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Sono Sara Moi, moglie di Fabio Piselli e madre dei nostri figli Matilde, Fabio Massimo e la sorellina pronta a nascerenelle prossime settimane.
Mi scuso se pubblico una fotografia apparentemente provocatoria ma forse in questo modo riesco a catalizzare qualcheattenzione in più sulla nostra situazione rispetto a Fabio. Dico nostra perché coinvolge me ed anche i nostri figli.
Due tette ed un pacione gonfio sono molto più impattanti di tanti discorsi e non mi vergogno affatto di essere giudicata.
Ho scelto oggi di espormi in questo modo dopo tutti gli anni in cui sono rimasta in disparte ma non disinteressata ai fattiche riguardano Fabio in prima persona e che, inevitabilmente, mi hanno e ci hanno coinvolto a causa delle seriecomplicanze che viviamo sul piano della nostra vita sociale e professionale, da troppo tempo ormai.
Sono anni infatti che convivo quotidianamente con Fabio, lo amo e ne conosco ogni aspetto morale, emotivo,psicologico, relazionale e sociale tali perciò da permettermi di dire che lo conosco in una maniera certamente profondarispetto alla descrizione sommaria che di lui leggo sui giornali, su qualche sito ed in alcune carte giudiziarie che lo hannoriguardato, oppure offerta da chi crede di “avvisarmi” sul suo conto facendosi forte di riferimenti indicati in dei presuntioperatori della Polizia o dei Carabinieri, informandomi di eventi anche gravi che gli sono addebitati credendo diindividuare in me una specie di vittima nelle mani di questo “terribile uomo”.
Posso affermare con serenità di essere una donna adulta, matura, competente come una pedagogista con una laureamagistrale e con anni di esperienza può essere in materia di bambini e di relazioni fra adulti, anche psicologiche, diessere in grado di ragionare con la mia testa e di non essere facilmente condizionabile nella formulazione dei mieipensieri e delle mie idee, anche critiche perché adoro porre e pormi in discussione e con Fabio lo faccio da sempre.
Come tale desidero esporre questo confronto benchè avanzato tramite una fotografia a suo modo poeticamenteprovocatoria, che mira non certo ad ottenere una soddisfazione materiale o un mero supporto morale ma ha lo scopo diabbattere quell'enorme muro di fango che ci ha progressivamente seppellito nascondendoci dalla società civile, quella incui tutti voi vivete e nella quale sono cresciuta come tutti gli altri con una famiglia normale, una vita normale, studi,fidanzati etc. etc. nessun precedente e nessun vizio di droga o altre sostanze.
Sono quindi una persona seria che come tale si esprime e mi auguro di essere interpretata senza quei pregiudizi che hoevidenziato nei fatti che riguardano mio marito.
Ho sempre avuto piena coscienza che stare con Fabio significa anche stare con tutto il suo “passato” e me ne sonoassunta le responsabilità quando ne ho preso pian piano coscienza ogni volta che ho incontrato quegli ostacoli che oggivoglio, desidero, spero di abbattere.
Fabio Piselli è mio marito, anche se non siamo ancora formalmente sposati, ho tre figli con lui, ci ho trascorso notte egiorno da oltre sei anni vivendone le gioie ed i dolori ed osservando chi e cosa è Fabio Piselli, tutti i giorni, nei dati di fattodella sua vita sotto ogni profilo.
Per questo mi permetto di non accettare quei “consigli” da parte di chi dice di averlo conosciuto in occasioni di brevedurata o di essere stata messa a conoscenza da altri sul suo conto nella classica dinamica della voce che riporta altrevoci rinforzando la voce successiva.
Sono una donna sarda, riservata per natura, ma non per questo incapace di espormi quando la situazione lo richiede e,adesso, è tempo di farlo perché mi sono stancata di restare una testimone passiva della distruzione della nostra vitaperché nel corso degli anni abbiamo patito delle azioni tali da perdere il lavoro da un giorno all'altro, da perdere la casa,da dover sopportare delle umiliazioni che, come donna sarda, mi è stato molto difficile subire.
Accusano mio marito di approfittarsi di una tragedia come quella del traghetto Moby Prince per farsi pubblicità e per faredei soldi. Mi permetto quindi di dire la mia, perché c'ero.
Chi getta fango non conosce che Fabio ha rinunciato all'offerta ricevuta di scrivere un libro sulla tragedia proprio per nonlucrare su quei morti.
Non conosce che le interviste che ha accettato di fare non solo non hanno mai avuto un corrispettivo in denaro manonostante le ore al telefono sono state concentrate in pochi minuti di un servizio, talvolta carenti del vero e più ampiosignificato.
Non conosce che ha rifiutato l'offerta di un filmdocumentario sulla sua vita ed altre offerte che certamente gli avrebberofavorito visibilità o pubblicità che in qualche modo già proveniva dal blog che ha scritto per alcuni anni fino a quando hadeciso di interromperlo e di tornare in ombra.
Ma soprattutto non conosce di quando Fabio si faceva chilometri a piedi per andare a lavorare la notte dopo averlavorato tutto il giorno per 2 euro e 50 centesimi l'ora per mantenere dignitosamente la sua famiglia con una casa in affittoed il cibo comprato, per poi avere la porta sbattuta in faccia a causa di quattro righe su un giornale.
Non conosce di quando ero in casa sola, di notte, coi bambini piccoli ed hanno tentato di entrare più volte a colpi dimazza, oppure di quando mi hanno quasi investito insieme ai miei figli o alle varie occasioni in cui sono stata pedinata edi tanti altri “oppure” che potrei scrivere ma rischierei di annoiarvi o di dare troppo valore a questi eventi e non vogliopassare per vittima.
Ho vissuto e vivo la percezione della minaccia e tutto lo stress conseguente che con Fabio abbiamo saputo e cerchiamodi gestire, denunciando inutilmente i fatti ai Carabinieri che non mi chiamano per assumere delle informazioni relativealle stesse denunce ma mi telefonano per informare Fabio di qualche incontro per un “colloquio segreto” che deve farecon qualche magistrato.
Fabio ha messo da parte il suo orgoglio e la dignità accettando il sostengo economico da parte dei familiari con lavergogna di essere un marito ed un padre che agli occhi dei più risulta incapace di mantenere la propria famiglia e, perun uomo come Fabio, è un peso insopportabile che lo distrugge.
Ha accettato di rinunciare a svolgere le consulenze in favore degli avvocati che tutelano i bambini vittime di abusi pernon esporli al coinvolgimento nei fatti che lo riguardano, avvocati che mi hanno manifestato tutto il loro apprezzamento eche, come pedagogista, sono in grado di valutare nei contenuti delle decine di consulenze che hanno in tutti i casiraggiunto la vittoria dei processi.
Ha accettato di svolgere tutti i lavori più umili serenamente, forte della dignità di lavorare, anche a nero e col timore cheun curatore fallimentare potesse agire dei problemi per questo.
L'ho visto piegarsi in due dal dolore alla schiena, l'ho visto firmare le dimissioni di ricovero nonostante il parere negativodei medici per tornare a lavorare, l'ho visto aiutare gli ex colleghi e gli amici anche quando gli hanno voltato le spalle.
Ho visto e vedo un uomo che manifesta ai miei occhi ed agli occhi dei nostri figli tutti quei valori degni di un uomo, di unpadre, di un marito.
Sono io stessa adesso a dire basta, a spronarlo a lottare con tutta la sua forza contro questa massa di fango che ci staseppellendo sotto forma di false accuse, pregiudizi, umiliazione e miseria col costante timore di vederci togliere i bambiniperché siamo costretti a chiedere ospitalità ai nostri parenti per offrire loro una casa degna.
Siamo solo diventati poveri e niente altro, siamo dei genitori capaci, intelligenti e sereni e non permettiamo a nessuno diporre in discussione la nostra competenza genitoriale.
La povertà non è una condizione ma una situazione superabile con tutti i sacrifici che stiamo facendo e col coraggio diamarci anche in queste condizioni, in cui ogni giorno temiamo un articolo di giornale che descrive la storia di Fabio come“fantasiosa” senza conoscerla affatto.
Sono stanca di patire il fango che ci gettano addosso coloro i quali sfruttano il pregiudizio e l'ignoranza sociale comestrumento di offesa.
Lotta Fabio, te lo chiedo, combatti per la tua famiglia, non contro un nemico che non voglio e non abbiamo ma controquella ignoranza sociale che rende la collettività manipolabile da parte di chi ha un potere di ingerenza e dicondizionamento.
Ti ho visto piangere in silenzio.
Ti ho visto patire le ire dei parenti che non comprendono i fatti purtroppo complessi e sfogano la loro giusta rabbia condegli eventi più banali.
Ti ho visto reagire in modo sbagliato e per questo ti ho ammonito e fermato.
Non devo e non dobbiamo dimostrare nulla a nessuno ma desideriamo vivere in una società collettiva, non ai margini,perché non ce lo meritiamo.
Sono costretta a suggerire a Fabio di chiudere la ditta e di farsi da parte, offrendomi come prestanome e che il curatorefallimentare lo sappia chiaramente, per non permettere più a mio marito di essere umiliato nel sentirsi negare una licenzaper cucinare due cose perché “non ha i requisiti morali” per averla a causa del fallimento ancora aperto dopo 13 anni.
Che nessuno si permetta di porre in discussione la moralità, la dignità e l'onestà di mio marito Fabio Piselli, il quale ha
sempre accettato le responsabilità di ogni sua azione, come una testimonianza fatta secondo tutti i requisiti di legge enon tramite lettere anonime o canali ambigui.
I nostri figli non debbono essere uno scudo ma nemmeno delle vittime innocenti di una guerra che dura da quasi trentaanni con chi nelle istituzioni si nasconde.
Basta, adesso basta. Che vi sia da parte delle autorità giudiziarie o politiche quell'intervento di verifica tale da permetteredi comprendere in cosa è stato coinvolto Fabio sin dalla sua carriera militare, pronto ad assumersene le conseguenzaladdove siano evidenziate delle responsabilità di ogni tipo ma con un intervento tale da riscontrare la veridicità di unainformazione giudiziaria ed i motivi per i quali eventualmente questa non è affatto vera, senza quella approssimatabanalità che leggo in tante carte.
Osservo Fabio spegnersi piano piano col rischio di una depressione, e non me lo posso permettere.
Per questo mi espongo chiedendo solo una cosa, non soldi o sostengo di alcun tipo ma il rispetto della dignità di miomarito quando vi interessate a lui ed ai fatti che lo hanno coinvolto.
Vi chiedo solo di farvi una domanda prima di giudicare o di suggerire dei giudizi oppure di favorirne altri nati da voci,chiedetevi quello che Fabio dice sempre….”e se così non fosse”?
La nostra vita ce la gestiamo per come ci riesce, grazie anche all'aiuto di parenti che comprendono come le nostre madriperchè i padri sono ormai morti ed anche grazie a quelli che non hanno capito nulla perché non hanno l'obbligo dicomprendere le nostre scelte o dei fatti purtroppo complessi.
La parola grazie è sempre sulla nostra bocca ma non per questo manifestiamo sudditanza, al contrario, proprio la dignitàdel grazie ci consente di lottare per quella trasparenza che mio marito chiede sulla sua storia, sia nelle luci che nelleombre.
Fra poche settimane partorisco la nostra terza figlia, voglio che abbia una vita umile ma ricca di quella dignità che Fabiomi manifesta tutti i giorni...
Cagliari, lo 09 aprile 2015
La tragedia del Moby Prince è stata causata da un incidente ma occorre
capire se questo incidente ha avuto una dinamica del tutto fortuita oppure
se vi sono state delle variabili tali da concausarlo in qualche modo; per
farlo è opportuno ricostruire un completo quadro di insieme dello scenario
in cui si è mosso il Moby Prince prima, durante e dopo la collisione con una
nave alla fonda ancorata a pochissime miglia dalla costa livornese,
altrimenti si rimane focalizzati esclusivamente sulle immagini dell’evento
che più ci colpiscono o su quelle che le varie inchieste hanno evidenziato
ma in questo modo si rischia di perdere la progressione complessiva degli
eventi di quella sera che ci potrebbe consentire di meglio conoscere lo
scenario e di poter eventualmente riconoscere ogni singola dinamica che
possa aver contribuito a sviluppare i meccanismi che hanno concausato e
causato la collisione fra due navi di stazza diversa.
Le varie inchieste giudiziarie relative alla tragedia del Moby Prince ci hanno
offerto in più occasioni delle risposte tecniche che possono aver soddisfatto
o meno le esigenze di giustizia di ognuno di noi ma la legge è un fatto
tecnico e, come tale, ci produce una verità tecnica squisitamente giudiziaria
che si basa sulla raccolta dei dati di fatto che chi indaga riesce a produrre.
Raccolta di dati di fatto non necessariamente completi e non non
necessariamente reali in base ai quali chi gestisce l’indagine decide o
meno di andare a processo oppure di chiedere una archiviazione, magari in
attesa di buone e nuove prove tali da rinforzare una ipotesi di reato o per
offrirci finalmente la certezza dell’incidente avvenuto per tragico destino,
senza doverla ricostruire in modo giudiziario col tentativo di colmare inoltre
quelle lacune conoscitive rimaste vuote attraverso lo sviluppo di altre
ipotesi, anche se qualificate, ma sempre ipotesi restano e non sono quindi
delle incontrovertibili verità seppur espresse da una Procura.
Per quanto mi riguarda, agli occhi della collettività sono finito in questa
inchiesta nel 2007 perchè ne hanno parlato gli organi di stampa ma in
realtà sono coinvolto nella tragedia del Moby Prince sin dalla sera del 10
aprile 1991, perchè l’ho vissuta sin dai primi momenti e sono
sostanzialmente cresciuto con il suo ricordo, col dolore che ho visto
durante i soccorsi alle vittime ed ai loro familiari superstiti, con la
comprensione della evoluzione delle indagini che hanno caratterizzato
l’evento giuridico del Moby Prince.
Ero un ragazzo di ventitre anni quando è avvenuta la tragedia ed oggi sono
un uomo di quarantasette anni, sposato e con figli che ancora si sente
appellare come….”quel Fabio Piselli del Moby Prince”.
Lasciatemi quindi parlare delle ragioni per le quali sono finito dentro l’ultima
inchiesta, per capire non tanto chi sono che poco interessa ma i motivi per
cui ho approcciato l’inchiesta con una interpretazione di tipo “militare” degli
eventi che hanno presumibilmente concausato la collisione fra il Moby
Prince e la petroliera alla fonda, facendolo in un modo più razionale di
quanto mi è stato invece attributo e spiegando la progressione delle ipotesi
che ho sviluppato in forza degli elementi di ricerca che ho raccolto nel
corso degli anni.
Ricerca che era nata sin dal 1986 per altre ragioni del tutto personali e da
subito indirizzata negli ambienti militari livornesi e verso la base di Camp
Darby, i cui risultati hanno collimato in alcuni aspetti con l’evento Moby
Prince perchè vi è stata una convergenza di risultanze proprio in detti
ambienti e per questo ho doverosamente informato (ad ogni effetto di
legge e non in modo anonimo) la procura procedente e contestualmente
l’avvocato Carlo Palermo nel periodo durante il quale prestavo da qualche
anno le consulenze alle procure italiane ed alle varie aliquote di Polizia
Giudiziaria in materia di intercettazioni telefoniche ed ambientali, ero perciò
edotto delle dinamiche investigative di Polizia Giudiziaria e quindi anche
delle responsabilità civili e penali che mi stavo assumendo firmando quelle
relazioni informative.
Procura dalla quale ero già stato sentito proprio in ragione della mia storia
o, se vogliamo, del “caso Piselli” che inzia nel dicembre del 1986, ben
prima della tragedia stessa e che ad oggi non ha ancora trovato una
soluzione definitiva. Ma questa è appunto un’altra annosa storia che si
connette con la tragedia del Moby Prince perchè una ramificazione delle
mie ricerche ha coinciso con lo stesso quadro di insieme del contesto nel
quale è avvenuto l’incidente fra il traghetto e la petroliera, soprattutto dopo
la morte di mio cugino Massimo avvenuta nel 2004 che mi ha permesso di
parlare con i suoi superiori della Difesa statunitense, per i quali lavorava
come impiegato all’ambasciata americana di Roma negli uffici del
controspionaggio militare.
Non mi sono quindi alzato una mattina del 2007 con delle dirimenti notizie
risolutorie sulle cause della tragedia bensì ho fornito alla procura
procedente quanto a mia conoscenza rispetto alla elaborazione di molte
informazioni raccolte sin dal 1986, che hanno riguardato il solo caso Fabio
Piselli, il quale mi ha portato anche agli eventi del Moby Prince che come
ho detto ho partecipato sin dai primi minuti dopo il may day.
Sono nato nel 1968 di fronte alla Accademia Navale di Livorno ove la mia
famiglia abitava in viale Italia 255, sono cresciuto a Livorno ed ho poi
abitato per molti anni di fronte alla entrata del porto di Livorno in piazza
Luigi Orlando 3 ove dal terrazzo di casa potevo avere la vista completa del
cantiere navale e dell’entrata del porto di Livorno. Mio padre era stato in
vita un marittimo che in quel porto ci ha lavorato sin dai primi anni
sessanta, soprattutto alla Darsena Toscana ed al Marzocco ove l’impresa
di dragaggi marittimi per la quale lavorava aveva il cantiere.
Mio padre è stato un “padrone marittimo” ed ha lavorato sui rimorchiatori,
sui puntoni, sulle chiatte, sulle draghe e sulle bettoline per molti anni sia a
Livorno che in altri porti italiani fino alla pensione che lo ha lasciato nelle
mani di un tumore che nel 1995 se lo è portato in mare per sempre, mare
ove ho disperso le sue ceneri.
Sono perciò creciuto nell’ambiente del porto di Livorno, andavo con mio
padre al Marzocco ogni volta che potevo, lui aveva la “pessima” abitudine
di essere dedito al suo lavoro e sovente mi portava anche il fine settimana
per controllare gli ormeggi in caso di condizioni meteo avverse o per
programmare il lavoro e l’imbarco degli equipaggi; con lui ho
progressivamente imparato a navigare, mi permetteva di uscire con le
bettoline quando scaricavano i fanghi raccolti dalla draga, posso quindi
affermare con umiltà di conoscere il porto di Livorno, certamente nel
periodo della tragedia, di conoscerne le dinamiche, di conoscerne la gente,
di capire qualcosa di navigazione in mare e soprattutto di conoscere bene il
traffico ordinario d’entrata e di uscita verso e dal porto di Livorno che ho
sempre amato osservare dal mio terrazzo, riconoscendo ogni nave che
entrava in attesa di quella di mio padre quando il suo lavoro era svolto fuori
dalla rada oppure a più lunga distanza.
Mio padre aveva una barchetta ormeggiata allo Scoglio della Regina con la
quale andavamo a pesca fra la Vegliaia e la Meloria, mi portava al porto dai
suoi amici che comandavano i pescherecci che ci regalavano il pesce e da
quelli delle “cantine” con cui si usciva per una pesca di altura, cantine in cui
ho vogato nell’armo del Borgo per qualche tempo. Luoghi che mi sono stati
familiari perchè vi sono cresciuto dentro, sono stato nella squadra di Lotta
Libera del Cantiere Navale Luigi Orlando fino a quando ho intrapreso la
carriera militare dopo il biennio superiore, nel 1985 per poi riprendere gli
studi per diventare un educatore.
Leggere di me in qualche carta giudiziaria come una persona che non
distingue il nord dal sud è quasi offensivo per gli sforzi di mio padre che mi
ha messo alla barra sin da bambino, sono un sommozzatore da oltre
venticinque anni senza contare che la carriera militare l’ho svolta nei reparti
dell’artiglieria paracadutisti e missilistica, senza contare i corsi alla scuola
sottufficiali, luoghi in cui la topografia e l’orientamento erano materie di
base che mi hanno consentito di saper almeno usare una bussola e di
saper leggere una carta topografica tanto da distinguere i punti cardinali.
Proprio un evento accaduto nel 1986 durante la mia carriera militare ha
sviluppato “il caso Piselli”. Periodo nel quale frequentavo assiduamente la
base di Camp Darby prima e dopo essere giunto in servizio anche alla
Brigata Paracadutisti Folgore, base in cui ho avuto una relazione con una
soldatessa americana che operava nel battaglione che gestiva il terminal
portuale livornese e le navi utilizzate per il trasporto del materiale militare
americano fra cui quello bellico. Donna dalla quale ebbi il mio primo figlio
poi purtroppo deceduto per SIDS che oggi sarebbe stato un uomo fatto di
quasi trenta anni.
A riprova di quando ho sempre detto, che mi è stato più volte negato, è
stato finalmente possibile recuperare un documento dei carabinieri della
compagnia interna a Camp Darby dal quale emerge una relazione datata
gennaio 1986 che mi indica con nome e cognome alla guida di una
automobile in uso alle forze armate americane targata AFI, documento che
precede il recupero di altri documenti che ora possono dimostrare veritiero
quello che mi è spesso stato attribuito come fonte di un millantatore o
addirittura di un povero pazzo.
Da quanto fino ad ora ho scritto è possibile dedurre che avevo motivo di
conoscere il porto di livorno e che avevo motivo di conoscere la base di
Camp Darby e parte del suo personale italiano ed americano, compreso le
caserme ed il personale dei paracadutisti della Folgore in cui ho prestato
servizio. Inoltre nella mia famiglia vi sono stati dei parenti che hanno
storicamente lavorato dentro l’ambasciata americana di Roma sin dal
primissimo dopoguerra come autisti degli addetti militari della Defense
Intelligence Agency, parenti che ho sempre frequentato anche nei loro
ambienti di lavoro in cui ho contratto delle amicizie col personale
americano ivi operante, parenti la cui casa è ancora tappezzata dei
riconoscimenti e dagli encomi firmati da quasi tutti i presidenti americani dal
1948 al 2004 e dai molti comandanti dell’intelligence militare per i quali
hanno lavorato.
Quando è avvenuta la tragedia del Moby Prince non ero quindi solo un
cittadino livornese che abitava fronte mare e che ha partecipato ai soccorsi
come hanno fatto in molti, ero già stato un soldato professionista in reparti
di elevata qualità ed inserito in un settore che ancora oggi mi costringe ad
essere chiamato da qualche procura procedente i fatti avvenuti in Italia fra
il 1987 ed il 1994. Avevo già avuto esperienze all’estero in ambienti ostili
ed altre esperienze anche estremamente dure e traumatiche per il giovane
che ero, ove nel tempo libero quando restavo a Livorno ero inserito come
volontario presso la Pubblica Assistenza sia sulle ambulanze che in una
allora embrionale sezione della protezione civile, per questo ho partecipato
direttamente ai soccorsi ed ho potuto vivere in prima persona tutte le fasi e
gli interventi dall’approccio alla nave al riconoscimento dei resti dei corpi
recuperati e trasportati presso l’hangar “Karin B” appositamente approntato
per l’emergenza Moby Prince.
Questo hangar si chiamava “Karin B” perchè era stato a suo tempo
destinato alle operazione legate alla “nave dei veleni” cioè la stessa “Karin
B”. Hangar che nel 1988 avrebbe dovuto ospitarne i fusti tossici, motivo per
cui fui parte della selezione di una aliquota della protezione civile locale
appositamente formata anche dai VV.FF. specializzati in tal senso, poi
dopo varie lotte politiche i rifiuti furono portati in Emilia Romagna anche se
quelli peggiori rimasero in realtà in Africa, nel porto di Koko in Nigeria ed
altri inviati in Somalia.
Ho vissuto quindi l’evento Moby Prince con tutta la esperienza fino ad
allora acquisita, con la piena conoscenza dei luoghi in cui la tragedia è
avvenuta, con la totale consapevolezza degli ambienti militari e di ciò che
alcuni settori più qualificati di questi rappresentavano in termini di
importanza militare oltre il territorio livornese ed i confini nazionali.
La mia attività è stata certamente quella legata alle operazioni di soccorso
e di assistenza relative alla tragedia del Moby Prince ma con una ottica di
più ampio respiro proprio in ragione delle mie caratteristiche, arricchite
anche dal periodo durante il quale avevo cooperato all’estero con delle
società di sicurezza private straniere, in cui vi erano anche degli operatori
israeliani che ho poi rincontrato qualche tempo dopo quando ho abitato
all’Isola d’Elba ove questi avevano la propria base mentre prestavano la
propria opera in favore della società armatrice del Moby Prince.
Quanto sopra descrive le ragioni della mia “interpretazione militare” del
contesto nel quale si è consumata la tragedia del Moby Prince.
Interpretazione che ha sviluppato nel corso degli anni alcune ipotesi, talune
immediatamente cadute ed altre invece coltivate soprattutto nel momento
in cui hanno trovato prima la genesi poi un potenziale riscontro nella
convergenza con i risultati delle ricerche che come ho già spiegato stavo
conducendo negli ambienti militari livornesi ed a Camp Darby per delle
ragioni personali legati agli eventi del 1986.
Sia ben chiaro che ho sempre parlato di ipotesi, non di fatti già provati, per
questo ho scelto di informare la procedente autorità cosciente che solo una
indagine ufficiale e fatta secondo le corrette procedure avrebbe potuto
ottenere quegli stessi ed anche maggiori risultati da utilizzare sotto il profilo
probatorio all’interno di un eventuale processo, che da parte mia avevo
raggiuno in minima parte in modo meno ortodosso e per ragioni diverse.
Ero ben cosciente che interrogare eventualmente un ufficiale
dell’intelligence militare statunitense da parte di una ordinaria procura
italiana sarebbe stato impossibile ma rappresentava un tentativo utile per
proiettare in termini politici quel che la ordinaria giustizia trovava come
ostacolo, certo del fatto che quanto era avvenuto intorno al Moby Prince
prima durante e dopo la tragedia, aveva a mio avviso dei chiari connotati di
politica estera e questa è stata la ragione per la quale mi sono assunto la
responsabilità di fare i nomi di coloro con cui avevo avuto dei contatti
interni agli ambienti militari e di intelligence sia italiani che americani e di
indicare dei soggetti come potenziali detentori di memorie o di conoscenze
sul contesto generale del porto di Livorno del 10 aprile 1991, dai quali
magari poter ottenere una maggiore collaborazione in termini di
testimonianza.
Nomi che ho fatto in modo tale da poter donare a queste persone tutte le
risorse di legge per tutelare i loro interessi anche contro le mie stesse
dichiarazioni testimoniali, non ho mai infatti aderito a forme diverse dalla
corretta testimonianza assumendomene tutte le più complete
responsabilità ad ogni effetto di legge. Faccio presente che in tutti questi
anni non ho mai ricevuto nessuna denuncia o condanna per calunnia o
diffamazione e che la mia fedina penale è pulita.
La tragedia del Moby Prince è avvenuta in un contesto in cui vi erano in
essere dei movimenti di materiale bellico militare in corso prima, durante e
dopo la collisione, avvenuta quindi in un teatro di operazioni militari ed
anche agli occhi di personale militare.
Negli anni abbiamo assistito alla progressiva identificazione di quelle navi
cooptate dalla Difesa statunitense utilizzate anche la sera del 10 aprile
1991 per il trasporto delle armi da e per la base di Camp Darby ed il porto
di Livorno, alcune delle quali erano note ed altre invece tenute segrete fino
a poco tempo fa. Navi inserite in un contesto di operazioni militari in pieno
allarme “guerra del golfo”, erano infatti gli ultimi giorni della prima guerra
del golfo ed era ancora attivo il sistema di allarme e di protezione militare
anche nel porto di Livorno. Una di queste navi non è stata ancora
identificata con certezza, la quale resta la nota nave fantasma che rimane
una protagonista degli eventi di quella sera.
Rispetto alla mia conoscenza relativa a queste navi posso dire, come ebbi
già a dire nel corso dei vari interrogatori sostenuti avanti la procedente
procura, che la soldatessa americana con la quale avevo avuto una
relazione alla fine degli anni ottanta e dalla quale ebbi un figlio lavorava
proprio nel battaglione dell’esercito americano che si occupava della
gestione di quelle stesse navi, che lei definiva col termine “cover sisters”.
Questa ragazza lavorava non in base ma in un ufficio esterno a Camp
Darby che in quel periodo si trovava a Stagno all’interno di una anonima
palazzina e conosceva le dinamiche del terminal portuale, anche quelle
relative al trasporto delle armi e degli esplosivi gestito da un’altra sezione
dell’esercito americano ma partecipato anche dal suo reparto e dai
dipendenti italiani che in esso operavano.
Faccio presente che durante il confronto che ho accettato di sostenere
avanti la procura procedente con un dipendente italiano di Camp Darby
responsabile del terminal portuale ho avuto l’autorizzazione dai magistrati
per somministrargli dei quesiti ottenendo delle risposte dalle quali si può
oggi capire che in casi eccezionali il materiale bellico poteva essere
trasportato anche tramite dei mezzi gommati, non solo ed esclusivamente
tramite le chiatte ed il canale dei navicelli quindi. Mezzi gommati che
potrebbero essere stati usati anche la sera del 10 aprile 1991 senza essere
identificati oltre alle normali chiatte che invece erano sensibili alla
sorveglianza.
E’ stato possibile comprendere che il personale italiano operante nel corso
dei trasporti delle armi e degli esplosivi fra il porto e Camp Darby smontava
alle ore venti, mentre quando gli americani decidevano di continuare il
movimento del materiale bellico oltre le ore venti utilizzavano solo il
personale militare americano.
E’ stato possibile comprendere che a bordo delle navi militarizzate dalla
Difesa statunitense per il trasporto del materiale bellico potevano esservi
imbarcati dei militari americani o dei contractors civili per la sicurezza,
anche armata, e per le comunicazioni con le stazioni di terra tramite un
sistema radio codificato.
Sarebbe ancora oggi possibile quindi recuperare le memorie di coloro
impiegati in tal senso la sera del 10 aprile 1991, di verificare se nei loro
rapporti vi sono stati segnalati degli scontri, verificare se i loro canali radio
erano noti oppure avevano altre frequenze fino ad oggi non valutate.
Quanto sopra rispecchia pienamente il carattere del contesto militare del
quale ho parlato accennando al mio approccio interpretativo di tipo militare
delle concause che hanno portato un ordinario e quotidiano traghetto di
linea come il Moby Prince a collidere con una petroliera alla fonda.
Ipotesi che ha preso sostanza quando ho incontrato nel corso delle mie
ricerche, come ho detto nate per motivi personali ma condotte in un
ambiente convergente con quello del Moby Prince, dei personaggi che
hanno fornito delle notizie relative ad un presunto movimento di armi
parallelo a quello americano, indirizzato verso la Somalia e distratto anche
per altre destinazioni.
Occorre capire che il movimento di armi condotto dagli americani era un
evento noto alle autorità di sicurezza italiane anche nei suoi aspetti tenuti
segreti ai magistrati, era quindi sostanzialmente autorizzato in ogni sua
forma mentre il presunto parallelo movimento di armi verso la Somalia
rappresentava un traffico di armi del tutto illegale e clandestino, condotto
sotto l’ombrello americano ed in esso nascosto, presumibilmente noto
anche agli americani stessi ma certamente noto alla sicurezza italiana
perchè un simile traffico era parte di quella politica estera di cui ho fatto
accenno in sede giudiziaria definendola “politica estera clandestina” atteso
che si stava armando almeno dal 1987 un governo come quello somalo di
Siad Barre che proprio nella primavera del 1991 ha visto la caduta ed il
processo di cambiamento della Somalia fra i vari signori della guerra, tanto
da portare poco dopo la comunità internazionale alla nota missione di pace
partecipata anche dai contigenti italiani e resa famosa non solo per i nostri
caduti ma anche per l’omicidio di Ilaria Alpi e di Miram Hrovatin, che
conducevano delle ricerche sul presunto traffico di armi e di rifiuti tossici fra
l’Italia e la Somalia.
Da quanto fino ad ora ho scritto è possibile iniziare a comprendere le
ragioni della mia interpretazione di tipo militare alla quale ho fatto accenno,
che non è nata per giocare all’agente “zerozerobeppe” in forza di chissà
quale fantomatica psicopatologia o frustrazione condizionante il mio
equilibrio mentale, bensì dalla razionalizzazione di un evento irrazionale
come una strage del genere, razionalizzando anche le ipotesi che agli
occhi di chi è estraneo alle operazioni militari di quel tipo sembrano
appunto roba da film.
Nel farlo non ho cercato di rendere razionale l’irrazionale con l’adattamento
delle ipotesi ad una valutazione logica spiegandole perciò con delle ipotesi
logiche per essere ricondotte ad una ordinaria interpretazione di un
semplice incidente, come hanno fatto i magistrati, ma ho semplicemente
reso razionale quel che appare irrazionale proprio perchè fuori
dall’ordinario senza però snaturarne i contenuti ma donandogli la cornice
dell’ambiente in cui gli eventi si sono originati, nel caso di specie un
ambiente con connotati tipicamente militari.
Nella mia valutazione non mi è apparso affatto irrazionale ipotizzare che
dato il quadro di insieme del contesto militare nel quale il Moby Prince è
andato a collidere contro una petroliera alla fonda, non era così impossibile
che i sistemi elettronici e le unità umane attivate per la protezione ed il
monitoraggio delle operazioni militari in corso prima durante e dopo la
tragedia avversero potuto rilevare qualcosa di utile per le indagini.
Mi sono chiesto che se effettivamente vi fosse stato un parallelo traffico di
armi con la Somalia, doveva altresì esservi stato un parallelo sistema di
protezione. Proprio perchè quel tipo di operazioni non erano delegate a dei
contrabbandieri di chinotto ma a persone con una preparazione militare o
almeno con una ampia copertura in tal senso e, se tale protezione vi era
effettivamente stata, non poteva che essere stata delegata a quei reparti
dedicati per le operazioni clandestine che in Livorno avevano
sostanzialmente casa ove vi erano certamente i reparti da quali
provenivano coloro inseriti in quei settori candestini delle forze armate e
dell’intelligence in allora esistenti; alcuni dei quali ho potuto conoscere
durante la mia permanenza sia alla Folgore che a Camp Darby ed altri
invece resi noti alla collettività perchè uccisi in Somalia o poco dopo la
stessa missione.
Gente che ha potuto in via ipotetica vedere, sentire e relazionare al proprio
livello superiore, dal capocellula all’autorità politica, quanto ha appunto
visto sentito e comunicato mentre la tragedia è avvenuta oppure quanto ha
rapportato nei momenti successivi, magari apportando qualsivoglia
classifica di segretezza sui propri inforep o reports che può ancora oggi
essere eventualmete declassificata. Documenti che se esistenti sono infatti
ancora oggi potenzialmente estraibili da qualche segreteria speciale ma
solo con un intervento politico, con un serio intervento politico e non solo
una mera azione politica che possa offrire le risposte banali e cartolari già
avute.
Per quanto concerne invece gli israeliani voglio spiegare che non ho mai
detto, contrariamente a quanto mi è stato attribuito dalla procura, che la
tragedia del Moby Prince è stata causata da una battaglia fra “agenti del
mossad e terroristi palestinesi” avvenuta nel porto di Livorno. Non ho mai
detto una fregnaccia del genere e fortunatamente vi sono i video degli
interrogatori che potranno un giorno meglio definire quanto ho risposto ai
magistrati.
Ho parlato di israeliani e di una loro attività in essere nei momenti della
tragedia perchè sapevo della loro presenza in quel periodo nella zona
livornese, presenza riferita a dei civili di cittadinanza israeliana che
operavano all’interno di una società privata che forniva dei servizi di
sicurezza di elevata qualità sul territorio livornese e nella provincia; sapevo
che gran parte di loro proveniva da esperienze militari nella Difesa dello
Stato di Israele, perchè in quegli anni chi generalmente lasciava le forze
armate del proprio paese e desiderava restare nell’ambiente entrava in
questi circuiti, oggi noti e meglio organizzati mentre a quel tempo erano
gestiti quasi esclusivamente dai britannici, dai sudafricani e dagli israeliani
alcuni dei quali avevo già incontrato mentre io stesso avevo operato
all’estero in tal senso fra il 1989 e la fine del 1990. Niente di spionistico
quindi ma un altro aspetto della sicurezza paramilitare, utilizzata anche da
molti governi in termini di consulenza e di formazione e come ho detto oggi
considerata una prassi ordinaria.
Sono stati prima gli uomini della Polizia di Stato poi quelli del Sismi ad
identificare i cittadini israeliani operanti nella società di sicurezza privata
presente all’Elba come ex appartenenti al Mossad, non li ho mai indicati
come tali ma solo come ex militari israeliani.
Ho detto invece che per quanto era a mia conoscenza questi israeliani
operavano nella zona livornese e nella zona di Savona già prima della
tragedia del Moby Prince e non solo dopo che l’armatore del traghetto ebbe
ad incaricarli della sicurezza a bordo, magari lavoravano per altri incarichi
ma certamente erano già attivi a Livorno.
Faccio presente ai lettori che da altre indagini relativi ai fatti somali ed al
traffico di armi, è emerso che l’intelligence israeliana aveva effettivamente
attivato in quegli anni un monitoraggio mirato verso alcuni elementi dei
paracadutisti italiani sia essi operativi in Somalia che nelle loro caserme
livornesi. Forse gli stessi militari italiani presumibilmente già presenti a
Bosaso in Somalia prima della missione Restore Hope ed Ibis.
Informo per questo i lettori che durante il confronto che ho accettato di
sostenere con un ex collega della Folgore in servizio nelle forze speciali, al
quale i magistrati mi hanno autorizzato di somministrare dei quesiti, gli ho
chiesto quindi della sua eventuale esperienza diretta o conoscenza
operativa della presenza di militari italiani a Bosaso prima durante e dopo
la missione italiana in Somalia, considerando che Bosaso che era una
zona fuori dalla competenza della operatività della stessa missione italiana.
L’ex collega ha risposto inizialmente riferendosi a Bosaso a mio avviso
quasi in modo positivo, poi ha chiesto di essere eventualmente sollevato
dal segreto ed il magistrato ha giustamente interrotto i miei quesiti che si
sono quindi rivolti alla volontà di avere una conferma, ottenuta, della mia
presenza negli uffici del suo comando laddove mi era invece sempre stata
negata o dipinta di millanteria ogni mia espressione in tal senso.
E’ infatti oggi possibile dimostrare veritiera la mia presenza all’interno di
uffici del comando di reparti di elevata qualità, all’interno di uffici di forze di
polizia e di altri uffici fino a prima negata e descritta come millanteria di una
sorta di povero frustrato. Magari c’ero solo per un caffè ma occorre capire il
perchè per tutte le volte che sono stato in questi luoghi la mia presenza
non è mai stata documentata, immediatamente negata e risultata tale solo
dopo i miei sforzi in tal senso o dopo aver più semplicemente fonoregistrato
gli incontri.
Nella mia ipotesi, che ho fornito ai magistrati elaborata dai risultati delle
ricerche condotte e converse coi fatti del Moby Prince ho parlato che nel
periodo della tragedia il traffico di armi italiano diretto in Somalia era
presumibilmente protetto da operatori dei settori clandestini della nostra
intelligence militare, quasi tutti provenienti dai nostri reparti speciali di base
a Livorno, facendo il nome di chi avrebbe potuto eventualmente offrire
anche la propria memoria, nome che ho fatto nel modo già descritto
offrendogli tutte le garanzie di legge per la tutela dei suoi interessi.
Ho detto che parte di quel traffico poteva essere distratto anche verso altri
destinatari frai quali dei palestinesi, perchè i risultati acquisiti dalla mia
successiva presenza in Libano nel 2007 mi avevano confermato questa
ipotesi e la ragione dell’interesse israeliano di monitorare questi eventi in
quel tempo, tramite le loro antenne sul territorio, ovvero quegli stessi
operatori di sicurezza privati che il nostro Sismi ci dirà essere stati degli
agenti del mossad, non il Piselli. Gli stessi operatori che la Navarma poi
impiegherà a bordo dei suoi traghetti.
Ho detto ai magistrati che questo gruppo operativo israeliano utilizzava dei
piccoli pescherecci italiani basati anche a Piombino coi quali
raggiungevano Livorno, che sostanzialmente affittavano pagandone gli
armatori dei quali ho indicato i dati anagrafici ai magistrati sempre con le
stesse garanzie di legge già sopra spiegate. Uno di questi è stato arrestato
poco dopo per presunti fatti di droga mentre è emerso realmente che
almeno uno di questi pescherecci era presente nella rada del porto di
Livorno la sera della tragedia del Moby Prince.
Per quanto concerne il termine “battaglia“ questo non è effettivamente
sbagliato, termine che i magistrati mi hanno attribuito perchè ho
effettivamente parlato di un ipotetico scontro avvenuto fra chi era a bordo di
una imbarcazione piccola, simile ad un peschereccio, e chi proteggeva il
traffico di armi clandestino verso la Somalia che era a bordo di tre
motoscafi veloci con almeno tre operatori imbarcati su ognuno di essi,
partiti sia dal porto di Livorno che provenienti da Marina di Pisa e diretti
nella rada di Livorno.
Ho parlato effettivamente che una piccola imbarcazione è andata in
fiamme, indicando non il “XXI Oktoober II” come mi è stato attribuito dai
magistrati bensì il peschereccio affittato dagli israeliani, che era molto più
piccolo della nota nave della Shifco. Piccolo peschereccio che prima di
affondare ha quasi colliso mentre era già in fiamme con la petroliera alla
fonda nella fiancata opposta a quella contro la quale si è scontrato poco
dopo il Moby Prince.
Questo è stata la ipotetica “battaglia” di cui ho parlato, nessun terrorista
palestinese presente a Livorno quella sera quindi come mi è stato
attribuito. In realtà l’unico riferimento che fatto inerente un palestinese
riguardava un collaboratore del contingente italiano della prima missione in
Libano, quella di Angioni e Pertini per capirci, che ancora offriva qualche
notizia perchè residente in Toscana ed ancora in contatto con degli
elementi della Folgore e del “Tuscania”.
Orbene sono cosciente che agli occhi di chi è estraneo alle operazioni
militari in tal senso tutto questo potrà somigliare ad un film, ma per chi è
addentro all’ambiente non è così impossibile ipotizzare l’attività di una
aliquota di osservatori nascosti dentro un anonimo peschereccio che
monitora un obiettivo di interesse operativo, imbarcazione che per qualche
ragione finisce in fiamme forse per un banale incidente o forse per uno
scontro con chi proteggeva l’obiettivo osservato, esfiltrandosi poi dalla zona
nei modi possibili o preventivamente già pianificati da una precedente
opera di intelligence condotta in modo tale da valutare tutti gli indici di
rischio e di compensarli sia con mezzi propri che coi mezzi d’ambiente.
Personalmente ho svolto delle attività simili nel mio lavoro, per esempio
quando insieme alla polizia giudiziaria era necessario superare la
sorveglianza e la protezione di alcuni soggetti indagati sui cui mezzi o nelle
cui case dovevo piazzare dei sistemi di intercettazione ambientale, si pensi
per esempio ad una riunione di rapinatori o di trafficanti di droga,
calcolando preventivamente tutti i rischi, dall’indice di pericolosità degli
stessi indagati, ai rischi di ambiente fino alla eventuale attività di sgancio o
di confronto nel caso questi si fossero accorti della nostra presenza.
Trattandosi di banditi, magari anche armati, è idoneo ipotizzare che la
polizia giudiziaria presente, armata, avesse potuto reagire dando così vita
ad uno scontro armato motivo per il quale questo tipo di operazioni sono
pianificate in forza del minimo indice di rischio per le persone estranee.
Per offrire un esempio semplice a chi legge e non ha un quadro chiaro di
cosa è avvenuto nella rada di Livorno, si può ricostruire immaginativamente
la scena pensando ad una auto al cui interno vi sono dei soggetti che
monitorano altri soggetti su altre auto, circondate da tanti camion che si
muovono in un piazzale non grandissimo carichi di armi e di esplosivi,
mentre un bus di linea colmo di passeggeri segue il suo normale percorso
passandovi vicino, fino a quando queste auto si scontrano ed accade
qualcosa che fa mutare percorso al bus tanto da finire contro un enorme tir
parcheggiato carico di benzina causando il rogo che ucciderà i passeggeri
del bus.
Per cercare di comprendere il percorso del Moby Prince, che lo ha portato
dalla sua rotta ordinaria contro la petroliera alla fonda, ho sviluppato in
allora anche un’altra ipotesi, ripeto solo una ipotesi, rispetto ad una
potenziale “presa nave” la quale è nata dalla valutazione della dinamica
della collisione, dalla valutazione della posizione dei corpi delle vittime,
dalla valutazione dei residui degli esplosivi trovati a bordo e dalla attenta
valutazione di quanto riportato dalla testimonianza di un presunto
pescatore e radioamatore che disse di aver visto dei motoscafi sottobordo
del Moby Prince con gente che sembrava salire o scendere dalla nave,
prendendo immediatamente atto che avrebbe potuto semplicemente aver
visto la pilotina dei piloti del porto.
Proprio questa ultima testimonianza fu inoltre a suo tempo scartata dai
magistrati dopo che vi fu un tentativo di ricostruire il collegamento via radio
con tale Luccio, che disse di trovarsi in mare durante una trasmissione
televisiva, che finì in una sorta di burla con il presunto testimone che in
realtà stava trasmettendo da una auto parcheggiata a due passi dalla regia
dicendo di essere quello stesso Luccio che vide cosa accadde la sera della
tragedia del Moby Prince ed ingannando anche gli stessi autori della
trasmissione.
Il racconto originale aveva invece nei suoi contenuti degli elementi che
successivamente hanno avuto dei riscontri nelle mie ricerche, ovvero la
presenza di almeno un motoscafo visto poi anche da altri testimoni più
genuini sottobordo del Moby Prince, con sopra tre uomini che rimasero in
silenzio e inattivi nonostante l’emergenza.
Motoscafo la cui presenza portò la procura a sentire il senatore Andreotti
rispetto a degli eventuali segreti militari atteso che egli era in carica nel
1991, audizione che fu pubblicizzata sui giornali proprio mentre con
l’avvocato Palermo stavamo cercando di raccogliere la testimonianza di
personale militare che avrebbe potuto saperne di più di quei motoscafi,
militari che invece si allarmarono proprio per quel tipo di articoIo che
riguardava esattamente quello su cui ci stavamo confrontando, che credo
pubblicò il settimanale Panorama, ex colleghi che individuarono in me non
più una sorta di “mediatore di testimonianza” ma un “infame” che li aveva
traditi.
Nei risultati delle mie ricerche evidenziai infatti dei motoscafi che si erano
mossi da Marina di Pisa verso il porto di Livorno passando per il
Calambrone, ove questo Luccio disse di averli visti e di aver sentito
qualcosa via radio che riportò al suo amico radioamatore a terra, un
livornese che conoscevo bene perchè inserito nella protezione civile e col
quale potei parlare anni dopo, il quale confermò che Luccio aveva
effettivamente visto dei motoscafi descrivendone le dinamiche che in
minima parte risultarono essere compatibili con gli elementi di riscontro che
avevo raccolto.
Ho parlato poi della ipotesi di una “presa nave” rispetto alla posizione dei
corpi delle vittime del Moby Prince perchè questi sono stati ritrovati tutti o
quasi tutti in un unico ambiente, come radunati in esso, ma in realtà i
passeggeri del traghetto non avrebbero avuto il tempo di essere stati resi
edotti in così pochi minuti della ubicazione esatta dei punti di ritrovo in caso
di emergenza ed in modo così ottimale per raggiungerne uno ed uno solo
tutti insieme, soprattutto grazie ai soli avvisi informativi sulle misure di
sicurezza che generalmente in quel periodo erano tramessi via interfono o
tramite video e non sempre ascoltati da tutti i passeggeri intenti a
posizionarsi in cabina o nei vari punti del traghetto.
I rapporti ufficiali ci hanno inoltre sempre detto che le vittime erano morte
poco dopo l’incendio, che la sopravvivenza a bordo è stata scarsa e
scadeva così l’ipotesi che avessero potuto effettivamente affrontare
l’emergenza superando le fiamme ed il fumo da più punti della nave per
raggiungere il salone nel quale sono stati ritrovati in massa.
Prendeva invece spessore l’ipotesi che questi fossero già stati radunati nel
salone prima della collisione, come avviene nelle procedure di “presa nave”
di tipo militare concentrando le persone in un unico ambiente e dividendo
da questi il comandante ed il personale in plancia più importante, ipotesi
rinforzata anche dal presunto cambio di rotta della prua del Moby Prince.
Relativamente alle tracce di esplosivo di tipo militare che sono state
repertate da un perito del tribunale, queste erano certamente scadenti per
valutare l’ipotesi di un attentato o di una bomba a bordo per questo le ho
ipoteticamente ricondotte alla dotazione individuale degli operatori intenti
alla “presa nave”, come generalmente avviene nel corso di queste attività
sia condotte da unità di intervento speciale di tipo istituzionale sia da parte
di operatori privati con una simile esperienza. Piccole quantità di esplosivo
non idonee per un attentato ma certamente capaci di produrre una azione
utile per abbattere delle porte o delle antenne di comunicazione per
esempio con delle piccole cariche taglienti e demolenti.
Inoltre nel corso delle attività di recupero dei resti delle vittime dalla nave
da parte dei VV.FF. i quali li ponevano nelle sacche che poi ci
consegnavano sotto bordo per portarle all’hangar Karin B, sono state
recuperate alcune armi da fuoco, delle pistole che personalmente potei
vedere riconoscendo in queste quelle tipiche in dotazione alle FF.PP.
italiane e ricondotte a chi perito nel rogo lavorava in esse ma anche un
modello che in quegli anni non era così comune, non immediatamente
attribuibile a nessuno.
In aggiunta sembrava esservi un numero di vittime superiore ai 140 corpi
ufficialmente riconosciuti, ovvero 147, motivo per cui nacque l’ipotesi della
presenza di altre persone perite a bordo ma nel corso dei miei interrogatori
ho sottolineato che proprio la confusione generale vigente dentro l’hangar
Karin B ed il terribile stato di quel che trovavamo dentro le bodybags
avrebbe potuto indurmi in errore nel conteggio dei corpi durante la
ricomposizione dei resti.
Quanto sopra ha giustificato l’ardita ipotesi della “presa nave” sviluppata
con la piena consapevolezza che avrebbe stimolato una reazione critica,
ma comunque compatibile e complementare con l’ipotetica azione militare
legata ad un precedente scontro avvenuto nelle acque in cui il Moby Prince
navigava.
Ipotesi che mi sarei aspettato eventualmente considerate essere di scarso
valore investigativo da parte degli inquirenti ma non tali da meritare quella
volontà riduzionista, delegittimante e sostanzialmente denigratoria che ho
ricevuto.
Ipotesi nate dalla mia convinzione che poco prima della collisione fra il
traghetto e la petroliera alla fonda vi fosse stata in essere una attività
emergenziale tale da condizionare i movimenti di più navi, attività militare e
conflittuale confermata anche dal ritrovamento dei resti di una
imbarcazione nel fondale della rada di Livorno proprio al punto nave della
zona di collisione.
Per quanto concerne le anomalie del traffico radio nei momenti del may
day queste potevano essere a mio avviso anche ipoteticamente
riconducibili ad una attività di tipo militare compatibile con lo scenario sopra
ipotizzato.
La nebbia, che nel corso della mia attività la sera del 10 aprile 1991 non ho
mai avvistato, salvo il fumo dopo il rogo, avrebbe (laddove esistente) potuta
essere stata prodotta bruciando gasolio in mare da parte di chi necessitava
di occultare la propria attività di trasferimento di carichi da una piccola
imbarcazione proveniente dal porto di Livorno ad una più grossa nave
“balena” presente in rada.
Il fatto più importante che mi ha permesso di rinforzare questa ipotesi è
stato la raccolta di notizie in ambienti americani che sembravano
avvalorare l’ipotesi di un qualche incidente avvenuto prima della collisione
del traghetto e del successivo rogo, incidente che aveva allarmato tutti i
sensori di sicurezza e le unità di pronto impiego, compreso un sistema
mobile di comunicazione e di monitoraggio presente dentro la base di
Camp Darby e non solo quello della base di Coltano del quale ha parlato
un anonimo telefonista durante una trasmissione televisiva, dicendo di
essere un dipendente italiano della base e che gli americani avevano visto
tutto coi loro sistemi di monitoraggio elettronico.
Persona che avevo creduto di poter identificare tramite un altro dipendente
italiano della base che avevo segnalato alla autorità procedente unitamente
ai militari italiani inseriti in un dispositivo di elevata qualità presumibilmente
attivati la sera della tragedia.
Unità satellitare mobile, ovvero un camion container attrezzato simile a
quelli in uso all’artiglieria contraerei, che era parcheggiato dentro la base di
Camp Darby anche la sera del 10 aprile 1991, da utilizzare sia per le
attività di monitoraggio e controllo che per la gestione dei voli dell’elicottero
in uso al comando di Camp Darby che in quel periodo era ad esclusiva
conduzione americana, con la sola presenza italiana rappresentata da un
ufficiale di collegamento della Folgore, dai carabinieri della Setaf e da una
aliquota di operatori speciali inseriti in un dispositivo in allora esistente a
livello Nato.
Tornando alla mia persona, a quel Piselli del Moby Prince, ho letto una
descrizione fortemente denigratoria nei motivi della richiesta di
archiviazione da parte della procura procedente, nella quale si toccano dei
fatti della mia vita in modo riduttivo, supponente, superficiale, induttivo ed
oggettuale tale da rinforzare l’ipotesi di avere a che fare con una sorta di
povero scemo o di alcolizzato da fumosa birreria.
Premesso che non bevo e non fumo, che la mia salute mentale seppur
provata da talune esperienze traumatiche sembra ancora soddisfare i
canoni clinici della cosiddetta normalità, che conduco una vita semplice
dedicata a mia moglie ed ai miei figli, posso rispondere a quella
delegittimante descrizione che ho letto senza creare polemiche ma nel
pieno rispetto del lavoro dei magistrati, evidenziando alcune conclusioni
errate che mi sono state attribuite, una parte delle quali ho già descritto nei
contenuti sopra esposti ove ho spiegato che non ho mai parlato di
“battaglia fra agenti del mossad israeliano e terroristi palestinesi” avvenuta
nelle acque di Livorno bensì della presenza di cittadini israeliani che poi il
Sismi ci dirà essere stati ex agenti del mossad ed ove non ho mai detto che
il “XXI Oktoober II” è la nave affondata, bensì ho parlato di un piccolo
peschereccio presumibilmente compatibile coi resti individuati poi dalla
procura procedente.
I magistrati nella richiesta di archiviazione nella parte che mi riguarda
sembrano in un passaggio di rinforzo alla loro valutazione schernire il fatto
che “gli agenti del mossad possano o meno toscaneggiare”. Sempre
premesso quanto ho già detto rispetto a questi israeliani faccio comunque
presente in via indicativa che nella Difesa israeliana militano alcuni ufficiali
che sono cresciuti nella comunità ebraica livornese, con almeno uno dei
quali usavo distribuire da bambino “il gong” che era un manifesto di
Livornocronaca poi diventato Il Vernacoliere, militare israeliano che posso
assicurare parlare il livornese meglio di me che sono cresciuto nel quartiere
del porto di Livorno.
I magistrati trovano inoltre, sempre nella loro relazione, alcuni nomi che ho
indicato come operatori dell’intelligence militare statunitensi come “poco
americani”. Non posso far altro che evidenziare che alcuni membri della
mia famiglia emigrati nei primi del ‘900 negli USA hanno oggi lo stesso
cognome, Piselli, ma sono cittadini americani da molte generazioni che
hanno mantenuto quindi ai loro occhi un cognome “poco americano”.
Nel corso di quella richiesta di archiviazione, nei punti che mi riguardano,
ho potuto contrastare alcuni commenti e delle dichiarazioni che tendono a
descrivermi come un millantatore in forza del risultato delle indagini
condotte pregne di notizie valutative in tal senso e non qualitative. Grazie al
recupero dei documenti che mi furono sequestrati nel novembre del 2007
per una accusa che poi si è rivelata infondata dopo cinque anni di indagini,
si può infatti evincere da questi documenti in alcuni casi l’esatto contrario di
quanto invece scritto nella stessa richiesta di archiviazione, tanto che ho
definito essere stata una sorta di “omissione di occhi di ufficio” la svista
della loro presenza atteso che quegli stessi documenti erano già in
possesso di chi ha scritto la stessa richiesta di archiviazione.
Rispetto alle accuse ricevute di aver condotto delle illecite intercettazioni e
di aver violato un segreto di ufficio, queste non hanno portato ad altro che a
giustificare il sequestro di tutto quanto era in mio possesso, atteso che
sono state archiviate per l’infondatezza della notizia di reato ma dopo ben
cinque anni. Anni i quali hanno sostanzialmente rappresentato non solo
uno strumento estorsivo quanto un elemento ostativo il mio normale
percorso professionale che fu interrotto proprio per la natura delle accuse
con tutte le complicanze conseguenti per la mia vita privata e sociale.
Oggi non lavoro più come consulente per la polizia giudiziaria, non svolgo
più le consulenze per gli studi legali in materia di tutela dei minori, avvocati
ai quali ho dovuto spiegare l’opportunità di non avvalersi della mia
esperienza nonostante la loro volontà di nominarmi consulente di parte.
Alla fine della fiera, come si suol dire, poco conta chi sono o chi sono stato
di fronte ad una tragedia come quella del Moby Prince, che rimarrà senza
una verità certa fino a quando le indagini saranno viziate dalle dinamiche
della “difesa del proprio ufficio” che sovente condiziona la bontà di una
indagine laddove questa possa indirizzarsi verso l’operato di talune
amministrazioni dello Stato, specie se di sicurezza, oppure nel caso possa
evidenziare un operato mediocre, lacunoso o trascurante dell’ufficio stesso.
La verità di una strage muore sempre con le vittime ma nel caso del Moby
Prince c’è una differenza, c’è ancora infatti la possibilità di recuperare
documenti e memorie da dentro la politica dei cassetti delle segreterie
speciali senza disturbare dei governi stranieri, per quel che ne so basta
andare a Roma e saper cercare.
Sono e intendo restare un cretinotto qualsiasi, stanco del peso di trenta
anni di lotta per difendere la mia storia contro quanto è accaduto nella mia
vita nel 1986 e soprattutto stanco del pregiudizio che nasce e prende
sempre più vita dalla ignoranza della collettività, che spesso legge ma non
vede, che sovente sente ma non ascolta e che fin troppe volte partecipa
alla ricerca della verità di una strage che ha mietuto tante vite con una
enfasi emotiva a breve termine, che negli anni in cui ho pubblicato il mio
Blog ho cercato di sensibilizzare verso il sostegno a lungo termine di chi
cerca la verità e non solo alla partecipazione di un corteo commemorativo
di un solo giorno.
Mi auguro fortemente che la politica attuale possa dar vita ad una seria
commissione di inchiesta bicamerale, tale da sfondare le porte della
segreteria speciale e di tirar fuori dai cassetti quei segreti utili per capire
cosa accadeva intorno al Moby Prince la sera della tragedia…..
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