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Comunicare in modo efficace studio paserio - ebook

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Dal sito dello Studio Paserio -31 marzo 2016

Se sei un leader e vuoi apportare un cambiamento nella tua

azienda, devi aver chiaro che la comunicazione sarà

determinante.

Cosa vuol dire?

Vuol dire che gli ostacoli che si dovranno affrontare, saranno

fondamentalmente due:

Il primo, è la naturale resistenza al cambiamento;

Il secondo, è l’errore di credere che qualcosa che è stato

comunicato, è stato anche compreso.

Bisogna partire dal presupposto che ogni persona che riceve

un’informazione dall’esterno, percepisce questa informazione in

modo soggettivo e del tutto personale.

Questo perché una persona è diversa dall’altra.

Ogni persona ha un suo vissuto, ha delle sue convinzioni limitanti e

delle sue credenze.

Ogni persona ascolta, fiuta, gusta e tocca il mondo in un modo

diverso proprio perché in ognuno di noi c’è un sistema

rappresentazionale (sensoriale) differente che codifica le

informazioni, organizzandole e dandogli un significato particolare.

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Quindi, se partiamo dal presupposto che ogni informazione che viene

data ai nostri collaboratori, sarà compresa nello stesso modo, ci

sbagliamo di grosso.

Cosa dobbiamo fare?

Dobbiamo sforzarci di individuare l’impatto che la comunicazione ha

avuto sui nostri collaboratori.

Se le informazioni sono state cancellate, distorte o generalizzate,

dobbiamo intervenire.

Facciamo delle domande specifiche per condurre, passo dopo

passo, i nostri collaboratori ad analizzare i fatti valutandoli in un

modo oggettivo.

Se ad esempio, ci troviamo davanti un collaboratore che esordisce

dicendo:

“Io so che cosa vuol dirci davvero”

Potremmo rispondere: “Come fai a saperlo?”

Oppure:

“Dovremmo lasciare le cose così come abbiamo sempre fatto”

Potremmo rispondere con: “E cosa succederebbe se non dovessimo

farlo?”

O ancora:

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“Questa idea è troppo onerosa”

Potremmo rispondere con: “È troppo onerosa rispetto a che cosa?

Lo so che non è facile, ma se non riportiamo il nostro interlocutore

ad un punto di svolta, rischiamo che queste informazioni si tramutino

in azioni che saranno controproducenti al raggiungimento del nostro

obiettivo.

È importante quindi che ogni

comunicazione diventi una

comunicazione di successo.

Solo così riusciremo ad apportare

un cambiamento orientato al

raggiungimento di un risultato.

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Dal sito dello Studio Paserio - 16 Novembre 2015

Non è facile fare l’imprenditore.

Ogni giorno, chi è al comando deve prendere decisioni, deve

assumersi responsabilità e deve avere la forza di rimettersi in gioco

per non far affondare la nave.

Non c’è nulla di scontato e nessuno può garantire che, facendo in un

modo, piuttosto che in un altro, il successo arriverà.

È un’incognita. Questo l’imprenditore lo sa bene.

Ma cosa distingue un imprenditore da un altro?

Quali sono le caratteristiche che deve avere per essere considerato

un “bravo imprenditore”?

- Deve essere “lungimirante” e vedere “oltre”

- Deve sapere scegliere i propri collaboratori

Solo con le persone giuste si possono fare “grandi cose”.

- Deve avere obiettivi chiari

- Deve saper condividere il progetto con il proprio team

Le risorse umane all’interno dell’azienda se vengono coinvolte e

diventano attori, e non semplici spettatori, diventeranno il

prolungamento delle nostre braccia riuscendo ad agire “come, se non

addirittura meglio, di noi”.

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La comunicazione è importante, quindi bisogna essere chiari su

quello che è la nostra vision e su quello che ci aspettiamo da ognuno

di loro.

- Deve saper organizzare, programmare, pianificare e

delegare

Con una buona organizzazione è possibile stabilire: chi fa cosa, come

deve essere fatto e in che tempi.

- Deve saper sostenere le persone, farle crescere e

motivarle

Per ottenere i risultati sperati, i collaboratori devono essere messi

nelle condizioni giuste.

Domandiamoci se hanno tutte le risorse per ottenere quello che ci

aspettiamo:

“Abbiamo valutato se hanno il tempo necessario per sviluppare il

progetto, se hanno le conoscenze adeguate o se hanno necessità di

un corso di formazione ad hoc, o ancora se hanno gli strumenti

tecnologici appropriati o se esistono altri fattori che possono

interferire sul risultato?”

Bene, una volta che ci siamo presi cura di loro, allora possiamo

passare notti tranquille.

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- Deve verificare i risultati e dare feedback (positivi e di

miglioramento)

- Deve dare evidenza dei successi della squadra

E ora la domanda fatidica:

“ti consideri un bravo imprenditore?”

Ci sono aree in cui ti senti carente e hai bisogno di migliorare?

Se le hai identificate, sei già

a metà del percorso.

Se impariamo a conoscerci

e a valutarci

oggettivamente, riusciremo

a mettere in atto delle

azioni che porteranno a dei

risultati che saranno

positivi, sia per la crescita personale che per la crescita della nostra

azienda.

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Dal sito dello Studio Paserio -8 giugno 2015

Le aziende spesso, troppo spesso, si soffermano sulle

competenze tecniche senza pensare che dietro ad ogni persona

c’è un mondo nascosto.

Ogni persona è unica ma, dietro alla sua unicità, ci sono delle

caratteristiche che identificano quell’individuo per il suo carattere, il

suo modo di rapportarsi con gli altri, per i suoi valori e i suoi princìpi.

Ogni persona ha i suoi punti di forza e i suoi punti di debolezza.

Ogni persona ha un suo vissuto che lo ha portato ad avere le sue

paure e i suoi limiti.

Ma quali sono? E lui ne è cosciente? Vuole abbattere quelli che sono

i suoi limiti mentali o gli va bene così?

Insomma, chi abbiamo veramente davanti?

Se non ci sforziamo di capire qualcosa di più della persona che è

seduta davanti a noi, se non capiamo se è una persona che si abbatte

davanti alla prima difficoltà o se è una persona tenace che vuole

raggiungere gli obiettivi, se non capiamo se è una persona precisa e

metodica o se è una persona orientata al problem solving, se non

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capiamo se è una persona che riesce a lavorare in un team o a gestire

un gruppo di lavoro, come facciamo a sceglierla solo sulla base delle

sue esperienze precedenti?

Alcuni dicono che la cosa migliore sarebbe quella di non guardare

neppure il CV e forse hanno ragione.

Quindi cosa bisognerebbe fare?

Prima di tutto bisogna aver chiaro il ruolo che andrà a ricoprire questa

persona all’interno dell’azienda:

– Chi sarà il suo superiore?

– Con chi si dovrà interfacciare?

– Quali sono le caratteristiche che deve avere questa persona? ecc.

Una volta che abbiamo chiaro quello di cui abbiamo bisogno, allora

possiamo partire con la selezione.

Guardiamo con attenzione il nostro interlocutore: come si muove,

se sorride, se è a suo agio, se risponde in modo preciso alle varie

domande, se è chiaro e sintetico o se ama parlare dilungandosi

sull’argomento.

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Facciamo domande aperte che possano permettere al nostro

candidato di esprimersi e di “raccontarsi” al meglio.

Chiediamogli magari se ha delle passioni, come trascorre i week end,

come organizza un viaggio, il suo sogno nel cassetto, insomma

andiamo oltre alle domande tecniche perché se “ascoltiamo

attentamente” e guardiamo la persona che è seduta davanti a noi ed

entriamo in sintonia con lei, possiamo capire veramente “chi”

abbiamo davanti.

E questo, signori, è molto ma molto più

importante di tutte le competenze

tecniche del mondo; soprattutto se si

parla di alcuni ruoli all’interno

dell’azienda.

Quindi mi raccomando, usiamo tutti i

nostri sensi per inserire la persona

giusta al posto giusto!!

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Dal sito dello Studio Paserio -3 dicembre 2015

Sono mamma di due ragazzi di 20 e 23 anni e mi trovo a guardare

il mondo dei giovani con gli occhi sia del professionista che del

genitore.

Mi capita spesso di sentirmi dire che i giovani di oggi sono poco

responsabili e che sono cresciuti nella bambagia.

In alcune circostanze è vero. È importante però non generalizzare.

Penso che i giovani si trovino semplicemente in un mondo che non era

il nostro.

Non è meglio o peggio, è solo diverso.

Non è vero che i ragazzi non incontrano delle difficoltà nel loro

cammino.

Incontrano semplicemente delle difficoltà diverse da quelle che

abbiamo avuto noi.

Amo parlare con i miei figli e, con i loro occhi, guardo il mondo.

È vero, vivono nel benessere e non gli manca nulla dal punto di vista

materiale, ma sono messi sempre alla prova perché la competizione

è diventata spietata.

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Sono state aperte le frontiere e ogni ragazzo è ormai cittadino del

mondo.

Ognuno di loro, deve dimostrare giorno per giorno che ha un

valore unico e irripetibile perché la concorrenza è lì, dietro alla

porta, pronta a prendere il sopravvento.

Studiano, si diplomano, si laureano per poi passare al dottorato o ai

master specialistici.

Conoscono almeno 4 lingue e si spostano nei vari stati lasciando nel

proprio paese la cultura, le tradizioni, i parenti e gli amici.

Comunicano tra di loro tramite skype e hanno difficoltà a creare dei

rapporti duraturi per la mancanza di radici stabili.

È vero, non sono tutti così. Ma ragazzi che si danno da fare e

affrontano la vita in questo modo ce ne sono.

Come lo è stato per noi, anche loro affrontano quotidianamente

le loro difficoltà:

– la paura di non farcela e di non essere all’altezza;

– la paura della solitudine e la mancanza di una carezza o di un

abbraccio;

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– le giornate in aeroporto e la scarsità del cibo italiano.

Sono difficoltà maggiori o minori rispetto

quelle che abbiamo avuto noi? Non lo so,

sono solo diverse.

Focalizziamo invece l’attenzione su

quello che sono oggi i nostri ragazzi e

sulle loro potenzialità.

Hanno conoscenze sicuramente maggiori

di quelle che avevamo noi e, con gli strumenti che hanno a disposizione

oggi, possono essere i promotori di un futuro migliore.

Crediamo in loro e cerchiamo di comprenderli ed ascoltarli,

perché il nostro compito è quello, da buoni saggi, di consigliarli

e supportarli nel loro cammino.

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Dal sito dello Studio Paserio -14 marzo 2016

Quando parliamo, ci aspettiamo che tutto quello che diciamo

venga capito e assimilato dal nostro interlocutore.

Non è così?

Sarà capitato anche a voi di dire più volte ad una persona le stesse

cose, senza ottenere il risultato sperato.

Stupiti e amareggiati, avrete pensato di non saper comunicare.

La verità è che quello che per noi è chiaro come l’acqua, per il nostro

interlocutore non lo è.

Dobbiamo sforzarci quindi di usare strumenti e metodi di

comunicazione diversi.

Se continueremo ad usare le stesse parole, dicendole nello stesso

modo, probabilmente otterremo sempre lo stesso risultato.

Cosa possiamo fare, quindi, per rendere chiaro e

comprensibile quello che diciamo?

Usiamo un linguaggio semplice, cerchiamo di schematizzare e

utilizziamo carta e penna, per mettere nero su bianco le keywords e i

concetti principali.

Tante volte, mentre parliamo con le persone davanti a noi, riusciremo

a far capire meglio il concetto che ci frulla in testa, se useremo

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qualche freccia, un paio di simboli o uno schema dozzinale ma

efficace.

Basta poco, ma la persona davanti a noi, soprattutto se visiva,

memorizzerà quell’immagine e comprenderà meglio il nostro

discorso.

A me è successo proprio questo.

Stavo spiegando ad un cliente dei passaggi per l’applicazione di una

norma appena emanata.

Sono partita in quarta e mi sono addentrata a spiegare, per filo e per

segno, tutti i passaggi della nuova normativa ma, dopo qualche

minuto, mi sono trovata davanti due occhi spalancati che mi

guardavano con un punto interrogativo stampato in fronte.

Non ero stata chiara? Non lo so, ma sicuramente il messaggio non

era arrivato. Di questo ne ero certa.

É bastato alzarmi, prendere carta e penna per fare il miracolo.

Bene, mi sono detta, ricominciamo da capo e vediamo di

schematizzare i concetti essenziali.

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Qualche parola scritta qua e là sul foglio, qualche freccia, due cerchi

e…voilà, davanti ai miei occhi ho ritrovato un viso un po’ più disteso

e un sorriso che accompagnava queste parole: “adesso mi è chiaro!

Mi può lasciare i suoi appunti? Così, quando

torno in azienda, parlo con la dipendente e

le spiego il tutto”.

Mi vergognai a consegnargli quel foglio.

Simboli e parole sembravano essere buttati

lì, quasi per caso.

Ma ogni parola e ogni simbolo riportato su

quel foglio, era stato accompagnato

da parole che gli avevano dato vita.

È questa la cosa bella. Non erano scarabocchi leggibili da chiunque,

era un’immagine che serviva a lui.

Era uno strumento semplice ed efficace che aveva fatto la differenza.

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Dal sito dello Studio Paserio -29 febbraio 2016

Quando stiamo facendo selezione e ci troviamo davanti a un

candidato da inserire nell’organico aziendale, uno degli elementi che

andiamo ad analizzare è la flessibilità, ossia la capacità di

adattamento ad un eventuale mutamento della realtà aziendale.

Rispetto al passato, le aziende hanno necessità di avere delle risorse

umane che risultino flessibili.

Un tempo, giusto per citare il recente film di Checco Zalone, si

pensava al “posto fisso”, al posto di lavoro (magari sotto casa) che

veniva svolto in modo continuativo e ripetitivo magari per un’intera

generazione.

Oggi non è più così.

Le aziende hanno la necessità di avere persone che percepiscono

il cambiamento come un’opportunità e non come un’imposizione

o l’ennesimo problema posto dal datore di lavoro.

Nel momento in cui il mercato cambia e chiede alle aziende di

reinventarsi o rivedere le proprie organizzazioni perché i prodotti o i

servizi offerti non risultano più competitivi, l’azienda deve poter

mettere in atto delle strategie nuove e in tempi brevi.

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Questo è uno sforzo che viene richiesto alle aziende, ma ogni sforzo,

che risulta di per sé impegnativo, si trasforma in un macigno se dietro

alle quinte l’imprenditore ha un organico aziendale formato da

risorse umane “poco flessibili” e “ostiche al cambiamento”.

I tempi, poi, incidono come non mai. Se ogni volta che l’impresa

cambia gli strumenti, la distribuzione dell’orario di lavoro, le modalità

di svolgimento delle attività, le procedure operative, i compiti e le

responsabilità all’interno della struttura, si deve interfacciare con dei

lavoratori che ostacolano l’imprenditore remando in una direzione

diversa rispetto la rotta tracciata, si rischia di allungare i tempi e,

talvolta, di affondare.

E’ per questo che oggi, avere dei collaboratori flessibili è vitale per

le aziende.

Direi quasi che non è neanche una scelta, ma un passo obbligato

per riuscire a “stare a galla” e continuare a navigare verso la rotta

tracciata con lungimiranza.

E se invece non stiamo procedendo con nuove assunzioni, ma

abbiamo in forza dei lavoratori storici, cosa dobbiamo fare?

Come possiamo fare per trasformarli in “collaboratori flessibili”?

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Dobbiamo comunicare apertamente.

Dobbiamo coinvolgerli per spiegare:

- quali sono le nuove esigenze che il mercato ci richiede;

- qual è la rotta che stiamo seguendo;

- dove vogliamo arrivare e perché;

- quali sono i cambiamenti che saranno previsti;

- quali sono i tempi, le modalità di attuazione (azioni);

- quali saranno gli strumenti e gli aiuti tecnici, produttivi,

organizzativi, formativi ed economici messi a disposizione

dall’azienda;

- quale atteggiamento e comportamento ci si aspetta da loro.

La resistenza al cambiamento ci sarà. Il nostro compito, in qualità di

professionisti e imprenditori, sarà quello di accompagnare le persone

a cambiare. Passo dopo passo. Sarà nostro compito tranquillizzarle,

sostenerle e motivarle.

Se il terreno è fertile, si potranno seminare nuovi semi che daranno

dei buoni frutti.

Se il terreno non è fertile, saremo costretti a cambiarlo.

A quel punto non avrebbe senso continuare a seminare, innaffiare e

aspettare che crescano dei buoni frutti, perché l’unica cosa che

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nascerà saranno delle erbacce che contamineranno il terreno

circostante.

Spiace? Sicuramente sì, ma ricordiamoci che noi abbiamo delle

responsabilità.

Noi siamo gli imprenditori che

devono continuare la navigazione

verso la rotta prefissata per

portare in salvo la nave!

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Dal sito dello Studio Paserio -27 luglio 2015

Ho iniziato a lavorare nel 1985 e, per almeno un ventennio, mi ricordo

che “chi aveva voglia di lavorare, un lavoro lo trovava e poteva

guadagnare senza doversi ingegnare più di tanto”.

Quei margini di guadagno, un po’ con la concorrenza e un po’ con

la crisi economica, si sono risicati sempre più.

E quindi?

È diventato tutto più difficile, complicato o addirittura

impossibile?

Dipende da come si vedono le cose.

Alcuni dicono che è così, altri lo vedono come uno stimolo,

un’opportunità per mettersi alla prova e dimostrare quello che

valgono.

C’è chi cerca nuovi lavori e imbocca strade inesplorate che possono

dar vita a un diverso modo di lavorare e crescere professionalmente.

Perché c’è questa spaccatura tra due modi diversi di vedere le cose e

perché la maggior parte delle persone in questo periodo, vive tutto

come “difficile, complicato se non addirittura impossibile”?

Penso che tutto nasca dal fatto che il cambiamento ci abbia travolto

come un’onda.

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È arrivata veloce, violenta e repentina e noi, non eravamo pronti.

Rispetto altri popoli, che culturalmente sono più abituati agli

spostamenti e ai mutamenti lavorativi, noi italiani abbiamo

evidenziato in questi anni una forte resistenza al cambiamento.

Questo è stato il nostro errore ed è per questo che dobbiamo

cercare di lavorare sulla nostra apertura mentale.

Dobbiamo incominciare a pensare che il mercato cambia in

continuazione.

Il nostro compito, come imprenditori, è quello di offrire dei prodotti

e dei servizi che il mercato ci richiede e evitando di rimanere radicati

su quello che siamo abituati a produrre; spesso continuiamo ad

immettere sul mercato dei manufatti o dei servizi che ormai nessuno

compra, passando il tempo a lamentarci che le vendite calano.

Ci vorrebbe qualcuno che andasse in alcune aziende e dicesse

apertamente a questi imprenditori: “il tuo prodotto non lo compra

nessuno perché è vecchio!!”

Purtroppo (e dico purtroppo) questo non avviene e l’imprenditore si

ritrova nel circolo vizioso nella negatività che blocca il pensiero

positivo, la strategia e le azioni innovative.

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Come è possibile avere risultati diversi senza cambiare nulla?

Basterebbe farsi questa domanda e ricordarsi una semplice legge di

mercato:

– Se “vendi” e “guadagni”, vuol dire che la tua strategia e il tuo

prodotto funzionano;

– Se “non vendi” o “non guadagni”, devi incominciare a farti delle

domande. Se devi dare un “colpo di spugna” al prodotto che per

generazioni è stato sul mercato, non aspettare. Fallo e basta.

Essere un bravo imprenditore, vuol dire mettersi in gioco,

modificare la propria strategia, apportare delle azioni correttive senza

dimenticarsi l’obiettivo iniziale.

Bisogna avere il coraggio di reinventarsi.

Impariamo ad osservare, analizziamo il mercato, capiamo i bisogni

delle persone, pensiamo a linee nuove di prodotti, cambiamo

qualcosa, coinvolgiamo persone giovani e fantasiose che possono

dare energia positiva alle nostre strutture.

Pensiamo in un modo nuovo e iniziamo ad agire.

Se l’energia e la passione accompagneranno il nostro percorso, il

successo non tarderà ad arrivare.

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Come diss John Kotter, tra i massimi esperti di change management

“Nothing happens without a readiness to change”

“Nulla accade senza che si sia pronti ad un cambiamento”

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Dal sito dello Studio Paserio -3 ottobre 2015

Cosa vuol dire “ascolto attivo”?

Se andiamo su Wikipedia c’è scritto che l’ascolto attivo è una tecnica

di comunicazione.

Io oserei dire che è un’arte.

Spesso ci dimentichiamo dell’importanza di ascoltare con

attenzione il nostro interlocutore e perdiamo “un’opportunità”.

Nel mondo del lavoro, il collaboratore è la nostra “pietra

preziosa”, quella che all’interno della nostra azienda rappresenta il

nostro “marchio” e i nostri “valori”. È quella che ci permette di portare

avanti i progetti aziendali, parlando con clienti e fornitori ed offrendo

un servizio di qualità.

Ma chissà come mai, ogni tanto ce ne dimentichiamo e quando il

nostro collaboratore bussa alla porta sedendosi davanti alla nostra

scrivania per parlare con noi, già ci viene male e pensiamo alle

migliaia di cose che dobbiamo fare.

Poi, il senso di responsabilità per il ruolo che ricopriamo prende il

sopravvento e quindi, cosa facciamo?

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Con un sospiro diciamo al malcapitato “vieni, dimmi” e mentre lui

parla, noi pensiamo al cliente, alla telefonata che dobbiamo fare e

vediamo l’orologio che continua imperterrito nell’avanzata dei

minuti.

Conclusione, a noi arrivano solo “parole” che a malapena

prendono forma nella nostra testa, formulando il significato di

quello che stiamo “udendo”.

Non prestiamo attenzione:

- allo sguardo basso della persona;

- alla voce tremolante con la quale ci parla;

- alle braccia conserte;

- alla postura della schiena ricurva.

Il nostro collaboratore era lì per evidenziare un problema… ma non

ce l’ha fatta!

Con la stessa andatura, dopo aver comunicato un paio di informazioni

lavorative, il malcapitato si congeda ed esce dal nostro ufficio.

Cosa abbiamo fatto? Abbiamo perso un’opportunità.

L’opportunità di ascoltare un nostro collaboratore che era in

difficoltà. Aveva un problema lavorativo che poteva essere risolto, ma

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non abbiamo prestato attenzione a quello che realmente succedeva

in quella stanza.

La mancanza di comunicazione può portare le persone a non sentirsi

ascoltate, capite e accettate.

La demotivazione può aumentare fino al punto che l’ambiente di

lavoro diventa il nemico da combattere e così, alla prima lineetta di

febbre, ci si reca dal medico per chiedere i giorni di malattia.

E noi, come capi e datori di lavoro, a quel punto come

reagiamo? Diciamo che abbiamo dei collaboratori che non sono

responsabili e che non hanno voglia di lavorare.

Se vogliamo migliorare e interrompere questo circolo vizioso,

facciamo il primo passo e domandiamoci : “in cosa abbiamo

sbagliato?”

Se la risposta è “non abbiamo ascoltato attivamente i nostri

collaboratori” allora, buttiamoci il passato alle spalle e iniziamo subito

a cambiare il nostro atteggiamento.

Spegniamo tutti gli strumenti tecnologici che ci possono distrarre,

liberiamo la nostra mente e dedichiamo il tempo necessario per

ascoltare con attenzione la persona che è davanti a noi.

Facciamogli sentire che siamo lì, anche con la testa e non solo con le

orecchie; guardiamolo negli occhi e osserviamo il linguaggio non

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verbale e para-verbale. Facciamogli domande, riformuliamo quello

che dice per vedere se abbiamo capito bene e poi cerchiamo di

assumere il nostro ruolo principale che è quello di datore di lavoro.

Si, perché fare il capo,

vuol dire essere alla

guida dell’azienda affiancando i collaboratori nei momenti di

difficoltà, motivandoli e facendoli crescere.

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Sandra Paserio

Consulente del Lavoro – HR Problem Solver – Business Coach

Titolare dello Studio Paserio, nato nel 1990 come Studio specializzato

nella Consulenza del Lavoro e nella Gestione delle Risorse Umane.

L’esperienza di oltre 25 anni nel settore e l’affiancamento di

professionisti e collaboratori motivati, ha permesso una crescita

personale e professionale nell’ambito dell’organizzazione aziendale

ed HR.

Oggi Sandra è un Coach Professionista ed è specializzata nel

Problem Solving Strategico nell’ambito della gestione delle Risorse

Umane.

Sandra Paserio

NON E’:

una Consulente del Lavoro tradizionale

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