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1 INDICE Ringraziamenti ………………………………………………………………………........Pag.3 Introduzione …………………………………………………………………………........Pag.4 Cap.1 Analisi e prospettive della legislazione antimafia ………………………………....Pag.6 Par.1.1 Le mafie nel XXI secolo …………………………………………………….……Pag.6 Par.1.2 Lo “stato dell‟arte” della normazione italiana ……………………………………Pag.9 Par.1.2.1 La figura del collaboratore di giustizia ………………………………………..Pag.10 Par.1.2.2 Prospettive circa la normativa sulle intercettazioni …………………………...Pag.13 Par.1.3 Prospettive della normazione antimafia ………………………………………....Pag.18 Cap. 2 La genesi e la struttura del sistema legislativo processuale antimafia …………..Pag.23 Par.2.1 Profili storici …………………………………………………………………….Pag.23 Par.2.1.1 La confisca ……………………………………………………………...…......Pag.24 Par.2.1.2 Direzione investigativa antimafia e Direzione nazionale antimafia …………..Pag.26 Par.2.1.3 I collaboratori di giustizia ……………………………………………………..Pag.28 Par.2.2 Legislazione processual-penalistica di contrasto alle mafie e “diritto penale del nemico”: il sistema a “doppio binario” ……………………………………………….…Pag.30

INDICE · 2012-11-07 · 1 INDICE Ringraziamenti ... Pag.4 Cap.1 Analisi e prospettive della legislazione antimafia ……………………………… ... 1.2 Lo “stato dell’arte”

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1

INDICE

Ringraziamenti ………………………………………………………………………........Pag.3

Introduzione …………………………………………………………………………........Pag.4

Cap.1 Analisi e prospettive della legislazione antimafia ………………………………....Pag.6

Par.1.1 Le mafie nel XXI secolo …………………………………………………….……Pag.6

Par.1.2 Lo “stato dell‟arte” della normazione italiana ……………………………………Pag.9

Par.1.2.1 La figura del collaboratore di giustizia ………………………………………..Pag.10

Par.1.2.2 Prospettive circa la normativa sulle intercettazioni …………………………...Pag.13

Par.1.3 Prospettive della normazione antimafia ………………………………………....Pag.18

Cap. 2 La genesi e la struttura del sistema legislativo processuale antimafia …………..Pag.23

Par.2.1 Profili storici …………………………………………………………………….Pag.23

Par.2.1.1 La confisca ……………………………………………………………...…......Pag.24

Par.2.1.2 Direzione investigativa antimafia e Direzione nazionale antimafia …………..Pag.26

Par.2.1.3 I collaboratori di giustizia ……………………………………………………..Pag.28

Par.2.2 Legislazione processual-penalistica di contrasto alle mafie e “diritto penale del

nemico”: il sistema a “doppio binario” ……………………………………………….…Pag.30

2

Cap. 3 Svolgimento di un processo in materia di criminalità organizzata ……………...Pag.33

Par.3.1 Le indagini preliminari ………………………………………………………….Pag.34

Par.3.1.1. Dall‟iscrizione della notizia di reato all‟avvio delle indagini ………………...Pag.35

Par.3.2 Le misure cautelari ……………………………………………………………...Pag.43

Par.3.3 L‟udienza preliminare ed i procedimenti speciali ………………………………Pag.50

Par.3.4 Le prove e la loro acquisizione ………………………………………………….Pag.53

Par.3.4.1 Il diritto alla prova …………………………………………………………….Pag.54

Par.3.4.2 Il contraddittorio per la prova …………………………………………………Pag.58

Par.3.4.3 La testimonianza nei processi di mafia ………………………………………..Pag.61

Par.3.5 Il giudizio ………………………………………………………………………..Pag.74

Par.3.5.1 Il predibattimento ………………………………………………………….......Pag.79

Par.3.5.2 Il dibattimento …………………………………………………………………Pag.84

Par.3.5.3 Gli atti successivi al dibattimento ………………………………………........Pag.100

Bibliografia ……………………………………………………………………….……Pag.107

3

RINGRAZIAMENTI

A conclusione del mio corso di studi in Giurisprudenza ritengo doveroso esprimere la mia

gratitudine a tutti coloro che mi hanno accompagnato e sostenuto lungo questo percorso.

Grazie alla mia famiglia, che non mi ha mai negato il suo supporto morale e materiale in tutti

questi anni.

Grazie a Sara, che ha subito e condiviso con me la tensione ed il peso degli esami più difficili

e dei momenti di sconforto.

Grazie agli amici per le ore di studio assieme e per la capacità di sdrammatizzare, sempre.

Grazie a Mary e Vale, senza il loro ottimismo ed i loro appunti il mio percorso universitario

sarebbe stato certamente più complesso.

Grazie alla professionalità ed alla disponibilità della Prof.ssa Galantini e del Prof. Pellacani,

rispettivamente Relatrice e Correlatore della presente tesi.

Grazie a tutti gli altri che non ho menzionato ma che, ognuno a modo proprio, hanno

partecipato a questa lunga ed importante avventura.

4

INTRODUZIONE

La presente tesi si pone l‟obiettivo di effettuare un‟analisi critica su quello che è oggi, nel

nostro ordinamento, il processo penale nell‟ambito dei reati di criminalità organizzata e, nello

specifico, di stampo mafioso.

Una tematica che si è ritenuto di non poter affrontare esclusivamente su un piano tecnico-

giuridico, ma che necessariamente deve essere letta anche attraverso le lenti della sociologia

del diritto e della storia.

Il capitolo iniziale sarà dedicato alle prospettive ed agli sviluppi futuri della legislazione in

esame. Per questo ho ritenuto necessario approfondire in questa sede le disposizioni che, in

materia, sono state varate dal Governo in carica. Le valutazioni della dottrina sul punto

permetteranno, e saranno la solida base, per proporre una tesi circa i provvedimenti che

potrebbe essere utile emanare in questo settore.

Il secondo capitolo prenderà le mosse da un profilo storiografico, per permettere di inquadrare

il contesto entro il quale le diverse norme in materia sono state approvate e, successivamente,

applicate.

5

Gli strumenti utilizzati saranno, in primis, gli stessi testi legislativi; “coadiuvati” da articoli e

saggi storici.

La seconda parte del capitolo avrà lo scopo di studiare le caratteristiche della legislazione

sopra individuata. Attraverso la lettura di diversi articoli, generalmente afferenti al campo

delle scienze giuridiche (tanto di sociologia del diritto quanto, prevalentemente, di procedura

penale), si approfondiranno i concetti di “Diritto Penale del Nemico” e di “sistema a doppio

binario”.

In conclusione si dimostrerà quanto queste due nozioni siano applicabili al nostro sistema

processuale antimafia, sottolineandone i profili di criticità (ancora attraverso articoli di

dottrina processual- penalistica).

Il terzo capitolo avrà come obiettivo quello di analizzare le diverse fasi di un processo per

reati di criminalità organizzata, e nello specifico di tipo mafioso.

In particolare l‟attenzione ricadrà sulle peculiarità che contraddistinguono, attualmente, tale

procedimento; con specifico riguardo alle indagini preliminari, all‟applicazione delle misure

cautelari, all‟udienza preliminare, al dibattimento, alla formazione della prova ed al giudizio

finale. Tutta la discussione è sostenuta, e non potrebbe essere diversamente, da numerose

fonti: articoli ed approfondimenti di giuristi, manuali di procedura penale, sentenze.

6

CAP. 1: ANALISI E PROSPETTIVE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA

1.1 Le mafie nel XXI secolo

"Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali

gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il

clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso nord, di cinquecento metri,

mi pare, ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del

caffè concentrato… E sale come l'ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma,

del caffè forte, degli scandali: su su per l'Italia, ed è già oltre Roma…".1

La citazione di Leonardo Sciascia è assai significativa e niente affatto casuale. La “linea della

palma” che, lentamente ma inesorabilmente, sale lungo lo stivale è la metafora più riuscita per

rappresentare l‟ampliamento dei territori sui quali le mafie esercitano il loro controllo ed i

loro affari. Basta dare qualche numero: le statistiche più recenti stimano, per difetto, che in

Italia l‟economia criminale fatturi 100 miliardi di euro all‟anno. La sola „ndrangheta, grazie

all‟asse con i narcotrafficanti sudamericani, ricava dalle sue attività illecite più di 51 miliardi

di euro l‟anno.2

1 Leonardo Sciascia, Opere – 1956.1971, a cura di Claude Ambroise, Classici Bompiani, 2004, pag. 479.

2 Roberto Galullo, Economia Criminale. Storia di capitali sporchi e società inquinate, Il sole 24 ore, Maggio

2010, Pag. 13.

7

Senza dimenticare che il mondo globalizzato e privo di opportune “difese immunitarie”3 del

XXI secolo ha influenzato enormemente le strutture organizzative ed “imprenditoriali” delle

mafie. Prendiamo ad esempio la tratta della cocaina. Questa, prodotta principalmente in

America latina, raggiunge il consumatore europeo e nord-americano grazie all‟attività ed agli

accordi economico-criminali tra narcotrafficanti messicani e colombiani, mafia africana e

mafia italiana.4 Discorso identico vale per l‟eroina. Almeno il 60 % del brown sugar che

circola in Europa proviene dall‟Afghanistan. Nel paese del sud-est asiatico difatti, anche alla

luce degli ingenti sequestri effettuati in Turchia ed ai confini europei, le materie prime

vengono non solo coltivate (si calcola che il 93 % dell‟oppio grezzo mondiale provenga dalle

piantagioni afgane) ma anche lavorate.5 Il prodotto finito, l‟eroina appunto, arriva sino al

vecchio continente (ma anche in Russia ed Iran) attraverso una solida rete di joint venture

aventi come protagonisti i Buyuk baba turchi (letteralmente “nonno”, termine indicante i

dirigenti supremi della criminalità organizzata turca), i Vory v zakone russi (letteralmente

“ladri in legge”, termine indicante i capimafia russi), le mafie dei paesi dell‟ex blocco

sovietico sino alle mafie nostrane.6

Tali considerazioni devono convincere che, oramai, bisogna sgombrare il campo da

concezioni superate e stereotipate inerenti alle mafie. Queste difatti, pur conservando taluni

3 Jean Ziegler, I signori del crimine. Le nuove mafie europee contro la democrazia, Marco Tropea Editore, Anno

2000, Pag.23. 4 Moisés Naim, Il flusso inarrestabile dei traffici illeciti globalizzati. In Roberto Galullo, Economia Criminale.

Storia di capitali sporchi e società inquinate, Il sole 24 ore, Maggio 2010, Pag. 293. 5 Matteo Tacconi, Al gran bazar dell’eroina, Narcomafie, N. 7/8 2010, Pagg. 19-28.

6 Ibidem.

8

elementi arcaici (basti pensare ai riti di affiliazione, tramandati di generazione in generazione,

ed alla loro valenza non solamente simbolica7), sono da considerarsi a tutti gli effetti delle

vere e proprie aziende multinazionali.8 Ne deve sorprendere se le nuove leve mafiose, figli e

nipoti dei boss “storici”, siano professionisti laureati pronti a mettere al servizio del sodalizio

criminale le proprie competenze e la propria immagine “ripulita”.9

Inoltre è sempre più pressante l‟esigenza di una legislazione sovranazionale univoca e

coerente in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso nonché in riferimento ai

delitti ad essa connessi. Necessario sarà dunque arrivare ad una definizione riconosciuta a

livello globale, in primis dal punto di vista normativo, di ciò che s‟intende con “criminalità

mafiosa”. Urge, ancora, rafforzare le procedure di controllo in ambito bancario, finanziario ed

amministrativo. In generale l‟Europa, ma non solo, necessita di una presa di coscienza

collettiva sul fenomeno criminale mafioso.10

7 Morosini Piergiorgio, Associazione di stampo mafioso e “testimonianza” dell’imputato aliunde, Ass. Palermo

Sez. II, 20 marzo 2002, Dir. Pen. e Processo, 2003, 4, 479. 8 Roberto Galullo. Op. cit.

9 Cfr. Davide Carlucci, Giuseppe Caruso. A Milano comanda la ‘Ndrangheta. Ponte alle Grazie. Milano. 2009.

10 Jean Ziegler, I signori del crimine. Le nuove mafie europee contro la democrazia, Marco Tropea Editore,

Anno 2000, Pag.277-278.

9

1.2 Lo “stato dell’arte” della normazione italiana

Fatte le opportune premesse nel paragrafo precedente, si ritiene utile ora dedicarsi

specificatamente allo “stato dell‟arte” della legislazione processual-penalistica italiana volta al

contrasto della criminalità organizzata di stampo mafioso.

In materia il legislatore sembra essere affetto, usando un termine non propriamente giuridico,

da apparente “schizofrenia”.11

Le norme approvate a partire dagli anni ‟60, difatti, soffrono

sovente di un andamento ondivago e mostrano un comportamento istituzionale

contraddittorio.12

Influenzate da spinte politiche e da eventi tragici13

, queste leggi tracciano un

quadro di non facile valutazione. Per cercare di favorirne l‟analisi, a scopo esemplificativo, si

approfondiranno ora gli interventi normativi dell‟ultimo decennio in materia di collaboratori

di giustizia e di intercettazioni che hanno avuto (e che avranno) un forte impatto sul contrasto

alle mafie.

11

Vincenzo Macrì, Legislazione antimafia, i conti non tornano, Narcomafie, ottobre 2009, Pag. 11. 12

A cura di Gabriella Gribaudi, Traffici criminali. Camorra, mafie e reti internazionali dell’illegalità, Bollati Boringhieri, 2009, Pag. 27. 13

Sul punto si rinvia al Cap. 2.

10

1.2.1 La figura del collaboratore di giustizia

Il collaboratore di giustizia (c.d. “pentito”) è colui che, avendo partecipato ad attività

delittuose, oltre ad ammettere la propria responsabilità nella commissione dell‟illecito chiama

anche in correità gli altri soggetti agenti o, comunque, corresponsabili.14

Questa figura assume una rilevanza cruciale nell‟ambito delle indagini per delitti quali

terrorismo, banda armata, criminalità organizzata ed associazionismo mafioso. Le

dichiarazioni del collaboratore, difatti, permettono di fare chiarezza sulla struttura e

l‟organizzazione di sinodi criminali potenzialmente, e pericolosamente, imperscrutabili.15

Come ebbe a dire Giovanni Falcone a proposito delle dichiarazioni rese da Tommaso

Buscetta, a seguito della scelta di quest‟ultimo di collaborare con la giustizia, “prima di lui

non avevo-non avevamo- che un‟idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo

cominciato a guardarvi dentro. […] Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a

largo raggio del fenomeno”.16

Ed in effetti la scelta di collaborare con le autorità italiane

assunta da Buscetta segnò una svolta definitiva nella legislazione processual-penalistica

italiana. Queste portarono, da un lato, all‟accertamento in via definitiva dell‟esistenza

dell‟organizzazione mafiosa denominata “Cosa Nostra” con conseguenti lunghe pene

detentive per i boss siciliani. Dall‟altro il “fenomeno Buscetta” costrinse il legislatore a

discutere ed approvare la L. 15 marzo 1991, n. 82 di conversione del d.l. 15 gennaio 1991, n.

14

Giovanna Montanaro, voce Pentitismo e pentiti in Nuovo dizionario di mafia ed antimafia, AA. VV., EGA Editore, 2008, Pag. 403. 15

Vedi par. 3.4.3. 16

G. Falcone- M. Padovani, Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, Milano, 1993, Pag. 41.

11

8 e la L. 12 luglio 1991, n.203 di conversione del d.l. 13 maggio 1991, n.152. Queste norme,

fortemente volute da Giovanni Falcone (ed ampliate all‟indomani delle stragi mafiose del

1992 con il d.l. 8 giugno 1992, n.306 convertito in L. 7 agosto 1992, n.356)17

, prevedevano un

regime di favore per i collaboratori di giustizia. L‟intento era quello di incentivare la

collaborazione in riferimento ai “reati di mafia”, prevedendo protezione ed assistenza per il

collaborante ed assimilando la condotta collaborativa ad una “speciale attenuante” nella

determinazione della pena. In tal modo veniva chiaramente a differenziarsi il trattamento tra

collaboratore e “mafioso irriducibile”: quest‟ultimo si trova a scontare la propria pena in un

nuovo regime di carcere duro, apportato dall‟art.41 bis inserito nell‟Ordinamento

Penitenziario.

Il successo di questa normazione, figlia della reazione popolare e politica alle stragi di Capaci

e via D‟Amelio, fu straordinario. Nel corso degli anni Novanta si sviluppò una “sorta di

„catena investigativa‟ che aveva al centro i collaboratori di giustizia, i quali con le loro

rivelazioni davano l‟input a nuove indagini da cui- con reazione a catena- scaturivano nuovi

procedimenti, poi nuovi arresti di mafiosi che a loro volta decidevano di collaborare, dando

origine a ulteriori indagini e cosi via. Il fenomeno sembrò assumere le dimensioni di una

„diserzione di massa‟”.18

17

G. Montanaro, Op. Cit., Pag. 404. 18

G. Montanaro, Op. Cit., Pag. 410.

12

Proprio all‟apice di questo meccanismo virtuoso, qualcosa si ruppe. A partire dalla seconda

metà degli anni Novanta scoppiarono numerose polemiche sul fenomeno dei collaboratori di

giustizia, in particolare con riferimento al ritorno a delinquere di alcuni di questi soggetti. Il

dibattito fu fomentato da politici e giornali che, a dispetto della percentuale assolutamente

“fisiologica” di recidiva19

, ne crearono un vero e proprio “caso nazionale” che gettò un cono

d‟ombra inquietante sulle dichiarazioni dei collaboratori e sui processi in corso.20

L‟iter parlamentare innescato dalle summenzionate polemiche portò all‟approvazione della L.

13 febbraio 2001, n.45. Questa norma, integrando e coordinando la legislazione degli anni

Novanta, mira a razionalizzare il sistema di protezione e ad eliminarne le lacune e gli

inconvenienti.21

La riforma individua criteri più rigorosi e restrittivi in ordine alla selezione

dei collaboratori e delle dichiarazioni, riduce le fattispecie di reato per le quali è applicata la

disciplina premiale, fissa un termine tassativo di 180 giorni entro i quali il collaboratore deve

indicare i fatti di cui è a conoscenza, introduce limiti di pena da scontare per accedere ai

benefici penitenziari. La novella legislativa ha portato con se un importante

ridimensionamento del fenomeno della collaborazione di giustizia con conseguente riduzione

del numero dei collaboratori. Gli ultimi dati parlano di 785 pentiti a dispetto dei 1214 del

1996.22

Un crollo verticale che, se in parte si può spiegare con un calo fisiologico di un

19

Per un approfondimento in materia si veda Ernesto Calvanese, Pena riabilitativa e mass-media, Franco Angeli Editore, 2004. 20

G. Montanaro, Op. Cit., Pag. 410. 21

G. Montanaro, Op. Cit., Pag. 405. 22

G. Montanaro, Op. Cit., Pag. 413.

13

fenomeno che ha prodotto tanto negli anni scorsi, è da imputare precipuamente ad una

condotta ambigua ed immobile della classe dirigente, sorda alle richieste degli operatori della

giustizia.23

D‟altronde, come scrive lo storico Francesco Renda, “l‟efficacia del pentitismo

mafioso è direttamente proporzionale alla determinazione dello Stato nel proposito di

combattere la mafia. Forte l‟impegno statale a combattere la mafia, forte il pentitismo.

Tentennante lo Stato, oscillante il pentito”.24

1.2.2. Prospettive circa la normativa sulle intercettazioni

Le intercettazioni, tanto ambientali quanto telefoniche e telematiche, sono uno degli strumenti

più validi nelle indagini nei confronti delle associazioni criminali di stampo mafioso.25

Su di

queste, al contempo, si è aperto un dibattito politico assai acceso sui limiti da porre al loro

utilizzo per tutelare il diritto alla privacy.26

Nello specifico, l‟analisi ricade sul d.d.l. 1415C

presentato alla Camera dei Deputati il 30 giugno 2008, e successive modifiche. Questo

provvedimento, ancora in discussione ed attualmente fermo in Senato, è mosso dall‟intento di

trovare il miglior contemperamento tra esigenze investigative e diritto di riservatezza. Un

risultato nient‟affatto scontato e, per giunta, accompagnato dal forte rischio di creare nuove

aree di vulnerabilità del diritto.27

23

G. Montanaro, Op. Cit., Pag. 412. 24

F. Renda, Storia della mafia. Come, dove, quando, Sigma Edizioni, Palermo, 1997. 25

Vincenzo Macrì, Legislazione antimafia, i conti non tornano, Narcomafie, ottobre 2009, pag.11. 26

Maffeo Vania, La riforma in itinere delle intercettazioni, tra tutela della privacy ed esigenze dell’accertamento, Dir. Pen. e Processo, 2009, 4, 510. 27

Ibidem.

14

Può essere utile, allora, approfondire quanto proposto dal summenzionato d.d.l. in riferimento

alle indagini sulla criminalità organizzata di stampo mafioso. In tal senso, una delle previsioni

che ha maggiormente attirato critiche è quella inserita nell‟art.3 dell‟originario d.d.l. 1415 C.

Questo articolo, volto a ridurre l‟utilizzo dello strumento intercettativo, indica un elenco di

reati per i quali sono consentite le intercettazioni (tra questi sono ovviamente inclusi i delitti

di mafia); estendendo la disciplina delle intercettazioni all'acquisizione di immagini mediante

riprese visive e ai c.d. "tabulati telefonici" e limitando drasticamente le c.d. "intercettazioni

ambientali" ( ossia le comunicazioni fra presenti), confinandole nello spazio del "fondato

motivo di ritenere che nei luoghi ove è disposta l'intercettazione si stia svolgendo l'attività

criminosa".28

I rischi insiti in queste possibili modifiche al codice di procedura penale, in

relazione alle indagini sui delitti di criminalità mafiosa ex art. 416 bis c.p., sono due. In

primis, li dove si estende ai tabulati telefonici il concetto di intercettazione ex art. 266 c.p.p. si

crea un‟antinomia con quanto previsto dall‟art. 4 del d.d.l. in oggetto. Quest‟ultimo, volto a

riformulare l‟art. 267 c.p.p. in materia di presupposti e forme del provvedimento, al comma 3-

bis prevede, invero, “che la procedura meno restrittiva prevista per i reati di criminalità

organizzata e terrorismo è azionabile „quando l'intercettazione è necessaria‟ per lo

svolgimento di tale genere di indagini, lasciando intendere che tale procedura è riferibile alle

28

Maffeo Vania, Op. cit.

15

sole intercettazioni, sebbene più avanti la stessa norma mostri di riferirsi a tutte „le operazioni

previste nell'articolo 266‟”.29

Sul secondo punto l‟incongruità è ancor più grave, in quanto richiedere la presenza di fondati

motivi che inducano a ravvisare lo svolgimento dell‟attività criminosa nel luogo della

captazione rischia “di eliminare con un tratto di penna la quasi totalità delle intercettazioni

ambientali”.30

Se oggi questo limite è richiesto dal comma 2 dell‟art. 266 c.p.p. per i luoghi di

privata dimora indicati dall‟art. 614 c.p., con le modifiche apportate dal legislatore si farà

“riferimento allo svolgimento „attuale‟ e non „potenziale‟ dell'attività criminosa, con

inaccettabile equiparazione, quanto all'obbligo di indicazione di elementi concreti sull'attualità

dell'attività criminosa, al regime delle intercettazioni ambientali in luoghi di privata

dimora”.31

Proseguendo nell‟analisi del d.d.l. 1415C, ci si sofferma sull‟art. 4 destinato a riformare l‟art.

267 c.p.p. sui “presupposti e forme del provvedimento”. Le modifiche riguardano tanto

l‟aspetto procedurale quanto, soprattutto, la facoltà per il giudice ritenuto competente di

autorizzare le intercettazioni in presenza di “gravi indizi di colpevolezza” e non più dei soli

“gravi indizi di reato”. Questa limitazione, volta ad individualizzare lo svolgimento delle

intercettazioni, presuppone che le indagini si trovino già in una fase avanzata e che in capo al

soggetto intercettabile vi sia “un elevato livello di congruità degli elementi di

29

Maffeo Vania, Op. cit. 30

Maffeo Vania, Op. cit. 31

Maffeo Vania, Op. Cit.

16

responsabilità”.32

Nulla o quasi varia per le indagini attinenti ai delitti di criminalità

organizzata, rimanendo intatto il presupposto dei “gravi indizi di reato” e la relativa

applicazione dell‟art. 203 c.p.p. in relazione agli informatori di polizia giudiziaria e servizi di

sicurezza. Sul punto, però, sono piovute le critiche dell‟Unione delle camere penali che hanno

sottolineato come questa disposizione sia espressione del c.d. “doppio binario”33

, con una

inaccettabile distorsione dei valori di giustizia.34

L‟analisi del d.d.l. 1415C si conclude con un approfondimento circa le inutilizzabilità delle

intercettazioni individuate agli artt. 7 e 8.

L‟art. 7 interviene per modificare quanto disposto dall‟art. 270 c.p.p. il quale, rubricato

“utilizzazione in altri procedimenti”, prevede al comma 1 che “i risultati delle intercettazioni

non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti,

salvo che risultino indispensabili per l‟accertamento di delitti per i quali è obbligatorio

l‟arresto in flagranza”. La riforma in esame prevede, invece, che i risultati delle intercettazioni

sarebbero utilizzabili solo in caso di indispensabilità per l'accertamento dei delitti di cui agli

artt. 51, commi 3-bis e 3-quater, e 407, comma 2, lett. a), c.p.p., a condizione che non siano

stati dichiarati inutilizzabili nel procedimento a quo; con conseguenti effetti “deprimenti”

32

Maffeo Vania, Op. Cit. 33

Si veda in materia par. 2.2. 34

Unione delle camere penali italiane, documento depositato in data 15 gennaio 2009.

17

sulle indagini per delitti gravi e statisticamente frequenti quali, ad esempio, rapina o

estorsione non aggravata.35

L‟art. 8, invece, novella l‟art. 271 c.p.p. estendendo le previsioni di divieto di utilizzazione

delle intercettazioni. Dopo aver disposto, al primo comma, che "i risultati delle intercettazioni

non possono essere utilizzati qualora le stesse siano state eseguite fuori dei casi consentiti

dalla legge o qualora non siano state osservate le disposizioni previste dagli art 267 e 268

commi 1, 3, 5, 6 e 6-bis ", si aggiunge, al comma 1-bis, che il divieto opera qualora "in

udienza preliminare o nel dibattimento emerga una diversa qualificazione del fatto e, in

relazione alla nuova fattispecie, non si rientri nelle ipotesi previste dall'art. 266 c.p.p. ". Se

l‟obiettivo originario è quello di porre un freno alle intercettazioni a rete ovvero alle iscrizioni

strumentali, in realtà quello che si fa è costruire “un principio che è in rapporto

d'incompatibilità con il regime tipico dei mezzi di ricerca della prova.”36

Il divieto di

utilizzazione “sarebbe conseguenza di una valutazione ex post in punto di qualificazione

giuridica del fatto, trascurando un dato di struttura normativa, che lega la valutazione di

legittimità del mezzo di ricerca della prova alle risultanze disponibili al momento in cui è

disposto”.37

Dissenso che si rafforza con la considerazione dell'assenza di previsioni in

deroga, in favore dei procedimenti per reati gravi come quelli di criminalità organizzata di

stampo mafioso. Semmai, propongono alcuni studiosi della materia, “il divieto di

35

Maffeo Vania, Op. Cit. 36

Maffeo Vania, Op. Cit. 37

Maffeo Vania, Op. Cit.

18

utilizzazione potrebbe essere circoscritto al caso in cui muti il fatto nella sua struttura di

accadimento storico, o emerga un fatto nuovo in udienza preliminare o in dibattimento”.38

1.3 Prospettive della legislazione antimafia

Tutte le misure sopra elencate, supportate dalle numerose operazioni di polizia giudiziaria,

sembrano corroborare quanto da più parti viene segnalato circa l‟impostazione nel contrasto

alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Se da un lato si fa più forte la stretta nei

confronti dei vecchi capi, dei grandi latitanti e dell‟ala militare delle mafie; dall‟altro sembra

aprirsi un ciclo favorevole nei confronti delle nuove leve della c.d. “borghesia mafiosa”39

,

imprenditori che in tutta Italia partecipano alla realizzazione di grandi opere infrastrutturali e

diventano “interlocutori necessari di ogni forma di potere amministrativo, politico,

istituzionale”.40

Il lavoro incessante di contrasto alle mafie svolto dagli organi inquirenti

viene, inoltre, “svilito da un sistema giudiziario iniquo e farraginoso: i processi arrivano dopo

anni e durano anni, molti criminali incalliti vengono scarcerati per decorrenza dei termini di

custodia cautelare. I capi hanno avvocati capaci e lautamente pagati che riescono ad ottenere

attenuanti e vantaggi che stupiscono […]”.41

38

Maffeo Vania, Op. Cit. 39

Si veda sopra par. 1.1. 40

Vincenzo Macrì, Legislazione antimafia, i conti non tornano, Narcomafie, ottobre 2009, pag.13. 41

A cura di Gabriella Gribaudi, Traffici criminali. Camorra, mafie e reti internazionali dell’illegalità, Bollati Boringhieri, 2009, Pag. 27.

19

Un‟importante svolta per il futuro è, allora, rappresentata dalla Legge delega 13 agosto 2010,

n. 136. Rubricata come “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in

materia di normativa antimafia”, la norma è definibile come un intervento legislativo di ampio

respiro volto, nelle intenzioni, alla sconfitta definitiva della criminalità organizzata.42

Le modalità previste dal legislatore per raggiungere obiettivi tanto ambiziosi sono indicate

all‟art. 1 della Legge delega 136. Per iniziare, il comma 1 delega il Governo ad adottare,

“entro un anno dall‟entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo recante il

codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione”.

Governo che, alla luce della previsione del comma secondo, dovrà realizzare il

summenzionato decreto legislativo effettuando una ricognizione completa della normativa di

contrasto alla criminalità organizzata attuale, compresa quella inclusa nel codice penale e di

procedura penale. Le norme cosi individuate dovranno essere armonizzate tra di loro e

coordinate tanto con le disposizioni comunitarie, quanto con le disposizioni interne

concernenti l‟istituzione dell‟Agenzia nazionale per l‟amministrazione e la destinazione dei

beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.43

Per far questo, il comma terzo indica precisi criteri direttivi al Governo. Nello specifico, per

quanto riguarda l‟applicazione delle misure di prevenzione, è da sottolineare la possibilità che

“l‟azione di prevenzione possa essere esercitata anche indipendentemente dall‟esercizio

42

Camera dei Deputati, Atto n. 3290, Relazione al disegno di legge denominato “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia”. 43

Si veda in materia il par. 2.1.1.

20

dell‟azione penale” e “indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto

per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione”. Tali

misure patrimoniali, inoltre, potranno essere disposte anche in caso di morte del soggetto

proposto con la prosecuzione del relativo procedimento a carico degli eredi. Procedimento

che, su richiesta del proposto, potrà svolgersi in udienza pubblica anziché in camera di

consiglio. Sono consentite poi, ex artt. 146bis e 147bis del decreto legislativo 28 luglio 1989,

n. 271, audizioni mediante video-conferenza dell‟interessato o dei testimoni.

Misure di prevenzione e confisca che dovranno essere coordinate per evitare rischi di intralcio

o depotenziamento dei loro effetti. Le indicazioni in tal senso sono che “il sequestro e la

confisca di prevenzione possano essere disposti anche in relazione a beni già sottoposti a

sequestro nell'ambito di un procedimento penale”; che “nel caso di contemporanea esistenza

di un sequestro penale e di un sequestro di prevenzione in relazione al medesimo bene, la

custodia giudiziale e la gestione del bene sequestrato nel procedimento penale siano affidate

all'amministratore giudiziario del procedimento di prevenzione, il quale applica, anche con

riferimento a detto bene, le disposizioni in materia di amministrazione e gestione previste

dal decreto legislativo di cui al comma 1, prevedendo altresì, a carico del medesimo soggetto,

l'obbligo di trasmissione di copia delle relazioni periodiche anche al giudice del

procedimento penale”; che “in relazione alla vendita, all'assegnazione e alla destinazione

dei beni si applichino le norme relative alla confisca divenuta definitiva per prima”; che

“se la confisca di prevenzione definitiva interviene prima della sentenza irrevocabile di

21

condanna che dispone la confisca dei medesimi beni in sede penale, si proceda in ogni caso

alla gestione, alla vendita, all'assegnazione o alla destinazione dei beni secondo le

disposizioni previste dal decreto legislativo di cui al comma 1”.

L‟art. 2 della Legge delega 136/2010 è dedicato al tema della documentazione antimafia. Il

Governo dovrà adottare, entro un anno dall‟entrata in vigore della presente legge, “un decreto

legislativo per la modifica e l'integrazione della disciplina in materia di

documentazione antimafia di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575, e di cui all'articolo 4 del

decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490, e successive modificazioni”. Disposizione di

particolare interesse, di cui al comma 1 lettera c, è l‟istituzione di una banca di dati nazionale

unica della documentazione antimafia alla quale potrà accedere, come specificato alla lettera

e, la Direzione nazionale antimafia “per lo svolgimento dei compiti indicati all‟art. 371-bis del

codice di procedura penale”.

Di specifico interesse per la procedura penale è, ancora, l‟art. 11 della Legge delega 136. La

norma, rubricata “Ulteriori modifiche al codice di procedura penale e alle norme di

attuazione, di coordinamento e transitorie del medesimo codice”, prevede al primo comma

che “all'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale, le parole: «e dall'articolo

291-quater del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23

gennaio 1973, n. 43» sono sostituite dalle seguenti: «dall'articolo 291-quater del testo unico

approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e

22

dall'articolo 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152,»”. Al secondo comma,

invece, è indicato che “all'articolo 147-bis, comma 3, delle norme di attuazione, di

coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28

luglio 1989, n. 271, la lettera a) e' sostituita dalla seguente: «a) quando l'esame e' disposto

nei confronti di persone ammesse al piano provvisorio di protezione previsto dall'articolo

13, comma 1, del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con

modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, e successive modificazioni, o alle

speciali misure di protezione di cui al citato articolo 13, commi 4 e 5, del medesimo decreto-

legge;»”.

Nel suo complesso la norma è espressione di un rinnovato impegno al contrasto delle mafie a

tutto tondo, viste le ulteriori ed importanti novità in materia di appalti, certificati antimafia,

controllo dei flussi finanziari, rafforzamento delle attività investigative ed accertamenti fiscali

e patrimoniali. Bisognerà attendere il decreto legislativo scaturente dalle linee guida tracciate

dalla Legge delega 136 per poter effettuare delle valutazioni “finali” sull‟opera riformatrice

proposta dal Governo in carica e sul suo reale impatto a favore del contrasto e della sconfitta

del fenomeno criminale mafioso.

23

CAPITOLO 2: LA GENESI E LA STRUTTURA DEL SISTEMA LEGISLATIVO

PROCESSUALE ANTIMAFIA

2.1. Profili storici

L‟analisi storica della normazione antimafia, e nello specifico di quella d‟interesse

processual- penalistico, non può essere affrontata discernendo le singole disposizioni di legge.

Difatti gli interventi del legislatore sono diventati sempre più frequenti, soprattutto nel corso

degli ultimi anni: interventi di natura anche correttiva od equilibrativa di singole norme o

fattispecie rispetto al sistema processuale ( in tal senso, esemplificativo il d.l. 12 febbraio

2010, n.10 che ha riconosciuto la competenza dei Tribunali per il reato di associazione di tipo

mafioso in relazione all‟aumento delle pene edittali per lo stesso reato, cosi come previsto

dalla Legge 251/2005)44

.

Converrà allora dividere la legislazione in esame in tre grandi categorie, andando poi ad

analizzarle individualmente e definendo le caratteristiche del sistema processuale

sviluppatosi.

44

Sull’argomento si rinvia agli approfondimenti effettuati nel Cap. 1.

24

2.1.1. La confisca

Il sistema attuale di confische è pensato per contrastare le mafie e le associazioni criminali sul

loro punto di forza: la ricchezza economica.

Con tali strumenti il legislatore risponde alle moderne tecniche di riciclaggio ed occultamento

dei proventi illeciti utilizzate dalle organizzazioni mafiose. Proventi e ricchezze che

permettono alle mafie di “esercitare una vera e propria signoria sul territorio, perché

mantengono salda l‟organizzazione, controllano le persone e le attività, colludono con la

politica, condizionano la pubblica amministrazione, intrecciano relazioni col sistema delle

imprese, conquistano ed inquinano i meccanismi di funzionamento del libero mercato”45

.

Di particolare interesse in questo ambito sono la confisca di prevenzione antimafia e la

confisca di valori ingiustificati.

La prima ipotesi summenzionata è disciplinata dall‟art. 2 bis e seguenti della Legge 575/1965

con le modifiche apportate dalla Legge 646/1982 (c.d. Legge Rognoni- La Torre).

E‟ importante citare unitamente le due norme, poiché la Legge 646 ha definito il reato di

associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416 bis c.p.) ed ha permesso l‟estensione

delle misure di prevenzione patrimoniale, quali sequestro e confisca dei beni, all‟ipotesi

delittuosa da essa stessa definita.

45

Antonio Maruccia, voce Confisca dei beni in Nuovo dizionario di mafia ed antimafia. AA. VV., EGA Editore, 2008, pagg. 138-147.

25

La seconda ipotesi vedrà la luce dieci anni dopo, disciplinata dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306

convertito con modificazioni in legge 7 agosto 1992, n. 356.

Nello specifico, se il patrimonio è sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o all‟attività

svolta, esso sarà confiscato a meno che il mafioso non ne dimostri la provenienza lecita. Si

tratta di una forma di confisca slegata da uno specifico reato, tant‟è che in questi casi si parla

di “confisca allargata”46

.

A queste due realtà “specifiche” del settore vanno affiancate le ipotesi di confisca penale

obbligatoria e confisca obbligatoria (artt. 240- 416 bis c.p.) e di confisca per equivalente (art.

600 septies c.p.), i cui campi di applicazione sono stati allargati negli ultimi anni per andare

ad intervenire in tutti quei settori nei quali la criminalità organizzata ha allargato i propri

interessi. Emblematica è l‟estensione dell‟obbligatorietà della confisca non solo rispetto ai

delitti di criminalità organizzata, ma anche rispetto ai delitti d‟usura (art. 644 c.p.), alla

responsabilità delle persone giuridiche ed ai reati contro la pubblica amministrazione (art. 323

ter c.p.).

A far da contraltare all‟utilizzo sempre più pervasivo e rilevante degli strumenti di sequestro e

confisca, è sorta la problematica relativa alla gestione dei beni e patrimoni sottoposti a questi

stessi provvedimenti. Proprio in questa direzione si è mosso il d.l. 4 febbraio 2010 n.4 che

istituisce l'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e

confiscati alla criminalità organizzata. La volontà del legislatore è ben chiara sin dall‟incipit:

46

Ivi, pag.24.

26

creare un‟Agenzia che, fungendo da collegamento tra autorità giudiziaria ed amministrazioni

interessate, permetta una unitaria ed efficace amministrazione e destinazione dei beni

confiscati alla criminalità organizzata.

2.1.2. Direzione investigativa antimafia e Direzione nazionale antimafia

Sul finire degli anni Ottanta il bilancio dello Stato italiano nella lotta alle mafie è “ricco di

luci positive ma anche di ombre inquietanti”47

.

Se difatti si era concluso positivamente il primo “maxi-processo” che dimostrò l‟esistenza di

Cosa nostra, dall‟altro lato mancava il “coordinamento investigativo imprescindibile per le

indagini in materia di criminalità organizzata”.48

In questa direzione si muove l‟attività di

Giovanni Falcone nei primissimi mesi del 1990 come Direttore generale degli affari penali

presso il Ministero di Grazia e Giustizia.

I frutti di questo lavoro saranno due decreti legge sul finire del 1991: il primo è il d.l. 29

ottobre 1991, n.345 convertito in Legge 30 dicembre 1991, n.410 intitolato “Disposizioni

urgenti per il coordinamento delle attività informative e investigative nella lotta contro la

criminalità organizzata”. Con questo atto normativo verrà istituita la Direzione investigativa

antimafia (DIA), agenzia a composizione interforze e con competenza su tutto il territorio

47

Lorenzo Frigerio, voce Direzione investigativa antimafia in Nuovo dizionario di mafia ed antimafia, AA. VV., EGA Editore, 2008, pagg. 203-211. 48

Cfr. Fondazione Falcone, 1994.

27

nazionale, avente lo scopo di studiare l‟evoluzione del fenomeno mafioso e di fornire

elementi utili a orientare e coordinare l‟attività di investigazione preventiva49

.

Il secondo è il d.l. 20 novembre 1991, n.367 convertito in Legge 20 gennaio 1992, n.8 ossia

l‟atto di nascita della Direzione nazionale antimafia (DNA).

Con queste norme si è proceduto ad una complessiva riorganizzazione degli uffici del

pubblico ministero, con l‟obiettivo di un migliore coordinamento delle indagini riguardanti i

delitti, consumati o tentati, di associazione di tipo mafioso, sequestro di persona a scopo di

estorsione, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, e

qualunque delitto commesso avvalendosi della forza di intimidazione e della condizione di

assoggettamento e omertà che derivano dal vincolo associativo di tipo mafioso, o compiuto al

fine di agevolare l‟attività delle associazioni mafiose. Alle originarie previsioni si sono

aggiunti il delitto di associazione contrabbandiera e, con L. 228/2003, i delitti di riduzione o

mantenimento in schiavitù; tratta di persone; acquisto e alienazione di schiavi; associazione

per delinquere finalizzata a commettere detti reati50

.

Il coordinamento investigativo della DNA ricade tanto sull‟attività delle procure distrettuali

antimafia (DDA), corrispondenti ai distretti di Corte d‟appello; tanto in riferimento all‟attività

della DIA e delle varie forze di polizia impegnate nel contrasto al crimine organizzato51

.

49

Lorenzo Frigerio, op. cit. 50

Gian Carlo Caselli, voce Direzione nazionale antimafia in Nuovo dizionario di mafia ed antimafia, AA. VV., EGA Editore, 2008, pagg. 211-216. 51

Ibidem.

28

A livello ordinamentale, la DNA è una articolazione della Procura generale presso la Corte di

Cassazione. I componenti della DNA godono delle guarentigie assicurate alla Costituzione a

ogni altro magistrato: soggezione soltanto alla legge; autonomia ed indipendenza da ogni altro

potere dello Stato; inamovibilità52

.

2.1.3. I collaboratori di giustizia53

La figura del collaboratore di giustizia nasce a cavallo tra la fine degli anni 70‟ e gli inizi

degli anni 80‟ come strumento di indagine e contrasto delle organizzazioni clandestine e

terroristiche di quegli anni, fino ad allora ritenute impenetrabili ( L. 15 dicembre 1979, n.625).

Tale norma si fondava su una pragmatica visione di do ut des: la collaborazione fattiva alle

indagini unita alla dissociazione comportava una sensibile riduzione di pena.

I risultati positivi ottenuti da questa normativa premiale uniti alla “tenuta processuale” dei

collaboratori fece si che molti chiesero l‟estensione di tale strumento anche per il contrasto al

crimine organizzato.

Il legislatore rispose con il d.l. 15 gennaio 1991 n.8 convertito in L. 15 marzo 1991 n. 82 e

con il successivo d.l. 13 maggio 1991, n.152 convertito in L. 12 luglio 1991, n.203.

52

Ibidem. 53

Giovanna Montanaro, voce Pentitismo e pentiti in Nuovo dizionario di mafia ed antimafia, AA. VV., EGA Editore, 2008, pagg. 402-413.

29

Con tali provvedimenti vengono riconosciuti regimi di favore, protezione ed assistenza di cui

possono godere collaboratori e testimoni di giustizia. Inoltre per i collaboratori in materia di

reati di mafia verranno riconosciute diminuzioni di pena e possibilità di scontare la pena al di

fuori degli istituti carcerari ( d.l. 8 giugno 1992, n. 306 convertito in L. 7 agosto 1992, n. 356).

Questo quadro normativo è stato di recente aggiornano, coordinato e risistemato con la L. 13

febbraio 2001, n.45. Tale riforma è segnata da talune linee cardine quali: individuazione di

criteri più rigorosi e restrittivi in ordine alla selezione dei collaboratori ed al vaglio delle loro

dichiarazioni, riduzione delle fattispecie alle quali è applicata la disciplina premiale, la

separazione tra momento di ammissione alle misure di protezione e concessione dei benefici

penitenziari, la fissazione di un termine tassativo (180 giorni) entro il quale il collaboratore

deve indicare i fatti di cui è a conoscenza, la redazione di un verbale illustrativo,

l‟introduzione di limiti di pena da scontare in carcere consistenti in un quarto della pena

inflitta o in dieci anni di reclusione nel caso di condanna all‟ergastolo.54

Inoltre questa legge ha posto una diversa regolamentazione tra collaboratore di giustizia e

testimone di giustizia, partendo dalla diversa valutazione delle due posizioni: il collaboratore

di giustizia proviene da organizzazioni criminali e mafiose, e fornisce notizie circa la propria

responsabilità o la responsabilità di terzi rispetto a fatti delittuosi; il testimone di giustizia è

solitamente un cittadino onesto, estraneo alle organizzazioni criminali, che fornisce notizie od

informazioni circa il reato subito, del quale è stato testimone o di cui è venuto a conoscenza.

54

Si veda sopra par. 1.2.1.

30

2.2 Legislazione processual-penalistica di contrasto alle mafie e “diritto penale del

nemico”: il sistema a “doppio binario”.

Il sistema processuale che si è andato a delineare, in relazione ai reati di criminalità

organizzata di stampo mafioso, è il frutto di una stratificazione legislativa realizzatasi nel

corso degli anni che, “ponendo la ragion di Stato a fondamento, ha visto un continuo

susseguirsi di leggi d‟emergenza (spesso varate a seguito di eventi traumatici)”55

.

Tale continuum senza fine ha avuto un evidente impatto sul versante processuale: comporre

quel sistema che “con espressione tanto allusiva quanto ambigua viene chiamato del „doppio

binario‟”, ossia di un vero e proprio processo penale speciale per i reati di criminalità

organizzata che si differenzia dal processo ordinario per i reati comuni56

.

Gli esempi individuabili all‟interno del codice di procedura penale sono numerosi: la custodia

cautelare in carcere è “favorita” in relazione ai reati di criminalità organizzata (artt. 274 lett. C

e 275 comma 3 c.p.p.), si tratta di reati per i quali sono previsti termini più lunghi per le

indagini preliminari (art. 407 c.p.p.) e per i quali è fatto divieto di comunicare l‟iscrizione nel

registro delle notizie di reato (art. 335 comma 3 c.p.p.), sono ancora previste particolari

restrizioni nel diritto alla prova (art. 190 bis c.p.p.) e nella facoltà di ottenere l‟esame delle

persone le cui dichiarazioni siano acquisite tramite verbali (art. 238 comma 5 c.p.p.).

55

Roberto E. Kostoris, Processo penale, delitto politico e “Diritto Penale del nemico”, La Magistratura, AA.VV., Luglio-Dicembre 2009, pagg. 72-82. 56

Ibidem.

31

Tale sistema a “doppio binario”, cosi restrittivo nei confronti degli autori di reati

organizzativi, viene fatto rientrare all‟interno della categoria del “diritto penale del nemico”57

.

Con tale concetto si intende indicare un diritto penale, e processual- penalistico, “non tanto

del fatto colpevole quanto dell‟autore pericoloso, non della colpevolezza ma della

pericolosità, non della retribuzione proporzionale ma della neutralizzazione; presentando un

evidente trattamento discriminatorio rispetto al diritto penale e processuale normale ed

ordinario”58

.

Nella realtà specifica dell‟ambito processuale si notano certe distorsioni in materia di

perquisizioni, sequestri, confische, intercettazioni, misure cautelari personali, di garanzie

probatorie, in accelerazioni dei tempi processuali, in meccanismi di pressione-compensazione

verso forme di collaborazione. Sotto il profilo preventivo, nella applicazione di misure di

prevenzione, personali e patrimoniali.

Questo si è realizzato poiché, ciclicamente, “il processo penale tende ad assumere le

caratteristiche di uno strumento volto a tutelare il potere costituito ed a neutralizzare i propri

avversari”59

.

Uno strumento che si è emancipato, nel corso degli anni, da “una funzione servente del diritto

penale ad un ruolo di “socio tiranno” del diritto sostanziale (secondo la metafora di Tullio

57

Ivi, pag. 30. 58

Ferrando Mantovani, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, Riv. it. dir. e proc. pen. 2007, 2-3, 470. 59

Roberto E. Kostoris, Processo penale, delitto politico e “Diritto Penale del nemico”, La Magistratura, AA.VV., Luglio-Dicembre 2009, pagg. 72-82.

32

Padovani), proprio con riguardo ai reati di criminalità organizzata, le cui fattispecie sono

ritagliate su precisi moduli investigativi”60

.

60

Ivi, pag. 31.

33

CAPITOLO 3: SVOLGIMENTO DI UN PROCESSO IN MATERIA DI

CRIMINALITA’ ORGANIZZATA

La tesi, proponendosi di analizzare lo stato dell‟arte della legislazione processual- penalistica

in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso nel suo complesso, non intende e non

potrebbe approfondire in modo specifico tutti gli istituti predisposti dal legislatore in tale

ambito.

La scelta di ripercorrere una vicenda giudiziaria “tipo” permette, allora, di avere una visione

complessiva dell‟oggetto in esame attraverso una struttura fatta di passaggi logici e

consequenziali.

In quest‟ottica, il capitolo è composto da cinque paragrafi corrispondenti ad altrettanti

importanti fasi dell‟attività processuale: indagini preliminari, applicazione delle misure

cautelari, udienza preliminare, dibattimento, formazione della prova e giudizio finale.

Per ognuno di questi, l‟attenzione sarà focalizzata sugli istituti specificatamente destinati ai

reati di criminalità organizzata di stampo mafioso.

34

3.1. Le indagini preliminari

In riferimento alle indagini preliminari in materia di criminalità organizzata è utile, in primis,

individuare chi sono i giudici ed i magistrati competenti.

In tal senso dispone l‟art. 328 comma 1 bis c.p.p., che affida le funzioni di giudice per le

indagini preliminari ad un magistrato del tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito

ha sede il giudice competente.

Il riferimento effettuato dall‟articolo in esame è alla competenza delle diverse Direzioni

Distrettuali antimafia, corrispondenti ai distretti di corte d‟Appello, per i reati di cui all‟art. 51

comma 3 bis c.p.p.

Il summenzionato art. 51 comma 3 bis c.p.p. assume una certa rilevanza nell‟ambito

d‟approfondimento della presente tesi per due ordini di motivi.

Da un lato esso viene costantemente richiamato dalle norme procedurali dedicate al contrasto

alla criminalità organizzata in quanto elenca, e ricorda, gli articoli del codice penale indicanti

i delitti, consumati o tentati, per i quali sorge la competenza materiale delle Direzioni

Distrettuali Antimafia.

L‟elenco comprende: artt. 416 e 416 bis c.p. (associazione per delinquere ed associazione di

tipo mafioso), artt. 600-601-602 c.p. (riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù,

tratta di persone, acquisto e alienazione di schiavi), art. 630 c.p. (sequestro di persona a scopo

di estorsione), art. 74 D.P.R. 9 ottobre 1990 n.309 (associazione finalizzata al traffico illecito

35

di sostanze stupefacenti o psicotrope), art. 291 quater D.P.R. 23 gennaio 1973 n. 43

(associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri).

Ma l‟art. 51 comma 3 bis c.p.p. è altrettanto rilevante in questa sede in quanto individua, per i

reati sopraindicati, il pubblico ministero competente.

In questo senso il riferimento è ancora alle Direzioni distrettuali antimafia ed alla loro

competenza territoriale corrispondente ai singoli distretti di Corte d‟Appello.

3.1.1. Dall’iscrizione della notizia di reato all’avvio delle indagini

Qualsiasi vicenda giudiziaria prende il via dall‟acquisizione di una notizia di reato.

Acquisizione che, come disciplinato dagli artt. 330 c.p.p. ss., può avvenire dall‟iniziativa

propria di pubblico ministero e polizia giudiziaria o dalla trasmissione agli stessi di denuncie

e referti.

In qualsiasi modo giunga al pubblico ministero la notizia di reato, ex art. 335 comma 1 c.p.p.

questi dovrà immediatamente iscriverla nell‟apposito registro presso l‟ufficio,

contestualmente al nome della persona alla quale il reato è attribuito.

Se si ha, invece, la registrazione di reati commessi da persone ignote, il primo obiettivo

dell‟indagine sarà proprio individuare il soggetto agente, arrivando a poter iscrivere nel

registro delle notizie di reato il nome di questo (art. 415 c.p.p.).

Ritornando all‟art. 335 c.p.p., una disposizione specifica in riferimento ai delitti di cui all‟art.

416 bis c.p. viene indicata al comma 3 dell‟articolo 335 c.p.p., nel quale si prevede che per

36

uno dei delitti di cui all‟art. 407 comma 2 lettera a) c.p.p. è esclusa la comunicazione

dell‟iscrizione alla persona offesa, alla persona alla quale il reato è attribuito, nonché ai

relativi difensori ove ne facciano richiesta.

La ratio della norma sta nella volontà da parte del legislatore di approntare una più forte e

specifica tutela per le indagini in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso,

consapevole dell‟importanza della segretezza delle stesse; al fine di garantirne uno

svolgimento scevro da qualsiasi tipo di “inquinamento” o pressione esterna, tanto da parte dei

soggetti privati coinvolti quanto di soggetti terzi61

.

A questo punto prende avvio la fase prettamente investigativa. Si tratta di un momento assai

delicato, dove emergono diversi profili di particolare interesse.

Un primo punto d‟approfondire è quello relativo alla coordinazione e relazione tra il pubblico

ministero e la polizia giudiziaria.

L‟incipit è dato da un aspetto meramente organizzativo. Cosi come è individuato dalle norme

in materia di contrasto alla criminalità organizzata il pubblico ministero competente

territorialmente e materialmente presso le diverse Direzioni Distrettuali Antimafia, cosi è

individuato l‟organo atto a svolgere le funzioni di polizia giudiziaria: si tratta della DIA

(Direzione Investigativa Antimafia), organo composto dagli uomini di Polizia di Stato, Arma

61

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Volume secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 62-63.

37

dei Carabinieri e Corpo della Guardia di Finanza avente il compito di assicurare lo

svolgimento, in forma coordinata, delle attività di investigazione preventiva attinenti alla

criminalità organizzata, nonché di effettuare indagini di polizia giudiziaria relative

esclusivamente a delitti di associazione di tipo mafioso o comunque ricollegabili

all'associazione medesima (art.3 D.L. 29 ottobre 1991, n.345, convertito con modifiche in

Legge 30 dicembre 1991, n.410).

Pubblico ministero e polizia giudiziaria, cosi individuati e definiti, entrano costantemente in

contatto e, di fatto, operano assieme. Una relazione che ha visto importanti modifiche e

variazioni rispetto al modello originario del 1988.

L‟idea del legislatore era quella di modificare il sistema previgente, “passando da una sorta di

istruttoria di polizia ad un sistema dove la centralità dell‟attività investigativa gravitasse

attorno alla figura del pubblico ministero”62,63

.

Per far questo, gli originari artt. 347 e 348 c.p.p. prevedevano che la polizia giudiziaria si

limitasse a riferire per iscritto gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi sino ad allora

raccolti, indicando le fonti di prova e le attività compiute; prevedendo che la notizia di reato

venisse inoltrata entro 48 ore al pubblico ministero, senza che la polizia giudiziaria potesse far

altro senza apposite direttive dello stesso pubblico ministero.

62

Ciro Santoriello, Novità in tema di attività di polizia giudiziaria, repressione e prevenzione ad opera delle forze dell'ordine dopo la legge n. 128 del 2001, Agosto 2002. 63

Giorgio Lattanzi, Pubblico ministero e polizia giudiziaria nel d.d.l. n. 1440/s, Cassazione penale 2009, 05, 1783.

38

Ma questo sistema era “assolutamente inconciliabile con la realtà di un pubblico ministero

investito da centinaia di migliaia di notizie di reato e nell‟impossibilità di disporre le

opportune misure investigative”64

. Senza dimenticare che gli anni immediatamente successivi

all‟entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale furono segnati da brutali episodi di

violenza criminale nei confronti di magistrati e membri delle forze dell‟ordine, tali da

riproporre il tema dell‟efficacia delle nuove norme a contrastare il fenomeno criminale

mafioso65

.

Per correggere e superare tale incongruenza, dando nuova spinta ed al contempo flessibilità

alle indagini, è intervenuto dapprima il d.l. 8 giugno 1992 n.306 convertito in L. 7 agosto

1992 n.356 e successivamente la L. 128 del 2001.

L‟impatto di queste disposizioni è evidente. L‟art. 327 c.p.p., cosi come modificato, prevede

ancora che il pubblico ministero dirige le indagini e dispone della polizia giudiziaria, ma

quest‟ultima svolge attività di propria iniziativa anche dopo la comunicazione della notizia di

reato.

E‟ scomparso il limite temporale delle 48 ore per inoltrare la notizia di reato da parte della

polizia giudiziaria al pubblico ministero al comma 1 dell‟art. 347 c.p.p., sostituito da un più

generico “senza ritardo”.

64

Ivi, pag.37 . 65

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Volume secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 67.

39

Viene ribadito e rafforzato il ruolo investigativo autonomo della polizia giudiziaria anche

all‟art. 348 c.p.p. Il primo comma garantisce alla polizia giudiziaria la continuazione delle

proprie attività ex art. 55 c.p.p. anche dopo la comunicazione della notizia di reato, mentre al

terzo comma si prevede che la polizia giudiziaria realizzi tanto le direttive del pubblico

ministero quanto indagini di propria iniziativa (in riferimento agli atti diretti e delegati ex art.

370 c.p.p.).

Tali modifiche, aggiunte agli ulteriori compiti ed attività svolti dalla polizia giudiziaria ex artt.

349-350-354 c.p.p. in riferimento alla raccolta di sommarie informazioni ed accertamenti su

luoghi, cose e persone, permettono di affermare che “la polizia giudiziaria abbia riacquistato

un proprio ruolo autonomo collegato al pubblico ministero, il quale non è più il dominus

dell‟azione penale”66,67

.

Sotto questa nuova prospettiva assume un diverso significato l‟attività di direzione delle

indagini da parte del pubblico ministero, facendo riemerge la rilevanza investigativa e

processuale degli atti compiuti dalla polizia giudiziaria e raccolti nel fascicolo dello stesso

pubblico ministero68

.

66

Ciro Santoriello, Novità in tema di attività di polizia giudiziaria, repressione e prevenzione ad opera delle forze dell'ordine dopo la legge n. 128 del 2001, Agosto 2002. 67

Giorgio Lattanzi, Pubblico ministero e polizia giudiziaria nel d.d.l. n. 1440/s, Cassazione penale 2009, 05, 1783. 68

Ibidem.

40

Un ulteriore ed importante aspetto di coordinamento nella fase delle indagini preliminari è

quello che investe i rapporti tra i diversi uffici del pubblico ministero.

Di particolare interesse, in tal senso, risultano essere le disposizioni poste dall‟art. 371 bis

c.p.p., introdotto dal d.l. 20 novembre 1991 n. 367 e convertito in L. 20 gennaio 1992 n.8

(recentemente modificato dal d.l. 23 maggio 2008 n. 92, convertito in l. 24 luglio 2008 n.125

al fine di rafforzarne l‟operatività69

).

Tale articolo va a disciplinare quelle che sono le attività, le competenze e le facoltà del

procuratore nazionale antimafia, esercitante le sue funzioni in relazione ai procedimenti per i

delitti indicati all‟art. 51 comma 3 bis c.p.p.

Dal punto di vista investigativo egli dispone della Direzione investigativa antimafia e dei

servizi centrali ed interprovinciali delle forze di polizia, impartendo direttive per regolarne

l‟impiego a fini investigativi.

Inoltre il procuratore nazionale antimafia è organo d‟impulso per le indagini dei singoli

procuratori distrettuali, avendo come obiettivo l‟effettiva collaborazione tra le diverse procure

al fine di realizzare investigazioni tempestive e complete.

Gli strumenti concessi dal legislatore a tal fine vengono elencati al comma terzo dell‟art. 371

bis c.p.p.: collegamento investigativo tra le diverse procure distrettuali antimafia e la

Direzione nazionale antimafia, mobilità e flessibilità dei magistrati delle singole direzioni

distrettuali per soddisfare specifiche esigenze investigative e processuali, acquisizione ed

69

Vincenzo Macrì. Legislazione antimafia, i conti non tornano, Narcomafie, ottobre 2009, pag. 11.

41

elaborazione delle notizie attinenti la criminalità organizzata, sostegno del coordinamento

delle indagini tra le diverse procure attraverso direttive e, in caso di contrasti, è prevista la

riunione dei procuratori distrettuali interessati.

A chiudere l‟elenco, al comma 3 lettera h) ed al comma 4, vi è la previsione della facoltà di

avocazione delle indagini da parte del procuratore nazionale antimafia.

Questi ne dispone, con decreto motivato, quando le riunioni volte a coordinare le indagini non

hanno dato esito a causa della perdurante ed ingiustificata inerzia nella attività d‟indagine,

nonché dell‟ingiustificata e reiterata violazione dei doveri previsti dall‟art. 371 c.p.p. ai fini

del coordinamento delle indagini (scambio di atti e d‟informazioni, comunicazione delle

direttive rispettivamente impartite alla polizia giudiziaria).

Il procuratore nazionale antimafia provvede all‟avocazione dopo aver assunto le necessarie

informazioni personalmente o tramite un magistrato della Direzione nazionale antimafia

all‟uopo designato.

Il decreto motivato col quale il procuratore nazionale antimafia dispone l‟avocazione è

reclamabile al procuratore generale presso la Corte di Cassazione.

Le indagini preliminari nell‟ambito dei delitti ex art. 416 bis c.p. godono di un‟altra

disposizione derogatoria all‟interno del codice di procedura penale.

42

Si tratta dell‟art. 407 c.p.p. che, in riferimento ai termini di durata massima delle indagini

preliminari, elenca al comma secondo una serie di delitti per i quali la durata delle indagini è

prolungata, in via eccezionale, sino a due anni.

Il legislatore ha cosi inteso tutelare e favorire le investigazioni per reati (tra i quali

l‟associazione di tipo mafioso) spesso strutturati in modo assai complesso, che vedono la

partecipazione di numerosi soggetti e la necessità d‟utilizzo di diversi mezzi di prova.

Per queste tipologie di delitti, insomma, non si è ritenuta sufficiente la proroga delle indagini

richiedibile dal pubblico ministero al giudice ex art. 406 c.p.p.

Difatti questa ipotesi soffre di due limiti, uno di tipo temporale ed uno di tipo qualitativo.

Il limite temporale è riscontrabile li dove l‟art.406 c.p.p. riconosce possibilità di proroga delle

indagini fino a diciotto mesi, contro i ventiquattro complessivi dell‟art. 407 c.p.p.

Il limite qualitativo a danno dell‟art. 406 c.p.p. è individuabile sul punto del procedimento per

ottenere la proroga.

Al primo comma si prevede che il pubblico ministero, nel chiedere la proroga dei termini al

giudice, dovrà motivare la propria richiesta. A questo punto il giudice notificherà tale richiesta

alla persona offesa e all‟indagato.

La decisione sul punto, ex art. 406 c.p.p. comma terzo, si avrà in camera di consiglio entro

dieci giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle memorie.

43

La complessità di questo procedimento è stata però esclusa, al comma 5 bis, per i delitti di cui

all‟art. 51 comma 3 bis c.p.p. nonché per il delitto di associazione di tipo mafioso cosi come

indicato dall‟art. 407 comma secondo lettera a).

Per queste categorie di reati il giudice provvede con ordinanza entro dieci giorni dalla

presentazione della richiesta, dandone comunicazione al pubblico ministero.

Si ripete la ratio normativa che guida il legislatore in materia, ossia tutelare e non rallentare le

indagini in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso, garantendo al contempo la

minor dispersione verso l‟esterno di atti e notizie.

3.2. Le misure cautelari

L‟applicazione delle misure cautelari, in particolare di quelle personali, pone interessanti

spunti in riferimento ai reati di criminalità organizzata e all‟analisi del sistema del doppio

binario.

Nello specifico l‟attenzione ricade sugli articoli dal 273 al 275 del codice di procedura, in

relazione alla scelta e all‟applicabilità delle misure cautelari.

L‟analisi parte proprio dall‟art. 273 c.p.p. , rubricato come “Condizioni generali di

applicabilità delle misure”, il cui primo comma prevede che “nessuno può essere sottoposto a

misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza”.

44

Tale previsione normativa, unita all‟elencazione delle esigenze cautelari ex art. 274 c.p.p.

(specifiche ed inderogabili esigenze delle indagini, fuga o pericolo di fuga dell‟imputato,

pericolo che l‟indagato o l‟imputato possa commettere gravi delitti di specie identica o

differente rispetto a quello per il quale si procede), è volta a garantire il “giusto processo

cautelare”; cosi come richiesto anche dalla Corte europea dei diritti dell‟uomo70

.

L'imputato merita condanna per un fatto di reato soltanto se ne sono provati tutti i presupposti,

e non ha alcun onere di provare la propria innocenza. In secondo luogo l'imputato, "come se"

fosse innocente fino alla condanna, non può in pendenza del processo subire perdite o

diminuzioni di diritti. Entrambe le regole sono preordinate ad assicurare “che la restrizione

della libertà ante iudicatum sia correlata esclusivamente alle garanzie del processo, tanto sul

piano del suo stesso svolgimento, quanto su quello del risultato. La limitazione della libertà

non può essere autorizzata se non in casi eccezionali, per esigenze processuali, e per tempi

limitati, e si giustifica solo quale eccezione strettamente condizionata dai criteri di necessità,

adeguatezza e proporzionalità”71

.

Il tema diviene assai delicato in relazione alla chiamata di correo ex art. 192 comma 3 e 4

c.p.p.

Sul punto, un ricco dibattito dottrinale e giurisprudenziale si è sviluppato fino a tutti gli anni

‟90 del secolo scorso.

70

Corte eur. dir. umani, 24 novembre 1993, I. c. Svizzera, § 36; cfr. G. Ubertis, Sistema di procedura penale, Principi generali, Torino, 2002, 20. 71

Ibidem.

45

Di particolare rilevanza, in questo confronto, sono state le conclusioni a cui è giunta la

sentenza Costantino72

.

Secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione la chiamata di correo, perché potesse

assurgere a grave indizio di colpevolezza, doveva essere suffragata da riscontri “che non

dovevano riferirsi necessariamente alla posizione soggettiva dell'accusato e al reato

attribuitogli, bensì dovevano tradursi solamente nella conferma delle modalità oggettive del

fatto, in modo da dissipare il sospetto di mendacio del chiamante”73

. Il giudice della misura

cautelare, dopo avere verificato l'intrinseca attendibilità del chiamante, “doveva appurare solo

se esistevano circostanze di fatto di smentita e se la stessa potesse considerarsi confermata, in

relazione all'imputazione, da riscontri esterni di qualsiasi natura, sia rappresentativi sia

logici”74

.

I dubbi vengono fugati dalla L. 1 marzo 2001, n.63 , cosiddetta legge del “Giusto processo”.

Tale novella legislativa ha introdotto, all‟art. 273 c.p.p., il nuovo comma 1bis secondo il quale

“nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza si applicano le disposizioni degli articoli

192, comma 3 e 4, 195, comma 7, 203 e 271, comma 1”.

72

Cass., Sez. Un., 21 aprile 1995, C., in Cass. pen., 1995, 2837, 1681. 73

Cass., Sez. Un., 21 aprile 1995, C., in Cass. pen., 1995, 2837, 1681, con nota di S. Buzzelli, Chiamata in correità ed indizi di colpevolezza ai fini delle misure cautelari nell'insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione; e, ivi, 1996, 467, 211, con nota di Bonini, Chiamata di correo, riscontri esterni e sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza; inoltre, in Foro it., 1996, I, 6; in questa Rivista, 1996, III, 343, con nota di Caselli Lupeschi, Quando la chiamata in correità può portare in carcere?; in Giust. pen., 1996, III, 321, con nota di F. Puleio, Gravi indizi di colpevolezza in materia di misure cautelari e dichiarazioni accusatorie del coimputato; in Riv. it. dir. e proc. pen., 1996, 1141, con nota di P. Molinari, Sui rapporti tra gravi indizi di colpevolezza e chiamata in correità ai fini della applicazione delle misure cautelari; in Riv. pen., 1995, II, 1147. 74

Ibidem.

46

In tal modo viene estesa anche alla fase cautelare la metodologia di valutazione della fase di

merito, ossia la verifica della credibilità del dichiarante, dell‟intrinseca consistenza e delle

caratteristiche delle sue dichiarazioni e degli ulteriori riscontri esterni75

.

Il riscontro individualizzante richiesto in fase cautelare dalla novella legislativa del 2001 porta

ad un superamento di quanto espresso dalla sentenza Costantino.

Il riscontro alla chiamata in correità ora « non consiste semplicemente nell'oggettiva conferma

del fatto riferito dal chiamante, ma offre elementi che collegano il fatto stesso alla persona del

chiamato, fornendo un preciso contributo dimostrativo dell'attribuzione a quest'ultimo del

reato contestato»76

. Ed ancora, «si deve ritenere che gli elementi che confermano

l'attendibilità delle dichiarazioni devono riguardare non soltanto il fatto storico che costituisce

oggetto dell'imputazione, ma anche la sua riferibilità all'imputato»77

.

Ecco che la sussistenza del riscontro individualizzante rafforza e completa lo statuto del

giusto processo cautelare, che già includeva l'obbligo della motivazione ed i rimedi

impugnatori delle ordinanze applicative delle misure cautelari.

75

Giordano Francesco Paolo, Chiamata di correo e necessità di riscontri individualizzanti, Cass. pen. Sez. Unite, 30 maggio 2006, n. 36267. Dir. Pen. e Processo, 2007, 7, 875. 76

Cass., Sez. I, 13 aprile 1992, T., C.E.D. Cass., n. 190581. 77

Cfr. Cass., Sez. I, 21 marzo 1995, n. 1743, L., C.E.D. Cass., n. 201176; Cass., Sez. I, 13 settembre 1994, n. 3124, M., ivi, n. 199446; Cass., Sez. V, 18 agosto 1991, n. 811, M., ivi, n. 188144.

47

Nell‟applicazione delle misure cautelari intervengono, inoltre, i criteri di scelta delle misure

cosi come individuati all‟art. 275 c.p.p.

Di particolare rilevanza, in riferimento all‟associazione criminale di stampo mafioso, è il

comma 3 del predetto articolo, secondo il quale “la custodia cautelare in carcere può essere

disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata. Quando sussistono gravi indizi

di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, […] del

codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi

dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”.

Tale norma esprime una presunzione di pericolosità in riferimento ai soggetti che hanno

commesso determinati gravi reati di stampo mafioso, caratterizzati dall‟elemento e dal

vincolo associativo.

Questo orientamento normativo sembra aver trovato una importante sponda anche in ambito

comunitario.

Al riguardo, la Raccomandazione R (80) 11 del Comitato dei Ministri degli Stati membri del

Consiglio d'Europa sul tema della carcerazione provvisoria ha emesso un serio monito,

affermando che quest'ultima "deve [...] essere considerata come una misura eccezionale e non

essere mai obbligatoria né utilizzata a fini punitivi", per poi sottolineare che "non può essere

disposta se non quando l'interessato è legittimamente sospettato d'aver commesso il reato

addebitatogli e se vi sono serie ragioni per ritenere che esistano uno o più dei pericoli

seguenti": fuga, ostruzione del corso della giustizia, commissione di un grave reato.

48

Precisando, subito dopo, che: "anche se non si potesse ritenere l'esistenza dei pericoli di cui

sopra, la carcerazione provvisoria può tuttavia eccezionalmente giustificarsi in certi casi di

reati particolarmente gravi”.

A posizioni molto vicine è giunta anche la Corte europea dei diritti dell‟uomo.

Nella sentenza Pantano del 6 novembre 2003 la Corte riconosce le peculiarità tipiche del

fenomeno mafioso, in primis nel rapporto personale che lega l‟associato al sinodo criminale.

Ecco che allora la disposizione di cui all‟art. 275 comma 3 c.p.p., secondo i giudici di

Strasburgo, trova la propria ragion d‟essere nella tutela dell‟ordine e della sicurezza pubblica

rispetto al pericolo espresso dalla criminalità organizzata di stampo mafioso.

Le riserve, allora, non riguardano “tanto l'opportunità di un regime cautelare differenziato per

i reati di mafia, né la presunzione di pericolosità iuris tantum, quanto piuttosto l'impossibilità

di provare, nel caso concreto, un'attenuazione delle esigenze cautelari tale da permettere

l'adozione di una misura meno afflittiva della carcerazione”78

.

Difatti, secondo la disciplina attualmente in vigore, nel momento della decisione

sull'applicazione o meno di un provvedimento restrittivo nei procedimenti di mafia,

l'alternativa è fra il carcere e la libertà.

78

Giulia Mantovani, Dalla Corte europea una "legittimazione" alla presunzione relativa di pericolosità degli indiziati per mafia. c.p.p. art. 275 Corte europea diritti dell'uomo, 06 novembre 2003, Legislazione penale, 2004.

49

In tal modo, per evitare la carcerazione è necessario dimostrare l'azzeramento di ogni esigenza

cautelare, mentre anche in presenza di un periculum libertatis effettivamente blando è

disposta e mantenuta la più gravosa delle misure ante iudicium79

.

Secondo larga parte della giurisprudenza, il provvedimento di applicazione o conferma della

custodia in carcere può invece limitarsi a dare atto dell'inesistenza di elementi idonei a vincere

la presunzione di cui all'art. 275 comma 3 c.p.p., senza dover specificamente motivare sul

punto: soltanto là dove la difesa alleghi specifiche circostanze dirette a provare positivamente

l'assenza di esigenze cautelari nel caso concreto, l'obbligo di motivazione del provvedimento

applicativo o confermativo della misura carceraria diventerà allora più oneroso, dovendosi

giustificare l'inidoneità dei fatti appositamente allegati a vincere la presunzione80

.

Per ritenere conseguita una tale prova, in giurisprudenza si è ripetutamente richiesta la

dimostrazione dell'avvenuta rescissione definitiva di ogni legame con l'organizzazione

mafiosa81

.

Là dove poi la prova della stabile fuoriuscita dall'associazione venga desunta dall'avvio di

una collaborazione con la giustizia82

, la permanenza in libertà nel corso del procedimento

79

Ivi, pag. 48. 80

Cass. (S.U.) 5.10.1994, Demitry, in CP 1995, 842. 81

Cass. 18.8.1992, Galatolo, in ANPP 1993, 467, e Cass. 8.2.1995, Bonventre, in CP 1996, 2301. 82

Cfr. Cass. 10.1.2000, Galliano, CED 215677, che individua nell'attività di collaborazione, riconosciuta proficua in sede di cognizione, un elemento idoneo a vincere la presunzione di pericolosità, purché non sussistano elementi che inducano ad escludere l'assenza delle esigenze cautelari.

50

“finisce per configurarsi sostanzialmente come un beneficio ulteriore rispetto a quelli

espressamente collegati a tale scelta dalla legge”83

.

3.3. L’udienza preliminare ed i procedimenti speciali

La fase dell‟udienza preliminare, nell‟ambito dei reati di criminalità organizzata di stampo

mafioso, presenta una sostanziale uniformità con il procedimento ordinario.

Sul punto, le maggiori criticità si sviluppano allora in riferimento ai procedimenti speciali; in

particolar modo sul giudizio abbreviato ex art. 438 c.p.p. e ss.

Questo rito, come gli altri inclusi nel libro sesto del codice di procedura penale, ha “chiare

funzioni di economia processuale”84

, volto a “semplificare i meccanismi processuali o ad

abbreviare la durata del processo mediante forme di definizione anticipata rispetto alle forme

del giudizio dibattimentale”85

.

Il giudizio abbreviato, nello specifico, ha una funzione deflattiva del dibattimento. Tale rito ha

come obiettivo, nelle intenzioni del legislatore, quello di escludere la fase dibattimentale a

favore della celerità della decisione; decisione sul merito anticipata in sede di udienza

preliminare. A favorire le parti ad accettare tali forme di conclusione del processo sono diretti

i congegni premiali individuati all‟art. 442 comma 2 c.p.p.: riduzione della pena di un terzo,

83

Giulia Mantovani, op. cit., 2004. 84

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 237. 85

Cfr. dalla Relazione preliminare al codice di procedura penale in D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 237.

51

sostituzione dell‟ergastolo con pena reclusiva di anni trenta, sostituzione della pena

dell‟ergastolo con isolamento diurno con quella dell‟ergastolo.86

Proprio questi elementi, caratterizzanti il giudizio abbreviato, fanno sorgere le maggiori

perplessità nell‟ambito della dottrina processual-penalistica.

In quest‟analisi, bisogna avere come punto fermo la consapevolezza che “il processo penale

non è per nulla „neutro‟ rispetto alle finalità di cui si fa strumento applicativo”.87

Le strutture processuali attraverso le quali il diritto penale prende forma nella realtà, cioè,

“perseguono finalità politico-criminali necessariamente comuni”.88

Ecco che allora, in questi procedimenti, la prassi applicativa rientri in una logica di „scambio‟

a favore dei c.d. collaboratori di giustizia. Questo, se da un lato rientra nella logica premiale

che ispira questi strumenti deflattivi, dall‟altro “presenta dei margini molto ristretti di

compatibilità con le ragioni che nel nostro sistema costituiscono il fondamento dell‟intervento

punitivo”.89

Difatti, ogni modifica dei criteri che presiedono all‟irrogazione di una sanzione penale implica

necessariamente una presa di posizione sulla funzione che la pena da applicare e poi chiamata

a svolgere nella realtà, e su una ulteriore verifica di legittimità deducibile dalle norme

costituzionali.

86

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 239. 87

Stefano Fiore, Modelli di intervento sanzionatorio. Criminalità organizzata e risposte ordinamentali, AA.VV., 1999, pagg. 273-277. 88

Ibidem. 89

Ibidem.

52

La disciplina attuale, da questo punto di vista, risulta fortemente inadeguata.90

Per quel che riguarda i procedimenti speciali, ed il giudizio abbreviato in particolare, i

benefici che derivano dalla loro applicazione “dovrebbero inserirsi in un quadro di non

contraddizione con le funzioni legittimamente perseguibili attraverso l‟esercizio della potestà

punitiva”.91

Con la sentenza n. 313 del 1990 anche la Corte Costituzionale dimostra di condividere questo

orientamento. Secondo la Corte, infatti, “le diminuzioni di pena e gli altri benefici connessi ai

riti alternativi rappresentano una scelta praticabile solo a condizione che la pena in concreto

irrogata sia comunque idonea a perseguire lo scopo di cui all‟art. 27 comma 3 Cost.”92

, ossia

tenda alla rieducazione del condannato.

Ecco che allora l‟applicazione di tali procedimenti, con “valore di scambio” per i collaboratori

di giustizia, non soddisfa esigenze di prevenzione ne speciale ne generale.

La collaborazione, difatti, “non è di per sé significativo di una riacquisizione dei valori

fondamentali, muovendosi su un piano distinto e non necessariamente collegato, […] nei

confronti di soggetti che non sono affatto „deboli‟ o „cedevoli‟”.93

Il sistema si dimostra, cosi, incapace di fornire risposte organiche, sistematiche e diffuse;

tanto dal punto di vista sociale che dal punto di vista processuale.

90

Stefano Fiore, op. cit., pag. 51. 91

Ibidem. 92

Dolcini, Razionalità nella commisurazione della pena: un obiettivo ancora attuale?, Riv. It. Dir. Proc. pen. 1990, Pagg. 810 ss. 93

Stefano Fiore, op. cit., pag. 51.

53

L‟immagine, secondo alcuni autori, è quella di una vera e propria “dichiarazione di resa”

dello Stato che, per ottenere risultati anche assai validi, “scende a patti sull‟uso della più

penetrante espressione di sovranità sui consociati, vale a dire l‟esercizio della potestà

punitiva”.94

3.4. Le prove e la loro acquisizione

Le prove, all‟interno della dinamica processuale, rivestono un ruolo primario.

Queste sono “il mezzo di cui si avvalgono le parti ed il giudice per verificare il fatto […]

ricostruito in vario modo nel corso delle indagini preliminari”95

.

Il codice disciplina l‟intero procedimento probatorio: dall‟ammissione all‟utilizzazione della

prova, dalla distinzione tra i “fatti principali”, enunciati nell‟imputazione, ai “fatti secondari”

relativi all‟attendibilità della persona sottoposta ad esame, fino all‟acquisizione processuale

dei risultati dell‟elaborazione probatoria.96

Questo sistema poggia su due principi fondamentali, di matrice costituzionale: uno è il diritto

alla prova, l‟altro è il contraddittorio per la prova. Proprio in riferimento ai reati di criminalità

organizzata di stampo mafioso individuiamo però, all‟interno del nostro codice di procedura,

rilevanti limitazioni ed esclusioni dei principi summenzionati.

94

Stefano Fiore, Op. cit., pag. 51. 95

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. primo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 329. 96

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. primo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 330.

54

3.4.1. Il diritto alla prova

Il diritto alla prova viene individuato come “limite al potere discrezionale del giudice

nell‟ammissione della prova”.97

L‟origine costituzionale di tale diritto è rinvenibile agli articoli 24 comma 2 e 111 comma 4

della Costituzione, alla luce dei quali, rispettivamente, “la difesa è diritto inviolabile in ogni

stato e grado del procedimento” ed “il processo è regolato dal principio del contraddittorio

nella formazione della prova”. Diritto al quale si richiama, in termini simili, anche la

Convenzione europea dei diritti dell‟uomo all‟art. 6 n.3 lett. d.98

Nei procedimenti per gravi delitti di criminalità organizzata questo diritto subisce una

rilevante limitazione all‟art. 190 bis c.p.p.

La norma, la cui applicazione è stata estesa ad ulteriori gravi delitti individuati al comma 1 bis

cosi aggiunto dalla L. 3 agosto 1998, n. 269, prevede che “per taluno dei delitti indicati all‟art.

51, comma 3bis, quando è richiesto l‟esame di un testimone o di una delle persone indicate

nell‟art. 210 e queste hanno già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio o in

dibattimento nel contradditorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime

verranno utilizzate ovvero dichiarazioni i cui verbali sono stati acquisiti a norma dell‟art. 238,

l‟esame è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diverse da quelli oggetto delle

97

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. primo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 339. 98

Ibidem.

55

precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengono necessario sulla

base di specifiche esigenze”.

La necessità di una simile impostazione processuale sorge all‟indomani delle gravi stragi di

mafia del 1992, “ritenendosi inadeguata la normativa ordinaria rispetto alle esigenze

conoscitive tipiche dei processi di mafia o comunque inerenti fatti di criminalità

organizzata”.99

La norma mira ad evitare “ „l‟erosione‟ di una prova, già elaborata in contraddittorio, e da

rielaborare in nuove esperienze processuali, attraverso sempre più complicati esami e

controesami”.100

Rispetto alle associazioni di stampo mafioso, l‟esempio è dato dalle deposizioni del

collaboratore di giustizia. Il rischio per la prova, derivante da numerose e susseguenti sue

ripetizioni ed istruzioni dibattimentali, può esser quello di “smagliarne l‟originario tessuto,

nella continua ricerca di maggiori specificazioni ed ulteriori dettagli: con le intuibili

conseguenze in ordine all‟attendibilità di un teste, „non costante‟ nelle sue dichiarazioni”.101

L‟attuale versione dell‟art.190 bis c.p.p. è frutto della riforma apportata dall‟art. 63 della L. 1

marzo 2001, n. 63, cosiddetta “legge sul Giusto processo”.

99

C. Santoriello, La nuova modalità di formazione della prova nei procedimenti per fatti di criminalità organizzata: la modifica dell'art. 190-bis con la legge n. 63 del 2001, Codici d’Italia, Agosto 2002. 100

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. primo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 344. 101

Ibidem.

56

La versione precedente dell‟articolo in oggetto, difatti, riconosceva solo al giudice la facoltà

di richiedere l‟esame di testimonianze o dichiarazioni già raccolte in altre fasi processuali,

rendendolo “arbitro” unico circa l‟assunzione della prova nei processi di mafia.102

Tale formulazione, introdotta dal d.l. 8 giugno 1992, n.306 convertito in L. 7 agosto 1992,

n.356, ribaltava però i principi fondamentali del processo penale ed andava incontro a

numerose critiche103

: l‟art.190 bis c.p.p., cosi redatto, contrastava con il summenzionato art. 6

n.3 lettera d della Convenzione europea dei diritti dell‟uomo.104

Il quadro normativo divenne ancora più complesso con l‟entrata in vigore della L. Cost. 23

novembre 1999, n.2, la quale modificò sostanzialmente l‟art. 111 Cost. Questa norma ha,

infatti, “elevato a rango costituzionale il principio del contraddittorio”105

, con la relativa

“impossibilità giuridica di utilizzare nei confronti di un soggetto una dichiarazione verbale

rese senza che l'accusato abbia potuto partecipare all'esame del suo accusatore e provvedere a

porre allo stesso proprie domande”.106

Con la nuova disciplina, il legislatore garantisce un livello minimo di diritto di difesa e di

contraddittorio fra le parti interessate.107

102

C. Santoriello, op. cit., pag.55. 103

Ibidem. 104

Chiavario, "Considerazioni sul diritto alla prova nel processo penale", in "Cass. Pen.", 1996, 2009. 105

C. Santoriello, op. cit., pag.55. 106

Ibidem. 107

Ibidem.

57

In particolare, la prova può essere assunta nell'ambito del medesimo procedimento, in sede di

incidente probatorio, o anche nel medesimo dibattimento, o in altro procedimento, mediante

acquisizione dei relativi verbali ai sensi dell'art. 238 c.p.p.108

In ordine alle dichiarazioni rese in sede di incidente probatorio, nello stesso procedimento o in

altro giudizio, la norma precisa “che le dichiarazioni rese dal teste o da soggetto rientrante

nella previsione di cui all'art. 210 c.p.p. possono essere utilizzate nei confronti degli imputati

del procedimento considerato solo se i relativi difensori hanno partecipato all'assunzione della

prova”109

: solo in tale ipotesi, dunque, “il nuovo esame in dibattimento della fonte già escussa

in sede di incidente probatorio sarà subordinato alla circostanza che la stessa debba essere

interrogata su fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni

ovvero se ricorrano specifiche esigenze che la facciano ritenere necessario”.110

Le condizioni in presenza delle quali è possibile, per la parte chiedere o per il giudice

disporre, la ripetizione di persona già esaminata in contraddittorio sono o quelle in cui

“l'esame del teste debba riguardare fatti o circostanze diverse da quelle oggetto delle

precedenti dichiarazioni ovvero che ricorrano specifiche esigenze che facciano ritenere

necessaria la rinnovazione della assunzione della prova”111

; cosi come richiesto dall‟art.190

bis comma 1 c.p.p.

108

C. Santoriello, op. cit., pag. 55. 109

Ibidem. 110

Ibidem. 111

Ibidem.

58

3.4.2. Il contraddittorio per la prova

Con l‟entrata in vigore della L. Cost. 23 novembre 1999, n.2, i principi del giusto processo

sono stati inseriti all‟interno dell‟art. 111 Cost.

Tra questi, assorto a rango costituzionale, vi è il principio del contraddittorio. Nello specifico,

all‟art. 111 comma 4 Cost. è statuito che “il processo penale è regolato dal principio del

contraddittorio nella formazione della prova”.

Ecco che, allora, “la portata processuale del tema di prova e la dimensione ugualmente

processuale dei mezzi di prova spianano la via ad un nuovo discorso sul

contraddittorio”112

:ora la partecipazione delle parti avviene nel momento in cui deve

procedersi alla verifica del tema di prova, durante l‟incidente probatorio, l‟udienza

preliminare e la fase dibattimentale, diventando “un modello infungibile di elaborazione

probatoria”.113

Ciò che si delinea, in tal guisa, è la fisionomia del contraddittorio „per una prova‟, “che deve

essere formata attraverso i contrapposti interventi delle parti con un giudice che,

nell‟immediato rapporto con le fonti di prova, è in grado di controllare le forme del

contraddittorio e di apprezzarne a pieno i contenuti”.114

Il principio del contraddittorio può subire talune limitazioni e deroghe, da parte del

legislatore, seguendo le tassative indicazioni fornite dall‟art. 111 comma 5 Cost.

112

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. primo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 341. 113

Ibidem. 114

Ibidem.

59

La riforma del 1999 ha riconosciuto difatti alla legge di regolare “i casi in cui la formazione

della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell‟imputato o per accertata

impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita”.

All‟interno del codice di procedura penale i limiti al contraddittorio per la prova sono

individuabili agli artt. 238 e 238 bis, con importanti riflessi per i procedimenti di criminalità

organizzata di stampo mafioso.

L‟art. 238 c.p.p. disciplina l‟acquisizione delle prove formatesi in altri procedimenti penali.

La sua attuale impostazione è figlia della modifica apportata dal d.l. 8 giugno 1992, n.306 e

convertito in L. 7 agosto 1992, n.356 , intitolata in modo assai eloquente “Modifiche urgenti

al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”.

La precedente versione dell‟art.238 c.p.p. richiedeva il consenso delle parti per acquisire le

prove formate in altri procedimenti penali, non bastando la richiesta di una sola parte ne un

eventuale intervento ex officio del giudice.115

L‟attuale formulazione dell‟art. 238 consente l‟acquisizione della prova senza alcun vincolo

di subordinazione al consenso delle parti quando questa è elaborata nell‟incidente probatorio

o nel dibattimento di altro procedimento penale, nell‟acquisizione di prove assunte in un

giudizio civile passato in giudicato, nell‟acquisizione di documenti di atti non ripetibili per

loro natura o per circostanze imprevedibili.

115

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. primo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 344.

60

Per garantire il contraddittorio per la prova, senza ripristinare la disciplina originaria, “basta

circoscrivere l‟utilizzabilità contro l‟imputato dei verbali di dichiarazioni (rese in altro

procedimento) ai soli casi in cui l‟imputato (o il suo difensore) hanno partecipato

all‟assunzione della prova”.116

In tal senso si spinge il comma 2 bis dell‟art.238 c.p.p., cosi

modificato dall‟art. 9 c della L. 1 marzo 2001, n.63 (legge c.d. del Giusto processo).

Quanto detto per l‟art. 238 può applicarsi anche all‟art.238 bis c.p.p.117

, che disciplina

l‟acquisizione delle sentenze penali irrevocabili “ai fini della prova di fatto in esse accertato”.

Questa disciplina, inserita ex novo dalla riforma apportata al codice nel 1992 e già menzionata

a proposito dell‟art.238 c.p.p., permette di acquisire la rappresentazione del fatto che riescono

ad offrire le sentenze passate in giudicato: ad esempio, l‟organizzazione di un‟associazione di

stampo mafioso o la credibilità del testimone o del “collaborante.118

Risultati ai quali mira anche l‟art.238 c.p.p. e che giustificano la limitazione al principio del

contradditorio in riferimento all‟accertamento dei reati di criminalità organizzata di stampo

mafioso, stante le peculiarità tipiche di queste strutture criminali e le conseguenti difficoltà

tanto sul versante investigativo che su quello dell‟accertamento della verità processuale.

116

Ivi, pag.59. 117

Ibidem. 118

Ibidem.

61

3.4.3. La testimonianza nei processi di mafia

Le prove vengono suddivise, da parte del codice di procedura penale, in due grandi categorie:

i mezzi di prova ed i mezzi di ricerca della prova, rispettivamente Titolo II e Titolo III del

Libro III del codice (“Prove”).

I mezzi di prova (es. testimonianza) servono alla verifica, positiva o negativa, del tema di

prova. Tale verifica opera “attraverso „modalità di assunzione‟ prestabilite in maniera rigorosa

dalla legge, […] esclusivamente nel processo (o nel corso dell‟incidente probatorio), davanti

ad un giudice, nell‟immediato rapporto fra il giudice e la prova”.119

I mezzi di ricerca della prova (es. intercettazioni) servono, invece, solo indirettamente alla

verifica del tema di prova, e “nei limitati casi in cui vengano impiegati per la ricerca di „cose

materiali, tracce o dichiarazioni‟”.120

Sull‟impianto normativo in esame può essere utile la lettura di un passo della Relazione al

progetto preliminare del codice, secondo la quale “i mezzi di prova si caratterizzano per

l‟attitudine ad offrire al giudice risultanze probatorie direttamente utilizzabili in sede di

decisone. Al contrario, i mezzi di ricerca della prova non sono di per sé fonte di

convincimento, ma rendono possibile acquisire cose materiali, tracce o dichiarazioni dotate di

attitudine probatoria.”121

119

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. primo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 334. 120

Ibidem. 121

Ibidem.

62

Esemplificando: mentre l‟esame dei testimoni, della parte o del perito crea un rapporto

immediato fra il giudice e la fonte di prova per la verifica del thema probandum;

l‟intercettazione non riesce a creare questo rapporto immediato, in quanto “la conoscenza del

giudice non promana dall‟intercettazione ma dalla dichiarazione intercettata e

processualizzata con le forme della perizia (art.268 comma 7 c.p.p.). […] è la perizia la sola

prova utilizzabile ai fini della decisione”.122

Un approfondimento particolare merita il tema della testimonianza, in riferimento ai processi

penali di criminalità organizzata di stampo mafioso.

In questo ambito, usando un linguaggio atecnico, possiamo parlare di testimoni (anche se il

termine più corretto sarebbe quello di collaboratori) “forti”.123

La testimonianza di questi soggetti è,infatti, “caratterizzata da un surplus conoscitivo in

relazione alle caratteristiche dei fatti oggetto di accertamento processuale”124

; facendo

emergere la “ „professionalità‟ del ruolo assunto dal dichiarante”125

.

Questi soggetti, avendo una conoscenza diretta della dinamica del delitto, riversano nel

processo una mole d‟informazioni di una cosi alta “qualità” da divenire “ la chiave di volta

della verifica processuale”.126

122

Ivi, pag.61. 123

Militello, Collaborazione e normativa premiale in ambito internazionale, in Atti del Convegno "Cosa nostra e le mafie del nuovo millennio", a cura del Centro La Torre-Università di Palermo. 124

Maggio Paola, Il testimone “forte”: specificità ed anomalie della prova dichiarativa nei processi di criminalità organizzata, Dir. Pen. e Processo, 2006, 2, 225. 125

Ibidem. 126

Ibidem.

63

Sulle fattispecie associative i colpi inferti dalle testimonianze “forti” si ripercuotono con

particolare durezza.

La tipologia di questo illecito è retta e costruita su elementi consolidati quali l‟omertà, la forza

d‟intimidazione, l‟assoggettamento. Ecco che le notizie fornite da chi ha instaurato un legame

con l‟associazione possono avere un vero e proprio effetto “deflagrante” nei confronti della

struttura criminale e dei summenzionati elementi costitutivi.127

Senza considerare poi che, in contesti di questo tipo, la " „forza‟ del testimone esplica i suoi

effetti anche nella descrizione della materialità della condotta, influenzandone i livelli di

tipizzazione”.128

I racconti dei dichiaranti influenzano direttamente l‟interpretazione delle fattispecie

associative, per una categoria di illeciti che “impongono la ricostruzione della storia

dell‟associazione e delle sue caratteristiche”129

: si tratta di un'anomalia congenita della

fattispecie penale, destinata a ripercuotersi tanto sul thema probandum130

quanto sul legame

strutturale tra le fattispecie di diritto sostanziale e il momento dell'accertamento

processuale.131

Nella verifica dei reati associativi, infatti, “assumono significato non solo gli scopi e il

programma dell'associazione, ma anche le regole interne e i ruoli assegnati all'associato, ed

127

Maggio Paola, op. cit., pag.62. 128

Insolera, La nozione normativa di "criminalità organizzata" e di "mafiosità": il delitto associativo, le fattispecie aggravanti e quelle di rilevanza processuale, in Ind. pen., 2001, 19. 129

Maggio Paola, op. cit., pag.62. 130

Orlandi, Inchieste preparatorie nei procedimenti di criminalità organizzata: una riedizione dell'inquisitio generalis? in Riv. it. dir. e proc. pen., 1996, 569, 570. 131

Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 3ª ed., 1996, 862.

64

ancor di più le violente modalità concrete di cui il comportamento criminale si

caratterizza”.132

Un esempio su tutti può essere dato dal rituale d‟affiliazione, ossia “l'inserimento formale

dell'associato in un organismo collettivo con la conseguente totale soggezione alle sue regole

e ai suoi comandi”.133

La cerimonia d'investitura, in alcune decisioni, “ha implicato la prova

del contributo causale che sarebbe immanente nell'obbligo solenne di garantire la propria

disponibilità al servizio della cosca, accrescendone la potenzialità operativa e la capacità di

inserimento subdolo e violento nel tessuto sociale, anche grazie all'aumento numerico dei suoi

membri”134

; ed in altre pronunce, invece, “non è stata ritenuta egualmente conducente, per

cui, pur in assenza di formali adesioni, il vincolo associativo è stato riscontrato ex factis,

attraverso la verifica di contributi diretti a fornire efficacia al mantenimento in vita della

struttura o al perseguimento degli scopi della stessa”135

.

Il vero pericolo è, allora, li dove alla prova dichiarativa venga negato “il ricorso alla disciplina

della testimonianza indiretta ex art. 195 c.p.p. per utilizzare l'accezione di fatto notorio al fine

di prescindere da una puntuale verifica della narrazione”136

.

Detto in altri termini, pure se è inevitabile che la storia dell'associazione e dalle sue regole

interne induca ad "attribuire valore probatorio a fatti o comportamenti che, in contesti diversi,

132

Paola Maggio, op. cit., pag. 62. 133

Ibidem. 134

Cass., Sez. IV, 18 novembre 1996, Brusca, in Riv. pen., 1997, 418; analogamente, Cass., Sez. I, 1° marzo 2002, Vento, in Giur. it., 2004, 1481. 135

Cass., Sez. I, 26 maggio 1999, Mammoliti, in Foro it., 2000, II, 90. 136

Paola Maggio, op. cit., pag. 62.

65

avrebbero tutt'altro significato"137

, dovrebbero respingersi tutte quelle interpretazioni miranti

a far declinare il convincimento lungo le pericolose chine del pregiudizio138

.

Le tendenze interpretative più recenti registrano atteggiamenti protesi ad impiegare

restrittivamente argomentazioni di questo tipo, assicurata mediante un più rigoroso vaglio

degli elementi di prova, “che tenga conto della valenza specifica di determinate condotte in

contesti culturali mafiosi e dei collegamenti probatori tra vicende apparentemente autonome,

senza per questo pregiudicare la concretezza e la puntualità dell'analisi”139

.

Si registra la tendenza degli organi inquirenti e giudicanti “di pretendere dal loquens racconti

e descrizioni sempre più puntuali delle condotte partecipative concorsuali, che vadano al di là

delle caratteristiche e della struttura delle stesse associazioni delinquenziali e rendano

motivabile il contributo prestato da parte di ciascun imputato al mantenimento in vita ed al

rafforzamento delle congerie mafiose”140

.

Tuttavia, in alcuni contesti processuali ci si trova costretti a sfruttare con “avidità il sapere di

questi soggetti, […]ciò spiega l'esigenza manifestata dalla prassi di fruire di criteri

interpretativi consolidati che guidino le singole valutazioni”141

.

Ci si riferisce, in particolare, alla scelta nell‟interpretazione e nell‟applicazione dell‟art. 192

c.p.p., che imporrebbe “la verifica dell'attendibilità intrinseca del chiamante sotto il profilo

137

Cass., Sez. II, 16 settembre 2003, Caruso, in C.E.D. Cass., n. 227200. 138

Paola Maggio, op. cit., pag.62. 139

Ibidem. 140

Ibidem. 141

Ibidem.

66

duplice della affidabilità del collaboratore e della attendibilità del racconto e, solo

successivamente all'esito positivo di questa prima fase, consentirebbe la c.d. corroboration,

attraverso il controllo degli altri elementi di eventuale conferma esterna della chiamata”142

.

Questo iter ha portato, talvolta, a risultanti fuorvianti: in alcune circostanze, valutata

l‟attendibilità intrinseca del racconto, nel prosieguo della verifica è venuta meno la

ricostruzione del collaborante per mancanza di attendibilità estrinseca.143

La domanda che ci si deve porre è, a questo punto: l‟imputato di associazione mafiosa, che

riferisce in procedimenti a carico di terzi in riferimento a delitti programmati nell‟ambito del

medesimo sodalizio criminale, in che veste deve deporre?144

La risposta, per quanto visto finora, non è scontata. “Il tema di fondo va affrontato ogni

qualvolta la prova delle varie attività della societas scelerum poggi su testimonianze di ex

affiliati. È condizionato da vincoli connettivi, tra regiudicande, di natura sostanziale e

processuale. Coinvolge diritti di difesa del potenziale narrante e spessore dimostrativo di

indicazioni fornite da persona non indifferente al thema decidendum. Sottende, insomma, nodi

ermeneutici relativi a finalità e garanzie del processo penale, su cui si dibatte da tempo”.145

142

Cass., Sez. Un., 21 ottobre 1992, Marino, in Cass. pen., 1993, 1139, 1125; Iacoviello; Cass., Sez. I, 26 gennaio 2004, n. 8415, E., in Guida dir., 2004, 19, 83. 143

Cass., Sez. I, 27 ottobre 1994, Marino ed altri, in Foro it., 1996, II, 307 ss. 144

Morosini Piergiorgio, Associazione di stampo mafioso e “testimonianza” dell’imputato aliunde. Ass. Palermo Sez. II, 20 marzo 2002, Dir. Pen. e Processo, 2003, 4, 479. 145

P. Tonini, L'alchimia del nuovo sistema accusatorio: una attuazione del giusto processo, in AA.VV., Giusto processo, a cura di P. Tonini, Padova, 2001, 4.

67

Delle risposte possono desumersi dall‟analisi degli artt.12 e 210 c.p.p., cosi come modificati

dalla L. 1 marzo 2001, n.63 (cd. Legge sul “Giusto processo”), in riferimento ai casi di

connessione e all‟esame di persona imputata in un procedimento connesso.

L‟ordinamento, in materia di reati collegati o procedimenti connessi, fissa taluni principi

essenziali in relazione alla testimonianza.

Ex art. 64 comma 3 lett. c), la persona deve essere avvertita che “se renderà dichiarazioni che

concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l‟ufficio di testimone”.

Tale avvertimento è “condicio sine qua non per la successiva utilizzazione della dichiarazione

sul fatto altrui”.146

A questo avviso, si accompagna il diritto al silenzio a favore della persona interrogata, ovvero

il diritto di rendere dichiarazioni senza alcun obbligo di verità.147

Nel dettaglio, per le ipotesi

di connessione ex art. 12 lett. a) vige un pieno diritto al silenzio, mentre nell‟ipotesi di

connessione teleologica ex art. 12 lett. c) il diritto al silenzio è limitato al fatto proprio e non

anche al fatto altrui.148

L‟obbligo di deporre “secondo verità” discende, ex art. 197 bis c.p.p., dalla definitività

dell‟accertamento149

. Il primo comma del summenzionato articolo prevede che “l‟imputato in

un procedimento connesso […] può essere sempre sentito come testimone quando nei suoi

146

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, 121 ss. 147

Ibidem. 148

Ibidem. 149

Ibidem.

68

confronti è stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di

applicazione della pena ai sensi dell‟art. 444”.

Ulteriormente, l‟art. 197 bis comma 4 esclude qualsiasi obbligo di deposizione per il

testimone “sui fatti per i quali è stata pronunciata in giudizio sentenza di condanna nei suoi

confronti, se nel procedimento egli aveva negato la propria responsabilità ovvero non aveva

reso alcuna dichiarazione”.

Infine, come ulteriore forma di garanzia ex post150

, il comma 5 dell‟art 197 bis c.p.p.

predispone che “in ogni caso le dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la persona

che le ha rese nel procedimento a suo carico, nel procedimento di revisione della sentenza di

condanna ed in qualsiasi giudizio civile o amministrativo, relativo al fatto oggetto del

procedimento delle sentenze suddette”.

Nel momento in cui il soggetto viene citato in giudizio, scatteranno gli appositi meccanismi

processuali, quali l‟accompagnamento coattivo, l‟esame a distanza delle persone che

collaborano con la giustizia, l‟assistenza di un difensore (di fiducia o d‟ufficio) ex art. 210

comma 3 c.p.p.151

Partiamo dalla connessione in senso “stretto”, che all‟art.12 lett. a) c.p.p. individua la

connessione di procedimenti “se il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in

150

Ivi, pag.67. 151

Ibidem.

69

concorso o cooperazione fra loro, o se più persone con condotte indipendenti hanno

determinato l‟evento”.

La lettura dell‟articolo pone un serio interrogativo circa la “connessione forte” tra le “persone

in concorso”, con importanti riflessi sulla definizione relativa di testimone “forte”.152

Un precedente orientamento giurisprudenziale riteneva che “solo le condotte che promuovono

la costituzione della nuova entità, e che di fatto ne assicurano la vita, l'efficienza e la

disciplina interna (promotori, organizzatori e capi), rappresentano ipotesi di concorso

necessario”153

. Questa interpretazione escludeva, quindi, la partecipazione semplice.154

Ma una più recente prospettiva si è fatta strada. Secondo questo orientamento, “ad assicurare

efficienza e vitalità dell‟associazione criminale sono la struttura di regole, servizi e uomini.

Dunque, la partecipazione semplice non è un fatto secondario e individuale; o indipendente

dal fatto complesso e plurisoggettivo. La sua essenzialità non si misura in rapporto alla

costituzione della associazione, ma alla stabilità e alla funzionalità dell'organismo

criminale”155

.

In altri termini, la connessione forte ex art. 12 lett. a) c.p.p. unisce la posizione di tutti i

partecipanti. Con la conseguenza che, “sino a quando la posizione processuale di Tizio non

sarà definita con sentenza irrevocabile, opererà l'incompatibilità a testimoniare di quest'ultimo

152

Morosini Piergiorgio, op. cit., pag. 66. 153

Cass., Sez. I, 13 febbraio 1990, Aglieri, in Cass. pen., 1992, 1294 ss. 154

Morosini Piergiorgio, op. cit., pag. 66. 155

G. Fiandaca-F. Albeggiani, Nota a Cass. 23 novembre 1988, Farinella e altri, in Foro it., 1989, 77 ss.; G. Fiandaca, La mafia come ordinamento giuridico. Utilità e limiti di un paradigma, ivi, 1995, 21 ss.

70

(art. 197 comma 1 lett. a). Lo ius tacendi, nella sua massima estensione (art. 210 comma 1

c.p.p.), verrà riconosciuto a prescindere dall'avere reso (o dal rendere) informazioni sulla

posizione altrui”156

.

Anche la connessione cosiddetta “teleologica” può essere da spunto per approfondimenti. Alla

luce del dettato normativo ex art. 12 lett. c) c.p.p., si ha connessione dei procedimenti “se dei

reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri”.

Giurisprudenza e dottrina maggioritaria “non concepiscono la fattispecie associativa come

una sorta di attività preparatoria dei delitti-scopo”157

. Le condotte delittuose di omicidio ex

art. 575 c.p., ad esempio, “pur essendo certamente episodi non inconsueti nel panorama

dell'attività criminosa della struttura delinquenziale, non rappresentano la finalità

«istituzionale» per cui l'associazione è stata costituita. Vengono intesi, nella maggior parte dei

casi (e ciò vale ancora di più per le c.d. «mafie storiche», radicate da tempo sul territorio), una

evenienza imprevista ed imprevedibile al momento dell'affiliazione al sodalizio, idonea ad

integrare gli estremi della partecipazione nell'associazione, penalmente rilevante”158

.

Ma sul punto, altri orientamenti ribaltano quanto detto sopra. Secondo lo stesso giudice di

legittimità, difatti, il delitto (prendendo ad esempio ancora l‟omicidio) può essere funzionale

alla sopravvivenza della societas scelerum, in quanto “l'anteriorità dell'inizio del delitto

associativo rispetto ad altro reato non è sufficiente ad escludere che quest'ultimo abbia quale

156

Morosini Piergiorgio, op. cit., pag. 66. 157

Ibidem. 158

Cass., Sez. V, 25 gennaio 2000, Battaglia, in Cass. pen., 2001, 1467.

71

finalità il primo, dovendosi verificare se il reato in questione sia commesso affinché la

permanenza considerata sia assicurata»159

.

L‟ovvia conclusione è che “il giudice sarà tenuto, prima della escussione del collaboratore, a

verificare (sulla base del capo di imputazione e di altri elementi indicati dalle parti) il

processo volitivo dei membri dell'associazione relativo alla commissione del reato per cui si

procede”.160

Quanto detto va completato dalla disposizione dell‟art. 16-quater del d.l. 15 gennaio 1991, n.8

convertito in L. 15 marzo 1991, n.8, introdotto dalla L. 13 febbraio 2001, n.45.161

Il

summenzionato articolo prevede, al primo comma, che “ai fini della concessione delle

speciali misure di protezione di cui al Capo II, nonché per gli effetti di cui agli articoli 16-

quinquies e 16-nonies, la persona che ha manifestato la volontà di collaborare rende al

procuratore della Repubblica, entro il termine di centottanta giorni dalla suddetta

manifestazione di volontà, tutte le notizie in suo possesso utili alla ricostruzione dei fatti e

delle circostanze sui quali è interrogato nonché degli altri fatti di maggiore gravità ed allarme

sociale di cui è a conoscenza oltre che alla individuazione e alla cattura dei loro autori ed

altresì le informazioni necessarie perché possa procedersi alla individuazione, al sequestro e

alla confisca del denaro, dei beni e di ogni altra utilità dei quali essa stessa o, con riferimento

159

Cass., Sez. I, 8 novembre 1999, Schettini, in Cass. pen., 2001, 583, 288. 160

Morosini Piergiorgio, op. cit., pag. 66. 161

Vedi sopra par. 1.2.1.

72

ai dati a sua conoscenza, altri appartenenti a gruppi criminali dispongono direttamente o

indirettamente”. Le dichiarazioni rese dal c.d. collaboratore di giustizia, oltre il termine dei

180 giorni, secondo il comma 9 “non possono essere valutate ai fini della prova dei fatti in

esse affermati contro le persone diverse dal dichiarante, salvo i casi di irripetibilità”.

Sul limite temporale posto alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, e sul contrasto

giurisprudenziale esistente in materia, sono intervenute di recente le Sezioni unite della Corte

di Cassazione.162

In prima battuta, le Sezioni unite escludono che l‟inutilizzabilità delle dichiarazioni tardive

dei collaboratori possa essere qualificata come assoluta. La decisione si pone in contrasto con

la giurisprudenza precedente163

che valutava le dichiarazioni rese dopo il decorso dei 180

giorni come “radicalmente e funzionalmente inidonee sotto l‟aspetto probatorio”.164

In

particolare, le Sezioni unite ritengono le dichiarazioni tardive non afferenti alle inutilizzabilità

assolute in quanto la loro acquisizione, seppur fuori “tempo massimo”, non determinerebbe

una violazione dei principi fondamentali dell‟ordinamento se realizzata “nelle forme e con le

modalità prescritte per la loro formazione nella fase delle indagini preliminari”.165

Senza

contare che nessun limite può essere posto all‟acquisizione delle conoscenze del collaboratore

162

Ruggiero Rosa Anna, I discutibili confini dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni tardive dei “collaboratori di giustizia”, Cass. Pen. 2009, 6, 2287. 163

Sez. I, 15 ottobre 2003, Abruzzese, in Foro.it, 2004, II, c.65. 164

Ruggiero Rosa Anna, Op. Cit. 165

Ibidem.

73

in fase dibattimentale, ne alla possibilità che queste fungano da input per lo svolgimento di

ulteriori indagini.166

E‟ il legislatore, ex art. 16-quater comma 9, individua espressamente le situazioni in cui le

dichiarazioni tardive rilevano o meno. Proprio alla luce di questa scelta normativa che

possiamo definire l‟inutilizzabilità delle dichiarazioni tardive come relativa. Il già citato

comma 9, nell‟utilizzare la locuzione “prova dei fatti”, non fa altro che escludere dal

panorama conoscitivo del giudice del dibattimento quegli atti propri dell‟indagine preliminare

già di per sé inutilizzabili in giudizio. Questa norma ad hoc risulta essere non necessaria, vista

la presenza (ricordata dalle stesse Sezioni unite) degli artt. 350, comma 7, e 360, comma 5

c.p.p., che stabiliscono, rispettivamente, l‟inutilizzabilità in dibattimento delle dichiarazioni

spontanee dell‟indagato alla polizia giudiziaria e degli accertamenti tecnici irripetibili

nell‟ipotesi di riserva di incidente probatorio.167

166

Sez. I, 13 giugno 2007, D’Arma, in C.E.D. Cass., n.237616. 167

Ruggiero Rosa Anna, Op. cit.

74

3.5 Il giudizio

La fase del giudizio, cosi come disciplinata al libro settimo del codice di procedura penale, è

quel momento del processo “in cui le parti ed il giudice mirano a verificare i fatti oggetto

d‟imputazione”168

, retto sui principi di “pubblicità (art.471 c.p.p.), contraddittorio (artt. 466,

486, 493, 498, 516, 546 c.p.p.), immediatezza (artt. 498, 525 c.p.p.), concentrazione (artt. 477,

544 c.p.p.) ed oralità (artt. 499, 500, 514, 526 c.p.p.)”169

.

Il legislatore ha, però, previsto deroghe importanti rispetto a quanto sopra indicato. Talune di

queste deroghe, in particolar modo, rientrano nell‟alveo dei delitti di criminalità organizzata

di stampo mafioso.

L‟art. 471 comma 1 c.p.p., in riferimento alla pubblicità dell‟udienza, è categorico: “l‟udienza

è pubblica a pena di nullità”. La regola in esame “garantisce l‟amministrazione della giustizia

ed i terzi. […] E‟ volta, quindi, ad assicurare la pubblicità esterna”170

. Difatti, grazie a questa

norma, “i terzi sono garantiti dalla pubblicità, in quanto il dibattimento coram populo

consente il diretto controllo delle attività poste in essere da tutti i protagonisti della vicenda e

168

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 280. 169

Ibidem. 170

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 281-282.

75

permette la divulgazione delle relative notizie, mediante i mezzi di informazione

collettiva”171

.

I limiti posti dalla normativa al principio di pubblicità tendono a “bilanciare le avvertite

esigenze di garanzia con la salvaguardia di interessi di primaria importanza”172

. Tra questi

rientra, come previsto all‟art. 472 comma 3 c.p.p., la riservatezza dei testimoni e degli

imputati “in ordine ai fatti che non costituiscano oggetto dell‟imputazione”173

.

Si comprende la rilevanza di questa disposizione in riferimento alle testimonianze e

collaborazioni nei procedimenti di mafia, nei quali la segretezza delle generalità ed identità di

chi è “disposto a parlare” può essere di fondamentale importanza per l‟esito dei processi

stessi174

.

In questi casi, ex art. 473 comma 1 c.p.p., “il giudice, sentite le parti, dispone, con ordinanza

pronunciata in pubblica udienza, che il dibattimento o alcuni atti di esso si svolgano a porte

chiuse”.

171

Ivi, pag. 74. 172

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 282-283. 173

Ibidem. 174

Maggio Paola, Il testimone “forte”: specificità ed anomalie della prova dichiarativa nei processi di criminalità organizzata, Dir. Pen. e Processo, 2006, 2, 225.

76

Il principio del contraddittorio “evoca l‟idea di una partecipazione contemporanea e

contrapposta di tutte le parti” al giudizio175

. La sua attuazione è garantita dalla disciplina

relativa alla contestazione dell‟accusa ed alla vocatio in jus.176

La vocatio in jus, disciplinata dalle norme relative alla notifica del decreto di giudizio

immediato (art.456 comma 3 c.p.p.), giudizio direttissimo (art. 450 commi 1, 2, 5 c.p.p.) e

decreto emesso nell‟udienza preliminare (art. 429 comma 4 c.p.p.) “mira a consentire la

partecipazione al giudizio dell‟imputato e della sua difesa […] riduce, se non elimina

addirittura, i rischi di assenze involontarie o imposte da qualche impedimento”.177

L‟impegno del legislatore non può in alcun modo assicurare l‟immancabile presenza della

parte, “neppure in un processo che fa del contraddittorio, e quindi della partecipazione

contrapposta e contemporanea delle parti, la struttura portante del giudizio”.178

Tant‟è che lo stesso legislatore ha previsto un‟importante deroga alla vocatio in jus con la L. 7

gennaio 1998, n.11. Tale innovazione normativa, scaturita da “esigenze di economia

processuale, volta a ridurre le traduzioni dei detenuti ed i tempi del dibattimento, ed a

garantire la sicurezza processuale del dichiarante”179

, ha regolato la partecipazione a distanza,

attivata attraverso un collegamento audiovisivo tra l‟aula dell‟udienza ed il luogo della

custodia.

175

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 283 ss. 176

Ibidem. 177

Ibidem. 178

Ibidem. 179

Ibidem.

77

La partecipazione a distanza è prevista dall‟art. 2 della summenzionata legge “quando si

procede per taluno dei delitti indicati nell'articolo 51, comma 3-bis, del codice, nei confronti

di persona che si trova, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione in carcere, la partecipazione al

dibattimento avviene a distanza nei seguenti casi:

a) qualora sussistano gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico;

b) qualora il dibattimento sia di particolari complessità e la partecipazione a distanza risulti

necessaria ad evitare ritardi nel suo svolgimento. L'esigenza di evitare ritardi nello

svolgimento del dibattimento è valutata anche in relazione al fatto che nei confronti dello

stesso imputato siano contemporaneamente in corso distinti processi presso diverse sedi

giudiziarie;

c) qualora si tratti di detenuto nei cui confronti è stata disposta l'applicazione delle misure di

cui all'articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni ed

integrazioni.”

L‟esame a distanza del collaboratore viene attuato con apposito collegamento audiovisivo,

“che assicuri la contestuale visibilità delle persone presenti nel luogo dove la persona

sottoposta ad esame si trova” e quando non è “assolutamente necessaria la presenza della

persona da esaminare” (art. 3).

78

La normativa, riconoscendo le garanzie proprie della persona sottoposta ad esame, “non altera

il processo di acquisizione della prova”180

, in quanto “la funzionalità della partecipazione o la

genuinità dell‟esame non sono realtà necessariamente legate alla presenza fisica dell‟imputato

o del dichiarante, e possono essere comunque garantiti dalle condizioni, volte ad assicurare

l‟effettività dell‟oralità e del contraddittorio […] ed appagano, inoltre, le esigenze di

ragionevolezza e di tutela da pericolose sovraesposizioni”.181

Il giudizio, retto dai principi summenzionati, è composto da tre momenti distinti, rilevanti per

la specificità delle funzioni assegnate ad ognuno di essi.

Nel predibattimento (artt. 465-491 c.p.p.) “importa disegnare le linee del futuro dibattimento,

importa predisporne il corretto (ed utile) svolgimento, al fine di rendere effettiva l‟oralità e

reale il contraddittorio, specie nell‟elaborazione della prova”.182

Nel dibattimento (artt. 492-524 c.p.p.) “occorre garantire queste forme, occorre organizzarle

in atti ed operazioni coram populo, attraverso un immediato rapporto fra il giudice e la fonte

di prova e secondo i tempi di una tendenziale concentrazione”.183

180

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 289-290. 181

Ibidem. 182

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 280. 183

Ibidem.

79

Nel periodo degli atti successivi al dibattimento (artt. 525-548 c.p.p.) “vanno riscontrati e

salvaguardati i risultati del dibattimento, a condizione che siano state osservate le forme

imposte dal codice in punto di prova”.184

Si badi bene: il giudizio non coincide né con il processo, né con il dibattimento. I due termini

hanno accezioni diverse, in quanto il giudizio ha un significato più ampio, includente il

dibattimento.185

Il giudizio, inoltre, è una fase possibile, eventuale ma non indispensabile del processo. Il

procedimento, infatti, può concludersi davanti al giudice delle indagini preliminari o davanti

al giudice dell‟udienza preliminare.186

3.5.1. Il predibattimento

Il predibattimento “ha la funzione di preparare il dibattimento”.187

Questa fase non comporta

più, come prevedeva il codice abrogato, un controllo sugli atti compiuti nella fase precedente.

La preparazione del dibattimento avviene, cioè, senza attingere elementi rilevanti dalla fase

delle indagini preliminari. In tal modo le operazioni del predibattimento, senza essere

184

Ivi, pag. 78. 185

Ibidem. 186

Ibidem. 187

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 323.

80

condizionate dalle acquisizioni precedenti, “tendono a garantire l‟ordinato ed utile

svolgimento della fase successiva”.188

In questa fase processuale, relativamente ai delitti di criminalità organizzata di stampo

mafioso, la prima disposizione d‟interesse incontrata è quella ex art. 467 c.p.p.

Tale norma, rubricata come “Atti urgenti”, fa riferimento all‟assunzione delle prove non

rinviabili già nel corso del predibattimento, “osservando le forme previste per il dibattimento”

e nei casi previsti all‟art. 392 (art. 467 comma 1 c.p.p.). Il legislatore richiama, cosi, la

disciplina dell‟ incidente probatorio, strumento utilizzabile nel corso delle indagini preliminari

e dell‟udienza preliminare per acquisire prove ed atti non rinviabili.189

Tra le ipotesi che giustificano la richiesta di incidente probatorio da parte del pubblico

ministero e della persona sottoposta ad indagini hanno particolare rilievo, con riferimento

all‟ipotesi delittuosa ex art. 416 bis c.p., le disposizioni ex art. 392 lett. b), c), d), e) c.p.p.

Nello specifico (e nell‟ordine proposto dal codice stesso):

- “Assunzione di una testimonianza quando, per elementi concreti e specifici, vi è

fondato motivo di ritenere che la persona sia esposta a violenza, minaccia, offerta o

promessa di denaro o di altra utilità affinché non deponga o deponga il falso”;

188

Ivi, pag. 79. 189

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 325.

81

- “Esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilità di

altri”;

- “Esame delle persone indicate all‟articolo 210”;

- “Confronto tra le persone che in altro incidente probatorio o al pubblico ministero

hanno reso dichiarazioni discordanti, quando ricorre una delle circostanze previste

dalle lettere a) e b)”.

L‟art. 467 c.p.p. non è disposizione speculare, tanto nella sostanza quanto nella forma, all‟art.

392 c.p.p. Basti ricordare che, a differenza di quanto avviene nella procedura incidentale,

nella fase predibattimentale le parti intervengono alla formazione della prova con il controllo

del fascicolo per il dibattimento.190

Inoltre, il patrimonio di conoscenze del giudice del

predibattimento è più ampio di quello del giudice dell‟indagine preliminare o dell‟udienza

preliminare, con importanti ricadute sul contraddittorio e sul potere integrativo del giudice

predibattimentale rispetto a quello della fase precedente.191

Senza dimenticare che la prova, in fase predibattimentale, potrà essere formata a data del

dibattimento già fissata. Data che, inevitabilmente, influisce sull‟iniziativa della parte: “un

dibattimento a tempi brevi affievolisce l‟interesse del richiedente perché consente una

tempestiva acquisizione della prova; un dibattimento a tempi lunghi accentua il significato

della richiesta ex art.467 c.p.p. perché allontana il momento dell‟istruzione dibattimentale”.192

190

Ivi, pag. 80. 191

Ibidem. 192

Ibidem.

82

Rimanendo nella fase predibattimentale, altra disposizione di sicuro interessante in

riferimento all‟associazione mafiosa è data dall‟art. 468 c.p.p., rubricata “Citazione di

testimoni, periti, e consulenti tecnici”.

Partendo dal primo comma del summenzionato articolo, “le parti che intendono chiedere

l‟esame dei testimoni, periti o consulenti tecnici, nonché degli imputati in un procedimento

connesso o di un reato collegato devono, a pena di inammissibilità, depositare in cancelleria,

almeno sette giorni prima della data fissata per il dibattimento, la lista con l‟indicazione delle

circostanze su cui deve vertere l‟esame”.

La rilevanza dei testimoni e degli imputati in procedimenti connessi, nell‟ambito dei processi

di mafia (come è stato approfondito in precedenza), può far ben comprendere la valenza del

deposito della lista testimoniale. Il deposito ha, infatti, una funzione di discovery “volta ad

evitare l‟introduzione, ad opera di qualsiasi parte, di prove a sorpresa” e con l‟obiettivo di

informare la controparte entro termini precisi, assicurando il corretto uso del

contraddittorio.193

Se, ad esempio, si potesse chiedere la citazione del testimone in ordine a temi di prova del

tutto generici, questo farebbe saltare la “par condicio processuale” perché “una delle parti del

193

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 326-329.

83

contraddittorio sarebbe costretta ad affrontare la cross-examination senza una adeguata

preparazione”.194

Il legislatore, proprio al fine di garantire la discovery ed una effettiva par condicio tra le parti,

ha messo a punto appositi meccanismi normativi.195

Questi sono indicati al comma 4 dell‟art.

468 c.p.p., secondo il quale “in relazione alle circostanze indicate nelle liste, ciascuna parte

può chiedere la citazione a prova contraria di testimoni, periti e consulenti tecnici non

compresi nella propria lista, ovvero presentarli al dibattimento”.

A quanto detto, deve aggiungersi la rilevante disposizione del comma 4 bis introdotto dal d.l.

8 giugno 1992, n. 306 convertito in L. 7 agosto 1992, n. 356. La novella prevede che “la parte

che intende chiedere l‟acquisizione di verbali di prova di altro procedimento penale deve

farne espressa richiesta unitamente al deposito delle liste. Se si tratta di verbali di

dichiarazioni di persone delle quali la stessa o altra parte chiede la citazione, questa è

autorizzata dal presidente solo dopo che in dibattimento il giudice ha ammesso l‟esame a

norma dell‟articolo 495”. La richiesta della parte non deve necessariamente ricadere su

verbali di prove di procedimenti definiti con sentenza irrevocabile.196

Ancora, la richiesta

della parte “non assorbe l‟ulteriore possibile richiesta volta all‟esame delle persone che hanno

effettuato le dichiarazioni nell‟altro procedimento”.197

L‟autorizzazione alla citazione delle

194

Ivi, pag. 82. 195

Ibidem. 196

Ibidem. 197

Ibidem.

84

persone che hanno reso dichiarazioni nell‟altro procedimento saranno, però, differite in

dibattimento.198

A questo punto la richiesta delle parti dovrà passare al vaglio del presidente del tribunale o

della corte di assise. Questi, come previsto all‟art. 468 comma 2 c.p.p., “[…] autorizza con

decreto la citazione dei testimoni, periti o consulenti tecnici nonché delle persone indicate

nell‟articolo 210, escludendo le testimonianze vietate dalla legge e quelle manifestamente

sovrabbondanti”. Il provvedimento “presidenziale” emanato svolge una duplice funzione: da

un lato autorizza la citazione di testimoni, consulenti tecnici e imputati in procedimenti

connessi; dall‟altro fornisce uno strumento coercitivo a favore di chi intende presentare

testimoni, consulenti o imputati in procedimenti connessi, salvo che la parte ritenga che i

soggetti indicati nella lista non diserteranno il dibattimento.199

Senza dimenticare che il citato provvedimento “non pregiudica la decisione sull‟ammissibilità

della prova, in esito alla „richiesta di prova‟”.200

3.5.2. Il dibattimento

L‟avvio al dibattimento è dato dalla lettura dell‟imputazione e dalle richieste di prova che,

cosi come regolate dall‟art. 493 c.p.p. Nell‟ordine, pubblico ministero, difensori della parte

civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e

198

Ivi, pag. 82. 199

Ibidem. 200

Ibidem.

85

dell‟imputato presenteranno i fatti oggetto dell‟imputazione e comunque rilevanti ai fini della

prova. In tal modo pubblico ministero e difensori “ „argomentano‟ in merito ai fatti oggetto

d‟imputazione […] e „spiegano‟ la pertinenza delle prove di cui chiedono

l‟ammissione”201

(art. 493 commi 1, 2, 3).

Si badi bene: mentre nel predibattimento, ex art. 468 c.p.p., le richieste di prova “debbono

essere corredate soltanto dall‟indicazione delle circostanze su cui deve vertere l‟esame del

testimone, del perito o del consulente tecnico […] puntando, quindi, su una ristretta porzione

della realtà processuale”, nel dibattimento le richieste di prova sono volte ad argomentare in

modo articolato tutta la realtà processuale, svelando contraddizioni e percorsi nella

formazione progressiva del fatto.202

Il passaggio successivo è dato dall‟ordinanza del giudice che, ex art. 495 c.p.p., potrà

dichiarare l‟ammissibilità o l‟inammissibilità della prova richiesta. Di particolare importanza,

nei processi per associazione mafiosa, è la statuizione del primo comma del summenzionato

articolo:” Il giudice, sentite le parti, provvede con ordinanza all‟ammissione delle prove a

norma degli articoli 190 e 190 bis.203

Quando è stata ammessa l‟acquisizione di verbali di

prove di altri procedimenti, il giudice provvede in ordine alla richiesta di nuova assunzione

della stessa solo dopo l‟acquisizione della documentazione relativa alla prova dell‟altro

201

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 337-339. 202

Ibidem. 203

Si Veda sopra, par. 2.4.1.

86

procedimento” (comma cosi modificato dal solito d.l. 8 giugno 1992, n. 306 e convertito in L.

7 agosto 1992, n. 356).

Questa fase si pone in posizione autonoma ed indipendente rispetto al predibattimento. Si

possono avere casi, ad esempio, di autorizzazioni all‟ammissione della prova in

predibattimento superate dall‟ordinanza successiva di inammissibilità della prova. Può darsi

che, al contrario, l‟ordinanza dibattimentale d‟ammissione non sia preceduta da alcun

provvedimento predibattimentale.204

Infine, come indicato all‟art. 495 comma secondo c.p.p., “l‟imputato ha diritto all‟ammissione

delle prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico; lo stesso

diritto spetta al pubblico ministero in ordine alle prove a carico dell‟imputato sui fatti

costituenti oggetto delle prove a discarico”. In una simile situazione l‟ordinanza

dibattimentale d‟ammissione punta sul thema indicato da una delle parti, a prescindere dalle

esperienze del predibattimento.205

L‟analisi del dibattimento prosegue, arrivando al Capo III rubricato “Istruzione

dibattimentale”. Questo termine non sta ad indicare un momento separato e distinto dal

dibattimento in senso stretto. Questa visione del processo penale, propria del codice

204

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 339-341. 205

Ibidem.

87

previgente, attualmente è profondamente mutata. Istruzione e dibattimento sono da intendersi

come “un‟unica esperienza, che è l‟esperienza del dibattimento, effettivamente aperto

all‟istruzione probatoria”. Il codice, cioè, indica con il termine “istruzione dibattimentale” il

momento dell‟istruzione probatoria.206

Le operazioni in oggetto, e non poteva essere diversamente, sono disciplinate dalla legge

secondo una precisa scansione, a partire dall‟ordine nell‟assunzione delle prove. Ex art. 496

c.p.p. comma 1 “l‟istruzione dibattimentale inizia con l‟assunzione delle prove richieste dal

pubblico ministero e prosegue con l‟assunzione di quelle richieste da altre parti, nell‟ordine

previsto dall‟articolo 493 comma 1”; sempreché le parti non concordino un diverso ordine di

assunzione delle prove, deroga concessa dal secondo comma dell‟art. 496 che è

“perfettamente in linea con il „modello accusatorio‟ e fa anche salve le contingenti esigenze

delle parti”.207

A seguire, il codice prevede la regolamentazione normativa dell‟esame testimoniale. In

primis, con uno sguardo rivolto meramente all‟aspetto organizzativo, l‟art. 498 c.p.p. regola

l‟esame ed il controesame dei testimoni. Le domande saranno rivolte dal pubblico ministero,

dal difensore che ha chiesto l‟esame del testimone ed infine da tutte le altre parti che non

206

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 341-343. 207

Ibidem.

88

hanno chiesto l‟esame, seguendo l‟ordine indicato dall‟art. 496 c.p.p. Particolari tutele sono

previste nel caso di esame testimoniale del minorenne.

L‟art. 499 regola, in modo specifico, le modalità nelle quali deve avvenire l‟esame

testimoniale. La norma ha un forte impatto e rilievo rispetto alla legislazione sui collaboratori

di giustizia, tant‟è che importanti riferimenti in tal senso possono rintracciarsi ex art. 16 sexies

del d.l. 8/1991, convertito in L. 82/1991 ed inserito ex art. 12 della L. 13 febbraio 2001, n. 45.

Questo prevede che “quando si deve procedere all'interrogatorio o all'esame del collaboratore

quale testimone o persona imputata in un procedimento connesso o di un reato collegato a

quello per cui si procede nel caso previsto dall'articolo 371, comma 2, lettera b), del codice di

procedura penale il giudice, su richiesta di parte, dispone che sia acquisito al fascicolo del

pubblico ministero il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione di cui all'articolo

16-quater limitatamente alle parti di esso che concernono la responsabilità degli imputati nel

procedimento”. Ad ulteriore garanzia, il secondo comma del summenzionato articolo prevede

che, sempre su richiesta di parte, il giudice dispone “l'acquisizione di copia per estratto del

registro tenuto dal direttore del carcere in cui sono annotati il nominativo del detenuto o

internato, il nominativo di chi ha svolto il colloquio a fini investigativi, la data e l'ora di inizio

e di fine dello stesso, nonché di copia per estratto del registro di cui al comma 3 dell'articolo

18-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, per la parte relativa ai

colloqui a fini investigativi intervenuti con il collaboratore“.

89

Ritornando all‟art. 499 c.p.p., il primo comma recita testualmente:” L‟esame testimoniale si

svolge mediante domande su fatti specifici”. L‟obiettivo è quello di evitare narrazioni che

porterebbero ad esaurire con un'unica risposta il thema probandum, compromettendo la lealtà

dell‟esame.208

“Nell‟esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione del testimone e da quella che ha

un interesse comune sono vietate le domande che tendono a suggerire le risposte”. Ecco che il

terzo comma, vietando le leading questions nella direct examination, “mira ad evitare le

dichiarazioni pilotate dell‟esaminato”.209

Ancora, il quinto comma dell‟art. 499 c.p.p. prevede che “il testimone può essere autorizzato

dal presidente a consultare, in aiuto della memoria, documenti da lui redatti”, con un rinvio a

quanto previsto dall‟art. 501 secondo comma e 514 secondo comma c.p.p. in riferimento alla

consultazione di atti e documenti da parte di periti, consulenti tecnici, ufficiali ed agenti di

polizia giudiziaria.210

Durante l‟esame il presidente “cura che l‟esame del testimone sia condotto senza ledere il

rispetto della persona” ed “anche d‟ufficio, interviene per assicurare la pertinenza delle

domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell‟esame e la correttezza delle contestazioni,

ordinando, se occorre, l‟esibizione del verbale nella parte in cui le dichiarazioni sono state

utilizzate per le contestazioni”. Ecco che l‟art. 499 c.p.p., ai commi quarto e sesto, affida al

208

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 343-347. 209

Ibidem. 210

Ibidem.

90

presidente un ruolo di “arbitro” e di attento osservatore dell‟esame testimoniale, per impedire

alle parti di violare impunemente le regole poste dal codice di procedure.211

Quanto deposto nel corso dell‟esame testimoniale potrà essere contestato dalle parti ex art.

500 c.p.p., nelle ipotesi di “constatata divergenza fra le dichiarazioni rese dal teste”.212

La

contestazione dell‟esame muove, cioè, dalle letture delle dichiarazioni. Il primo comma

dell‟art. 500 c.p.p. recita, infatti, che “fermi i divieti di lettura e di allegazione, le parti, per

contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione, possono servirsi delle

dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico

ministero. Tale facoltà può essere esercitata solo se sui fatti o sulle circostanze da contestare il

testimone abbia già deposto”. Il limite che la legge riconosce alla facoltà di contestare è data

dall‟utilizzabilità, ai fini della contestazione, dei soli atti inclusi nel fascicolo del pubblico

ministero e rese dal teste allo stesso pubblico ministero o alla polizia giudiziaria.213

La ragione che ha spinto il legislatore verso questa direzione è desumibile da un passaggio

della relazione al progetto preliminare del codice: “Con questa scelta si è inteso far fronte a

due esigenze: da un lato circoscrivere le deroghe al principio di oralità, definendo in modo

rigoroso l‟area delle possibili contestazioni; dall‟altro rendere più scorrevole l‟esame

211

Ivi, pag. 89. 212

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 347-349. 213

Ibidem.

91

incrociato, limitando inevitabili incidenti sull‟allegabilità al fascicolo d‟ufficio degli atti

adoperati per le contestazioni”.214

Ma l‟ipotesi di divergenza tra le dichiarazioni rese dal teste prima del dibattimento e nel corso

del dibattimento, che ha maggior peso e rilievo nell‟ambito dei procedimenti per

associazionismo mafioso, è data dai commi 4 e 5 dell‟art. 500 c.p.p. Secondo i punti indicati

“quando, anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per

ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro

o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel

fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al

fascicolo del dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono essere utilizzate.

Sull‟acquisizione di cui al comma 4 il giudice decide senza ritardo, svolgendo gli

accertamenti che ritiene necessari, su richiesta della parte, che può fornire gli elementi

concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o

promessa di denaro o di altra utilità”. La norma, cosi come modificata dall‟art. 16 della L. 63/

2001 (cd. Legge sul Giusto processo), è diretta emanazione del principio costituzionale di cui

all‟art. 111 comma 5 della Carta fondamentale, secondo il quale “la legge regola i casi in cui

la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell‟imputato o per

accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita”.215

214

Ivi, pag. 90. 215

Scaglione, Dichiarazioni procedimentali e giusto processo, Torino, 2005, pag. 112 ss.

92

La verifica dei fattori di adulterazione della prova, entro i margini degli “elementi concreti”

emersi in dibattimento e che inducono a ritenere la prova inquinata, pone alcuni quesiti in

ordine allo statuto probatorio vigente.216

Ci si chiede, anzitutto, se questa fase debba essere

governata dalle norme procedurali in materia probatoria ex artt. 187 comma 2, 190, 191 e 238

c.p.p.217

Questo accertamento, caratterizzato dall‟essere libero ed informale, pone l‟incognita

sull‟utilizzabilità delle prove illecite e sugli effetti di questa valutazione sul giudizio finale di

merito.218

A livello interpretativo si ritiene che, ai fini dell‟acquisizione del verbale, non rilevi la

provenienza della condotta illecita. Tale condotta, tanto che promani dall‟imputato che da

altro autore, deve configurare un fatto illecito posto in essere sul dichiarante e non realizzate

dal dichiarante.219

Condotta illecita che si potrà desumere da elementi di prova emergenti

anche al di fuori del dibattimento, in quanto la dichiarazione “inquinata” potrà rilevarsi anche

in fasi precedenti il dibattimento e senza con ciò venir meno al principio del contraddittorio ex

art. 111 Cost.220

216

Maggio Paola, Il testimone “forte”: specificità ed anomalie della prova dichiarativa nei processi di criminalità organizzata, Dir. Pen. e Processo, 2006, 2, 225. 217

Ferrua, la regola d’oro del processo accusatorio, in AA.VV. Il giusto processo tra contraddittorio e diritto al silenzio, a cura di Kostoris, Torino, 2002, 20. 218

Maggio Paola, op. cit. 219

Ibidem. 220

Nobili, Giusto processo e indagini difensive: verso una nuova procedura penale?, Dir. Pen. E processo, 2001.

93

Inoltre, per interpretare in modo costituzionalmente orientato i commi 4 e 5 dell‟art. 500

c.p.p., le dichiarazioni acquisite non dovrebbero soffermarsi su argomenti meramente

sociologici e culturali.221

L‟inquinamento probatorio e l‟intimidazione del teste dovrebbe valutarsi, quindi, su elementi

differenti da quelli richiesti per adottare una sentenza di condanna.222

Nell‟ambito dell‟art.

500 c.p.p. è sufficiente “che il complesso delle circostanze emerse e/o accertate al

dibattimento delinei un quadro concreto atto a suffragare un ragionevole convincimento

sull‟incidenza di una condotta esterna illecita che abbia condizionato negativamente il

testimone, o perché sottoposto a minaccia o intimidazione, o perché subornato”.223

Nell‟alveo di questo “microaccertamento” probatorio ci si muove, in definitiva, tra l‟utilizzo

di massime d‟esperienza relative all‟ambiente culturale mafioso ed il timore di azzardati

condizionamenti culturali slegati da situazioni effettivamente emergenti nel caso concreto.224

Un ulteriore profilo derogatorio dei principi di oralità e contradditorio emerge, in riferimento

al dibattimento, trattando il tema delle letture consentite. Queste sono disciplinate, in primis,

dall‟art. 511 c.p.p., il cui primo comma prevede che “il giudice, anche di ufficio, dispone che

sia data lettura, integrale o parziale, degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento”. Le

letture, quindi, sono disposte a conclusione dell‟istruzione dibattimentale, salvo i casi in cui

221

Maggio Paola, op. cit. pag. 92. 222

Trib. Palermo, 29 ottobre 2002, Di Pisa, in Giur. Merito, 2003, 499. 223

Maggio Paola, op. cit. pag. 92. 224

Ibidem.

94

queste sostituiscano l‟esame perché è divenuto “oggettivamente impossibile la ripetizione al

dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese dalla parte o dal testimone”.225

In altri casi l‟esame della persona deve obbligatoriamente precedere la lettura.226

Tale ipotesti

è indicata all‟art.511 comma 2 e 3 c.p.p. :” la lettura di verbali di dichiarazioni è disposta solo

dopo l‟esame della persona che le ha rese, a meno che l‟esame non abbia luogo. La lettura

della relazione peritale è disposta solo dopo l‟esame del perito”.

L‟art. 511 c.p.p. menziona, al comma 5, una forma equipollente delle letture.227

In tal punto si

indica che “in luogo della lettura, il giudice, anche di ufficio, può indicare specificamente gli

atti utilizzabili ai fini della decisione. L‟indicazione degli atti equivale alla loro lettura. Il

giudice dispone tuttavia la lettura, integrale o parziale, quando si tratta di verbali di

dichiarazioni e una parte ne fa richiesta. Se si tratta di altri atti, il giudice è vincolato alla

richiesta di lettura solo nel caso di un serio disaccordo sul contenuto di essi”.

L‟indicazione degli atti da parte del giudice risponde ad ovvie esigenze di economia

processuale, già introdotte nel nostro ordinamento con la L. 13 febbraio 1987, n. 29.228

La distinzione tra lettura ed indicazione sta in questo: “mentre la lettura abbina la

dichiarazione dell‟utilizzabilità dell‟atto (del fascicolo per il dibattimento) al controllo coram

225

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 350-351. 226

Ibidem. 227

Ibidem. 228

Ibidem.

95

populo del contenuto di esso, l‟indicazione coordina questa dichiarazione al controllo da

esercitare in camera di consiglio; al momento, quindi, dell‟effettiva utilizzazione dell‟atto”.229

Questa facoltà di indicazione da parte del giudice incontra due limiti, previsti dal

summenzionato comma. Il primo è quello relativo alla lettura, integrale o parziale, dei verbali

di dichiarazioni su richiesta della parte interessata ad una verificale corale degli stessi.230

Il secondo limite individuato è nel caso di “serio disaccordo” sul contenuto di atti diversi dalle

dichiarazioni. “Serio disaccordo” riferibile ad atto, inserito nel fascicolo per il dibattimento,

posto in discussione solo pro parte o di cui se ne contesta solo parte del contenuto.231

Il tema delle letture consentite non è affatto neutrale per i procedimenti penali in materia di

criminalità organizzata di stampo mafioso, a partire dall‟art. 511 bis c.p.p. secondo cui “il

giudice, anche di ufficio, dispone che sia data lettura dei verbali degli atti indicati nell‟articolo

238. Si applica il comma 2 dell‟articolo 511”. Si tratta di una norma assai rilevante in materia,

introdotto dal più volte citato d.l. 8 giugno 1992 n. 306 e convertito in L. 7 agosto 1992 n.

356, che riconosce un potere integrativo ex officio del giudice per la lettura di verbali di

prove di altri procedimenti successivi all‟esame della persona che ha reso dichiarazione.232

Le citate norme del 1992 hanno introdotto, nel codice di procedura penale, l‟art. 512 bis

rubricato “Lettura di dichiarazioni rese da persona residente all'estero”. L‟articolo, sostituito

dall'art. 43 L. 16 dicembre 1999 n. 479, statuisce che “il giudice, a richiesta di parte, può

229

Ivi, pag. 94. 230

Ibidem. 231

Ibidem. 232

Ibidem.

96

disporre, tenuto conto degli altri elementi di prova acquisiti, che sia data lettura dei verbali di

dichiarazioni rese da persona residente all'estero anche a seguito di rogatoria internazionale se

essa, essendo stata citata, non è comparsa e solo nel caso in cui non ne sia assolutamente

possibile l'esame dibattimentale”. Cosi come delineata dalla novella del 1999, la norma è

applicabile a tutti i soggetti residenti all‟estero, a prescindere dalla loro nazionalità233

; mentre

nella precedente versione dell‟art. 512 bis si faceva riferimento alla “lettura dei verbali di

dichiarazioni rese dal cittadino straniero residente all'estero”. Nell‟ipotesi in commento

rientrano, cosi, anche le dichiarazioni rilasciate da un cittadino italiano al di fuori dei confini

nazionali.234

La norma in esame, successivamente alla riforma del 1999, è assai più rispettosa

della previsione di cui all‟art. 111 comma 5 Cost. L‟acquisizione dei verbali di dichiarazioni

rese fuori dall‟aula dibattimentale sarà esperibile li dove risulti in maniera assoluta

l‟impossibilità di ripetizione in dibattimento, mediante esame in contraddittorio del

dichiarante (mentre,nella versione successivamente “emendata”, si faceva riferimento alla

persona non citata o, se citata, non comparsa) .235

Impossibilità assoluta data dal ricorrere di

circostanze oggettive, quali morte o infermità psico-fisica del teste, o da una irreperibilità

dello stesso teste che sia provata in modo irrefutabile.236

Sulla impossibilità di ripetizione

dell'atto decide il giudice, emettendo un‟ordinanza nella quale dovrà motivare la propria

233

Ciro Santoriello. La nuova versione dell'art. 512-bis c.p.p. dopo la novella legislativa, legge n. 479 del 1999 (cosiddetta legge Carotti), 23 Febbraio 2001. 234

Ibidem. 235

Ibidem. 236

Ibidem.

97

valutazione. L'ordinanza che dispone la lettura dell'atto non è impugnabile autonomamente,

“ma l'eventuale vizio dell'ordinanza ridonderà in vizio della sentenza di merito, che risulterà

fondata su prove inutilizzabili perché assunte illegittimamente, in violazione del principio del

contraddittorio”.237

La nuova previsione in tema di letture di dichiarazioni rese da persone residente all'estero, va

coordinata con la previsione dell'art. 431 c.p.p., lett. f), parimenti modificata dalla legge n.

479 del 1999, art. 26.238

Questa riforma prevede, infatti, che nel fascicolo del dibattimento

possono essere inserite solo le dichiarazioni assunte a seguito di rogatoria, a cui "i difensori

sono stati posti in grado di assistere o di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge

italiana". L'utilizzabilità dibattimentale dei verbali di atti assunti all'estero non dipenderà,

quindi, “solo dalla conformità degli stessi alla legge del luogo in cui la rogatoria ha avuto

luogo, secondo la previsione di cui all'art. 729 c.p.p., occorrendo anche che venga rispettato il

principio sopra accennato, in aderenza al valore del contraddittorio quale metodo principale

per la formazione della prova”.239

Rimanendo sempre nell‟ambito delle letture consentite in fase dibattimentale, guardando alle

letture rilevanti nei processi di mafia, l‟analisi passa alla disposizione di cui all‟art. 513 c.p.p.

rubricato “Lettura delle dichiarazioni rese dall`imputato nel corso delle indagini preliminari o

nell`udienza preliminare”. La norma, inserita nel nostro sistema processualpenalistico dalla L.

237

Ivi, pag. 96. 238

Ibidem. 239

Ibidem.

98

7 agosto 1997 n. 267 e modificata dalla L. 1 marzo 2001 n. 63 (cd. Legge sul giusto

processo), al comma 1 recita che “il giudice, se l‟imputato è contumace o assente ovvero

rifiuta di sottoporsi all‟esame, dispone, a richiesta di parte, che sia data lettura dei verbali

delle dichiarazioni rese dall‟imputato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega

del pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o dell‟udienza

preliminare, ma tali dichiarazioni non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il

loro consenso salvo che ricorrano i presupposti di cui all‟articolo 500, comma 4”. La regola,

che differisce le letture nel corso dell‟istruzione dibattimentale240

, comporta maggiori

discussioni ed approfondimenti al comma 2 :”se le dichiarazioni sono state rese dalle persone

indicate nell‟articolo 210, comma 1 il giudice, a richiesta di parte, dispone, secondo i casi,

l‟accompagnamento coattivo del dichiarante o l‟esame a domicilio o la rogatoria

internazionale ovvero l‟esame in altro modo previsto dalla legge con le garanzie del

contraddittorio. Se non è possibile ottenere la presenza del dichiarante, ovvero procedere

all‟esame in uno dei modi suddetti, si applica la disposizione dell‟articolo 512 qualora

l‟impossibilità dipenda da fatti o circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni,

Qualora il dichiarante si avvalga della facoltà di non rispondere, il giudice dispone la lettura

dei verbali contenenti le suddette dichiarazioni soltanto con l‟accordo delle parti”.

240

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 350-351.

99

La seconda parte di questo comma era stata colpita, nella versione precedente alla novella del

2001, da una sentenza di illegittimità costituzionale ( sent. 2 novembre 1998, n. 361) che

innanzitutto, con una previsione di carattere puramente additivo241

, aveva indicato come

“qualora il dichiarante rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti

concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in

mancanza dell'accordo delle parti alla lettura si applica l'art. 500 commi 2-bis e 4 del codice di

procedura penale”.

La summenzionata sentenza della Corte Costituzionale non ha avuto solamente effetti di

natura additiva: nella parte in cui questa aveva stabilito che l'art. 210 c.p.p., e con esso l'art.

513 comma 2 c.p.p., sono applicabili all'esame dell'imputato quando quest'atto verte su fatti

concernenti la responsabilità di altri, già oggetto di precedenti dichiarazioni., si ottiene una

parificazione tra imputato esaminato sul fatto altrui e imputati in separati procedimenti

connessi o collegati.242

In tal modo i giudici delle leggi hanno raggiunto la sostituzione di una regolamentazione

preesistente, quella che disciplinava l'esame dell'imputato nel medesimo procedimento e le

eventuali letture (art. 513 comma 1 c.p.p.) a prescindere dal tenore delle dichiarazioni, con

una diversa, quella sancita, appunto, dagli odierni art. 210 e 513 comma 2 c.p.p. Ecco che, in

questa accezione, la sentenza corrisponde allo schema tipico delle pronunce manipolatrici

241

Mazza Oliviero, Illegittimità costituzionale dell’art. 513 C.P.P. e processi pendenti, Dir. Pen. e Processo, 1999, 1, 100. 242

Ibidem.

100

sostitutive.243

Sentenza che ha aperto il viatico alle modifiche apportate alla norma in esame

dalla L. 63 del 2001 sopra menzionata, emendando in maniera costituzionalmente orientata

l‟art. 513 c.p.p.

3.5.3. Gli atti successivi al dibattimento.

La terza fase del giudizio è costituita dal postdibattimento; fase che prende avvio nel

momento in cui l‟ufficio della decisione si ritira in camera di consiglio per deliberare (art. 525

c.p.p.) e si conclude con il deposito della sentenza, che fa cessare qualsiasi rapporto tra il

giudice ed il procedimento (art. 548 c.p.p.).244

Di grande utilità, per comprendere le dinamiche

relative a questa terza fase dibattimentale, sono le parole di Foschini: ”il contraddittorio non

termina ed ancor meno esaurisce la sua funzione con il chiudersi del dibattimento, ma

prosegue anche nel postdibattimento. In questo non vi è solo un atto di decisione del giudice,

libero ed autonomo, ma un complesso di atti conclusivi del contraddittorio”.245

Quanto detto emerge distintamente dalla lettura degli artt. 525 e 526 c.p.p. Il primo enuncia

che “la sentenza è deliberata subito dopo la chiusura del dibattimento”, deliberazione alla

quale concorrono “gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento”. L‟immediatezza

della deliberazione “esalta il nesso di consequenzialità intercorrente fra il dibattimento e la

243

Ivi, pag. 99. 244

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 363-365. 245

Ibidem.

101

deliberazione stessa, perché consente di valorizzare nella migliore maniera possibile i ricordi

e le impressioni riportate nel corso dell‟istruzione dibattimentale”.246

Immediatezza e stretta connessione tra fase dibattimentale e postdibattimentale che emerge

quale ratio fondante dell‟art. 526 c.p.p.247

, secondo il quale “il giudice non può utilizzare ai

fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento. La

colpevolezza dell‟imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per

libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all‟esame da parte dell‟imputato o del suo

difensore”.

Una apposita disciplina viene individuata, ex art. 527 c.p.p., per le deliberazioni collegiali (ex

art. 33 bis lettera c) c.p.p. il tribunale in composizione collegiale si vede attribuiti i delitti di

cui all‟art. 416 bis c.p.); disciplina basata sulla collegialità della discussione, sulla priorità

logica delle questioni processuali rispetto alle questioni di merito e sul favor rei.248

Partendo dalla collegialità della discussione, l‟art. 527 comma 2 c.p.p. enuncia che “tutti i

giudici enunciano le ragioni della loro opinione e votano su ciascuna questione qualunque sia

stato il voto espresso sulle altre”. Sarà il presidente a raccoglierne i voti, iniziando dal giudice

con minore anzianità di servizio (stesso criterio per i giudici popolari in corte d‟assise).

246

Ivi, pag. 100. 247

Ibidem. 248

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 365-366.

102

La priorità logica delle questioni processuali sulle questioni di merito è materia dell‟art. 527

comma 1 c.p.p., secondo il quale “il collegio, sotto la direzione del presidente, decide

separatamente le questioni preliminari non ancora risolte e ogni altra questione relativa al

processo. Qualora l‟esame del merito non risulti precluso dall‟esito della votazione, sono

poste in decisione le questioni di fatto e di diritto concernenti l‟imputazione e, se occorre,

quelle relative all‟applicazione delle pene e delle misure di sicurezza nonché quelle relative

alla responsabilità civile”.

Infine, riguardo al favor rei, il comma 3 del summenzionato articolo prevede che “se nella

votazione sull‟entità della pena o della misura di sicurezza si manifestano più di due opinioni,

i voti espressi per la pena o la misura di maggiore gravità si riuniscono a quelli per la pena o

la misura gradatamente inferiore, fino a che venga a risultare la maggioranza. In ogni altro

caso, qualora vi sia parità di voti, prevale la soluzione più favorevole all‟imputato”.

Il risultato a cui mira il dibattimento è la sentenza. La trattazione delle sentenze può

efficacemente realizzarsi con una suddivisione delle stesse in tre categorie: sentenze di non

doversi procedere, sentenze di assoluzione e sentenze di condanna.

La sentenza di non doversi procedere è pronunziata dal giudice, ex art. 529 c.p.p., nel caso in

cui “l‟azione penale non doveva essere iniziata o non doveva essere proseguita” o “quando la

prova dell‟esistenza di una condizione di procedibilità è insufficiente o contraddittoria”. In

questa ipotesi normativa, come si può evincere da un passaggio della relazione al progetto

103

preliminare del codice, “confluiscono non solo le situazioni di difetto di una delle condizioni

di procedibilità propriamente dette (querela, istanza, richiesta e autorizzazione, oltre

naturalmente a quelle disciplinate fuori dal codice), ma anche quelle situazioni che

costituiscono, in modi diversi, altrettante cause d‟improcedibilità, come ad esempio l‟errore di

persona”.249

La sentenza di non doversi procedere si avrà anche, ex art. 531 c.p.p., nel caso di estinzione

del reato o di dubbia esistenza di una causa di estinzione del reato. In questa ipotesi si tratta di

sentenze di merito, in quanto “il giudice non nega il processo, ma il dovere di punire, sia pure

sul presupposto ipotetico che esista il reato del quale dichiara l‟estinzione”.250

Gli effetti di questa prima categoria di sentenze sono indicati all‟art. 532 c.p.p., ossia “la

liberazione dell‟imputato in stato di custodia cautelare” e “la cessazione delle altre misure

cautelari personali eventualmente disposte”; nonché la falsità, accertata nel corso del

processo, di un atto o di un documento (art. 537 comma 4 c.p.p.).251

La sentenza di assoluzione è disciplinata all‟art. 530 c.p.p. Seguendo l‟ordine della norma, il

primo comma prevede che si avrà sentenza d‟assoluzione “se il fatto non sussiste, se

l‟imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge

come reato ovvero se il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per

249

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 372-375. 250

Ibidem. 251

Ibidem.

104

un‟altra ragione, il giudice pronuncia sentenza d‟assoluzione indicandone la causa nel

dispositivo”. Le questione relative all‟assoluzione sopra indicate sono di merito, intervenendo

nell‟ordine prima le quaestiones facti e poi le quaestiones juris: risolta negativamente la

questione circa la sussistenza del fatto e la commissione dello stesso da parte dell‟imputato,

non vi è spazio per le questioni relative alla liceità penalistica del fatto.252

Le cause dell‟assoluzione sono ulteriormente distinguibili in due categorie o “formule”:

assoluzione in factum conceptae ed assoluzione in jus conceptae.253

Le prime intervengono

quando è stata la soluzione di una questione di fatto a definire il processo. In riferimento

all‟art. 530 comma 1 c.p.p. si tratta delle ipotesi di assoluzione perché il fatto non sussiste,

perché l‟imputato non ha commesso il fatto, perché l‟imputato non è imputabile o punibile.

Le seconde intervengono, invece, nei casi di fatto che non costituisce reato e di fatto che non è

previsto dalla legge come reato (la prima ipotesi esprime un fatto materiale corrispondente ad

una fattispecie astratta di reato, mancando però qualche elemento; la seconda ipotesi fa invece

riferimento a fatti materiali privi di alcuna rilevanza penale).254

La sentenza di assoluzione verrà pronunciata dal giudice, ex art. 530 comma 2 e 3 c.p.p.,

“anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che

l‟imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da

persona imputabile.

252

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 375-379. 253

Ibidem. 254

Ibidem.

105

Se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di

una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull‟esistenza delle stesse, il giudice

pronuncia sentenza di assoluzione a norma del comma 1”. Le prove qui menzionate potranno

essere positive o negative, in ordine all‟innocenza o responsabilità dell‟imputato.255

Ancora, si

parla di prove insufficienti quando queste sono incomplete, e di prove contraddittorie quando

risulta insanabile il contrasto tra le acquisizioni “a favore” e “contro” l‟imputato.256

Infine, ex art. 530 comma 4 c.p.p., “con la sentenza di assoluzione il giudice applica, nei casi

previsti dalla legge, le misure di sicurezza”. Solitamente ciò comporta la liberazione

dell‟imputato in stato di custodia cautelare e la cessazione delle ulteriori ed eventuali misure

di sicurezza, con la relativa condanna di querelante e/o parte civile alla rifusione delle spese

processuali ed al risarcimento dei danni a favore dell‟imputato (nei casi in cui l‟assoluzione

intervenga perché il fatto non sussiste o perché l‟imputato non lo ha commesso).257

La terza ed ultima categoria di sentenze, disciplinata dall‟art. 533 c.p.p., è quella di condanna.

Con questa sentenza il giudice afferma la responsabilità dell‟imputato e, contestualmente,

applica la pena.258

In tal senso, il comma 1 del summenzionato articolo è perentorio: “Il

giudice pronuncia sentenza di condanna se l‟imputato risulta colpevole del reato contestatogli

255

Ivi, pag. 104. 256

Ibidem. 257

Ibidem. 258

D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 379-381.

106

al di là di ogni ragionevole dubbio. Con la sentenza il giudice applica la pena e le eventuali

misure di sicurezza”. La piattaforma probatoria su cui si basa la scelta del giudice, al fine di

arrivare ad una condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”, è data dai temi di prova circa

“i fatti che si riferiscono all‟imputazione ed alla punibilità” (art. 187 comma 1 c.p.p.) ed alla

loro verifica che porta alla prova positiva di responsabilità. In questo procedimento si vuole

evitare la formazione di lacune e di incertezze colmabili “dall‟intimo convincimento del

giudice”, per arrivare ad uno standard di valutazione della responsabilità penale.259

Procedimento che, conseguentemente, sia rispettoso delle garanzie proprie del processo

penale quali la presunzione d‟innocenza, l‟onere della prova a carico dell‟accusa, la

colpevolezza espressa in termini di “alto grado di credibilità razionale” e di “probabilità

prossima o confinante con la certezza”.260

Senza dimenticare che, in riferimento ai procedimenti penali per i delitti di cui all‟art. 416 bis

c.p., il comma 3 bis dell‟art. 533 c.p.p. prevede che “quando la condanna riguarda

procedimenti per i delitti di cui all‟articolo 407, comma 2, lettera a), anche se connessi ad altri

reati, il giudice può disporre, nel pronunciare la sentenza, la separazione dei procedimenti

anche con riferimento allo stesso condannato quando taluno dei condannati si trova in stato di

custodia cautelare e, per la scadenza dei termini e la mancanza di altri titoli, sarebbe rimesso

in libertà”.

259

Ivi, pag. 105. 260

Ibidem.

107

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