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CENTRO ALTI STUDI
PER LA DIFESA
CENTRO MILITARE
DI STUDI STRATEGICI
Paolo QUERCIA
Flussi migratori attraverso i Balcani
occidentali: la rotta balcanica
(Codice SMD AM-SMD-03)
Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.), costituito nel 1987 e situato presso
Palazzo Salviati a Roma, è diretto da un Generale di Divisione (Direttore), o Ufficiale di
grado equivalente, ed è strutturato su tre Dipartimenti (Relazioni Internazionali - Sociologia
Militare - Scienze, Tecnologia, Economia e Politica industriale) ed un Ufficio Relazioni
Esterne e le attività sono regolate dal Decreto del Ministro della Difesa del 21 dicembre
2012.
Il Ce.Mi.S.S. svolge attività di studio e ricerca a carattere strategico-politico-militare, per le
esigenze del Ministero della Difesa, contribuendo allo sviluppo della cultura e della
conoscenza, a favore della collettività nazionale.
Le attività condotte dal Ce.Mi.S.S. sono dirette allo studio di fenomeni di natura politica,
economica, sociale, culturale, militare e dell'effetto dell’introduzione di nuove tecnologie,
ovvero dei fenomeni che determinano apprezzabili cambiamenti dello scenario di
sicurezza. Il livello di analisi è prioritariamente quello strategico.
Per lo svolgimento delle attività di studio e ricerca, il Ce.Mi.S.S. impegna:
a) di personale militare e civile del Ministero della Difesa, in possesso di idonea
esperienza e qualifica professionale, all’uopo assegnato al Centro, anche mediante
distacchi temporanei, sulla base di quanto disposto annualmente dal Capo di Stato
Maggiore dalla Difesa, d’intesa con il Segretario Generale della difesa/Direttore
Nazionale degli Armamenti per l’impiego del personale civile;
b) collaboratori non appartenenti all’amministrazione pubblica, (selezionati in conformità
alle vigenti disposizioni fra gli esperti di comprovata specializzazione).
Per lo sviluppo della cultura e della conoscenza di temi di interesse della Difesa, il Ce.Mi.S.S. instaura collaborazioni con le Università, gli istituti o Centri di Ricerca, italiani o esteri e rende pubblici gli studi di maggiore interesse.
Il Ministro della Difesa, sentiti il Capo di Stato Maggiore dalla Difesa, d’intesa con il
Segretario Generale della difesa/Direttore Nazionale degli Armamenti, per gli argomenti di
rispettivo interesse, emana le direttive in merito alle attività di ricerca strategica, stabilendo
le lenee guida per l’attività di analisi e di collaborazione con le istituzioni omologhe e
definendo i temi di studio da assegnare al Ce.Mi.S.S..
I ricercatori sono lasciati completamente liberi di esprimere il proprio pensiero sugli
argomenti trattati, il contenuto degli studi pubblicati riflette esclusivamente il pensiero dei
singoli autori, e non quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari
e/o civili alle quali i Ricercatori stessi appartengono.
(Codice AM-SMD-03)
CENTRO ALTI STUDI
PER LA DIFESA
CENTRO MILITARE
DI STUDI STRATEGICI
Paolo QUERCIA
Flussi migratori attraverso i Balcani
occidentali: la rotta balcanica
Flussi migratori attraverso i Balcani occidentali:
la rotta balcanica
NOTA DI SALVAGUARDIA
Quanto contenuto in questo volume riflette esclusivamente il pensiero dell’autore, e non
quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari e/o civili alle quali
l’autore stesso appartiene.
NOTE
Le analisi sono sviluppate utilizzando informazioni disponibili su fonti aperte.
Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici
Direttore
CA. Maurizio Ertreo
Vice Direttore - Capo Dipartimento Relazioni Internazionali
Col. A.A.r.n.n. Pil. (AM) Marco Francesco D’Asta
Progetto grafico
Massimo Bilotta - Roberto Bagnato
Autore
Paolo Quercia
Stampato dalla tipografia del Centro Alti Studi per la Difesa
Centro Militare di Studi Strategici
Dipartimento Relazioni Internazionali
Palazzo Salviati
Piazza della Rovere, 83 - 00165 – Roma
tel. 06 4691 3205 - fax 06 6879779
e-mail caporelint.cemiss@casd.difesa.it
Chiusa a novembre 2017
ISBN 978-88-99468-75-0
INDICE
Sintesi dei contenuti 6
Introduzione 7
CAPITOLO 1 - CONCETTI FONDAMENTALI DELLA SICUREZZA MIGRATORIA E ANALISI DEL CORRIDOIO BALCANICO-ANATOLICO VERSO L’EUROPA 16
1.1 Gli antesignani della sicurezza migratoria: gli studi di Weiner e Greenhill 16
1.2 Il nesso crisi migratoria-sicurezza ed il concetto di sicurezza migratoria 21
1.3 La differente natura delle crisi migratorie europee odierne 28
1.4 Descrizione del corridoio balcanico-anatolico verso l’Europa: un’analisi comparativa 30
CAPITOLO 2 - I SINGOLI PAESI DEL CORRIDOIO ANATOLICO-BALCANICO E LE POLITICHE DI GESTIONE DEI FLUSSI 37
2.1. I Paesi di Destinazione 39
2.1.1. La Germania 39
2.1.2. L’Austria 42
2.2. I Paesi di Transito 46
2.2.1. La Grecia 46
2.2.1.1. La questione del confine Grecia - Turchia 51
2.2.1.2. Case study: L’isola greca di Lesbos 54
2.2.2. La Turchia 55
2.2.2.1. La questione dei rifugiati siriani in Turchia 56
2.2.2.2. L’accordo tra Unione Europea e Turchia. 58
2.2.3. La Macedonia 61
2.2.4. L’Ungheria 63
2.2.5. L’Albania 65
CAPITOLO 3 - ANALISI, OSSERVAZIONI, CONLUSIONI E POLICY OPTION 69
3.1. Analisi delle politiche di gestione e contenimento del fenomeno lungo la rotta anatolico – balcanica e fattori che potrebbero incidere nella magnitudine dei flussi 69
3.2. Possibilità di connessioni tra flussi migratori e fenomeni terroristici 73
3.3. Conclusioni: effetti per la sicurezza regionale e nazionali di possibili nuove crisi migratorie e policy options 78
6
Sintesi dei contenuti
La ricerca, partendo da una valutazione della crisi migratoria registratasi nel 2015, studia
la situazione attuale del corridoio balcanico verso l’Europa dei flussi irregolari ed illegali di
migrazioni provenienti da Africa ed Asia e analizza le potenziali interconnessioni con la
sicurezza regionale e con le più generali condizioni di stabilità politica dell’area dell’Europa
Sud Orientale.
Nel primo capitolo viene fatta un’analisi preliminare su cosa è una crisi migratoria
nell’Europa del 2018 e come essa si differenzia dai fenomeni migratori precedenti.
Vengono altresì discusse quali possono essere le correlazioni tra i flussi migratori e la crisi
della sicurezza internazionale attorno all’Europa e viene discusso il nesso sicurezza –
migrazioni. Viene quindi introdotto il concetto di sicurezza migratoria e vengono suddivisi
tre livelli in cui essa si declina (livello dei Paesi di origine, livello dei Paesi di transito e
livello dei Paesi di destinazione).
Nel secondo capitolo vengono invece studiati più da vicino i singoli Paesi della rotta
balcanica, ad iniziare dai due principali Paesi di destinazione, la Germania e l’Austria.
Vengono quindi analizzati cinque Paesi di transito. Quattro (Grecia, Turchia, Macedonia,
Ungheria) interessati nel corso del 2014 – 2015 dalla crisi migratoria, più l’Albania, Paese
che non è stato coinvolto dalla crisi ma che potrebbe avere un suo ruolo nel caso in cui
una nuova crisi dovesse manifestarsi ed il corridoio balcanico dovesse restare chiuso.
Infine, nel terzo capitolo sono state fatte una seria di considerazioni finali su alcuni temi
importanti, come il diverso atteggiamento dei Paesi rispetto alla crisi migratoria, il
problema della magnitudine dei flussi, le possibili connessioni tra fenomeni migratori e
terroristici, il ruolo dell’Europa. Ove possibile sono state indicate alcune opzioni policy
oriented per il decisore italiano.
7
Introduzione
L’evoluzione del fenomeno migratorio. Dalle migrazioni come fenomeno socio-
economico, alla securizzazione degli anni 2000 fino alla crisi migratorie del 2015
Il fenomeno delle migrazioni internazionali è da numerosi anni in cima all’agenda
della sicurezza europea ed internazionale e la crisi migratoria balcanica si inserisce
all’interno di un processo, in corso da almeno un decennio, di progressiva trasformazione
delle questioni migratorie dal piano economico-umanitario a quello politico-strategico.
Le connessioni delle crisi migratorie con i dossier della sicurezza internazionale e la
tendenza alla politicizzazione e anche alla criminalizzazione dei flussi sono ormai un
fenomeno ben noto e studiato da circa un ventennio. Prima di studiare una rotta migratoria
è fondamentale inquadrare cosa stiamo studiando e la natura del fenomeno, ma
soprattutto quanto il contesto in cui esso si svolge e i comportamenti degli attori coinvolti
sono espressione di una dimensione socio – economica o piuttosto di una dimensione
strategica e di sicurezza.
La prima domanda che è necessario porsi è dunque: i flussi migratori sono anche un
problema di sicurezza? la risposta è piuttosto semplice e banale. Dipende. Difatti, la
domanda corretta da porsi non è tanto se le migrazioni sono un problema per la sicurezza
nazionale o internazionale, quanto piuttosto in quali circostanze esse lo possono
diventare. “La magnitudine e la velocità dei fenomeni migratori odierni, la crescente
criminalizzazione dei flussi, l’attraversamento di territori controllati da movimenti qaedisti e
jihadisti e l’incapacità di attuare meccanismi di regolamentazione dei flussi ha reso
l’Unione Europea, da ormai quattro anni, profondamente vulnerabile alle gravi crisi
migratorie le cui modalità generano notevoli ricadute sulla sicurezza, sia interna che
internazionale. Tale vulnerabilità può essere sfruttata anche da attori ostili, sia statuali che
non” (Quercia, 2017 ).
Ecco dunque che sono non i flussi in quanto tali, ma il contesto sociale e geopolitico
attraverso cui essi hanno luogo a determinare il livello di interconnessione tra flussi
migratori e le questioni della sicurezza internazionale, avviando un processo di
interconnessione tra dinamiche migratorie e minacce alla sicurezza. In questa logica, il
nesso sicurezza – immigrazione non è il frutto di un approccio “securitario” da parte della
sicurezza degli Stati e dei confini, come sostiene una parte (es. Weaver, 1995) – forse una
parte maggioritaria – della letteratura specializzata sui temi migratori; essa è piuttosto il
frutto delle contaminazioni che avvengono nei Paesi di origine e nei Paesi di transito.
8
Contaminazioni che possono essere tanto il frutto di un’azione da parte dei governi (in
qualche caso parleremo di una sicurezza migratoria ibrida) che da parte di attori privati e
non governativi (in tal caso parleremo di una sicurezza migratoria asimmetrica).
Nella seguente tabella abbiamo riportato una serie di parametri che, se presenti nei
Paesi di origine o transito, possono essere ritenuti elementi d’attivazione del nesso
migrazioni-sicurezza:
Elementi di attivazione del nesso migrazione – sicurezza Presenza nella rotta anatolico-balcanica
Flussi provenienti da paesi in guerra in cui operano formazioni paramilitari e guerrigliere
SI
Flussi provenienti da paesi in cui sono attivi movimenti islamisti radicali collegati e riconducibili ad al-Qaeda e allo Stato Islamico
SI
Flussi che attraversano territori controllati da organizzazioni jihadiste, terroristiche e criminali
SI
Flussi che si sovrappongono alle rotte gestite da organizzazioni di criminali dedite al traffico transnazionale di armi, droga, carburanti ecc.
SI
Flussi caratterizzati dall’attraversamento di un numero elevato di frontiere, dalla bassa capacità di intelligence migratoria e dalla materiale impossibilità di vagliare le identità delle persone
SI
Flussi provenienti da Paesi in cui le condizioni di amministrazione della giustizia e la situazione carceraria è insufficiente rispetto ai livelli di criminalità presenti nei Paesi
SI
Flussi utilizzati anche dai foreign fighters e che attraversano le rotte di entrata ed uscita dei combattenti stranieri da e per i vari teatri jihadisti
SI
Paesi di origine o transito caratterizzati da una postura geopolitica antagonista rispetto a quella europea, scarsa collaborazione a livello di intelligence e bassa capacità di gestione delle crisi umanitarie e migratorie
SI
Presenza di fenomeni diffusi di radicalizzazione all’interno dei Paesi attraversati dai flussi migratori
SI
La nostra valutazione è che tutti questi elementi individuati sono presenti all’interno
della rotta anatolico-balcanica ed essi, integrandosi e cumulandosi tra di loro, hanno
contribuito a rendere la crisi migratoria degli anni 2014 – 2015, anche in funzione della
enormità dei flussi, una questione di sicurezza nazionale per gli Stati interessati.
9
In questa parte introduttiva vogliamo sottolineare che il nesso migrazioni – sicurezza,
dal punto di vista italiano è ben evidente dall’esperienza della crisi libica che si è
sviluppata nel corso degli anni duemila. In quel decennio, infatti, il regime di Gheddafi ha
spesso fatto ricorso all’utilizzo dello strumento migratorio per premere strategicamente
sull’Italia e condizionare il negoziato politico e le condizioni del riavvicinamento tra Roma e
Tripoli. Questa situazione è evidente se si osserva il flusso degli sbarchi di migranti
provenienti dalla Libia negli anni 2005 – 2007.
Il 2005 rappresenta l’anno di massima crisi migratoria per l’Italia dal secondo
dopoguerra, quando, per via degli sbarchi provenienti dalla Libia, il numero di ingressi
illegali sul territorio italiano ha superato le 20.000 unità (22.824 solo quelle provenienti
dalla Libia). Negli anni successivi, dopo l’avvio del processo di sdoganamento della Libia e
dell’apertura dei negoziati con l’Italia per la negoziazione di un Trattato bilaterale di
amicizia e cooperazione, il numero di sbarchi scende progressivamente. Nel corso del
2008, però, l’anno in cui fu firmato finalmente il Trattato di Bengasi, si assistette
all’esplosione del numero di migranti illegali sbarcati nel nostro Paese, che superarono le
34.000 unità. Il surge negli sbarchi è chiaramente da mettersi in relazione con le difficoltà
intervenute nel negoziato con l’Italia (Trupiano, 2016) ed esso è stato chiaramente
orientato ad influenzare la decisione italiana di accettare le condizioni economiche imposte
da Gheddafi, sulla cui accettazione il governo italiano tentennava. Una conferma di ciò è
rappresentata dal fatto che l’anno successivo alla stipula del trattato di Bengasi, il numero
di sbarchi provenienti dalla Libia è drasticamente crollato, passando dai 34.000 del 2008 ai
9.000 del 2009 e quindi ai 3.000 del 2010.
Tabella 1 Gli sbarchi in Italia via mare dal 2004 al 2010
2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010
12.000 20.000 12.000 20.000 35.000 9.000 3.000
Il caso della crisi migratoria libica, anticipazione della crisi migratoria balcanica,
dimostra con chiarezza la sovrapposizione dei flussi migratori con le vicende politiche
bilaterali, la rilevanza strategica che essi assumono nel contesto delle relazioni con Paesi
in presenza di questioni irrisolte politiche e di sicurezza. Dal caso libico si possono
tipicizzare le seguenti fasi che possono caratterizzare una crisi migratoria guidata
politicamente da finalità strategiche:
10
fase “fisiologica”, caratterizzata da un normale flusso di immigrazione irregolare
attraverso i confini operato da trafficanti e da un normale mercato del contrabbando e
del traffico illecito, solo parzialmente contrastato dalle autorità nazionali del Paese di
transito. Questa fase è alimentata dal normale flusso di entrata / uscita dei cittadini
migranti stranieri presenti illegalmente in un Paese di transito;
fase “aggressiva”, in cui le autorità del Paese di transito riducono le operazioni di
contrasto ai traffici in uscita e spingono i migranti, solitamente illegalmente presenti
nel Paese, attraverso forme diverse di pressioni o vessazioni, ad abbandonare il
Paese. La fase aggressiva è abbinata a un obiettivo strategico politico – diplomatico,
spesso ravvisato all’interno di un negoziato in corso e volta a migliorare il potere
negoziale del Paese di transito. Affinché essa funzioni il Paese di transito deve avere
la capacità tanto di provocare un surge nelle partenze quanto di bloccarle riportando
il flusso ad una situazione di normalità;
fase di “riassorbimento”, in questa fase il Paese di transito ripone in atto le funzioni di
controllo delle proprie frontiere in uscita, portando ad un rapido declino nel numero
dei migranti. Ciò può avvenire attraverso attività di polizia contro le organizzazioni dei
trafficanti o di un normale controllo degli attraversamenti di frontiera. Questa fase
spesso segue la sottoscrizione di accordo di natura onerosa tra il Paese target ed il
Paese di transito.
È importante sottolineare che i Paesi in grado di esercitare il maggior utilizzo
strategico dei flussi migratori illegali sono i Paesi di transito più che i Paesi di partenza. I
primi, difatti, non sono Paesi in cui si originano i flussi ma sono Paesi in cui lo stock di
migranti illegali interno è un differenziale tra i flussi in entrata ed i flussi in uscita. Quando
un Paese è in grado di controllare sia i flussi in entrata che i flussi in uscita può
accumulare all’interno del Paese un stock di migranti illegali che può essere utilizzato
come uno strumento di pressione demografica. Questo potere di minaccia asimmetrica
contro la sicurezza dello Stato target può essere più efficacemente utilizzato da un Paese
di transito che non da un Paese di origine.
Questo perché il Paese di origine ha spesso difficoltà a controllare i flussi in uscita.
Difatti, un Paese in cui - per motivi politici, bellici, umanitari, economici o di altra natura –
ha una pressione di popolazione che preme per abbandonare il Paese per cause interne,
ha oggettivamente delle difficoltà a controllare i confini e ad adottare politiche restrittive di
controllo dei flussi in uscita. Una tale politica, difatti, porterebbe a gravi problemi di stabilità
11
e di sicurezza interni allo Stato d’origine che normalmente impedisce al Paese di partenza
di ottemperare agli accordi di controllo dei flussi. Al contrario i Paesi di transito - in cui la
maggior parte dello stock illegale della popolazione presente internamente non è d’origine
del Paese ma proviene da altri Paesi contermini - possono con maggiore facilità entrare in
accordi con i Paesi di destinazione in quanto il loro stock di migranti irregolari presenti non
è prodotto della stessa società ma è conseguenza della politica migratoria attuata dal
Paese. Questo vuol dire che quando un accordo con i Paesi di destinazione è abbinato
con un accordo (o con politiche restrittive di controllo dei confini) con i Paesi da cui
provengono i flussi, il Paese di transito non paga in termini di stabilità interna gli accordi di
controllo dei flussi, ma bilancia il mancato outflow con una riduzione dell’inflow. Esso ha
cioè la possibilità di mantenere netto il saldo dei flussi migratori, adottando una politica di
apertura degli ingressi / apertura delle uscite o adottando una politica di controllo delle
uscite / controllo degli ingressi. Ovviamente Paesi di carattere autoritario e non soggetti a
controlli degli standard dei diritti umani hanno maggiore libertà di manovra e possibilità di
attuare le proprie politiche espansive o restrittive dei flussi in minor tempo e con minori
costi rispetto a Paesi occidentali. Esistono comunque per tutti i Paesi del mondo condizioni
(magnitudine, velocità, connessioni etnico-politiche-religiose) che pongono diverse
limitazioni alle capacità di controllo dei confini anche da parte dei Paesi che hanno la
volontà di restringere l’accesso ai propri confini.
Ovviamente, quando in questo studio viene considerato che i flussi migratori
possono rappresentare un problema per la stabilità o la sicurezza di un Paese, non si
vuole intendere che è il fenomeno migratorio in quanto tale a rappresentare una minaccia,
di tipo etnico o identitario, alla società di destinazione. Si vuole però sottolineare che sono
le modalità con cui i flussi irregolari hanno luogo che rappresentano un potenziale
problema di sicurezza per le società di destinazione. Ciò è in buona parte il frutto della
magnitudine dei flussi, che comporta problemi logistici, alimentari, sanitari ed organizzativi
non trascurabili, delle situazioni di violenza che caratterizzano molti dei Paesi di
provenienza e del fatto che i flussi stessi sono determinati, regolati e gestiti da
organizzazioni criminali e violente.
L’accoglienza e la sistemazione di migliaia, in alcuni casi decine di migliaia di
persone al giorno, rappresenta una sfida per la protezione civile ed assistenza umanitaria
non trascurabile. Ad essa si aggiungono i problemi di ordine pubblico che derivano dalla
gestione di masse così elevate di persone sia in considerazione del livello sociale –
culturale di provenienza, sia del fatto che molto spesso è assolutamente impossibile
risalire alle reali identità o nazionalità dei migranti: secondo alcune informazioni comparse
12
sulla stampa durante la crisi migratoria, sono centinaia di migliaia le persone entrate in
Germania, durante la crisi migratoria, senza alcun documento d’identità o con documenti
d’identità falsi o contraffatti (normalmente falsi documenti d’identità siriani)1. Questo vuol
dire che ci vorranno anni per identificare reali nominativi e nazionalità delle persone
entrate in Germania durante questa crisi. La questione della mancata conoscenza delle
identità delle persone entrate illegalmente in Europa rappresenta senza dubbio uno dei
principali problemi di sicurezza connessi alla crisi migratoria, come è stato ammesso dal
responsabile di Frontex, Fabrice Leggeri, che ha dichiarato che “The big inflows of people
who are currently entering Europe unchecked are of course a security risk”2. Tale rischio è
ovviamente accresciuto dal fatto che, secondo alcune informazioni giornalistiche che
citano fonti di intelligence, lo stesso Stato Islamico, che controlla le aree da cui
provengono la maggior parte dei migranti, abbia tanto gestito un commercio in nero di
documenti contraffatti, quanto sia entrato in possesso di decine di migliaia di passaporti
iracheni e siriani e di macchinari per la loro produzione in occasione della presa del potere
in vari centri urbani della Siria e dell’Iraq3.
Il flusso migratorio rapido ed incontrollato di un elevatissimo numero di persone, la
cui identità in molti casi è ignota si è naturalmente riflesso in Germania in un aumento dei
reati criminali di cui sono responsabili o vittime i migranti arrivati in Germania nel 2015 –
2016 seguendo la rotta balcanica. Questi dati si evincono dal rapporto annuale pubblicato
dalla Direzione della Polizia Criminale4 (BKA, Bundeskriminalamt) che nel rapporto
annuale per il 2016 registra un aumento drastico del numero di atti criminali commessi da
migranti (174.438, +52,7%). Secondo il rapporto, circa l’8% del totale dei crimini commessi
in Germania nel 2015 sono stati commessi da migranti (non da stranieri residenti) che
sono stimati in circa 2.000.000 di persone5. Secondo il ministro degli interni tedesco il dato
è cresciuto disproporzionatamene nel corso del periodo 2015 – 2016. Allo stesso tempo
sono aumentati nel Paese sia il numero di attacchi contro gli stranieri che il numero di
crimini motivati da motivazioni islamiste (+ 13,7%).
1 Vedi ad esempio, Rebecca Perring, Germany migration crisis turns into a nightmare as 80% of refugees have no documents, Express, 9 giugno 2016.
2 Reuters, EU border agency warns of risks from fake passports: reports, 20 dicembre 2015.. 3 Rebecca Perring, Germany migration crisis turns into a nightmare as 80% of refugees have no
documents, Express, 9 giugno 2016. 4 Bundeskriminalamt, Polizei Kriminalstatistik 2016, 24 aprile 2017. www.bka.de 5 Lewis Senders, Two Million: Germany records largest influx of immigrants in 2015, Deutsche
Welle, 21.3.2016.
13
È dunque chiaro che il contesto, le modalità e la magnitudine dei flussi che hanno
caratterizzato il biennio 2014 – 2015 ha comportato, come mai in precedenza, un
rafforzamento del nesso esistente tra flussi migratori e questioni di sicurezza. Il legame tra
migrazioni e sicurezza è stato a lungo un fenomeno poco studiato e poco valorizzato, in
quanto si è ritenuto per molti anni che i fenomeni migratori fossero sostanzialmente dei
fenomeni di natura socio-economica e che gli aspetti di sicurezza fossero marginali per le
società di destinazione, prevalentemente limitati agli episodi di micro-criminalità. La
questione è parzialmente cambiata dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 in America
che portò i Paesi europei e gli stessi USA a modificare le proprie politiche migratorie, fino
ad allora improntate ad una sostanziale politica del “laissez faire” ed una certa tolleranza
rispetto alla violazione delle norme sull’immigrazione. Risalgono a quegli anni le prime
leggi che mirano a regolarizzare e far emergere gli stranieri residenti in molti Paesi europei
(in Italia in particolare ciò fu rappresentato dalla sanatoria del 2002, con cui furono
regolarizzati oltre 700.000 stranieri). Gli attentati di Londra e Madrid del 2004 hanno
ulteriormente spinto ad un irrigidimento dei controlli, così come la crisi migratoria che si
registrò nel 2005 – 2006, interessando prevalentemente la Spagna ed il Marocco6. Allo
stesso anno risalgono i primi accordi tra Italia e Libia in merito al rimpatrio dei migranti
africani sbarcati sulle coste italiane provenienti dalla Libia.
Se per tutto il decennio che ha fatto seguito agli attacchi dell’undici settembre e
all’addio alla war on terror si è assistito ad un continuo processo di maggiore attenzione
agli aspetti di sicurezza interna nella gestione dei flussi migratori, non si può dire che sia
stato stabilito un forte nesso tra sicurezza e migrazione. Si parla solitamente di un
processo di securizzazione delle politiche migratorie, espressione con cui, al di là
dell’accenno polemico che viene normalmente destinato a tale concetto, si indica la
progressiva inclusione di misure di sicurezza o restrittive nella programmazione o nella
gestione dei flussi.
Il contesto si sarebbe ulteriormente modificato con l’avvio delle primavere arabe e gli
impressionanti sommovimenti prodottisi che hanno lasciato molte società della sponda
Sud del Mediterraneo nel caos. Ma questi cambiamenti rappresentavano ancora i
prodromi dei grandi rivolgimenti di sicurezza che stavano per avvenire nell’area e che
hanno radicalmente mutato il contesto geopolitico in cui avvengono i flussi migratori verso
l’Europa, aumentando ulteriormente e significativamente il livello di insicurezza dei flussi
migratori verso l’Europa.
6 Sonia Phalinkar, Europe gets tough on migrant crisis, Dutsche Welle, 7.10.2005
14
Tre sono sostanzialmente i fenomeni che hanno contribuito a trasformare la natura dei
flussi migratori verso l’Europa a causa della trasformazione della situazione politica e di
sicurezza dei territori attraversati: l’esplosione della guerra civile in Siria, la saldatura del
conflitto siriano con il conflitto iracheno, l’ascesa dello Stato Islamico e la guerra civile in
Libia.
Il dibattito dei rapporti tra migrazioni e sicurezza avviato negli anni novanta e che ha
visto prevalere inizialmente la visione economico-umanitaria dei processi migratori con la
prevalenza della human security sulla State – security si è evoluta nel corso dell’ultimo
ventennio, portando sempre più elementi al campo di coloro che sostengono un approccio
politico strategico ai fenomeni migratori, che integri la dimensione della human security
con quella della State – security. Nel nostro approccio, entrambe queste due dimensioni
sono ricomprese nel concetto di sicurezza migratoria, che così definiamo: “la sicurezza,
quella migratoria, è quella condizione in cui un determinato Stato riesce a gestire in
maniera ordinata, regolare e conforme alle proprie leggi le pressioni migratorie che si
sviluppano sui suoi confini e che provengono o hanno attraversato paesi instabili, insicuri,
a bassa statualità ed in cui sono presenti organizzazioni criminali transnazionali e jihadiste
o attori statuali ostili alla sicurezza nazionale”. Ci pare evidente che il carattere anarchico
delle crisi migratorie attuali e di quella balcanica e il ruolo avuto dalle infrastrutture
criminali che le rendono possibili hanno messo l’una contro l’altra due importanti categorie
della sicurezza nazionale contemporanea: la sicurezza umana dei migranti e la sicurezza
degli Stati. Questo scontro tra due dimensioni della sicurezza rappresenta un grave
pericolo e se tale dicotomia non verrà superata, ai problemi per la sicurezza interna degli
Stati membri si sommeranno i problemi per la sicurezza che deriveranno dalla crisi della
stessa architettura di sicurezza europea. La rotta migratoria anatolico-balcanica verso
l’Europa, ma anche le altre rotte migratorie che puntano direttamente all’Italia, sono oggi
chiaramente caratterizzate da una duplice insicurezza: quella dei migranti e quella degli
Stati. Nelle attuali rotte che portano migranti verso l’Europa, quella del Mediterraneo
centrale e quella anatolico-balcanica, il traffico di essere umani si è configurato attraverso
un inaccettabile modello distorsivo che ha ormai poco o nulla a che fare con i fisiologici
fenomeni migratori e spesso rappresenta una illogica torsione dei meccanismi giuridici di
protezione dei rifugiati.
15
La sicurezza migratoria va dunque letta come un bene comune, che necessita il
bilanciamento degli interessi di molteplici stakeholder di natura diversa. Per raggiungere
questo equilibrio è necessario superare l’approccio della sicurezza umanitaria vs la
sicurezza degli Stati in favore di un concetto di sicurezza migratoria che contemperi
entrambe queste due dimensioni. Questo può essere fatto solo attraverso l’adozione di
una serie di misure che inizino con la riduzione dei volumi dei flussi: ciò vuol dire passare
dalle attuali migrazioni insicure per gli uomini e per gli Stati a un sistema di migrazioni
ragionevolmente sicure per entrambi.
16
CAPITOLO 1 - CONCETTI FONDAMENTALI DELLA SICUREZZA MIGRATORIA E ANALISI DEL CORRIDOIO BALCANICO-ANATOLICO VERSO L’EUROPA
1.1 Gli antesignani della sicurezza migratoria: gli studi di Weiner e Greenhill
Uno dei primi studiosi a lavorare sui concetti di analisi strategica dei flussi migratori è
stato Myron Weiner, già capo della Commissione ricerca e consulenza del UNHCR e uno
dei pionieri negli studi sulla sicurezza migratoria con i suoi lavori del 1992e del 2001 sulle
connessioni tra flussi migratori, conflitti e sicurezza. Le analisi di Weiner si svolgono agli
inizi degli anni novanta e all’autore era già evidente come i processi migratori verso
l’Europa sarebbero divenuti un fenomeno di magnitudine crescente e che presto le masse
di persone desiderose di lasciare il proprio Paese sarebbero divenute superiori alla
capacità e alla volontà di accoglienza da parte delle società avanzate. Se l’accoglienza
degli anni novanta era in primo luogo mossa da motivazioni di carattere economico e
sostanzialmente priva di ogni riferimento o connessione con le tematiche di sicurezza,
mano a mano che i flussi si sarebbero ingrossati e si sarebbero connessi con le principali
questioni della sicurezza internazionale ciò avrebbe prodotto una crescente riluttanza da
parte dei Paesi target ad accogliere quantità crescenti di migranti. La valutazione di
Weiner era sostanzialmente che il cambio dell’atteggiamento da parte degli Stati verso i
flussi migratori sarebbe avvenuto non per motivazioni di carattere economico, ma piuttosto
per motivi sempre più di natura politica e di sicurezza nazionale. Weiner è stato il primo
studioso di rilievo a teorizzare la crescente rilevanza della dimensione politico-strategica
nel campo delle migrazioni internazionali, sostenendo la necessità di affiancare la chiave
d’interpretazione socio-economica delle migrazioni con un nuovo schema basato sulle
categorie della sicurezza e della stabilità. I fluissi migratori sarebbero nel tempo divenuti
insicuri e fonti di insicurezza e pertanto i vari governi dei Paesi destinatari avrebbero
dovuto porsi progressivamente il problema di come essi sono connesse con i temi della
stabilità interna e della sicurezza internazionale.
L’importanza degli studi di Weiner risiede nel fatto che egli è stato probabilmente
l’antesignano di un approccio olistico allo studio dei fenomeni migratori che mette al centro
della sua analisi – che è di carattere politico strategico e non economicista o giuridico -
l’analisi politica e di sicurezza non solo come fattore di studio delle cause delle partenze
dai Paesi di origine, ma anche come problema nei Paesi di arrivo.
Con questo approccio, il politologo americano getta le basi per un approccio
integrato allo studio dei flussi migratori che proceda lungo un duplice binario, socio-
economico e politico-sicurezza.
17
Difatti se i flussi migratori sono analizzati e giudicati solo dall’uno o solo dall’altro degli
approcci essi possono dare origine a valutazioni differenti sul costo/beneficio di un
determinato flusso migratorio7. Weiner sostiene che per una opportuna analisi strategica
essi vadano utilizzati in parallelo, affinché il decisore politico possa giungere ad una
corretta e sostenibile valutazione dei costi-benefici di accogliere o meno, con quali
precauzioni ed in quali modalità, uno specifico flusso migratorio. Lo studio del fattore
politico e di sicurezza porta ovviamente a concentrarsi su specifici aspetti della genesi dei
flussi migratori, quali le emigrazioni forzate e indotte con la coercizione o il ruolo di
opposizione politico/militare di una diaspora nei confronti del regime di provenienza e
come esso può influire sulla politica estera di un Paese. Weiner, anche perché i suoi lavori
sul tema sono concentrati tra il 1989 ed il 1999, dà poca attenzione agli aspetti più
asimmetrici della sicurezza migratoria, come quelli relativi al ruolo giocato dalla criminalità
organizzata e dalle organizzazioni proto-statuali di stampo jihadista. Fenomeni che, nel
primo decennio post 1989 erano ancora marginali e poco rilevanti, essendosi intensificati
solo successivamente con l’erosione della sovranità di molti Stati deboli dell’area del Nord
Africa e del Medio Oriente.
Weiner si concentra piuttosto sulle forme di organizzazione politico, militare e anche
terroristica di segmenti delle diaspore nei Paesi di destinazione. Ciò è conseguenza del
fatto che la concessione dello status di rifugiato si basa solitamente sull’esistenza di una
situazione di persecuzione e oppressione dei richiedenti asilo che ha come corollario una
sorta di diritto morale alla resistenza e di legittimità di promuovere il “regime change”.
Le condizioni favorevoli allo sviluppo di una opposizione organizzata ai regimi e ai governi
di provenienza (la protezione politica, l’utilizzo dell’accesso ai media liberi e l’inserimento
della diaspora in un’economia a cui attingere risorse economiche per le attività di
opposizione) consentono di strutturare forme di resistenza che, in alcuni casi, possono
produrre un conflitto tra Stato ricevente e Stato di origine8.
7 Negli esempi portati a sostegno della sua teoria Weiner sostiene che a volte è proprio il framework politico-sicurezza a spingere un governo o uno Stato ad accettare un flusso migratorio per il quale il Paese ricevente non avrebbe un vantaggio economico netto. Ciò accade ad esempio ogni qualvolta uno Stato accoglie dei rifugiati da un altro Stato con cui è in conflitto con l’obiettivo di favorire l’insediamento di una diaspora dissidente. È una politica a cui gli Stati hanno sempre fatto frequentemente ricorso e la sua attualità è dimostrata dalla politica turca nei confronti dei profughi arabo-siriani nel conflitto tutt’ora in corso.
8 Alcuni esempi di questo tipo di connessioni tra migrazioni e sicurezza attraverso i casi di politicizzazione militante della diaspora sono rappresentanti dal caso dei rifugiati cubani negli USA, di quelli afghani in Pakistan, di quelli iraniani in Francia (che poi, avvieranno la rivoluzione islamista contro lo Scià), di quelli palestinesi nei Paesi arabi, fino ai casi contemporanei delle diaspore libiche, curde, kosovare e siriane in Europa.
18
Ovviamente le comunità delle diaspore maggiormente composte da rifugiati rispetto
a quelle composte da migranti economici erano, in teoria, maggiormente propense a
sviluppare forme di opposizione armate che potevano mettere in difficoltà i rapporti
bilaterali con i Paesi di origine, che possono giungere fino all’internazionalizzazione dei
conflitti domestici all’estero, anche con divisioni all’interno delle stesse comunità migranti.
Su queste basi Weiner individua cinque livelli di problemi di sicurezza legati alle questioni
migratorie: per il Paese di provenienza; per il Paese di destinazione; per le relazioni
bilaterali tra i due Paesi; per la sicurezza economica e sociale per il Paese di arrivo; come
strumento di destabilizzazione da parte del Paese ospitante verso il Paese di provenienza.
Al decennio successivo risalgono invece i lavori della studiosa americana Kelly M.
Greenhill, che appartiene al filone dell’individuazione delle “new security challenges” nel
nuovo contesto post 9/11, che mirano a identificare gli aspetti trasformativi dei “war
studies”. È in questo contesto culturale, già più orientato alla sicurezza rispetto a quello in
cui operava Weiner, che la Greenhill analizza le migrazioni avvenute dalla seconda guerra
mondiale al 2006, concludendo che la gran parte di questi fenomeni migratori di massa
non sono il frutto di fisiologici spostamenti di masse di individui, bensì il frutto di forme di
coercizione da parte di attori prevalentemente pubblici (ma anche privati). Secondo
Greenhill molti di questi attori mettono in atto delle forme di migrazione coercitiva con lo
scopo di raggiungere obiettivi politici o economici che non riuscirebbero a raggiungere con
metodi militari a causa della loro debolezza. Nel suo studio la Greenhill analizza 60 casi di
migrazioni di massa in cui identifica un soggetto denominato coercer e un altro soggetto
denominato target. Il coercer provoca (o minaccia di provocare) o comunque facilita in
maniera significativa una crisi migratoria che produce un problema di sicurezza allo Stato
target, con l’obiettivo di raggiungere un risultato politico strategico. Molto spesso questo
tipo di obiettivo è di tipo economico/finanziario, mentre in altri casi è di tipo ideologico o
territoriale.
Dagli studi della Greenhill emerge che la maggior parte delle crisi migratorie è
coronata da successo in quanto circa il 70% dei coercer hanno raggiunto tutti o la maggior
parte dei loro obiettivi. Non sempre i coercer sono Stati ma, sempre più spesso, essi sono
anche soggetti non statali; nel caso in cui sono Stati essi sono normalmente più deboli dei
target, spostando la conflittualità sul piano asimmetrico, in questo caso utilizzando delle
pressioni demografiche pianificate (Greenhill, 2010).
19
La seguente tabella è presa da un articolo della Greenhill del 2010, in cui vengono
identificati 34 casi di “strategic engineerd migration9”.
Tabella 2 – Le migrazioni provocate per fini strategici
Year Challenger/
Coercer Principal Target(s)
Principal Objective(s)
Outcome
1989-90s Vietnam (O) EC, United
States Political-diplomatic
recognition; aid Success
1990-92 Saudi Arabia (G) Yemen Change position on Gulf War/Iraq
Failure
1990s- Israel (AP/O) Palestinians Relinquish claims
on Jerusalem Failure (so
far)
1991-92 United States (O) Israel Stop settlements
in Occupied Territories
Partial Success
1990-91 Albania (G) Italy Food aid, financial
credits & other assist.
Success
1991 Albania (G) Italy EC Financial aid Success
1990-94 Albania (G) Greece Financial aid Success
1991 Poland (G,/AP) EC, United
States Debt relief; financial aid
Indeterminate
1990 Ethiopia (G) Israel Monetary payoff Success
1991 Turkey (O) United States Humanitarian-
military intervention
Success
1992-94 Jean-Bertrand Aristide (AP)
United States Return to power; US military int.
Success
1992-95 Bosniaks (G/AP) UN Security
Council
Troop presence; air evacuation
Partial Success
1994 Poland (O) Germany Monetary payoff Success
1994 Cuba (G) United States Regularized
immigration, etc. Success
mid 90s Zaire (O) Largely US, France and
Belgium
Political-diplomatic recognition, aid
Success
1995 Libya (AP/O) Egypt
Lifting of sanctions; shift in
policy towards Palestinians
Failure
mid 90s North Korea (G) China Financial aid,
political support Success
9 La Greenhill definisce gli “strategic engineered movements” come movimenti di popolazione attraverso i confini che sono artificialmente creati o manipolati con l’obiettivo di produrre concessioni politiche, militari o economiche da uno o più Stati target.
20
1997 Albania (G) Italy Military
intervention Success
1998 Turkey (G) Italy Support/Punishme
nt re: EU bid Indeterm.
1998-99 Kosovar Albanians
(AP) NATO
Military aid, intervention
Success
1998-99 FRY (G)
NATO, Espana,
Germany, Greece and
Italy
Deterrence, then compellence
Failure
1998-99 Macedonia I (O) NATO Financial aid Success
1999 Macedonia II (O) NATO Financial aid Success
2001-03 Nauru (O) Australia Financial aid Success
2002 Belarus (AP) EU Diplomatic
recognition; aid Failure
2002-05 Activists/NGO network (AP)
China Policy shift on NK;
regime collapse Failure
2002-05 Activists/NGO network (AP)
South Korea Policy shift on NK;
regime collapse Failure
2002-06 North Korea (NK)
(G) China
Continued diplomatic support
& aid Success
2004 Nauru (O) Australia Financial aid Success
2004 Haiti (G) United States Military assistance Failure
2004 Belarus (AP) EU Financial aid Failure
2004 Libya (AP) EU Lifting of sanctions Success
2004-05 Chad (G) UN Security
Council Military/political
intervention Indeterminate
2006
Libya (AP/O) EU Financial aid Partial
Success Tratto da K. M. Greenhill, Weapons of Mass Migration (2010). G = Generator; AP = Agent
Provocateur; O = Opportunist; SR = Short Run; LR = Long Run.
21
1.2 Il nesso crisi migratoria-sicurezza ed il concetto di sicurezza migratoria
A nostro avviso sia gli studi di Weiner che della Greenhill affrontano una parte del
dilemma della sicurezza migratoria, ma mancano di cogliere le novità intercorse dopo
l’esplosione delle primavere arabe, il collasso della statualità in Africa, la destrutturazione
del Medio Oriente, il proliferare dei failed states, l’emersione dello Stato Islamico e il
dilagare del gangster-jihadismo in un’ampia area del Sahel. Riteniamo che oggi, in primo
luogo, per poter correttamente inquadrare il fenomeno della sicurezza migratoria
dobbiamo prestare attenzione ed analizzare tre differenti dimensioni geografiche: Paesi di
origine, Paesi di transito e Paesi di destinazione. Questa tripartizione geografica è
riassunta nel seguente schema:
Livello geografico
Definizione Descrizione Rischi per la sicurezza
Sicurezza
migratoria nei
Paesi d’origine
Il livello della sicurezza
interna negli Stati di origine
che può fungere da push
factor dei flussi migratori,
determinandone tempi e
quantità.
Guerre o conflitti interni,
Stock di IDPs, presenza
di proto-stati jihadisti,
livello della protezione
degli sfollati ed IDP;
Sistematica violazione
dei diritti dell’uomo;
sicurezza economica ed
alimentare.
Il livello dei vari tipi di violenza
ed insicurezza nei Paesi di
origine determina quantità e
velocità dei flussi, nonché
attiva in occidente i
meccanismi di protezione
umanitaria.
La direzione geografica dei
flussi non è invece
direttamente collegata
all’insicurezza dei Paesi
d’origine ma ad altre variabili
(geografia, rapporti politici,
affinità culturali, politiche di
attrazione, presenza di campi
profughi gestiti da OI etc.)
22
Sicurezza
migratoria nei
Paesi di transito
Il livello della sicurezza
lungo le rotte e gli Stati dei
Paesi di transito.
Ruolo della criminalità
organizzata e delle
organizzazioni di
trafficking e smuggling;
politiche di accoglienza
dei Paesi di transito e
possibilità di
concessione dello status
di rifugiato; presenza e
capacità dell’UNHCR
nel gestire i campi
profughi;
attraversamento di aree
controllata da formazioni
jihadiste
Le modalità del viaggio e
l’attraversamento di aree di
conflitto o fuori dal controllo
degli Stati, le modalità di
attraversamento dei confini, la
sicurezza umana dei migranti
e le forme di schiavitù, il ruolo
della criminalità organizzata, i
meccanismi finanziari, la
commistione con i flussi
jihadisti, il pagamento di tasse
ad organizzazioni jihadiste, il
livello di corruzione delle
autorità dei Paesi di transito
sono alcuni dei fattori che
influenzano in maniera
determinante la qualità dei
flussi ed il loro maggiore o
minore rischio per la
sicurezza.
Sicurezza
migratoria nei
Paesi di arrivo
Il livello della sicurezza
interna degli Stati di arrivo
dei flussi.
Qui i flussi in arrivo si
mescolano con le
questioni già esistenti di
homeland security o
urban security connesse
ai fenomeni migratori
La radicalizzazione delle
comunità delle diaspore, la
presenza di organizzazioni
criminali che
gestiscono/finanziano i flussi
migratori, l’azione di
movimenti xenofobi, le
strategie di inclusione e di
integrazione, le capacità di
screening dei flussi e la
gestione dei rimpatri per i non
aventi diritto
Il nostro approccio al problema della sicurezza migratoria si basa sulla distinzione tra
tre livelli di carattere geografico / funzionale, distinguendo tra Paesi di provenienza,
transito e destinazione. Tale distinzione, che riteniamo importante al fine di derivare le
varie dimensioni della sicurezza, è però una divisione che va costantemente tenuta
aggiornata in quanto i ruoli e le collocazioni dei vari Paesi nella filiera migratoria cambiano
e si mescolano, anche rapidamente.
23
Difatti, la distinzione tra Paesi di transito e Paesi di destinazione è spesso una distinzione
speciosa, in quanto molti Paesi di transito potrebbero essere considerati, rispetto ai
parametri di sicurezza ed economici, come safe third countries valide alternative alla
situazione di conflitto o grave violazione dei diritti umani. Come, ad esempio, la Turchia lo
è per i siriani, per i somali o per gli afghani. Così come, anche i Paesi di destinazione e di
immigrazione possono divenire, al mutare delle condizioni politiche, sociali ed
economiche, Paesi di transito. Limitandoci alla rotta balcanica, questo è stato il caso della
Grecia e della Turchia. Interessante il caso della Grecia, divenuto Paese di attrazione di
immigrazione nel contesto del crollo dei regimi comunisti, allargando successivamente il
bacino di immigrazione al mondo mussulmano e all’area medio-orientale e asiatica e
divenendo, dopo il crollo economico del 2007, il principale Paese di transito ed esportatore
di immigrazione irregolare verso l’Europa. In meno di un decennio la Grecia è di fatto
divenuta da principale Paese di attrazione di immigrati da un’ampissima regione del
pianeta a principale snodo di transito delle migrazioni illegali verso l’Europa.
Detto questo, procediamo con una breve descrizione di quali sono gli aspetti della
sicurezza che attengono a ciascun livello.
Il primo livello, quello connesso alla sicurezza interna, si concentra sui rischi, per la
stabilità sociale e per l’ordine pubblico interno, connessi a rapidi, enormi, illegali e non
pianificati flussi di popolazioni straniere in arrivo. Qui l’azione chiave è quella dello
screening dei flussi, la capacità cioè di identificare velocemente i soggetti pericolosi
socialmente, quelli già radicalizzati o a rischio radicalizzazione, quelli che hanno
esperienze paramilitari, quelli che sono collegati ad organizzazioni criminali e che
hanno contratto debiti con esse per potere finanziare il loro viaggio verso l’Europa. La
seconda dimensione è invece quella dell’integrazione, legata cioè alla necessità di
costruire dei meccanismi di adattamento delle diverse culture e identità dei migranti alla
società ricevente, sia sul piano individuale che di gruppo. Questa è una sfida
estremamente complessa e di lungo periodo, dagli esiti incerti10 e che consiste di patti
sociali che prevedano quali siano i diritti e gli obblighi delle nuove comunità straniere e
le modalità del loro accesso ai servizi sociali e al welfare.
10 Ciò è particolarmente evidente nei Paesi dell’Unione Europea che per primi hanno avviato la costruzione di società multiculturali basate sull’integrazione di culture ed identità differenti, come Germania, Francia, Belgio, Svezia e Gran Bretagna. Nel 2010 i capi di governo di Francia, Gran Bretagna e Germania hanno tutti e tre dichiarato, indipendentemente e pubblicamente il fallimento del modello multiculturale nei loro rispettivi Paesi. Sul piano scientifico, la crisi del multiculturalismo in Europa è stata affrontata, tra gli altri, da Rita Chin, (Chin, 2017).
24
Ovviamente la mancata integrazione costituisce la base per la nascita di nuovi problemi
di sicurezza all’interno della società di accoglienza. È importante ribadire tuttavia che
una buona integrazione è possibile a partire da flussi d’immigrazione che sono stati resi
sicuri, ossia flussi che sono già stati filtrati lungo il percorso di transito,
all’attraversamento dei confini e nel successivo screening di sicurezza dopo l’arrivo, che
dovrebbe filtrare i soggetti pericolosi da un punto di vista di sicurezza da quelli che non
lo sono. Se ciò non avviene, anche per l’impossibilità di gestire quantità enormi di
persone, e prevalgono flussi anarchici e dalla ignota natura, il rischio di futuri fallimenti
dei processi d’integrazione diviene altissimo, aumentando ulteriormente il circuito della
mancata integrazione e la criminalità. Allo stesso tempo, è ben noto e studiato che
esiste una diretta connessione tra criminalità, radicalizzazione e terrorismo (Neuman,
2016), per cui la questione dell’integrazione e della mancata integrazione e le condizioni
a cui esse avvengono rappresenteranno la frontiera delle future sfide per la sicurezza
migratoria interna.
Il secondo livello, quello della sicurezza dei flussi, si concentra invece sui Paesi di
transito, che si trovano tra i Paesi di origine e i Paesi di destinazione. Questo livello di
minacce alla sicurezza è rappresentato dal fatto che la quasi totalità delle rotte terrestri
che alimentano le rotte marittime attraversano aree spesso instabili, non governate,
caratterizzate da guerre civili e da una serie di altri problemi di sicurezza come la
criminalità organizzata, la pirateria, la guerriglia, o il terrorismo. In particolare, fonte di
preoccupazione è il progressivo spostamento verso il business del traffico di esseri
umani di numerosi altri settori criminali, ed in particolare di rami importanti della galassia
jihadista e dello stato islamico, producendo la nuova realtà ibrida del gangster-
jihadismo. Principale preoccupazione di sicurezza di questo livello è la dimensione delle
royalty finanziarie che l’industria delle migrazioni illegali produce verso il mondo in
grande crescita delle organizzazioni criminali e terroristiche transnazionali. A questa
dimensione afferisce anche la questione drammatica della sicurezza umana dei
migranti e la lotta alle forme più odiose di traffico contro la volontà delle persone come
la riduzione in schiavitù, la prostituzione forzosa, il traffico di organi e il reclutamento dei
migranti nelle organizzazioni terroristiche e criminali. Tutte problematiche che sono
presenti sia nella rotta attraverso il Mediterraneo centrale che attraverso la rotta
balcanica. Un aspetto particolare della sicurezza di transito è rappresentata dal fatto
che molti Paesi interessati da flussi massicci di migranti, prima o poi tendono a divenire
25
Paesi di transito e non Paesi di destinazione, trasformando i ruoli e inserendo nuove
dimensioni di sicurezza/insicurezza nei flussi.
Il terzo livello della sicurezza migratoria è quello che studia la sicurezza nei Paesi di
origine, ricercando le cause di instabilità e insicurezza che possono aver originato o
concorso ad originare i flussi, cercando forme di assistenza o stabilizzazione con gli
Stati di partenza per ridurre le partenze. Un problema che può ovviamente essere
affrontato riducendo i conflitti, la loro letalità. La sicurezza e la sostenibilità socio-
economica dei campi profughi nei Paesi in conflitto fa parte di questo livello, così come
le attività di crisis-management. Spesso però, le missioni militari, di polizia, incluse
quelle post-conflict non hanno nel loro mandato o nel loro obiettivo politico-strategico
quello di creare le condizioni di sicurezza economica interna che impediscono la
partenza di flussi incontrollati. Lo studio delle cause di insicurezza nei Paesi di origine,
come push factors, è importante da questo punto di vista per due motivi. Da un lato
consente di programmare interventi che mirino a ridurne l’effetto, dall’altra consentono
di separare i push factors di natura militare/conflittuale da quelli di natura economica. È
difatti ben noto come le motivazioni che spingono a migrare anche dai Paesi in guerra
sono di carattere ibrido e assieme alla preoccupazione per la propria vita in un contesto
di conflitto, sempre più forti appare essere – nel mondo economicizzato delle migrazioni
contemporanee – la dimensione economica dei flussi.
Ovviamente la divisione in tre campi della sicurezza migratoria risponde
prevalentemente a dei bisogni descrittivi di studio e di analisi del fenomeno mentre un
approccio strategico deve essere sviluppato non a compartimenti stagni ma in maniera
integrata. La principale difficoltà in questo senso è quella di mettere in collaborazione le
strutture dello Stato che si occupano di sicurezza interna e quelle che si occupano di
sicurezza esterna. Ma questo è necessario in quanto le organizzazioni criminali trans-
nazionali che rappresentano l’infrastruttura del traffico dei migranti verso l’Europa si
muovono attraverso questi tre livelli, interagendo con gli Stati di origine, transito e arrivo,
divenendo un attore dalla forza para-statuale ma muovendosi in maniera asimmetrica e
irregolare. L’enorme flusso di migrazioni illegali verso l’Europa ha dato a questi attori
privatistici l’opportunità di integrare velocemente verticalmente le tre dimensioni della
sicurezza migratoria, aggiungendo un ulteriore livello di complessità transnazionale, che è
un dominio quasi esclusivo delle organizzazioni criminali, e dunque pone sfide
26
prevalentemente di law enforcement verso cui le politiche estere di sicurezza tradizionali
degli Stati non sono ben preparate.
La sfida della criminalità è ben nota agli Stati, anche se oggi essa è sicuramente più
complessa che in passato a causa della capacità della criminalità transnazionale di
aggredire Stati dalla sovranità sempre più debole e nominale. Una sfida con cui molti Stati
di transito si trovano, non solo per effetti della corruzione o per convenienza, ma perché
spesso non hanno la forza di contrastare il fenomeno e da una contrapposizione frontale
potrebbe derivare una minaccia all’esistenza stessa di essi che, senza il potere di
controllare l’accesso al proprio territorio, perdono la propria legittimità e motivazione
d’esistere. Non bisogna infatti dimenticare che “l’immigrazione illegale pone una sfida alle
autorità statuali nel momento in cui comporta la mobilitazione di vaste risorse economiche
che erodono la capacità di governo e rappresentano delle minacce effettive alla sovranità
nazionale”11.
L’accesso incontrollato, illegale, massiccio e continuativo nel territorio di un Paese di
cittadini stranieri incrina quel rapporto giuridico esclusivo a tre che esiste tra Stato, popolo
e territorio e che è alla base della legittimità costituzionale di ogni Stato sovrano, espressa
attraverso il meccanismo della cittadinanza12.
L’abilità o incapacità di uno Stato di controllare i suoi confini e regolare l’accesso dei
non cittadini al territorio nazionale è comunemente ritenuta la condizione sine qua non per
l’esistenza di uno Stato. Oltre ad essere una condizione necessaria per poter continuare
ad essere uno Stato, tale capacità di controllare l’entrata e l’uscita delle persone dal
proprio territorio è anche uno dei diritti fondamentali attribuiti agli Stati dal diritto
internazionale e ne rappresenta uno dei principi cardini. Il principio che “il controllo di chi
entra e rimane nel territorio di uno Stato è parte integrante della sovranità degli Stati” è
comunemente un principio base del diritto internazionale riconosciuto dalla stessa
Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM).
Ovviamente la percezione della sicurezza migratoria cambia da Paese a Paese a seconda
di quale ruolo nella catena migratoria esso occupa, ossia in quale dei tre livelli che
abbiamo sopra descritto si trova. In linea di massima i Paesi di transito hanno degli
interessi in comune, al di là delle differenze anche politiche, ed essi sono solitamente
11 IOM, World Migration, (2003). 12 Vedi, G. P. Freeman, The decline of Sovereignty? Politics and immigration restrictions in
liberal States in C. Jopke (a cura di), Challange to the Nation-State, Oxford University Press, 1998, e M. N. Shaw, International Law, Cambridge University Press, (1997), Global Commission on International Migration, International Organisation for Migration, (2005).
27
accomunati dal consentire i flussi senza però creare stabili obblighi giuridici e impegni, in
maniera da consentire in qualsiasi momento l’abbandono del Paese da un altro confine.
È tuttavia chiaro che, seppure frazionata in numerosi interessi nazionali spesso
contrastanti, nessuno Stato può realizzare in solitudine la propria sicurezza migratoria e la
governance del fenomeno resta complessivamente una questione multilaterale e questo
aumenta la sua complessità.
28
1.3 La differente natura delle crisi migratorie europee odierne
I flussi migratori verso l’Europa non rappresentano un fatto nuovo, ma totalmente
nuove sono le modalità, la magnitudine e le rotte con cui essi avvengono negli ultimi anni
e gli atteggiamenti strategici adottati dai Paesi di origine e transito.
Dovendo necessariamente partire da una definizione di crisi migratoria, adottiamo
nel presente studio la seguente descrizione:
“Una crisi migratoria è rappresentata da un afflusso rapido, intenso e in
violazione alle norme sull’immigrazione e ai meccanismi di circolazione previsti
da Schengen di masse di persone verso i confini europei. Affinché dei flussi
siano classificati come “crisi migratoria” essi devono essere caratterizzati da
uno o più delle seguenti dimensioni: multi-nazionalità (persone provenienti da
più continenti); carattere ibrido (migranti economici e asylum seekers);
commistione con attori dell’insicurezza le tematiche di sicurezza (criminalità
organizzata transnazionale, terrorismo, radicalizzazione, jihadismo, foreign
fighters); estrema difficoltà di screening selettivi volti a ridurre i rischi per la
sicurezza; inadeguatezza delle strutture di protezione civile, giudiziarie e di
polizia di gestire e governare con basso rischio i flussi; eccessivi oneri
economici per gli Stati di destinazione”
La posizione di questa ricerca è che non sono i flussi migratori in quanto tali o il concetto
di migrazione in sé stesso a rappresentare una crisi per i Paesi europei, ma le modalità
particolari con cui dei flussi migratori possono divenire, per la presenza dei fattori sopra
identificati nella definizione, delle crisi migratorie e, pertanto, esercitare delle pressioni
demografiche portatrici di numerosi elementi di insicurezza. È dunque fondamentale
distinguere tra i normali fisiologici flussi migratori e le crisi migratorie, che ne
rappresentano una patologia. La differenza dei flussi migratori odierni rispetto a quelli
storici (l’Europa ha comunque una storia piuttosto recente di flussi migratori in quanto fino
agli anni sessanta essi erano prevalentemente assenti fino a quando iniziarono ad essere
alimentati sia dai flussi della decolonizzazione che da quelli dei guest-arbeiter attratti dalla
ripresa economica post-bellica) è legata a un sistema internazionale che è totalmente
diverso da quello degli anni 70 e 80, da quello post 1989, ma anche rispetto a quello post
9/11. Il mix del contesto odierno in cui si sviluppano i flussi migratori è segnato da un
mondo destabilizzato della globalizzazione, caratterizzato da un forte deterioramento della
situazione internazionale, da una perdurante crisi economica, dall’esplosione del
fenomeno della radicalizzazione di parte delle diaspore in Europa e dall’allarme terrorismo,
29
dalla creazione di un proto-stato islamico jihadista in Medio Oriente e Nord Africa, dal
disallineamento della Turchia rispetto alla comunità euro-atlantica, dall’apertura di un
complesso contenzioso geopolitico con la Russia che ha visto anche l’annessione della
Crimea e l’avvio delle sanzioni europee, l’esplosione delle primavere arabe, e le guerre
civili libiche, siriane ed irachena collegate tra di loro dal disegno di stato jihadista
transnazionale. Questo
complesso mosaico di
instabilità che investe
Africa, Medio Oriente ed
Eurasia preme sul Mare
Mediterraneo, facendolo
divenire un mare verso
cui si scaricano i conflitti
e le tensioni di molte
regioni che sono andate
incontro a un processo
di destrutturazione, per
motivi di conflitto, ma
anche per fallimento dei
modelli politico sociali e delle leadership post-coloniali.
È in questo contesto, diverso da ogni altro precedente dal secondo dopo guerra, che
le migrazioni verso l’Europa cambiano la propria natura e il proprio significato, si
differenziano enormemente da quelle precedenti, la cui natura era prevalentemente
economica e sociale. Mescolandosi con le principali questioni asimmetriche aperte e
svolgendosi in un contesto di instabilità internazionale, la possibilità che i flussi migratori
odierni possano essere insicuri è certamente molto più elevata che negli ultimi decenni.
Per questi motivi ogni strategia di prevenzione della crisi migratoria, di contrasto alla
sua criminalizzazione e strumentalizzazione deve essere ripensata su nuove basi che non
si limitino al solo “governo” del fenomeno, ma anche alla sua riduzione quantitativa e alla
separazione della minacce per la sicurezza dai flussi. Questo vuol dire optare per una
politica di migrazioni sostenibile e sicura rispetto ad una insostenibile e insicura.
Figura 1 Le tre rotte convergenti verso l’Italia da Africa Occidentale,
Africa Orientale ed Asia centrale
30
1.4 Descrizione del corridoio balcanico-anatolico verso l’Europa: un’analisi comparativa.
Il corridoio anatolico balcanico va inquadrato nel contesto dei tre altri corridoi di accesso
irregolare di migranti e richiedenti asilo verso l’Europa. La pressione migratoria verso
l’Europa, in continuo aumento da diversi anni, proviene da tre diverse direttrici continentali.
Dall’Africa (tanto occidentale quanto orientale), dal Medio Oriente e dall’Asia. Queste tre
macro-direttrici di pressione demografica verso l’Europa sono attratte da una serie di
fattori socio-economici e di stabilità presenti, pur con livelli diversi, in tutti i Paesi europei.
Alcuni di essi –
come la Germania,
l’Austria, l’Olanda, il
Belgio, i Paesi
scandinavi, la
Svizzera, la Francia
- rappresentano dei
Paesi con un
coefficiente di
attrazione molto
elevato, in particolare per il mix che queste società offrono tra welfare state e opportunità
occupazionali.
È importante considerare che i vari Paesi europei, pur facenti parte della stessa area
politica e di sviluppo economico, hanno assunto, con il dilagare della crisi, dei ruoli molto
differenziati. Se di fatto tutta l’Unione Europea è un enorme pull factor di attrazione dei
migranti e alcuni tra i Paesi sono dei target particolarmente ricercati, alcuni Paesi vengono
utilizzati prevalentemente per il transito verso questi target. Quello su cui però poco si
riflette è che vi sono 3 Paesi dell’Unione Europea Spagna, Grecia e Italia che hanno un
valore particolare nella divisione dei ruoli, che non è né quello di Paese di arrivo né quello
di Paese di transito. Bensì il ruolo che essi hanno assunto all’interno delle logiche
geopolitiche stratificatesi anno dopo anno nel sedimentarsi dei flussi e nell’esplosione
della crisi migratoria è più simile a quello di “Paesi trampolino”. È importante distinguere il
ruolo dei Paesi “trampolino” rispetto a quello di semplici “Paesi di transito”. Un Paese
trampolino deve avere alcune caratteristiche particolari: trovarsi innanzitutto alle frontiere
dell’Unione Europea, prossimo alle aree di crisi o di sottosviluppo da cui provengono i
flussi di migranti; avere possibilmente una frontiera marittima, le cui particolarità rendono
estremamente arduo il controllo dei confini senza la collaborazione dello Stato di partenza;
Figura 2 Il diverso peso delle migrazioni irregolare nelle tre principali rotte
d’accesso alla UE
31
essere all’interno dell’area Schengen e il suo territorio essere integrato in una rete di
scambi intra-europei con cui raggiungere rapidamente ogni destinazione desiderata.
I paesi trampolino hanno dunque un ruolo diverso e più strategico rispetto ai normali Paesi
di transito. Essi rappresentano la prima e più indifesa zona dello spazio di libera
circolazione europeo che può essere raggiunto da più continenti. Sono dunque dei Paesi
di transito per flussi trans-continentali la cui appetibilità per i migranti e per i trafficanti è
legata non a pull factors interni ma per il fatto di essere i più facili canali d’eccesso
all’Europa e al suo spazio giuridico-economico-sociale.
Tabella 3 Una rappresentazione di alcuni Paesi europei ed extra-europei della rotta anatolico-balcanica in funzione del loro ruolo nella crisi migratoria
Paese destinazione
prioritario
Paese di
destinazione
secondario
Paese di transito Paese
trampolino
Altri Paesi
scarsamente
interessati dalla
crisi migratoria
Germania, Svezia,
Danimarca, Olanda,
Belgio, Svizzera,
Lussemburgo, UK,
Turchia.
Austria,
Francia,
Ungheria, Croazia,
Slovenia, Austria,
Bulgaria, Serbia,
Turchia.
Grecia,
Italia,
Spagna
Polonia, Romania
Non deve sfuggire il fatto che il ruolo particolare di questi tre Paesi trampolino
europei, Grecia, Italia e Spagna è legato alla loro condizione geopolitica di “peninsularità”
e “marittimità”: la penisola iberica, la penisola italica e la penisola balcanica sono difatti le
tre penisole europee che si inseriscono nel Mare Mediterraneo e avvicinano le coste
dell’Europa alle coste Africane e alla penisola anatolica; quest’ultima rappresenta a sua
volta l’estensione nel Mediterraneo del Medio Oriente e dell’Asia, mettendo di fatto in
circolare comunicazione demografica - attraverso il processo di migrazione verso l’Europa
– ben tre continenti.
Una specificazione va fatta sul ruolo di frontiera migratoria, che è un concetto
particolare. Solitamente sono Paesi di frontiera quelli che non possono, o solo difficilmente
riescono, a sottrarsi al ruolo assegnato dalla loro condizione geografica e geopolitica. Nel
caso delle crisi migratorie, abbiamo osservato come esista una sostanziale differenza
nelle capacità di controllo tra le frontiere marittime e le frontiere terrestri. Le frontiere
marittime, diversamente da quelle terrestri, sono molto più difficili da controllare a causa
della peculiarità dell’ambiente marittimo (che pone notevoli rischi dal punto di vista
operativo e umanitario), ma anche dal punto di vista politico e giuridico. Tra due Paesi che
condividono una frontiera comune non vi sono normalmente spazi geopolitici che possono
essere sfruttati dai trafficanti di uomini, dagli stessi migranti o dai Paesi contermini per
32
aggirare e mettere in difficoltà le politiche restrittive degli accesi dei Paesi su cui si esercita
la pressione demografica. Questo vuol dire che la gestione della massa di migranti
irregolari e dell’eventuale flusso di pressione demografica resta un affare bilaterale. Se un
Paese chiude le proprie frontiere terrestri (e per quanto riguarda le frontiere terrestri
questo è in molti casi materialmente possibile anche se oneroso e complesso) il flusso che
preme sul confine rimane in carico al Paese di provenienza, che si trova a dover gestire il
problema sul suo territorio. Questo vuole dire che ogni politica di chiusura o di apertura dei
confini territoriali tra due Paesi confinanti tende ad avere un carattere bilaterale e
transfrontaliero, normalmente concordato. Tranne nei casi di manifesto uso dei flussi
migratori con finalità di produrre una minaccia di natura asimmetrica, il flusso migratorio
attraverso una regione tende, nel medio termine, a mettere i vari Paesi di transito in una
modalità collaborativa, ovverosia sincronizzata: o tutti orientati ad una politica di “laissez
faire” e di tolleranza dei transiti irregolari o tutti orientati verso una politica restrittiva e di
respingimento dei flussi. La questione dei confini marittimi è invece differente. Tra i Paesi
confinanti separati da una frontiera marittima vi sono le acque internazionali che in realtà
non pongono la questione migratoria solamente in un rapporto bilaterale tra Paesi di uscita
e Paese di entrata del flusso, bensì hanno la funzione di internazionalizzare il flusso. Una
volta uscito dalle acque territoriali il flusso migratorio proveniente da un Paese viene difatti
internazionalizzato, perdendo il carattere transfrontaliero insito nel rapporto bilaterale
terrestre. L’internazionalizzazione del flusso va intesa in due sensi: da un lato nel senso
che una volta che esso entra nelle acque internazionali l’accesso al Paese di destinazione
non avviene più dal territorio dello stato contiguo, ma da una zona speciale internazionale
che è soggetta a un proprio stato giuridico, in cui vigono propri obblighi e che pone delle
impellenti necessità di salvataggio umanitario, spesso sfruttate ad arte dai trafficanti.
Di fatto, l’accesso alle acque territoriali di un Paese avviene dalle acque internazionali (e
non direttamente dal territorio di un Paese confinante). Questo rende estremamente
difficile, se non impossibile in normali condizioni di pace, l’esercizio del blocco delle
frontiere marittime rispetto alle frontiere terrestri, che possono essere protette con più o
meno complesse opere di recinzione e vigilanza, in quanto la massa umana verrebbe
respinta non nel Paese di provenienza ma in un ambiente ostile e fuori da ogni sovranità e
responsabilità. L’altro aspetto del fattore internazionalizzazione del dominio marittimo è
relativo al fatto che una volta che un flusso migratorio ha accesso alle acque
internazionali, esso ha – diversamente dalle frontiere terrestri che il flusso percorre in
maniera consequenziale – numerose opzioni di Paesi target in cui dirigersi, non solo nei
Paesi limitrofi.
33
Anzi, spesso l’accesso alle acque internazionali rende possibili attraversamenti di migliaia
di chilometri e passaggi attraverso i continenti che, lungo la via terrestre, richiederebbero
decine di passaggi di frontiera e – con essi numerosi passaggi da un’organizzazione
criminale all’altra. Tipico è il caso dell’Italia, Paese verso cui approdano flussi migratori
marittimi provenienti non solo dalla Libia ma anche dalla Tunisia, dall’Egitto, dalla Turchia,
dalla Grecia.
Le tre rotte migratorie peninsulari verso l’Europa hanno ciascuna una propria
peculiarità. Quella iberica è la più marginale delle tre in quanto rappresenta lo sbocco
sostanzialmente della sola rotta dell’Africa Occidentale, attraverso Marocco e Algeria.
Quella italica è baricentrica rispetto a tutto il continente africano e verso di essa si
concentrano i flussi tanto dell’Africa Centrale, Occidentale ed Orientale. Quella balcanica è
forse la più diversificate delle tre rotte verso l’Europa ed è in grado di convogliare tanto il
flusso asiatico, demograficamente estremamente rilevante, quella medio-orientale e, in
prospettiva, quello dell’Africa
Orientale, attraverso il Sinai o
la stessa penisola Arabica.
La rotta anatolico-balcanica è
l’unica rotta europea
peninsulare delle 3 che non ha
solo una dimensione
mediterranea (e del Sahel che
grava sempre più sul
Mediterraneo), ma è
chiaramente – per effetto della
contiguità con la penisola
anatolica, un collegamento
euro-asiatico. Difatti, uno degli
aspetti della crisi migratoria del 2015-2016 è stato quello di “allungare” la rotta balcanica
fino all’Asia centrale, estendendo fino al Pakistan e Afghanistan l’elenco dei Paesi che
producono un numero estremamente elevato di migranti verso l’Europa. Secondo dati
della UE, nel 2015 sono stati 213.000 gli afghani arrivati in Europa, di cui 176.900 hanno
fatto richiesta di asilo. Ciò nonostante il fatto che la percentuale di approvazione della
domanda di asilo politico degli afghani non è così elevata come per altri Paesi, quali la
Siria, l’Iraq o l’Eritrea, (nel 2015 superava il 40% del totale) mentre nel caso dei Pachistani
Figura 3 Le tre porte d'accesso alla zona Schengen dell'Unione
Europea
34
o dei cittadini del Bangladesh stiamo chiaramente parlando di una migrazione di carattere
prevalentemente economico. Ciò implica che nella rotta balcanica transitano una quota
importante, stimabile in centinaia di migliaia di persone, di migranti che non hanno diritto
all’asilo ma che non vengono filtrati dai Paesi lungo la rotta. Un’altra particolarità della rotta
balcanica è rappresentata dal fatto che i migranti, siano essi profughi o migranti
economici, entrano in Europa attraverso due Paesi come la Turchia e la Grecia giudicabili
sostanzialmente sicuri per i migranti, entrambi membri della NATO e uno anche membro
dell’Unione Europea, mentre l’altro è Paese candidato. La rotta balcanica - diversamente
da quella italiana ove il principale Paese di partenza è la Libia - è sostanzialmente una
rotta euro-asiatica che transita attraverso un gruppo di Paesi i cui standard sociali, politici
ed economici sono significativamente più elevati rispetto ai Paesi di provenienza e che
possono essere considerati sicuri.
Come nel caso di molte altre nazionalità che provengono da teatri di guerra o di
conflitto, la massa dei richiedenti asilo afghani non proviene direttamente dall’Afghanistan
ma è transitata da due importanti Paesi di transito come Iran e Turchia e, in alcuni casi,
dal vicino Pakistan prima di entrare in Iran. Se si considera che in Iran e Pakistan sono
presenti da decenni ormai vaste comunità di profughi afghani (oltre 2.5 milioni Iran e 2,9
milioni per il Pakistan) e che in Afghanistan almeno 1.1 milione di persone hanno lo status
di Internally Displeaced Persons (IDPs), è chiaro che la questione dei profughi afghani
rischia di essere il principale stock di alimentazione della rotta anatolico balcanica nei
prossimi anni. Per facilitare i rientri verso l’Afghanistan, numerosi Paesi europei (come
Danimarca,
Finlandia, Francia,
Olanda, Svezia e
Gran Bretagna) e
la stessa UE
hanno negoziato
con il governo
afghano pacchetti
di aiuto e di
cooperazione allo
sviluppo
economico –
finanziario in
Figura 4 I Paesi che alimentano le tre rotte
35
cambio (con una significativa condizionalità) di programmi governativi di ritorno volontario.
La stessa Unione Europea ha sviluppato un programma di cooperazione per il periodo
2014 – 2020 con l’Afghanistan di 1.4 miliardi, la più rilevante cooperazione pubblica di cui
beneficia il Paese. Dopo la crisi migratoria del 2015 il budget degli aiuti europei è stato
ulteriormente elevato.
I dati degli sbarchi per il 2017 forniti da IOM dimostrano che circa il 50-60% degli arrivi via
mare nell’Unione Europea provengono dal corridoio italiano, un 20-30% circa dal corridoio
anatolico-balcanico e il restante dalla rotta iberica. Se si osservano le nazionalità che
provengono da ciascuna rotta si vede che l’Italia offre la maggiore differenziazione nella
composizione delle nazionalità, abbracciando tutta la gamma delle rotte provenienti dai tre
continenti. Normalmente lungo la rotta iberica mancano i migranti medio-orientali e asiatici
ed essa è la più marginale e regionalizzata delle tre. Nonostante sia per il momento bassa
la presenza di migranti provenienti dall’Africa nella rotta balcanica, non si può dire che
questi flussi siano
assenti, anzi negli
anni passati si è
assistito ad una
crescente tendenza
verso una maggiore
africanizzazione di
questa rotta. Ciò vuol
dire che in realtà la
rotta italica e la rotta
balcanica possono
essere considerate
come due rotte
alternative, che fanno
perno l’una sul
Mediterraneo
Centrale e sulla Libia, l’altra sul Mediterraneo-Orientale e sulla Turchia. Questo vuol dire
che al chiudersi di una delle due rotte una parte non stimabile ma non trascurabile dei
flussi saranno destinati a travasarsi verso l’altra delle due rotte, attraverso le
interconnessioni orizzontali che passano attraverso l’Egitto, la penisola arabica o le
sempre più frequenti ed economiche vie di collegamento verso Africa e Medio Oriente,
molte delle quali fanno perno sulla Turchia o sul Golfo.
Figura 5 Le rotte penisulari di accesso verso il Mediterraneo
36
Questa commistione tra le due rotte è ben evidente anche dagli sbarchi che avvengono
lungo le coste pugliesi e calabresi dove sbarcano le navi che provengono dalla Turchia o
dall’Egitto.
Ciò vuol dire che ogni duratura soluzione della crisi migratoria europea deve
affrontare parallelamente le due rotte migratorie e, in particolare, i rapporti con i due
principali Paesi sorgenti, la Turchia e la Libia.
37
CAPITOLO 2 - I SINGOLI PAESI DEL CORRIDOIO ANATOLICO-BALCANICO E LE POLITICHE DI GESTIONE DEI FLUSSI
Non tutti i Paesi europei hanno adottato una lista di safe countries, ossia una lista di
Paesi ritenuti sicuri per i propri cittadini e in cui anche i migranti, qualunque sia la natura
della loro migrazione, possono essere considerati relativamente sicuri da forme
sistematiche di oppressione, discriminazione e violenza. L’Italia, ad esempio, come in
generale i Paesi del Sud Europa esposti ai flussi migratori, non ha una tale lista, il che
presenta dei vantaggi e degli svantaggi. Molti Paesi europei l’hanno adottata e la stessa
Unione Europea, dopo la crisi migratoria del 2015, sta pensando di adottarne una. Se
prendiamo la lista dei safe countries che i 7 Paesi europei che hanno adottato tale
approccio hanno sviluppato, ci accorgiamo che pressoché tutti i Paesi del corridoio
balcanico, ad eccezione
della Turchia, sono
prevalentemente
considerati Paesi sicuri.
Ad essi si aggiunge
anche la Grecia che, in
quanto Paese
appartenente all’Unione
Europea, va
automaticamente
considerato come
Paese sicuro.
Anche l’accordo tra Unione Europea e Turchia, ancorché non formalizzato nella
espansione della lista dei Paesi sicuri, si basa sul presupposto di considerare il Paese
come sicuro per quanto riguarda i migranti di Paesi terzi residenti (escludendo dunque le
questioni politiche interne che riguardano i soli cittadini turchi).
Il fatto che la maggioranza dei Paesi della rotta balcanica sono classificabili come
Paesi di origine sicuri caratterizza in modo particolare questa rotta rispetto a quella del
Mediterraneo centrale ove l’identificazione di Paesi sicuri per i propri cittadini si basa su
criteri molto più deboli e discutibili rispetto al relativo consensus che esiste per la rotta
anatolico-balcanica. Ovviamente, la designazione dei Paesi del corridoio-anatolico
balcanico come “safe country of origin” comporta che i Paesi dell’Unione Europea possono
decidere di rigettare le domande da parte dei cittadini dei Paesi del corridoio come
Figura 6 I Paesi della rotta balcanica considerati sicuri da alcuni Paesi
Europei
38
infondate, in quanto siamo in assenza di un sistematico rischio di persecuzione o grave
minaccia alla vita e alle cose. Ciò potrebbe sembrare una questione marginale in quanto
normalmente non vi dovrebbero essere richiedenti asilo provenienti dai Paesi della regione
balcanica ma, come dimostrato dalla crisi migratoria degli ultimi anni, il flusso attraverso la
regione è un flusso misto, che unisce migranti economici extra UE, popolazioni displaced
da vari conflitti e flussi migratori provenienti dalla stessa regione balcanica.
Nei seguenti paragrafi abbiamo selezionato alcuni Paesi appartenenti al corridoio
anatolico-balcanico, che può anche essere descritto come il corridoio del Mediterraneo
Orientale. L’attenzione principale è stata rivolta a Grecia e Turchia, due Paesi chiave di
questo corridoio, membri della NATO ma divisi dall’Egeo oltre che da uno storico conflitto
che la crisi migratoria ha rischiato di esacerbare. Non a caso la NATO ha avviato una
propria missione marittima militare proprio in queste acque, Standing Maritime Group 2
(SNMG2), per assistere i due Paesi a gestire la crisi migratoria, ma con un chiaro intento
di confidence building tra i membri della sua Alleanza.
Gli altri Paesi di questa rotta analizzati sono Macedonia e Ungheria, in quanto
rappresentano i due snodi principali di uscita e di reingresso dei flussi di migranti nell’area
Schengen.
Infine, è stata dedicata dell’attenzione anche all’Albania, Paese non coinvolto nella
rotta balcanica ma che, secondi alcuni, potrebbe essere investito da un flusso di migranti
irregolari qualora una nuova crisi dovesse emergere e il corridoio balcanico dovesse
essere chiuso.
39
2.1. I Paesi di Destinazione
2.1.1. La Germania
Un segnale che il corridoio balcanico non nasce con la crisi migratoria del 2014 –
2015, ma è ad essa pre-esistente è dimostrato dal fatto che la Germania, ed in parte
l’Austria, hanno dovuto far fronte, negli anni precedenti alla crisi migratoria a un massiccio
afflusso di pretendenti asylum seeker dalla regione balcanica. Sono decine di migliaia le
persone provenienti da Albania, Kosovo e in parte Serbia che hanno approfittato del
corridoio migratorio attraverso la regione per unirsi ad esso e sottoporre, prevalentemente
in Germania, domanda di rifugiato.
Ciò nella quasi
certezza che essa
sarebbe stata rifiutata
ma che avrebbe
comunque consentito,
nelle more della
definizione dello
status, di beneficiare
dei significativi
contributi sociali e di
accoglienza per quasi
un anno. Particolarmente abusata è stata la possibilità di usufruire di trattamenti medici
una volta depositata la richiesta di asilo politico. Per far fronte a questa emergenza, che
aveva portato oltre 1500 richieste di asilo politico al mese dal Kosovo in Germania, il
governo tedesco ha provveduto ad inserire il Kosovo nella sua lista dei Paesi sicuri e
avviare un massiccio processo di deportazione degli asilum seeker di origine balcanica ed
ha ridotto a due settimane il tempo massimo per la decisione amministrativa.
Le misure hanno visto passare ad oltre il 99% il tasso di respingimento delle richieste
di asilo politico per i kosovari, provocando una caduta a non più di 100 al mese del
numero di richieste. Buona parte del transito delle persone avvenuto lungo la rotta
balcanica era mosso da organizzazioni criminali specializzate in questo tipo di servizi
Figura 7 L'esplosione delle richieste di asilo politico in Germania
40
illegali a pagamento (circa 3.000 euro fino all’arrivo a destinazione nella meta finale nella
UE13).
Nel 2015, l’anno del grande arrivo dei siriani, a fronte di quasi 300.000 siriani
registrati come profughi in Germania, si registravano 54.000 richiedenti asilo dall’Albania e
37.000 dal Kosovo. Queste due nazionalità si posizionavano al secondo e terzo posto,
superando il numero degli iracheni e degli afgani14. Nel 2016 il governo tedesco ha deciso
di avviare una politica drastica di rimpatri, motivandola con la necessità di fare spazio ai
profughi siriani e di altre nazionalità realmente bisognose di protezione. A tale scopo è
stato utilizzato largamente il sistema delle deportazioni e quello degli incentivi economici
per il ritorno nei Paesi di origine. Questa politica ha inizialmente riguardato i migranti
provenienti dai Paesi dei Balcani, ma si è presto allargata anche ai Paesi dell’Africa o
dell’Asia. Tra questi è stato incluso anche l’Afghanistan
È importante comunque considerare che sia l’Austria che la Germania, due Paesi
chiave di destinazione della rotta anatolico-balcanica, hanno entrambi adottato il metodo
del listing dei “safe country of origin”, che comprende esattamente gli stessi Paesi. Nel
corso della crisi del 2015 – 2016, questa lista aveva come obiettivo quello di evitare che al
flusso di migranti dai Paesi extra-balcanici si unisse anche un flusso di migranti dai Paesi
balcanici.
La normativa tedesca sul diritto di asilo prevede che, nel caso in cui una richiesta di
asilo politico sia stata rifiutata dalle autorità, colui che l’ha presentata è obbligato a lasciare
il Paese entro 30 giorni. Se la domanda viene ritenuta “manifestatamente infondata” il
periodo per abbandonare il Paese si riduce ulteriormente a una settimana. A questo punto
il soggetto a cui è stato rifiutato lo status di rifugiato ha due opzioni: lasciare
volontariamente il Paese, usufruendo dei programmi per il rimpatrio (vedi sotto) o rimanere
non adempiendo all’obbligo di abbandonare il Paese. In questo secondo caso, il migrante
può essere rimpatriato forzosamente, con spese a suo carico e l’adozione di un entry ban
che gli impedisce di entrare legalmente in Germania e nella stessa UE per molti anni. I
tentativi di evitare il rimpatrio forzoso e rimanere in Germania senza un legale permesso
sono puniti con l’arresto e il rimpatrio nel Paese d’origine.
Per il momento il meccanismo delle deportazioni viene applicato forzosamente solo
nel caso di alcune nazionalità e di alcuni individui che hanno commesso crimini e che sono
considerati pericolosi, radicalizzati o rifiutano di cooperare con le autorità d’immigrazione
13 Vedi i resoconti dell’Operazione dell’Europol FALKO, svolta nel marzo 2015 e che ha portato a 77 arresti tra cittadini di Kosovo, Slovacchia Serbia, Bosnia-Herzegovina e Macedonia. Vedi “People trafficking ring cracked-down by Europol”, Deutsche Welle, 25.3.2015.
14 Majia Ristic, Albania, Kosovo top german 2015 asylum list, Balkan Insight 7.1.2016
41
tedesche per accertare la loro reale identità. Nel caso dei cittadini afghani, ad esempio,
pur prevedendo la legge l’opzione dei rimpatri forzati, fino ad oggi sono state rimpatriati
solo poche centinaia15 di soggetti, accompagnati forzosamente in Patria via aereo. Una
situazione che, tuttavia, ha suscitato accesi dibattiti e polemiche per via della ancora
difficile situazione post-bellica del Paese, la presenza di attività terroristiche e le
difficilissime condizioni economiche di vita. Al di là di questi casi specifici, il sistema
tedesco si basa prevalentemente sul meccanismo degli incentivi positivi, sia attraverso il
finanziamento di progetti di cooperazione con i Paesi di origine (de facto condizionati
all’accettazione della riammissione dei migranti respinti), sia con l’adozione di specifici
programmi finanziari per favorire la decisione di ritornare volontariamente nel Paese
d’origine.
Come incentivi ai ritorni volontari16 il governo Tedesco ha varato il programma
REAG/GARP “Reintegration and Emigration Program for Asylum-Seekers in Germany /
Government Assisted Repatriation Program”, finanziato dal governo federale tedesco e
gestito da IOM. Con questo programma i migranti sono assistiti nella pianificazione del
viaggio, nella copertura delle spese, se non ne hanno i mezzi, e nella predisposizione di
programmi di supporto finanziario per avviare attività economiche nei Paesi d’origine. Il
meccanismo prevede il pagamento dei titoli di viaggio da parte del Governo tedesco, 200
euro a persona come costi di viaggio e tra i 300 e i 500 euro come “start-up cash” per le
prime spese di reinserimento. Se la decisione di ritornare in Patria precede la decisione
del tribunale amministrativo (e la domanda di asilo viene ritirata) il migrante può applicare
per un ulteriore assistenza finanziaria (Starthilfeplus) di 1.200 euro a persona. Anche nel
caso in cui il richiedente asilo riceve una risposta negativa ma decide di rientrare nei
termini stabiliti nel Paese d’origine senza fare appello, può applicare al pacchetto
Starthilfeplus, per ottenere ulteriori 800 euro a persona.
A questo schema economico per finanziare il ritorno e i primi costi si possono poi
unire i finanziamenti che possono essere assegnati dai programmi europei ERIN
(European Reintegration Network) per formazione, ricerca, lavoro o avvio di piccole attività
economico – commerciali. Il programma ERIN prevede l’erogazione di servizi di
inserimento occupazionale del valore di circa 2.000 euro a migrante.
15 Sarah Marsh, Germany accused over illegal deportation of afghan asylum seeker, The guardian 5.12.2017. A fine 2017 il numero di afghani deportati dalla Germania in Afghanistan era di 282 da gennaio a giungo 2017 (contro 145 nello stesso periodo dell’anno precedente).
42
2.1.2. L’Austria
L’Austria rappresenta uno dei Paesi chiave per il controllo della rotta balcanica. È
stata Vienna, difatti, a chiudere la rotta dei rifugiati e richiedenti asilo provenienti dalla
Turchia nel febbraio 2016, invertendo il flusso dei Paesi balcanici e creando un effetto
domino di chiusura dei confini. La mossa di Vienna ha seguito quella del premier
ungherese Orban che aveva proceduto alla chiusura della frontiera tra Ungheria e Serbia
nel agosto 2016, divergendo il flusso verso la Croazia, Slovenia e Austria.
Nel febbraio 2017, a crisi migratoria posta sotto controllo, il ministro della Difesa
uscente – certamente complice una campagna elettorale giocatasi sui temi della crisi
migratoria – ha avanzato una proposta di cooperazione militare rafforzata tra i 16 Paesi
della rotta balcanica ossia Austria, Germania, i 4 di Visegrad (Polonia, Ungheria,
Repubblica Ceca, Slovacchia), Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Romania, Bulgaria,
Serbia, Macedonia, Grecia, Albania, Montenegro. Il progetto, di cui non si conoscono i
termini esatti né le reazioni politiche da parte dei vari Paesi che dovrebbero essersene
coinvolti, dovrebbe essere denominato “Balkan Frontier Defence Project” e dovrebbe
sostanzialmente basarsi su un’assistenza solidale alla protezione delle frontiere attraverso
l’impiego congiunto di forze militari a protezione dei confini dei Paesi del Sud. Ovviamente
tale proposta si basa su due presupposti: l’incapacità dei Paesi balcanici di controllare le
proprie frontiere esterne e di far fronte, sul piano interno, a eventuali crisi migratorie;
l’incapacità dell’Unione europea, attraverso le sue relazioni politiche esterne e le sue
agenzie tipo Frontex, di proteggere le frontiere esterne dell’Unione Europea. La proposta
non è stata messa in atto in quanto la legislatura era in chiusura di mandato, ma è
verosimile che essa sarà rispolverata dal nuovo governo che assumerà la guida
dell’esecutivo a gennaio 2018. È verosimile che essa si possa configurare come una
cooperazione di intelligence, early warning e politico-diplomatica nel caso di una crisi. Non
è tuttavia escluso che essa possa comportare anche modalità di cooperazione operativa,
con la creazione di task force di polizia e/o militari per il border management. Ciò è
ipotizzabile in funzione delle dichiarazioni rilasciate dal Ministro austriaco della Difesa,
Doskozil, che ha dichiarato: "Austria is ready to offer the deployment of Austrian troops to
countries both inside and outside the EU, not only for humanitarian reasons, but also for
43
the protection of their borders, if these countries ask us to do so and we have sufficient
capacities"16. Difficile qualificare la reale portata della dichiarazione del Ministro della
Difesa, Doskozil, anche in virtù del fatto che l’esercito austriaco è basato su una forza di
25.000 effettivi, di cui 12.000 coscritti. Verosimilmente, l’iniziativa punterebbe, nel caso di
una crisi migratoria proveniente dalla Turchia, ad assistere le forze di frontiera greche e
bulgare per proteggere il confine terrestre con la Turchia, utilizzando assetti militari di più
Paesi dell’area dell’Europa Centro e Sud Orientale. Qualora l’Austria volesse partecipare
con proprio personale militare a tali operazioni, che difficilmente potranno essere
qualificate come operazioni militari e che si configurerebbero anche al di fuori del quadro
di riferimento militare europeo a cui l’Austria partecipa, sarebbe necessario modificare la
legislazione del Paese che attualmente non consente l’invio di militari all’estero.
Dai dati degli ingressi irregolari si evince che la crisi migratoria in Austria si registra
nel solo 2015, con oltre 70.000 ingressi. Gli altri anni, con valori al di sotto dei 30.000, ci
appaiono essere (pur a fronte di quantitativi rilevanti in valore assoluto) sostanzialmente al
di sotto di un livello da “crisi migratoria”. Difatti, il governo austriaco ha posto un numero di
80 accessi al giorno, corrispondenti ad uno stock annuo attorno alle 30.000 unità, che non
possono dunque essere considerate una soglia di emergenza. Significativo è anche
constatare la rapidità con cui è stato chiuso il
corridoio austriaco, con un rapido crollo del
numero degli ingressi tra il 2015 ed il 2016;
mentre in Grecia nel 2016 sbarcavano ancora
quasi 200.000 persone e centinaia di migliaia
erano in transito lungo la rotta balcanica, in
Austria veniva drasticamente ridotto il numero
di richiedenti asilo. Segno che anche l’Austria
va considerata tanto un Paese di destinazione
quanto un Paese di transito nella via verso la
Germania e la Scandinavia.
16 L’intervista originale del ministro Hans-Peter Doskozil è comparsa sul quotidiano Die Welt il 7 febbraio 2017, Christoph B. Schiltz “Europäische Außengrenzen nicht ausreichend geschützt”.
Figura 8 La rotta verso l'Austria via Croazia e
Slovenia
44
Tabella 4 Principali nazionalità che hanno richiesto asilo politico in Austria nel
periodo 2013 - 2016
2013 2014 2015 2016 2017
fino ottobre Totali per
nazionalità
Afgani 2589 5070 25475 11742 3251 48.127
Siriani 1991 7754 24538 8845 6522 49.650
Iracheni 468 1107 13602 2837 1202 19.216
Pakistani 1037 745 3023 2494 1330 8.629
Iraniani 595 597 3432 2454 821 7.899
Totali per anno 6.680 15.273 70.070 28.372 13.126
Una delle più importanti misure prese dall’Austria per bloccare il flusso dei migranti
dalla rotta balcanica è stata la decisione del febbraio 2016 di mettere un tetto massimo al
numero di migranti e richiedenti asilo che possono accedere al Paese per i prossimi 5
anni. Tale tetto massimo, che appare contrastare nettamente con la legislazione
dell’Unione Europea e con gli obblighi internazionali, è stato posto ad un massimo di 80
domande depositate al giorno, dopo di che il confine sarà chiuso. Raggiunto il tetto
massimo annuo di domande l’Austria continuerà a ricevere le domande ai propri confini
ma non le processerà fino all’anno successivo, quando sarà stata presa una decisione
sulla nuova quota. Non è chiaro se i richiedenti asilo in eccesso saranno nel frattempo
respinti dal Paese o saranno alloggiati temporaneamente lungo i confini in zone di transito
o buffer zones senza consentire loro l’accesso nel Paese.
È alla luce di questa misura che va letta la proposta austriaca di una comunità
militare per la difesa dei confini dell’Europa Sud Orientale, un progetto che dovrebbe dare
praticabilità al numero chiuso, allontanando la pressione migratoria dal confine austriaco.
Se difatti il flusso migratorio dovesse raggiungere la Croazia o l’Ungheria, potrebbe non
essere possibile per il governo austriaco chiudere i confini e far rispettare le quote senza
la cooperazione degli Stati contermini. Solo alleggerendo la pressione alla frontiera
esterna della UE ed evitando che i Paesi dei Balcani si lascino attraversare dai flussi può
essere possibile per l’Austria mantenere la politica del numero chiuso massimo giornaliero
dei rifugiati.
La proposta è stata lanciata in fine legislatura dal Ministro della Difesa austriaco,
Doskozil, e, nonostante i dettagli siano poco chiari, essa è stata presentata come
45
un’alleanza di sicurezza tra i 16 Paesi coinvolti dalla rotta migratoria balcanica, più la
Polonia. L’oggetto di tale iniziativa dovrebbe essere la creazione di una forza multilaterale
di protezione dei confini da dispiegare per mettere in sicurezza i confini e rispondere alle
emergenze umanitarie nel caso in cui una nuova crisi migratoria non possa essere
affrontata da uno dei Paesi della rotta balcanica. Essa potrebbe essere dispiegata
verosimilmente o a supporto della Grecia o della Macedonia. Il Ministro non ha specificato
se, per quanto riguarda l’Austria, il progetto riguarderebbe forze di polizia o forze militari.
Se dovessero essere interessate le Forze Armate, sarebbe necessaria una modifica della
Legge sulla neutralità che proibisce la partecipazione dell’Austria ad alleanze militari.
È importante considerare che il rispetto delle quote austriache sul numero chiuso non
riguarda solo l’Austria ma diviene fondamentale per ridurre l’afflusso irregolare di migranti
verso la Germania, Paese chiave nel determinare la quantità di flussi verso l’Europa. Nelle
consultazioni per la formazione del nuovo esecutivo che sono ancora in corso, il partito di
maggioranza ha anch’esso inserito la questione di un tetto massimo di rifugiati ammissibili
giornalmente ed annualmente che la Germania è disposta ad accettare.
46
2.2. I Paesi di Transito
2.2.1. La Grecia
Il Collasso della Grecia come precursore della Crisi. Non è possibile capire come si è
arrivati alla crisi migratoria lungo la rotta balcanica senza focalizzare l’analisi sulla Grecia e
ripercorrere lo sviluppo delle sue politiche migratorie e la questione dei flussi irregolari
attraverso il confine (conteso) con la Turchia. Atene rappresenta il primo e principale hub
di alimentazione del flusso lungo la rotta balcanica, già ben prima della crisi migratoria del
2014. In particolare dopo il 2001, quando fu adottata la seconda legge17 quadro per la
sanatoria degli immigrati irregolari (Kasimis, 2004), la Grecia è divenuta un grande Paese
di immigrazione di forza lavoro a basso costo dall’Asia e dal Medio-Oriente, oltre che dagli
stessi Paesi balcanici. Già nel 2008 oltre il 50% degli accessi irregolari di stranieri
all’interno dei confini Schengen erano relativi alla Grecia. Questi flussi venivano
prevalentemente dalla vicina Turchia, che negli stessi anni aveva costruito una politica
migratoria estremamente liberale e politicamente indirizzata a favorire i flussi di
popolazione di un’ampia fascia di Paesi mussulmani dell’Asia e del Medio Oriente,
perseguendo l’obiettivo di sostituire
la propria mancata integrazione nella
UE in un progetto di area di libero
scambio dei Paesi mussulmani. Nel
2010 il volume di transiti illegali
attraverso la Grecia dalla Turchia
era ulteriormente cresciuto,
arrivando, secondo Frontex, a raggiungere il 90% di tutti gli accessi illegali all’interno dei
confini europei (Migration Policy Institute, 2010), al punto che il Ministero greco della
Protezione Civile ha dovuto invocare l’aiuto di Frontex per inviare un team di guardie di
frontiera europeo in supporto alla polizia greca. Questo è stato il primo caso in cui
l’Agenzia dell’Unione Europea incaricata del controllo dei confini ha dispiegato un tipo di
forze di polizia (175 uomini da 26 Paesi) a protezione di una frontiera Schengen per
17 È la Legge 2910/2001, conosciuta anche come Secondo Programma di regolarizzazione.
Nazionalità Asylum seekers entrati in Grecia per le
prime 4 nazionalità 2010 - 2015
Siriani 548.981
Afghani 305.991
Iracheni 103.535
Somali 17.991
Figura 9 Tabella 5 Le prime nazionalità entrate in Grecia durante la crisi migratoria
47
contrastare una pressione migratoria non sostenibile da parte di uno Stato membro
(Migration Policy Institute, 2010).
Buona parte di questi flussi irregolari provenivano dal confine terrestre con la Turchia
ove si registravano anche picchi di oltre 350 fermi di migranti irregolari al giorno nei pressi
della citta greca di Orestiada.
I Paesi di
provenienza erano,
ad eccezione dei
siriani,
sostanzialmente gli
stessi della crisi
migratoria che
esploderà qualche
anno dopo:
Afghanistan in
primo luogo, ma
anche Pakistan,
Iraq ed altre nazionalità provenienti dall’Africa. Non solo dall’Africa Orientale, come
Somalia o Egitto, ma anche da paesi dell’Africa Occidentale, come l’Algeria o la Nigeria. Il
fenomeno della crisi migratoria che dopo il 2010 esploderà ulteriormente, in particolare per
via dell’apertura del confine turco – greco, era dunque già da tempo in gestazione e la
Grecia nel corso degli anni duemila era divenuto un Paese. Nel 2010 ben 132.524
persone sono state intercettate in Grecia per ingresso o soggiorno illegale nel Paese. Le
deportazioni immediate riguardano sostanzialmente il solo caso dei cittadini albanesi,
mentre per tutte le altre nazionalità l’espulsione equivale alla trasformazione in una
condizione di clandestinità all’interno del Paese.
La Grecia del 2010, prima dello scoppio delle primavere arabe e del conflitto siriano,
era già divenuta per l’effetto combinato del regolamento di Dublino e della pressione
demografica illegale che la Turchia non controllava più attraverso le frontiere comuni, la
principale “storehouse” dell’immigrazione illegale in Europa, con un numero di immigrati
assolutamente sproporzionato rispetto all’entità della forza lavoro del Paese, del livello di
disoccupazione interna e della capacità del sistema produttivo ed economico. La crisi
economica della Grecia ha ulteriormente peggiorato la situazione in quanto ha ridotto le
risorse e i mezzi a disposizione del Paese per contrastare il fenomeno e, al tempo stesso,
Figura 10 Il confine tra Bulgaria, Grecia e Turchia
48
ha reso sempre più “preziose” le risorse economiche e finanziarie (in buona parte frutto
dell’economia grigia) legate all’industria illegale delle migrazioni. Secondo alcune stime del
network investigativo Balkan Analysis, la scala finanziaria del traffico illegale di migranti
attraverso la Grecia è cresciuto negli anni finendo per divenire un giro d’affari superiore ai
2.2 miliardi di euro. Un valore davvero importante se confrontato con quello della crescita
annua del PIL greco, che nel 2016 ha segnato una crescita di circa 1 miliardo di euro.
Questa stima è stata fatta nel 2015 da due analisti greci, Michaletos e Deliso. Secondo i
loro studi il flusso dei migranti illegali verso la Grecia si è da anni attestato attorno alle
90.000 unità medie. Al valore di 2.2 miliardi si arriva considerando pari a circa 20.000 euro
annui il valore che ogni migrante illegale produce nell’economia nera e grigia del Paese a
cui si aggiungono altri 5.000 euro di costi e servizi spesi per lasciare il Paese. Viene difatti
calcolato che circa il 50% di coloro che entrano in Grecia proseguono il proprio viaggio
verso l’Europa.
Quello dell’immigrazione illegale in Grecia è un fattore relativamente nuovo, che è
esploso a livelli incontrollabili nell’ultimo decennio. Un fenomeno pressoché totalmente
assente nei primi anni novanta (la Grecia era anzi un Paese di emigrazione) è
velocemente divenuto un fattore determinante della società greca, che ormai si stima
abbia superato 1.2 milioni di popolazione straniera (oltre il 10%) ed un flusso di
immigrazione illegale che continua ad incrementare questo stock del 10% annuo.
La Grecia appare aver raggiunto un punto di saturazione demografico legato alla
capacità di assorbire nuova popolazione straniera, che continua ad entrare illegalmente
nel Paese. Ciò è stato evidente già dagli anni precedenti all’esplosione della crisi
migratoria del biennio 2014 – 2015. Questa situazione di saturazione economico-sociale
appare difficilmente modificabile in futuro. È pertanto difficilmente immaginabile che se
non si controlleranno i flussi migratori dalla Turchia alla Grecia, si interrompa il flusso in
uscita dalla Grecia dei migranti provenienti dal Medio Oriente e dell’Asia, provocando una
pressione demografico-migratoria o lungo la rotta balcanica o attraverso il Mare
Mediterraneo, quest’ultima in direzione dell’Italia.
Questa situazione cronicizzata è evidente se si analizzano i flussi di migrazioni
illegali dalla Grecia attraverso la frontiera turca. Da ormai un decennio, con l’eccezione del
2013, il volume dei flussi illegali dalla Turchia alla Grecia ha superato le 20.000 persone
annue. La caduta dei flussi nel 2013 è in buona parte il frutto del completamento delle
barriere lungo il confine terrestre. Tali valori saranno tuttavia immediatamente recuperati
dall’apertura di una massiccia rotta marina, che nel 2014 trasporterà illegalmente sulle
coste greche più di 45.000 persone.
49
Anno Attraverso il confine
terrestre Attraverso il confine
marittimo Totale ingressi illegali
dal confine turco
2009 6.600 18.000 24.600
2010 47.200 6.200 53.400
2011 54.974 600 55.574
2012 30.400 3.600 34.000
2013 1.100 11.000 12.100
2014 2.300 43.000 45.300
2015 4.900 870.000 874.900
2016 3.800 175.000 178.800
2017 * 4.500 25.000 29.500
Totali 151.274 1.152.400 1.308.174
Calcolo dell’autore sulla base di dati della polizia di frontiera greca. * solo i primi dieci mesi
La Grecia appare destinata in un prossimo futuro a rimanere un Paese di transito,
per un misto di motivazioni. Sul piano interno, la durezza della crisi economica e le
persistenti difficoltà dell’economia non appaiono indicare possibilità del ricrearsi di
condizioni economiche per il mantenimento nel Paese delle masse di migranti che
continueranno a premere sulle frontiere marittime e terrestri della Grecia. In aggiunta a
questo fattore vi è l’altro fattore, spesso tenuto in scarsa considerazione, della volontà dei
migranti. I migranti che arrivano in Grecia oggi non vogliono in alcun modo rimanere nel
Paese, che usano come base logistico – economica prima di tentare l’ultimo parte del
viaggio intra UE, quello dall’Europa “giuridica” di Schengen a quella del Welfare, Germania
e Paesi scandinavi in particolare. Questa realtà è evidente nel caso dei Siriani, che pur
fuggendo da un conflitto non vogliono in alcun modo rimanere protetti in “Grecia”, come
risulta dal manifesto risentimento espresso dagli asylum seeker siriani in Grecia nel
momento in cui, nel 2014, fu introdotto solo per i provenienti dalla Siria un percorso di asilo
fast-track che consentiva loro di avere la risposta nello stesso giorno della domanda
(Mogiani, 2016).
La terza dimensione che spinge verso un futuro della Grecia come hub di transito e
non come primo Paese europeo di destinazione è deducibile dall’approccio adottato dalla
50
giurisprudenza di molti Paesi europei e dalla Corte dei Diritti umani dell’Unione sulla
compatibilità del sistema greco con gli standard dei diritti dell’uomo riservati ai migranti. In
numerosi casi Paesi europei che hanno espulso un richiedente asilo verso la Grecia in
applicazione del Regolamento Europeo 343/2003 che prevede, come ribadito dalla Court
of Justice dell’Unione Europea che “only a member state is responsible in asylum cases. If
a third-country national has applied for asylum in a member state which is not primary
responsible for examing the application, the regulation sets mechanism for transferring the
asylum seeker to the responsible member State”. Member State che, nella quasi totalità
delle persone entrate in Europa attraverso il corridoio anatolico-balcanico, sarebbe la
Grecia. A partire dal settembre 2011, tuttavia, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha
sostenuto – a margine di un caso di un cittadino afghano riportato in Grecia dallo UK – che
“i richiedenti asilo non possono essere riportati in uno stato membro se possono andare
incontro aserie violazioni dei loro diritti fondamentali”. In altre sentenze (vedi ad esempio
M.S.S. vs Belgium e Greece) la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha sostenuto che le
condizioni di vita per i richiedenti asilo sono così deteriorate che non solo la Grecia è in
violazione della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo ma lo sono anche i Paesi che, come il
Belgio, hanno riportato in Grecia richiedenti asilo provenienti dalla rotta balcanica.
Il combinato di questi tre fattori – sostenibilità economica interna, volontà dei
migranti, giurisprudenza europea sui ricollocamenti ex regolamento di Dublino – hanno di
fatto posto la Grecia di diritto e di fatto fuori dal sistema di Dublino, “assegnandole”, anche
per il prossimo futuro, un ruolo di camera di compensazione, o di hub di smistamento dei
migranti irregolari verso altri Paesi dell’Unione Europea. Paesi che, nel corso della crisi del
2014 – 2015 sono stati l’Austria e la Grecia, ma che in futuro potrebbero essere altri Paesi
dell’Unione Europea, inclusa anche l’Italia.
51
2.2.1.1. La questione del confine Grecia - Turchia
La rotta migratoria anatolica preme lungo le frontiere greche lungo due assi, quello
del confine terrestre attorno alla città di Orestiada a ridosso della cittadina turca di Edirne e
quello marittimo verso le isole di Samos, Chios, Lesbos e del Dodecaneso. Il confine
greco – turco terrestre corre lungo 182 chilometri e per molti anni dopo il conflitto cipriota è
stato un confine militarizzato, con
campi minati e recintati18. Il confine
segue il corso del fiume Evros/Meric (in
italiano Marizza, translitterato dal
Bulgaro), ma vi è una striscia di terra
turca, lunga una dozzina di chilometri
oltre il corso del fiume, da cui flussi
consistenti di migranti hanno
attraversato il confine con la Grecia.
Questa piccola striscia di terra ha
rappresentato per molti anni la
principale porta d’ingresso illegale
all’interno dello spazio Schengen
europeo. La pressione lungo il confine
terrestre inizia a divenire
particolarmente rilevante ben prima
dello scoppio delle primavere arabe, a
partire dal 2008, quando si registrano
incrementi molto consistenti dei flussi (+35%). Dopo due anni consecutivi (2010 e 2011) in
cui il confine greco – turco nell’area di Edirne ha fatto registrare più di 150 transiti illegali
intercettati al giorno, la Grecia ha deciso di procedere ad un rafforzamento del controllo
del confine. Agli inizi nei mesi tra febbraio e marzo 2012 la Grecia ha sottoscritto un
accordo con Frontex per il pattugliamento congiunto lungo il fiume Evros ed ha annunciato
la costruzione di una barriera di confine lungo i 12 chilometri del confine terrestre che sarà
completata nel dicembre dello stesso anno per un costo di 3 milioni.
18 Saltuariamente vi sono morti accidentali in alcuni punti del confine di migranti che tentano di attraversare illegalmente il confine. Vedi BBC news, 29 settembre 2003, Landmine deaths on Greek border. Il confine è stato in buona parte bonificato nel 2010.
Figura 11 Il confine tra Grecia e Turchia
52
Il 2010 rappresenta dunque l’anno in cui si assiste ad un’escalation nel numero dei
migranti che escono illegalmente dalla Turchia ed entrano nello spazio Schengen europeo
attraverso il confine terrestre della Grecia. È importante sottolineare come questo “surge”
nella pressione demografica illegale dalla Turchia alla Grecia non è legata né alle
primavere arabe né al conflitto siriano e ai flussi di displaced da quel conflitto che sarebbe
scoppiato solo nel 2011. Difatti le quattro principali nazionalità che alimentano questi flussi
sono gli afgani (28.300), i pachistani (8.830), i palestinesi (7.561) e gli algerini (7.340),
questi ultimi arrivati attraverso la rotta aerea ad Istanbul19. Anche nel 2011 la massa di
migranti non provenienti dal Paesi in conflitto è maggioritaria sul totale degli arrivi ed il
numero dei siriani (il Paese più vicino e quello con il conflitto più letale in corso per
quell’anno) rimarrà relativamente basso, sotto le duemila unità.
Tabella 5 Principali nazionalità in arrivo in Grecia nel periodo 2010 - 2012
2010 2011 2012
Afghanistan 28.299 28.269 16.584
Pakistan 8.830 19.975 11.136
Bangladesh 3.264 5.416 7.863
Algeria 7.336 5.398 4.606
Marocco 1.645 3.404 2.207
Iraq 1.133 2.838 2.212
Somalia 6.525 2.234 1.765
Palestina 7.561 1.980 1.718
Congo - 1.855 -
Siria - 1.439 7.927
19 Vi sono 3 voli diretti dall’Algeria ad Istanbul da Algeri, Orano e Costantina. I cittadini algerini sotto i 18 anni e sopra i 35 anni possono ottenere un visto rapido per trenta giorni ottenibile on-line.
53
Un fenomeno interessante da annotare lungo il confine Greco – Turco è
rappresentato dallo switch tra l’utilizzo, da parte delle organizzazioni criminali del confine
terrestre e marittimo. Mano a mano che la Grecia – e la Bulgaria – procedevano alla
costruzione delle barriere lungo il confine terrestre si è assistito ad un progressivo
passaggio dei traffici al confine marittimo, molto più lungo e difficile da controllare, sia per
le specificità delle frontiere marittime, sia per la lunghezza della linea di costa. Negli scorsi
anni, mano a mano che la Grecia proteggeva il suo confine terrestre il volume dei traffici è
aumentato e la sua logistica si è spostata lungo la costa.
Nel 2012 la pressione demografica e migratoria illegale verso la Grecia era divenuta
insostenibile lungo il confine terrestre tra i due Paesi al punto che la Grecia aveva iniziato
a contrastare il fenomeno attraverso la costruzione di una barriera di sicurezza lungo il
confine terrestre di circa 130 miglia (UNHCR, 2015), per un costo complessivo di circa 8
milioni di euro. L’incrementato controllo del confine terrestre da parte della Grecia ha fatto
esplodere, nel corso del 2013, il numero di migranti in arrivo in Grecia via mare che sono
passati da 3.600 del 2012 ad oltre 11.000. Era solo l’anticipo di quello che sarebbe
accaduto l’anno successivo, quello della crisi migratoria, con oltre 43.000 sbarcati
illegalmente sulle isole greche.
Tabella 6 Rapporto tra numero di stranieri irregolari segnalati in Grecia dalla polizia e domande di asilo politico fatte in Grecia per le quattro nazionalità che hanno un tasso di riconoscimento delle domande superiore al 50%.
2010 2011 2012 2013 2014 2015 Totale 2010-15
Afghanistan 28.299 28.528 16.584 6.412 12.901 213.267 305.991
Somalia 6.525 2.238 1.765 1.004 1.876 4.583 17.991
Iraq 4.968 2.863 2.212 700 1.023 91.769 103.535
Siria n.a. 1.522 7.927 8.517 31.520 499.495 548.981
Totale 39.792 35.151 28.488 16.633 47.320 809.114
Totale
richieste di
asilo fatte
in Grecia
per tutte le
nazionalità
10.275 9.310 9.575 8.225 9.435 13.205
54
Figura 12 Rapporto presenze irregolari e richieste di asilo in Grecia per cittadini siriani, iracheni, somali e afghani nel periodo 2010 - 2015
2.2.1.2. Case study: L’isola greca di Lesbos
Durante la crisi migratoria del 2015 l’isola greca di
Lesbos ha rappresentato uno dei principali punti di accesso
dei flussi di migranti irregolari provenienti dalla Turchia e
diretti in Europa. A fronte di una popolazione di appena
80.000 persone, la cui economia era già provata dalla crisi
economica. L’isola ha visto sbarcare sulle sue coste dal
gennaio al dicembre del 2015 circa 500.000 persone. Nel
mese di dicembre 2015 il numero medio di sbarchi ha
raggiunto le 2.000 unità.
Tra le principali nazionalità arrivate sull’isola vi sono
migranti provenienti per il 60% da Siria ed Afghanistan, più
o meno in proporzioni equivalenti, con una leggera prevalenza siriana; un 15% degli
sbarchi sono costituiti da iracheni, mentre il resto è diviso tra iraniani, marocchini,
pachistani, curdi ed altre nazionalità. I dati della nazionalità siriana sono probabilmente
gonfiati, in quanto si ritiene che molte nazionalità, come i palestinesi o gli iracheni, siano
arrivati in Turchia via aereo dalla Giordania e al momento dello sbarco a Lesbos si sono
registrati come siriani per avere la facilità del trattamento come rifugiati (Rantsiou, 2016).
Nell’isola di Lesbos non arrivano dunque solo profughi siriani provenienti dalla Siria, ma
anche migranti provenienti da teatri non di reale conflitto, ma piuttosto definibili come post-
conflict, come sono quelli somalo o quello afgano.
Figura 13 La posizione dell'isola
greca di Lesbos
55
Dal medio oriente e dall’africa i profughi diretti all’isola di Lesbos e verso le altre isole
greche non arrivano via terra, attraversando la Siria e l’Iraq, ma piuttosto via aerea,
volando in Turchia via Giordania, o direttamente dall’Africa. Gli sbarchi nell’isola di Lesbos
provenivano prevalentemente dalla cittadina turca di Ayvalik e dalle vicine spiagge, con
una traversata in mare di circa due ore.
2.2.2. La Turchia
È evidente che la Turchia ha avuto un ruolo chiave nella genesi della crisi migratoria
europea del biennio 2014 e 2015, visto che circa 900.000 del 1.2 milioni di migranti
irregolari giunti nell’Unione Europea nel corso del 2015 avevano attraversato la Turchia. In
un solo anno dalla Turchia sono giunti in Europa mezzo milione di siriani, più di 200.000
afgani, quasi 100.000 iracheni, 20.000 pachistani e circa 50.000 cittadini di altri paesi
mussulmani come Iran, Palestina, Marocco, Somalia, Bangladesh, Libano, Algeria ed altri
Paese.
È importante sottolineare che una parte sostanziale di questa massa di migranti
illegali è giunta in Turchia regolarmente, attraverso i normali canali migratori, utilizzando
una rete di accordi di libera circolazione delle persone che il governo di Ankara ha firmato
con molti Paesi, in particolare mussulmani, tanto in attuazione della politica islamista
perseguita da Erdogan che di quella di buon vicinato nell’area d’influenza ex ottomana.
Questi flussi, al di là delle specifiche cause belliche che possono averli ingigantiti e attuati,
facevano parte di una specifica politica migratoria e demografica che la Turchia ha iniziato
a praticare con costanza a partire dalla seconda metà degli anni 2000, attuando una
politica dei visti estremamente liberale, ed in particolare a partire dal 2008. Tali politiche di
liberalizzazione dei visti alimentate sia dalla volontà di promuovere l’industria del turismo
del Paese e gli scambi commerciali, ma anche basate sulla costruzione di un soft power
politico culturale di Ankara verso il mondo mussulmano in attuazione della politica di “zero
problemi con i vicini” che più in generale del nuovo indirizzo pro-islamista varato dal
governo del AKP. È in questo contesto che va letta la politica di immigrazione e libera
circolazione adottata dalla Turchia dopo il 2008. In un quadro geopolitico di rottura con il
sistema tradizionale euro-atlantico, assicurare alla grande rete delle alleanze turche la
libertà di movimento tra Maghreb, Africa, Medio Oriente e Asia Centrale prende il senso di
una grande Schengen islamica, di cui molti Paesi, come Siria, Iran, Kazakhistan,
Kirghizistan hanno goduto per molti anni totalmente visa-free, mentre molti altri hanno
potuto contare sul sistema facilitato dagli e-visa, ossia delle procedure di ottenimento
56
automatico di un visto elettronico per entrare in Turchia se il viaggiatore dichiara di
possedere un visto Schengen sul proprio passaporto o altro titolo per poter soggiornare in
Europa.
2.2.2.1. La questione dei rifugiati siriani in Turchia
Considerato lo stock dei siriani presenti in Turchia, un valore che supera i 3.000.000
di persone tra residenti e rifugiati, è chiaro che la questione dei cittadini di origine siriana in
Turchia rappresenta la principale potenziale
fonte di preoccupazione per i flussi migratori
irregolari verso l’Europa attraverso il corridoio
anatolico-balcanico. È importante considerare
che se la Turchia è stata estremamente
accogliente nei confronti dei profughi siriani,
anche in virtù della propria politica interventista
contro il regime di Damasco e mirante a
produrre un regime change, il sistema di
accoglienza turco non prevede la possibilità di
concedere, solo in casi particolari, lo status di
rifugiati ai profughi che decide di accogliere sul
proprio territorio. Questo in virtù della
legislazione turca e alla, tuttora vigente,
limitazione geografica con cui la Turchia ha aderito alla Convenzione di Ginevra sui
Turchia
Rifugiati e asylum seekers (2016) Stranieri (nati all’estero) residenti Totale
Siriani 2.769.991 76.413 2.846.404
Iracheni 125.879
97.528 223.407
Afghani 113.756
38.692 152.448
Iraniani 28.534 36.226 64.760
Figura 14 Il numero di rifugiati siriani in
Turchia
57
Rifugiati. Secondo questa impostazione la Turchia nega la possibilità, per le persone il cui
Paese di origine non sia in Europa, di ottenere lo status di rifugiato definitivo e di lungo
periodo. Concede solamente, in funzione di una nuova legge varata nel 2013 (Law on
Foreigners and International Protections) delle forme legali di protezione temporanea
denominata “conditional refugee status”. Questo status si differenzia da quello
propriamente detto di rifugiato in quanto non garantisce un titolo sicuro per ottenere un
soggiorno legale in Turchia e non prevede i ricongiungimenti familiari. I Siriani rientrano in
questa categoria. Dal punto di vista di politica di insediamento, la Turchia ha seguito solo
una limitata politica del encamping dei rifugiati, e meno del 10 % dei profughi sono
accomodati in campi (26, prevalentemente nella parte Sud-Orientale del Paese). La
maggior parte di essi vive liberamente nelle città turche in abitazioni private. Ad altre
nazionalità viene, invece, offerta la cosiddetta “subsidiary protection”, che prevede una
serie di garanzie ma un minor numero di diritti e di accesso ai servizi del Paese20.
Dal punto di vista della sicurezza migratoria, un fattore di rischio è rappresentato dal
fatto che la Turchia ospita un numero estremamente elevato di rifugiati e di migranti ma il
sistema di accoglienza previsto è sostanzialmente di natura temporanea. Permangono
dubbi su cosa accadrà nel medio periodo ai milioni di siriani e di altri rifugiati e migranti
presenti in Turchia. Nel corso del 2016 e del 2017 la Turchia ha avviato limitate operazioni
di rimpatrio dei rifugiati siriani in collaborazione con l’UNHCR che, per la fine del 2017,
dovrebbero riguardare circa 100.000 siriani. Si stima tuttavia che circa la metà dei rifugiati
siriani in Turchia potranno fare ritorno nel Paese al termine del conflitto quando saranno
ripristinate le condizioni minime di vita21. L’altra metà della popolazione siriana in Turchia,
tra il milione ed il milione e mezzo di persone resterà verosimilmente nel Paese anche
quando sarà terminato il conflitto e la maggior parte delle aree saranno pacificate. È
opinione di chi scrive, difatti, che i push factors che spingono le persone ad abbandonare i
Paesi in conflitto non sono esclusivamente di natura militare, ma un misto di fattori legati ai
pericoli bellici e al deterioramento della condizione economica. Come il caso del Kosovo
dimostra, a oltre 16 anni dalla fine del conflitto il Paese continua a produrre un numero
sproporzionatamente elevato di emigrati e di richiedenti asilo e i Kosovari che sono
emigrati precedentemente e durante il conflitto e che sono rientrati in Kosovo sono solo
piccole minoranze. Il rientro non è avvenuto né dopo la fine del conflitto nel 1999, né dopo
la dichiarazione d’indipendenza.
20 Vedi Asylum Information Database, Introduction to the asylum context in Turkey, www.asylumineurope.org
21 Vedi Fevzi Kızılkoyun, Around 100.000 syrians aspected to return from Turkey to Syria, Hurriyet Daily News, 7 agosto 2017.
58
Non è dato da capire se la gran parte dei profughi siriani che resteranno in Turchia
rimarranno nel Paese o procederanno con migrazioni secondarie verso l’Europa. Ciò è in
parte legato al livello di integrazione economica e sociale che sarà loro disponibile in
Turchia, questo legato a vari fattori, ad iniziare dallo status giuridico di lungo periodo che
essi potranno raggiungere. Si possono tuttavia nutrire molti dubbi sul fatto che la Turchia
sia disponibile a creare e ad integrare una così massiccia minoranza etnica araba
all’interno del suo Paese, soprattutto in un contesto in cui il conflitto siriano è terminato con
la sconfitta del fronte anti Assad che Ankara sosteneva. Doveroso menzionare anche il
fatto che all’interno dei profughi siriani presenti in Siria sono presenti anche un numero
imprecisato di profughi palestinesi senza cittadinanza siriana che erano nei campi profughi
al momento del conflitto. La categoria dei profughi palestinesi in Siria, molti dei quali
arrivati in Europa durante la crisi migratoria del 2015, è costituita da profughi palestinesi
nati in Siria ma normalmente non in possesso della cittadinanza siriana e che presentano
un chiaro profilo di problematicità da molti punti di vista, ad iniziare da quello giuridico e
umanitario. Prima della guerra si stimavano in oltre mezzo milione (560.000) i rifugiati
palestinesi che vivevano in Siria come minoranza invisibile nella popolazione, ma con un
discreto livello di integrazione sociale. Secondo le Nazioni Unite, con lo scoppio della
guerra almeno 100.000 hanno lasciato il Paese e la restante parte è stata ricollocata
all’interno della Siria come IDPs22. La maggior parte di coloro che hanno lasciato la Siria
si è diretta verso l’Europa, anche in virtù del fatto che Giordania e Libano nel 2015 hanno
chiuso i confini per i siriano-palestinesi.
2.2.2.2. L’accordo tra Unione Europea e Turchia.
Il mese di marzo 2016 è stato considerato il momento della risposta europea alla crisi
migratoria balcanica. Più o meno a partire dagli inizi del 2016 gli Stati della rotta balcanica
hanno modificato la propria politica di trasportare i migranti da una parte all’altra
dell’Unione Europea e hanno iniziato ad adottare una politica di contenimento e riduzione
dei flussi. A partire dal mese di aprile 2016 i Balcani non erano più attraversati da miglia di
rifugiati trasportati dal Mar Egeo verso la Germania. L’accordo tra EU – o meglio tra i
singoli Stati europei - e la Turchia ha cambiato il significato ed il ruolo ricoperto dai Paesi
dei Balcani: non più traghettatori ufficiali dei flussi ma parte di un sistema di restrizioni e
respingimenti che può funzionare fin quando rimarrà in piedi l’accordo con la Turchia.
22 Kaith Bolongaro, Palestinian Syrians, twice refugee, Al Jazeera, 23 marzo 2016.
59
L’accordo tra Turchia ed Unione Europea è stato chiuso, sotto forti pressioni
tedesche, il 18 marzo 2016. Esso prevede da un lato il riconoscimento dello status di Safe
Third Country per la Turchia (presupposto per poter rimandare indietro i migranti fermati
lungo la rotta balcanica), la disponibilità di Ankara di riprendere tutti i migranti entrati che
entreranno via Grecia attraverso l’Egeo; l’accordo prevede però che i migranti irregolari
della rotta Balcanica ricollocati in Turchia saranno compensati da un ugual numero di
rifugiati presenti nei campi profughi in Turchia. La particolarità dell’accordo sta nel fatto
che mentre i migrati in viaggio lungo la rotta balcanica sono prevalentemente indirizzati ad
entrare in Germania, il programma di resettlement riguarda – teoricamente – tutta l’Unione
Europea e non solo la Germania. L’accordo appare dunque ridurre, nel caso di una nuova
crisi migratoria, non il numero complessivo di migranti diretti verso l’Europa ma piuttosto
quello diretto verso la Germania. Questa natura del meccanismo 1-to-1 è evidente se si
analizza il numero dei rifugiati siriani che sono stati accolti in Europa nel primo anno di
applicazione dell’accordo. Su 4.200 rifugiati siriani in Turchia che sono stati accolti in
Europa la Germania ne ha accolti circa un terzo, mentre gli altri sono stati ricollocati in 12
dei 28 Paesi europei. L’Austria, uno dei Paesi d’arrivo del corridoio balcanico non ha
accettato nessun profugo in forza dell’accordo nel primo anno in cui esso era in vigore.
Tabella 8 Resettlement di rifugiati siriani in Turchia nei Paesi europei dopo l’accordo EU – Turchia
Germania 1584
Olanda 849
Francia 622
Finlandia 285
Svezia 278
Belgio 242
Italia 121
Lussemburgo 98
Spagna 57
Lituania 25
Estonia 20
Portogallo 12
Lettonia 10
60
In aggiunta all’accordo sul numero di migranti, l’Unione Europea si impegna per il
prossimo futuro a farsi carico del resettlement della gran parte dei 3 milioni di rifugiati
siriani presenti in Turchia, di accelerare la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi e
per il finanziamento di 3 miliardi di euro in aiuti per i rifugiati.
2011 2012 2013 2014 2015
Letalità del conflitto
siriano, numero di vittime
annue
7.841 49.294 73.447 76.021 55.219
Numero di siriani sfollati in
Turchia annui 9.000 152.000 434.000 1027000 881.000
Siriani identificati in Grecia
come migranti irregolari
annui
1.522 7.927 8.517 31.520 499.495
9.000 161.000 595.000 1.622.000 2.503.000
61
2.2.3. La Macedonia
La Macedonia rappresenta, per la sua posizione strategica e per il fatto di trovarsi
lungo la principale rotta di collegamento tra il Mare Egeo e la Pianura Pannonica, la più
breve e più pianeggiante via di accesso
all’Europa centrale dall’Europa Sud Orientale.
Lungo la Macedonia passa l’autostrada
europea E75, che in parte si basa sul vecchio
tracciato dell’autostrada jugoslava “Fratellanza
ed Unità”. Da un punto di vista logistico, è
naturale che la rotta dei migranti dalla Grecia
all’Austria segua il X° corridoio trans-europeo,
quello Salonicco – Salisburgo, che ha come
prima tappa la capitale macedone
Skopje, per poi proseguire per Belgrado,
Zagabria, Lubiana, Klagenfurt e
Salisburgo, al confine con la Germania.
La crisi migratoria in Macedonia
inizia nel mese di settembre 2014,
quando il numero di migranti che entrano
illegalmente nel Paese inizia ad
aumentare esponenzialmente. Un trend
che continuerà per tutto il 2015 ed i primi
mesi del 2016. Dopo i primi scontri al confine e realizzata la magnitudine del fenomeno la
Macedonia ha adottato una politica di libero transito attraverso il suo territorio. Il 18 giugno
2015 un emendamento viene introdotto nella legislazione sull’immigrazione del Paese
consentendo un transito legalizzato ed organizzato per 72 ore da un confine all’altro del
Paese. Ai migranti che arrivavano al confine meridionale del Paese veniva data
immediatamente la possibilità di fare richiesta di asilo politico in Macedonia o, in caso
contrario, veniva dato un lasciapassare per abbandonare il Paese entro 72 ore. Allo
scopo di gestire questi flussi con questo meccanismo sono stati costruiti due centri di
transito contemporaneo, uno al confine meridionale (Gevgelija) ed un altro al confine
settentrionale (Kumanovo). Questi centri, della capacità di 2.000 persone, dovevano
servire alla registrazione dei migranti e all’assistenza medica ed umanitaria.
Figura 15 Il corridoio macedone tra Grecia e
Serbia
Figura 16 L'autostrada jugoslava Unità e Fratellanza
62
Il trasporto dall’uno all’altro di questi centri avveniva con mezzi pubblici a carico dello
Stato nelle 72 ore previste, riducendo il tempo di soggiorno dei migranti e richiedenti asilo
sul territorio macedone ed evitando che il transito fosse gestito dalle organizzazioni
criminali.
Tuttavia, questo modello non ha retto a lungo, a causa delle ridotte capacità
macedoni sia in termini di gestione degli aspetti umanitari che di quelli di sicurezza. Presto
la situazione ad entrambe le frontiere del Paese, quella del Sud con la Grecia e quella del
Nord con la Serbia, è divenuta preoccupante raggiungendo livelli di emergenza. Il 19
agosto 2015 la Macedonia ha dichiarato l’esistenza lungo i due confini meridionale e
settentrionale del proprio territorio una situazione di emergenza, anche a causa degli
incidenti riportati tra migranti e polizia. L’altra debolezza del modello macedone era che
esso doveva fare i conti con le politiche di apertura o di chiusura degli altri Paesi del
corridoio balcanico. Quando, a partire dal mese di gennaio 2016, Croazia e Serbia hanno
comunicato che avrebbero iniziato a ridurre il flusso di migranti e ad adottare delle liste di
migranti ammesse al transito, la Macedonia è stata costretta ad adottare un approccio
selettivo al passaggio dei migranti ed un tetto massimo piuttosto elevato di 3.000 transiti al
giorno. A partire dal novembre 2015, il governo macedone ha iniziato ad applicare una
lista di nazionalità autorizzate al transito, riservando questo diritto “speciale” in deroga alla
normale legislazione solo per siriani, afghani ed iracheni. Questa misura ha
progressivamente ridotto il numero dei migranti in transito, dirottando le altre nazionalità o
verso altri confini o ritornando alla “ordinaria” rotta dei trafficanti di esseri umani. Solo a
partire dal febbraio 2016 il governo macedone ha messo in piedi delle misure strutturate di
controllo dei documenti di identità e di verifica delle prove che potessero documentare la
reale identità ed il tragitto svolto per arrivare in Grecia. Solo ai migranti con una sufficiente
e convincente documentazione, provenienti dalle aree di guerra ed entrati dal confine
greco era consentito di procedere, nella consapevolezza che questa tipologia di migranti
sarebbe stata accolta anche dagli altri Paesi della rotta. Importante diveniva la
dichiarazione della final destination del viaggio, che nel caso di Austria o Germania
equivaleva ad un lasciapassare, fin quando la politica migratori di questi due Paesi non è
mutata. Sono state necessarie numerose riunioni delle forze di polizia dei Paesi della rotta
balcanica che hanno successivamente coordinato le varie politiche nazionali e
nell’applicazione delle singole policy nazionali. Il governo macedone si è avvalso della
collaborazione anche delle altre forze di polizia della regione per controllare il confine con
la Grecia.
63
2.2.4. L’Ungheria
L’Ungheria rappresenta un caso particolare tra i Paesi di transito verso l’Europa per
via della peculiare posizione di politica migratoria che il Paese ha assunto già prima che la
crisi raggiungesse il suo apice. La linea scelta dall’Ungheria e proposta da Budapest
all’Unione Europea era quella della chiusura dei confini esterni dell’Unione, muovendo la
procedura di verifica dei possibili richiedenti asilo nei flussi fuori dai confini della UE in
appositi Hot Spot da posizionare
al di fuori del territorio della UE.
Di fatto l’Ungheria è stato il primo,
e per lungo tempo unico, Paese
della UE che ha proposto
l’adozione di una politica di
respingimenti collettivi lungo la
frontiera esterna della UE
piuttosto che una politica di
gestione, integrazione e
redistribuzione dei flussi.
L’Ungheria ha resistito alle
pressioni e alle critiche
provenienti dall’Unione Europea
e dagli altri Paesi europei e, a
partire dal giugno 2015, ha iniziato a chiudere il confine europeo con la Serbia e a
costruire una barriera lungo il confine del Paese.
La mancanza di confini naturali come fiumi o montagne tra i due Paesi ha spinto
l’Ungheria alla realizzazione di una barriera di contenimento della pressione migratoria
lungo tutto il confine del Paese con la Serbia per un’estensione totale di 175 km. Oltre ad
essere la prima barriera costruita essa è anche la più lunga. La rete con filo spinato è alta
3,5 metri ed è stata realizzata dalle forze armate ungheresi con il concorso di lavoro civile.
La barriera non sigilla totalmente il confine ma lascia aperti due varchi attraverso cui
possono accedere solo i migranti intenzionati a fare in Ungheria domanda di rifugiato
politico mentre gli altri non in possesso di un legale permesso di accesso sono respinti.
Questa politica ha prodotto un numero elevato di decine di migliaia di migranti intrappolati
tra Serbia, Bosnia Erzegovina e Macedonia. Per mantenere l’efficacia di questa barriera si
è resa necessaria la costruzione di una seconda barriera di confine lungo tutto il confine
Figura 17 La rotta balcanica punta dalla Grecia alla Pannonia
via Ungheria
64
con la Croazia, per un totale di ulteriori 348 chilometri ed è stata completata nel corso del
2015
Sempre nel corso del 2015 l’Ungheria ha
adottato (Decreto governativo n.191 del 2015)
una lista di Paesi di origine sicuri (safe countries
of origin) e di Paesi terzi sicuri (safe third
countries). La cosa interessante è che le due
categorie coincidono e tutti i Paesi della lista
sono sia safe countries of origin che safe third
countries. Questa lista in particolare ha
significato per la rotta balcanica in virtù della
designazione di tutti i Paesi di transito, Grecia
inclusa, come Paesi terzi sicuri. In funzione
della nuova legge saranno considerati sicuri tutti
i Paesi europei ed i Paesi candidati quali
l’Albania, la Bosnia Erzegovina, la Macedonia, il
Kosovo, il Montenegro e la Serbia. In base a
questa designazione come “safe third country”
le autorità ungheresi potranno dichiarare
inammissibili e respingere i richiedenti asilo che
provengono dalla rotta balcanica basandosi
sull’assunto che i richiedenti asilo che hanno
avuto nei Paesi di transito della regione delle
opportunità di ricercare ed ottenere protezione.
Ciò vuol dire che in base a questa normativa
l’Ungheria potrà rifiutare di vagliare le richieste
di asilo politico e respingere alla frontiera le
persone che sono arrivate sul suo territorio
attraverso la rotta balcanica (Serbia in particolare).
È importante riconoscere che l’adozione di queste politiche, che ha comportato
anche l’apertura di un contenzioso istituzionale molto forte tra le istituzioni europee ed il
governo ungherese (ma anche con tutti e 4 i Paesi di Visegrad) sono (al di là delle pur
importanti differenze politiche che esistono tra l’approccio europeo alle migrazioni e la
linea adottata dal governo di centro – destra di Orban) in buona parte la conseguenza di
come la crisi del 2015 si è abbattuta sui confini ungheresi, dopo che l’ondata migratoria,
Figura 18 L'Ungheria come Paese con le
maggiori richieste di asilo politico nel 2015
65
proveniente dalla Turchia, ha travolto la Grecia ed ha attraversato i Paesi dei Balcani
Occidentali. Nel 2015 l’Ungheria è il Paese che più di ogni altro in Europa ha ricevuto
domande di asilo politico.
2.2.5. L’Albania
L’Albania è un Paese che solo marginalmente è stato toccato dalla crisi migratoria
balcanica ma dovrebbe essere incluso tra i Paesi della rotta, o quanto meno come uno dei
Paesi da cui potrebbe originarsi un ramo “B” della rotta. Nel marzo 2016 vi sono stati
numerosi allarmi, poi rivelatisi infondati, sul fatto che dopo la chiusura del confine
macedone l’Albania sarebbe divenuto
il Paese che sarebbe stato invaso dal
flusso di rifugiati che avrebbero poi
proseguito verso l’Italia attraverso una
ipotetica rotta marittima. Ciò non si è
poi verificato e, nonostante milioni di
persone hanno attraversato la rotta
balcanica principale e decine di
migliaia sono rimaste bloccate tra
Grecia, Macedonia e Serbia, la
possibile rotta albanese non si è
attivata e sono stati poche migliaia i
migranti che sono arrivati in territorio
albanese. Il governo di Tirana ha
specificato che la frontiera con la Grecia e con la Macedonia sarebbe rimasta chiusa ai
migranti e solo un numero molto basso di infrastrutture ricettive di emergenza per poche
migliaia di migranti sono state approntate al confine con la Grecia.
Ci sono vari motivi a nostro avviso perché l’Albania non è divenuta né un ramo della
rotta balcanica né è stata interessata dal riflusso di migranti una volta chiusi i confini
macedone e ungherese. La prima spiegazione è quella più logica ed apparente. I Balcani
sono una regione difficile da attraversare, montuosa, con scarsi collegamenti e numerosi
ostacoli sociali e culturali. I migranti non si muovono da soli o liberamente ma possono
riuscire ad attraversare un Paese della regione solo affidandosi o al sistema di trasporto
dello Stato o ad una rete privata di persone. In entrambi i casi l’integrazione della
Figura 19 Possibili opzioni alternative del traffico
di migranti via Albania
66
Macedonia con la Serbia è molto più forte di quella esistente con la Macedonia. Una fonte
di preoccupazione è ovviamente rappresentata dal fatto che il confine tra Albania e Grecia
è difficilmente controllabile a fronte di flussi migratori illegali di massa. Esso è difatti un
confine montuoso con un numero molto elevato di sentieri accessibili di difficile controllo.
Ma l’asperità del territorio, la mancanza di
mezzi di trasporto ed i lunghi tratti da
affrontare a piedi una volta giunti in
territorio albanese rappresentano a loro
volta una difficoltà all’accesso. Solo a
fronte di una politica dello Stato albanese
di trasportare i migranti al mare Adriatico e
una disponibilità di organizzazioni di
trafficanti di portare via mare verso l’Italia i
migranti è ipotizzabile che possa aprirsi un
ramo di una rotta albanese – adriatico
verso il nostro Paese. Tuttavia, le basse
capacità di accoglienza albanese e la necessità dell’attraversamento del confine marittimo,
assieme all’assenza di mezzi di trasporto pubblici sono i tre colli di bottiglia che
dovrebbero prevenire un numero massiccio di migranti dal partire alla volta dell’Albania.
Ricordiamo che la crisi migratoria del 2015 è arrivata nel cuore dell’Europa non soltanto
perché vi era un flusso in entrata dalle isole greche ma anche perché vi era da parte dei
Paesi riceventi una serie di condizioni, tra cui una minima capacità di accoglienza di
emergenza da parte dei Paesi di transito, mezzi ed infrastrutture di trasporto con cui
organizzare spostamenti di massa di decine di migliaia di persone in poco tempo, volontà
dei Paesi sotto pressione migratoria di movimentare le masse dei migranti attraverso il
proprio Paese in violazione degli obblighi internazionali.
La rotta balcanica si è costruita verso Nord perché lungo questa rotta vi erano una serie di
Paesi relativamente bene collegati tra loro, caratterizzati da frontiere relativamente
semplici da attraversare con una serie di governi che, sotto l’influsso politico proveniente
dalla Germania e dall’Austria hanno deciso di favorire il transito dei migranti per alleggerire
la pressione migratoria gravante sulla Grecia. Più i migranti venivano trasportati lungo la
rotta, più l’effetto svuotamento delle strutture logistiche di accoglienza consentiva una
rapida sostituzione con i nuovi migranti, secondo un processo che si autoalimentava.
Queste condizioni non sono presenti lungo la rotta balcanica propriamente detta a causa
della marginalità della regione, della sua relativa asperità ed inaccessibilità, alla mancanza
Figura 20 La rete ferroviaria macedone mostra la
scarsità di collegamenti con l’Albania
67
di infrastrutture di collegamento e alla assenza di centri di accoglienza che possano
essere utilizzati come posti di transito. Difficilmente la rotta dalconfine greco – albanese /
austriaco potrebbe essere percorsa in poche decine di ore come accaduto per quella
greco – macedone / ungherese. Ovviamente, come alcuni temono, la pressione migratoria
dalla Grecia all’Albania potrebbe non cercare di risalire la penisola attraverso i Balcani
propriamente detti (attraverso le impervie vie di Albania, Montenegro, Bosnia Erzegovina
per giungere alla
Croazia) ma puntare al
mare mediterraneo e
proseguire da qui verso
l’Italia. La difficoltà di
questo tragitto è
ovviamente che esso
non può essere
affrontato con mezzi
propri, come è stato il
caso della rotta
balcanica via
Macedonia/Serbia, ma
avrebbe bisogno di
un’efficiente rete di trafficanti via mare che a loro volta dovrebbero beneficiare delle
compiacenze del governo albanese per poter avviare il traffico verso l’Italia. Governo che
dovrebbe, a sua volta, organizzare dei campi profughi e di accoglienza lungo la costa da
cui poi i migranti potrebbero collegarsi con i trafficanti e tentare la traversata. A parte che
non si capirebbe perché questa traversata verso le coste italiane dovrebbe essere fatta
dall’Albania (ove non ci sono campi profughi) e non dalla Grecia stessa da dove il flusso di
migranti proviene e dove vi sono i campi profughi di partenza. Ci appare abbastanza
evidente che a fine 2017, non vi sono le condizioni affinché una tale rotta si materializzi.
Se il governo albanese non avvierà una politica di ricezione e di facilitazione dei
transiti lungo il suo territorio ci pare molto difficile che possano attivarsi le condizioni che
porteranno i flussi migratori provenienti dalla Turchia a premere sul Mare Adriatico verso la
Puglia. E’ invece più probabile che una chiusura della rotta balcanica porti i migranti
presenti sul territorio della Grecia e della Turchia ad incrementare la rotta del Mediterraneo
Orientale che già porta qualche migliaia di migranti dalla Turchia o dall’Egitto – in molti
casi attraversando le acque territoriali greche – sulle coste di Calabria e Puglia.
Figura 21 Richiedenti asilo in Albania 2014 - 2016
68
Questa rotta, che è diminuita drasticamente con l’apertura della rotta balcanica, ha visto
un massimo di circa 5.000 transiti annui.
Non bisogna dimenticare che, se è vero che in Albania in passato vi erano
organizzazioni criminali specializzate nel traffico di esseri umani attraverso l’Europa,
anche via mare, queste organizzazioni hanno in buona parte abbandonato questo settore
nel momento in cui vi è stata una liberalizzazione dei visti, per cui non vi sono attualmente
organizzazioni significative dedite a questo tipo di traffico. Ad ogni modo, nel ottobre 2015
il governo albanese ha varato dei piani di emergenza per far fronte a potenziali crisi
migratorie provenienti dal confine con la Grecia simulando una possibile pressione
massima giornaliera di 1.000 individui.
69
CAPITOLO 3 - ANALISI, OSSERVAZIONI, CONLUSIONI E POLICY OPTION
3.1. Analisi delle politiche di gestione e contenimento del fenomeno lungo la rotta anatolico – balcanica e fattori che potrebbero incidere nella magnitudine dei flussi
Un’analisi delle politiche di gestione e contenimento del fenomeno migratorio deve
partire dalla constatazione che sia l’Unione Europea che i suoi stati membri hanno
largamente fallito ad anticipare la scala dei flussi migratori, le loro connessioni con le
principali questioni di sicurezza europee e gli effetti che la crisi produce sulle relazioni
politiche e di sicurezza tra gli Stati europei e tra gli Stati dell’Unione Europea ed i Paesi
dell’area di vicinato. Buona parte della crisi migratoria europea è collegata con i flussi dalla
rotta anatolico-balcanica in quanto quella attraverso il Mediterraneo Centrale è stata in
buona parte assorbita dall’Italia. I Paesi della rotta anatolico-balcanica hanno mancato o
della volontà o della capacità di arginare il flusso che si è direttamente riversato verso
l’Europa continentale. Da qui esso potrà anche redistribuirsi tra i vari Paesi europei
utilizzando le vigenti libertà di spostamento intra-europea e l’assenza di controllo nello
spazio Schengen. L’Unione Europea in quanto tale, ed in particolare la politica estera e di
sicurezza europea è apparsa assolutamente impreparata a fronteggiare la crisi e le
debolezze degli Stati della rotta balcanica. La crisi migratoria di fatto è stata tamponata
attraverso l’assorbimento delle masse di migranti irregolari che premevano sulle frontiere
europee da parte di alcuni Stati membri (Italia per la rotta del Mediterraneo centrale),
Ungheria, Germania, Austria e Svezia per quella anatolico-balcanica. L’Unione Europea
ha dimostrato non solo l’inadeguatezza dei suoi meccanismi di early-warning e di
diplomazia preventiva ma anche l’assenza di strutture e meccanismi con cui reagire alla
crisi, anche ai soli aspetti umanitari. Buona parte del supporto ricevuto dalla Grecia al
collasso è stato difatti fornito da organizzazioni come UNHCR.
Pur con una serie di cautele, l’accordo con la Turchia ha sicuramente rappresentato
una forma politica di gestione della crisi, lavorando sul ruolo fondamentale della Turchia
come principale Paese di origine dei flussi verso l’Europa. L’accordo, tuttavia, più che il
frutto di un negoziato europeo con Ankara è il risultato di un’intesa politica di alcuni singoli
Paesi europei ed in particolare della Germania.
L’accordo non è dunque un trattato giuridicamente vincolante dell’Unione Europea – i
cui organi giurisdizionali si sono difatti dichiarati non competenti a giudicarne la
compatibilità con i Trattati europei – quanto piuttosto un accordo politico basato sulle
70
relazioni di singoli Paesi europei con Ankara e riconosciuti dall’Unione stessa affinché la
Turchia blocchi i flussi. Ciò comporta che si riconosce che tali flussi hanno un carattere
secondario e non emergenziale, in quanto partono da un Paese sicuro ed
economicamente stabile che già fornisce protezione internazionale a coloro che fuggono
dai conflitti. Sicuramente la Turchia non è però in grado di assorbire milioni di migranti
economici, come d’altronde nessuna area del mondo appare essere più in grado di
sostenere. Tutti i Paesi o le regioni che in passato hanno rappresentato dei poli di
attrazione di massa della manodopera proveniente da Paesi in via di sviluppo (come il Sud
Africa, la Penisola arabica, la Libia, l’Australia, gli Stati Uniti d’America, UK, Francia,
Germania) hanno invertito da alcuni anni la tendenza, limitandosi ormai a politiche
selettive e qualitative di accettazione di un numero limitato di persone. Questo tratto della
chiusura delle politiche migratorie delle principali aree di traino e sviluppo economico del
mondo deve essere considerato come un aspetto scarsamente modificabile del contesto
globale almeno per il medio-periodo.
Al tempo stesso aumenta notevolmente il numero di persone che - facilitate
dall’abbattimento dei costi di trasporto globale e alla riconversione ai transiti illegali di
massa di molte organizzazioni criminali, dall’aumentare del numero di Stati in situazione di
sovranità precaria (failed or failing) e dal numero di conflitti territoriali che si diffondono in
più punti dell’estero vicino europeo – puntano a raggiungere l’Europa con migrazioni
indirette, ossia che attraversano Paesi socialmente ed economicamente stabili. A questi
flussi, che interessano milioni di persone, si aggiungono le decine di milioni di persone che
già vivono come IDP o come rifugiati nei Paesi contermini ai luoghi di conflitti ereditati
negli ultimi trent’anni e i normali migranti economici che abbandonano per motivi sia
economici che di standard democratici i Paesi di origine. L’UNHCR stima che solo le
migrazioni in vario modo forzate del passato e del presente interessino oltre 60 milioni di
persone.
La sostenibilità di lungo periodo dell’accordo con la Turchia non può essere
considerata garantita per la prevalente natura politica e non giuridicamente vincolante
dell’accordo e dal mix piuttosto confuso ed incoerente di elementi che sono stati messi ad
oggetto dell’accordo stesso. Ma anche per la continua tensione che caratterizza le
relazioni tra Germania, Austria e Turchia e che più volte sono arrivate sul punto di una crisi
diplomatica nel corso del 2017. Certamente il corridoio balcanico è ora relativamente
chiuso, con l’apprestamento di misure di controllo delle frontiere e sono state rafforzare le
capacità dei Paesi della regione di ispezionare i propri confini e gestire con maggiore
capacità una eventuale prossima crisi migratoria. Il controllo dei confini e la maggiore
71
capacità di gestione, unita ad una politica restrittiva degli accessi non dovrebbe portare al
verificarsi di una situazione simile a quella accaduta nel 2015 – 2016. Ciò non vuol dire
che non si verificherà una prossima crisi migratoria, ma piuttosto che, se essa si dovesse
verificare in Grecia – il Paese debole della catena balcanica sia per le condizioni interne
che per la presenza di una frontiera marittima con la Turchia – tale crisi non si ripercuoterà
molto meno che in passato lungo la rotta Balcanica ed essa potrebbe, piuttosto dirigersi o
essere diretta verso la rotta del Mediterraneo centrale che interessa direttamente l’Italia.
Rispetto alla crisi del 2015, inoltre, gli anni avvenire dovrebbero essere
caratterizzanti da un realistico miglioramento della situazione interna alla Siria che
dovrebbe consentire sia una riduzione dei flussi in uscita per motivi umanitari, sia un
progressivo rientro dei profughi sfollati nei Paesi limitrofi: Turchia, Giordania, Libano. Da
questo punto di vista è importante che il processo di rimpatrio dei profughi dai Paesi vicino
non produca, a fronte ovviamente delle difficoltà del reinserimento dei profughi nella
società siriana post-bellica (come avvenuto nei casi dell’Afghanistan o della Somalia) un
nuovo processo di flusso verso l’Europa. È pertanto importante che l’Unione Europea
completi il proprio piano di chiusura della rotta balcanica con una strategia di investimenti
in Siria ad in Iraq volti al riassorbimento abitativo ed occupazionale dei profughi e degli
Internal Displaced Persons. Parliamo di una massa tra i 5 ed i 10 milioni di persone che va
in qualche modo ricollocata nella società del Paese. È certamente un’operazione non
facile, sia da un punto di vista materiale che politico, in quanto presuppone una
collaborazione nella ricostruzione con il governo di Damasco che appare essere molto
lontana dalle intenzioni dell’Europa.
La crisi migratoria ha evidenziato una questione fondamentale, ossia se il controllo
delle frontiere esterne è responsabilità dello Stato di confine o è una responsabilità
collettiva dell'UE a cui tutti i Paesi devono contribuire. Ad ogni modo, fin quando da questa
cooperazione tra Stati di frontiera ed Unione Europea non si sviluppi una capacità di
controllo dei flussi (dove come controllo intendiamo sostanzialmente sia quello qualitativo,
del riconoscimento delle persone che accedono, che quello quantitativo, relativo alla
massima quantità di migranti che un Paese può accogliere senza abbassare i suoi
standard della sicurezza interna) la tendenza da parte di alcuni Paesi europei che hanno
una precaria situazione di homeland security (in particolare radicalizzazione e terrorismo)
di ripristinare i propri controlli sui passaporti all'interno dell'area Schengen (in violazione
dei principi di Schengen) proseguirà. Se questi comportamenti dovessero proseguire a
lungo, segno di una persistente e sistematica sfiducia sull’integrità della frontiera esterna
di Schengen e sulle capacità degli Stati di frontiera di garantirle, l’intero principio della
72
libertà di circolazione intra-europea e probabilmente la stessa integrazione europea
saranno sospese o abbandonate.
La proposta della Commissione Europea di riformare Frontex e di trasformarla in
un’agenzia incaricata della protezione esterna dei confini dell’Unione va sicuramente in
questa direzione. Quello che però ancora manca è la consapevolezza che la nascente
Guardia di frontiera europea non sarà chiamata a svolgere il proprio ruolo solo ai confini
dell’Unione, ma bensì prevalentemente verso i territori di transito ove i flussi migratori
irregolari si generano, si moltiplicano e si criminalizzano. In altre parole, un sussidio
europeo alle forze nazionali di protezione dei confini Schengen sortirà a nostro avviso
effetti probabilmente trascurabili, mentre quello di cui ci sarà davvero bisogno in futuro è la
proiezione delle forze europee di controllo dei confini all’estero, lungo le frontiere
incontrollate ed attraversate dai traffici di ogni natura, inclusa quella criminale e
terroristica. La proiettabilità di tali forze nell’Africa Sub Sahariana nel Sahel o in Medio
Oriente rappresentano senza dubbio l’anello mancante della strategia difensiva
dell’Unione Europea.
La creazione nel 2016 da parte dell’Unione Europea all’interno di Europol di due
centri operativi dedicati al contrasto al terrorismo (European Conter Terrorism Center) e al
contrasto al traffico di esseri umani (European Migrant Smuggling Center), così come la
creazione della EU Passenger Name Record Directive rappresentano certamente alcuni
concreti passi per il coordinamento e la collaborazione tra i Paesi europei in materia di
protezione delle frontiere comuni, che si sommano alla creazione di una European Border
and Coast Guard Agency e all’accordo migratoria con la Turchia.
73
3.2. Possibilità di connessioni tra flussi migratori e fenomeni terroristici
Un gran numero di migranti non registrati che si spostano nell'area Schengen è
riconosciuto da parte di tutti i governi europei e delle principali agenzie di polizia e di
intelligence come un fattore che aggrava le attuali minacce alla sicurezza in tutta l’area
Schengen e – a causa delle libertà interne di circolazione - rischia di compromettere i
controlli migratori e le misure anti-terrorismo in altri paesi, incluso l’Italia.
La domanda che viene spesso posta (esistono connessioni tra il fenomeno
migratorio ed il fenomeno terroristico? domanda a cui solitamente si dà risposta negativa)
è in realtà una domanda mal posta. Messa in questi termini essa è formulata non per fare
un assesment del rischio ma per indurre una risposta negativa, in quanto è evidente che il
concetto di migrante ed il concetto di terrorista sono due concetti diversi. Quello su cui
bisogna invece riflettere è quale connessione esiste su come i flussi migratori incontrollati
impediscano la border security, creando i presupposti di vulnerabilità delle frontiere in cui
si possono inserire individui o già appartenenti a cellule terroristiche o radicalizzati ed
intenzionati a diffondere i messaggi dell’Islam radicale nelle comunità mussulmane
residenti in Europa. La prima di queste ipotesi, l’infiltrazione di terroristi nello spazio
europeo attraverso i flussi incontrollati delle persone che sono entrate nell’Unione del
corso della crisi migratoria, non è più un ipotetico caso di scuola – come si è a lungo
sostenuto – ma si sono registrati sicuramente almeno due precedenti pubblicamente noti.
Due dei terroristi coinvolti negli attacchi del novembre 2015 a Parigi, difatti, hanno
attraversato il confine greco approdando sulle isole greche con i barconi dei migranti
provenienti dalla costa turca, utilizzando falsi passaporti siriani per evitare che le loro
identità – note ai database anti-terroristici europei – fossero identificate. Questi sono casi
ovviamente non di migranti divenuti terroristi ma, molto più verosimilmente, di terroristi che
si sono infiltrati in Europa mischiati al flusso dei migranti. L’intenzione dell’ISIS di utilizzare
il flusso di migranti per infiltrare in Europa terroristi è stata più volte dichiarata nel corso del
2015 (Funk, 2016) quando lo Stato Islamico ha proclamato di aver infiltrato in Europa
migliaia di terroristi via Turchia.
Per quanto riguarda invece il caso di individui che probabilmente erano entrati in
Europa come migranti e che successivamente si sono resi responsabili di attacchi di tipo
terroristico, si sono registrati quattro episodi (di diversa gravità) tutti in Germania tra il
gennaio 2016 e l’aprile 2017. Due di questi (attacco al treno di Wurzburg del luglio 2016 e
l’attentatore suicida di Ansbach sempre del luglio 2016) sono stati realizzati da richiedenti
asilo di nazionalità pachistana e siriana entrati in Germania attraverso la rotta balcanica. In
74
aggiunta, alcuni cittadini europei che hanno combattuto in Siria/Iraq come foreign fighters
sono rientrati in Europa mischiandosi al flusso di migranti durante la crisi migratoria
(Danish Institute for International Studies , 2017). Questi dati, per quanto parziali e non
rappresentativi non consentono né di confermare né di escludere l’esistenza di un nesso
tra fenomeno migratorio e terrorismo. Certamente, essi devono piuttosto far riflettere sul
fatto che esistono numerosi punti critici tra rischio terrorismo e crisi migratoria lungo la
rotta balcanica che possiamo così esemplificare:
Rischio vulnerabilità: una delle maggiori fonti di preoccupazione dovrebbe riguardare il
fatto che la categoria dei migranti irregolari in viaggio verso l’Europa è da considerarsi
una categoria sociale debole, che le problematiche economiche, le disumane condizioni
di viaggio, i meccanismi di sfruttamento espongono ad un alto rischio di
strumentalizzazione, tanto da parte del mondo criminale quanto di quello terroristico. La
Germania ha segnalato che, nel solo 2016, vi sono stati oltre 300 tentativi da parte
dell’ISIS di fare proseliti tra i migranti (Danish Institute for International Studies , 2017).
Il fatto che i flussi migratori della rotta balcanica si originino da Paesi come la Sira, l’Iraq
e l’Afghanistan che sono caratterizzati da una presenza ed un radicamento diffuso di
organizzazioni jihadiste rende ovviamente significativo il rischio non solo che membri
delle organizzazioni terroristiche si possano infiltrare tra i flussi migratori, ma che essi
trovino un ambiente favorevole al reclutamento. Sono difatti noti numerosi casi di come
lo Stato Islamico abbia usato i flussi migratori – gli spostamenti di persone che
ambiscono a recarsi in Europa per trovare migliori condizioni di vita – per reclutare,
forzosamente o a pagamento, propri miliziani o operativi. La commistione dei flussi
migratori da o attraverso Paesi in cui opera lo Stato Islamico o organizzazioni qaediste
è sicuramente una fonte di rischio importante per la sicurezza europea. Al punto che i
flussi provenienti da questi Paesi dovrebbero andare incontro a molteplici forme di
screening e ad interviste estremamente accurate e dettagliate, in particolare sul piano
psicologico, che non ci risulta siano state fatte lungo la rotta balcanica. Anzi, il fatto che
gli stessi Paesi di operatività dello Stato Islamico sono anche i Paesi da cui sia più facile
ricevere lo status di rifugiato, rende paradossalmente meno efficace lo screening alle
frontiere. Ovviamente l’accuratezza dello screening e delle procedure di determinazione
dello status dei migranti e dei richiedenti asilo è inversamente proporzionale rispetto ai
volumi dei flussi e alla loro velocità.
75
Rischio della incapacità di filtro dei flussi ibridi: A fronte di processi migratori dal
carattere estremamente ibrido e complesso, uno dei rischi connessi alla crisi migratoria
europea è legato alla magnitudine e velocità del fenomeno e dell’incapacità dei sistemi
di controllo e di sicurezza di distinguere tra le diverse anime e motivazioni delle persone
che alimentano i flussi. La categoria di migrante viene normalmente utilizzata per
descrivere chiunque migri e ad essa vengono assegnati dei caratteri giuridici, ma
spesso si riflette molto poco sul fatto che il termine migrante è un aggettivo e non un
sostantivo. Esso cioè non qualifica l’identità o la qualità della persona che si sposta, ma
l’atto di spostarsi da A a B e la condizione di vulnerabilità o di precarietà con cui si
realizza lo spostamento. In altre parole il concetto di migrante è un concetto
temporaneo e che indica le modalità e la tipologia di uno spostamento ma non l’identità,
le intenzioni e le capacità soggettive del soggetto migrante. In linea teorica, dunque,
così come si può avere il caso di un “minore migrante”, di una “famiglia migrante”, di un
“lavoratore migrante” eccetera, allo stesso modo il fenomeno migratorio può interessare
soggetti negativi e pericolosi per la società e possono verificarsi i casi di “criminali
migranti”, “radicali migranti”, “combattenti migranti” o “terroristi migranti”. Soprattutto è
inevitabile che ciò avvenga quando le migrazioni diventano bibliche e, anche per la
semplice teoria dei grandi numeri, bisogna accettare che ogni categoria sociale di una
società in guerra che accede alle migrazioni irregolari internazionali sia rappresentata
all’interno dei flussi. Ecco dunque che la tendenza ad utilizzare correntemente
l’aggettivo in senso sostantivizzato “il migrante / i migranti” (o in maniera ancora più
spersonalizzata “i flussi migratori”, ove addirittura non ci si concentra più sull’elemento
umano ma sul processo storico) non deve far dimenticare la ricchezza e complessità
del mondo in migrazione e della necessità per le società riceventi di mettere in atto,
oggi più che in passato, tutte le misure necessarie per contrastare il rischio di
genericizzazione e standardizzazione di flussi che non sono né generici né standard,
ma presentano al loro interno forti elementi potenziali di devianza rispetto a quello che è
il concetto che in Europa abbiamo di “migrante medio”. Questo non vuole affatto dire
che bisogna avete un approccio cosiddetto “securitario” rispetto ai flussi migratori, ma
conoscitivo e selettivo sì. Solo se riusciamo ad avere un processo di screening degli
ingressi nell’Unione Europea e a tenere bene distinte le varie categorie che possono
migrare irregolarmente/illegalmente verso l’Europa (profughi, richiedenti asilo, migranti
economici, migranti irregolari/ avventurieri/opportunisti, foreign-fighters, terroristi ecc.)
sarà possibile dare una risposta alla domanda se è alto o basso il rischio di
contaminazione dei flussi migratori con pericoli per la sicurezza.
76
Rischio della permeabilità delle frontiere. Un altro rischio che potenzialmente collega la
crisi migratoria al rischio terrorismo è che il flusso migratorio, nelle modalità con cui si è
riversato sulle frontiere europee e degli altri Paesi della rotta balcanica, è quello di
creare delle vulnerabilità nella gestione delle frontiere costringendo i Paesi europei ad
aprire indiscriminatamente anche a fronte di un mancato controllo delle identità delle
persone che entrano nell’Unione. Flussi migratori costanti e sostenuti irregolari aprono
di fatto alla criminalità organizzata le porte dell’Unione Europea mettendo in contatto le
organizzazioni criminali operanti all’interno dell’Europa con quelle presenti nei Balcani,
nel Medio Oriente ed in Africa. La facilità con cui le organizzazioni criminali dedite al
trafficking e allo smuggling degli esseri umani verso l’Europa possono gestire fiumi di
denaro con cui corrompere funzionari, investire per la falsificazione dei documenti o la
creazione di safe houses in zone franche non controllate dalla forze dell’ordine crea
attraverso le frontiere europee e nel territorio EU delle infrastrutture di traffico di
persone il cui scopo è quello rendere permeabili le frontiere europee di fatto “vendendo”
opzioni di accesso illegale all’Europa che possono essere utilizzate da chiunque. La
permeabilità delle frontiere europee diviene dunque un ulteriore costo
Rischio dei ritorni economici Tuttavia, ciò che a nostro avviso rappresenta una delle
principali preoccupazioni relative alle possibili connessioni tra flussi migratori e
terrorismo è legato ai collegamenti finanziari che si possono stabilire tra i due fenomeni.
Le attività di human smuggling hanno dimostrato essere le attività illegali più redditizie e
meno perseguite di oggi. In particolare, l’industria del traffico di esseri umani verso
l’Europa movimenta miliardi di euro ogni anno generando redditi cash superiori a quelli
derivabili da altre attività criminali (più rischiose) come il traffico di droga o di
stupefacenti. Secondo alcune stime il traffico di esseri umani che ha portato in Europa
oltre 1 milione di persone ha generato profitti vicini al miliardo di euro23. Al punto che
numerose organizzazioni criminali o addirittura organizzazioni jihadiste hanno deciso di
spostare la propria attività ad includere anche il traffico di uomini. In virtù del fatto che lo
Stato Islamico o altre organizzazioni di stampo jihadista assimilabili controllano o le
aree di partenza o, in molti casi, corridoi di transito delle rotte dei traffici, è evidente che
una parte dell’economia dello smuggling dei migranti finisce in un modo o nell’altro a
finanziare attività di organizzazioni jihadiste. La cosa non deve sorprendere visto che è
ben noto anche per indagini avvenute sul territorio nazionale italiano come esistano
23 Vedi Claudio Gatti, Il dottore, il sudanese, il siriano: i boss di un traffico di uomini sa 3 miliardi che alimenta il terrorismo. Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2015.
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delle organizzazioni jihadiste operanti sul territorio nazionale italiano che si finanziano
con il traffico di migranti dal loro Paese all’Italia24. La stessa rotta balcanica è in buona
parte movimentata da organizzazioni criminali di smugglers siriani che sono basati sia
in Turchia che in Grecia. Le possibili connessioni di questi trafficanti con le
organizzazioni siriane jihadiste e dello Stato Islamico o con altri attori paramilitari della
guerra civile è attività un’eventualità tutt’altro che improbabile.
24 Vedi Bepi Castellaneta, Terroristi finanziati con le traversate. Allarme somali, scatta l’inchiesta. Corriere della Sera, 1 dicembre 2016.
78
3.3. Conclusioni: effetti per la sicurezza regionale e nazionali di possibili nuove crisi migratorie e policy options
La crisi migratoria non avviene in un periodo qualsiasi della storia dell’Unione
Europea, ma in uno caratterizzato da due altre importanti crisi: quella della sicurezza
interna, legata ai fenomeni di radicalizzazione e terrorismo che tra il 2015 ed il 2016 hanno
colpito massicciamente diversi Paesi dell’Unione, Germania in particolare; l’altra è la crisi
della sicurezza esterna, con un’impressionante numero di Stati nella cintura dell’estero
vicino europeo che sono andati incontro a guerre civili (Libia, Siria, Ucraina), rivolte
(Tunisia, Egitto) o colpi di Stato (Turchia). A questi problemi geopolitici si sommano due
altri fattori, quello del collasso degli stati deboli dell’Africa e del Medio Oriente e quello del
ritorno delle tensioni tra grandi potenze, in particolare nel rapporto Usa – Russia e nel
rapporto interno al mondo islamico tra sunnismo e sciismo.
La somma di questi elementi produrrà, nel prossimo decennio, uno scenario in cui le
crisi legate agli spostamenti di popolazione ed i problemi di sicurezza migratoria saranno
crescenti ed essi riguarderanno o attraverseranno aree in subbuglio geopolitico. Ecco
dunque - riprendendo il concetto che abbiamo espresso nel primo capitolo che i problemi
migratori non sono per sé collegati alla sicurezza ma lo divengono a seconda del contesto
geopolitico in cui essi avvengono - deve essere considerato elevato il rischio che i flussi
migratori futuri nel Mediterraneo Centro-Orientale saranno flussi migratori insicuri.
Riteniamo difatti che le migrazioni possono essere sicure o insicure a seconda delle
modalità e del contesto geopolitico attraverso cui esse avvengono e che il contesto
geopolitico attuale tende a renderle decisamente insicure e strumentalizzabili.
Se dal Medio-Oriente, per via di nuovi conflitti o per via della implosione di altri Stati,
dovessero generarsi nuovi flussi di ampia magnitudine attraverso il Mediterraneo
Orientale, essi si riverserebbero in maniera più o meno intercambiabile tra le due rotte del
Mediterraneo centrale (via Libia) e quella anatolico-balcanica (via Turchia). Entrambi i
Paesi, tuttavia, ci appaiono che non saranno in grado di gestire nuove pressioni migratorie
di ampia magnitudine avendo entrambi raggiunto la massima capacità in proporzione alle
rispettive capacità. Le misure messe in piedi dall’Unione Europea non hanno una
prospettiva strategica, ma lavorano prevalentemente alla riduzione dell’impatto sui confini
esterni della UE e – paradossalmente – alla deviazione dei flussi verso altri Paesi della
stessa UE. Non bisogna aspettarsi troppo dal miglioramento della situazione siriana,
Paese che potrebbe essere indirizzato verso uno scenario post-conflict, in quanto i disastri
economici sono ugualmente, se non ancora più forti, dei conflitti bellici nel produrre
79
emigrazioni verso l’estero (mentre i conflitti sono prevalentemente responsabili della
produzione di IDPs e campi profughi interni allo stesso Paese di conflitto).
Inoltre, non bisogna sottovalutare il fatto che una prossima pacificazione della Siria
se avrà un effetto, almeno giuridico, sul numero di rifugiati/migranti provenienti da questo
Paese, potrebbe avere come conseguenza anche quello di ripristinare
un’interconnessione geopolitica tra la rotta anatolico – balcanica e la rotta via Libia del
Mediterraneo centrale. Se la Turchia o i Paesi europei della rotta balcanica che hanno
ricevuto flussi di richiedenti asilo siriani avvieranno nei prossimi anni una politica di rimpatri
verso la Siria (volontari, assistiti o forzosi) è verosimile che una parte anche non piccola di
questi returnees potranno proseguire nuovamente la loro ricerca di altre modalità di arrivo
verso l’Unione Europea. Che potrebbero aprire una nuova rotta marittima nel Mediterraneo
Orientale o terrestre via Egitto – Libia che andrebbe ad agganciarsi a quella del
Mediterraneo Centrale verso l’Italia. Una situazione similare si è verificata in Somalia nel
2011, quando un miglioramento delle condizioni interne di sicurezza ha spinto i Paesi
limitrofi, Kenya in particolare, ad avviare programmi di chiusura dei campi profughi somali
e di rimpatrio in Somalia. Una parte importante di questi returnees ha poi proseguito, lungo
la rotta del Sahel verso la Libia o verso la Turchia per proseguire poi verso l’Europa,
alimentando sia la rotta centro-mediterranea che, in parte minore, quella anatolico-
balcanica.
La condizione geopolitica europea rispetto alla crisi migratoria viene spesso
identificata come conseguenza del trovarsi al centro di flussi epocali di popoli (su scala
globale le stime indicano 60 milioni di rifugiati e almeno una cifra 4 volte superiore di
migranti economici). A nostro avviso, l’Europa è invece un continente marginale rispetto
alle principali crisi migratorie permanenti mentre rimane centrale rispetto ad un’ampia area
di conflittualità e di implosione della statualità che la circonda pressoché per tutte le sue
frontiere esterne, sia marittime che terrestri.
Questo punto di vista porta a due considerazioni:
È la crisi di sicurezza attorno ai confini europei (che ha una dimensione sia di conflitti tra
potenze per l’egemonia regionale che di conflitti interni dovuti al fallimento di numerosi
stati post-coloniali) che fa sì che i flussi migratori provenienti da altri continenti finiscono
per convergere verso l’Europa e assumono dei caratteri di insicurezza che normalmente
non sono ad essi connaturati.
È il problema della sicurezza interstatuale e infra-statuale nel bacino del Mediterraneo a
moltiplicare enormemente il valore dei flussi, a farli convergere verso l’Europa e a
trasformarli in flussi insicuri, dando agli antagonisti a ridosso dei confini europei – siano
80
essi statuali o non statuali – un potere di minaccia asimmetrica sulle cose e sulle
società dell’Europa.
A nostro avviso, per iniziare ad uscire dalla crisi migratoria è necessario un cambio di
prospettiva, ossia portare la riflessione strategica dall’interno delle frontiere europee verso
l’esterno e riflettere sul fatto che una parte importante della crisi migratoria europea non è
di origine demografica ma di prevalente origine politica. E che essa afferisce più al
problema dello state-building, del post-conflict e della destrutturazione del sistema
internazionale che si è creata nel Mediterraneo ed in Africa con il ritirarsi delle presenze
russo – americane legate alla guerra fredda e l’illusione europea che questo estero vicino
potesse rimanere in piedi solamente grazie ai flussi economici globali e al rapporto
migratorio con l’Europa. L’Unione Europea sta vivendo una duplice crisi migratoria e di
sicurezza perché nella sua visione strategica ha rifiutato, pur avendone i mezzi e gli
strumenti, di darsi una soggettività geopolitica verso l’Africa e verso il Medio Oriente e di
sviluppare una reale politica di CSDP nell’Africa Sub Sahariana ed in Medio Oriente. La
crisi migratoria può essere tamponata con l’utilizzo degli strumenti interni di polizia e
border security ma non può essere controllata o governata senza un’adeguata politica
estera e di difesa europea (o tra Paesi europei in coordinamento tra loro) che avvii una
cooperazione con i principali Paesi di transito nel border management.
In questo contesto, ci pare di che mentre tutti i Paesi europei abbiano ormai da
tempo riclassificato la crisi migratoria europea o direttamente come un problema di
sicurezza o quantomeno come una questione strategica, in grado cioè di impattare sulla
sicurezza nazionale e sulla stabilità dell’Europa, ed abbiano avviato misure interne di
protezione dei loro confini, uguali iniziative non sono state prese dall’Unione nella sua
Politica Estera e di Difesa. Se è normale che i singoli Stati membri ricorrano
prevalentemente a misure interne di protezione dei confini Schengen – o addirittura di
quelli intra Schengen – è invece sorprendente la mancanza di una progettualità di
proiezione esterna della UE lungo le principali rotte di transito o verso i principali Paesi di
provenienza dei flussi. Da questo punto di vista parrebbe che l’iniziativa di concepire e
spingere verso gli altri Paesi dell’Europa questo tipo di missioni di CSDP (che ricordiamo
non è fatto solo di missioni militari ma consente l’utilizzo misto di missioni militari e civili,
ossia di law enforcement) possa essere proposta solo da Paesi interessati dai flussi
migratori e con una politica estera e di difesa importante. Di questi solo l’Italia parrebbe
averne il carattere ed i mezzi e sarebbe pertanto auspicabile che nei prossimi anni,
superata la fase emergenziale dell’Unione Europea, promuovesse un’adeguata ed
81
integrata strategia di border control nel Sahel e nel Medio Oriente, coinvolgendo
prevalentemente i principali Paesi di transito disposti a collaborare.
Affinché questa azione possa essere efficace, essa dovrebbe basarsi su dei
meccanismi di monitoraggio e early warning dei conflitti nei Paesi di origine che possono
produrre flussi di massa di migranti ed una valutazione della situazione interna e della
sostenibilità del peso dei rifugiati dei Paesi che ospitano un numero di rifugiati e IDPs
superiore alle 200.000 persone.
Tuttavia, prevenzione dei conflitti e delle crisi rischiano di non essere efficaci da soli
in quanto oramai le reti di migrazione irregolare verso l’Europa sono state create e sono
attive ed operative, parallele e molteplici; esse coinvolgono decine di migliaia di persone
che sono al tempo stesso beneficiari, gestori, sfruttati e sfruttatori e movimentano risorse
economiche notevoli. Appare dunque che – almeno temporaneamente – sarà necessario
anche lavorare per una maggiore definizione giuridica dei titoli per entrare nell’Unione
Europea, rivedendo se necessario i meccanismi di concessione dello status di rifugiato per
limitarne gli abusi e tutelare i rifugiati davvero bisognosi. Ciò potrebbe essere fatto
attraverso una definizione di una lista di Paesi di transito relativamente sicuri (safe third
countries) per ogni specifica nazionalità interessata dai flussi ed in grado di fornire, anche
con il sostegno europeo, standard accettabili di assistenza ai rifugiati. Ciò vorrebbe dire
che sarebbe necessario ridurre ai casi più gravi, individualmente valutati, le migrazioni
secondarie da questi Paesi e valutati sul posto con i meccanismi degli hot-spot. Questo
approccio, in realtà è quello che è stato più o meno seguito per il caso della Turchia, ma
appare essere non il frutto di una strategia ma di un approccio ad hoc, fatto nel momento
di maggior debolezza dell’Unione Europea. Rivedere i meccanismi di concessione dello
status di rifugiato per limitarne gli abusi, non è solo un modo di evitare il tracollo dei flussi
dai Paesi di transito verso l’Europa ma rappresenta anche una realistica strategia per
tutelare i veri rifugiati. A questo fine, l’Unione dovrebbe procedere con la definizione di una
lista di Paesi di transito relativamente sicuri per ogni specifica nazionalità interessata dai
flussi ed in grado di fornire, anche con il proprio sostegno di emergenza umanitaria in loco
e di border control, standard accettabili nei controlli di confine, nella gestione dei profughi
e richiedenti asilo e nei respingimenti e riaccompagnamenti. Ciò consentirebbe di
ricondurre il meccanismo della tutela dei rifugiati a casi di inoppugnabile protezione e
contrastare il fenomeno degli abusi dello status di rifugiato che danneggia i Paesi di
destinazione dei flussi, i migranti regolari e le stesse categorie vulnerabili davvero
bisognose di tutela e protezione.
82
Tuttavia, gli accordi con i Paesi di transito ed il sostegno alle loro capacità di gestione
dei rifugiati e di border control potrebbero non bastare nel momento in cui si possono
verificare casi di Paesi che, non per incapacità o perché a loro volta interessati da una crisi
migratoria, ma per interesse strategico o volontà di mettere in atto minacce asimmetriche,
attuano o favoriscono un uso indiscriminato degli spostamenti di popolazione verso
l’Europa. In questi casi, lo strumento di collaborazione politico – militare non è applicabile
ma potrebbe comunque essere necessario ricorrere a misure preventive o ritorsive non
implicanti l’uso della forza e che potrebbero essere rappresentante da meccanismi europei
di sanzioni economiche da attivare nei confronti di Paesi di origine o transito che
provochino volontariamente pressioni demografiche di massa verso l’Europa con finalità di
coercizione politico-strategica e si rifiutino di cooperare con l’UE nel contrasto ai traffici di
esseri umani. Molto più realisticamente, le sanzioni economiche sarebbero efficaci non
contro i singoli Paesi ma contro i singoli individui ed organizzazioni criminali responsabili
dei traffici e che movimentano cifre importanti di denaro tra Europa, Paesi di transito e
Paesi di origine. Colpire queste transazioni finanziarie che rendono possono il traffico e la
tratta degli esseri umani verso l’Europa potrebbe essere una strada che potrebbe essere
esplorata per ridurre buona parte dei flussi. Ciò potrebbe essere fatto adottando alcuni
degli stessi meccanismi che furono messi in atto per il contrasto alla pirateria marittima nel
Golfo di Aden, un fenomeno la cui dimensione finanziaria, portata criminale e gli effetti sui
Paesi europei era molto inferiore a quanto prodotto dalla crisi migratoria. A questo
proposito, andrebbe sostenuta la possibilità di creare, in ambito Unione Europea, un
gruppo di lavoro di intelligence finanziaria per lo studio della dimensione economica del
traffico di migranti verso l’Europa e dei canali di riciclaggio dei proventi.
83
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