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2015 numero 8 - Settembre
Email: euterpe48@gmail.com
Picciotti carissimi,vasamu li mani.
Quando gli italiani non erano bianchi
Una foto della campagna #italianononèuncolore.
Samsara in sanscrito significa “rinascita della
vita” ed è il nome di un famoso profumo. Il suo
realizzatore, Jean-Paul Guerlain, per crearlo andò
fino in India a cercare il legno di sandalo più puro e
un tipo di gelsomino che era usato per le offerte
religiose. Esotismo, romanticismo, lusso. Tutto si
sposa all’immagine che Jean-Paul Guerlain ha
saputo dare di se stesso: un signore d’altri tempi,
bonario e sempre vestito elegantemente.
Questa immagine però non sarebbe completa senza
l’edizione del telegiornale di France 2 andata in
onda il 15 ottobre 2010.
In quella occasione il re dei profumi francesi alla
domanda sulla lavorazione di Samsara disse una
frase che lasciò sbigottita e raggelata mezza
Francia: “Per una volta mi sono messo a lavorare
come un negro. Anche se non so se i negri abbiano
mai lavorato tanto, ma insomma…”.
Ci furono manifestazioni di protesta a Parigi e non
solo. Dopo un po’ di tempo Guerlain fu condannato
ufficialmente. Tra i manifestanti c’era anche la
documentarista di colore Isabelle Boni-Claverie.
Lei come molti altri era preoccupata per la piega
razzista che stava prendendo il discorso pubblico in
Francia.
Non solo la politica stava sdoganando un
linguaggio violento e offensivo, ma in quegli anni si
apriva il dibattito sull’identità nazionale francese
voluto da Nicolas Sarkozy.
Un modo, si disse all’epoca, per avvicinarsi e
superare le posizioni oltranziste del Front national.
Ne uscì fuori una Francia fortezza che voleva tenere in
un ghetto tutto ciò che non era assimilabile.
Troppo nera? E lì prese a farsi strada in Boni-Claverie l’idea del
documentario.
Cominciò a farsi domande su domande. Per
esempio si chiedeva se i neri, per il resto della
Francia, erano dentro o fuori il sistema nazione.
Se la république metteva sullo stesso piano i suoi
cittadini.
Apparve sempre più chiaro a Boni-Claverie che la
classe e il colore in Francia erano ancora un
elemento di differenziazione, nel migliore dei casi,
o di esclusione nel peggiore. Il nero non era
considerato un colore nazionale.
Da queste riflessioni prende il via il documentario
Trop noire pour être française? andato in onda il 3
luglio su Arte.
La regista parte dalla sua vita per realizzare
un’opera collettiva, dove la sua voce e la sua
biografia servono a smascherare il razzismo della
république.
Ed ecco che i ricordi di infanzia cominciano a
prendere peso.
Vediamo la piccola Isabelle a sei anni che ha una
voglia matta di interpretare la vergine Maria alla
rappresentazione scolastica, ma viene dirottata sul
personaggio di Baldassarre, uno dei re magi. Come
mai lei, una bambina, doveva interpretare un
maschio? Isabelle Boni-Claverie come tutti era
circondata da immagini umilianti per un nero, ma
prima (anche per lei) la percezione del discrimine
era minore rispetto a oggi.
E anche le caricature televisive pesantemente
razziste di Michel Leeb erano solo un elemento in
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più del paesaggio naturale. Durante la messa in
onda del documentario tropnoire ha avuto un
discreto successo anche in Francia.
La ferita è aperta.
La stessa Isabelle Boni-Claverie dirà con chiarezza
che “il principale motivo di discriminazione in
Francia è l’origine, un eufemismo per non dire
colore della pelle”. Il colonialismo è essenziale per
capire questa divisione della società. Un
colonialismo francese che (come tutti i
colonialismi) non solo dominava la gente a cui
aveva tolto la terra, ma vessava i suoi sudditi
umiliandoli e mettendoli in condizione d’inferiorità.
Si potrebbe obiettare che il colonialismo sia finito
parecchio tempo fa, che è acqua passata ma, come
ricorda nel documentario lo storico Pap Ndiaye, “gli
stereotipi servono a mantenere alcune forme di
disuguaglianza che avvantaggiano una parte di
società francese”. Quindi il colonialismo, con tutto
il suo armamentario, non è mai finito davvero.
Terze generazioni Una presa di posizione forte quella di Isabelle Boni-
Claverie, che però ha riscontri anche altrove in
Europa. Per esempio, in Italia la questione è
approdata sul web con la campagna partita a
maggio #italianononèuncolore lanciata dall’art
director Carlos Tomas Lora Acosta e
dall’associazione Questa è Roma, impegnata da
anni nella lotta per far ottenere la cittadinanza ai
figli di migranti nati o cresciuti in Italia.
I volti dei 115 ragazzi coinvolti sono dipinti di
bianco. Nessuno di loro è identificato da un nome o
da un cognome. Sono semplicemente unknown,
sconosciuti. Numeri, seguiti dalla dicitura umano/a.
Ognuno ha in mano un cartello con scritto “Adesso
posso…? ”.
Adesso posso amare? Adesso posso sognare?
Adesso posso sbagliare? Adesso posso decidere?
Adesso posso votare? Adesso sono italiano? Adesso
che sono bianco posso avere i diritti che spettano a
tutti i cittadini? C’è in questa campagna una dose di
sana provocazione. Ormai non siamo più alle
seconde generazioni, ma alle terze.
Persone che hanno vissuto tutta la loro vita in Italia
si vedono ancora negare questo diritto elementare di
cittadinanza e si ritrovano a essere come dice il
rapper italoegiziano Amir Issa “stranieri nella
propria nazione”.
Persone non ascoltate né considerate dalla politica
che non legifera sulla loro condizione paradossale.
L’Italia annuncia sempre l’avvio di un iter verso lo
ius soli, ma di fatto dopo le promesse fatte dai vari
governi e dopo i numerosi appelli (ricordiamo
quelli dell’ex presidente Giorgio Napolitano) nel
paese non succede nulla su questo fronte.
Il bianco è un insieme di privilegi, non un colore.
Bianco è una costruzione sociale.
Ma torniamo alla campagna.
La scelta del colore bianco, che punteggia o
attraversa i visi di ragazzi di origine africana,
asiatica, araba, sudamericana, di fatto è una
denuncia di una sorta di “bianchitudine” (whiteness)
imposta al concetto di identità nazionale.
Una whiteness che non scelgono, ma di cui si
appropriano come ultima spiaggia, come gesto
estremo. Il bianco sui loro volti colpisce.
È un bianco accecante, netto, senza sfumature.
Molto diverso dal colore degli italiani considerati
bianchi che è più identificabile con un rosa.
A questo pensiero ne segue subito un altro: ma gli
italiani sono bianchi? E i francesi?
Se una parte della popolazione è considerata trop
noire, troppo nera, troppo esotica, allora come vede
se stessa quella che si definisce bianca?
Il bianco è un insieme di privilegi, non un colore.
Bianco è una costruzione sociale. Un club esclusivo
dove si può essere accettati se si hanno le “giuste”
credenziali o dove si può correre il rischio di essere
cacciati. Per esempio gli italiani non sono sempre
stati considerati bianchi.
Negli Stati Uniti gli immigrati italiani erano spesso
vittime di linciaggi atroci e spesso non potevano
sposare donne anglosassoni.
Erano considerati quasi pagani con la loro ritualità
cattolica debordante e tra i migranti erano i più
sfruttati e sottopagati. In questo senso basti pensare
al lavoro dei tanti minori italoamericani nelle
fabbriche tessili o nelle miniere. Finché serviva
sfruttarli gli italiani non sono stati bianchi.
Essere italiani era un problema, spesso era meglio
fingersi qualcun altro per non essere vittima di
razzismo. Lo scrittore John Fante nel suo brillante
racconto Odissea di un wop fa capire come si
potesse di fatto arrivare a detestare se stessi a causa
delle discriminazioni: Insomma prendo a detestare
le mie origini. Evito i ragazzi e le ragazze italiane
dai modi amichevoli. Ringrazio Dio per la mia pelle
chiara e per i capelli, e i miei compagni me li scelgo
in base al suono anglosassone dei loro nomi. […]
Però sto sempre un poco in apprensione quando
sono con loro; potrebbero scoprirmi
Ha anche paura di portare i suoi nuovi compagni a
casa, nella sua casa troppo italiana e con la nonna
più italiana della casa stessa “una wop senza
speranza” la definisce Fante. Wop era il modo
denigratorio con cui l’America dei privilegi
definiva gli italiani, derivava da guappo ed era in
contrapposizione con wasp, la bianchitudine di
origine anglosassone, quella della classe dominante,
quella a cui si doveva somigliare.
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Il wop era troppo cattolico, troppo olivastro, troppo
povero, in poche parole spazzatura bianca.
Fante nel suo racconto fa vedere come spesso in una
società dove la discriminazione e la casta regolano
tutto, una persona può interiorizzare così tanto il
pregiudizio da arrivare a negare non solo
l’appartenenza, ma anche gli affetti.
Il protagonista del racconto infatti ci dice che sa
l’italiano e chiacchiera con la nonna in questa
lingua, ma “quando ci sono i miei amici, fingo di
non capire quello che dice, e faccio dei sorrisi
affettati”. Si doveva prendere distanza quindi dalle
“nonne”, dalle origini. Non a caso tempo fa,
memore di questa storia di dolore, un dj nero di
nome Chuck Nice, della stazione radio Waxq-Fm di
New York, in una trasmissione del mattino disse
che “gli italiani sono negri dalla memoria corta”.
Naturalmente la frase scatenò un putiferio.
Ma quello che voleva sottolineare il dj con parole
provocatorie e totalmente irriverenti era la natura
speciale della bianchezza degli italiani.
Il fatto è ricordato in un bel volume pubblicato nel
2003 a cura di Jennifer Guglielmo e Salvatore
Salerno, Gli italiani sono bianchi?.
Il libro indaga attraverso vari saggi il rapporto degli
italoamericani con il colore della classe dominante.
Come dice Amoja Three Rivers “i bianchi non sono
sempre stati bianchi e non lo saranno per sempre.
Si tratta di un’alleanza politica. Le cose
cambieranno”.
E ci fa vedere come questo concetto di whiteness, di
essere bianchi, è provvisorio. Un giorno ci stai
dentro, sei accettato, il giorno dopo puoi anche
starne fuori, puoi esserne cacciato a pedate. Non è
un dato acquisito. E allora come uscire da questa
marmellata impazzita di colori?
Dal troppo nero, poco bianco?
La soluzione forse è solo nel percorso, nel lavoro
quotidiano, nella costruzione di una reale società
meticcia. Per esempio in Italia, senza andare troppo
lontano, si potrebbe cominciare dando la
cittadinanza ai tanti nati o cresciuti nella penisola.
Sarebbe già un passo. Igiaba Scego, scrittrice
DIARIO DI VIAGGIO 2015
1° PARTE (di ENZO MOTTA)
Quest'anno i miei itinerari siciliani sono stati due,
uno ai primi di luglio e l'altro a metà agosto.
Il primo è stato motivato da una duplice occasione
di incontro: fare una breve navigazione a vela con
lo skipper messinese Giancarlo Damigella, venti
anni dopo le nostre navigazioni oceaniche, e
presentare nell'agrigentino due spettacoli della
magnifica compagnia di canto finalese (HAPAX)
del nostro socio Maestro Angelo Mulè (di origini
licatesi) in tournée in Sicilia.
Volo low-cost Genova-Trapani; trasferimento in
porto con navetta, incontro, imbarco e rimpatriata
con Giancarlo Damigella; giornate splendide a vela
fra le Egadi: Levanzo è poco più di uno scoglio;
Marettimo è una felice oasi naturale; Favignana è
una perla turistica da visitare via terra (anche in
bici), e da circumnavigare; le sue acque sono parco
marino protetto e le innumerevoli affascinanti
calette hanno delle boe a cui ormeggiarsi per evitare
che le ancore danneggino il tappeto di posidonie
che si estende fino a riva; ogni cala merita un tuffo;
l'acqua è limpida, e sempre fredda a causa delle
correnti, ma l'esperienza è indimenticabile.
L'amico parte per i Caraibi, io pernotto a Trapani
(in zona porto); dal 2005, in occasione delle
selezioni di Coppa America, la città è stata restituita
alle splendide condizioni di un tempo, divenendo
turisticamente attraente anche al di là della ben più
visitata Erice.
Trovo un bed/breakfast molto conveniente in una
vecchia casa con arredi ottocenteschi in cui mi
danno addirittura un appartamento. Cerco un posto
in cui cenare; mi incuriosisce un vecchio magazzino
perfettamente e felicemente restaurato dal nome "Il
Patio - Taverna siciliana" con una scelta culinaria
ampia e multietnica.
Entro e vedendomi solo, un cortese signore - solo a
sua volta - mi invita al suo tavolo e si presenta: è
Salvatore Spitaleri, proprietario del locale, nato a
Tunisi (con la quale ancora commercia), e titolare di
una catena di residences siti in edifici antichi
perfettamente restaurati, gestiti insieme alla
famiglia con criteri moderni senza dimenticare la
tradizionale ospitalità siciliana; con lo stesso spirito
dirige questa sua ultima creatura, peraltro dotata di
uno chef pluripremiato; Salvatore è un vero
personaggio: mentre mi consiglia (quasi mi impone)
squisiti piatti di pesce, scambia convenevoli in varie
lingue con tutti i clienti ai tavoli, e con quelli, che
via via entrano e mi racconta buona parte della sua
vita; finisce che faccio altrettanto.
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Ci salutiamo con tanta cordialità dopo che ho
pagato la metà di quanto pensavo.
I Siciliani come lui hanno una marcia in più:
speriamo si moltiplichino.
La mattina dopo, volendo visitare la Riserva
Naturale dello Zingaro (a mezza costa fra San Vito
Lo Capo e Scopello, a est di Trapani) prendo un
autobus di linea: arrivo a San Vito capitale del cous-
cous (c'è un festival internazionale a settembre e
decine di ristoranti che lo fanno benissimo in vari
modi) con una grandissima spiaggia libera affollata
da giovani turisti di tutto il mondo; con una certa
difficoltà trovo posto in un piccolo albergo-
ristorante decorato con magnifici Azulejos
(orgoglio della titolare) e arredato con mobili "di
quando ero piccolo" ma dotato di servizi moderni.
Saputo che l'ingresso della Riserva è a una dozzina
di chilometri (quindi alla portata delle mie gambe)
noleggio una bici e mi avvio, percorro più o meno
cinque chilometri ma, in vista di una salita piuttosto
ripida (era anche mezzogiorno) mi informo meglio
sul percorso: la salita è quella che vedo, ma dopo
c'è una discesa a tornanti peggio dello Stelvio e al
ritorno sarebbero dolori......; quindi faccio dietro-
front e noleggio uno scooter; poco prima della
Riserva c'è il celebre residence Cala m’pisu, sugli
scogli; visto dall'alto si rivela un posto da sogno;ne
danno conferma le auto di lusso parcheggiate
all'ingresso.
La Riserva si estende lungo la costa; in due ore di
marcia abbastanza agevole si attraversa tutta
giungendo a Scopello, famosa per i suoi faraglioni
(per il ritorno si può prendere un mezzo là).
Faccio un'escursione di poco più di un’ora fra i
profumi di una macchia mediterranea ricca ma in
corso di ulteriore ripopolamento, boschetti di alberi
da sughero, case in pietra adibite a piccoli musei
contadini e della pesca del tonno; in basso calette
meravigliose con accessi ripidi ma sicuri.
Il giorno successivo mi portano in albergo l'auto a
noleggio e parto per Agrigento; passo da Sciacca,
da amici, e al Porticello (vicino al Circolo Nautico)
mangio un fantastico (e fantasioso) antipasto di
pesce e verdure a Km zero.
Ad Agrigento (e Raffadali) breve giro fra parenti e
vecchi compagni di scuola.
Ed ecco le due serate: a Licata, nel centro storico
ricco di bei palazzotti purtroppo tutti da restaurare,
nel teatro civico (un piccolo teatro d'opera molto
bello quasi del tutto restaurato e con l'aria
condizionata) l'amico Mulè (che gioca quasi in
casa) rappresenta con i suoi splendidi ragazzi
l'operina "Almira"di Handel (che ha già dato anche
al Chiabrera); stante la temperatura gradevole gli
artisti non soffrono troppo nei loro costumi
seicenteschi, e ottengono un bel successo.
La sera dopo siamo nella Kolymbetra nel cuore
della Valle dei Templi fra il profumo degli agrumi e
i riflessi dorati del Tempio dei Dioscuri.
Fa gli onori di casa il Direttore Peppino Lo Pilato di
Raffadali, la cui passione va ben al di là dei suoi
doveri di funzionario del FAI (speriamo di averlo a
Savona in dicembre).
L'ambiente, l'atmosfera e il calore del pubblico
rendono felici i ragazzi del'HAPAX che nel
concerto di arie da camera di Vincenzo Bellini
danno il meglio di sé (proseguiranno per Noto e
Catania grazie ai buoni uffici del prof. Franco
Bonfanti).
Io ho l'aereo da Trapani alle 6,40 del mattino e
quindi, dopo aver presentato lo spettacolo e
ascoltato un paio di brani, mi affretto per Birgi dove
dormo quattro ore in un agriturismo, e poi via, a
casa.
Non è stata una vacanza rilassante, ma di grande
interesse; peraltro, anche per gli amici che volessero
provare, ho cercato di contenere i costi, e credo di
esserci riuscito senza rinunziare a un minimo di
comodità (anche se ho dovuto pianificare il
vestiario dato il ridotto bagaglio imposto dalla
Ryanair).
La prossima volta me la prenderò più comoda:
traghetto con auto al seguito: data la lunghezza
prevista del soggiorno il risparmio del noleggio
dell'auto vale il passaggio per nave. (segue…)
PONTI D’ARTE
Il Museo della Ceramica di S.Stefano di Camastra
(ME) è stato inaugurato il 24 dicembre 1994, dopo
anni di lavoro e di grande volontà, perché Palazzo
Trabia divenisse tempio di storia, arte, cultura e
tradizioni.
Il Museo rappresenta la memoria del passato nella
riscoperta di antiche tracce e nello stesso tempo il
sapere del presente.
Secoli di tradizioni sono pronti a testimoniare quante
numerose siano le impronte lasciate, di cui si deve
fare tesoro, ma che devono insegnare soprattutto che
la ceramica non può e non deve vivere solo di storia,
ma del rinnovamento a cui i tempi obbligano, un
Museo che conserva un rapporto genetico con la
propria memoria, un "nuovo" che rappresenti il
divenire della propria storia, nella consapevolezza
che il nuovo può essere annunciato solo da chi è
stato.
Tutto ciò rappresenta il Museo camastrense, che
rifiuta la definizione di deposito-esposizione, magari
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di "bei pezzi", dove il visitatore sia parte passiva pur
nel contesto di una estasiata ammirazione.
Ma un luogo dove gli oggetti d'arte e i fruitori siano
soggetti attivi, presenti e partecipi della evoluzione
culturale.
Un luogo per conoscere ed arricchire la cultura
stefanese e altre culture.
Un luogo di ricerca, studio, costruzione e anche di
promozione economica della ceramica siciliana.
Attualmente la raccolta consiste in una
rappresentativa serie di oggetti dell'antica tradizione
ceramica stefanese.
Oggetti d'uso quotidiano legati alle esigenze della
famiglia e del lavoro.
Fra i tanti pezzi vi troviamo il fiasco o "ciascu", i
boccali per il vino e l'acqua o "cannate", le lucerne ad
olio ad una o più fiamme fra cui quella detta di
S.Antonio a tredici fiamme, la tipica brocca alta e
stretta con due manici o "bummulu", i contenitori con
coperchio per olive ed alimentari vari o "burnie", i
piatti decorati con motivi semplici o "fangotti",
alcune acquasantiere, l'originale anforetta con due
manici e con all'interno una membrana d'argilla
forata per mantenere fresca l'acqua o "bic bac",
diverse varietà di pigne aperte o chiuse dai colori
verderame, giallomiele o bianco che nella credenza
popolare avevano un significato propiziatorio, il
comune salvadanaio o "carusietru" praticamente
uguale in tutte le tradizioni caramiche, le scodelle di
diverse dimensioni screziate verderame o blu
comunemente chiamate "lemmi", i contenitori per
l'acqua o "quartare" e poi le famose giare per l'olio o i
cereali di cui parla anche Pirandello nel suo celebre
racconto "La giara" definendolo quella di S.Stefano
"la badessa" per la sua forma maestosa e imponente.
Vasta la raccolta delle antiche mattonelle
maiolicate, vero vanto della produzione di S.
Stefano dal XVII secolo ad oggi.
Se è vero che i più maestosi palazzi siciliani furono
ancora di più impreziositi dalle splendide
mattonelle di S. Stefano, è anche vero che quella di
"stagnare e pittare" mattoni è stata ed è la vera arte
dei mastri ceramisti stefanesi che, insieme alla
produzione più '"povera" degli oggetti d'uso e della
ceramica artigianale, hanno fatto di questo piccolo
centro una vera e propria città d'arte che continua ad
imporsi con grande dignità all'attenzione culturale
ed economica del mercato internazionale.
Altro motivo d'orgoglio per il Museo stefanese è la
raccolta di opere dei migliori artisti ceramisti
italiani acquistate nel corso delle ultime edizioni
della mostra della ceramica grazie ad una illuminata
scelta dell'Amministrazione Comunale.
Fra gli artisti presenti ne ricordiamo solo alcuni,
quanto basta per avere un quadro già chiaro
dell'enorme patrimonio artistico del museo: Nino
Caruso, Lorenzini, Nespolo, La Pietra, Bonaldi,
Pianezzola, Carlos Carlé, Alessio Tasca, Rolando
Giovannini, Stropparo, Tomo Ffirai, Emidio
Calassi, Franz Sthaler, Rontini, Ravagli, Mariano,
Lucietti, Mazzini, Chiucchiù, Castaidi Crespi.
Un elenco che deve assolutamente rimanere aperto
poiché l'obiettivo comune è quello di dotare il
Museo di S. Stefano di una prestigiosa raccolta
nazionale e internazionale di alto contenuto
artistico.
Entrare a Palazzo Trabia è come entrare
nell'insolito, nella storia di uomini e donne che si
riscaldano al fuoco, che lavorano la terra e gli
danno un'anima.
Si lavora con immaginazione per far nascere dalla
creta "un'anima pulita".
http://www.santostefanodicamastra.net
Il ponte con un’eccellenza Savonese La singolare bellezza ed eleganza delle opere
esposte dal Museo della Ceramica documenta una
tradizione i cui frutti si sono manifestati
ininterrottamente per più di sei secoli a Savona e
Albisola, che insieme costituiscono uno dei più
antichi e importanti centri produttivi del
Mediterraneo.
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Ancora oggi la ceramica costituisce l’espressione
figurativa che meglio rappresenta e identifica la
storia, l’arte e l’economia del territorio.
Ne sono testimonianza i musei, le chiese, i
monumenti cittadini, l’arredo urbano, e le numerose
manifatture tuttora attive.
http://www.museodellaceramica.savona.it
Ci ha molto divertito ,durante il pranzo estivo,
IL Mago Mc. Juka che ora ci scrive:
Caro Sodalizio Siculo Savonese Luigi Pirandello,
alla vostra richiesta di spiegazioni riguardo la mia
storia il mago Mc. Juka é qui per rispondere alle
vostre domande, però prima di cominciare volevo
ringraziarvi ancora per quanto svolto durante il
pranzo della vostra associazione....
Comunque la mia storia inizia da bambino quando
la magia per me era ancora una favola tutta da
leggere, ebbene si neanche nato e già ero entrato in
quel mondo, visto che mia mamma faceva da
valletta agli spettacoli di un mago. Dopo la mia
nascita gran parte del mio tempo era passato a
casa di questo mago (il Mago Omar) e la passione
per questa professione saliva tanto da sognare di
diventare un giorno prestigiatore, ed un giorno,
esattamente il giorno del mio undicesimo
compleanno, la mia prima valigia di giochi magici
mi é stata regalata, da quel giorno la pratica e gli
esercizi sono stati essenziali per formarmi per
diventare ciò che sono adesso e stato difficile ma
gli spettacoli aumentavano, e con questi la mia
passione, ho frequentato seminari e riunioni ho
collaborato con proloco e associazioni e tutto
questo ha arricchito la mia esperienza ma
sopratutto ho conosciuto molte bellissime persone,
le difficoltà ci sono state e dopo averle superate
capisco che ho ancora molta strada da fare come
sono ancora tante le pagine della mia favola da
leggere. Ancora grazie per il vostro tempo.
Magici saluti e a risentirci il mago Mc. Juka
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In siciliano ci sono parole molto simili al vocabolo
italiano corrispondente, altre che derivano in modo
evidente dalle lingue dei numerosi dominatori che
hanno fatto la storia della Sicilia, altre che
cambiano da provincia a provincia e talvolta anche
da comune a comune, e altre , infine, che hanno
decine di significati diversi.Prendiamo ad esempio
SONNU: significa ovviamente SONNO (es: aiu
SONNU = ho SONNO), ma significa anche anche
SOGNO e TEMPIA (es. mi pari un SONNU! = mi
sembra un SOGNO … e invece: Cadì e si sbattì lu
SONNU = è caduto ed ha battuto la TEMPIA.)
BONU: vuol dire buono Es. Un picciottu BONU =
un BUON ragazzo, ma vuol dire anche BELLO: Oi
c’è tempu BONU = oggi c’è BEL tempo; e infine,
ripetuto due volte, significa anche BASTA: es.
BONU BONU ,lu capivu= BASTA l’ho capito…
Uno dei verbi siciliani con maggiori e più vari
significati è CUNZARI che può significare di volta
in volta:CUNZARI lu lettu = RIFARE il letto,
CUNZARI la tavula=APPARECCHIARE la tavola
CUNZARI lu pani =CONDIRE il pane con olio e
sale CUNZARI li scarpi (o altro) = AGGIUSTARE
le scarpe (o altro)
CUNZARI lu jazzu= COSTRUIRE un’impalcatura
di canne e stoppie per asciugarvi sopra la frutta
secca
CUNZARI Lu grazzu (o altra parte del corpo) =
CURARE il braccio da una storta o qualcosa di
simile: infatti il CONZAOSSA era una via di mezzo
tra l’ortopedico ed il fisioterapista
CUNZARI la pasta = METTERE lu sucu ( salsa di
pomodoro) sulla pasta
CUNZARI l’aulivi = PREPARARE le olive in
salamoia CUNZARI l’archi pi la festa =
MONTARE degli archi luminosi sulla strada in
occasione di una festa.
CUNZARI la nzalata = CONDIRE l’insalata
Lu CUNZARU pi li festi = Lo hanno CONCIATO
per le feste
CUNZARISI(riflessivo)=TRUCCARSI,FARSI
BELLA
CUNZARI lu presepiu = FARE il presepe
CUNZARI li peddri = CONCIARE le pelli
(soprattutto nei paesi montani, dove c’era molta
pastorizia esistevano “li cunsirii”, laboratori in cui
si lavoravano le pelli degli ovini per farne tappeti o
plaid )
CUNZARI l’artareddra = ha due significati: quello
letterale è FARE degli altarini lungo la strada che
verrà percorsa dalla processione del Corpus
Domini; l’altro è ORGANIZZARE gruppi dediti al
pettegolezzo o all’imbroglio.
Nello scorso numero si parlava del Ponte sullo
stretto ed ecco il parere della nostra Ada Lattuca
da Rosario (Argentina) The Bridge pride ?
RISPETTO ALLO STRETTO TI DICO CHE 'NNADRI
QUA IN QUESTA CITTÁ DEL 4º MONDO ABBIAMO
COSTRUITO UN PONTE DA ROSARIO A PARANÁ,
ATTRAVERSANDO IL FIUME PARANÁ (LUNGO
QUANTO UN MARE) DI 60KM. COSTRUITO PER
UNA IMPRESA ITALIANA. SI CAPISCE?
COSA FANNO NOSTRI SICILIANI CHE DA 100 ANNI
ASPETTANO A FARLO ?
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Nel frattempo ci godiamo questo altro bel
“ponte” fra Savona e Siracusa
L’ANGOLODELLA POESIA Antropocentrismo
Trovato dalla NASA, un po' lontanuccio,
un pianeta in cui sarebbe possibile la vita.
La nostra, ovviamente.
Non quella degli esseri viventi che forse già la
abitano, dopo che sapientemente o casualmente
si sono adattati alle condizioni date,
per selezione o disegno divino.
Data la distanza, prossima all'infinito, non sarà
possibile
a noi piccoli mortali, polvere nell'universo,
incontrarli.
Sarebbe ben triste che fossero copia delle nostre
fattezze, miserie, bellezze.
Una replica banale del giù visto, del già vissuto.
Che bello sarebbe ritrovare,
l'unicorno, l'ippogrifo, la particella di Dio parlante,
la donna angelicata,
la strega placata, l'amore universale, l'uomo
allattante tutti i bambini presenti.
E tanti esseri felici che finora hanno vissuto solo nei
meandri luminosi
della nostra fantasia, negli incavi ariosi dei nostri
sogni. Angelo Guarnieri
(Senza titolo)
Chissà come finirà questa mia storia
sono entrato nella stagione oltre l'autunno
dei versi tristi e dei passi senza ritorno
ho vergogna di questa mia solitudine
vorrei ritornare all'isola da dove son venuto
con il ricordo della mia donna nel cuore
ho piantato cento alberi di ulivo nella tarda età
per nascondermi alla morte anche se non ne ho
paura
non la sopporto a spiarmi, è un fatto d'amor proprio
'ieri troppo presto, domani troppo tardi, il momento
è oggi'
così ho appreso dai libri di Lenin e così ho vissuto
affidandomi ai maghi, alle fattucchiere e ai fondi di
caffè
le mie poesie sono lette in tutti i bordelli del mondo
ma nella mia Patria pochi le conoscono
ho sempre sfuggito premi e medagliette di latta
in questo scampolo di terra di Liguria il faro non ha
luce
solitaria e alla ventura naviga la zattera del mio
destino
tra le onde tempestose bisbigliano i demoni in
attesa. Gianni Gigliotti
Migrantes
In ogni immigrato c'è sempre un emigrato.
In ed ex dolgono entrambi,
ma è sempre l'ex, quel che si lascia,
che segna la ferita di dolore acuto..
O si trova consolazione
o diviene infetta e mortale.
Il tempo lenisce, a stagioni alterne,
ma un po' deve essere bonario.
Quando poi l'ex festeggia con l'in, talvolta accade,
l'ex guarisce e ci si sente a casa in ogni luogo,
come gli uccelli migratori
che danzano nell'aria del nord e del sud del mondo
e fanno nido dove natura chiede.
Angelo Guarnieri
9
Andiamo uomo e cane uniti
dal mattino verde,
dall’incitante solitudine vuota nella quale solo noi
esistiamo,
questa unità fra cane con rugiada
e il poeta del bosco,
perché non esiste l’uccello nascosto,
né il fiore segreto, ma solo trilli e profumi
per i due compagni:
un mondo inumidito dalle distillazioni della notte,
una galleria verde e poi un gran prato,
una raffica di vento aranciato,
il sussurro delle radici,
la vita che procede,
e l’antica amicizia,
la felicità
d’essere cane e d’essere uomo trasformata
in un solo animale
che cammina muovendo
sei zampe
e una coda
con rugiada. P. Neruda
"Che mondo confortevole e meraviglioso è quello dei
libri se lo si attraversa non con l 'obbligo dello scolaro e
non lo si considera come una droga che inebetisce, ma vi
si entra invece con l'entusiasmo dell'avventuriero"
D.GRAYSON, Adventures in Contentment
Autunno, tempo di riordino….
Diventa
indispensabile
leggere un libriccino
bianco e verde che
pare in grado di
cambiarti la vita:
Il magico potere del
riordino,
breviario della
giapponese Marie
Kondo
che, mentre leggevo,
assumeva le fattezze
di una simpatica e
saggia settantenne
orientale e che invece si presenta come nella foto
Marie è diventata un
culto, anzi un verbo:
nel senso che ormai
«to kondo» significa
applicare il suo
metodo, per esempio
nella frase «ho
kondato il frigorifero
prima che arrivasse la
consegna del
supermercato».
«Negli Stati Uniti sono
rimasta un mese»,
racconta lei.
«I lettori mi sono parsi interessati più all’impianto
teorico che ai consigli pratici, e questo è l’approccio
giusto».
La domanda fondamentale è “Esprime gioia?”
Perché in questo consiste la filosofia della minuta
trentenne di Tokyo liberarsi dell’accumulo di
oggetti che ci soffocano gli appartamenti e le vite,
selezionando con coraggio tutto «in una volta sola,
in poco tempo e senza tralasciare nulla».
(E cosa intende per poco tempo, Marie?
«Al massimo sei mesi, lavorandoci nei weekend»).
Si procede per categorie e non per ambienti,
secondo una scansione che rispetta la capacità
dell’aspirante kondista di affrontare i nodi emotivi
del processo: prima i vestiti, poi i libri, le carte, gli
oggetti misti; soltanto alla fine i ricordi e le foto, i
più difficili.
Toccare tutto per capire se ogni singolo oggetto è in
grado di «esprimere gioia».
E poi, prima di buttarla, salutare la cosa che se ne
va e ringraziarla per ciò che ha fatto per noi.
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Forse un po’ troppo per noi italiani, per quanto
addestrato alla magra prosa rituale di Murakami e
agli armoniosi pasti colorati dei sushi bar.
«Oh sì, le cose vanno ringraziate: è necessario.
In Giappone crediamo profondamente che gli spiriti
dimorino negli oggetti, che gli diano vita: gli stessi
che si trovano nelle montagne o nelle onde del mare
abitano anche all’interno di una padella».
Si accompagnano al proprio destino i cavi elettrici
di cui nessuno decifra più la funzione, i regali
sbagliati, i bottoni di scorta («cucirli subito
all’interno dei vestiti appena comprati»), i libretti
delle istruzioni degli elettrodomestici («non servono
mai: al bisogno, chiedete a un esperto»).
Si dice sayonara, ed è un gran sollievo, agli estratti
conto.
Si kondomizzano le caselle di posta elettronica:
«E lì dovrebbe bastare un’ora, una volta per tutte».
Non ne siamo tanto sicuri, e insomma noi italiani
risultiamo un po’ più barocchi: forse servirebbero
dei codici speciali.
«E’ vero, la nostra cultura si fonda più della vostra
sul minimalismo. Ma lei non ha idea di quanto
siano inzeppati i piccoli appartamenti giapponesi.
E poi: sono arrivata da poco, ma le cucine italiane
mi sembrano impeccabili».
I cassetti risistemati da Marie Kondo emozionano.
Gli indumenti riposano (e con loro gli spiriti che li
vivificano) piegati come origami e disposti in senso
verticale.
Per capire la tecnica si deve però andare su
YouTube, perché il libro è totalmente privo di
illustrazioni.
Una scelta zen?
«Una scelta dell’editore giapponese, riprodotta in
tutte le versioni internazionali».
I consigli pratici, i tutorial, «verranno dopo:
l’importante è capire il metodo, la teoria».
L’importante, soprattutto, è prefigurarsi il senso
perfetto di armonia che coglierà a lavoro finito,
«consapevoli di esserci riusciti e di volersi bene».
Una chiarezza emotiva che, racconta, «per una
coppia di miei clienti ha significato il coraggio di
chiedere il divorzio, per almeno uno quello di fare
una proposta di matrimonio».
Marie guarisce con i suoi corsi (mesi e mesi di lista
d’attesa) soprattutto donne e, in minore percentuale,
uomini, di solito manager.
E quando le si chiede qual è, se c’è, la differenza,
emerge il gap culturale più vistoso tra Giappone ed
Europa, perché mi risponde che, «se le femmine
sono incentrate sul proprio universo personale, gli
uomini sono proiettati sui valori della propria
azienda e gli oggetti che essa rappresenta. Da noi,
la mattina, si va al lavoro entusiasti».
Da noi, le rispondo, sempre che si abbia un lavoro,
la sera si torna volentieri a casa e qualche volta la si
sogna come un miraggio.
Vuoi vedere che è per questo che aspiriamo alla
kondizzazione?
In questo libro svelo il metodo per riordinare una
volta per tutte e non ritrovarsi mai punto e a capo.
Impossibile?
Non mi sorprende che in molti la pensino così,
soprattutto considerando che quasi tutti quelli che
desiderano mantenere in ordine i propri spazi, pur
mettendoci tutto il loro impegno, dopo poco tempo
si ritrovano vittime del cosiddetto «effetto
boomerang» che li catapulta nel disordine iniziale.
Se pensate di appartenere a questa categoria di
persone, voglio confidarvi un segreto: per prima
cosa, buttate ciò che non serve; poi, riordinate
tutto in una volta, in modo definitivo e senza
tralasciare nulla. Procedete in quest'ordine e vedrete che non
correrete il rischio di ritrovarvi punto e a capo.
Secondo le tecniche convenzionali di selezione,
ordine e riorganizzazione degli oggetti, il metodo
che propongo appare alquanto insensato.
Eppure, tutti gli studenti che hanno frequentato le
mie lezioni e hanno brillantemente superato il corso
non solo sono riusciti a mantenere la propria casa in
ordine ma, risultato ancora più stupefacente, dopo
aver riordinato tutto, hanno visto sensibilmente
migliorare molti aspetti della loro vita, come il
lavoro e la famiglia.
In realtà, questa è la conclusione cui sono giunta
anch'io dopo aver dedicato più dell'80% della mia
vita a riordinare. Troppo bello per essere vero?
Se vi limitate a buttare una cosa al giorno e a
riordinare la casa un po' alla volta, la risposta è sì.
Un approccio del genere non sortisce alcun effetto
rilevante.
Al contrario, a seconda del metodo che applicate
per risistemare, la vostra vita può beneficiare di
un'influenza notevole. Ed è questo il vero
significato del riordino.
Ho iniziato a leggere riviste per casalinghe a cinque
anni, e, partendo da li, a quindici anni ho trovato lo
spunto per portare avanti uno studio vero e proprio
sul riordino. Al momento lavoro come consulente
domestica: quasi ogni giorno visito le case e gli
uffici di clienti incapaci di riordinare, o che dopo
aver riordinato si ritrovano presto al punto di
partenza, o vorrebbero riordinare ma non sanno da
dove cominciare, e do loro consigli.
La quantità di cose che finora sono riuscita a far
buttare ai miei clienti - da abiti e biancheria intima a
11
foto, penne, ritagli di giornale e piccoli oggetti
come campioni gratuiti di cosmetici - supera il
milione di pezzi, e non si tratta di un'esagerazione.
Mi sono trovata in situazioni in cui i miei clienti
hanno buttato via più di duecento sacchi da
quarantacinque litri in un colpo solo.
In questo modo, grazie all'esperienza accumulata
affrontando seriamente il problema del riordino e
aiutando tante persone in difficoltà a farlo, c'è una
cosa che posso affermare con certezza: facendo
ordine in casa in modo radicale, cambiano
drasticamente anche la propria forma mentis, il
proprio modo di vivere e la propria esistenza.
Affermare che il riordino vi trasforma la vita
potrebbe sembrare esagerato, ma è la verità. Spesso mi sento dire: «Con la pigrizia che mi
ritrovo non ce la farò a riordinare», oppure: «Non
posso farci niente, perché non ho tempo».
Essere disordinati non è un fattore ereditario e
non ha nulla a che vedere con la mancanza di
tempo. Invece è il risultato dell'accumulo di
numerose convinzioni errate sul riordino - finora
associate al buonsenso - come: «Le stanze devono
essere riordinate seguendo un ordine specifico»,
«Se riordino tutto in una volta, di sicuro subirò
l'effetto boomerang, perciò riordinerò un po' alla
volta ogni giorno», oppure «Per riporre gli oggetti
bisogna seguire un piano preciso».
In Giappone si sente dire spesso che fare le pulizie
di casa e far brillare i sanitari porti fortuna.
Ma quando ci si ritrova sommersi da cianfrusaglie e
la stanza è nel caos più totale, l'effetto di un water
splendente sarà limitato.
La stessa cosa vale per il feng shui (è un'antica arte
geomantica taoista della Cina, ausiliaria
dell'architettura, affine alla geomanzia occidentale.
A differenza di questa prende però in
considerazione anche aspetti della psiche e
dell'astrologia.)
Dolo dopo aver pulito e riordinato la stanza, la
disposizione dei mobili e dei soprammobili
prenderà finalmente vita.
Quando una persona sperimenta almeno una
volta «l'ordine perfetto», prova la sensazione che
la propria esistenza abbia subito una
metamorfosi. In tal modo, non tornerà mai più
alla situazione iniziale di disordine. Questo è ciò che chiamo «il magico potere del
riordino». Gli effetti di questo «magico potere del
riordino» sono immensi.
Dopo aver riordinato una volta, non solo non ci si
ritroverà mai più al punto di partenza, ma si potrà
dare il via in tutta naturalezza a una nuova vita.
È questa la magia che desidero condividere con tutti
voi.
Avevamo parlato di Fabio Stassi nel 2013 in
occasione dell’edizione italiana di Curarsi con i
libri. Rimedi letterari per ogni malanno.
Ho letto e apprezzato questo primo romanzo
(Premio Vittorini per il miglior esordio) che
suggerisco anche perché Fabio Stassi è nato a Roma
(1962) da famiglia originaria di Piana degli
Albanesi (il paese di Portella della Ginestra). Ha
vinto il premio Sciascia Racalmare (AG), e il
Premio Alassio: Un altro ponte?
Fumisteria è un
affascinante
mosaico di amore,
odio, odori e
rimpianti, in cui le
sensazioni e i
sentimenti
conducono la
narrazione e
raccontano la
Sicilia con la sua
storia e la sua realtà
cruda, oltre quel
folclore e quel mito che spesso offuscano la vita e la
verità.
Il cadavere si trova riverso nell’acqua della fontana,
sulla strada della chiesa madre in modo che tutti lo
vedano. È Rocco La Paglia, giovane comunista ex
partigiano. Un morto strano. Se per vendetta, una
strana vendetta. Rocco da tempo era silenzioso nel
suo lavoro a bottega. Da quando la strage aveva
insegnato a lui, come a tutti i contadini che avevano
creduto di poter alzare la testa, a stare al suo posto,
in basso.
Così, adesso, sembra ovvio a tutti che il cadavere
sia legato alla solita storia: a una signora troppo
bella e troppo altera per sfuggire alle dicerie del
paese, e a un possidente, chiacchierato per non
essere abbastanza maschio. Delitto d’onore, come
una specie di dramma collettivo di espiazione, per
gli anni scorsi di troppa libertà.
Nel cuore di questo romanzo è il concreto, umano
significato della strage di Portella della Ginestra del
1947, quando il bandito Giuliano, su mandato di
oscure potenze e chiari interessi, sparò sul Primo
maggio dei contadini della Sicilia occidentale,
uccidendone e ferendone a decine, per fermare la
lotta per la terra e spezzare il movimento delle
sinistre. Secondo l’autore Fabio Stassi fu «punto di
svolta per tutta la storia precedente e per quella
futura». Ma tutto il suo racconto risuona di quella
malinconia senza tempo evocante solitudini che
riempie il passato tramandato ai bambini
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DETTI E PROVERBI
O ‘vadduni’ o ‘galera’.
Occhi c’atu fatti chianciri, chianciti.
Occhi chini e mani vacanti.
Occhiu cun vidi…….cori cun doli.
Occhiu vivu e mani a li vertuli.
O è dura la carni,o nun taglia lu cuteddu.
Oggi a mia, dumani a tìa, s’emu tutti
‘ncumpagnia.
Ogni hjuri è signu d’amuri.
Ogni ‘mpidimentu servi a ‘giuvamentu.
Ogni cacata di musca è sustanza.
Ogni gaddu canta nnì lo so munnizzaru.
Ogni cani è liuni a la sò casa .
Ogni cosa a lù sò postu.
Ogliu dun’annu e vinu di cent’anni.
Ogni cosa a lù sò tempu.
Ogni ficateddu di musca è sustanza.
Ogni malafigura, un sordu.
Ogni pena e ogni doglia, pani e vinu li
cummoglia.
Ogni scravaglieddu a sò matri pari beddu.
Ogni testa è tribunali.
Ognunu si stuia cu la sò cammisa.
Ognunu tira brascia pì lu sò cudduruni.
Olivi di to nannu…..ceuzi di to patri……
vigna tò.
Omini, ominicchi e quaquaraquà.
Orbu di l’occhi.
Ortu omu mortu.
O ti manci stà minestra o ti jettu di la
finestra.
Ovu d’un’ura, pani d’un jornu e vinu d’un’annu
nun ficiru mai dannu.
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IL BERGAMOTTO
Fa bene al cuore, consente di tenere sotto controllo
il colesterolo alto, è un disinfettante naturale e aiuta
le vie respiratorie.
Noto per essere il prodotto base per la cosmesi della
grande industria italiana e francese, è un
aromatizzante straordinario per l'arte dolciaria più
raffinata, ma alcune ricerche recenti lo segnalano
soprattutto come un frutto dalle straordinarie
capacità curative.
Nella provincia di Reggio Calabria lo chiamano
"l'oro verde", e in effetti il bergamotto è oro perché
a fronte di una produzione molto contenuta
rappresenta una scommessa economica e scientifica
su cui gli operatori agricoli locali puntano in
maniera decisa. "Il bergamotto, medicina del cuore"
è il titolo del convegno di tre giorni tenutosi a
Brancaleone, in provincia di Reggio Calabria, per
analizzare dal punto di vista scientifico le
potenzialità d'uso in campo medico ed alimentare
dell'agrume calabrese. Il simposio ha approfondito
le potenzialità e le nuove scoperte fatte da esperti e
ricercatori sulle 350 componenti di un frutto
prodotto di cui il 90% della produzione è ristretta
in un piccolo fazzoletto di terra che va da Villa San
Giovanni, sullo Stretto di Messina, a Siderno, nel
cuore della Locride.
Mille e 500 ettari di agrumeti in tutto, che
forniscono una media annuale di 200 mila chili di
bergamotto lavorato e spremuto per ottenere
un'essenza da collocare su un mercato mondiale in
continua espansione.
Colore cha va dal verde al giallo, a seconda del
grado di maturazione, il bergamotto ha le
dimensioni di una normale arancia e l'aspetto che, a
un occhio poco attento, potrebbe apparire quello di
un limone.
Difficile da mangiare, a causa del suo sapore forte,
la sua essenza (per farne in chilo ci vogliono circa
200 frutti) è però sempre più richiesta dai mercati
per gli usi più diversi.
E' recente l'uso che se ne fa per le sue proprietà
curative.
Fa bene al cuore e il suo impiego è ad esempio
indicato per tenere sotto controllo il colesterolo in
eccesso, contribuendo così a prevenire malattie
cardiovascolari come ictus, aterosclerosi e l'infarto.
Una spremuta di bergamotto per il paziente che
soffre di colesterolo alto potrebbe arrivare a
significare la riduzione di farmaci dai fastidiosi
effetti collaterali.
Ma non è tutto, sempre in tema di salute, l'essenza
di bergamotto avrebbe anche effetti benefici nel
trattamento di stati ansiosi e come antidepressivo,
come indicato da alcune pratiche di aromaterapia.
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Effettuare suffumigi con alcune gocce di olio di
bergamotto, oltre all'azione calmante, può fornire
un aiuto per il benessere delle vie respiratorie che
potranno godere delle sue capacità antibatterica e
antinfiammatoria. Per le sue proprietà, il
bergamotto è ritenuto poi un rimedio naturale anche
come disinfettante e antivirale.
Sempre in tema di benessere, ha capacità
antiossidanti e applicato sulla pelle può infine
essere utile per cicatrizzare piccole ferite e
combattere le micosi alle unghie.
Un toccasana naturale, insomma, prodotto soltanto
nella provincia di Reggio Calabria in virtù della
qualità dei suoi terreni alluvionali e argillosi. Le
zone migliori per mettere a dimora la pianta
(conosciuta anche con il nome di Citrus Bergamia,
appartenente alla famiglia delle Rutaceae) sono
quelle in area collinare, esenti da gelate e ben
soleggiate. Si tratta infatti di un albero che mal
sopporta gli sbalzi di temperatura e che deve essere
sempre irrigato. Le sue origini sono misteriose.
Molti autori lo fanno provenire dalla Cina, dalla
Grecia, da Pergamo (l'antica Troia); altri dalla città
spagnola di Berga dove sarebbe stato importato da
Cristoforo Colombo di ritorno dalle Canarie.
Sta di fatto che la pianta attecchisce solo in
determinate aree e anche se nel mondo si produce
anche in Asia, è il frutto calabrese a contenere la
maggiore ricchezza di componenti chimici.
Passando dalla salute all'alimentazione, anche in
cucina il bergamotto viene sempre più utilizzato,
soprattutto nell'arte dolciaria: è infatti un eccellente
aromatizzante per caramelle, canditi, torroni, gelati,
liquori e bibite varie.
Molto più noto e antico è, in conclusione, l'uso che
se ne fa nella profumeria.
L'essenza di bergamotto, grazie alla sua freschezza,
è l'ingrediente fondamentale non solo dell'acqua di
Colonia classica, ma anche di numerosi altri delicati
prodotti di profumeria.
Per aromatizzare i saponi deve essere impiegata con
cautela data la sua poca stabilità con gli alcali.
E tuttavia è un prodotto richiesto perché possiede
un certo effetto fissativo quando è usato in
concentrazioni abbastanza alte e perché armonizza
con quasi tutti gli altri olii, trasmettendo ai profumi
dolcezza e freschezza.
In pratica, svolge diversi ruoli: rinvigorisce e dà
brio agli odori più leggeri, evidenzia quelli latenti e,
d'altro canto, attenua e migliora alcuni odori troppo
forti.
Si capisce quindi perché il bergamotto sia così
impiegato dall'industria profumiera.
Dal gentile nostro Socio Onorario Franco Bigatti
alcuni brani di :
San Francesco d’Assisi e il «Cantico delle Creature»
Laudato siʼ, miʼ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Il fuoco è detto, scientificamente, il prodotto della
combustione della materia; si tratta dʼun elemento
al quale, come allʼacqua, si attribuirebbe una vita
propria.
Da esso provengono luce, calore e purificazione, ma
anche dolore e morte.
Questa ambivalenza sembra onnipresente nelle
culture umane di ogni tempo, e Francesco, che certo
non poteva conoscere i miti cosmogonici e
antropogonici orientali né Zoroastro (Zarathustra),
anche se avrà ben saputo delle vestali romane, lo
chiama frate e ne fa un simbolo maschio,
probabilmente non per pura consonanza
grammaticale; e lo pone in correlazione, non in
contraddizione, con lʼacqua, elemento femminile.
Il carattere del fuoco non si esaurisce nelle sue
funzioni utilitarie, né nelle sue connotazioni
estetiche di bellezza, giocondità, robustezza, forza.
Non ci si potrebbe vedere un mero elemento
atmosferico; ma provenga dal cielo come fulmine o
salga come lava vulcanica dal centro della terra, la
sua scoperta segna la prima fase della civiltà
umana: ricorda Eliade che «il più antico documento
dellʼuso del fuoco proviene da Chou-kou-tien (ca.
600.000), ma è probabile che la domesticazione
avesse avuto inizio assai prima e in varie località»,
e che i misteriosi uomini primitivi in grado di
vivere senza fuoco, di cui hanno favoleggiato le
dottrine evoluzionistiche prescientifiche, in realtà
non sono mai esistiti.
Grazie al suo ingegno lʼuomo ne apprese e utilizzò
la conservazione e poi la stessa produzione.
Nel pensiero cristiano il fuoco purifica inoltre dalle
colpe commesse, come sostiene il Cattolicesimo
con la dottrina del Purgatorio.
14
Disgusta il solo pensiero che gli
autoproclamati detentori e dispensatori della
purezza evangelica abbiano affidato al fuoco la
funzione di “estirpare lʼeresia”.
Aberrazioni del genere, come Gesù Cristo non le ha
mai insegnate, così neppure Francesco le avrebbe
mai accettate.
Le candele sullʼaltare svolgono un ruolo
essenziale nelle cerimonie battesimali ed
eucaristiche come simboli del Lumen Christi, in
sostanza, di Colui che porta la luce spirituale,così
come il fuoco trasforma lʼincenso in preghiera
profumata. Il ricorso a riti legati al fuoco,
consistenti nel camminare indenni tra le fiamme
(greco: πυροβασια pyro-basia) a piedi nudi, si
riscontra nella tradizione di moltissimi popoli;
originariamente era un atto di purificazione. E
nellʼimmaginario collettivo fuoco e focolare si
equivalgono, e questʼultimo viene interpretato come
il centro simbolico della casa e della vita familiare.
La poesia è ricca di riferimenti al fuoco o
alla fiamma che arde nel cuore umano segnando
peraltro le due strade in costante divergenza
dellʼamore e della passionalità.
Francesco condivide il concetto biblico del
fuoco, lʼelemento materialmente necessario al
riscaldamento e alla cottura dei cibi, ma anche alla
consumazione delle offerte nel Tempio, segno del
loro gradimento da parte dellʼEterno che peraltro se
ne servirà per punire i malvagi.
La fiamma in Esodo 3,2 è simbolo della santità
divina: il pruno sinaitico non si consuma perché Dio
è eternamente lo stesso fuoco consumante.
Nel viaggio attraverso il deserto Israele era guidato
da una nuvola che di giorno appariva oscura e di
notte infuocata, simbolo della presenza costante
dellʼEterno, e il monte Sinai medesimo appariva
tutto fumante al momento sacro della consegna del
Decalogo (Esodo 13,21s.; 19,18).
Nel Nuovo Testamento il fuoco è simbolo ora dello
Spirito Santo, ora del giudizio divino (Matteo 3,11-
12).
Frate Focu, superbo dono di Dio,
“ennallumina la nocte”. La notte è costantemente
intesa come lʼassenza della luce solare, come la fase
della giornata in cui, ma non sempre, la luna e le
stelle si affacciano dalla volta celeste orientando
coloro che abbiano a muovere rinunciando al sonno
e portandosi appresso gli affanni che la gente
comune può, per lo meno, dormendo accantonare.
Notte è anche il tempo che avvolge il
soggiorno dei morti, e nel grembo della madre terra
fa riposare dalle fatiche dellʼesistenza terrena tutta
intera.
Nelle prime pagine
del libro del nostro
amico napoletano
Maurizio De
Giovanni
ANIME DI
VETRO
ultima fatica del
Commissario
Ricciardi, che
raccomandiamo
agli amici,
si fa riferimento,
quasi come una
madeleine
proustiana,
ad una ricetta
cilentana:
la ciaudedda.
Mi sono premurato di saperne di più, ma più
cercavo più mi perdevo e mi sono imbattuto in
Ciaudedda- Ciaurella-Ciambotta….
Poi ho scoperto alcune differenze:
La ciambotta si basa sulle verdure prima fritte e poi
ripassate in padella con aglio e pomodorini mentre
la ciaurella parte direttamente con tutti gli
ingredienti in padella.
Altra differenza fondamentale è la forma delle
verdure tagliate.
A spicchi o a pezzi?
Non ci crederete ma c’è gente disposta a litigare per
difendere la propria versione.
Quello che ho visto (senza pretendere affatto che
sia la versione definitiva, anzi, ogni famiglia ha la
versione giusta ) è che la ciambotta viene preparata
a spicchi e la ciaurella con pezzi non molto grandi.
Mentre la vera ricetta prevede le fave.
Ecco la
Ciaudedda
Ingredienti ( per 4 persone )
350 gr di fave fresche e pulite della doppia buccia
4 patate piccole
4 carciofi
1 cipolla grande
100 gr di pancetta
Olio extravergne d’oliva q.b.
sale q.b.
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Sgranate le fave dalla doppia buccia e sciacquatele
sotto l’acqua fredda
Pulite carciofi, tagliateli a spicchi ed immergeteli in
acqua fredda con limone
Pelate, pulite e fate a tocchetti le patate
Pelate ed affettate la cipolla
In una casseruola soffriggete a fuoco vivace la
cipolla affettata con la pancetta e l’olio
extravergine.
Una volta che la cipolla si è ammorbidita,
aggiungeteci le fave, i carciofi e le patate.
Mescolate, aggiungeteci un paio di mestoli di acqua
tiepida e fate cuocere per circa 30 minuti a fuoco
dolce. ( se necessario aggiungete un altro po’
d’acqua durante la cottura)
A cottura quasi ultimata regolate se necessario di
sale.
Una volta che le verdure si sono ammorbidite,
lasciate riposare qualche minuto, impiattate e
servite.
Il tocco magico prevede una spolverata di pecorino
stagionato
Per accompagnarla,
ecco un suggerimento
Costa d'Amalfi D.o.c.
Furore bianco di
Marisa Cuomo,
da uve Falanghina e
Biancolella.
Un vino profumato ed
elegante.
Dolce&Gabbana
benvenuti nella Sicilia cinese
Funambolica, colorata, piena di humour ma anche di
furbizia pop. La nuova collezione maschile del duo
italiano porta la Cina in Sicilia. E riesce in un
esperimento impossibile Simone Marchetti
Se la montagna può andare da Maometto, la Cina
può benissimo venire in Sicilia. È la legge della
gravità fashion nell'Universo Dolce&Gabbana,
un'attrazione che non conosce regole o confini e
porta nella sua orbita qualunque cosa le finisca
vicino.
Così, senza fare un plissé, draghi, pavoni e altre
diavolerie dell'immaginario cinese classico salgono
sul carretto siciliano e si accompagnano a limoni e
fiori d'arancio nella nuova collezione maschile del
duo italiano per la prossima estate.
Mao e Madonna, l'ossimoro impossibile diventa
realtà in questo show inaspettato.
"L'ispirazione ci è venuta dalla Palazzina Cinese di
Palermo", raccontano il duo.
"È una suggestione che viene da lontano, fin da
quando, tanti anni fa, scattammo la campagna
pubblicitaria con la modella Marpessa e il fotografo
Ferdinando Scianna. Rivedendo ultimamente questo
capolavoro dell'esotismo italiano ce ne siamo
innamorati di nuovo.
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E abbiamo deciso di farlo diventare collezione".
Stefano e Domenico, però, si dimenticano di un
fatto: questo capolavoro siciliano, famoso e spesso
preso in considerazione da tanti creativi, è uno dei
tranelli estetici più ingannevoli della tradizione.
Trasformarlo in abito scadendo nel kitsch è
facilissimo.
Ma proprio qui entra in gioco la vera anima del duo:
non fare mai il salto dal popolare all'intellettuale ma
proprio il contrario. Ovvero trasformare in pop la
più grande tradizione dell'arte.
Questa volta tocca alla Cina siciliana, ma è solo un
dettaglio: perché la bravura del duo sta proprio nel
piazzare certe stampe, nel calibrare colori e disegni
in un modo così spontaneo e fresco da diventare
subito desiderabile.
Pigiami, completi da uomo, T-shirt ed espadrillas
diventano così un remix in salsa rap di Cina e
Sicilia senza mai finire nell'immaginario di
cartapesta del luogo comune e camminando sul filo
sottile che separa divertimento dalla banalità.
Un'altra volta e in una stagione dove sembrano
dominare leggerezza e rigore dei colori, Domenico
e Stefano si ritagliano il loro spazio di
autorevolezza. Piacciano o no poco importa: i loro
incidenti estetici impossibili continuano a essere
uno degli esperimenti più funambolici e desiderabili
del settore.
a proposito di minch… stupidaggini….
GIOCHI DI CARTE SICILIANE
Il 4 di coppe in Sicilia è designato come la bara,
per la specifica collocazione dei semi agli angoli,
quasi a rappresentare i ceri che illuminano l’ultimo
giaciglio.
Ambigua la simbologia del combattimento fra i
personaggi di sesso opposto che incrociano le lame
a difesa di una bandiera, di uno stemma, di un
casato: si tratterebbe di questione d’onore, o
dell’eterna lotta fra i sessi ?
A differenza della simbologia del “continente” i
semi sono alternati due dritti, due rovesciati e
pertanto le cose di cuore (coppe) vengono
rappresentate in stabilità, con buoni auspici e
felicità sentimentale.
Il valore positivo di questa carta annulla il valore
negativo di altre carte vicine, esaltando amore,
unione armoniosa e, in genere, soddisfazioni in tutti
i campi. La carta suggerisce che la felicità è a
portata di mano, basta saperla riconoscere e
coglierla al volo.
In generale, i chiromanti di ogni epoca, si sono
mostrati concordi nell'associare questa carta alle
caratteristiche simboliche dell'allegria, del
godimento e del sentimento.
Il Quattro di Coppe viene dunque posto in relazione
con la gioia, il riso, la felicità e l'euforia.
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Le due coppe collocate nella parte superiore della
carta simboleggiano l'equilibrio di forze del piano
psichico, mentre la coppia disposta nella parte
inferiore rappresenta l'equilibrio delle forze del
piano materiale. La Carta in posizione diritta
rappresenta l'allegria e il successo. Offre precise
indicazioni sulle reali possibilità che il consultante
ha di realizzare i suoi progetti, affari e imprese.
Per tale motivo considerata una carta di buon
auspicio. Rivela una situazione positiva per il
consultante sia nell'ambito sociale che in quello
personale. Indica il buon andamento delle faccende
di cui il consultante si occupa al momento.
La Carta in posizione rovesciata rappresenta la
disarmonia ed il disordine. Avverte sull'esistenza di
ostacoli ed impedimenti alla realizzazione di
determinati progetti. E' considerata una carta che
preannuncia inconvenienti, disillusioni, e
inquietudini, soprattutto in campo professionale e
sentimentale.
A noi scettici il 4 di coppe suggerisce che, almeno
per oggi, si beve in abbondanza.
APPUNTI DI VIAGGIO
A Londra a luglio ho visitato uno dei parchi più
belli al mondo: Kew Garden, dove ho trovato una
pianta a me molto cara:
E fra serre, vivai e giardini, una delle tante
indicazioni mi suggeriva che nei paraggi c’era una
Minkia House !
Come avrei potuto esimermi dal visitarla?
Accompagnato dal fidato traduttore, ho poi
scoperto che l’indicazione recitava un nome
diverso, ma sicuramente interessante.
LA MINKA HOUSE
Si tratta di una abitazione su più piani tenuta
insieme solo da corde.
Non esiste un chiodo, né collanti o mattoni.
Solo canne e travi tenute con nodi serrati.
Minka significa casa dei contadini, e quella era
stata smontata nel paese d’origine e rimontata nel
parco.
Durante il Festival giapponese del 2001, nei
giardini di Kew è stata impiantata la casa di legno,
in stile giapponese, denominata Minka, che risale al
1900 e che proviene dalla città di Okazaki.
Sino al XX secolo infatti, agricoltori e
commercianti giapponesi, vivevano in questo tipo
di case tradizionali, caratterizzate da pareti in legno
e tetto di paglia.
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Tutto il materiale necessario alla costruzione si
trovava nel bosco e la struttura poteva addirittura
sopravvivere ad un terremoto.
Molte di queste case furono distrutte durante il XX
secolo e sostituite da case moderne, le quali tuttavia
durano meno anni e inquinano molto a differenza
della casa Minka.
Fa bene pensare che stili di vita diversi
siano possibili.
COSE DI CASA NOSTRA
Ragusa .. notte
Pippo Giuffrè si è stabilito a New York nel 1958 e
qui si è fatto una solida posizione economica con
un'attività nel settore delle concessionarie
automobilistiche.
Nella Grande Mela ha continuato a mantenere vivo
il legame con la Sicilia e ha frequentato
l'associazione "Figli di Ragusa" di Brooklyn. L'ente
ha di recente deciso di vendere la sua sede nella
metropoli americana e di donare il ricavato, due
milioni di dollari, all'Asp di Ragusa.
Tramite dell'operazione, Pippo Giuffrè, membro del
direttivo dell'associazione.
In passato Giuseppe Giuffrè, così come il
capostipite della sua famiglia, Carmelo, ha ricevuto
un riconoscimento dall'Associazione "Ragusani nel
mondo", ed è sempre rimasto legatissimo alla città.
Proprio da un suo input era nata l'idea della
donazione all'Asp di Ragusa: 2 milioni di dollari per
realizzare una struttura o attrezzare un reparto
ospedaliero, in cambio dell'impegno ad apporre una
targa in memoria dell'associazione "Figli di
Ragusa" di Brooklyn.
La generosità dei Giuffrè a Ragusa è nota. Hanno,
tra l'altro, aiutato le famiglie degli operai ragusani
morti nella strage del depuratore di Mineo (Catania)
nel giugno 2008, e per le feste di Natale inviano
pacchi dono a molti indigenti. Giuseppe Giuffrè ha
anche donato attrezzature tecnologiche biomediche
a uno degli ospedali di Ragusa.
La donazione sarebbe servita all'Azienda sanitaria
ragusana per comprare apparecchiature mediche e
migliorare i servizi del nuovo ospedale "Giovanni
Paolo II".
Per questo c'era stato un primo incontro qualche
mese fa con l'avvocato Michele Sbezzi in
rappresentanza di Pippo Giuffrè e il manager
dell'Asp, Maurizio Aricò.
Il secondo incontro, alle 12 alla sede Asp, doveva
servire per definire la donazione.
Ma tutto è sfumato quando Giuffrè, spazientito per
non essere stato ricevuto dal manager all'ora
convenuta e per aver dovuto attendere a lungo, se
n'è andato. "Abbiamo incontrato il dottor Aricò
mentre congedava una sua precedente visita. E
siamo saliti verso i suoi uffici", riferisce l'avvocato
Sbezzi, che prosegue: "Poi lui prima è andato in
una stanza a parlare con una persona e poi nel suo
ufficio. Noi siamo stati raggiunti da due persone
che ci hanno fatto accomodare dicendoci di
attendere che ci avrebbero chiamati loro".
Qui l'avvocato e il filantropo sono stati dimenticati,
fino a che Pippo Giuffrè si è stufato e sen’è andato.
Il manager si assolve così: "Attendevo il nostro
legale dell'Asp. Come avrei potuto parlare di
dettagli tecnici su un argomento così delicato?
Comunque, sono davvero dispiaciuto", conclude.
La parlamentare regionale del M5S Vanessa Ferreri,
dopo aver saputo della presunta superficialità con
cui il direttore generale dell'Asp 7 ha trattato il
potenziale generoso donatore, ha richiesto la
convocazione urgente di Aricò in commissione
Sanità, affinché chiarisca la vicenda.
Ferreri si scusa pubblicamente, da segretario della
commissione sanità dell'Ars e soprattutto da
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cittadina ragusana, con il signor Giuffrè, confidando
in un suo ripensamento:
«A pagarne le conseguenze - dice - sarebbero solo i
cittadini».
Il presidente della Commissione sanità Pippo
Digiacomo dice: «
Apprendo con rammarico l'incidente accaduto nei
locali dell'Asp di Ragusa che avrebbe fatto
desistere il signor Giuseppe Giuffrè dall'annunciata
decisione di donare una cospicua somma
all'ospedale della città iblea. Sono certo che si sia
trattato di un semplice disguido e che possa essere
superato». «Avevo incontrato Giuffrè - aggiunge -
proprio all'ingresso dell'edificio e avevo avuto
modo di ringraziarlo del suo affetto e della sua
generosità nei confronti della terra natia e sono
profondamente dispiaciuto.
A nome mio e della commissione Sanità all'Ars
voglio chiedere al nostro fortunato conterraneo di
scusare l'incidente assolutamente estraneo al garbo
e all'ospitalità della bella terra iblea. I particolari
dell'incidente verranno certamente chiariti nelle
sedi opportune».
Non è la prima volta che un'iniziativa di
beneficenza promossa dai Giuffrè affonda nei
gorghi della burocrazia: qualche anno fa la famiglia
aveva manifestato l'intenzione di finanziare un
centro polivalente nel quartiere Carmine a Ragusa,
una zona disagiata, ma il progetto si arenò.
Riteniamo che poche possano essere comunque le
giustificazioni, senza voler ricorrere a cattivi
pensieri. Perché la vicenda denota perlomeno poco
senso di responsabilità verso un evento che avrebbe
favorito l’intera collettività ed è stata, nei fatti,
equiparata ad un mero adempimento burocratico,
gestito con una superficialità, che appare consueta.
L’11 agosto il nostro Presidente ha
compiuto un bel compleanno. A nome di
tutti gli facciamo (solo) gli Auguri, perché
ormai le candeline costano più della torta !
BUON COMPLEANNO ENZO !
APPUNTAMENTI DA NON PERDERE
6 settembre 2015
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Visto il tutto esaurito al
CINEMA IN FORTEZZA,
rassegna che cresce di anno in anno,
Nuovofilmstudio , propone alla riapertura della
stagione, per chi se li fosse persi o volesse rivederli:
martedì 8 e mercoledì 9 settembre "Youth" di Paolo Sorrentino.
martedi 15 e mercoledi 16 settembre “Il racconto dei racconti” di Matteo Garrone
martedi 22 e mercoledi 23 settembre “Mia madre” di Nanni Moretti
da Venerdi 11 a Lunedi 14 settembre
Un taxi attraversa le strade di Teheran in un giorno
qualsiasi. Passeggeri di diversa estrazione sociale
salgono e scendono dalla vettura. Alla guida non c'è
un conducente qualsiasi ma Jafar Panahi stesso
impegnato a girare un altro film 'proibito'.
Panahi è stato condannato dalla 'giustizia' iraniana a
20 anni di proibizione di girare film, scrivere
sceneggiature e rilasciare interviste, pena la
detenzione per sei anni. Ma non c'è sentenza che
possa impedire ad un artista di essere se stesso ed
ecco allora che il regista ha deciso di continuare a
sfidare il divieto e ancora una volta ci propone
un'opera destinata a rimanere quale testimonianza di
un cinema che si fa militante proprio perché non fa
proclami ma mostra la quotidianità del vivere in un
Paese in cui le contraddizioni si fanno sempre più
stridenti.
Il 26 settembre alle ore 17,30 nella storica sede de "A Campanassa" a Savona
con l'impegno del nostro Sodalizio e
dell’Associazione Renzo.Aiolfi.
Terza Edizione del Premio "Pino Cirone"
con il quale ricorderemo la figura dell'uomo e
dell'artista che insieme alla moglie Maria, con la
cinepresa ha dato vita a circa duecento film fra
soggetti e documentari d'autore, premiatissimi
anche a livello internazionale.
Riceverà il Premio la giornalista del TG1 della RAI
Dott. Emma D'Aquino, ben nota a milioni di
telespettatori per il suo stile, la sua classe e
l'esemplarità che imprime ai suoi telegiornali.
Le precedenti edizioni hanno portato a Savona
persone di altissimo prestigio nel mondo culturale.
Nel dicembre 2010, la famiglia ha attribuito il
premio, consistente nel celebre Libro di Vetro di
Maria Scarfì, al Direttore d'Orchestra Aurelio
Canonici, nominato dalla stagione 2008 Direttore
Artistico della Sezione Sinfonica “R. Wagner” del
prestigioso “Ravello Festival”, oltre che aver diretto
le Orchestre di Instanbul, Vienna, Budapest,
Bucarest, Madrid, Cracovia e di altre capitali
europee. In quella occasione l'evento ebbe luogo al
Teatro Chiabrera di Savona sotto l'egida del nostro
Sodalizio nella persona del Presidente Dott. Enzo
Motta e dell'Associazione Culturale "R. Aiolfi"
rappresentata dalla Presidente Dott. Silvia Bottaro.
Nella seconda edizione, avvenuta a giugno 2013 il
Premio è stato consegnato al pittore e scultore greco
Giorgio Oikonomoy artista di fama internazionale.
La manifestazione si è svolta nell'Oratorio di Santa
Maria Maggiore ad Albisola Superiore in
collaborazione con il Comune di Albisola Superiore
Assessorato alla Cultura su proposta del
“Pirandello" e dell'Associazione Culturale "Renzo
Aiolfi". Nel corso della serata, il Maestro Aurelio
Canonici ha donato agli spettatori un concerto al
pianoforte.
Anche in questa occasione il Maestro Aurelio
Canonici, ci onorerà della sua presenza e ci
dedicherà un nuovo concerto al pianoforte.
Alla prossima
Santuzzo
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