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REGOLA 3I RISCHI ELEVATI
PAGANO BENE
102 LE DIECI REGOLE D’ORO / CAPITOLO 03 REGOLA 3: I RISCHI ELEVATI PAGANO BENE102
CAPITOLO 3
REGOLA 3I RISCHI ELEVATI PAGANO BENE
Il 24 aprile 2014, circa otto mesi dopo il suo rientro, Michael se-
deva di fronte ai giornalisti a Mesa, Arizona. Il giorno successivo
avrebbe nuotato nel suo primo meeting dalle Olimpiadi di Lon-
dra dell’agosto 2012, un intervallo di venti mesi. Fino ad allora
aveva raccontato ai media e al mondo che la sua carriera era
terminata. Nessuno immaginava che nel frattempo le cose fosse-
ro cambiate. Pochissimi giornalisti sapevano che Michael aveva
ripreso ad allenarsi a Meadowbrook dall’inizio di settembre. Lui non aveva raccontato a nessuno, escluso il sot-toscrit to, del suo progetto di conquistare un posto nella spedizione USA alle Olimpiadi di Rio e non aveva alcuna intenzione di f inire nell’edizione stra-ordinaria dei TG di quella giornata.
Le domande si succedevano senza tregua, ma Michael aveva
una risposta per tutti.
Giornalista 1: Perché nuoti ancora, Michael?
M.P: Avevo nostalgia dell’acqua, tutto qui.Giornalista 2: Quali sono i tuoi progetti?
M.P: Voglio solo vedere quanto peso riesco a perdere, in che stato di forma riesco a mettermi e poi vedremo cosa succederà.
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Giornalista 3: Quali sono i tuoi piani a lungo termine?
M.P: Semplicemente mi piace stare in acqua. Voglio ritrovare lo spirito competitivo. È questo che mi è sempre piaciuto del nuoto.
Sedevo di fianco a lui davanti a una selva di microfoni. Ridevo
sotto i baffi ascoltando le sue risposte, specialmente a quella
sul peso. Nel suo periodo di assenza dalle piscine e durante i
suoi viaggi da golfista, era passato da 84 a 102 chili. Con gli
ultimi allenamenti era arrivato a malapena a 90. Avevo iniziato
a rispondere ad un giornalista sulla sua condizione fisica dicen-
do: “Quando è tornato, era così fuori forma…” , ma Michael si
intromise.
“Lasciamo perdere, Bob”, disse con un mezzo sorriso.
Le risate rimbombarono in sala stampa. Sogghignai e prose-
guii. “C’è voluto un po’ di tempo prima che fosse in condizione
di nuotare in pubblico. È un percorso”.
La conferenza stampa avrebbe dovuto durare un quarto d’ora
e per la maggior parte del tempo Michael aveva risposto con
relativa facilità. Era talmente abituato ai giornalisti – aveva ri-
lasciato la prima intervista, credo, a dodici anni – che sapeva
quali informazioni e indiscrezioni poteva concedere. Dava delle
risposte tiepide, più o meno sempre le stesse. Ad ogni domanda
riusciva a rispondere con una variazione sul tema “divertimen-
to”: “Mi sto semplicemente divertendo”, “È stato divertente”, “Mi sto divertendo con i miei nuovi compagni di squadra”.Poi arrivò la domanda sulla quale rischiò di inciampare.
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“Michael, se torni e ti qualifichi per Rio”, chiese un giornalista,
“non ti preoccupa l’eventualità di rovinare la tua reputazione se
le cose non andranno bene?”
Michael ridacchiò ed io pure. Fino a quel momento non ave-
vamo preso in considerazione il rischio di “rovinarsi la repu-
tazione”. Mi guardò un istante prima di rispondere, mentre io
mi limitai a sollevare un sopracciglio come per dire Veditela tu, amico.Attese un secondo, leccandosi il labbro inferiore e poi disse con
enfasi: “Lo faccio per me. Lo faccio perché mi piace stare in pi-
scina e amo nuotare. Non vedo l’ora di scoprire quello che mi
aspetta”.
I giornalisti annotarono la risposta nei loro taccuini. Michael
bevve un sorso d’acqua ed io pensai: “Ben fatto, MP”.Nel nostro mondo sapevamo cosa voleva dire prendersi dei ri-
schi e cosa comportava non prenderli. La sua risposta si colle-
gava ad un principio chiave del Metodo: si cresce prendendo
dei rischi e, prendendoli, si possono raggiungere i propri sogni.
In un certo senso, i l r ischio fornisce i l carburante necessario per arrivare ovunque vogliate, proprio come ha fatto Michael.
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Regola 3.1: La vita è più piacevole correndo un rischio ogni tanto
Molti psicologi potrebbero spiegarvi come, una volta raggiunto
un certo livello di comfort, le persone tendono ad accontentarsi:
sono felici e sono soddisfatte.
Secondo il mio parere però, sono anche sulla strada della noia
e del fallimento.
Io vivo seguendo il principio per cui se non mi metto in gioco, se non alzo l’asticella del rischio, mi avvio alla stagnazione e questo non va bene per me, per le persone che lavorano con me, per le persone che nuotano con me.
Vi faccio qualche esempio di rischi che ho preso: ho investito
i miei risparmi in un complesso natatorio vecchio di ottantasei
anni, proprio nel vivo dell’ultima recessione economica. Ho in-
vestito migliaia di dollari nelle corse dei cavalli, uno sport che
ha vissuto i suoi momenti migliori molti anni fa sia in termini di
spettatori che di scommettitori. All’età di cinquant’anni, quan-
do molti iniziano a pensare alla pensione, mi sono trasferito in
Arizona per cercare di ravvivare il movimento natatorio.
Ho creduto in un giovane nuotatore di nome Phelps, che avreb-
be potuto indifferentemente andare incontro all’abbandono
precoce oppure diventare il più grande atleta olimpico di sem-
pre.
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Questi investimenti, azzardati nel corso degli anni, mi hanno procurato grattacapi e mal di cuore. In realtà però le ricompense, economiche e sentimen-tali, sono state immense.
Meglio ancora, ogni rischio che ho preso mi ha preparato ad affrontarne altri, un’abitudine che mi rende più facile tra-
sformare le visioni in realtà.
Vi ho parlato della necessità di avere una visione, ho discus-
so ampiamente il valore di un atteggiamento adeguato: ora vi
suggerisco un altro strumento da utilizzare nella vostra ricerca
dell’eccellenza quotidiana, l’abitudine al rischio.
A mio parere, i l potenziale dei vostri successi è l imi-tato dalla vostra avversione al rischio.
Costruire la propria abitudine al rischio è come costru-ire la propria forma fisica. Bisogna iniziare gradualmente
e sopportare qualche sofferenza, ma una volta che si prende
confidenza con il rischio, con i suoi flussi e riflussi, i suoi alti e
bassi, si impara ad apprezzarlo. So che prendere dei rischi può
portare a conseguenze spiacevoli: come vedrete nelle pagine
che seguono, il mio conto in banca colò a picco quando decisi
di investire in un centro natatorio.
Per come la vedo io però, gli inevitabil i fall imenti sono molto istrutt ivi. In qualche modo ci avrò gua-dagnato nel breve o medio-lungo termine.
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Vorrei che capiste una cosa: non sono arrivato spontaneamente
a possedere un elevato livello di tolleranza al rischio. Il cielo
benedica i miei genitori, oggi sono entrambi ultrasettantenni
e sono ancora incredibilmente tranquilli e felici, vivendo la vita
che hanno voluto nel modo che hanno scelto. Sarebbero co-
munque loro i primi ad ammettere che si sono sempre tenuti
alla larga dai rischi. Ad esempio, hanno mantenuto lo stesso
posto di lavoro per oltre trent’anni e ai loro occhi ha funzionato
tutto bene. I loro stipendi sicuri hanno permesso di mantenere
agli studi universitari me e mia sorella e di pagare il mutuo del-
la loro casa a Columbia in South Carolina. Nel frattempo, papà
è anche diventato un ottimo giocatore di golf.
Tuttavia, non posso non pensare che le loro vite avrebbero potuto essere ancora più soddisfacenti se avessero corso qualche rischio.
Ad esempio: mamma e papà vivono ancora nella stessa casa
nella quale io sono cresciuto. Per anni ho cercato di convincerli
a trasferirsi perché la zona non è più sicura come un tempo.
Ma papà non ci pensa neanche lontanamente, dice di essere
troppo vecchio per comprare una nuova casa e accendere un
nuovo mutuo e preferisce mettere da parte i suoi risparmi per
me e mia sorella. Io gli ripeto continuamente: “Non risparmiare
per noi! Noi stiamo bene!”, ma non vuole sentire ragioni.
Quella mentalità gli è stata sicuramente utile, ma non è il mio
modo di pensare perché io ho preso più da nonna Helen.
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Quando investii i miei primi soldi in un cavallo da corsa, fu una
delle prime persone con le quali ne parlai. “Bravo il mio ragaz-
zo”, commentò, nonostante fossi ormai prossimo ai trent’anni.
Con il passare degli anni, insieme a Michael ho continuato a
investire sui cavalli.
Scelgo per loro nomi legati al nostro passato: “Water Cube”
prende per esempio il nome dell’Aquatic Center di Pechino,
dove Michael ha conquistato le sue otto medaglie d’oro. Pos-sedere un purosangue è una faccenda costosa e, sì, an-che rischiosa. Finora il mio allevamento non ha prodotto molti
campioni, ma ci ha fatto divertire un sacco e mi ha dato l’oc-
casione di sognare una Triple Crown [la più prestigiosa onori-
ficenza ippica statunitense, assegnata al vincitore nello stesso
anno del Kentucky Derby, del Preakness Stakes e del Belmont
Stakes, NdT], non solo medaglie.
I cavalli mi hanno anche spinto a cercare qualcosa di nuovo, a
tentare qualche azzardo.
Credo che per riuscire a realizzare la vostra visione e mantenere le vostre promesse, avete bisogno, al-meno occasionalmente, di essere aperti al rischio.
Per ricordarmi il potenziale guadagno di questo modo di pensa-
re, mi basta guardare uno dei miei nuotatori preferiti, e questa
volta non parlo di Michael Phelps.
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Regola 3.2: L’atteggiamento All-in spesso produce giocatori molto forti
Nell’inverno del 2011, una giovane nuotatrice decise di tra-
sferirsi dalla Pennsylvania a Baltimora per allenarsi presso
la NBAC. Se ottenete buoni risultati a livello giovanile, avete
l’occasione di far parte del nostro gruppo d’élite. Nel caso di
questa ragazza, non avevo potuto fare a meno di notarla, non
perché fosse straordinariamente veloce rispetto ai quindicenni
suoi coetanei, anzi, doveva faticare per stare al passo con loro
ciò che distingueva Cierra Runge era la sua statura: era già alta
un metro e novanta (e sulla strada per raggiungere il metro e
novantatré).
Cierra aveva certamente del talento, ma non si era mai sotto-
posta agli allenamenti ultra-intensi che si svolgono a Meadow-
brook, e si vedeva: in prossimità delle competizioni, tendeva a
lasciarsi sopraffare dalla pressione del momento. In gare nelle
quali avrebbe dovuto puntare al podio, veniva eliminata nelle
batterie. Sapevo che per farla salire di livello dovevo spingerla
oltre. I miei assistenti, Erik e Keenan, lavoravano con lei, aveva-
no predisposto programmi di allenamento che, sulla carta, le si
adattavano perfettamente. Tutti i loro piani e le loro attenzioni
in realtà producevano poco, oltre alla frustrazione di Erik e Ke-
enan che a un certo punto mi fecero capire che, secondo loro,
Cierra non era adatta al nostro programma.
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Avrei potuto ascoltarli e prendere atto delle loro considerazioni.
Il nostro programma è molto ampio visto che a Meadowbrook
si allenano oltre duecentoventi ragazzi. Io non garantisco che
chiunque si alleni con noi diventerà un campione olimpico e
non ho abbastanza allenatori e assistenti per poter seguire ogni
atleta individualmente. Eppure, c’era qualcosa in quella ra-gazza… Cierra era un’atleta ben dotata con un atteggia-mento All-in. Queste caratteristiche facevano sì che valesse la
pena investire su di lei tempo e attenzioni aggiuntive.
“Ragazzi, apprezzo gli standard che cercate di man-tenere”, dissi a Erik e Keenan, “ma dovete ricordare che il nostro lavoro non è tenere gli atleti perfett i e l iberarci degli altr i. È cercare di fare in modo che tutt i si avvicinino il più possibile al loro massimo potenziale, altrimenti, alla fine non rimarrà nessu-no”.
Feci una breve pausa. “E Cierra ha del potenziale. Lavoriamoci
sopra, okay?”
Anche in quel momento stavo correndo un rischio. Rischiavo di
perdere i miei due allenatori. Li avevo assunti perché sapevo
che erano in grado di valutare i talenti e a predisporre degli
allenamenti sulla base delle loro valutazioni. Non volevo che perdessero fiducia in sé stessi o che pensassero di non poter condividere con me le loro preoccupazioni.
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La mia scommessa su Cierra per l’anno successivo era come
una puntata cinquanta a uno alla corsa dei cavalli di Pimlico.
Cierra continuava a soffrire durante i grandi eventi. Ai Trials
olimpici del 2012 nelle sue due prove si classificò venticinquesi-
ma e ventiseiesima, ben lontana dalla qualificazione.
Ero frustrato, ma non tanto da non voler tentare un ulteriore azzardo.
Nel corso della sua carriera, Cierra era stata principalmente
una velocista. Niente di strano. La tradizione ci insegna che i
ragazzi alti sono dei buoni sprinter. Ma il modo in cui lei nuo-
tava, con lunghe bracciate eleganti rispetto a quelle rapide e
secche degli sprinter, mi fece pensare: forse è più portata per le
distanze lunghe.
Così, un giorno di inizio 2013, presi Cierra in disparte prima
dell’allenamento. “Oggi ti alleni con il gruppo dei mezzofondi-
sti”, le dissi. Fece una smorfia e io la ignorai: “Non m’importa
se l’idea ti piace o meno. Faremo qualcosa di diverso e vedre-
mo che succede”.
E che successe? Che divenne una stella. Si dedicò al mezzofon-
do, 400 e 800 metri, come se fosse stata programmata da Intel
[la più grande azienda produttrice di microprocessori al mondo,
NdT] per quelle gare. Ben presto, le università di tutto il paese
la contattarono e divenne una delle nuotatrici di high school più
ricercate.
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Alla fine scelse l’ateneo di Cal-Berkeley e nel suo anno da ma-
tricola stabilì il record universitario delle 500 yard stile libero,
guidando i Bears [soprannome degli atleti di Berkeley, NdT] al
titolo nazionale. Nel frattempo si era affermata come un’aspi-
rante medaglia olimpica a Rio [ha conquistato l’oro nella staf-
fetta 4x200 metri stile libero, NdT].
Cierra ha realizzato i l potenziale che aveva sempre posseduto che è ben più importante dei record e degli applausi, ma ci era voluto un rischio da parte mia e, certamente, da parte sua.
Il rischio si manifesta in varie forme, ma in qualsiasi modo si
presenti dovete essere in grado di valutare i possibili benefici.
A volte il potenziale guadagno non vale il rischio. Nel caso di
Cierra, avevo molto da perdere. Come ho detto, dovevo con-
siderare l’ipotesi che Erik e Keenan vivessero la mia presa di
posizione come un affronto alle loro capacità e che gli altri nuo-
tatori si risentissero per le attenzioni aggiuntive che dedicavo a
Cierra.
Ma io mi attengo a questo principio: quando si ha a che fare con le persone, specialmente con i gio-vani nella prima parte della loro carriera, non biso-gna rinunciare alla possibil i tà di aiutarli a crescere arrendendosi troppo facilmente.
Il loro potenziale inespresso vale tutto lo sforzo aggiuntivo che
impiegherete per avvicinare un po’ di più i loro sogni alla real-
tà.
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