al suo io.
L’angoscia sorge dalla possibilità di fatti, circostanze, legami che rapportano l’uomo al mondo, la
disperazione è inerente alla personalità stessa dell’uomo. Disperazione e angoscia sono quindi
strettamente legate, ma non identiche.
La disperazione è strettamente legata alla natura dell’io; infatti l’io può volere o non volere essere
se stesso. Ma anche se non vuole essere se stesso e cerca di rompere il proprio rapporto con sé,
urta contro un’impossibilità fondamentale, dal momento che tale rapporto gli è costitutivo.
La disperazione è la “malattia mortale” non perché conduca alla morte, ma perché consiste nel
vivere la morte dell’io: essa è il tentativo impossibile di negare la possibilità dell’io o considerandolo
o cercando di distruggerne la natura concreta. Queste due forme della disperazione si richiamano
e si indentificano tra loro.
Inoltre poiché l’io è “sintesi di necessità e di libertà”, in esso la disperazione nasce o da una:
1. mancanza di necessità, l’io fugge verso possibilità si moltiplicano indefinitamente.
La disperazione è quella che oggi chiamiamo “evasione”, cioè il rifugio in possibilità
fantastiche, illimitate, che non si concretizzano mani: “nella possibilità tutto è
possibile. Perciò nella possibilità ci si può smarrire in tutti i modi possibili, ma
essenzialmente in due. L’una di queste forme è quella del desiderio,
dell’aspirazione; l’altra è quella malinconico-fantastica”.
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2. mancanza di libertà, nel caso invece in cui la disperazione nasca da una mancanza
di libertà.
Solo il credente, a parere di Kierkegaard, possiede l’antidoto sicuro contro la disperazione. In
quanto opposta alla fede, la disperazione è il peccato: perciò l’opposto del peccato è per l’appunto
la fede, non la virtù.
La fede è dunque la via per eliminare a disperazione; essa è la condizione in cui l’uomo, pur
volendo essere se stesso, non si illude di essere autosufficiente, ma riconosce la propria
dipendenza da Dio.
La fede sostituisce la speranza e la fiducia in Dio, essa è tuttavia un aiuto che non aiuta se non è
solida e indimostrabile. I valori morali e religiosi sono diversi: i primi obbligano l’uomo sia ad
adeguarsi alla mentalità e ai costumi dominanti; i secondi sono sempre liberi e liberanti.
L’ANGOSCIA, ESPERIENZA TIPICAMENTE UMANAL’angoscia:
appartiene alla condizione umana, non è presente nell’esperienza animale (guidato
dall’istinto), nell’angelo (puro spirito) non sottoposto alle attrattive del mondo materiale;
è un sentimento tipicamente umano, tipico di un essere libero come l’uomo. L’angoscia nasce
dalla sua libertà di potere.
PERCHE’ L’ANGOSCIA E’ UN ELEMENTO COSTITUTIVOAngoscia =
puro sentimento del possibile;
un senso di vertigine davanti al vuoto, al nulla puro sentimento del possibile Adamo è
l’emblema di questa “angosciante possibilità di potere”: egli, trasgredendo il comando di Dio, ha
scelto di peccare, introducendo il peccato originale nella vicenda umana e con esso l’angoscia.
è la “possibilità della libertà” possibilità insieme di tutto e di nulla. È proprio dell’uomo vivere
in una condizione di completa indeterminatezza, nulla è predeterminato.
L’ANGOSCIA COME SENTIMENTO DEL POSSIBILE Se esistenza = libertà
Possibilità = angoscia
L’esistere si configura come connotato da questo sentimento inquietante “l’angoscia è la
possibilità del bene e del male”
Tutto è possibile, niente è assicurato
ANGOSCIA VS PAURA Paura = sentimento che proviamo di fronte a una situazione determinata e/o di un pericolo
preciso
Angoscia = condizione esistenziale generata dalla “vertigine della libertà” e dalle infinite
possibilità negative che incombono sulla vita.
LA PIU’ TERRIBILE DELLE TORTURE
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Per K. l’angoscia è ancora più:
3. terribile di qualsiasi grande inquisitore;
4. astuta di qualsiasi spia che sa attaccare con tanta astuzia;
5. sottile di qualsiasi giudice che sa esaminare a fondo l’accusato
“l’angoscia non ci abbandona né nel divertimento, né nel chiasso, né sotto il lavoro, né di giorno,
né di notte”.
COME SI CONTRASTA L’ANGOSCIA?L’unico modo efficace per contrastare i tormenti dell’angoscia che accompagna l’esistere non è
l’accortezza umana, ma la fede religiosa in Dio, ovvero colui al quale “tutto è possibile”.
LA DISPERAZIONE, “MALATTIA MORTALE”Oltra all’angoscia, c’è un altro stato d’animo connesso all’esistere che caratterizza l’essere uomo.
Ogni uomo è malato di disperazione. È una malattia mortale che riguarda ognuno di noi
La disperazione ci invade in un duplice senso:
sia quando non ci accettiamo per quello che siamo e rifiutiamo il nostro essere finito e non autosufficiente.
sia quando ci esaltiamo come esseri autosufficienti e completi.DA CHE COSA DERIVA LA DISPERAZIONE
Dal non voler riconoscere che il nostro essere dipende sa Dio dal negare di appartenere a lui.
dal credere di essere autonomi e indipendenti. La disperazione dunque è la condizione di colui che
nega Dio e ritiene di poter dare un senso alla vita indipendentemente da Lui. la disperazione è il
peccato, l’opposto della fede.
LA LONTANANZA DA DIOMa se neghiamo Dio, annientiamo noi stessi perché ci allontaniamo da “l’’unico pozza da cui si può
attingere acqua” (che Talete aveva identificato come archè). Lontano da Dio non ‘è possibilità di
esistenza autentica.
LA FEDE COME ANTIDOTO SICURO CONTRO LA DISPERAZIONE La fede:
è la condizione in cui l’uomo non si illude sulla sua autosufficienza ma riconosce la sua
dipendenza da Dio; l’uomo di fede è colui che riconosce di essere dipendente da Dio. La
vita non è una proprietà, è un dono.
è l’eliminazione della disperazione perché è speranza e fiducia in Dio, colui a cui tutto è
possibile
A DIO TUTTO E’ POSSIBILE Dio è principio di ogni possibilità per cui tutto gli è possibile.
Così come quando qualcuno sviene si dà acqua, analogamente quando qualcuno è disperato
bisogna dire: “trovate una possibilità, trovategli una possibilità”. La possibilità è l’unico rimedio.
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Dategli una possibilità è il disperato riprende lena, si rianima, perché se l’uomo rimane senza
possibilità è come se gli mancasse l’aria. Talvolta l’inventiva della fantasia umana può bastare per
trovare una possibilità. Ma ci sono situazioni drammatiche nella vita in cui né noi né gli altri
possono prospettarci una possibilità.
SOLO A DIO NULLA E’ IMPOSSIBILESolo a Dio nulla è impossibile.
Proprio perché a Dio tutto è possibile, il credente/l’uomo di fede possiede l’antidoto sicuro contro la
disperazione,
“il fatto che la volontà di Dio è possibile fa sì che io possa pregare; se essa fosse soltanto
necessaria, l’uomo sarebbe essenzialmente muto come l’animale”. I molti miracoli che Gesù
fa sono sempre nel momento in cui si trova davanti qualcuno che prega. La ragione non ci basta,
con un ala non si può volare alla verità, la fede è la seconda ala che ci porta alla verità (enciclica
del papa Giovanni Paolo II)
LA SCELTA PER DIOLa fede in Dio è il fondamento della vita e del pensiero di K. il suo pensiero profondamente
religioso si basa sulla scelta per Dio. La rottura del fidanzamento è il cardine di tutta la sua
riflessione filosofica, ma anche il fondamento della sua esistenza. L’episodio si rifà all’alternativa
della alternativa secca tra Dio e il mondo, “Dio in questo caso aveva la precedenza”
Aut-autAUT-AUT (titolo originale dell’opera Eten-Eller), opera geniale del 1843, è una raccolta di scritti
che presentano l’alternativa tra due stadi fondamentali dell’esistenza:
vita estetica
vita morale
che non sono due gradi di un unico sviluppo e costituiscono ciascuno una vita a sé, con le sue
opposizioni interne e si presentano all’uomo come un’alternativa che esclude l’altra.
Sin dall’inizio essa pone il tema dominante dell’intera filosofia dell’esistenza: aut-aut, “o questo o
quello”, una possibilità esclude possibilità diverse. Alla posizione di Hegel, riassunta da K. “et-et”
cioè sia sia, il filosofo danese contrappone la scelta.
Questa condizione esistenziale di Aut-aut rischia di paralizzare l’uomo. Ma il tempo incalza, la vita
non si ferma ad aspettare le nostre indecisioni di fronte a ciò che accade. Dobbiamo andare avanti.
Lungo la strada dell’esistenza un bivio si apre ad ogni momento dinnanzi all’uomo che la percorre.
Dove andare? Dobbiamo andare avanti, dobbiamo scegliere. Anche non scegliere è sempre una
scelta.
K. L’ESISTENZA UMANA E’ SCELTA modo proprio di essere dell’uomo nel mondo. Per capire
il motivo, dobbiamo riflettere sul tema dell’esistenza: che cosa significa esistere “scegliere”
SOLO L’UOMO è EX-SISTENZA
UOMO ANIMALE
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L’uomo è l’unico essere capace di proiettarsi al
di là di sé, nel futuro, attraverso la progettualità
La possibilità non appartiene agli animali che
sono determinati nelle loro azioni dall’istinto.
L’esistenza è progetto, possibilità, poter essere La necessità, non la libertà, domina la vita
dell’animale
L’uomo diviene e si trasforma sulla base delle
scelte che continuamente fa
L’animale è ciò che la natura ha
predeterminato per lui
A differenza dell’animale, l’uomo non è
predeterminato per natura, egli è quello che
decide di diventare
Nel comportamento animale domina la
ripetizione, non l’innovazione
L’UOMO è POSSIBILITA’ , LIBERTA’Ognuno di noi è quello che sceglie di essere. Perfino la rinuncia alla scelta è una scelta, sia pure
un tipo di scelta con cui l’uomo rinuncia alla propria specificità. L’animale o le cose non possono
scegliere, l’uomo sì. Egli è libertà e possibilità. L’uomo sceglie vivendo, vive scegliendo. la
nostra libertà non è onnipotenza.
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Approfondimento: la psicoanalisi
La rivoluzione psicoanalitica: Sigmund Freud
Inconscio, lapsus, fobia, nevrosi, reazione isterica: questi termini sono entrati nell’uso comune a
testimonianza della larga diffusione della psicoanalisi, nata per curare l’isteria.
La psicoanalisi è uno degli indirizzi classici della psicologia legato indissolubilmente al nome di
Freud39. La psicoanalisi ha influenzato la cultura del Novecento, non solo la psicologia, ma
anche la letteratura, l’arte, la sociologia, l’antropologia culturale, le scienze dell’educazione e la
stessa filosofia.
La psicoanalisi nasce dall’individuazione di un metodo di cura di certe malattie mentali, quali
l’isteria e si rivela un vero e proprio strumento di “rivoluzione del pensiero”.
VITA E OPERENasce a Freiberg, il 6 maggio 1856, da genitori Ebrei, si trasferisce a Vienna nel 1860. Si laurea in
medicina e studia l’anatomia del sistema nervoso lavorando nel laboratorio neurofisiologico di von
Brücke.
Nel 1882 deve lasciare la ricerca scientifica per ragioni economiche e deve intraprendere la
professione medica, dedicandosi alla psichiatria.
Nel 1885 ottiene una borsa di studio e va a Parigi, dove Charcot sta studiando i fenomeni isterici.
Nel 1889 passa un breve periodo a Nancy dove viene applicato il procedimento dell’ipnosi da
alcuni studiosi, tra cui Bernheim, per approfondire la tecnica dell’ipnosi che Freud comincia ad
usare, portando il paziente a ricordare avvenimenti della vita.
Tornato a Vienna, conduce una serie di ricerche sull’isteria insieme a Joseph Breuer che lo portano
a scoprire l’inconscio e a formulare la teoria psicoanalitica.
Il successo delle sue teorie fa nascere nel 1910 a Norimberga la Società internazionale di
psicoanalisi presieduta da Jung.
Nel 1933 i nazisti a Berlino bruciano le sue opere e Freud nel 1938 si reca esule a Londra dove
muore nel 1939.
Delle numerose opere ricordiamo:
Studi sull’isteria in collaborazione con Bruer, 1895.
39Sigismund Schlomo Freud detto Sigmund ( – Londra, 23 settembre 1939) è stato un neurologo epsicoanalista austriaco, fondatore della psicoanalisi, una delle principali branche della psicologia.
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L’interpretazione dei sogni (1900)
Per la storia del movimento psicoanalitico (1914) in cui afferma che lui stesso è il padre
della psicanalisi “La psicoanalisi è una mia invenzione”.
DAGLI STUDI SULL’ISTERIA ALLA PSICOANALISILa medicina ufficiale ottocentesca tende a interpretare tutti i disturbi della personalità in chiave
somatica e quindi a non prendere “sul serio” quegli stati psiconevrotici, come le isterie a cui non
corrisponde alcuna lesione organica. In particolare la medicina viennese ha un’impostazione
positivistico-materialistica.
Comunque l’isteria attira l’attenzione di alcuni medici tra cui il clinico francese Charcot (1825 -
1893), direttore dell’ospedale psichiatrico della Salpetriere di Parigi, e il medico viennese Bruer
(1842 - 1925).
Charcot usa l’ipnosi come metodo terapeutico per controllare e inibire temporaneamente i
sintomi isterici mediante la suggestione (atteggiamento scientifico della patologia
psiconevrotica). Si tratta prevalentemente di paralisi isteriche e durante l’ipnosi i pazienti
riconquistano la funzionalità perduta, nonostante poi i sintomi si ripresentino, appena svanito
l’effetto dell’ipnosi.
Breuer utilizza l’ipnosi per richiamare alla memoria avvenimenti penosi dimentica, notando che
ciò consente talvolta di “liquidare” le cariche emotive connesse ai fatti stessi. Egli era uno dei
pochi nell’ambiente medico viennese a mostrare un interesse scientifico per i casi di isteria
ANNA O.Noto è il caso di Anna O. pseudonimo di Berta Pappenheim, una donna isterica gravemente
ammalata, curata da Breuer che presentava i seguenti sintomi:
- tosse nervosa;
- emicrania;
- turbe della vista e dell’udito
- capogiri;
- paralisi motorie;
- anoressia;
- afasia (incapacità di parlare);
- idrofobia acuta (paura irrazionale dell’acqua tanto da non bere)
Al telefono con la madre, il medico chiede cosa sia accaduto in precedenza: “ha curato per 5 mesi
il padre, successivamente ha cominciato ad interrompersi a metà frase”. Quando Breuer va a farle
visita la trova immobile, muta con qualche violento attacco di tosse, da alcune settimane. Decide
così di andare a trovarla ogni sera, e sotto l’effetto dell’ipnosi fa riemergere:
- il doloroso periodo in cui ha assistito il padre gravemente malato per farle manifestare
quegli stati emotivi mai espressi;
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Filosofia 5^A
- la causa dei sintomi idrofobici che risalgono a quando, da bambina ha visto il cane della
governante (verso la quale nutriva sentimenti di ostilità) bere dalla tazza. Aveva provato
un forte senso di repulsione che non ha osato esprimere in alcun modo, manifestando
sintomi idrofobici. Al termine della narrazione, dopo aver espresso la rabbia, riesce a bere. Questa tecnica viene
ribattezzata dalla stessa Anna O. come talking cure o cura con la parola (si esprime al proprio
medico tutto ciò che passa per la testa - libera associazione di idee)
Freud Studi sull’isteria in collaborazione con Bruer, 1895. Grazie allo studio del caso di Anna
mettono a punto il metodo catartico, consiste nel tentativo di provocare una “scarica emotiva” (ab-
reazione) capace di liberare il paziente dai suoi disturbi.
Le strade di Freud e Bruer si dividono in quanto B. non è d’accordo con F. perché secondo Freudla
sessualità gioca un ruolo fondamentale nella genesi della psiconevrosi.
Nella ricerca delle cause dell’isteria (eziologia), Freud autonomamente scopre poi che la causa
delle psiconevrosi vanno cercate in un conflitto tra forze psichiche inconsce che operano al di là
della sfera di consapevolezza del soggetto. I sintomi delle patologie sono psicotici, ciò non
derivano da disturbi organici, ma dalle vicende della psiche stessa.
La scoperta dell’inconscio segna l’atto di nascita della psicoanalisi che si configura come una
psicologia “abissale” o “del profondo”.
CHE COS’È LA PSICOANALISI? La psicanalisi nasce nel 1900, anno in Freud (medico) pubblica
l’interpretazione dei sogni può essere definita come:
un metodo psicoterapeutico, cioè di cura di alcune malattie psichiche (disturbi nevrotici:
l’isteria in particolare è un tipo di nevrosi). Nasce dall’esigenza di curare l’isteria molto
diffusa tra le donne ai tempi di Freud (xk? )
un metodo di indagine finalizzato a scoprire cosa avviene nel profondo della nostra psiche,
in quella parte “abissale” di noi che per ora ci limitiamo a chiamare INCONSCIO;
un complesso sistema di teorie, fondata sulla pratica dell’analisi psicologica, elaborate allo
scopo di definire i processi che avvengono nella psiche dell’uomo (teorie freudiane conscio,
preconscio e inconscio; Es, Io, Super-io)
PSICOLOGIA DINAMICA
- da un lato ci sono le pulsioni che vogliono essere espressi (governante e padre) - Eros
- dall’altro qualcosa che ne contrasta l’espressione
La condizione preliminare dell’analisi è il transfer, cioè la traslazione dei sentimenti dei genitori.
Lascia in disparte l’intento razionale, molla della collaborazione. L’io diventa forte e riesce a far
cosa apparentemente impossibili, metodo delle libere associazioni. Ovviamente perché da ciò
Chiara Ponti 5^ A A.S. 2014 - 2015 Pag. 85
Filosofia 5^A
riemerge il rimosso, allontanati dalla coscienza, che consente di rimuovere, cioè allontanare dalla
coscienza contenuti psichici censurati dalla stessa coscienza, una sorta di campo di gravitazione.
Prima di Freud si riteneva comunemente che la “psiche” si identificasse con la coscienza. Freud
afferma che la maggior parte della vita mentale si svolge “fuori” della coscienza e che l’inconscio
costituisce la realtà abissale primaria di cui il conscio (simile alla punta di un iceberg) è solo la
manifestazione visibile. Per la psicoanalisi l’inconscio è il punto di vista privilegiato da cui
osservare l’uomo.
Freud divide l’inconscio in due zone:
6. il preconscio che è la zona in cui l’insieme di quei ricordi che, pur essendo
momentaneamente inconsci possono con uno sforzo dell’attenzione, divenire
consci;
7. il rimosso che comprende quegli elementi psichici stabilmente inconsci mantenuti
tali da una forza specifica – la cosiddetta “rimozione” – che può venire superate solo
in virtù di tecniche apposite.
L’inconscio in senso stretto coincide dunque con il rimosso.
Per superare la rimozione Freud pensa di usare l’ipnosi che si rivela poco efficace. Elabora quindi
un nuovo metodo: quello delle cosiddette associazioni libere, mediante il quale il malato cerca di
abbandonarsi al corso dei propri pensieri, facendo sì che tra le varie parole da lui pronunciate si
istaurano delle catene associative collegate con il materiale rimosso che si vuole portare alla luce.
Questo metodo, la capacità di “aggirare” più facilmente censure e rimozioni presenta notevoli
difficoltà concrete perché richiede lo sforzo solidale del paziente.
In ogni caso anche il transfer o traslazione cioè il trasferimento sulla persona del medico di una
serie di stati d’animo ambivalenti provati dal paziente durante l’infanzia nei confronti delle figure
genitoriali deve essere messo al servizio della cura.
LA SCOMPOSIZIONE PSICOANALITICA DELLA PERSONALITÀ
Rifiutando la concezione intellettualistica per cui l’io è un’unità semplice riportabile alla coscienza,
centro unificatore e afferma che la psiche è un’unità complessa costituita da un certo numero di
sistemi con funzioni diverse disposti in un certo ordine gli uni rispetto agli altri come metaforici
“psichici”.
La prima topica psicologica (cioè il primo studio dei tòpoi, o luoghi, della psiche) viene
elaborata da Freud nel capitolo VII dell’Interpretazione dei Sogni e distingue tre “sistemi” il
conscio (Cs), il preconscio (Pcs) e l’inconscio (Ucs);
La seconda topica viene elaborata a partire dal 1920 e distingue tre “istanza”: l’Es, l’Io e il
Super-Io.
1. l’Es è:
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Filosofia 5^A
c. il “polo pulsionale della personalità”
cioè la forza impersonale caotica
2.
I SOGNI, GLI ATTI MANCATI E I SINTOMI NEVROTICI
Ne L’interpretazione dei sogni Freud vede nei sogni la “via regia che porta alla conoscenza
dell’inconscio nella vita psichica”. Egli ritiene infatti che i fenomeni onirici siano “l’appagamento
(camuffato) di un desiderio (rimosso)”. Questa tesi si basa sull’individuazione all’interno dei sogni
di:
un contenuto manifesto, cioè una “scena” onirica, così come viene vissuta dal soggetto;
un contenuto latente, cioè l’insieme delle tendenze che danno luogo alla scena onirica.
I sogni richiamano desideri inaccettabili per il soggetto che li “censura”. In altri termini, il contenuto
manifesto dei sogni la forma elaborata e “travestita” dei desideri latenti.
Quindi l’interpretazione psicoanalitica dei sogni consistere nel ripercorrere a ritroso il processo di
traslazione del contenuto latente di quello manifesto per cogliere i messaggi segreti dell’Es.
Nella Psicopatologia della vita quotidiana Freud esamina gli atti mancati cioè quei contrattempi
della vita di tutti i giorni (lapsus, errori, dimenticanze, incidenti banali) prima attribuiti al “caso”.
Applica il principio del “determinismo psichico” secondo cui, nella nostra mente, nella avviene in
modo fortuito e scopre che questi micro fenomeni hanno un significato ben preciso, l’ennesima
manifestazione camuffata dell’inconscio, una specie di compromesso tra l’intenzione cosciente del
soggetto determinati pensieri inconsci presenti nella sua psiche. Es. il lapsus linguae del giovane
che afferma di aver apprezzato la “spogliatezza” invece della “spigliatezza” dell’attrice.
Anche per i sintomi nevrotici, Freud sostiene che il sintomo, come il sogno manifesto, rappresenta
il punto di incontro tra una o più tendenze rimosse e quelle forze della personalità che si
oppongono all’ingresso ditali tendenze nel sistema conscio. Freud scopre poi che gli impulsi
rimossi che stanno alla base della personalità che si oppongono all’ingresso di tali tendenze nel
sistema conscio. Freud scopre poi che gli impulsi rimossi che stanno alla base dei sistemi
psiconevrotici sono sempre di natura sessuale e pone la sessualità al centro della propria
attenzione.
LA TEORIA DELLA SESSUALITÀ E IL COMPLESSO EDIPICO
La teoria della sessualità è l’aspetto più “dirompente” della psicoanalisi, quello che ha generato
nei suoi confronti le maggiori opposizioni.
Prima Freud, la sessualità era sostanzialmente identificata con la “genitalità” ai fini della
procreazione. Secondo questa interpretazione, la sessualità dovrebbe mancare nell’infanzia,
subentrare intorno all’epoca della pubertà, esprimersi in fenomeni di attrazione irresistibile di un
sesso verso l’altro e la sua meta dovrebbe essere l’unione sessuale.
Se tutto ciò fosse vero, resterebbero inspiegate tutte le tendenze psicosessuali differenti dal
desiderio del coito, come:
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3. sessualità infantile;
4. sublimazione (trasferimento di una carica originariamente sessuale su oggetti non
sessuali, quali il lavoro e l’arte)
5. perversione (un’attività sessuale che “ha rinunciato al fine riproduttivo e persegue il
conseguimento del piacere come fine indipendente”)
Per rendere conto di questi aspetti, Freud amplia e rifonda il concetti di sessualità, un’energia
suscettibile di dirigersi verso le mete più diverse e in grado di investire gli oggetti più disparati. Egli
denomina tale energia libido e la concepisce come un flusso migratorio localizzato di volta in volta
(a seconda della fase dello sviluppo fisico vissuta dal soggetto) su diverse parti del corpo, dette
“zone erogene”, cioè generatrici di piacere erotico.
Freud elabora inoltre un’originale dottrina della sessualità infantile. Freud definisce il bambino
come “un essere perverso e polimorfo”, cioè un individuo capace di perseguire il piacere
indipendentemente da scopi riproduttivi (da qui perversione) e mediante i più svariati organi
corporei (da qui il polimorfismo). In particolare, Freud sostiene che lo sviluppo psicosessuale del
soggetto avviene entro tre fasi, caratterizzate ciascuno da una specifica zona erogena:
la fase orale, che caratterizza i primi mesi di vita e che dura fino ad un anno e mezzo circa; ha
come zona erogena la bocca ed è connessa all’attività prevalente questo periodo, il poppare;
la fase anale, che va da un anno e mezzo circa a tre anni. Ha come zona erogena l’ano ed è
collegata alle funzioni escrementizie, che per il bambino sono oggetto di particolare interesse e
piacere;
la fase genitale, che inizia alla fine del terzo anno di vita, ha come zona erogena i genitali.
Essa si articola in due sotto fasi: quella fallica e quella genitale in senso stretto:
1. la fase fallica o genitale infantile (3-6 anni) è così chiamata:
a. perché la scoperta del pene costituisce oggetto di attrazione sia per il bambino, sia per la bambina, i quali soffrono entrambi di un “complesso di castrazione” (il primo
perché teme di essere evirato, la seconda perché si sente di fatto evirata e prova “l’invidia
del pene”);
b. perché l’organo di eccitamento sessuale è il pene o quel suo equivalente femminile è
la clitoride;
2. la fase genitale in senso stretto, che segue a quella fallica dopo un periodo di latenza, un
periodo di calma dopo la tempesta edipica, (che va dal quarto o sesto anno di vita – fino
all’inizio della pubertà), è caratterizzata dall’organizzazione delle pulsioni sessuali sotto il
primato delle zone genitali.
Connessa alla teoria della sessualità infantile è la dottrina freudiana del cosiddetto complesso di Edipo (dalla mitica vicenda dell’eroe tragico greco, destinato al fato a uccidere il
proprio padre e a sposare la propria madre) che consiste in un attaccamento “libidico” verso il
genitore di sesso opposto e in un atteggiamento ambivalente (con componenti positive di
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affettuosità e tendenza all’identificazione, e componenti negative di ostilità, di gelosia e
ammirazione) verso il genitore di ugual sesso”. Tale complesso si sviluppa fra i 3 e i 5 anni, cioè durante la fase fallica e determina la futura strutturazione della personalità.
https://www.youtube.com"watch?v=Gdni_aEGePc
SINTESI DI FREUD E LA NASCITA DELLA PSICOANALISI GALIMBERTI
analisi della psiche
psicoanalisi è inserita nel Romanticismo, movimento culturale che innalza il sentimento, strumento
di conoscenza dell'essenza profond della realtà, e nasce come reazione all'illuminismo, del '700 e
critica la ragione illuministica del finito.
L'Io è la dimensione ridotta dalla psiche, la razionalità perchè la metafora dell'iceberg è solo la
punta, l'io non è padrone in casa sua. Ci sono le esigenza della specie e la difesa della prole.
le prime due dimensioni sono conscio e inconscio
la terza dimensione sono le esigenze della società e l'esigenza della specie che vorrebbe la libertà
delle pulsioni. la parte che ci determina. c'è una visione deterministica della realtà.
DETERMINISMO concezione secondo la quale ci sono delle forze che determinano il
comportamento, proprio perchè è più potente dobbiamo analizzarlo che ci determina.
la società primitiva era più felice e meno sicura xk nella nostra società noi siamo più sicuri, ma
meno felici. Freud ritiene che la società attuale sia troppo piena di regole--> infelicità, che sacrifica
la parte pulsionale espressione a tutto l'ordine pulsionale
psicoanlisi --> conflitti psichici tra ciò che possiamo fare e ciò che ci è richiesto è un luogo che si
dibatte tra il possibile e l'impossibile.
il prezzo che il vivere società ci fa pagare è la felicità.
psiche = evento storico in quanto muta. oggi mentre ai tempi di Freud il punto era permesso -
vietato e consentito - proibito adesso è tra ciò che posso fare e ciò che ci viene chiesto di fare.
il mutamento è radicale tanto da rovesciare la psicoanalisi o no?
RIPASSO
In che cosa consiste il compito della filosofia
Nei secoli precedenti (partendo da Platone), il compito della filosofia era quello di prospettare un dover
essere ideale. Al contrario, per Hegel, la filosofia ha un compito puramente descrittivo ed ermeneutico, cioè
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interpretativo della realtà. Per spiegarne il compito Hegel utilizza la metafora della nottola di Minerva,
animale notturno che comincia la sua caccia al crepuscolo; anche la filosofia arriva tardi a prospettare un
dover essere ideale e a dire come dovrebbe essere il mondo e comprenderne l’intrinseca struttura; quindi la
filosofia, secondo Hegel, ha il compito di analizzare la realtà così com’è ed interpretarla in tutti i suoi aspetti.
Illustra brevemente le tesi di fondo del sistema hegeliano
- la risoluzione del finito nell’infinito, la realtà non è un insieme di sostanze autonome, ma un
organismo unitario in cui tutto ciò che esiste è parte di esso o sua manifestazione. Ogni parte di essa
esiste unicamente nell’infinito e in virtù dell’infinito, in quanto manifestazione o realizzazione
dell’assoluto.
- il concetto di panlogismo tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale. Realtà
e ragione si identificano per cui la realtà è razionale; la razionalità non è pura astrazione ma è
massimamente concreta, si dispiega nella storia, nella realtà e nella natura: in modo consapevole
nella natura e in modo inconsapevole nell’uomo. Essa si sviluppa attraverso una serie ascendente di
gradi in cui ogni grado è il risultato del precedente e il presupposto del successivo.
- il compito della filosofia
La dialettica in Hegel
La dialettica in Hegel è sia legge logica, cioè legge che ci permette di conoscere la realtà, che ontologica in
quanto la realtà diviene in modo processuale perché è la legge che regola lo sviluppo della realtà in modo
processuale, attraverso uno schema triadico TAS, tesi, antitesi e sintesi. Il primo momento della dialettica è
la tesi che ci permette di cogliere le singole determinazioni della realtà, per questo viene considerato utile
MA ha il limite di coglierle separate e statiche.
Il secondo momento è quello dell’antitesi o negazione, è il momento dialettico vero e proprio, perché nega la
tesi. Il terzo momento è quello della sintesi o positivo razionale, che riafferma in modo potenziato la tesi, e
l’antitesi; è un percorso ascendente.
Le critiche di Hegel
LA CRITICA ALL’ILLUMINISMO Gli illuministi considerano l’intelletto il giudice della storia e quindi
pensano che il reale non sia razionale. Quindi la Ragione illuministica pretende di dare una lezione alla realtà
e alla storia, stabilendo come dovrebbero essere. Quindi è una ragione finita e parziale, cioè un intelletto
astratto
LA CRITICA A KANT Secondo Hegel la filosofia di Kant è una filosofia del finito che separa nettamente
l’essere (realtà e ragione) dal dover essere. In campo gnoseologico le idee kantiane della ragione (anima
mondo e Dio) spingono la ricerca scientifica verso una sistemazione inconoscibile. Inoltre Hegel rimprovera
a Kant la pretesa di voler indagare la facoltà del conoscere prima di procedere a conoscere.
LA CRITICA AL ROMANTICISMO Hegel critica l’aspetto irrazionale della realtà, nonostante condivida il
concetto della ragione come apertura all’infinito. Contesta inoltre la convinzione romantica che la filosofia
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debba prospettare un mondo nuovo e un dover essere, che abbia cioè un compito prescrittivo
In cosa consiste “l’essenza del totalitarismo” L’essenza del totalitarismo secondo Hannah Arendt consiste
nel perverso intreccio di terrore e ideologia. Il terrore è esercitato attraverso la polizia segreta e i campi di
concentramento che annientano l’uomo privandolo della dignità. L’ideologia è la pretesa di fornire una
spiegazione totale della storia e di conoscerne a priori tutti i segreti senza bisogno di confrontarsi con i fatti
concreti.
L’espressione “politeia perduta” L’espressione “politeia perduta” è presente nell’opera Vita activa: la
condizione umana di Hannah Arendt; indica la crisi politica della modernità nella sua forma più genuina, che
la Arendt identifica nella polis greca del V secolo a.C., consapevole comunque che non rappresenta un
modello per il presente, ma l’occasione per una disanima critica del presente e della moderna espropriazione
dei diritti della cittadinanza e della democrazia diretta. La politica genuina si basa sul pensiero e sul
linguaggio, facoltà peculiari dell’uomo, e sull’azione perché la politica genuina è anche prassi e non solo
parola, a volte servono anche le nobili gesta, azioni che fanno il bene comune.
La vita activa La vita activa è l’agire umano, tipico della condizione umana, e si propone in tre forme
fondamentali: il lavorare, l’operare, l’agire. L’attività lavorativa è l’uomo che provvede al mantenimento
della propria vita e di quella degli altri; l’operare è tipico dell’homo faber, sviluppato durante l’età moderna,
e che è colui che costruisce oggetti duraturi che hanno trasformato la faccia della terra. La terza forma della
vita activa è l’agire, la più importante manifestazione della vita activa, la prassi politica, grazie alla quale gli
uomini comunicano attraverso il linguaggio; l’agire è caratterizzato dall’azione e dal discorso, le attività più
elevate dell’uomo. È la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose
materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità che è la condizione indispensabile e attraverso la
quale è possibile la vita politica
Causa profonda e prima del totalitarismo è la scomparsa della politica della modernità e della dimensione
genuinamente politica dell’uomo
La vita activa è l’agire umano e si articola in lavorare operare e agire
Vita a attiva e vita contemplativa sono i due momenti fondamentali della condizione umana
L’ideologia totalitaria è la pretesa di fornire una spiegazione totale della storia senza confrontarsi con i fatti
concreti.
Il pensiero significa sottoporre a giudizio tutto ciò che accade, ed è la capacità di distinguere il bene dal
male. È un’attitudine dell’uomo.
I tre stadi del esistenza sono la vita estetica, etica e religiosa. La prima è quella dell’esteta che ricerca il
piacere, non solo sensibile ma anche intellettuale, non a caso bandisce dalla sua vita tutto ciò che è
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insignificante, banale e meschino. Non tollera la ripetizione, la routine e la vita quotidiana, è sempre alla
ricerca di nuove avventure che creano ansia, noia e disperazione. L’esteta è colui che sceglie di non sceglie,
seduce infatti molte donne, ricercando il godimento immediato; è incapace di trovare una donna in
particolare. vive esteticamente è disperato, perché se si ferma è perduto.
Questa disperazione spinge l’uomo a “saltare” allo stadio etico, simboleggiato dalla figura del marito, padre
di famiglia e lavoratore; questo stadio si fonda sulla continuità e sulla normalità. È un’alternativa radicale
allo stadio estetico, nasce dalla disperazione e dalla conseguente scelta di scegliere.
Caratteri generali dell’esistenzialismo
LE MATRICI
l'esistenzialismo nasce subito dopo la prima guerra mondiale e si sviluppa tra le due guerre e la sua massima
espressione è nel secondo dopo guerra. nasce in Germania si diffonde in Francia (Sartre e Marcel, Camus
autore del mito di Sisifo40) e in Italia con Abbagnano.
Le matrici storico culturali dell’esistenzialismo vanno ricercate
- nella delusione storica della guerra, essa aveva fatto sperimentare alle persone la perdita delle libertà,
caro all’esistenzialismo che i totalitarismi contribuiscono a distruggere
- nella delusione culturale nei confronti degli ideali e delle correnti filosofiche del ‘800
4. idealismo – ragione, cioè razionalità del reale,
5. marxismo - giustizia,
6. positivismo – scienza e progresso
Viene meno la fiducia nei confronti della ragione, della scienza e del progresso e in una società giusta.
L’epoca dell’esistenzialismo è un’epoca di crisi:
- dell’ottimismo romantico
- dell’hegelismo (critica di K. e di Nietzsche)
Le guerre mondiali mettono in luce:
- l’odio
- la distruzione
- la sofferenza
40Immagine mitologica che rappresenta l’assurdità dell’esistenza umana, e la vanità dei suoi sforzi: il contrasto tra il desiderio di infelicità e l’universo. Il mondo non è ragionevole è assurdo (Nietzsche, il mondo danza sui piedi del caos).
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quindi emergono gli scogli della vita: la morte, l’errore, l’impotenza, il tempo, la sofferenza, il dolore. Sono
quelle di cui parla HIspers la nascita la morte la sofferenza il tempo, tutti gli aspetti che l’esperienza
drammatica della guerra, con tutti i suoi errori e le sue catastrofi
L’ATMOSFERA CULTURALE
In questo periodo si trovano espressioni come “canzoni, ballo, moda, suicidio” esistenzialismo che
permettono di capire come essa abbia impregnato tutti gli aspetti in particolare la letteratura
- italiani: Montale, Quasimodo e Saba e prima ancora Ungaretti (il tema del naufragio della caduta
delle illusioni e l’uomo che si attacca come un naufrago)
si dice che l’esistenzialismo sia “la forma filosofica del decadentismo”. Il tema della sofferenza Spesso il
male di vivere ho incontrato in Montale, o in Meriggiare pallido e assorto. E ancora Quasimodo in ed è
subito sera dove i versi sono esistenziali con il tema della solitudine e del dolore che “ha una voce e non
varia”.
L’ESISTENZIALISMO COME FILOSOFIA
Abbiamo due indirizzi:
- religioso cristiano
- immanentistico e ateo dove prevalgono i temi del nulla (morte) Hidegher e Sartre
- una via di mezzo tra i due precedenti (Abbagnano Iaspers e Hidegher) che non nega la
possibilità dell’uomo di rapportarsi ad un altro a cui però non vengono attribuite le
caratteristiche di un Dio personale
caratteri comuni:
1. riflessione sull’esistenza e la sua centralità;
2. l’esistenza è il modo specifico proprio di essere dell’uomo, le cose sono
ma non esistono = esistere poter essere, libertà, essenza dell’uomo,
progetto (non è una realtà predeterminata e immodificabile);
3. l’uomo come soggetto capace di scelta
4. l’uomo come singolarità finita e irripetibile, compreso tra la nascita e la
morte ed è chiamato a decidere in vista della propria realizzazione
SE L’ESISTENZA E’ POTER ESSERE ALLORA L’ESISTENZA E’ INCERTEZZA
INSTABILITA’, RISCHIO, SLANCIO IN AVANTI verso:
- Dio (filone religioso)
- Il nulla
- Se stessi
- Il mondo
- Gli altri
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L’esistenza risulta il rapporto con “l’essere” (Essere e tempo di H. Essere e nulla Sartre - 1943) in
questo rapporto dell’uomo con l’essere si esprime in diversi modi a seconda delle varie correnti.
Obiettivi
- Il tema della scelta come progetto aperto al rischio – l’uomo che si trova di fronte alla mille
possibilità esistenza autentica o inautentica, molto presente in H. che fa distinzione tra
linguaggio autentico e l’azione inautentica (chiacchiera non espressione di un pensiero). Nessuno
può decidere per un altro, segnata dalla finitudine e della precarietà.
- Prende le distanze dalle correnti
Gli obiettivi polemici:
- idealismo al quale viene rimproverato di risolvere le antinomie, le contraddizioni dell’esistenze,
grazie alla “bacchetta magica” della dialettica;
- all’heg. di avere ridotto l’uomo a un qualcosa di insignificante all’interno del Tutto, spirito,
ragione;
- scientismo positivistico, cioè la degenerazione dell’ideale positivistico della scienza come
chiave del progresso, cioè l’illusione che la scienza sia la panacea, la medicina universale, per
tutti i mali. Essi quando perdono di vista la realtà è illusione.
Nietzsche: la crisi delle certezze
Rocken 1844 – Weimar 1900
“Io non sono un uomo sono dinamite ” Ecce homo
Il carattere “dinamitardo” della filosofia di Nietzsche.
In tutte le sue opere Nietzsche conduce una critica tagliente, corrosiva, talora spietata e dissacrante,
ai VALORI TRADIZIONALI e alle CONVINZIONI FILOSOFICHE e SCIENTIFICHE della
tradiione occidentale
Il pensiero di Nietzsche è caratterizzato da una tendenza critico-demistrificantrice e si traduce in
una DISTRUZIONE programmatica delle CERTEZZE del PASSATO (Nietzsche sembra voler “far
filosofia col martello”), in cui ancora si credeva alla vigilia del XX secolo.
MAESTRO DEL SOSPETTO (espressione di Paul Ricoure)
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“I miei scritti sono stati chiamati una SCUOLA DEL SOSPETTO e ancor più di
DISPREZZO (…). E in realtà, io stesso non credo che alcuno abbia mai scrutato il mondo
con un sospetto ugualmente profondo (…) come accusatore e nemico di Dio” (Umano
troppo umano - 1880);
“Conosco la mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme,
una crisi, quale si era mai vista sulla terra, la pù profonda collisione della coscienza (…)
contro tutto ciò che finora è stato creduto. Io non sono un uomo sono una dinamite” Ecce
homo -1988
DEMOLIZIONE E COSTRUZIONE DEL FILOSOFARE NIETZSCHEANO
La filosofia di Nietzsche non si esaurisce in un’opera do demolizione polemica del passato
(fase distruttiva del pensiero nietzschiano), ma superuomo o oltreuomo
UNA VOCE PROFETICA E INATTUALE
Nietzsche era solito dire di se che era nato postumo. Aveva coscienza della propria inattualità
rispetto ad un’epoca, il II ‘800 borghese e positivista, alla quale si sentiva assolutamente estraneo.
Da qui il senso di non appartenenza al proprio tempo.
L’incomprensione che i suoi contemporanei mostravano nei confronti della sua opera, in anticipo
sui tempi, era per lui motivo di orgoglio.
Studio esistenzialismo e individuare le slide in relazione ai punti del programma
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