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4 Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini

Spettacolo e sovranità delle merci

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Presentazione del prof. Alberto Burgio presso l'Archivio Storico di Unicoop Tirreno

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Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini

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Lo spettacolo […] è una Weltanschauung divenuta effettiva, tradotta materialmente. È una visione del mondo che si è oggettivata.

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Lo spettacolo […] non è un supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta. È il cuore dell’irrealismo della società reale.

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Non si può opporre astrattamente lo spettacolo all’attività sociale effettiva; questo sdoppiamento è esso stesso sdoppiato. Lo spettacolo che inverte il reale è effettivamente prodotto. Nello stesso tempo la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello spettacolo, e riproduce in se stessa l’ordine spettacolare portandogli un’adesione positiva. La realtà oggettiva è presente da entrambi i lati. Ogni nozione così fissata non ha per fondo che il suo passaggio nell’opposto: la realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale. Questa alienazione reciproca è l’essenza e il sostegno della società esistente.

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IV

L’influenza spettacolare non aveva mai contrassegnato fino a questo punto la quasi totalità dei comportamenti e degli oggetti prodotti socialmente. Perché in definitiva il senso dello spettacolare integrato è che si è integrato nella realtà stessa man mano che ne parlava; e che la ricostruiva come ne parlava. Così adesso questa realtà non gli sta più di fronte come qualcosa di estraneo. […] Lo spettacolo si è mischiato a ogni realtà, irradiandola. […] il divenir-mondo della falsificazione era anche un divenir-falsificazione del mondo.

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Panegirico, VII

Altri più sapienti di me avevano assai ben spiegato l’origine di quanto è accaduto: «Il valore di scambio ha potuto formarsi solo come agente del valore d’uso, ma la sua vittoria con armi proprie ha creato le condizioni del suo dominio autonomo. Mobilitando ogni uso umano e conquistando il monopolio del suo soddisfacimento, ha finito per dirigere l’uso. Il processo dello scambio si è identificato con ogni uso possibile, e l’ha ridotto alla sua mercé. Il valore di scambio è il condottiero del valore d’uso, che finisce per condurre la guerra per proprio conto».

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In questo movimento essenziale dello spettacolo, che consiste nel riprendere in sé tutto ciò che nell’attività umana esisteva allo stato fluido, per possederlo allo stato coagulato, in quanto cose […], noi riconosciamo la nostra vecchia nemica, che sa così bene apparire a prima vista come una cosa triviale, ovvia, mentre è al contrario così complessa e così piena di sottigliezze metafisiche, la merce.

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È il principio del feticismo della merce, il dominio della società mediante «delle cose sensibilmente sovrasensibili», che si compie in grado assoluto nello spettacolo, dove il mondo sensibile è stato sostituito da una selezione di immagini che esiste al di sopra di esso, e che nello stesso tempo si è fatta riconoscere come il sensibile per eccellenza.

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Marx, il CapitaleI. I .4 («Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano»)

A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. […]Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume la forma di merce ? Evidentemente, proprio da tale forma. L’eguaglianza dei lavori umani riceve la forma reale dell’eguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro umana mediante la sua durata temporale riceve la forma della grandezza di valore dei prodotti del lavoro, infine i rapporti fra i produttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma d’un rapporto sociale tra i prodotti del lavoro. L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose […].

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Marx, Il Capitale. Libro I, capitolo VI inedito

Il capitale non è una cosa più di quanto non lo sia il denaro. Nell’uno come nell’altro, determinati rapporti sociali di produzione fra persone appaiono come rapporti fra cose e persone, ovvero determinati rapporti sociali appaiono come proprietà sociali naturali di cose.[…]Sulla base della produzione capitalistica, questa proprietà del lavoro oggettivato di trasformarsi in capitale, cioè di trasformare i mezzi di produzione in mezzi di comando sul lavoro vivo e di suo sfruttamento, appare come inerente in sé e per sé ad essi (così come, su questa base, vi è legata in potenza, δυναμει), da essi inseparabile, e quindi come proprietà che ad essi compete in quanto cose, in quanto valori d’uso, in quanto mezzi di produzione.[…]Ma il rapporto diviene più complicato e apparentemente più misterioso allorché, con lo sviluppo del modo di produzione specificamente capitalistico, le merci [… ] si rappresentano come forme di sviluppo del capitale, e perciò le forze produttive del lavoro sociale, così sviluppate, gli si rappresentano come forze produttive del capitale. […] Esse sono, di fronte al lavoro, «capitalizzate».[…] Tutto ciò si contrappone agli operai singoli, in modo autonomo, come qualcosa di straniero, di oggettivo, di preesistente, senza e spesso contro il loro contributo attivo, come pure forme di esistenza dei mezzi di lavoro da essi indipendenti e su di essi esercitanti il proprio dominio

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Il lavoratore non produce se stesso, ma produce una potenza indipendente. Il successo di questa produzione, la sua abbondanza, ritorna al produttore come abbondanza dell’espropriazione. Tutto il tempo e lo spazio del suo mondo gli divengono estranei con l’accumulazione dei suoi prodotti alienati. Lo spettacolo è la mappa di questo nuovo mondo, mappa che copre l’esatta estensione del suo territorio. Le forze stesse che ci sono sfuggite si mostrano a noi in tutta la loro potenza.

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[…] La produzione di merci, che implica lo scambio di prodotti diversi fra produttori indipendenti, ha potuto rimanere a lungo artigianale, contenuta in una funzione economica marginale in cui la sua verità quantitativa è ancora mascherata. Tuttavia, là dove ha incontrato le condizioni sociali del grande commercio e dell’accumulazione di capitali, essa ha conquistato il dominio totale dell’economia. L’economia tutt’intera è allora divenuta ciò che la merce aveva mostrato di essere nel corso di questa conquista: un processo di sviluppo quantitativo. Questo dispiegamento incessante della potenza economica nella forma della merce, che ha trasfigurato il lavoro umano in lavoro-merce, in salariato, mette capo cumulativamente a un’abbondanza nella quale la questione prima della sopravvivenza è senza dubbio risolta, ma in maniera tale che deve sempre riproporsi; ogni volta essa è di nuovo posta ad un livello superiore. […] L’indipendenza della merce si è estesa all’insieme dell’economia sulla quale essa regna. L’economia trasforma il mondo, ma lo trasforma soltanto in mondo dell’economia. […] L’abbondanza delle merci, vale a dire del rapporto mercantile, non può più essere che la sopravvivenza aumentata.

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[…] Là dove si è insediato il consumo abbondante, un’opposizione spettacolare principale fra la gioventù e gli adulti appare in primo piano fra i ruoli fallaci: perché da nessuna parte esiste l’adulto, padrone della propria vita, e la gioventù – il cambiamento di ciò che esiste – non è per nulla la prerogativa degli uomini che oggi sono giovani, ma quella del sistema economico, il dinamismo del capitalismo. Sono delle cose che regnano e che sono giovani; che si scacciano, e rimpiazzano se stesse.

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Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine.

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[…] La radice dello spettacolo è nel terreno dell’economia divenuta abbondante […]

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Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale. Non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede più che quello: il mondo che si vede è il suo mondo. […] È tutto il lavoro venduto di una società che diviene globalmente la merce totale il cui ciclo deve proseguire senza posa. Per far ciò, bisogna che questa merce totale ritorni frammentariamente all’individuo frammentato, assolutamente separato dalle forze produttive operanti come un insieme. […]

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[Nella] società dello spettacolo […] la merce contempla se stessa in un mondo da essa creato.

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La soddisfazione che nell’uso la merce abbondante non riesce più a dare continua ad essere cercata nel riconoscimento del suo valore in quanto merce: è l’uso della merce che basta a se stesso; e per il consumatore è l’effusione religiosa verso la libertà sovrana della merce. Delle ondate di entusiasmo per un dato prodotto, sostenuto e rilanciato da tutti i mezzi di informazione, si propagano così a grande velocità. […] [In ciò] si può riconoscere la manifestazione di un abbandono mistico alla trascendenza della merce. […] L’uomo reificato ostenta la prova della sua intimità con la merce. […] Il solo uso che qui si esprime ancora è l’uso fondamentale della sottomissione.

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Senza dubbio, allo pseudo-bisogno imposto nel consumo moderno non può essere opposto alcun bisogno o desiderio autentico che non sia stato anch’esso formato dalla società e dalla sua storia. Ma la merce abbondante sta a dire la rottura assoluta di uno sviluppo organico dei bisogni sociali. La sua accumulazione meccanica libera un artificiale illimitato, di fronte al quale il desiderio vivente resta disarmato. La potenza cumulativa di un artificiale indipendente determina ovunque la falsificazione della vita sociale.

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Lo spettacolo si sottomette gli uomini viventi nella misura in cui l’economia li ha totalmente sottomessi. Esso non è che l’economia sviluppantesi per se stessa. È il riflesso fedele della produzione delle cose, e l’oggettivazione infedele dei produttori.

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Lo spettacolo si presenta come un’enorme positività indiscutibile e inaccessibile. Esso non dice niente di più di questo, che «ciò che appare è buono, ciò che è buono appare». L’attitudine che esso esige per principio è questa accettazione passiva, che ha di fatto già ottenuto con il suo modo di apparire senza repliche, con il suo monopolio dell’apparenza.

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Ciò che è sempre nuovo nel processo di produzione delle cose non si ritrova nel consumo, che resta il ritorno allargato di ciò che è sempre lo stesso. Poiché il lavoro morto continua a dominare il lavoro vivo, nel tempo spettacolare il passato domina il presente.

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La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva determinato nella definizione di ogni realizzazione umana un’evidente degradazione dell’essere in avere. La fase presente dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell’economia conduce a uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni «avere» effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima. Nello stesso tempo, ogni realtà individuale è divenuta sociale, direttamente dipendente dalla potenza sociale, modellata da questa. Se le è permesso di apparire, è soltanto in ciò che essa non è.

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Lo spettacolo è una guerra dell’oppio permanente per far accettare l’identificazione dei beni alle merci; e dell’appagamento alla sopravvivenza in aumento secondo le proprie leggi. Ma se la sopravvivenza consumabile è qualcosa che deve sempre aumentare, è perché non cessa di contenere la privazione. Se non vi è nessun aldilà della sopravvivenza aumentata, nessun punto in cui potrebbe arrestare la sua crescita, è perché essa stessa non è al di là della privazione, ma è la privazione divenuta più ricca.