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mag | zine - La free-press della Scuola di giornalismo dell'Università Cattolica
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Periodico di approfondimento della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
www.magzine.it
%&',(-.
»» Attilio Bolzoni,chi ha ucciso davvero Falcone?
»» Maurizio Torrealta,un’inchiesta nucleare
»» Spot.Us reinventail giornalismo partecipativo
»» Barbagallo, due secolidi camorra napoletana
»» “The Empty House”,webdoc sugli orrori della Kosovo
»» Attilio Bolzoni,chi ha ucciso davvero Falcone?
»» Maurizio Torrealta,un’inchiesta nucleare
»» Spot.Us reinventail giornalismo partecipativo
»» Barbagallo, due secolidi camorra napoletana
»» “The Empty House”,webdoc sugli orrori del Kosovo
C ap o l i n e aB a l c a n i
Mentre ri apre la ferr ovia tra Serbia e Bosnia, Belgradofatica a chiudere i conti col passato. Lo skyline della cittàbombardato nel 1999 è il simbolo di una pace incompleta
Mentre ri apre la ferr ovia tra Serbia e Bosnia, Belgradofatica a chiudere i conti col passato. Lo skyline della cittàbombardata nel 1999 è il simbolo di una pace incompleta
MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 20102
inchiesta
di Valerio Bassan
A undici anni dall’offensiva della Nato contro il regime di Milosevic a Belgra d o, i palazzi distrutti sono ancorav i s i b i l i . L’ E u ropa non è mai stata così lontana. R e p o rt a g eda un Paese che fatica a chiudere i conti col passato
ULLE CINQUE CORSIE di Kneza Milosa, la “stra-
da del potere” che conduce al centro di Belgrado, le
automobili eleganti dei parlamentari si mescolano
alle vecchie Yugo. A metà della grande arteria, tra il
ministero delle Finanze e le ambasciate di Germa-
nia e Usa, due edifici diroccati - speculari l’uno all’al-
tro - si ergono a porta di accesso al cuore della città.
Sono i palazzi che componevano il Generalstab di Milosevic, sede
del ministero della Difesa e dell’esercito federale, costruiti nel 1963
su progetto di Nikola Dobrovic, da molti considerato il più impor-
tante architetto serbo moderno. Il 7 maggio 1999 gli aerei della
Nato li hanno colpiti riducendoli a un cumulo di macerie: da allo-
ra sono trascorsi undici anni, ma i palazzi di Kneza Milosa, così
come gli altri edifici distrutti dalle forze alleate, sono rimasti in sta-
to di abbandono.
Dalle finestre si intravvedono ancora alcuni scaffali pieni di
documenti. L’area dei palazzi è recintata, l’accesso controllato gior-
no e notte dalla polizia. Èproibito persino fotografare i danni pro-
dotti dai bombardamenti, pena salatissime multe e la cancellazio-
ne degli scatti.
Ma cosa ha impedito, finora, la ristrutturazione di questi edi-
fici? Al di là dei problemi tecnici e della mancanza di denaro, è un
controsenso urbanistico che degli spazi così ben posizionati nel cen-
tro della città non riescano a essere venduti o riconvertiti.
«Sono state indette aste per costruirci alberghi, data la loro
collocazione interessante anche dal punto di vista turistico»,
racconta Francesco Mazzucchelli, studioso di architettu-
ra in zone di conflitto all’Università di Bologna e autore di un
libro Urbicidio. Il senso dei luoghi tra distruzioni e ricostruzioni
in ex Jugoslavia, in uscita per Bup -. «In realtà, non è mai stato rea-
lizzato nulla di concreto. Nel 2008 la facoltà di Architettura di Bel-
grado, in collaborazione con l’università “La Sapienza” di Roma,
aveva indetto un concorso con l’idea di recuperare queste struttu-
re: il bando è stato vinto da una coppia di architetti, un serbo e un
italiano. Il loro progetto, però, è finito nel dimenticatoio». Così gli
obiettivi colpiti nel 1999 sono diventati poco alla volta parte inte-
grante del paesaggio urbano della capitale serba.
Chi visita Belgrado per la prima volta,
però, non può rimanere indifferente al
contrasto quasi surreale tra queste cicatri-
ci del paesaggio urbano e l’architettura
neoclassica - in perfetto stile sovietico - che
disegna il resto del centro storico. «B e l g r a-
do è la città delle contraddizioni: aspira a
diventare una grande capitale europea e
mantiene intatte le rovine -prosegue Maz-
zucchelli -. Gli edifici bombardati dalla
Nato rappresentano il ricordo vivo di un
evento non metabolizzato, rispetto al qua-
le la società serba fatica ancora oggi a rap-
portarsi. Belgrado sembra possedere una
speciale predisposizione a registrare alcu-
ni tipi di segni prodotti dalla storia, come
una pellicola troppo sensibile. Al tempo
stesso, questi segni sembrano, più che
altrove, particolarmente resistenti alla
cancellazione, alla rimozione».
Negli ultimi anni, i palazzi colpiti dal-
l’operazione Allied Force sono diventati
oggetto di strumentalizzazione politica da parte dei partiti nazio-
nalisti. «Alcune forze estremiste hanno usato l’immagine
ancora vivida che questi edifici portano dei bombardamen-
ti per tracciare una narrazione, fortemente ideologizzata,
dell’aggressione subita da parte della Nato - osserva Maz-
zucchelli -. In questa chiave, i Serbi diventano, nella propa-
ganda di queste formazioni politiche, il popolo che per eccellen-
za è vittima della storia».
Una caratterizzazione politica che viene sottolineata spesso
anche dalle manifestazioni di protesta in città. Gli edifici progetta-
ti da Dobrovic svolgono infatti un ruolo fondamentale per la loro
visibilità, per la loro centralità, per il contrasto con l’ambiente cir-
costante. «Esiste una continua produzione mediatica di immagini
di proteste che hanno, per scenografia, l’aggressione della Nato.
Quando giornali e televisioni mostrano le immagini delle manife-
S
La memoriab o m b a rd at a
stazioni, le rovine stanno sempre sullo sfondo».
Per questo motivo gli edifici bombardati nel 1999 si sono tra-
sformati, nell’immaginario popolare, in simboli controversi. Edi-
fici che verranno ricordati forse più per la loro distruzione che per
la loro costruzione. «Credo che la memoria viva di una città non
vada cercata tanto nei monumenti, o nei posti progettati con l’in-
tento esplicito di conservare un ricordo- annotaMazzucchelli -,m a
nelle zone del paesaggio urbano dove essa si produce spontanea-
mente, in maniera autonoma. È quella che io chiamo la memoria
involontaria di una società».
I due edifici del Generalstab hanno subito di recente piccoli
lavori di ristrutturazione, opere “leggere” di risanamento e mes-
sa in sicurezza. «Dal bombardamento a oggi, solo in rarissimi casi
si era dovuti intervenire per arginare possibili cedimenti murari .
Lo scorso febbraio, l’amministrazione di Belgrado è corsa ai ripa-
ri a causa dell’ingente quantità di pioggia caduta sulla città duran-
te l’inverno - conferma il ricercatore dell’Università di Bologna -.
Laprecaria stabilità dei due palazzi rappresenta anche un perico-
lo per i passanti, e la scelta di non procedere a una ristrutturazio-
ne totale può essere letta come l’esempio più evidente delle diffi-
coltà di Belgrado di allontanarsi da alcune “ossessioni” della sua
m e m o r i a » .
MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 2010 3
I partiti più estremisti spesso utilizzanol’immagine ancora vivida dei palazzidistrutti per tracciare una narrazioneideologica dell’aggressione Nato
LA SCHEDA - Il 24 marzo 1999
s c a t t ava l’Operation Allied Force
della Nato contro la Repubblica Fe d e ra l e
di Jugoslavia gove rnata da Slobodan
M i l o s ev i c. Per oltre due mesi, una massic-
cia campagna di bombardamenti aerei a
c a ra t t e re strategico colpirono le sedi del
p o t e re politico, m i l i t a re e mediatico in
S e r b i a . La Nato accusava già da tempo il
g ove rno federale di perp e t ra re una fero-
ce pulizia etnica in Kosovo, regione al
c e n t ro di una rivendicazione terri t o ri a l e
da parte serba e albanese. I bombard a-
m e n t i , che term i n a rono il 10 giugno del
1 9 9 9 , p rovo c a rono oltre 500 morti fra i
c ivili da parte serba. I segni più ev i d e n t i
dell’attacco si trovano ancora oggi a
B e l gra d o, d ove gli ordigni della Nato
d i s t ru s s e ro i ministeri della Difesa,
d e l l ' I n t e rno e delle Finanze, la re s i d e n z a
p re s i d e n z i a l e, la sede della Te l ev i s i o n e
Serba Rts (sedici mort i ) , il ri p e t i t o re tele-
v i s ivo sul monte Ava l a , l ' o s p e d a l e, la sede
del Pa rtito socialista, l'Hotel Jugoslavija e
l'ambasciata cinese. La To rre Ava l a , u n o
dei simboli della città, è stata ri c o s t ru i t a
con l’aiuto del gove rno e di una sottoscri-
zione popolare, cui hanno partecipato un
milione di cittadini serbi e cinquecento
p e rsonalità dello spettacolo. I n a u g u rata lo
s c o rso 21 apri l e, è fi n o ra l’unico edifi c i o
completamente ri s t ru t t u rato a undici anni
dalla fine dei bombard a m e n t i .
Per sap e rne di più
Tre blog sull’urbanistica di Belgra d o :
b a l c a n s c a p e s . bl o g s p o t . c o m ;
t h e n a o. n e t / u f o - b / i n d ex . h t m ;
s a j k a c a . bl o g s p o t . c o m .
N A L O C O M O T I V A traina tre
vagoni di colori diversi.
Quasi a voler ricordare che
le terre che attraversa sono
le stesse in cui si sono con-
sumati i sanguinosissimi conflitti tra tre
popoli e tre etnie differenti. Il primo vagone
appartiene all'entità serba della Bosnia, l’al-
tro alla Federazione croato-musulmana di
Bosnia, il terzo alla Serbia. Nel dicembre
2009 è stata riaperta la linea ferroviaria
Sarajevo-Belgrado interrotta nel 1992, dopo
lo scoppio delle guerre jugoslave, che fino al
1995 hanno insanguinato la zona, fino alla
dissoluzione della Repubblica Socialista
Federale.
Dopo 17 anni, Serbia e Bosnia tornano a
comunicare e tentano un riavvicinamento. É
un fatto storico, segno che i due Paesi hanno
la volontà di dialogare. «Si sta riaprendo un
varco interrotto durante la guerra - sostiene
Stevan Ubovic, giornalista dell’agenzia
bosniaca Tanjug -. La maggior parte dei pas-
seggeri sono nostalgici dell’ex Jugoslavia, di
quelle terre in cui abitano ex amori, amici o
vecchie zie, terre in cui si viaggiava libera-
mente per raggiungere Padova o Trieste per
comprare vestiti di qualità a poco prezzo».
Ma la riappacificazione tra i due popoli è un
processo lungo e doloroso, che non
può compiersi in un attimo. Se è vero
che la tensione è molto scemata rispet-
to a dieci anni fa, i motivi di attrito non
mancano. «Una volta scesi a Sarajevo,
è preferibile evitare il tipico gesto serbo
con le tre dita alzate, utilizzato spesso
durante le proteste - osserva Stevan
Ubovic -. Questo per evitare tensioni».
Il riavvicinamento, comunque, sembra
ormai avviato, anche perché, oltre alla ria-
pertura della linea ferroviaria, pesa la risolu-
zione su Srebrenica emessa dal Parlamento
serbo, con la quale per la prima volta nella
storia, la Serbia si è assunta la responsabilità
per il massacro del 1995, in cui i militari
serbo-bosniaci, comandati dal generale
Mladic, trucidarono 8mila musulmani
bosniaci dai 15 anni in su. Secondo Stevan
Ubovic, ammettere i propri sbagli serve per
poter ricominciare da capo: «Il fatto che la
risoluzione confermi gli errori compiuti dal-
l’esercito è stato molto importante; la Serbia
avrebbe dovuto farlo molto prima». Un altro
atto che si inserisce nel progetto della Serbia
di riavvicinarsi alla Bosnia, ma che probabil-
mente fa parte di un disegno più ampio, che
prevede di entrare al più presto nell’Unione
E u r o p e a .
Il percorso tuttavia non sarà semplice.
Secondo Kanita Focak, che vive a
Sarajevo, questo riavvicinamento è un
falso, la risoluzione non è una dichiara-
zione sincera: «L’hanno approvata
perché sono stati costretti a farlo.
Anche il treno è una barzelletta. Le cose
funzionano male. In un’epoca in cui si
vuole viaggiare velocemente, non si
può cambiare quattro volte la locomotiva».
In effetti, il biglietto è scritto a mano e
costa 31 euro, ma il viaggio dura un’eternità:
8 ore per 480 chilometri intervallati da due
controlli di frontiera, tra Bosnia, Croazia e
Serbia. Sull’Espresso 451 ci sono pochi pas-
seggeri, la maggior parte dei viaggiatori pre-
ferisce restare fedele al vecchio e più efficien-
te pullman per spostarsi da una località all’al-
tra. I più anziani ricordano che i brutti vago-
ni di oggi sono molto diversi dalle eleganti
v e t t ure che un tempo univano le due città.
In un Paese che porta visibili i segni
della guerra e piange ancora le sue vittime,
non è scontato che la fiducia attecchisca. Per
Kanita la strada da percorrere è ancora
lunga. Ma una speranza c’è: «Mio marito era
musulmano, di Sarajevo, io sono cattolica, di
Spalato. Mio figlio si è innamorato di una
ragazza di Belgrado. È lui il futuro. Io credo
nei giovani, non nei politici».
S a r a j e v o - B e l g r a d o ,il treno della nostalgia
Nel dicembre 2009 è stata ri a p e rta la linea tra ledue capitali balcaniche interrotta con lo scoppiodella guerra . Un tentativo di sfi d a re il confine cheha diviso amici, famiglie e amori per diciotto anni
U
MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 20104
inchiesta
di CHIARA AVESANI, ANDREA LEGNI, SIMONA PEVERELLI
Per sap e rne di più
Jan Willem Honig,S re b re n i c a ,a war
c ri m e ( Pa p e r b a c k ) ;b a l c a n i c a u c a s o. o rg.
u g o n o s t a l g i j a, chi
l’avrebbe detto. Nella
Serbia del 2010 c’é
anche questo: il rim-
pianto dei “bei tempi
andati” in cui la Jugoslavia era
un Paese solido e politicamente
influente, in grado di garantire
una sopravvivenza dignitosa ai
propri cittadini anche sul piano
economico.
Il movimento degli J u g o -
n o s t a l g i c i, che si esprime a un
livello più emotivo che politico,
è comunque il segnale di una
scontentezza diffusa tra i serbi
rispetto alla situazione attuale.
In primo luogo, per i crescenti
problemi economici: la disoccu-
pazione si attesta attorno al 30
per cento e i cittadini che vivono
sotto la soglia di povertà sono
600 mila su una popolazione
totale di 10 milioni. Ma le cause
vanno rintracciate anche nelle
difficoltà del governo di Boris
Tadic, che incontra difficoltà a
realizzare una vera apertura ver-
so il resto d’Europa, rallentato
dalla situazione del Kosovo,
vero nodo delle relazioni inter-
nazionali del Paese.
«Sono trascorsi quattro
anni dal referendum che sanci-
va l’indipendenza del Montene-
gro e due dal distacco unilatera-
le del Kosovo: la Serbia si con-
ferma sotto molti aspetti uno dei
punti caldi dell’Europa». D r a-
gan Petrovic, giornalista del-
l’Ansa e storico corrispondente
di Radio Popolare, traccia un
quadro tutt’altro che incorag-
giante dello Stato balcanico.
Le recenti statistiche
parlano di una difficile
situazione economica
nel Paese. Come si vive,
oggi, in Serbia?
La situazione economica attuale
è forse la peggiore degli ultimi
decenni. Gli stipendi medi si
aggirano sui 300 euro, ma il
costo della vita è sensibilmente
aumentato. Per esempio, una
confezione di pasta al supermer-
cato a Belgrado costa il triplo
che in Italia, una bottiglia di olio
che da voi viene quattro euro da
noi è venduta a dieci. Questa
sproporzione tra salari e spesa
sta diventando una piaga grave,
soprattutto se si pensa che una
famiglia di quattro persone
spende in media 470 euro al
mese, affitto escluso. Per
sopravvivere con dignità si è
costretti a fare uno o due lavori
“extra”, ovviamente in nero.
Il 4 maggio scorso si è
celebrato il trentenna -
le della scomparsa di
Tito. Quali sono oggi i
rapporti tra i Paesi del -
l’ex Jugoslavia e Bel -
grado, che ne era la
c a p i t a l e ?
Le relazioni stanno migliorando
rispetto al decennio passato, ma
rimangono problemi insoluti. Il
primo è l’indipendenza del
Kosovo, che è stata riconosciuta
da Macedonia, Montenegro,
Croazia, Ungheria, Bulgaria, ma
non da Bosnia e Romania. È u n
tema che irrita molto il governo
serbo. Con la Croazia ci sono
stati consistenti passi avanti: i
due premier, Tadic e Josipovic,
hanno ritirato le reciproche
accuse di genocidio dal Tribuna-
le penale internazionale e hanno
sottoscritto accordi economici.
Anche con la Macedonia si stan-
no ricucendo i rapporti, mentre
col Montenegro c’è poca comu-
nicazione, l’indipendenza del
2006 brucia ancora nel ricordo
serbo. Per quanto riguarda la
Bosnia, dal riconoscimento ser-
bo del massacro di Srebrenica
c’è stato un riavvicinamento,
anche se nella risoluzione il Par-
lamento serbo non ha usato il
termine “genocidio”, e questo ha
causato ulteriori polemiche.
Entro tre mesi, però, dovrebbe
essere approvata dal Parlamen-
to una nuova risoluzione per
superare il problema.
Un serbo può viaggia -
re senza problemi negli
altri Paesi balcanici?
Oggi possiamo dire di sì, è suffi-
ciente evitare le provocazioni.
Fino a qualche anno fa la situa-
zione era peggiore: entrare in
Croazia o in Bosnia con un’auto
serba avrebbe scatenato il
sospetto e talvolta le ire degli
abitanti del luogo. Chi viaggiava
doveva nascondersi e cammuf-
fare il proprio accento. Oggi
rimane qualche contrasto solo
in Croazia, nelle zone di Spalato
e Zara, e in Montenegro. A parte
questo, i rapporti con gli altri
Stati stanno rinascendo a poco a
poco. Io stesso nei Paesi dell’ex
Jugoslavia ho molti “carissimi
n e m i c i ” .
Stipendi al minimostorico e 600 milapersone sotto lasoglia di povertà.Ecco perché neibalcani del 2010c’è chi rivorrebbela Jugoslavia
S o p rav v ive re in Serbiacon 300 euro al mese
MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 2010 5
inchiesta
Jdi Valerio Bassan
E L L’A P P L A U D I R E il superboss
della ’ndrangheta Giovanni
Tegano, la folla non acclama il
criminale, ma un imprendito-
re del territorio che dà lavoro,
benessere e stabilità, contra-
stando la disoccupazione endemica del Meri-
dione. «Perché - spiega Francesco Barba-
g a l l o, studioso di Storia contemporanea
all’Università di Napoli - negli ultimi decenni le
mafie sono diventate il potere centrale in molte
aree del Mezzogiorno». Dalla fine degli anni
Ottanta, Barbagallo è impegnato in un minuzio-
so lavoro di ricostruzione della storia dell’orga-
nizzazione criminale campana. Il suo ultimo
studio, Storia della camorra, è il primo tentati-
vo di raccontare la camorra nella sua evoluzio-
ne storica, dall’inizio dell’Ottocento fino ai
nostri giorni. Una narrazione ricca di fonti, che
scioglie gli snodi fondamentali in cui la camor-
ra cambia volto. «All’inizio del Novecento - spie-
ga Barbagallo - si assiste al passaggio da una
“camorra plebea”, fatta di piccoli criminali, a
una “camorra elegante”. I camorristi si avvici-
nano alle classi borghesi e aristocratiche ini-
ziando a operare in settori come l’usura e le case
da gioco». La camorra contemporanea invece
vive un trionfo radicale durante gli anni Sessan-
ta, quando il porto di Napoli diventa il principa-
le centro di smistamento per il contrabbando
del tabacco. Napoli è controllata da Cosa
Nostra, che si impone sulla criminalità napole-
tana. Negli anni Settanta si arriva così a una sor-
ta di “mafizzazione” della camorra, con nuove
forme di alleanza».
Quelle raccontate da Francesco Barbagal-
lo non sono storie di denuncia, non sono inchie-
ste giornalistiche e non suscitano l’avversione
dei camorristi. «Anzi - spiega -, di fronte ai miei
libri si sono dati un tono. Perché li faccio diven-
tare personaggi storici». Eppure il valore della
ricerca non si esaurisce nella memoria di avve-
nimenti e nomi: «La storia ha il pregio di offrire
uno sguardo globale sui fatti. Rispetto alla cro-
naca, riesce a comprendere quei processi di tra-
sformazione che, nell’immediatezza dell’attua-
lità, rimangono in ombra».
La lettura del quadro e dell’evoluzione sto-
rica diventa così necessaria per comprendere una
realtà criminale che non si può sconfiggere solo
con la repressione e con le azioni giudiziarie.
«L’attacco dello Stato alla criminalità può inflig-
gere colpi strategici - continua Barbagallo -, ma
n o nbasta. Il punto, drammatico, è che, a fronte
di questi successi delle forze dell’ordine, non si
assiste all’indebolimento del potere mafioso
campano. Ormai i camorristi sono imprendito-
ri moderni e di respiro internazionale con un
ruolo crescente nei tessuti sociali e lavorativi».
A Napoli la camorra presta soldi a tassi di
interesse più bassi rispetto a quelli bancari. In
Campania, e in modo particolare nel napoleta-
no e nel casertano, le imprese corrotte dalla cri-
minalità battono sul piano della concorrenza le
imprese oneste, soffocando l’economia pulita.
Questa situazione è il risultato di un pro-
cesso di lunga durata, che Barbagallo fa risalire
al 1973. «In quell’anno - spiega lo studioso - vie-
ne interrotto l’intervento straordinario dello
Stato per l’incremento economico e sociale del
Mezzogiorno. Il Sud viene abbandonato ai suoi
problemi irrisolti e, mentre finisce lo sviluppo
del Meridione, inizia quello della camorra. Non
ci sono soluzioni immediate per sconfiggere le
mafie. Perché alla repressione deve necessaria-
mente affiancarsi una trasformazione produt-
tiva e imprenditoriale del Mezzogiorno».
Camorra, due secoli di crimine organizzato
L’ultimo saggio dello storico Francesco Barbagalloanalizza le radici del potere mafioso in Campania.Inclusa la svolta degli anni Ottanta, quando i clansono diventati un sistema “ a l t e rn a t ivo ” allo Stato
MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 20106
MAFIE
Di Cristina Lonigro
N
Per sap e rne di più
Francesco Barbagallo,S t o ria della
c a m o rra ( L a t e r z a ) .
dal giugno 1989 che
Attilio Bolzoni
segue per R e p u b b l i c a
gli sviluppi del fallito
attentato dell’Addaura al giudice
Giovanni Falcone. A seguito del-
le rivelazioni di un funzionario
di polizia a cui Falcone aveva
raccontato la vicenda, Bolzoni,
con l’inchiesta apparsa sul quo-
tidiano lo scorso 7 maggio,
aggiunge nuovi tasselli al qua-
dro investigativo.
L’attentato sarebbe avvenu-
to il 20 giugno 1989 e non il 21,
come si era ritenuto finora. Inol-
tre, l’esplosione dell’ordigno
nascosto tra gli scogli di fronte
alla villa di Falcone, secondo le
rivelazioni, sarebbe stata sventa-
ta dai sommozzatori Emanuele
Piazza e Antonino Agostino.
Secondo la nuova versione, non
erano attentatori, ma avrebbero
salvato la vita a Falcone. Agosti-
no fu ucciso poco tempo dopo,
insieme alla moglie: secondo la
polizia, per motivi passionali.
Piazza, agente di Polizia che
lavorava per il Sisde, fu invece
strangolato il 15 marzo del 1990.
L’inchiesta rivela che nei
pressi della villa di Falcone, quel
giorno, erano presenti anche
uomini estranei alla criminalità
organizzata, tra cui un agente
dei servizi segreti con la “faccia
da mostro” implicato nell’ucci-
sione di Agostino. Falcone parlò
di un complotto ordito da menti
raffinatissime. A progettare l’at-
tentato, dunque, non fu solo la
m a f i a .
Bolzoni, su cosa si basa
la tesi sul fallito atten -
tato all’Addaura?
Sono ripartito dalle indiscrezio-
ni sulle indagini avviate un anno
fa dalla Procura nazionale anti-
mafia insieme a quelle di Calta-
nissetta e di Palermo. Nell’89 il
caso fu assegnato a Salvatore
Celesti, cui poi subentrò Giovan-
ni Tinebra: ora il fascicolo è nelle
mani del procuratore nisseno
Sergio Lari.
Oltre alle indiscrezioni,
su quali fonti si è basa -
ta questa inchiesta?
Ho ascoltato anche i padri delle
due vittime. Il padre di Agostino
mi ha raccontato di aver visto
“l’uomo con la faccia da mostro”
di cui parlo nell’articolo. E già
nel 1989 fece delle rivelazioni
alla squadra mobile di Palermo,
ma i verbali non si trovano più.
Mi ha anche parlato della per-
quisizione di un armadio a casa
di suo figlio. E anche di questa
rivelazione non c’è più traccia.
Quando è stata capo -
volta la dinamica del
fallito attentato?
Circa un anno fa. R e p u b b l i c a
riaprì il caso. Nel frattempo,
magistrati, poliziotti e investiga-
tori trovarono nuove testimo-
nianze. Per esempio, quella di
Angelo Fontana, della famiglia
dell’Acquasanta.
Giovanni Falcone
come commentò l’acca -
d u t o ?
Ci sono delle testimonianze
“sfumate” rilasciate da un com-
missario che non è più in Polizia.
Qualche mese fa ha dichiarato
agli inquirenti che la sera stessa,
o quella successiva l’omicidio
del sommozzatore Agostino,
Falcone parlò con il commissa-
rio e gli disse: «Noi dobbiamo la
vita, io e lei, a quell’uomo». L’ex
poliziotto andò a riferire imme-
diatamente all’autorità giudizia-
ria le parole di Falcone.
Gli attentatori avevano
altri obiettivi oltre al
m a g i s t r a t o ?
Quel giorno i magistrati svizzeri
Carla del Ponte e Claudio Leh-
mann erano ospiti nella villa di
Falcone, ma l’obiettivo era lui. E
lui si spaventò molto. Era un
uomo prudente anche a parole,
ma il giorno successivo disse: «A
volermi morto sono state delle
menti raffinatissime».
Che difficoltà ha incon -
trato, invece, a portare
avanti le indagini?
A Caltanissetta magistrati e
investigatori sono pochi. Inoltre,
le indagini sono intralciate dalla
trattativa Stato-mafia: una mole
enorme di materiale sul quale
indagare, ma con forze insuffi-
cienti.
Da giornalista, dove ha
trovato gli stimoli per
continuare a indagare
su questa vicenda?
L’intralcio vero, in Italia, è rap-
presentato da certe centrali di
depistaggio che lavorano per
non farci mai avvicinare alla
verità. Ma ci sono ancora buoni
procuratori e investigatori osti-
nati. Alcuni sono stati uccisi,
altri continuano a operare.
Basta non perdere mai la tena-
c i a .
A dd a u ra , le nu ove ve r i t às u l l ’ at t e n t ato a Fa l c o n e
esteri
MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 2010 7
di Giuditta Ave l l i n a
Per sap e rne di più
Faq Mafia, l’ultimo libro di
B o l zo n i , edito da Bompiani,
p resenta un ri t ratto lucido di
Cosa Nostra e dei suoi intre c c i
con politica ed apparati stat a l i .
È
MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 20108
giornalismo
di Enrico Turcato
U C L E A R E ,
questo sco-
n o s c i u t o .
Tutti ne han-
no sentito
parlare, quasi nessuno sa bene di
cosa si tratti. Negli ultimi anni la
sperimentazione ha continuato a
produrre risultati, le potenze
nucleari hanno implementato i
propri investimenti, anche in
ambito militare. La ricerca prose-
gue, i test avanzano, nuove tecno-
logie vengono immesse in un
mercato che è nelle mani di
p o c h i .
Maurizio Torrealta, ca-
poredattore a R a i N e w s 2 4, nel
libro Il segreto delle tre pallotto -
le (Edizioni Ambiente), affronta
a tutto campo il tema del nuclea-
re, alternando fiction, documen-
ti, registrazioni, con interviste e
analisi concrete. Nel grande lavo-
ro di inchiesta, realizzato con il
team della trasmissione L ’ i n c h i e -
sta di Rainews24, emergono
prospettive allarmanti sulle rela-
zioni tra utilizzi civili e militari del
nucleare.
Prospettive che sono emerse
sia dalla collaborazione con il fisi-
co Emilio Del Giudice, che ha
fornito un contributo scientifico
fondamentale, sia dalla diffusio-
ne al pubblico di un documento
secretato fino al 1975. Si tratta del
famoso Memorandum Groves,
nel quale James B. Contant, pre-
sidente del National Research
Defence Council e per molti anni
anche rettore di Harvard, sugge-
riva ai responsabili dell’ammini-
strazione americana l'utilizzo
dell’uranio “sporco” per inquina-
re le città nemiche con nuvole di
particelle radioattive, preveden-
do con esattezza gli effetti sulla
salute delle persone coinvolte,
effetti poi verificatisi nella realtà
in Iraq, Kosovo, Afghanistan e
Libano. Vale a dire, aree di fatto
bombardate da tonnellate di ura-
nio appunto “sporco” dai cosidet-
ti paesi democratici.
Come è nato il vostro
l a v o r o ?
Seguendo un gruppo di ricercato-
ri all’Enea, l’Agenzia nazionale
per le nuove tecnologie, l’energia
e lo sviluppo economico sosteni-
bile, tra i quali, appunto, Emilio
Del Giudice. Questo gruppo ave-
va realizzato uno studio che
dimostrava che la fusione fredda
esisteva. All’improv-
viso però ha subito il
blocco dei finanzia-
menti. Non solo: il
Rapporto 41 redatto da
questi scienziati non è stato
pubblicato. Nessuno di loro riu-
sciva a capire il perché. Del Giudi-
ce ha avuto il coraggio di spiegar-
celo: questa scoperta fisica, se
applicata a un altro metallo
pesante come l’uranio, avrebbe
permesso di superare il problema
della massa critica per
l’innesco nucleare. La
massa critica di un
materiale fissile equi-
vale alla quantità di
materiale fissile giusta
e necessaria affinché
una reazione nucleare
a catena possa auto-
s o s t e n e r s i .
Come funzio -
na un innesco
n u c l e a r e ?
Un atomo di uranio, quando vie-
ne frammentato in neutroni e
incontra un altro atomo di ura-
nio, scatena un processo a catena,
liberando un’enorme quantità di
energia. Affinché un atomo, fran-
tumandosi, liberi energia, occor-
re una massa critica di almeno 8
chilogrammi, massa sotto la qua-
le il processo non avviene. Con
una massa critica di 8 chilogram-
mi la bomba nucleare è molto
potente. Diversamente,
il processo non entra in
funzione. Superare il
problema della massa
critica permette di creare
delle bombe nucleari, anche
piccole, della grandezza di una
pallottola. Questa è una scoperta
che rivoluziona tutti gli accordi di
non proliferazione ratificati, che
mette in discussione i trattati tra
gli Stati. È un problema che può
sconvolgere l’assetto attuale del
p i a n e t a .
Non è possibile che que -
sta scoperta sia stata
già fatta da altri e che
questi altri abbiano
deciso di mantenerla
s e g r e t a ?
Diverse volte, soprattutto in tea-
tri di guerra come il Libano meri-
dionale, dopo analisi e test sui ter-
reni, abbiamo rinvenuto la pre-
senza di crateri con uranio arric-
chito (a Khiam, ad esempio). Nel
nostro documentario televisivo
La terza bomba nucleare n e
mostriamo le prove. Trovare
l’uranio arricchito è come trovare
un diamante per strada. Ed è la
chiara traccia di un processo
nucleare specifico già consuma-
to. Ma, attenzione: non è quello
tradizionale, perché non ci sono
le tracce degli effetti devastanti
che può avere una bomba atomi-
ca. Ci sono effetti limitati in ter-
mini di distruzione, ma di eleva-
tissima radioattività. Ci sono
N
Ro m a n zoN u cl e a re
M a u rizio To rrealta fi rma una inquietante docu-fi c t i o nche racconta il business delle nu ove armi atomiche egli effetti devastanti dell’uranio arricchito sui civ i l i .Una storia di dossier segreti che inizia in Usa nel 1975
armi nuove e sofisticate. Queste
analisi, che sono già in circolazio-
ne e sono già state utilizzate, lo
d i m o s t r a n o .
Perché nel libro rifiuta -
te la definizione di
“impoverito” per l'ura -
n i o ?
L’espressione “uranio impoveri-
to” è inappropriata. Tutte le ana-
lisi effettuate nei campi di batta-
glia hanno rilevato la presenza di
uranio leggermente arricchito o
tracce di altri elementi. L’uranio
impoverito è un materiale di
scarto, meno radioattivo del-
l’uranio naturale e si ottiene
quando si trasforma in gas l’ura-
nio naturale: il prodotto finale
contiene meno dello 0,7 % di iso-
topo 235. Un processo che non
avviene in un reattore nucleare,
ma nelle centrifughe nucleari.
Per utilizzare l’uranio nei reatto-
ri nucleari è necessario arricchire
l’uranio con gli isotopi fissili 234
e 235. Se si trovano delle presen-
ze di uranio con isotopo 236,
sono tracce di reazioni nucleari
avvenute: o sono avanzi di pallot-
tole che escono dalle centrali
nucleari, e quindi radioattive, o si
tratta di uranio arricchito. L’ura-
nio impoverito non ha questi
effetti. Micro e nano particelle di
uranio arricchito sono nocive e
radioattive. Rischiano di andare
a finire nei terreni, nelle coltiva-
zioni e, di conseguenza, di essere
ingerite dagli esseri umani.
L’unica certezza è che sui campi
di battaglia l’uranio impoverito
non esiste, anche perchè nessuno
controlla la percentuale di isoto-
po 235 contenuta all’interno del-
le pallottole. Finora ci siamo
bevuti una bugia, insomma. Ma
adesso basta. Chiamiamo queste
armi con il loro vero nome.
Avete delle prove che
nessun produttore di
armi e nessun contin -
gente militare utilizzi
uranio cosidetto “impo -
v e r i t o ” ?
Dai teatri di guerra iracheni, a
Bassora, abbiamo ricavato dati
mostruosi. Nel ’91, l’anno succes-
sivo al crollo dell’Urss, era stato
usato un ordigno
nucleare molto
piccolo, di bassa
potenza, di circa 5
kilotoni. Per fare
un paragone, la bomba atomi-
ca a Hiroshima era pari a 15 kilo-
toni di potenza, quella di Nagasa-
ki a 21. Il direttore del reparto
oncologico dell’ospedale di Bas-
sora ci ha mostrato gli effetti di
questo piccolo ordigno nucleare:
patologie rarissime, effetti deva-
stanti, tumori nei bambini, mal-
formazioni. Una collezione
agghiacciante. Il cosiddetto ura-
nio impoverito, forse, è stato usa-
to per la prima volta proprio nel
’91, per coprire l’uso di questi
bunker busters, ordigni che usa-
no un nuovo processo nucleare:
sono molto piccoli, molto sottili e
vengono impiegati anche per
distruggere i rifugi sotterranei.
Ci sono nuove soluzioni
per lo smaltimento dei
rifiuti tossici nucleari?
Lo smaltimento dei rifiuti tossici
è il primo problema che si pone
per chi produce il nucleare.
Peraltro, ci sono diverse tipologie
di scorie. Ma lo stesso reattore,
dopo anni di attività, diventa
radioattivo. Bisogna mettersi in
testa che l’uranio non è una
materia rinnovabile e tutto l’ura-
nio prodotto resisterà per decine
e decine di migliaia di anni sul
pianeta.
Come giudica l’apertura
dell’Italia al nucleare?
In questo momento c’è solo gran-
de confusione. Gli Stati hanno
stipulato tre accordi diversi per
l’utilizzo di tre tecnologie diffe-
renti. Una è la tecnologia Epr, che
si avvale di un reattore non anco-
ra ultimato: noi siamo andati a
vedere le sperimentazioni ad
Olkiluoto, ma il progetto è stato
bloccato più volte per malfunzio-
namenti, materiale non confor-
me, controlli non riusciti. Poi c’è
la metodologia WestingHouse:
più tradizionale e sicura, usa
meccanismi passivi che possono
disinnescare eventuali malfun-
zionamenti del reattore. L’ultima
è una tecnologia russa piuttosto
interessante, anche perchè i rus-
si sono i più avanti nella speri-
mentazione, non avendo
mai smesso di utilizza-
re il nucleare. Peraltro i
russi offrirebbero agli
investitori anche il vantag-
gio di smaltire le scorie in
Siberia, un’opportunità inte-
ressante per l’Italia, dove non esi-
stono aree deputate a questo fine.
In ogni caso, questa è una falsa
soluzione: il problema non si
risolve con il trasferimento degli
elementi nocivi.
Oltre alla citata Rus -
sia, quali sono i Paesi
più preparati allo svi -
luppo nucleare?
Il nucleare è una tecnologia nelle
mani di pochissimi Stati: costi,
sofisticazione delle tecniche e dei
materiali, sviluppo continuo,
rendono questa tecnologia sfut-
tabile solo per una élite. Oltre alla
Russia, la Cina è un Paese
all’avanguardia in questo campo:
è già pronta a comprare reattori
sia Epr sia WestingHouse.
MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 2010 9
Superare il problema della massacritica permetterebbe di crearebombe nucleari anche piccole,della grandezza di una pallottola
Per sap e rne di più
w w w. v e rd e n e r o.it
Maurizio Torrealta, c a p o re d a t-
t o re a RaiNew s 2 4 , si occupa da
d ive rsi anni di nu c l e a re.
Nel 2008 ha pubb l i c a t o La terza
bomba nucleare, un documen-
t a rio telev i s ivo sull’arg o m e n t o
libertà di stampa
MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 201010
I P U Ò M O R I R E P E R l a
libertà di stampa in
un Paese che si dise-
gna democratico e
occidentale? Si può.
Sono 19 i giornalisti uccisi dal
2000 ad oggi nella Russia di
Putin e di Medvedev. Un quadro
drammatico per un Paese che
ha stretti rapporti politici ed eco-
nomici con l’Europa e che forse,
per questo, non vuole interveni-
re per supplire alla mancanza di
informazione. Anna Politkov-
skaja è stata vittima del “regime”
politico che vige in Russia - dice
Vitaly Yaroshevski ( n e l l a
f o t o ), vice-direttore di N o v a j a
G a z e t a, il giornale della reporter -.
Anna èstata uccisa da ignoti sica-
ri. E, come avviene nell’80 per
cento dei casi di omicidio di gior-
nalisti, la verità sulla sua morte
d i f f i c i lmente verrà a galla».
Secondo il Committee to
Protect Journalism (Jpg), la
Russia è al terzo posto nell’elen-
co dei Paesi più pericolosi per i
giornalisti, dietro a Iraq e Alge-
ria: «Il regime ha costruito un
muro grazie alla propaganda
ufficiale - continua Yaroshevski -.
La maggior parte dei cittadini
non vuole riflettere: un terzo del-
la popolazione si informa solo
attraverso la tv e quasi tutti i
canali sono sotto il controllo
diretto o indiretto del Cremlino.
Tra i giornalisti non c’è unione e
la maggior parte lavora per il
governo. Non c’è comunicazio-
ne: il potere non sa come vive la
società e la società non può sape-
re come vive il potere».
Nella Russia post-sovietica
sono stati oltre 70 i giornalisti
uccisi. Cinque lavoravano per
Vitaly Yaroshevski. Nella reda-
zione della Novaya Gazeta l e
postazioni lasciate vuole dai
reporter uccisi sul fronte della
cronaca sono come congelate.
Nessuno ha toccato nulla.
«Viviamo giorni simili allo stato
di guerra: ci sono perdite dirette
che non si possono sostituire.
Ma credo non sia possibile sve-
gliarsi la mattina, lavarsi, bere il
caffè e iniziare ad avere paura.
Andare a letto, dormire e avere
paura di nuovo. Nessuno di noi
ha tempo per avere paura: c’è il
dovere, l’onestà professionale.
Dopo l’ultimo omicidio, quello di
Natalia Estemirova, abbiamo
deciso di non inviare più nessu-
no in Cecenia. Non potevamo
permetterci di pagare un prezzo
così alto. Mi preoccupavo delle
giovani giornaliste che lavorano
presso di noi. Hanno reagito a
questa sfida: non è stato coraggio,
ma istinto naturale. Altrimenti
l’alternativa più semplice sarebbe
stata quella di abbandonare la
professione». Alla Novaja Gaze -
t anessuno si è licenziato. Hanno
c o n t i n u a to tutti a scrivere.
S
In Somalia i mediahanno perso la vo c e
R u s s i a ,il coraggiodi essereg i o r n a l i s t i
n Somalia esistono dieci
quotidiani, cinque canali
televisivi e decine di siti
internet d’informazione.
Eppure secondo
Freedom House, organiz-
zazione che promuove la libertà
nel mondo, è uno dei Paesi dove
meno si rispetta la libertà di
stampa e dove il lavoro del gior-
nalista è più difficile.
«I pochi che partono anco-
ra, viaggiano con due scorte al
seguito», racconta S t e f a n o
M a r c e l l i, inviato Rai e presi-
dente onorario di Information
safety freedom, osservatorio
sulla sicurezza dei giornalisti nel
mondo. Dal 2005 a oggi, sono
23 i reporter che hanno perso la
vita a Mogadiscio. Con la caduta
del regime di Siad Barre nel
1992, la Somalia ha conosciuto
solo anarchia. Al Shaabab,
un’organizzazione terroristica
cha ha legami con Al Qaeda,
tiene in scacco il Paese dal 2007.
«Per il terrorismo islamico,
il controllo dei media significa
propaganda e proselitismo -
spiega Marcelli -. È per questo
che sono così contesi in
Somalia». Radio Mogadiscio,
Radio Free Somalia, l’agenzia
stampa Somani, sono fra i pochi
organi d’informazione locali
davvero indipendenti. Per il
resto, l’informazione è veicolata
dai media occidentali. Da quei
pochi che resistono.
A metà aprile i terroristi di
Al Shaabab hanno sequestrato i
mezzi di Voice of America e Bbc
Somali, impedendo alle due
emittenti di continuare le tra-
smissioni. Erano accusate di
propaganda cristiana.
Inutilmente si sono levate le
grida di protesta di O m a r
Farouk Osman, segretario del
National union of Somali jour-
nalists (Nusoj), un’associazione
che s’appoggia a Reporters sans
f r o n t i e r s e che rappresenta uno
dei baluardi a difesa dei giornali-
sti stretti nella morsa della guer-
ra. I due canali occidentali sono
stati banditi dal Paese. «Ormai
la Somalia è un Paese abbando-
nato al suo destino - prosegue
Marcelli -. Se non si mantiene
un canale informativo, non ci
può essere solidarietà e aiuto
i n t e r n a z i o n a l e » .
Da maggio, il fragile gover-
no di transizione federale (Tfg)
sta attraversando una delle crisi
più profonde dall’ascesa del pre-
sidente Sheick Sharif Sheick
Ahmed, nell’ottobre 2009. Sono
mesi che il governo non paga i
soldati, che spesso passano nelle
file delle milizie d’opposizione.
Così, il 18 maggio, mentre il pre-
sidente del Parlamento Adan
Mohamed Nuur Madobe votava
la sfiducia al primo ministro
Omar Abdirashid Ali
Sharmarke, Al Shaabab cercava
di occupare la sede del governo.
«E il potere resta in mano ai
signori della guerra», chiosa l’in-
viato Rai.
Dal 2005 a oggi,sono ventitréi reporter chehanno perso la vita a Mogadiscio. I terroristi di AlShaabab usano i giornalisti comemegafoni per laloro propagandap o l i t i c a
di Giulia Dedionigi
di Lorenzo Bagnoli
i
Per sap e rne di più
w w w. i s f re e d o m . o rg
AP U B B L I C I T Àn o n
basta a sostene-
re i costi del-
l’editoria che,
sempre più in
crisi, è costretta a ridurre
mezzi e giornalisti. Come si fa
allora a convincere il cittadi-
no a contribuire di tasca pro-
pria all’informazione?
S p o t . u s sembra esserci
riuscito. Il progetto nasce nel
2008 a San Francisco, da
un’idea di David Cohn.
Ventisette anni, una laurea in
Giornalismo alla Columbia
University, ha realizzato il
suo progetto grazie al sup-
porto del Center for Media
Change e a un contributo del
Knight News Challenge,
destinato a progetti di giorna-
lismo innovativo.
S p o t . u s è una piattafor-
ma in rete dove i cittadini
finanziano con una donazio-
ne libera inchieste di giorna-
listi freelance. Le proposte di
reportage possono arrivare
dai giornalisti oppure dai cit-
tadini stessi. Se si raggiunge
la cifra necessaria per il pro-
getto, il giornalista realizza
l’inchiesta, che viene poi pub-
blicata sul sito. I contributi
degli utenti sono micro-
donazioni a partire da 25 dol-
lari che si possono detrarre
dalle tasse. È il c r o w d f u n -
d i n g, ovvero il “finanziamen-
to delle folle”. Se entro il limi-
te di tempo non si raggiunge
la quota necessaria a far par-
tire l’inchiesta, i soldi vengo-
no restituiti ai donatori. Le
inchieste possono anche
essere ripubblicate da testate
ufficiali perché hanno licenza
Creative Commons. Se però
una testata vuole acquistare i
diritti di un servizio e pubbli-
carlo in anteprima, deve
finanziare il 50 per cento del-
l’inchiesta, oppure pagarne i
diritti. I soldi ottenuti vengo-
no reinvestiti dalla c o m m u -
n i t y in altre inchieste o resti-
tuiti ai donatori.
I progetti realizzati nel
2008 sono una settantina e il
più importante è costato 10
mila dollari. I free lance che
collaborano regolarmente
con Spot.us sono 55. «Garan-
tiamo trasparenza e controllo
sia riguardo alla destinazione
dei soldi, sia al lavoro dei
reporter che viene visionato
dalla redazione - spiega David
Cohn -. Chi propone un’in-
chiesta è stimolato dal fatto di
poterne seguire la realizzazio-
ne e di vedere il prodotto fina-
le. Gli argomenti più richiesti
sono tematiche civiche che
riguardano il territorio, anche
perché facciamo un tipo di
informazione strettamente
l o c a l e » .
S p o t . u s copre le aree di
San Francisco, Los Angeles e
Seattle: «L’importante è che
il progetto si diffonda -
aggiunge Cohn -. In futuro
speriamo di avere più stru-
menti e più reporter».
S p o t . u s è arrivato anche in
Italia con una piattaforma
attiva da aprile. «Ci siamo
interessati al progetto par-
tendo dalla constatazione
che manca un’informazione
“dura e pura”- racconta
Antonio Badalamenti,
economista e fondatore del
progetto insieme a F e d e r i-
co Bo, ingegnere, e A n t o-
nella Napolitano, s o c i a l
media consultant -. Abbia-
mo contattato David e cerca-
to di realizzare un modello
simile al suo. Anche se il
nome è lo stesso, non c’è un
collegamento giuridico con
S p o t . u sAmerica».
I contenuti possono esse-
re articoli, foto o video repor-
tage e anche il progetto italia-
no, con sede a Roma, si con-
centra sull’informazione loca-
le: «Lo scopo è quello di aggre-
gare micro comunità che por-
tino alla luce situazioni pro-
blematiche», spiegano a
Spot.us Italia. La differenza
sostanziale con il progetto
a mericano è di essere for pro -
f i t. «Non siamo finanziati da
una fondazione come avviene
invece negli Usa. Alcuni han-
no contestato la nostra scelta,
ma è l’unico modo per soste-
nerci e incentivare il nostro
lavoro e quello dei freelance. Il
70 per cento dei ricavi prove-
nienti dal progetto e dalle
pubblicità lo reinvestiamo
nella realizzazione di altre
inchieste» .
erché si parlasse di Birmania
è stato necessario che acca-
dessero tre cose. In primo
luogo, la rivolta pacifica di
centinaia di monaci tibetani.
Poi, la presenza a Rangoon di un pool di
video-reporter in incognito, giornalisti
del sito internet Democratic Voice of
B u r m a. Infine, la repressione brutale
del regime. Eppure, anche prima del
settembre 2007, il malcontento dei cit-
tadini costretti alla dittatura esplodeva
ciclicamente, seminando morte e
oppressione. La copertura mediatica è
sempre stata scarsa. Dal 1992, un grup-
po di attivisti Birmani in esilio a Oslo ha
costituito un nucleo di reporter indi-
pendenti, con l’intento di far filtrare
informazioni dentro il loro paese d’ori-
gine. Nel corso degli anni Dvb è appro-
dato su internet e su satellite, racco-
gliendo le testimonianze dei giornalisti
in incognito presenti a Rangoon. Nel
2007, per la prima volta, le immagini di
Dvb hanno fatto il giro del mondo e, tra-
smesse dai più importanti network pla-
netari, hanno contribuito a rendere
nota la situazione di Myanmar (questo
il nome di “Burma” imposto dal gover-
no militare). Un regista danese, Anders
Østergaard, nel 2009 ha raccolto e
montato le sequenze catturate dalle
handycam dei reporter di strada. Il film,
intitolato Burma Vj, reporting from a
closed Country, ha sfiorato l’Oscar
come miglior documentario. Da quan-
do è sotto l’occhio del ciclone mediatico,
la giunta militare ha promesso riforme
democratiche e nuove elezioni. Non è
affatto scontato che trasparenza e legali-
tà verranno rispettate. Tuttavia, è certo
che i giornalisti di Dvb saranno sul cam-
po per raccontare questa nuova stagio-
ne della storia birmana.
Spot.us, finanziala tua inchiesta
David Cohn ha creato un sito dove i cittadiniscelgono e finanziano le inchieste dei f r e e l a n c e.Dagli Usa, il c r o w d f u n d i n g è arrivato in Italia
multimedia
D v b, rep o rt i n gda Oslo a Burma
MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 2010 11
di Carlotta Garancini
di Gregorio Ro m e o
Per sap e rne di più
w w w. s p o t . u s
w w w. s p o t u s . i t
bl o g. d i g i d av e . o rg
Lp
’È U N A C A S A a
Burrel, Albania, al
confine con la
foresta. È poco più
che una baracca
gialla: la chiamavano Casa Gialla.
Durante la primavera del 1999
più di 300 cittadini serbi vi sono
stati deportati e sottoposti ad
espianto degli organi, che sono
stati contrabbandati illegalmen-
te. Ora la casa è stata ridipinta di
bianco. Ma, scandagliata col
luminol, porta i segni della mat-
tanza: macchie di sangue e mate-
riale sanitario. Questo il racconto
di Carla Del Ponte, oggi ex-procu-
ratore del Tribunale internazio-
nale de l’Aja, nel libro La Caccia.
Un testo che attinge da fonti gior-
nalistiche affidabili e dall’espe-
rienza degli anni del Processo
Milosevic.
The empty house, il web-doc
di P e a c e r e p o r t e r realizzato da
Christian Elia e Nicola Sessa,
con il coordinamento di A n g e l o
M i o t t o, parte da queste testimo-
nianze e scandaglia i risvolti pro-
cessuali della vicenda. «Tutto
nasce un anno fa - spiega Elia -,
quando il figlio di un deportato
serbo riconosce il cadavere del
padre in una foto con un guerri-
gliero dell’Uck: è l’inizio di un
clima nuovo tra Serbia e
Albania».
Come la storia del figlio che
riconosce il padre, il doc presenta
una serie di racconti “interrotti”:
«Abbiamo deciso di raccogliere
storie senza un finale perché ci
sono decine di famiglie a cui
manca un sepolcro. Siamo entra-
ti nelle case, trovando, appunto,
case vuote. Abbiamo iniziato con-
tattando l’Associazione delle
famiglie delle vittime serbe a
Belgrado. Poi siamo partiti da
Milano per incontrare a Banja
Luka, Antonio Evangelista, ex
comandante del contingente ita-
liano Onu in Kosovo. Da lì abbia-
mo proseguito per Belgrado,
dove abbiamo intervistato
Vladimir Vukcevic, sostituto pro-
curatore per i crimini di guerra.
Infine abbiamo raggiunto
Pristina, Tirana e Burrel per
vedere cosa resta della Casa
Gialla».
The empty house è un docu-
mentario che chiede giustizia: «Il
web ci ha consentito di trattare
queste storie sullo sfondo di un
contesto storico-politico oscuro,
ma senza la necessità di legarle
narrativamente. La comunità
internazionale, ha chiuso gli
occhi di fronte agli avvenimenti
degli ultimi mesi del ’99.
L’Unmik, la missione Onu invia-
ta dopo la guerra, era presente: la
sua inerzia non può che colpire».
Sotto il profilo processuale le
cose cominciano a muoversi solo
ora, conferma Elia: «La maggio-
ranza delle ispezioni nella zona
nord dell’Albania sono avvenute
dopo la guerra, e vere indagini
sulla Casa Gialla non sono state
nemmeno svolte. Solo dopo anni,
con l’uscita del libro della Del
Ponte, la prova del luminol ha
confermato i timori peggiori: il
ritrovamento della fossa comune
con 250 cadaveri albanesi in
Serbia e l’arrivo in Kosovo di Dick
Marty, inviato del Consiglio
d’Europa, per incontri con alti
esponenti del governo kosovaro.
La riapertura della fossa comune
è un passaggio emblematico. Le
forze di polizia di Albania e Serbia
hanno lavorato insieme, scaval-
cando le autorità kosovare».
“ The empty house” ri c o s t ruisce le terribili vicendedei cittadini serbi deportati e uccisi in Albania d u rante la guerra del Kosovo. Una testimonianza cherompe un silenzio che durava da più di un decennio
Periodico realizzato
dal Master in Giornalismo
dell’Università Cattolica - Almed
© 2009 - Università Cattolica
del Sacro Cuore
d i r e t t o r e
Matteo Scanni
c o o r d i n a t o r i
Laura Silvia Battaglia,
Ornella Sinigaglia
r e d a z i o n e
Fabrizio Aurilia, Giuditta
Avellina, Chiara Avesani,
Lorenzo Bagnoli, Valerio
Bassan, Marco Billeci, Raffaele
Buscemi, Salvo Catalano,
Francesco Cremonesi, Giulia
Dedionigi, Tiziana De Giorgio,
Viviana D’Introno, Fabio Di
Todaro, Tatiana Donno, Roberto
Dupplicato, Fabio Forlano,
Carlotta Garancini, Ivica
Graziani, Andrea Legni, Floriana
Liuni, Cristina Lonigro,
Pierfrancesco Loreto, Alessia
Lucchese, Daniela Maggi, Paolo
Massa, Daniele Monaco,
Michela Nana, Ambra Notari,
Tancredi Palmeri, Cinzia Petito,
Simona Peverelli, Gregorio
Romeo, Alessia Scurati, Luigi
Serenelli, Alessandro Socini,
Andrea Torrente, Enrico
Turcato, Roberto Usai, Cesare
Zanotto, Vesna Zujovic
a m m i n i s t r a z i o n e
Università Cattolica
del Sacro Cuore
largo Gemelli, 1
20123 - Milano
tel. 0272342802
fax 0272342881
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Matteo Scanni
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w w w . u n i c a t t . i t
Autorizzazione del Tribunale
di Milano n. 81 del 20 febbraio
2 0 0 9
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MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 201012
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La Casa Gialla
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