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LIBRO 4 – Prima Edizione Pre-Stampa (17 agosto 2014). Nessuna parte di questo libro può essere usata per qualsiasi motivo senza l’autorizzazione dell’autore. ANTONINO ZICHICHI IL MONDO A NOI VICINO E QUELLO A NOI LONTANO 1 st DRAFT NOT TO BE CIRCULATED

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LIBRO 4 – Prima Edizione Pre-Stampa (17 agosto 2014).Nessuna parte di questo libro può essere usata per qualsiasi motivo senza l’autorizzazione dell’autore.

ANTONINO ZICHICHI

IL MONDO A NOI VICINO

E QUELLO A NOI LONTANO

1 st DRAFT NOT TO BE CIRCULATED

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LIBRO 4 – Prima Edizione Pre-Stampa (17 agosto 2014).

ANTONINO ZICHICHI

IL MONDO A NOI VICINO E QUELLO A NOI LONTANO

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IL MONDO A NOI VICINO E QUELLO A NOI LONTANO

INDICE

I INTRODUZIONE 11

II IL MONDO A NOI VICINOII.1 La vita e le sue originiII.1-1 Dai Buchi Neri alla vita (A40-03)II.1-2 Un satellite alla ricerca della vita su una Cometa (A10-03)II.1-3 Vita su Marte? (A7-04)

II.1-4 I nanobatteri: la forma più minuscola di materia vivente. (A24-04) La farfalla più antica (A21-04)

II.1-5 Ritrovato un roditore gigante vissuto settecento milioni di anni fa (N5-04)

II.1-6 La prima radice dell’albero della vita risale a 560 milioni di anni fa (F1-04)

II.1-7 Il più antico Australopiteco (N40-03)II.1-8 Ominide di un milione e ottocentomila anni fa: mancava all’appello

(N11-03)II.1-9 Tracce di fuoco nel paleolitico inferiore (F10-04)II.1-10 Chi ha sterminato i nostri cugini di Neanderthal (S19-04) = S18-04II.1-11 Scoperto un nuovo dinosauro in India (S39-03)II.1-12 Le origini della civiltà. Il linguaggio delle Stelle (A8-03)II.1-13 Messa in crisi l’origine dell’Eva Africana (N45-02)II.1-14 Le origini antiche della stirpe indiana (S8-03)II.1-15 Le impronte più antiche della specie “homo” (S13-03)II.1-16 Il dolore muto dei pesci (F37-03)II.1-17 Il più piccolo cavallo mai visto (N37-03)

II.2 Le radici della civiltàII.2-1 Atlantide: mito e realtà del continente scomparso (A12-02)II.2-2 Scoperti i cosmetici dei nostri antenati (S27-02)II.2-3 Una scoperta archeologica fuori programma (S38-02)

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II.2-4 Un’importante scoperta archeologica (F41-02)II.2-5 Chi ha scoperto l’America? (N1-03)II.2-6 Scoperto in Cina il quarto esempio di tomba con un’armata di

terracotta sepolta (N4-03)II.2-7 Scoperte in Canada le più antiche rocce vulcaniche del mondo (S4-03)II.2-8 Trovata in Germania la più antica rappresentazione del cielo fatta in

Europa (A5-03)II.2-9 Gli schiavi di Pompei (S7-03)II.2-10 Le tracce genetiche di Gengis Khan (S12-03)II.2-11 Le prime mummie scoperte in Inghilterra (F14-03)II.2-12 Le antiche strade in Siria e Iraq non più segreto militare (N15-03)II.2-13 Il più vecchio fossile ringiovanisce in Australia (N20-03)II.2-14 Scoperta la più antica icona della cultura religiosa nel continente

americano (N21-03)II.2-15 Scoperta un’antica civiltà pre-Maya (N23-03)II.2-16 Trovata (forse) la più antica scultura del mondo (F26-03)II.2-17 Le origini della moneta (S29-03)II.2-18 Non ce n’era alcuna fino a oggi (N43-03)II.2-19 La più antica tela di ragno (N44-03)II.2-20 Scoperte con il laser nuove incisioni della più antica arte britannica

(S51-03)II.2-21 Un primato della civiltà faraonica (N1-04)II.2-22 Il riso più antico risale a 15.000 anni fa (N10-04)II.2-23 La birra dei faraoni (N14-04)II.2-24 I brasiliani scoprono di essere più indiani che portoghesi (N34-02)

II.3 Fede, Crocifisso e CalendarioII.3-1 Miracoli e scoperte scientifiche (A22-02)II.3-2 La Pasqua e il Tempo: tra misticismo e realtà (A15-04)II.3-3 Il Calendario Gregoriano (A13-02)II.3-4 Trenta dì conta novembre. Perché? (A44-02)II.3-5 L’equinozio di primavera: grande scoperta di Euclide (A12-04)II.3-6 Anno bisesto non è funesto. Come nascono e a cosa servono i bisestili

(A9-04) II.3-7 Togliere il Crocefisso vuol dire cancellare le radici del Calendario

Perfetto (N47-03)

II.4 La nostra TerraII.4-1 Il Monte Bianco cresce (S43-01)II.4-2 L’Etna sta cambiando carattere: la lenta evoluzione del “gigante”

(A45-01)II.4-3 Conoscere meglio la velocità delle placche terrestri (F50-01)II.4-4 Prevedere i terremoti (S3-02)II.4-5 Potrebbero essere i Pirenei il vero “tetto del mondo” (A9-02)

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II.4-6 Capire l’“Oceano globale” per migliorare le previsioni meteorologiche (S12-02)

II.4-7 L’acqua incapsulata nelle viscere della Terra (S17-02)II.4-8 Una piccolissima Atlantide in India (N23-02)II.4-9 Di diamanti giovani ce ne sono pochi (N43-02)II.4-10 Come nasce il “rumore” del mare (S44-02)II.4-11 Uragani: gli studi su un fenomeno devastante della natura (A45-02)II.4-12 Terremoti sotto analisi (S45-02)II.4-13 L’origine comune a tutti i terremoti (A47-02)II.4-14 Gli Alisei e i contro Alisei non potrebbero esistere se la Terra non

fosse sferica e non ruotasse a trottola (A50-02)

II.4-15 Novità nel moto delle placche terrestri (A5-03)= f5-03II.4-16 La neve e i terremoti (F12-03)II.4-17 Un buco profondo contro i terremoti: la proposta del geofisico

americano David J. Stevenson (A23-03)II.4-18 Nel cuore della Terra e in quello di Marte c’è il potassio (N25-03)II.4-19 Come raddoppiare la quantità di energia di origine geotermica (S25-

03)II.4-20 Il Mediterraneo era una distesa di Sale (A28-03)II.4-21 In Groenlandia fa più freddo (N29-03)II.4-22 Le Alpi l’Adriatico e la Sicilia (A37-03)II.4-23 Il Cervino è un pezzo d’Africa: la montagna valdostana è una

“anomalia” (A47-03)II.4-24 Perché è possibile una banca dati per i diamanti (N48-03)II.4-25 Grattacieli e montagne: i limiti della corsa a costruire edifici

sempre più alti (A5-04)II.4-26 Trecento anni per venire a capo del legame che esiste tra maremoti e

terremoti (F6-04)II.4-27 Terremoti e previsioni: novità sulla prevenzione dei fenomeni sismici

(A10-04)

II.4-28 Dighe e terremoti (S16-04) = S15-04II.4-29 L’acqua dell’era pre-lunare (N8-02)II.4-30 Al millimetro la distanza Terra-Luna (S13-02)II.4-31 Il fulmine più alto lega le nuvole alla Ionosfera (S15-02)II.4-32 Risolto un mistero della lava (N16-02)II.4-33 Fuiji (A17-04 da scrivere)II.4-34 Sessant’anni fa l’ultima emissione di lava del Vesuvio (N17-04da

scrivere)II.4-36 Aurore Boreali (Nord) e Australi (Sud) osservate simultaneamente per

la prima volta (N47-01)

III IL MONDO LONTANOIII.1 Segni Zodiacali e verità scientifiche (A3-02)

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III.2 Le Stelle dei segni zodiacali si muovono a velocità altissime (A27-02)III.3 La battaglia di Nettuno: l’ottavo satellite del Sole: Galilei, Adams, Le

Verrier (A36-03)III.4 Keplero e i 6 pianeti. Sono invece 9 (F41-01)III.5 Come nascono le Comete (F42-01)III.6 Una sorpresa nelle rocce della Luna (S44-01)III.7 Una conferma dallo Spazio della nostra esistenza privilegiata (N50-

01)III.8 La vita tra le Stelle (S51-01)III.9 I buchi neri emettono energia (F51-01)III.10 Oggetti quasi stellari (F1-02)III.11 Studiare Marte per capire la Terra (S2-02)III.12 Come sono nate le Galassie (F3-02)III.13 Nuove strade per capire le forze che ci tengono legati al Sole (S5-02)III.14 Affascinanti studi sulla vita da Marte a noi: la suggestiva ipotesi di

scienziati tedeschi (A11-02)III.15 Un vento da Giove (F14-02)III.16 Stiamo viaggiando nel mare di luce cosmica (F15-02)III.17 Alluvioni su Marte (S19-02)III.18 Di lampi cosmici ce ne sono mille al giorno (S25-02)III.19 L’oggetto cosmico più lontano è una Galassia (F27-02)III.20 I “tre pilastri” si stanno spegnendo (F28-02)III.21 Trentanove “Lune” attorno a Giove (N31-02)III.22 Un miliardo di “pianeti blu” (F38-02)III.23 400 briciole di Comete aprono una nuova finestra sul Sistema Solare

(A43-02)III.24 La “scala” degli asteroidi per valutarne il pericolo (A46-02)III.25 Scoperto un pianeta dove non se l’aspettava nessuno (N47-02)III.26 Scoperto il lontano più pianeta (F6-03)III.27 Il sogno di una seconda Luna (N49-02)III.28 Sonde su Venere per scoprire se c’è vita (S51-02)III.29 Le nuove Stelle nascono al ritmo di una al mese (A1-03)III.30 Due oggetti che passeggeranno tra le Stelle (S1-03)III.31 L’ultima scoperta dell’Astrofisica. Un miliardo di Stelle attorno alla

nostra Galassia (F4-03)

III.32 La più potente “lente” cosmica (A5-03) = S5-03III.33 Una nuova Luna per Giove (N8-03)III.34 Un Universo in espansione. Niente più collasso cosmico finale (A9-

03)III.35 C’è Vita su Giove? (F11-03)III.36 Un evento unico nella storia dell’Universo: una Galassia che deve

ancora nascere (N13-03)

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III.37 Scoperto il più lontano e pesante oggetto cosmico: un Buco Nero pari a tre miliardi di Soli. Sono i “buchi neri” i semi delle galassie? (A14-03)

III.38 Le ultime notizie da Giove: 58 Lune (N17-03)III.39 È di Ferro il cuore di Marte (N18-03)III.40 Un asteroide sulla Luna (N19-03)III.41 Anche Nettuno ha le sue stagioni (S23-03)III.42 Quattro candidati a “Buchi Neri” nelle “Nubi di Magellano” (S24-03)III.43 Missione su Marte (A26-03)III.44 Il Bismuto è un miliardo di volte più longevo dell’Universo (F27-03)III.45 Un buco pieno di Galassie (F30-03)III.46 Da dove veniamo ce lo faranno capire i telescopi spaziali (F33-03)III.47 Oltre Nettuno (F44-03)III.48 Hermes l’Asteroide ritrovato dopo 66 anni si avvicinerà alla Terra, ma

non troppo (A49-03)III.49 Plutino arriva dal freddo (N49-03) III.50 Una Stella inghiotte i suoi satelliti (F50-03)III.51 Due nuove Lune per Urano (N2-04)III.52 In diretta da Marte: le prospettive aperte dallo sbarco della sonda

“Spirit” (A3-04)III.53 La Stella più piatta finora scoperta (F4-04)III.54 La più grande mappa mai fatta dell’Universo e l’energia oscura (F5-

04)III.55 Acqua su Marte. Da dove viene? (A6-04)III.56 Scoperta una piccola Galassia dietro l’angolo (N11-04)III.57 Un asteroide minaccioso che viene da lontano: stavano per svegliare

Bush (N12-04)III.58 Il diamante più grande del mondo (F12-04)III.59 Sedna ha forse la sua Luna e obbedisce alle leggi che reggono il

mondo (N13-04)

III.60 Galassie in fila indiana (N15-04) = N24-04III.61 Niente acqua sulla Luna (A18-04)

III.62 Venere vista da vicino (N19-04) = N18-04III.63 Il secondo grande muro di Galassie (S21-04)

III.64 Scoperta la prima Galassia senza Stelle (A22-04) = A29-04

III.65 Un milione di miliardi di Stelle in un decimo del disco lunare: le prime Stelle dopo il Big Bang (F14-04)

III.66 Una nuova Tavola di Mendeleev per il mondo lontano (S7-04)

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IV ALCUNE FIGURE STRAORDINARIE DEL XX SECOLO E QUALCHE SCOPERTA TRA LE PIÙ RECENTI

IV.1 Cent’anni fa nasceva il più grande galileiano del XX secolo: Enrico Fermi (A39-01)

IV.2 I quattro ragazzi di Via Panisperna ed Emilio Segré (A22-03)IV.3 Dirac: l’uomo che seppe immaginare l’Antimateria (A37-02)IV.4 Werner Heisenberg: l’uomo che scoprì il “principio

d’Indeterminazione”. Un gigante della Scienza del XX secolo ingiustamente dimenticato (A7-02)

IV.5 L’inventore del telefono. Finalmente la verità su chi inventò il telefono. Niente più decibel ma decimeucci (A29-02)

IV.5 Guglielmo Marconi: la sua genialità dopo cent’anni dal primo collegamento oltreoceano (A49-01)

IV.6 Oreste Piccioni e l’avventura delle “particelle inutili” (A17-02)IV.7 Victor Weisskopf il padre della realtà virtuale: uno scienziato cui

l’Europa deve molto (A31-02)IV.8 Ma l’arcobaleno pesa? (S39-01)IV.9 La Logica del Creato: massa, energia e cariche subnucleari (A40-01)IV.10 Un vetro per l’arte (N40-01)IV.11 L’aria è fonte di attrito (S40-01)IV.12 Il sapore del caffè non cambia; la bellezza sì (F40-01)IV.13 Il Sole brilla più di neutrini che di luce (A41-01)IV.14 Manca all’appello il 95% della materia nel Cosmo (N41-01)IV.15 La cenere del Supermondo (S45-01)IV.16 Il Tempo che tutto può essere eccetto che macchina (A19-02)IV.17 Stelle fatte di quark (F20-02)IV.18 Un fenomeno affascinante: le bolle luminose (A28-02)IV.19 La data esatta della legge sulla caduta dei corpi (N39-02)IV.20 Una nuova Alice (F45-02)IV.21 L’ultimo record sulla misura del Tempo (F47-02)IV.22 Il ghiaccio che affonda (S6-03)

IV.23 L’“attosecondo”: una nuova frontiera nello studio degli atomi (F10-03)

IV.24 I “Lampi” che vedono gli Astronauti (A21-03)IV.25 Un mesone troppo leggero (F28-03)IV.26 La Materia è evanescente come lo Spazio e il Tempo (A31-03)IV.27 Addio a un grande fisico ingiustamente attaccato dalla cultura

dominante come il padre della bomba H (N38-03) IV.28 A condurre il calore è lo spin dell’elettrone (N39-03)IV.29 Camminare sull’acqua (F39-03)IV.30 Ricerca senza confini: La visita di Ciampi al CERN (A50-03)IV.31 Un nuovo tipo di “colla” nucleare (N4-04)

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V LE ATTUALI FRONTIERE DELLA REGINA DI TUTTE LE SCIENZE

VI CONCLUSIONIVI.1 Ci libera dalle false verità: gli oroscopiVI,1.1 Oroscopi e TV. Le contraddizioni di una credenza diffusa (A38-02)

VI.2 Scienza in cucinaVI.2.1 Il bianco d’uovo ha bisogno del rame (F48-03)VI.2.2 Perché i biscotti si sgretolano (N51-03)VI.2.3 La cottura a vapore è la migliore (S10-04)

VI.3 Nello SportVI.3.1 Rutherford e la Coppa America: il vero orgoglio della Nuova Zelanda

(A11-03)VI.3.2 Dalla Formula-1 alle nostre Auto (A30-03)VI.3.3 A una cicala il record del salto in alto (F49-03)

VI.4 Nell’amicizia tra i popoli: EriceVI.4.1 Erice: Scienza e amicizia tra i popoli (A23-02)VI.4.2 Una nuova sfida per la Scienza (A33-02)VI.4.3 Tecniche per la pace tra indù e musulmani (F18-03)

VI.5 Il rapporto tra Scienza e Fede nel Magistero di Giovanni Paolo II: doni di Dio (A41-03)

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INTRODUZIONE

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II IL MONDO A NOI VICINO

II.1 LA VITA E LE SUE ORIGINIII.1-1 Dai Buchi Neri alla vita (A40-03)

L’ultima novità nella osservazione di ciò che accade ai confini del nostro Universo ci apre gli occhi sul ruolo mai prima immaginato per i Buchi Neri: finora pensati come prigioni cosmiche da cui nemmeno la luce riesce a scappare. E invece no: dai confini del Cosmo arrivano dati precisi che permettono di attribuire ai Buchi Neri il ruolo di potenti generatori di nuove Stelle.

Si passa dal terrore alla speranza. Nel corso dell’ultimo centinaio di anni i Buchi Neri sono passati attraverso tre fasi ben distinte. Incominciò Laplace. Usando la Forza di Newton, fece notare che se esistesse una sfera con raggio eguale alla distanza Terra-Sole e piena d’acqua da quella sfera nemmeno la luce riuscirebbe a uscire per via dell’enorme attrazione gravitazionale. Che nell’Universo potesse esistere un tale tipo di “sfera” celeste era considerato però estremamente improbabile.

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Nessuno ci credette. Vennero poi scoperte le forze nucleari e Zwiky ipotizzò l’esistenza di concentrati enormi di materia con densità nucleare: nasce così l’ipotesi di “Buco Nero”. Termine coniato dal grande fisico John Wheeler. Si incomincia a credere che possano esistere queste realtà cosmiche che inghiottono tutto. E da cui non è possibile scappare; siamo nella fase del terrore che va avanti per oltre mezzo secolo.

Nel terzo millennio si apre l’era della speranza. Non potrebbero esistere le Galassie se non fosse per i Buchi Neri. Senza Galassie non potremmo esserci nemmeno noi. Ma c’è di più; e si arriva ai nostri giorni. L’ultima scoperta dell’astrofisica dimostra che dove c’è un Buco Nero aumenta la nascita delle nuove Stelle. Grazie a una eccezionale coincidenza cosmica è stato possibile studiare un quasar (la cui sigla è: PSS-J-2322+1944) che si trova a dodici miliardi di anni-luce da noi. Questo quasar è uno dei più brillanti mai osservati. La coincidenza cosmica consiste nell’allineamento tra la Terra, una Galassia e il quasar. La Galassia che si trova tra noi e il quasar agisce da “lente” gravitazionale.

Una lente a noi familiare ha il compito di deflettere opportunamente i raggi di luce. Questo permette di veder meglio gli oggetti.

La Galassia, grazie alla sua enorme massa, deflette i raggi che vengono dal quasar. Li deflette in quanto la luce subisce l’attrazione gravitazionale come fanno le pietre che cadono qui sulla Terra, sempre dal basso verso l’alto. Che la luce potesse “cadere” come le pietre lo scoprì Arthur Eddington, quando in

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piena Prima Guerra Mondiale, decise di fare una spedizione per approfittare dell’eclissi di Sole. Eclissi che avrebbe permesso di vedere se la posizione di una Stella, che si trovava al di là del Sole, avrebbe subito un qualche spostamento. Se i raggi della Stella fossero stati deflessi dal Sole, la posizione della Stella sarebbe apparsa spostata. E così fu.

Invece della massa solare gli astrofisici usano oggi le enormi masse galattiche (centinaia di miliardi di volte più della massa del nostro Sole) allo scopo di deflettere i raggi di quella sorgente di onde elettromagnetiche prima citata e che si trova ai confini dell’Universo.

La Galassia che agisce da “lente” gravitazionale ha permesso di scoprire che attorno al centro del quasar esiste un disco di gas e di polvere cosmica grande quanto una sfera dal raggio di 6500 anni-luce: dieci milioni di volte più grande del Sistema Planetario Solare. Nel cuore di quel quasar c’è un Buco Nero la cui potente forza gravitazionale dà vita a una enorme attività di formazione di nuove Stelle. Attività che è mille volte più intensa di quella in atto nella nostra Galassia. Di Stelle nuove che nascono nella nostra Galassia abbiamo parlato in F.C. (1, 2003). E abbiamo anche detto che nel cuore della nostra Galassia c’è un Buco Nero la cui massa equivale a quella di centomilioni di Stelle pesanti come il nostro Sole. Il legame tra Buco Nero e nascita delle Stelle non era stato finora possibile stabilirlo in modo diretto.

L’osservazione di una intensità mille volte più grande nella nascita di Stelle – rispetto al ritmo di quello in atto nella

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nostra Galassia – permette di concludere che il legame tra Buco Nero e nascita di nuove Stelle appare perfettamente stabilito.

Dopo l’incredulità e il terrore, arriva quindi la speranza. Sono i Buchi Neri che permettono il sorgere della vita. Sono infatti i Buchi Neri che determinano la nascita di quelle condizioni necessarie alla concentrazione di materia nel Cosmo affinché venga fuori una Stella. Se non fosse nato il Sole noi non potremmo essere qui a parlarne.

II.1-2 Un satellite alla ricerca della vita su una Cometa (A10-03)

Bisognerà aspettare otto anni però è sicuro che la cometa Wirtanen si vendicherà di noi “acchiappando” un satellite. In verità è l’uomo che aiuterà la cometa nell’impresa di vendicarsi per avere osato svelarne i misteri.

Considerate per secoli e secoli – addirittura millenni – portatrici di sventure e di messaggi apocalittici, le comete in verità altro non sono se non una miscela di ghiaccio e polvere. Esse sono depositarie di notizie sulle origini del Sistema Solare e forse – secondo alcuni studiosi – della stessa vita qui sulla Terra. Wirtanen viaggia alla velocità di 135 mila chilometri orari. È un autentico iceberg cosmico e il satellite che deve raggiungerlo si chiama Rosetta.

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Dovrà percorrere un miliardo di chilometri nei prossimi 8 anni girando prima attorno alla Terra e poi attorno a Marte e a due asteroidi giganti Siwa e Otawara, allo scopo di raggiungere l’orbita desiderata usando l’attrazione gravitazionale di questi corpi, come farebbe un ragazzo che ripete più volte il giro della sua fionda prima di lanciarla verso il bersaglio scelto.

Quando arriva al traguardo i numerosi computer di bordo faranno il necessario per mettere Rosetta in orbita attorno a questo pezzo di ghiaccio dal diametro di milleduecento metri.

Se tutto va bene gli stessi computer guideranno il robot – battezzato Lander – affinché atterri dolcemente. Non sarà un’impresa facile, ma, se tutto andrà come previsto, Rosetta potrà trasmettere a Terra per ben diciotto mesi consecutivi le immagini che riceverà da Lander. Potrebbero venir fuori le prove che ci sono le quattro molecole indispensabili per la vita: idrogeno, ossigeno, azoto e carbonio. Su questo dettaglio estremamente interessante si accende l’interesse di tutti coloro i quali pensano che la vita su questo satellite del Sole nel quale noi ci troviamo sia arrivata dalle comete.

Un mio vecchio amico, il Professore Mayo Greenberg, ne era convinto e studiò con interesse le comete, le loro strutture e tutti i problemi che permettono di investigare con rigore questo problema. Progettammo insieme diversi esperimenti senza però realizzarli mai. Motivo: dopo avere studiato innumerevoli dettagli concludevamo che quella strada non avrebbe prodotto alcun risultato degno di essere pubblicato.

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Rimane il fatto che questo tema non smette di affascinare un po’ tutti: credenti e non credenti. I credenti in quanto convinti che nessuno riuscirà mai, partendo da un gruppo di molecole, a innescare la scintilla della vita. I non credenti in quanto convinti dell’esatto contrario.

Occasioni come questa del satellite Rosetta riaccendono l’interesse e animano nuovi dibattiti. Dibattiti cui vorremmo contribuire con una nota chiarificatrice. Facciamo l’ipotesi che Lander, grazie a Rosetta, riesca a darci la prova che sulla cometa Wirtanen ci siano le quattro molecole essenziali per costruire un sistema in grado di vivere. Se questo avvenisse non mi si venga a dire che è la prova cercata.

Alcune condizioni nelle quali è stata la cometa durante il suo viaggio cosmico possiamo riprodurle in laboratorio: esempio le temperature. Altre no: esempio le pressioni e i livelli delle poco note radiazioni cosmiche.

Se fossimo in grado di riprodurre tutte le vicende cosmiche di Wirtanen avremmo qui sulla Terra un laboratorio nel quale verificare se il materiale dotato di vita si sia ridotto alle quattro molecole di materia inerte a causa del lungo viaggio cosmico subito. Il problema centrale non è capire se la vita su Wirtanen è scomparsa. Il nocciolo del discorso è se partendo dalle quattro molecole di materia inerte è possibile far nascere la vita. Se fosse possibile dovremmo essere in grado di farlo qui in laboratorio. Se nessuno riesce – nonostante gli innumerevoli tentativi finora fatti – i risultati di Rosetta sulla esistenza delle molecole essenziali per la vita non devono portare a concludere

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che nella cometa la vita c’era ma è stata cancellata dalle condizioni del viaggio cosmico subito dalla cometa. Viaggio e condizioni che – lo ripetiamo ancora una volta – noi in laboratorio non sappiamo riprodurre. Per non annoiare troppo il lettore: se fosse possibile trasformare la materia inerte in materia vivente lo avremmo già saputo fare qui sulla Terra.

Cercare nelle comete tracce di materia inerte – come sono le molecole – indispensabile alla materia vivente è molto interessante. Trovare queste tracce non vorrà dire (lo diciamo ora per allora) che la vita esisteva già sulle comete e che è stato da esse portata qui sulla Terra.

II.1-3 Vita su Marte? (A7-04)

La presenza dell’acqua su Marte apre la strada verso la possibile esistenza di forme passate o presenti di vita sul pianeta rosso. “Non può esistere la vita senza acqua – ha detto il responsabile scientifico del progetto Mars Express – ma può esistere l’acqua senza vita”. Per la ricerca delle tracce di vita bisogna aspettare Exo-Mars nel 2009. Possiamo soltanto riflettere senza dimenticare che, sulla esistenza della vita, gli unici dati che abbiamo sono legati alla nostra stessa esistenza.

Perché esista una forma di vita – come la nostra – c’è anzitutto bisogno di una Stella che brilli per miliardi di anni. Il nostro Sole lo fa da cinque miliardi di anni. Altre Stelle hanno già brillato per miliardi di anni, prima che si accendesse il nostro Sole. La vita, per esistere, ha bisogno di determinate condizioni

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fisico-chimiche. Esse nascono da una serie di fattori. Esempio: la stabilità gravitazionale dei satelliti che girano attorno alla loro Stella. Ci sono poi molti altri dettagli. Se il Sole fosse più grande, dovremmo essere più lontani, altrimenti moriremmo di caldo. Se fosse più piccolo, dovremmo essere più vicini, altrimenti moriremmo di freddo. Se la Terra fosse più grande dovremmo avere muscoli e strutture ossee più robuste per vivere bene in un ambiente sottoposto a una forza attrattiva gravitazionale più potente. Ci riferiamo ovviamente a forme di vita abbastanza simili alla nostra. Non conosciamo infatti alcuna altra forma di vita nella quale sia nata la Ragione. Qui sulla Terra conosciamo centinaia di migliaia di esseri viventi: tutti privi di Ragione. Da questa capacità intellettuale è nata la Civiltà, la cui alba risale a diecimila ani fa. La vita, nelle sue forme più primitive, nasce invece qualche centinaio di milioni di anni fa. La vita della Civiltà, rispetto alla vita come fenomeno fisico-chimico, vegetale o animale, corrisponde – nel tempo – a una parte su diecimila parti.

Grazie a questo effetto del decimo di per mille, si arriva alla scoperta della Memoria Collettiva Permanente, meglio nota come “scrittura”; alla scoperta della geometria euclidea grazie ai Greci, alla Divina Commedia, alla Pietà di Michelangelo e alle magnifiche innumerevoli altre realtà legate alla capacità della nostra specie di pensare e ragionare.

Questa capacità va avanti per ben dieci millenni, ma solo negli ultimi 400 anni (grazie all’atto di fede galileiano) la nostra forma di vita riesce a scoprire che c’è una Logica rigorosa che

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regge tutto: dalle pietre alle Stelle. In quantità di tempo questa scoperta vale il 4% del totale necessario alla vita della Civiltà. E appena centomila volte meno del 4 per mille del totale necessario alla vita nelle sue forme primordiali.

Se non fosse per questa minuscola frazione, saremmo rimasti ancora oggi chiusi nel guscio della nostra Terra. Chiusi, senza potere né capire cosa sono i satelliti del Sole, né cos’è lo stesso Sole, né cosa sono le Stelle, né come è possibile sperare di potere un giorno passeggiare nel Cosmo.

Se fosse così facile la sequenza “Stella, Vita, Ragione, Scienza”, anche i nostri cugini marziani avrebbero dovuto scoprire la Scienza da cui sarebbe, a casa loro, nata la tecnologia per venire da noi. Se non in carne e ossa, magari con sonde e robot, come facciamo noi.

Se su Marte, oltre l’acqua venisse scoperta la vita, questo non migliorerebbe la nostra attuale comprensione sulla struttura della materia vivente. Se vogliamo studiare questa struttura – e lo vogliamo – il posto è qui, nei nostri laboratori, sulla Terra, non su Marte. Anche i nostri cugini marziani, se fossero esistiti e se ci avessero preceduto nella scoperta della Scienza e nell’invenzione delle Tecnologie necessarie per arrivare a passeggiare tra le Stelle, è nei loro laboratori su Marte che avrebbero dovuto studiare e fare esperimenti.

E se i marziani lo avessero fatto un miliardo di anni fa? Nessuno può escludere che i marziani siano venuti da noi centinaia di milioni di anni prima che su questo terzo satellite del Sole sorgesse l’alba della nostra Civiltà. Civiltà che avrebbe

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potuto continuare a non esistere per altre decine di migliaia di anni. E noi non saremmo qui a discutere se c’è vita su Marte.

La risposta a questi quesiti può solo venire da un calcolo probabilistico dell’innumerevole serie di condizioni favorevoli affinché la sequenza che a noi sembra banalmente scontata “Stella, Vita, Ragione, Scienza” possa effettivamente accadere nella realtà cosmica. Questa probabilità è incredibilmente piccola.

A questa straordinariamente minuscola probabilità fa riscontro una inconfutabile certezza: siamo l’unica forma di materia vivente a saper decifrare la Logica che ci ha permesso di uscire dal guscio della nostra Terra. Questa logica è stata scoperta studiando le pietre galileiane antiche e moderne. Essa ci porta all’ipotesi che dovrebbe esistere un Supermondo con 43 dimensioni. Se con una bacchetta magica (non esistono le bacchette magiche) potessimo scegliere tra la scoperta di forme di vita su Marte – inclusi i marziani – e quella del Supermondo qui nella nostra Terra, non avremmo esitazione alcuna: sceglieremmo il Supermondo. Sta qui, non su Marte, la chiave per capire ciò che è occorso 400 anni fa e che ci ha permesso di uscire dal guscio in cui la vita era rimasta chiusa per centinaia di milioni di anni.

II.1-4 I nanobatteri: la forma più minuscola di materia vivente. (A24-04) La farfalla più antica (A21-04)

Di nanobatteri si parlò nel 1996 quando in un meteorite vennero trovate strutture fossili che sembravano appartenere a

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“batteri” con dimensioni nanometriche. Un nanometro corrisponde a un miliardesimo di metro. Adesso i nanobatteri pare siano stati scoperti qui sulla Terra, analizzando tessuti provenienti da arterie umane usando microscopi elettronici e altre tecniche avanzatissime. Torna così alla ribalta il problema chiave: quanta piccola può essere una struttura materiale per essere dotata di vita. Gli specialisti della Mayo Clinic a Rochester (USA), diretti dal Dr John Lieske, rispondono: dai 30 ai cento nanometri. È però necessario definire cosa dobbiamo intendere per vita. Se per vita ci si limita a chiedere la facoltà di riprodursi, i nanobatteri esistono. Se però si esige l’identificazione di una specifica sequenza di DNA, allora bisogna aspettare. Non c’è fretta: nel corso di migliaia di anni siamo stati fermi alla vita posta su basi di pari dignità col moto. Il massimo esponente di questa visione della vita fu Aristotele, definito da Dante “il Maestro di color che sanno” e destinato a divenire il riferimento universale dell’Ipse Dixit. Bastava che una forma di materia si muovesse per concludere che doveva essere dotata di vita. Di esperimenti non se ne facevano. Si discettava portando come prove argomenti esclusivamente fondati sull’Ipse Dixit. Nessuno aveva il coraggio di mettere in discussione l’Universo pensato e descritto dal genio di Stagira. Nessuno, fino a quando Galilei portò le prove che il Creatore ne sa più di noi; e se vogliamo capire qualcosa l’unica strada è fare esperimenti. Anche lo studio della vita va quindi posto su basi di rigore e di riproducibilità. Galilei scoprì che il moto non basta

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affinché la materia inerte diventi vivente. Una pietra che si muove non è dotata di vita.

Prima che venisse scoperto l’acido desossiribonucleico (meglio noto come DNA), il criterio base per decidere se un pezzo di materia era o no dotata di vita consisteva nel vedere se quel pezzo di materia si moltiplicava, quando posto in un ambiente, detto coltura, favorevole alla sua riproduzione.

Adesso invece, per dire che un pezzettino di materia vivente è dotato di vita bisogna essere sicuri che possiede una sequenza completa di DNA e le proteine necessarie al suo funzionamento.

Ricerche condotte nell’Università di Rochester avevano portato il Dr Jack Malinoff a stabilire che la più piccola cellula vivente – dotata quindi del suo DNA e delle proteine necessarie al suo funzionamento – dovesse avere un diametro non inferiore ai 140 nanometri.

E invece viene fuori che esistono nanobatteri le cui dimensioni vanno dai trenta ai cento nanometri. Si tratta di pezzettini di materia aventi dimensioni inferiori a molti virus. Un virus però non può vivere fuori da una cellula. Il virus entra nella cellula e si riproduce grazie al fatto che sta dentro quell’organismo dotato di vita autonoma. Al di fuori della cellula il virus diventa completamente inerte. I virus sono parassiti di animali, di piante e anche di alcuni batteri e producono le malattie dette virali: raffreddore, influenza, vaiolo, herpes, polio. Le dimensioni dei virus vanno dai 20 ai 400 nanometri. Anche i retrovirus hanno dimensioni analoghe. Ma anche i retrovirus

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sono forme di vita parassitaria. Un retrovirus non è altro che un virus che trasforma una sua struttura (detta RNA) in DNA. Così facendo il retrovirus si integra nel DNA della cellula che lo aveva ospitato e incomincia la sua riproduzione, producendo disastri tipo AIDS. Però senza cellula ospitante nemmeno i retrovirus riescono a riprodursi.

Virus e retrovirus sono piccolissime quantità di materia che non è possibile vedere usando microscopi a luce normale. E non è possibile separarli dalle colture usando filtri normali. Sono necessari microscopi e filtri speciali. Nonostante le loro piccolissime dimensioni virus e retrovirus sono capaci di avere un metabolismo indipendente e di riprodursi, a patto che siano in una struttura vivente com’è una cellula.

Il gruppo del Dr Lieske dice di avere scoperto pezzettini di materia vivente, non tipo virus né retrovirus, ma tipo batterio. Un batterio è materia dotata di totale indipendenza: si riproduce in una coltura, non in una cellula. Ai colleghi scettici, gli scopritori dei nanobatteri rispondono portando le prove che quelle minuscole forme di materia vivente sintetizzano acidi nucleici, quindi DNA. Il Dr John Cisar dell’Istituto NIH (National Institute of Health) di Bethesda obietta: in diversi casi ci siamo illusi che nanoparticelle fossero dotate di vita indipendente. Usando tecniche “coloranti”, i risultati sulla presenza di catene di acidi nucleici (DNA) erano positivi. Ma non siamo mai riusciti a estrarre gli acidi nucleici da quelle strutture. Ecco perché gli scettici dicono agli scopritori: “Non potete dire di avere scoperto forme nanometriche di vera vita

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senza essere riusciti a dimostrare che quelle forme posseggono una sequenza unica di DNA”. A questa obiezione la Dott.ssa Virginia Miller, co-scopritrice di questa nuova forma di vita, ha così risposto in una intervista alla BBC: «Noi abbiamo scoperto che questa quantità nanometrica di materia riesce a riprodursi nella coltura. E questo basta. In fondo, prima che venisse scoperto il DNA, si concludeva che un tipo di materia era vivente se riusciva a riprodursi. Noi abbiamo dimostrato che le nanoparticelle da noi estratte da organismi diversi si riproducono». È ovvio che la prova del fuoco sarà riuscire a trovare la sequenza unica di DNA che caratterizza questa incredibile nuova forma nanometrica di vita.

II.1-5 Ritrovato un roditore gigante vissuto settecento milioni di anni fa (N5-04)

Un gruppo di paleontologi dell’Università tedesca di Tübingen ha scoperto in Venezuela lo scheletro di un mammifero appartenente alla specie dei roditori, vissuto 700 milioni di anni fa. Il Direttore delle ricerche, Marcelo Sanchez-Villagra, sostiene che questo gigantesco roditore, lungo tre metri e pesante 700 chili, dovrebbe essere il capostipite della specie a noi pervenuta come “porcellino d’India”, il cui peso arriva appena a sfiorare il mezzo chilo. Il nome del gigantesco progenitore del “porcellino d’India” è Phoberomys Pattersoni. Di esso si conoscevano finora solo pochi denti e qualche pezzo della scatola cranica. Adesso c’è lo scheletro completo. Resta da capire come viveva e perché è scomparso.

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II.1-6 La prima radice dell’albero della vita risale a 560 milioni di anni fa (F1-04)

Le origini della specie umana sono forse 30 milioni di anni più lontane nel tempo di quanto si fosse pensato finora. Questa scoperta nasce dal ritrovamento di un fossile che per ben 5 anni era rimasto nella veranda di un bungalow senza che nessuno si preoccupasse di studiarlo. A trovarlo nella sua tenuta era stato un allevatore di pecore, Ross Fargher, che aveva notato l’esistenza di fossili strani nella zona sabbiosa della sua fattoria. Pur non essendo uno studioso di paleontologia, Fargher aveva l’occhio giusto per notare che c’erano fossili strani nell’arenaria della sua tenuta. Ed è così che ha chiamato i paleontologi. Secondo il Professore Jim Gehling, paleontologo di Adelaide (Sud Australia), il fossile di Fargher rappresenta l’inizio delle creature dotate di spina dorsale. Il fossile è lungo 6 centimetri e risale a 560 milioni di anni fa. Il più antico fossile con struttura portante contenente minerali era finora quello trovato in Cina, che è però di ben 30 milioni di anni più giovane.

II.1-7 Il più antico Australopiteco (N40-03)Misurando la radioattività dei sedimenti della caverna

nella quale riposava il più antico degli Australopitechi – detto Little Foot – un gruppo di paleontologi dell’Università di Purdue (USA) è arrivato a una interessante conclusione. Il più celebre australopiteco sudafricano – scoperto nel 1997 nelle grotte Sterkfontein – non risale ad appena 3,3 milioni di anni, bensì a

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ben 4 milioni. Insomma guadagna 700 mila anni; non è un risultato di poco conto. Infatti – con questa scoperta – Little Foot entra in gara per diventare il più vecchio australopiteco del mondo. Prima di questa nuova datazione, il concorrente di Little Foot era l’Australopithecus Anamensis che si pensava fosse dello stesso suo periodo.

II.1-8 Ominide di un milione e ottocentomila anni fa: mancava all’appello (N11-03)

Una nuova scoperta paleontologica permette di unificare almeno due rami in cui si pensava fossero classificabili i fossili di ominidi finora trovati per capire le origini della nostra specie. La scoperta è stata fatta in Tanzania, in una regione che è entrata negli ultimi decenni nel cuore delle ricerche di paleontologia. Si tratta di una porzione di teschio relativa alla parte bassa della faccia e alta della mascella contenente tutti i denti. È ciò che resta di un ominide vissuto un milione e ottocentomila anni fa. Si tratta di uno degli esemplari più importanti della specie “Homo” finora scoperti in quanto risale al periodo in cui – secondo gli specialisti – sono occorse due importanti transizioni. Anzitutto le dimensioni del cervello incominciano ad aumentare e gli ominidi iniziano a usare gli strumenti di pietra per procurarsi cibo da animali più grandi.

II.1-9 Tracce di fuoco nel paleolitico inferiore (F10-04)

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Le invenzioni tecnologiche dell’era pre-scientifica sono il fuoco e la ruota. Avere a disposizione una sorgente d’energia è il primo passo del progresso tecnologico. Chi dei nostri antenati sia il padre del primo fuoco non lo sapremo mai. Forse riusciremo a scoprire il dove e il quando. A Sud di Wiltshire, non lontano da Salisbury, nella zona di Harnam, è stato scoperto un deposito di carbone con tracce di fuoco e di numerosi strumenti tipici del paleolitico inferiore. Questa scoperta è un contributo notevole per arrivare a individuare il dove e il quando sull’origine del fuoco prodotto artificialmente.

II.1-10 Chi ha sterminato i nostri cugini di Neanderthal (S19-04) = S18-04

È un enigma che ha appassionato schiere di studiosi. L’uomo di Neanderthal era riuscito a colonizzare vastissime zone d’Europa e dell’Asia, per scomparire circa 30 mila anni fa. Essendo questo il periodo in cui sembra venir fuori la nostra specie, c’è chi ha formulato l’ipotesi che a far sparire quella specie vivente a noi molto vicina siano stati i nostri antenati. Adesso però arriva – e diciamo noi per fortuna – una possibile soluzione che ci scagiona totalmente dalla terribile accusa. A far sparire i nostri cugini di Neanderthal pare sia stato il freddo. Sembra infatti che, nel corso di migliaia e migliaia di anni, le due specie viventi siano coesistite nelle zone del Sud Europa. È il clima ad avere subito forti cambiamenti. Sulla base delle evidenze rimaste nei ghiacciai della Groenlandia, nel periodo che va dai 70 ai 20 mila anni fa, la temperatura in Europa incominciò

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a subire fortissime oscillazioni, con periodi freddissimi e caldissimi. Il valore medio della temperatura aumentava e diminuiva di parecchi gradi nel giro di pochi decenni. Solo riuscendo ad avere gli strumenti per superare queste perturbazioni climatiche era possibile sopravvivere. I nostri cugini di Neanderthal non seppero inventare le tecniche che avrebbero permesso loro di superare sia le difficoltà per procurarsi le prede sia quelle per proteggersi dal freddo glaciale. La specie cui noi apparteniamo ebbe l’intelligenza di inventare gli strumenti per riuscire a sopravvivere. I nostri cugini di Neanderthal no. È questo il motivo per cui, circa 28 mila anni fa, scomparvero totalmente.

II.1-11 Scoperto un nuovo dinosauro in India (S39-03)Un professore dell’Università di Chicago, Paul Sereno, e

il paleontologo Jeff Wilson sono riusciti a mettere insieme una serie di ossa di dinosauro raccolti da ricercatori indiani nel corso degli ultimi vent’anni. Grande è stata la loro sorpresa quando si sono accorti che l’insieme ricostruito aveva le forme corrette per essere un nuovo tipo di dinosauro vissuto in India nel periodo Cretaceo (tra i 70 e i 150 milioni di anni fa). La sua lunghezza è di nove metri, è robusto, carnivoro e ha sul capo una speciale cresta. Lo hanno battezzato “Rajasaurus Narmadensis”. Secondo gli specialisti questo tipo di dinosauro era presente nell’emisfero Sud quando le zone oggi note come Madagascar, Africa e America del Sud erano unite nella stessa “placca” terrestre. I dinosauri sono in effetti l’unica forma animale di dimensioni

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gigantesche che è vissuta, si è evoluta ed è morta quando i diversi continenti non si erano ancora separati.

II.1-12 Le origini della civiltà. Il linguaggio delle Stelle (A8-03)

È tornato all’attenzione degli specialisti il problema delle origini della civiltà. Prevale da tempo il criterio che bisogna arroccarsi a radici sicure. E la sicurezza finora era legata alle prime tracce del linguaggio scritto. Con esso nasce la memoria collettiva permanente, che della civiltà è una colonna portante.

Alcuni studiosi però sostenevano che l’istante cruciale è quando l’uomo smette di gesticolare e inventa il linguaggio. Ai nostri giorni il gesticolare sarebbe retaggio dei tempi in cui i nostri antenati non avevano ancora inventato quel formidabile modo di esprimere idee, concetti, sentimenti, passioni. Il linguaggio parlato ha però la difficoltà di non potere essere legato a tracce sicure. Le sue origini sono un problema lungi dall’essere stato risolto.

Le ricerche più recenti tenderebbero a privilegiare l’ipotesi che tutti i linguaggi parlati abbiano un’origine comune. In queste ricerche sono già entrati in gioco i supercomputer: la strada che seguono i ricercatori è quella delle radici comuni in linguaggi apparentemente diversi. Una cosa è certa: di tracce sicure non ce ne saranno mai. Con il linguaggio scritto le tracce esistono e sono quelle della scrittura cuneiforme che risale a cinquemila anni fa circa.

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I sostenitori della ricerca rigorosa delle prime manifestazioni sicure dell’umana intelligenza pensano però che le sue tracce debbano essere cercate nello studio attento dei fenomeni celesti. Insomma, prima di perder tempo e cercare di scrivere, l’intelligenza della nostra specie potrebbe essere stata catturata dal fascino delle Stelle. Secondo questa scuola di pensiero è in questa direzione che bisogna cercare le prime tracce dell’umana intelligenza. A questi studi è stato dato il nome di ricerche delle scritture stellari: il linguaggio scritto sulle Stelle.

Un nostro antenato che, osservando le Stelle, avesse inciso le loro posizioni non potrebbe esser messo a un livello intellettuale inferiore di chi avesse deciso di lasciare tracce permanenti del suo linguaggio parlato.

Sulla base delle ricerche fatte per risalire all’epoca in cui c’è traccia del linguaggio delle Stelle si scopre che essa è compresa tra i 38 mila e i 32 mila anni fa. Molto prima dell’alba della civiltà.

Si tratta di una piccola tavoletta d’avorio: spessore 4, larghezza 14, lunghezza 38 (tutti millimetri). Essa è stata trovata diversi anni fa in una grotta nella vallata di Ach, vicino a Stoccarda in Germania. C’è voluto tanto tempo per cercare di capirne il significato e le origini.

Secondo uno dei più noti studiosi di questa disciplina, il Professore Michael Rappenglueck, nella tavoletta sono incise le Stelle della costellazione di Orione. Una prova a favore di questa interpretazione è la posizione di una Stella che oggi si trova in

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una zona di cielo leggermente diversa da quella di 38 mila anni fa. Ricostruendo al computer i movimenti delle varie Stelle di Orione il Professore Michael Rappenglueck ha trovato che la posizione incisa sulla plurimillenaria tavoletta è corretta se riferita a 38 mila anni fa. I nostri antenati non potevano sapere che le Stelle di una costellazione si muovono con direzioni e velocità diverse. Né era possibile per quel nostro antenato immaginare che la sua scrittura sulla posizione delle Stelle sarebbe stata scoperta dopo diverse decine di migliaia di anni. L’avere saputo incidere la posizione delle Stelle di Orione dove esse effettivamente si trovavano a quei tempi è prova di sicura intelligenza.

Un altro importante dettaglio riguarda le 86 piccole incisioni che ci sono nella stessa tavoletta: perché 86? Risposta: è il numero di giorni che bisogna sottrarre a quelli di un intero anno per ottenere i nove mesi necessari alla gestazione umana. Ma c’è un altro importantissimo dettaglio. Il numero 86 è anche il numero di giorni in cui una delle due più brillanti Stelle di Orione è visibile nel corso dell’anno. Quel numero è la prova che il nostro antenato cercava di mettere in relazione ciò che lui osservava nel cielo e ciò che accadeva qui sulla Terra.

La scoperta di questa piccola tavoletta d’avorio è la più antica testimonianza dell’interesse che avevano i nostri antenati sui cieli. Se diamo alla scrittura sulle Stelle la priorità sul linguaggio scritto, l’alba della civiltà si sposta in avanti guadagnando qualcosa come trenta mila anni: un intervallo di

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tempo tre volte più grande di quello in cui si è sviluppata la nostra civiltà.

II.1-13 Messa in crisi l’origine dell’Eva Africana (N45-02)

Si era pensato finora che le origini della specie umana fossero in Africa. Alla radice delle origini comuni della nostra specie c’era un’importante proprietà legata al DNA contenuto nella zona esterna del nucleo di una cellula.

Questa proprietà è la capacità di trasmissione che si pensava potesse avvenire solo attraverso la catena femminile. E invece no. Il DNA (detto mitocondriale) può essere trasmesso anche per via maschile, come avviene per le piante. Per gli studiosi di genetica delle popolazioni è un brusco risveglio.

II.1-14 Le origini antiche della stirpe indiana (S8-03)Le isole Andaman, nell’arcipelago del golfo del Bengala,

a Est dell’India, sono rimaste totalmente isolate dal mondo fino al 1857. Una parte della popolazione vive ancora nella foresta: 500 persone circa. Questo ha permesso di non mescolarsi con l’uomo detto moderno. Le caratteristiche genetiche di questa popolazione sono pertanto di notevole interesse. Essa sarebbe discendente diretta dei primi uomini arrivati da questa nostra parte del mondo in Asia qualcosa come cinquanta mila anni fa. È la conclusione cui sono arrivati due studiosi: Erika Hagelberg dell’Università di Oslo (Norvegia) e Peter Underhill dell’Università di Stanford (USA), dopo avere realizzato una

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ricerca genetica. Gli abitanti di questa zona sarebbero portatori di un elemento genetico comune a diversi gruppi studiati in Asia. Pertanto i cinquanta mila anni da noi sarebbero validi anche per loro. Siamo forse una sola e unica famiglia con radici lontane nel tempo.

II.1-15 Le impronte più antiche della specie “homo” (S13-03)

Le impronte scoperte sono su un pendio; hanno una lunghezza di venti centimetri e una larghezza di dieci centimetri. Queste dimensioni suggeriscono che l’altezza media di chi ha lasciato le impronte doveva essere sul metro e mezzo. Le “impronte” sono state trovate nella zona vulcanica di Roccamonfina e risalgono a un periodo che va dai 325 ai 385 mila anni fa. Il Professore Paolo Mietto dell’Università di Padova, ha detto alla BBC che si tratta di ben tre gruppi di impronte. Il gruppo con ventisette impronte ha una traiettoria a zig zag. L’altro gruppo con dieci impronte indica una traiettoria dritta: le impronte sono infatti tutte allineate. Il terzo con diciannove impronte, descrive una traiettoria con qualche giro, forse per superare le difficoltà della discesa. Ricordiamo al lettore che le più antiche impronte di “ominidi” sono quelle trovate in Tanzania e risalgono a poco meno di quattro milioni di anni fa. Esse sono però della specie “Australopithecus Afarensis”. Quelle scoperte dal gruppo diretto dal Professore Mietto sono invece della specie “Homo”, che non è ancora la nostra. La specie “Homo Sapiens” cui noi dovremmo

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appartenere, non c’era a quei tempi. Noi siamo entrati in scena solo duecentomila anni fa.

II.1-16 Il dolore muto dei pesci (F37-03)Non è vero che i pesci sono insensibili al dolore. Un

gruppo di neurologi scozzesi ha fatto il seguente esperimento. Ha iniettato in un campione di trote-cavia soluzioni diverse di sostanze che producono sensazioni acide o di calore. Le trote reagiscono scagliandosi contro le pareti dell’acquario. Ripetendo l’esperimento con trote anestetizzate non accade nulla. Le trote restano tranquille. Si pensava finora che queste creature, contrariamente ai mammiferi, fossero sprovviste di quella parte di corteccia cerebrale che trasmette i dolori. Gli scienziati scozzesi non hanno dubbi che i segnali del dolore vengono trasmessi al cervello di quei pesci. Bisogna capire attraverso quali canali. Intanto è bene che i pescatori all’amo lo sappiano: i pesci soffrono se trascinati. Non urlano, ma soffrono.

II.1-17 Il più piccolo cavallo mai visto (N37-03)A scoprirlo è stata Sara Laurie dell’università canadese

McGill di Montreal. La sua lunghezza massima è di 16 millimetri. Ci sono però esemplari che arrivano a 13 millimetri. Questa creatura marina vive a profondità comprese tra i tredici e i novanta metri. È stata denominata “Hippocampus Denise” e batte il record finora tenuto, con i suoi 24 millimetri di media, da “Hippocampus Bargibandi”, scoperto nel 1970 in “Nouvelle-Calédonie”. Il suo ambiente ideale sono le strutture corallifere. Il

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problema più difficile da risolvere è stato quello di stabilire – viste le dimensioni – che si trattasse di una creatura adulta. È quanto ha fatto la sua scopritrice. Per lunghi anni c’era chi pensava impossibile che si potesse arrivare a dimensioni inferiori ai due centimetri per creature del genere.

II.2 Le radici della civiltà

II.2-1 Atlantide: mito e realtà del continente scomparso (A12-02)

Fu Federico Fellini a parlarmene e a stimolare il mio interesse su questa leggenda dell’antichità classica. Leggenda ripresa da Platone e sulla quale sono stati versati fiumi di inchiostro. Con Fellini avevamo il progetto di un film nel quale si dava per scontata l’esistenza di un’isola immensa, più grande dell’Asia, nella quale si era sviluppata una civiltà talmente avanzata da portare quel popolo a scoprire l’Europa e a tornarsene a casa. Quella civiltà avrebbe dovuto essere il modello su cui forgiare il futuro delle più grandi conquiste dell’intelletto umano: nel Linguaggio, nella Logica e nella Scienza. Fin qui il film. E la realtà? Essa ci dice che quella civiltà non ha lasciato tracce. Forse perché inghiottita dal mare. È possibile? Vediamolo con un esempio concreto, immaginando un oggetto cosmico del diametro di 400 metri che viaggiando

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alla velocità di 70 mila chilometri orari (media bassa per un Asteroide) piombi in pieno Oceano.

L’altezza dell’onda sarebbe di almeno 5 metri quando, dopo avere viaggiato su tutto l’Oceano, si affaccia sulle coste europee (da un lato) e americane (dal lato opposto). Avvicinandosi alla costa, diminuisce la profondità del mare e questo fa aumentare l’altezza dell’onda fino ai duecento metri. Un dato importante che viene dalle simulazioni con supercomputer è la durata dell’onda. Essa persiste per almeno 2 minuti e, penetrando nella terraferma, travolge tutto, prima di fermarsi. L’Olanda e la Danimarca a Est, e New York sulla costa occidentale dell’Atlantico, verrebbero spazzate via.

La durata dell’onda che si abbatte sulle coste è determinata dal tempo necessario affinché il “buco” prodotto nell’acqua dell’Oceano possa essere riempito. Più potente è l’impatto dell’Asteroide, più grande sarà il “buco”, più lunga la durata dell’onda che cancella tutto ciò che l’uomo ha costruito sulla coste.

Asteroidi e Comete sono nati con noi. Sulla terraferma questi oggetti cosmici lasciano tracce, come ad esempio il cratere dell’Asteroide piombato in Arizona 50 mila anni fa e la devastazione della foresta siberiana causata da una Cometa nel 1908. Sulla superficie liquida della Terra le uniche tracce sono le onde gigantesche che si estinguono in pochi minuti. E adesso due parole sulle conclusioni alle quali eravamo arrivati con Fellini, mettendo insieme dati, idee e fantasia.

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La posizione più probabile di Atlantide è nell’Atlantico settentrionale. Le forme di vita animale e vegetale attualmente esistenti e quelle estinte, di cui però rimangono tracce, indicano una migrazione tra quella zona dell’Atlantico settentrionale e la Groenlandia, le Azzorre e addirittura le Canarie. È sorprendente notare che nella costa atlantica del Nord-America non vennero mai creati agglomerati umani fino al IX secolo d.C., quando arrivarono i Vichinghi a costruire città e fortezze lungo quella costa.

Le strutture sociali nel Mediterraneo si sono sviluppate essenzialmente lungo le zone costiere. In America invece gli indiani vissero da cacciatori sempre lontani dalle coste atlantiche.

Uno studio geologico e archeologico delle coste oceaniche sottomarine d’America non è mai stato fatto. Eppure è lì la chiave per sapere se corrisponde a verità la leggenda di Atlantide. E non solo di Atlantide. È di questi ultimi tempi il ritorno all’interesse su civiltà millenarie scomparse senza lasciar tracce. Se fossero esistite, la loro vulnerabilità, di fronte all’impatto di un proiettile cosmico in un punto qualsiasi dell’Oceano, non avrebbe permesso che di esse restasse memoria alcuna. Gli abitanti di Atlantide non avrebbero saputo difendersi. Noi sì. La frequenza relativa a oggetti cosmici di raggio tra i cento e i mille metri, in grado di colpire la navicella spaziale sulla quale stiamo viaggiando, sappiamo valutarla sui 10 mila anni. Proprio il tempo per dare vita a una civiltà. E poi? Il film con Fellini avrebbe raccontato anche questa parte della leggenda.

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II.2-2 Scoperti i cosmetici dei nostri antenati (S27-02)Già cinquemila anni fa gli egiziani utilizzavano composti

chimici a base di polveri di piombo ed olio di oliva per truccarsi, ma anche per proteggere la pelle del viso. Flaconi contenenti tracce di sostanze chimiche, alcune delle quali conservate ancora perfettamente, sono stati rinvenuti all’interno delle tombe egiziane. Queste ed altre curiosità, che arricchiscono le conoscenze relative alla cura del corpo nelle civiltà antiche, sono emerse durante i lavori del primo corso della nuova Scuola Internazionale di Archeologia Molecolare del Centro “Ettore Majorana” di Erice diretta dal Professor Hubert Curien, Presidente dell’Accademia Francese delle Scienze ed ex Ministro della Ricerca Scientifica fra il 1988 e il '92. «Le informazioni raccolte – spiega Curien – sono di straordinario interesse: gli antichi erano molto più evoluti di quanto si possa immaginare. L’analisi dei flaconi trovati nelle tombe egiziane evidenziano, infatti, la capacità di sintetizzare prodotti chimici». Gli studi dell’archeologia molecolare (disciplina sorta e sviluppatasi nell’ultimo decennio) ci permetterà di scoprire come curavano la propria persona anche i Greci e i Romani.

II.2-3 Una scoperta archeologica fuori programma (S38-02)

Non nasce da un programma di scavi per cercare qualcosa di archeologicamente importante. Alla scoperta di otto guerrieri

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con i loro cavalli, il Professore Ulisse Cabazuelo e la sua squadra di specialisti sono arrivati grazie ai sondaggi necessari per costruire le infrastrutture sotterranee di un’autostrada a Sud-Est di Clermont-Ferrand in Francia. È una tomba rettangolare scavata in piena terra a un metro appena di profondità. Niente casse funebri né oggetti, né montature per i cavalli. Niente armi. Uomini e cavalli nella terra senza alcuna protezione. L’interesse della scoperta sta nel fatto che mai, in una tomba gallica, erano stati trovati cavalli. C’è anche da capire se quella sepoltura è legata a un rito di natura militare o religiosa. E se si tratta di rito sacrificale. L’unica cosa che si potrà stabilire con certezza è l’epoca, grazie alle analisi con il Radio-Carbonio. Gli archeologi pensano che l’inumazione risalga alla fine del periodo gallico, nel primo secolo avanti Cristo. Ci sono altre due tombe a poca distanza. Esse saranno al centro di ulteriori studi nel futuro immediato.

II.2-4 Un’importante scoperta archeologica (F41-02)Dopo intense ricerche nella zona di Atene, dove da oltre

mezzo secolo si studia come realizzare scavi archeologici molto innovativi, è stata scoperta una statua: la terza. Essa riproduce la figura di un giovane atleta. Le altre due – sempre rappresentanti giovani e bellissimi atleti – erano state scoperte nel 1929 e nel 1932. Quest’ultima è molto più in buono stato e completa in tutte le sue parti rispetto alle precedenti. Le tre statue hanno molti particolari in comune. Questo induce gli scopritori a pensare che si tratti di capolavori dello stesso artista, di cui però nessuno

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conosce il nome. Infatti sono state chiamate Dipylos: nome del luogo in cui sono state scoperte.

II.2-5 Chi ha scoperto l’America? (N1-03)È un tema che appassiona da tempo un po’ tutti: è vero

che i vichinghi sono arrivati in America 500 anni prima di Cristoforo Colombo? Racconti di numerose imprese non hanno mai avuto una conferma sicura. Purtuttavia rimane il dubbio che possa esserci del vero in questi racconti. Ed ecco la novità. Studi archeologici hanno portato alla scoperta che in Irlanda ci sono strutture edilizie che risalgono all’anno mille e che sono analoghe a quelle trovate nel Nord America. Queste strutture sarebbero state costruite dalla stessa cultura. Insomma i vichinghi si sarebbero installati in Nord America producendo commerci e ricchezza. Poi però, deterioratisi i rapporti con le popolazioni locali, si sarebbero rifugiati in Islanda intorno all’anno mille. Se questi studi saranno corroborati da ulteriori certezze la scoperta dell’America farebbe un salto di oltre mezzo millennio e si sposterebbe dal Sud al Nord d’Europa.

II.2-6 Scoperto in Cina il quarto esempio di tomba con un’armata di terracotta sepolta (N4-03)

Alla fine dello scorso novembre, mentre stavano cercando di piantare un po’ d’alberi sul loro terreno, due contadini cinesi sono cascati sulle teste di cavalli di terracotta sepolti con trenta cavalieri allineati su cinque file. Quello che doveva essere un

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pezzo di terra con alberi e frutta è diventato il quarto esempio di tomba contenente un’armata di terracotta. Il direttore delle ricerche, l’archeologo Cui Dayong, ritiene che la tomba risalga all’epoca Han nel III secolo avanti Cristo. Gli studiosi non sono riusciti a stabilire le ragioni per cui la tomba di un esponente della classe dirigente dovesse essere legata alla sepoltura di cavalieri e cavalli di terracotta.

II.2-7 Scoperte in Canada le più antiche rocce vulcaniche del mondo (S4-03)

Finora la zona più antica della nostra Terra era in Groenlandia. Adesso una scoperta canadese permette di aprire nuovi scenari per ricostruire la gerarchia geologica che, partendo dal nucleo della nostra Terra fatto di ferro, ha portato al mantello e infine alla crosta terrestre dove nella fase ultima della formazione geofisica planetaria sono apparsi i primi segni di vita. La superficie di questo antichissimo pezzo di crosta terrestre è grande sedici chilometri quadrati e la sua età è valutata sui tre miliardi e ottocento milioni di anni. Sono le più antiche rocce vulcaniche e si trovano a 30 km dal villaggio di Inukjuak.

II.2-8 Trovata in Germania la più antica rappresentazione del cielo fatta in Europa (A5-03)

I compilatori di oroscopi si occupano anche di prevedere l’andamento dei mercati, dell’economia e addirittura degli affari

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che ciascuno di noi potrebbe di fare grazie alle Stelle. Eppure nessuno è riuscito a descrivere la complessità dei problemi economici. Infatti ancora oggi il dibattito è vivo tra le due scuole di pensiero che definiamo per semplicità: l’una della “socratica consapevolezza” e l’altra della “matematica certezza”. La scuola della “matematica certezza” nacque quando divenne chiaro a tutti il successo della fisica galileiana acquisito grazie al formalismo matematico usato per descrivere i fenomeni che si manifestavano sotto gli occhi di tutti. A questo sviluppo ha contribuito in modo determinante il grande economista italiano Wilfredo Pareto.

Questa scuola di pensiero veniva però avversata da chi come Murray N. Rothbard faceva notare che “non esistono costanti quantitative in un mondo in cui vi sono coscienza di sé, libero arbitrio e libertà di adottare fini e valori per poi cambiarli”. Questa scuola di pensiero ha avuto un centro propulsore nei teorici dell’economia come Carl Menger, Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek il cui pensiero si può riassumere nella “socratica consapevolezza” del “sapere di non sapere”.

Insomma l’Economia non è come la Fisica. La Fisica studia la Logica che regge il mondo. In questa Logica ci sono costanti fondamentali e Leggi che nessun potente della Terra potrà mai modificare.

Nei fatti economici interviene l’uomo e questo rende molto discutibile qualsiasi pianificazione della vita produttiva. È necessario comprendere il mercato. I prezzi sono infatti uno

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straordinario strumento conoscitivo capace di creare nuovi spazi per le intuizioni imprenditoriali. Intuizioni che debbono confrontarsi con la concorrenza. Intuizioni che favoriscono le condizioni indispensabili affinché possano nascere nuove idee e nuove conoscenze di grande rilievo per incidere negli stessi eventi economici, quindi nel mercato con tutte le conseguenze nei diversi settori del vivere civile.

Alla scuola di pensiero opposto – quella della “matematica certezza” – appartengono le legioni di economisti che usando gli strumenti statistico-matematici più sofisticati producono modelli e stime di vario tipo per capire i fatti trascorsi e prevedere il futuro degli eventi economici. È una scuola di pensiero che appare spesso disarmata di fronte alla complessità di un’economia reale nella quale si dibattono i mercati di tutto il mondo.

Questa complessità non è certo legata a influssi stellari né a posizioni particolari dei satelliti del Sole come vorrebbero far credere i compilatori di oroscopi quando arrivano a prevedere cosa accadrà anche nel settore delle nostre problematiche economiche. Problematiche che hanno impegnato studiosi di grande valore come Mises, Husserl e Bergson, ma che lasciano il vastissimo settore degli studi economici ancora senza una descrizione rigorosa che sia in grado di fare previsioni. Infatti il mercato è un processo dinamico nel quale entra una variabile fondamentale legata all’uomo. Alla sua libertà d’azione. Al suo intuito. Ai suoi desideri. Al modo in cui lui decide di agire

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pensando di far bene ma senza avere la possibilità di prevedere i risultati su cui opera. E di più non riesce a fare.

Se per semplicità leghiamo le due scuole di pensiero ad alcuni esponenti illustri di ciascuna scuola: Carl Menger per quella della “socratica consapevolezza”, Jan Tinbergen e Paul Samuelson per quella della “matematica certezza”, si arriva ai nostri giorni con le due scuole di pensiero che ancora non hanno potuto dire di avere la metodologia giusta per descrivere e prevedere al meglio i fatti economici.

Sono queste le frontiere su cui si articolano le uniche certezze e previsioni possibili della nostra vita economica. Pensare che possano essere le posizioni di Giove o di Marte o di un qualche altro satellite del Sole a determinare il futuro dell’economia di una nazione e addirittura di ciascuno di noi è come continuare a credere che la Terra sia – immobile – al centro del mondo. Anzi, che non sia nemmeno di forma sferica, ma piatta. Come se Eratostene della nostra sfera terrestre non avesse misurato il raggio più di duemila anni fa.

II.2-9 Gli schiavi di Pompei (S7-03)Un gruppo di archeologi giapponesi dell’Università di

Tokyo – impegnati a Pompei – ha scoperto la prima evidenza sicura dell’esistenza di schiavi nell’antica metropoli sepolta da furore del Vesuvio. Studiando il settore Nord della città gli studiosi giapponesi hanno trovato due scheletri. Uno ancora in buono stato, l’altro non così ben conservato nel corso dei secoli che ci separano dal disastro di Pompei nel 79 d.C.. Lo scheletro

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in stato di migliore conservazione ha un anello di ferro all’altezza della cintura. L’altro ha una catena legata alla gamba. Gli schiavi portavano catene anche durante la notte per impedire loro di fuggire.

II.2-10 Le tracce genetiche di Gengis Khan (S12-03)Un’antica tradizione vuole che gli Hazaras siano i

discendenti di Gengis Khan, il fondatore dell’Impero Mongolo. Alla credibilità della tradizione veniva però meno la lingua e la posizione geografica che essendo a Nord dell’Afganistan faceva nascere seri dubbi. Uno studioso dell’Università di Oxford ha voluto credere a quell’antica leggenda e si è messo a studiare la struttura genetica degli uomini che vivono in una vasta zona geografica che va dalle steppe dell’Asia Centrale all’estremità Nord della Cina. Ha così scoperto che ben 16 milioni di persone sono portatrici di uno speciale cromosoma “Y” esattamente identico a quello degli Hazaras. Questo particolare cromosoma “Y” farebbe capo ai Mongoli che vissero nel XIII secolo e che hanno trasmesso questo timbro genetico ai loro discendenti oggi dispersi in quelle zone dell’Asia.

II.2-11 Le prime mummie scoperte in Inghilterra (F14-03)

Si era finora pensato che il rito e la tecnica della mummificazione fossero esclusivo privilegio delle civiltà dell’antico Egitto e del Sud America. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Sheffield ha scoperto i primi esempi di

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mummie che risalgono allo stesso periodo delle mummie egiziane. Si tratta di quattro corpi che appartengono a una bimba di tre anni, una ragazza di una decina d’anni e una coppia di uomo e donna che potrebbero essere i genitori. L’analisi genetica lo stabilirà. Le misure finora fatte usando la tecnica del Carbonio 14 permettono di concludere che i corpi risalgono a tremila anni fa e che sono stati mummificati almeno seicento anni prima della loro sepoltura. Le mummie sono state trovate a South Uist, un’isola a Nord Ovest della Scozia.

II.2-12 Le antiche strade in Siria e Iraq non più segreto militare (N15-03)

Nell’Università di Chicago c’è un Istituto che si occupa di Studi Orientali. Gli specialisti erano da molti anni impegnati per venire a capo di un problema apparentemente senza via d’uscita. Nessuno riusciva infatti a trovare le tracce di quelle millenarie vie di comunicazione che migliaia di anni fa (tra i 4 e i 5 mila anni) dovevano legare le città dell’antica Siria con quelle dell’antico Iraq. Grande è stata la gioia degli studiosi quando è stato loro comunicato che alle immagini del progetto “Corona” era stato tolto il vincolo di “segreto militare”. Gli archeologi, pur sapendo con certezza che quelle strade dovevano esserci, non erano riusciti a trovare alcuna traccia della loro esistenza. E infatti per scoprirle c’è stato bisogno di un satellite le cui immagini permettono di capire cosa è successo nel corso dei millenni. Il traffico dei tempi antichi ha prodotto uno strato di spessore pari a 70 centimetri. Quello strato ha trattenuto

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l’umidità favorendo la vegetazione che è invece assente nel resto della superficie desertica di tutte quelle zone. Una serie di lunghissime strisce “verdi” che si snodano sulle immense distese desertiche è la prova tanto cercata dagli archeologi.

II.2-13 Il più vecchio fossile ringiovanisce in Australia (N20-03)

Quattro laboratori australiani sono arrivati alla stessa conclusione: il più vecchio, il più celebre e il più completo scheletro d’uomo, detto “il giovanotto di Mungo”, non risale a sessantaduemila anni fa, ma soltanto a quarantamila anni. Questi ventimila anni di guadagnata “gioventù” sono il risultato degli studi fatti sia sui denti sia sulla sabbia della sepoltura. Pur guadagnando ventimila anni di gioventù, il “giovanotto di Mungo” continua a conservare un primato assoluto: quello di essere il veterano dell’intero continente australiano, dove la nostra specie vivente dovrebbe essere arrivata ben cinquantamila anni fa. Eppure di essa non c’è alcuna traccia, eccezion fatta per il “giovanotto di Mungo”.

II.2-14 Scoperta la più antica icona della cultura religiosa nel continente americano (N21-03)

Usando la tecnica del Carbonio-14 un gruppo di archeologi peruviani e americani ha scoperto che le origini della cultura religiosa nel continente americano risalgono a un periodo che va da quattromila a quattromila e seicento anni fa. La

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scoperta è stata fatta datando i due frammenti di un’urna in cui è incisa l’immagine di una divinità che la cultura andina ha tramandato di generazione in generazione, per secoli e secoli, fino a quando la civiltà Inca venne distrutta dall’invasione spagnola. I due frammenti di urna scoperti si trovavano in un sito funerario nella vallata del fiume Patavilca nella regione Northe Chico, 200 km a Nord di Lima (Perù). È in questa regione che è nata la civiltà Inca.

II.2-15 Scoperta un’antica civiltà pre-Maya (N23-03)

Nel sito El Cascal de Flor de Pino vicino alla Costa Atlantica del Nicaragua un gruppo di ricercatori dell’Università di Barcellona e dell’Università Unan di Managua ha scoperto le prove di una civiltà esistita 2700 anni fa: monumenti, rocce dipinte, vasi e una vasta area in cui venivano prodotte colonne usate per motivi religiosi. La zona studiata è vicina alla città Kukra-Hill. Secondo gli archeologi si tratta di una civiltà pre-Maya durata mille anni. L’interesse di queste ricerche sta nel fatto che per troppo tempo si era creduto che a guidare quella vasta zona fosse stata la civiltà Maya. Sembra invece che ad essa si sia arrivati attraverso molte tappe che hanno visto diverse civiltà millenarie contribuire al traguardo di quella che sarebbe poi stata la dominante civiltà Maya.

II.2-16 Trovata (forse) la più antica scultura del mondo (F26-03)

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La ricerca di oggetti che portino segni inconfondibili di strumenti inventati dalla specie vivente cui apparteniamo si arricchisce di una straordinaria scoperta. Se risultasse provata dalle analisi dei prossimi anni la conclusione avrebbe dell’incredibile: si tratterebbe, infatti, di una scultura e la sua data di realizzazione risalirebbe a ben 400 mila anni fa: epoca in cui vissero gli Homo Heidelbergensis e Homo Erectus. La scultura è molto piccola: lunga appena 6 centimetri. In essa sarebbero evidenti strutture tipo collo, braccia e gambe. La scultura è stata trovata in un sito archeologico vicino alla città di Tan-Tan in Marocco ed era sepolta sotto ben 15 metri di superficie erosa della riva del fiume Draa. C’è però chi contesta il valore di questa scoperta: il Professore Robert Bednarik, Presidente della IFRAO (International Federation of Rock Art Organizations), ritiene le forme di quella scultura prodotte da processi naturali. Solo ricerche ulteriori – anche usando metodi di datazione – permetteranno di arrivare a una conclusione sicura. Se questa scoperta venisse confermata sarebbe necessario rivedere molte nozioni date per scontate. Infatti le specie note come Homo Heidelbergensis e Homo Erectus sono state finora considerate non capaci di creazioni artistiche. Queste due specie sono però vissute in pieno periodo detto Auchelian. Periodo che va da 500 mila a 300 mila anni fa e che corrisponde all’epoca in cui sarebbe stata creata la piccola scultura scoperta in questi giorni.

II.2-17 Le origini della moneta (S29-03)

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Si pensava che a inventare le monete fossero stati i Greci e le antiche popolazioni della Lidia (un’antica regione dell’Asia Minore corrispondente oggi all’Anatolia occidentale). Pare invece che i Greci e i Lidi si siano ispirati a qualcosa che esisteva già, da molti secoli. È ciò che sostiene la specialista in numismatica, Cristina Thompson, dell’Università della California (Los Angeles). È vero che esistevano molti sistemi di scambio commerciale fuori dall’area mediterranea, come ad esempio il famoso “coltello-moneta” in bronzo usata dai Cinesi. Però nessuno era riuscito a trovare esempi di “monete” prima di quelle Greche e dei Lidi. Adesso invece sono stati scoperti in Palestina pezzi di monete che risalgono a 1200 anni prima dell’era Cristiana. I pezzi sono in argento e hanno una punzonatura. Secondo la ricercatrice americana è proprio l’impronta della punzonatura la prova che di quei “pezzi d’argento” si volesse garantire il peso e il titolo legale.

II.2-18 Non ce n’era alcuna fino a oggi (N43-03)È il primo esempio di incisione su parete ed è stato trovato

in una grotta del Derbyshire. Prima di questa scoperta l’esempio di arte paleolitica più settentrionale d’Europa si trovava in Francia nella grotta di Gouy, vicino a Rouen. Il luogo della scoperta inglese si trova 450 km più a Nord. L’incisione risale a 12 mila anni fa e chiarisce un mistero rimasto troppo a lungo senza risposta. Come mai non c’era traccia di intelligenza artistica in Inghilterra? Secondo gli esperti la nostra specie è apparsa in Europa circa 45 mila anni fa quando essa era abitata

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dall’uomo di Neanderthal che visse tra 100 e 300 mila anni fa in Europa occidentale e in Asia centrale. Nel corso dei 15 mila anni che seguirono, la nostra specie riuscì a rimpiazzare coloro che l’abitavano, le cui origini furono nella Valle di Neanderthal, in Germania occidentale.

II.2-19 La più antica tela di ragno (N44-03)Secondo gli studiosi di queste discipline i ragni erano

dotati di ghiandole per tessere tele già 410 milioni di anni fa. Però la più antica ragnatela risaliva a 40 milioni di anni fa. Ed ecco l’ultima frontiera in questa ricerca di paleontologia. Il Professore Samuel Zschokke dell’Università Svizzera di Basilea ha trovato in un blocco d’ambra un filo lungo 4 millimetri, con 38 goccioline tipiche della struttura che potrebbe produrre un ragno dei nostri tempi. Il blocco risale a 130 milioni di anni fa e rappresenta il campione più antico di ragnatela. Purtroppo le sue dimensioni sono troppo piccole per stabilire se quel filo era stato prodotto dal ragno per cacciare o per costruire un nido.

II.2-20 Scoperte con il laser nuove incisioni della più antica arte britannica (S51-03)

A occhio nudo era impossibile rendersene conto. Eppure gli 83 pezzi di pietra che compongono il famoso monumento preistorico di Stonehenge in Wiltshire (UK) erano stati osservati a occhio nudo per anni e anni dagli studiosi che, in quelle pietre, cercavano segni di primitiva scrittura. E quei segni erano stati trovati. Il primo nel 1953, seguito da un’altra diecina. Studiando

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al laser tre delle 83 strutture in pietra massiccia, sono state adesso scoperte molte incisioni, profonde un paio di millimetri con tracce di bronzo. Confrontando le attuali incisioni messe in evidenza grazie al laser con quelle di 50 anni fa, gli specialisti concludono che è in atto un processo di grave erosione e che si rischia la loro scomparsa. Uno studioso di Stonehenge, Mike Pitts, responsabile della rivista British Archaeology, ha fatto notare che queste incisioni sono l’unica impronta d’arte preistorica dell’antica Bretagna ed è incredibile che non siano state ancora studiate a fondo. Una stima di quanto costerebbe l’analisi al laser di tutto il complesso porta alla somma di cinquantamila Euro.

Stonehenge venne costruita 2300 anni avanti Cristo; le incisioni però sono state fatte mezzo millennio dopo, quando incominciarono a essere usati strumenti in bronzo. Gli archeologi erano e sono convinti che quando quel monumento è stato realizzato il suo scopo era di onorare i defunti. Altri hanno notato che, essendo la struttura allineata lungo la direzione che hanno i raggi del Sole quando sorge nel solstizio d’estate, il suo scopo doveva essere quello di misurare lo scorrere del tempo: una speciale forma di calendario a scadenza annuale. Una terza Scuola di pensiero sostiene che il Sole poteva avere valore simbolico per un monumento in onore dei defunti e che quindi le due ipotesi non sono contraddittorie.

II.2-21 Un primato della civiltà faraonica (N1-04)

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Quale civiltà ha avuto l’idea di far corrispondere un numero a una lettera del suo alfabeto? La risposta era stata finora: la civiltà Greca. E adesso invece pare che la risposta giusta sia la civiltà faraonica. Euclide, Archimede, Aristotele associavano la lettera alfa al numero uno, beta al due, gamma al tre e così via ed erano convinti che erano stati i loro antenati ad avere avuto quell’idea. Adesso però, uno studioso dell’Università di Montréal (Canada), Stephen Chrisomalis, dice che la civiltà Greca ha preso questa idea dalla civiltà Egizia. La numerazione alfabetica sarebbe nata sei secoli prima dell’era Cristiana nei negozi greci in Egitto. L’analisi dei documenti dell’amministrazione faraonica d’Egitto, che risalgono all’ottavo secolo a.C., sono l’evidenza che è nata in quella civiltà l’idea di associare un numero al simbolo di una lettera dell’alfabeto. Il commercio egizio lo ha trasmesso ai commercianti greci e questi lo avrebbero portato in patria.

II.2-22 Il riso più antico risale a 15.000 anni fa (N10-04)

Nel continente asiatico, tra il 36º e 37º parallelo, c’è un villaggio, Sorori. Qui, nel corso di una campagna di scavi archeologici, sono stati scoperti 59 chicchi di riso sui quali è stata fatta un’analisi al radiocarbonio. Il risultato ha reso felici i paleobotanici Lee Yung-Jo e Wo Yong-Yoon, dell’Università di Chungbuk, nella Corea del Sud. Infatti, finora le più antiche tracce di questo alimento, di cui oggi si nutre il 50% della popolazione mondiale, erano quelle trovate in Cina. I chicchi

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scoperti in Corea risalgono invece a ben quindici mila anni fa, battendo il record del riso cinese di ben settemila anni.

II.2-23 La birra dei faraoni (N14-04)È da tempo che i giapponesi si interessano agli usi e

costumi della civiltà egiziana. I maligni dicevano che prima o poi sarebbe venuta fuori qualche idea di tipo commerciale. Secondo quanto scrive una rivista francese, un birrario giapponese di Fukuoka avrebbe avuto l’idea di produrre lo stesso tipo di birra che bevevano gli egiziani del Nuovo Impero (1570-1070 a.C.). Il grado alcolico è doppio della nostra birra. Al traguardo della antica birra egiziana il produttore giapponese è arrivato studiando attentamente gli affreschi che riproducono i diversi processi di produzione della birra e chiedendo consigli all’archeologo giapponese Sakuji Yoshimura.

II.2-24 I brasiliani scoprono di essere più indiani che portoghesi (N34-02)

Vivono in Brasile 174 milioni e mezzo di persone, appartenenti a 218 etnie diverse. Negli ultimi dieci anni, però, l’Istituto Brasiliano di Geografia e Statistica (IBGE) ha registrato un forte aumento degli abitanti che si autodefiniscono indiani. L’aumento è del 25% circa. Ricerche recenti sul DNA dei brasiliani indicano che ben 45 milioni di essi avrebbero ascendenze genetiche legate agli indiani, che erano i legittimi abitanti del Brasile prima che arrivassero i portoghesi. Questi risultati sono stati ampiamente diffusi dai media e c’è chi pensa

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che sia diventato di moda dichiararsi indiani. Questo spiegherebbe l’anomalia del 25% citata sopra. Anomalia però confermata dalle ricerche sul DNA.

II.3 Fede, Crocifisso e Calendario

II.3-1 Miracoli e scoperte scientifiche (A22-02)A San Giovanni Rotondo, dove – grazie a Padre Pio – è

sorta dal nulla una struttura in grado di procurare sollievo a coloro che soffrono, è stato messo a fuoco il conflitto tra miracoli e scoperte scientifiche(*). Esiste questo conflitto? Diciamo subito: no. Vediamo perché.

Il fascino della nostra esistenza sta nella simbiosi tra sfera trascendentale e sfera immanentistica del nostro essere. Nella sfera immanentistica esistono fenomeni riproducibili, che noi sappiamo descrivere in modo rigoroso usando la Matematica. Questi fenomeni sono le basi della Scienza galileiana. Ad essi si dà il nome di scoperte scientifiche. Noi però non possiamo pretendere che le scoperte scientifiche esauriscano tutto ciò che esiste nell’Immanente. Ci sono infatti persone che scoprono fenomeni non riproducibili. Avvengono una sola volta e non possono essere descritti da formule matematiche. Questi fenomeni – se esistono veramente – sono i miracoli e la loro origine non può essere nella sfera immanentistica della nostra esistenza. A fare i miracoli non possono che essere persone dotate di capacità soprannaturali: i Santi.

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Noi scienziati operiamo nella sfera immanentistica della nostra esistenza. I Santi operano nella sfera trascendentale della nostra esistenza. Non bisogna confondere le due sfere. Esempio. Quando, fra cinque miliardi di anni, il Sole – che è una candela a fusione nucleare – si spegnerà, la sfera trascendentale della nostra esistenza sarà esattamente com’è adesso. L’errore che spesso qualcuno fa è quello di pretendere che la sfera trascendentale debba obbedire alla stessa Logica del Creato che noi studiamo nei nostri laboratori. L’Autore di questa Logica è Colui che ha anche fatto la sfera trascendentale della nostra esistenza. Ciò non vuol dire che la Logica del Creato – cui diamo il nome di Scienza galileiana – deve essere identica alla Logica seguita dal Creatore per la sfera trascendentale.

Se le due Logiche fossero identiche non potrebbero esistere i miracoli, ma solo, e soltanto, le scoperte scientifiche. Se così fosse le due sfere dell’Immanente e del Trascendente sarebbero la stessa cosa. È quello che pretendono coloro che negano l’esistenza del Trascendente.

Negare l’esistenza del Trascendente non è un dettaglio da poco. I miracoli sono la prova che la nostra esistenza non si esaurisce nell’Immanente. D’altronde le scoperte scientifiche sono la prova che non siamo figli del caos ma di una logica rigorosa. Questa logica ha come Autore un’intelligenza di gran lunga superiore alla nostra. Incredibile ma vero. Questo ce lo dice la Scienza galileiana. Le più grandi scoperte sono tutte venute, non migliorando i calcoli e le misure ma dal “totalmente inatteso”. Nessuno aveva saputo immaginare la natura

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“complessa” di quella cosa di cui siamo fatti e in cui viviamo: lo Spazio-Tempo (ne abbiamo parlato su FC 19). E cioè che se lo Spazio è reale il Tempo deve essere immaginario. Nessuno aveva saputo prevedere le proprietà delle Forze Elettromagnetiche. La Radioattività non era stata prevista da alcuna teoria; eppure in essa c’era la sorgente di una nuova forza fondamentale della Natura. Forza, la quale agisce da valvola di sicurezza che permette alle Stelle di brillare per miliardi di anni con estrema regolarità, senza mai spegnersi né saltare in aria. Nessuno aveva saputo prevedere che l’ultimo pezzettino pesante e carico di una pietra (il protone) non si può rompere, nonostante abbia dentro una miriade di altre cose cui si dà il nome di Universo Subnucleare. Nessuno aveva saputo prevedere l’esistenza delle “cariche” dette di “sapore subnucleare”. Queste cariche garantiscono la stabilità della materia: se una bottiglia di vino non si trasforma in energia, producendo disastri peggio di cento Hiroshima, lo dobbiamo alle cariche di “sapore subnucleare”. Se Colui che ha fatto il mondo si fosse distratto dimenticando di crearle, non potremmo essere qui a discuterne.

La Scienza – dice Giovanni Paolo II – nasce nell’Immanente, ma porta l’uomo verso il Trascendente. E infatti la Scienza ci dice che il suo Autore è più intelligente di tutti gli esseri pensanti. Nessuno escluso: filosofi, logici, matematici, pensatori, scienziati. Se questo è vero – come di fatto è – non si capisce perché Dio non possa essere Autore anche dei miracoli.

(*) Desidero vivamente ringraziare il Professore Francesco Giorgino in quanto lo stimolo per scrivere questo

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articolo sono state le sue domande nell’intervista in occasione del Meeting dei Giovani a San Giovanni Rotondo per celebrare la beatificazione di Padre Pio.

Didascalia figura: L’apparato sperimentale che ha permesso di scoprire che

il protone, pur avendo al suo interno un intero universo, non si può rompere, nonostante le altissime energie usate. In alto a sinistra nella foto si vede la parte superiore del magnete (SFM) installato nella macchina a protoni del CERN, denominata ISR. Questo gigantesco magnete era, al tempo della scoperta, il più grande del mondo.

II.3-2 La Pasqua e il Tempo: tra misticismo e realtà (A15-04)

Seguendo le antiche tradizioni legate alla Resurrezione di Cristo, i Vescovi del Concilio di Nicea decisero, nel 325 d.C., di tramandare ai posteri la regola esatta per calcolarne la data: la Pasqua deve cadere la prima domenica successiva alla prima Luna piena che segue l’equinozio di primavera. Da questa decisione nasce, con Dionigi il Piccolo, la concezione mistica del Tempo e, con Gregorio XIII, il Calendario perfetto. Ecco cosa scrisse Dionysius Exiguus: «... Ma avendo già parlato dell’orbita celeste essi (i Vescovi del Concilio di Nicea n.d.r.) decretarono questa regola non tanto come un calcolo matematico quanto come una illuminazione dello Spirito Santo e

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decisero di apporla, come àncora ferma e stabile, a questo calcolo ...».

Le origini del piccolo abate pare fossero legate a un popolo del Caucaso che gli Unni costrinsero ad andare verso il Sud. Oltre che abilissimo matematico e astronomo fu un grande esperto delle lingue greca e latina. Visse tra il 500 e il 560 d.C.. Flavio Aurelio Cassiodoro (490-583 d.C.) e Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (ca 480-524) nutrivano per questo abate una profonda stima e lo consideravano uno studioso di grande ingegno. Oltre che sulla Pasqua lavorò su una delle prime collezioni di regole cattoliche ufficiali da cui sono nate le regole canoniche. È forse bene ricordare che Boezio e Cassiodoro furono esponenti illustri della cultura di quei tempi: entrambi innalzati alle più alte dignità da Teodorico, re degli Ostrogoti d’Italia.

A Dionigi il Piccolo va il merito di avere elaborato del Tempo una concezione mistica, come testimonia quanto riportato in apertura. E infatti, dice il piccolo abate, la data della Pasqua va calcolata “come illuminazione dello Spirito Santo”.

Sapere cosa indica un Calendario quando ci sono in gioco le stagioni, gli equinozi e i solstizi è certamente molto importante. Nasce così il Calendario Perfetto di cui abbiamo parlato su FC 9. Ma siamo sempre con problemi di natura immanentistica. Quando c’è in discussione la data esatta della Resurrezione di Gesù, allora l’interesse trascende tutto ciò che possiamo immaginare nelle problematiche legate alla vita di tutti i giorni.

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L’equinozio di primavera assume un’importanza straordinaria: la sua data deve essere rigorosamente esatta. Non può essere né in ritardo né in anticipo rispetto alla data indicata dal Calendario.

Stabilire l’esatta ricorrenza della Pasqua fu il compito che Papa Giovanni I (470-526) affidò nell’anno 525 a Dionigi il Piccolo, al fine di rendere la Chiesa di Roma indipendente dalla Chiesa d’Oriente che, per la determinazione della Pasqua, aveva bisogno degli astronomi alessandrini.

Fu proprio Dionigi il Piccolo a porre fine alla egemonia degli astronomi alessandrini, preoccupandosi con rigore dei problemi astronomici e matematici ed estendendo per quasi un secolo, dal 532 al 627, la tavola dei cicli pasquali messa a punto dal Vescovo alessandrino Cirillo (370-444).

Il contributo di Dionigi andò ben oltre il problema dell’esatto computo del giorno in cui sarebbe arrivata la Pasqua per i tanti anni a venire. E infatti fu lui a stabilire un sistema di datazione che ha come base l’anno della Natività del Signore, l’Annus Domini, sostenendo il valore che in questi studi dovesse necessariamente avere la concezione mistica del Tempo.

Il motivo per cui Dionigi il Piccolo stabilì l’Annus Domini è di natura puramente spirituale e religiosa. Le tavole della Pasqua sulle quali lui lavorava utilizzavano, come riferimento temporale, il primo anno di regno di Diocleziano, imperatore famoso per essere stato un persecutore dei cristiani. Dionigi propose di prendere come riferimento fondamentale la data dell’Incarnazione del Nostro Signore. Fu così che Dionigi

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scrisse sulle sue tavole relative alle date della Pasqua: Annus Domini Nostri Jesu Christi 532-627.

C’è chi sostiene che Dionigi abbia sbagliato la data di Nascita di Gesù. Questi studiosi sostengono che, secondo il Vangelo di Matteo, Gesù sarebbe nato ai tempi di Eròde I il Grande, morto nel 4 a.C.. Altre fonti indicherebbero la nascita di Cristo in periodi che vanno da sette anni prima a sette anni dopo l’era cristiana.

Sulla base di questi studi intesi a stabilire la data in cui è nato Gesù è impossibile ridurre l’errore sull’incertezza dell’anno di nascita. L’unica certezza sta nella concezione mistica di questa data, come di quella della Pasqua. E infatti quando Dionigi lavorava sulla data della Pasqua, scrisse che quel giorno Santo andava calcolato non tanto in base alla conoscenza del mondo, quanto piuttosto come un’ispirazione dello Spirito Santo.

Per il tanto scrupoloso e attento abate l’esatto evolvere del Tempo non poteva essere legato solo ed esclusivamente ai moti della Terra e della Luna. Oggi sappiamo che anche il Sole si muove attorno al centro della Galassia e che la stessa Galassia si muove nel Cosmo. Non esistono le Stelle fisse. Tutto nell’Universo è in continua evoluzione. Questi però sono dettagli i quali debbono obbedire alla Logica del Creato.

Essa ci dice che esistono intervalli di tempo molto diversi; le oscillazioni dell’atomo di Cesio durano meno di un miliardesimo di secondo; i battiti del nostro cuore durano un secondo; una rotazione della Terra attorno al suo asse dura un giorno; una rotazione del Sole attorno a se stesso dura quasi un

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mese, poco meno del tempo necessario alla Luna per fare un giro attorno alla Terra; una rotazione della Terra attorno al Sole dura un anno; ci sono però altre quantità di tempo enormemente più lunghe come il tempo necessario per una rotazione del Sole attorno al centro della Galassia: milioni di anni; le enormi quantità di tempo legate alla vita delle Stelle: miliardi di anni; la longevità dell’Universo stimata sui cento miliardi di anni e forse più; la longevità del suo mattone (il protone): miliardi di miliardi di miliardi di volte più lunga. Queste quantità di tempo pur andando oltre i limiti dell’umana fantasia sono dettagli di poco conto rispetto al valore spirituale della venuta di Cristo sulla Terra e alla Sua Resurrezione.

La concezione mistica del Tempo ci dice che quando fra cinque miliardi di anni il Sole si spegnerà, la sfera trascendentale della nostra esistenza resterà illuminata dalla Resurrezione di Cristo. E infatti nasce con Cristo la concezione mistica del Tempo, che ha in Dionigi il Piccolo il suo primo maestro.

II.3-3 Il Calendario Gregoriano (A13-02)Tutte le civiltà avevano sempre cercato di sincronizzare le

date di calendario con le stagioni. A luglio deve corrispondere l’estate. A gennaio deve esserci freddo. Se il calendario ci dicesse che siamo a luglio mentre fuori nevica e fa freddo, dovremmo concludere che qualcosa non va. È quello che accadeva ai tempi del calendario di Romolo che aveva 304

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giorni. Nel giro di appena 3 anni la data del calendario indicava l’inverno mentre il clima era di piena estate.

Romolo, seguendo la devozione dei Romani per il numero perfetto 10, aveva deciso che il numero dei mesi del calendario doveva essere il numero perfetto. Il calendario con dieci mesi ebbe brevissima durata. Il successore di Romolo, Re Numa (715-673 a.C.), aggiunse al calendario di Romolo, due mesi supplementari: “Ianuarius” e “Febrarius”. Si arriva così all’anno lunare con 354 giorni. Ma la cultura romana detestava i numeri pari e Numa aggiunse un giorno decretando che l’anno dovesse contare 355 giorni. Per chi aveva bisogno di seguire l’andamento dell’agricoltura quel calendario era inutilizzabile. Dopo poco meno di 20 anni arrivava lo sfasamento tra data di calendario e stagioni. Ecco perché era necessario inserire nuovi giorni e addirittura mesi per tenersi in fase con le stagioni. Erano però indispensabili regole precise che, per negligenza o interesse, venivano violate. Si arriva così a quello che Giulio Cesare chiamò “ultimus annus confusionis” e cioè l’anno 46 a.C. cui Cesare – per riportare in fase le stagioni col calendario – dette 445 giorni. E seguendo i consigli dell’astronomo alessandrino Sosigene decretò che un anno doveva avere 365 giorni con un giorno in più ogni quattro anni.

A partire dall’anno dopo (45 a.C.) i Romani ebbero a loro disposizione un calendario in grado di garantire per millenni e millenni un perfetto accordo con le stagioni. Per avere uno sfasamento tra stagioni estreme bisogna aspettare 23.462 anni. Se non fosse per la dimensione mistica del tempo è fuori

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discussione che il calendario giuliano sarebbe rimasto così per i millenni a venire. E invece, nel 325 d.C. i vescovi del Concilio di Nicea stabiliscono che Gesù è risorto la domenica successiva al plenilunio che segue l’equinozio di primavera.

Nel cuore della cultura cattolica nasce così l’esigenza di sincronizzare le date del calendario, non con i 183 giorni che separano due stagioni estreme (inverno ed estate) ma, con uno e un solo giorno: l’equinozio di primavera.

Se si sbaglia quella data, il giorno della Resurrezione di Cristo non corrisponde più al vero. Il calendario di Giulio Cesare, come detto già, va bene per le stagioni, ma dopo 1280 anni produce uno sfasamento di 10 giorni con l’equinozio di primavera. Il che vuol dire che il calendario indica il 21 marzo ma l’equinozio è occorso dieci giorni prima.

Fu per questo motivo che Papa Gregorio XIII decretò nel 1582 (1255 anni dopo il Concilio di Nicea) di togliere 10 giorni al calendario giuliano (passando dal 4 ottobre al 15 dello stesso mese) e di continuare nei secoli a venire con la regola di sottrarre 3 giorni ogni 4 secoli (infatti il Calendario Gregoriano stabilisce che gli anni secolari non divisibili per quattro non devono essere bisestili. Ecco perché non lo sono stati gli anni 1700, 1800, 1900 mentre lo è stato il 2000). Con questo calendario per arrivare a uno sfasamento tra stagioni estreme bisogna aspettare 610 mila anni. L’incredibile precisione del calendario gregoriano (sette centesimi di secondo al giorno) nasce quando la misura del tempo era affidata ancora alle meridiane e corrispondeva a una

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precisione di qualche secondo al giorno. La Scienza, il pendolo e gli orologi atomici non erano ancora nati.

Il calendario adottato dai 6 miliardi di nostri fratelli e sorelle nel mondo è figlio della dimensione mistica del tempo legata alla Resurrezione di Cristo. Dimensione mistica che fu sentita da quella straordinaria figura di abate, matematico e astronomo tra i più eccelsi del 500 d.C., “Dionigi il Piccolo” e che portò un appassionato cultore di fede cattolica, Aloysius Lilius di Cirò in Calabria, a risolvere i problemi legati ai moti apparenti ed effettivi del Sole e della Luna formulando le regole del calendario gregoriano. Il calendario più preciso al mondo poteva essere la cultura atea a scoprirlo. Non è stato così.

II.3-4 Trenta dì conta novembre. Perché? (A44-02)Con l’arrivo del mese di Novembre ritorna d’attualità

l’antico motivo: “trenta dì conta novembre, con april, giugno e settembre, di ventotto ce n’è uno, tutti gli altri ne han trentuno”. Come mai questo mese, insieme ad altri 3, conta 30 giorni? E perché invece ce ne sono sette con 31 e uno solo con 28 (o 29 negli anni bisestili)?

La risposta ha le sue radici nel calendario romano, nato per volontà di Romolo che aveva tradotto in un’azione concreta la devozione dei Romani per la numerologia. Devozione che considerava “perfetto” il numero 10. E 10 furono i mesi del primo calendario di Romolo, che, a parte le diverse eccezioni, dette ai mesi il nome del loro numero sequenziale. Il “primo” mese non venne chiamato “Primus” in quanto doveva essere

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dedicato a Marte, dio della guerra. Venne fuori così la prima eccezione: “Martius” (il nostro Marzo). Al secondo Romolo dette il nome di “Aprilis” per ricordare il mese in cui si “aprono” le gemme. Il terzo lo dedicò a una dea italica, “Maius”; il sesto alla regina dei Romani, “Giunone”. Solo dopo 7 secoli il Settimo e l’Ottavo divennero Luglio (in onore a Giulio Cesare) e Agosto (per onorare l’Imperatore Augusto). Nonostante il nostro calendario di mesi ne abbia 12, gli ultimi quattro nomi sono arrivati fino a noi: Settimo (September), Ottavo (October), Nono (November) e Decimo (December). E invece Settembre è il nono, Ottobre è il decimo, Novembre l’undicesimo e Dicembre il dodicesimo.

Fu il successore di Romolo (Numa) ad aggiungere ai dieci mesi di Romolo altri due mesi: Ianuarius e Februarius.

E fu Cesare a spostare il primo mese dell’anno da Marzo a Gennaio (mese più vicino al solstizio d’inverno) e a stabilire l’alternanza tra i mesi con 30 e 31 giorni nel sistema di dodici mesi; unica eccezione Febbraio cui dette 29 giorni nell’anno normale e 30 nel bisestile. Adesso però i giorni di Febbraio sono 28. Vediamo come ci si arriva.

Il Senato Romano, dopo la morte di Cesare, decise di chiamare “Julius” (Luglio) il quinto mese del calendario di Romolo e “Quintilis” sparì dal calendario.

Ed ecco la chiave del mistero che fa saltare l’alternanza, tra mesi con 31 e 30 giorni, voluta da Cesare. Il nome del sesto mese “Sextilis” venne eliminato quando – scomparso l’Imperatore Augusto – il Senato decise di onorarne la memoria.

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E qui nacque un problema. Il mese “Sextilis” aveva 30 giorni, mentre “Quintilis” ne aveva 31 per la regola dell’alternanza tra mesi con 30 e 31 giorni, decretata da Giulio Cesare. I sostenitori dell’Imperatore Augusto richiesero al Senato di attribuire a “Sextilis” 31 giorni, in quanto il mese che portava il nome dell’Imperatore Augustus non poteva avere un giorno in meno di quello dedicato a Julius.

Era però necessario rispettare quanto possibile l’altra regola voluta da Giulio Cesare: l’alternarsi tra i mesi di 30 e 31 giorni. Dando 31 giorni ad Agosto bisognava darne 30 a Settembre (che ne aveva invece 31); e poi 31 a Ottobre (che ne aveva 30); portare Novembre da 31 a 30; e chiudere con Dicembre a 31, visto che viene dopo un mese con 30 giorni.

A conti fatti la regola dell’alternanza tra mesi con 31 e 30 giorni nella seconda parte dell’anno, a partire da Settembre, lasciava invariato il numero di giorni. Restava però il giorno in più dato ad Agosto, che prima ne aveva 30. Al fine di avere 365 come numero totale di giorni in un anno (non bisestile) era necessario togliere quel giorno a un altro mese. Quel giorno non poteva che essere tolto a Febbraio che – negli anni normali – passava così da 29 a 28.

Ecco l’attuale sequenza dei numeri di giorni che si associano ai mesi. Il nostro Novembre ne aveva 31 ai tempi di Giulio Cesare. È stato declassato per onorare la memoria dell’Imperatore Augusto.

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II.3-5 L’equinozio di primavera: grande scoperta di Euclide (A12-04)

Un bicchiere di vino mezzo pieno è esattamente eguale al bicchiere di vino mezzo vuoto. Se al posto del “pieno” mettiamo la luce del giorno e al posto del “vuoto” il buio della notte, ecco che siamo in pieno “equinozio”. Con questo termine si vuole infatti precisare che la nostra Terra si trova in una posizione di perfetto equilibrio tra “luce” e “buio”. Esistono due equinozi. Il primo è quello detto “di primavera” e arriva il 21 marzo. Il secondo è detto “di autunno” e arriva il 21 settembre. Dal giorno dell’equinozio di primavera in poi, la quantità di luce andrà aumentando, come se nel bicchiere aggiungessimo ogni giorno un po’ più di vino per arrivare al massimo: solstizio d’estate (22 giugno). Da questa data è come se dal bicchiere di vino incominciassimo a toglierne un po’ ogni giorno, per ritornare, di nuovo alla condizione di secondo “equinozio”: metà pieno e metà vuoto. Dopo l’equinozio di autunno è come se dal bicchiere togliessimo ogni giorno un po’ di vino, per arrivare al “minimo”: solstizio d’inverno (22 dicembre).

La Terra non è come un bicchiere di vino. La Terra è una sfera che gira a trottola ed è illuminata dai raggi del Sole. La distanza dalla nostra Stella è enorme (150 milioni di chilometri) rispetto alle dimensioni della sfera terrestre, il cui diametro è diecimila volte più piccolo. Ecco perché i raggi del Sole è come fossero tutti perfettamente paralleli tra di loro e paralleli al piano dell’orbita terrestre. Se l’asse di rotazione della sfera terrestre fosse perpendicolare ai raggi del Sole, il tempo di “luce” sarebbe

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sempre eguale a quello di “buio”. Tutti i giorni sarebbero “equinozi”. L’asse di rotazione perpendicolare ai raggi del Sole equivale a essere perpendicolare al piano dell’orbita. E invece no. L’asse ha un angolo di 23 gradi e mezzo rispetto alla perpendicolare al piano dell’orbita. Vediamolo con un esempio.

La Torre di Pisa non è perpendicolare al piano del prato che la circonda. Se immaginassimo di piantare accanto alla Torre un bell’asse di legno in modo che la sua direzione fosse quella di un “filo a piombo”, troveremmo che c’è un angolo tra le due direzioni. Il “filo a piombo” è perpendicolare al prato, la Torre no. È questo angolo che ha reso famosa la Torre di Pisa.

Nel circuito cosmico che la Terra percorre attorno al Sole, il piano dell’orbita è l’analogo del prato attorno alla Torre di Pisa. La perpendicolare al piano dell’orbita è l’analogo della direzione del “filo a piombo”. L’angolo tra “filo a piombo” e Torre dà alla Torre di Pisa la sua qualifica di Torre pendente.

Con un po’ di fantasia potremmo immaginare la Torre di Pisa ridotta a un asse, attorno al quale costruire una grande sfera ruotante con diametro pari all’altezza della Torre. Questa sfera ruoterebbe attorno a un asse che non è perpendicolare al prato. La nostra Terra è una trottola cosmica centomila volte più grande della nostra pur fantastica sfera ruotante di Pisa. Il suo asse è inclinato come quello della Torre; il valore esatto è di 23 gradi e mezzo rispetto alla perpendicolare al piano dell’orbita.

Per avere lo stesso numero di ore con luce e con buio bisognerebbe avere l’asse della trottola perpendicolare al piano

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dell’orbita. Insomma quell’angolo di 23 gradi e mezzo dovrebbe essere zero.

Se un nostro fratello del cosmo osservasse la trottola su cui siamo imbarcati troverebbe che la Terra gira attorno al Sole, ma quell’angolo non cambia. Come spiegare l’esistenza dell’equinozio di Primavera? Ecco il problema risolto da Euclide.

Il nostro fratello del Cosmo si trova fuori dal Sistema Solare. Se si mettesse là dove c’è il Sole, scoprirebbe quello che scoprì Euclide. L’asse della trottola-Terra, pur rimanendo fisso nello Spazio (in effetti si muove lentissimamente grazie al terzo movimento della Terra, ma si tratta di un effetto trascurabile nel corso di un anno) viene a trovarsi su piani diversi rispetto alla direzione dei raggi di luce emessi dal Sole. La luce del giorno è il Sole a regalarcela. Il buio della notte nasce dal fatto che la Terra gira a trottola. Euclide scoprì che esiste una posizione nell’orbita (che il Padre della Geometria chiamò punto ipsilon, simbolo ), in cui l’asse della trottola-Terra si trova in un piano con caratteristiche tali da produrre le condizioni dell’equinozio di primavera (metà luce e metà buio). Quel piano infatti è perpendicolare alla direzione dei raggi di luce che vengono dal Sole. L’asse della trottola-Terra ha sempre lo stesso angolo di 23 gradi e mezzo rispetto alla perpendicolare al piano dell’orbita, ma l’asse della trottola-Terra si trova in un piano che è perpendicolare al piano dell’orbita, quindi ai raggi del Sole. È come se la Terra fosse idealmente tagliata in due metà perfette da un piano perpendicolare ai raggi del Sole quando si trova nel

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punto “ipsilon”. Ecco perché è possibile produrre le condizioni di mezzo bicchiere pieno e mezzo vuoto. Lo stesso accade sei mesi dopo, quando la Terra si troverà nel punto del secondo equinozio. Luce e buio sono in quantità identiche per via delle proprietà geometriche che possiede una trottola con l’asse non perpendicolare al piano dell’orbita, ma che gira in un’orbita entro cui ci stia il punto (il Sole) da cui viene la luce.

II.3-6 Anno bisesto non è funesto. Come nascono e a cosa servono i bisestili (A9-04)

Racconta un’antica favola siberiana che le lunghe notti nel cuore dell’inverno venivano rallegrate da una gara tra ballerine. Per vincere era necessario fare un giro attorno a un fuoco in modo tale che quel giro corrispondesse a un numero intero di rotazioni a trottola [Fig. 1]. Le ballerine erano brave nelle piroette, ma accadeva spesso che per vincere era necessario ripetere la gara molte volte essendo poco probabile che un numero intero di rotazioni a trottola coincidesse con un giro attorno al fuoco. Gli arbitri erano estremamente severi nel giudicare che, nel cerchio, l’esatto punto di arrivo corrispondesse a un numero intero di rotazioni a trottola.

La Terra ruota a trottola (in un giorno) e gira attorno al Sole (in un anno). Se, come nella gara delle ballerine siberiane, ci fossero in gioco solo questi due movimenti e se un giro coincidesse con un numero intero di rotazioni a trottola, non ci sarebbe bisogno degli anni bisestili. In verità la Terra è dotata di tre movimenti e il ruolo chiave non lo ha il ritorno (ogni anno)

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nella stessa posizione dell’orbita, ma il ritorno alla stessa inclinazione dell’asse della trottola-Terra, rispetto al Sole. L’inclinazione di questo asse rispetto al piano dell’orbita, assieme al moto orbitale, produce le stagioni.

Passiamo in breve rassegna i tre movimenti. Il primo è quello a trottola e fu scoperto da Eraclide (IV secolo a.C.). Dura 24 ore e da esso nascono il buio della notte e la luce del giorno.

Il secondo movimento è di rotazione attorno al Sole e dura un intervallo di tempo cui diamo il nome di “anno solare”. Fu scoperto da Aristarco (III sec a.C.) ed è da esso che nascono le stagioni, grazie alla inclinazione dell’asse terrestre prima citata.

Il terzo movimento dura poco meno di 26 mila anni (25.620) e fu scoperto da Ipparco nel II secolo prima dell’era Cristiana. Questo terzo movimento riguarda l’asse della trottola-Terra che gira attorno alla perpendicolare al piano dell’orbita terrestre. Questo movimento spiega perché la nostra Stella Polare è diversa da quella che brillava ai tempi degli Egizi.

I tre movimenti non sono legati tra di loro, ecco perché è necessario introdurre gli anni bisestili.

Quando giriamo attorno al Sole la proprietà cruciale non è la posizione nell’orbita, ma l’angolo di inclinazione dell’asse terrestre rispetto al Sole. Il cosiddetto solstizio d’estate (21 giugno) [Fig. 2abcd], corrisponde alla massima inclinazione dell’asse della trottola-Terra verso il Sole, i cui raggi incidono sull’emisfero Nord quasi a perpendicolo nella zona con latitudine pari a 23 gradi e mezzo. Nasce da questo valore massimo dell’inclinazione verso il Sole il periodo estivo. A

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causa del terzo movimento questa stessa inclinazione dell’asse terrestre non si realizza quando – ogni anno – la Terra ritorna nello stesso punto dell’orbita, ma venti minuti prima. Il che corrisponde a circa quarantamila chilometri, essendo la Terra dotata di una velocità pari a poco più di cento mila chilometri orari.

Il sincronismo tra data di calendario e inclinazione dell’asse terrestre rispetto al Sole nasce dal bisogno di non avere Giugno con la neve e Dicembre con il solleone. Se non fosse per le stagioni non ci sarebbe alcun modo per distinguere Dicembre da Giugno. È per evitare lo sfasamento tra data di calendario e stagioni che Giulio Cesare introdusse nel 45 a.C gli anni bisestili e Papa Gregorio XIII le ulteriori correzioni nel 1582.

L’anno bisestile nasce dall’esigenza di avere la data del calendario quanto più possibile vicina all’esatta inclinazione dell’asse terrestre, rispetto al Sole. Se il ritorno allo stesso valore di questo angolo corrispondesse a un numero esatto di giorni, non sarebbero necessari né gli anni bisestili introdotti da Giulio Cesare, né le correzioni volute da Papa Gregorio XIII. Accade invece che 365 giorni sono pochi. È necessario poco meno di un quarto di giorno in più ogni anno. Siccome non si può dividere un giorno in pezzettini, l’unica soluzione è di aggiungere un giorno ogni quattro anni; si arriva così a un valore medio per la durata di un anno che è 365,25 giorni. Troppo, per ottenere lo stesso valore dell’angolo.

Ecco perché Papa Gregorio decise di non avere bisestili tre anni ogni quattro secoli. Anche questa correzione lascia un

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leggero eccesso di frazione di giorno all’anno. È necessario togliere tre anni bisestili ogni diecimila anni per avere un calendario detto “perfetto”. Motivo: con questo calendario non ci sarebbe alcuno sfasamento di stagioni in un milione di anni.

Conclusione: la necessità degli anni bisestili non ha alcunché di misterioso ed è totalmente spiegata con i tre movimenti della Terra. Se così non fosse sarebbe stato impossibile elaborare il calendario “perfetto”. Credere nel “bisesto anno funesto” vuol dire ignorare che il “bisesto” nasce esclusivamente dai tre movimenti indipendenti di cui è dotata la Terra.

La gara delle ballerine siberiane

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La ballerina ruota a trottola attorno a sé stessa ma gira anche attorno al fuoco che è dentro l’orbita. In questo disegno l’asse di rotazione a trottola della ballerina è perpendicolare al suolo. Nel caso della nostra Terra quest’angolo è di 66 gradi e mezzo.

Figura 1

Figura 2

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II.3-7 Togliere il Crocefisso vuol dire cancellare le radici del Calendario Perfetto (N47-03)

Premessa. Il 30 ottobre ha avuto luogo a Frascati la Cerimonia di premiazione dei migliori temi svolti dagli studenti delle Scuole pre-Universitarie d’Italia che hanno partecipato al Concorso “Scienza per tutti”. La Conferenza di chiusura della Cerimonia è stata tenuta dal Professore Antonino Zichichi. Dopo la Conferenza molti ragazzi hanno posto domande tra le quali alcune sul significato del Crocefisso per la nostra Cultura. Visto l’interesse dei ragazzi, ecco la sintesi del Professore Zichichi.

Un esponente della Cultura atea ha detto che il Presidente Ciampi non avrebbe dovuto parlare di Cultura ma solo di Fede quando è intervenuto per difendere il Crocefisso. Nella Cerimonia di Frascati – presente il Sindaco, il Direttore dei Laboratori, molti miei colleghi – ho detto che Ciampi aveva fatto bene a parlare di Cultura. Infatti coloro che vorrebbero rimuovere il Crocefisso dovrebbero rimuovere i calendari, strappare le agende. Insomma non fare uso di alcuna cosa che abbia un legame col calendario gregoriano.

Il nostro calendario, adottato da tutti i sei miliardi e mezzo di abitanti della Terra nasce dal Crocefisso. Da Gesù che dopo la Croce è risorto. E quando è risorto? Risposta: la prima domenica dopo il plenilunio che segue l’equinozio di primavera.

L’equinozio di primavera dura un giorno. Appena il tempo in cui il buio e la luce hanno durate identiche. Il calendario cattolico non può sbagliare la data dell’equinozio. Motivo: se si sbaglia, salta la data della Resurrezione di Cristo.

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Questo problema fu messo a fuoco da Dionigi il Piccolo (nel 500 d.C.). Il piccolo frate che era però un grande matematico e astronomo, attribuì al tempo una “dimensione mistica”. Nasce da questa “dimensione mistica” l’esigenza di risolvere il problema del sincronismo tra la data di calendario e il giorno esatto dell’equinozio di primavera.

I calendari di tutte le civiltà e di qualsiasi epoca avevano come problema quello di sincronizzare la data di calendario con le stagioni, non con un particolare giorno dell’anno. Se non fosse per le stagioni dire 21 giugno o 21 dicembre sarebbe la stessa cosa. A giugno fa caldo a dicembre fa freddo (nell’emisfero Nord). Se un calendario indicasse che siamo a giugno ma fuori c’è freddo e neve, addio calendario.

Accadde ai Romani che avevano una particolare preferenza – quasi assoluta – per il numero 10: da essi considerato perfetto. E decisero che un anno dovesse consistere di 10 mesi. Nel giro di pochi anni le date del calendario erano fuori fase con le stagioni. Fu così che i Romani aggiunsero 2 mesi. Del calendario con 10 mesi conserviamo la memoria: dicembre, vuol dire decimo mese; novembre, nono; ottobre, ottavo; settembre, settimo. E invece dicembre è il dodicesimo mese dell’anno e così novembre undicesimo; ottobre decimo; settembre nono.

Il culmine della confusione si ebbe con l’anno definito da Giulio Cesare ultimus annus confusionis, con 445 giorni. Accadde nel 46 a.C. (709 dalla fondazione di Roma). Fu infatti Giulio Cesare a introdurre il calendario che, apportava le

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correzioni bisestili – 1 giorno in più ogni 4 anni – per correggere l’anno fatto di 365 giorni suddivisi in 12 mesi.

Questo calendario va bene per le stagioni. Esso va fuori fase dopo 23 mila 462 anni. Però il calendario giuliano non va bene per l’equinozio di primavera. Dopo mille anni sbaglia di quasi 8 giorni. Papa Gregorio XIII decretò che nei millenni a venire era necessario togliere 3 giorni ogni 4 secoli, per evitare l’errore del calendario giuliano sulla data della Resurrezione di Cristo.

Il nostro calendario, detto gregoriano, nasce dal bisogno di avere la data esatta della Resurrezione di Cristo. Se non fosse per questo problema “mistico” avremmo potuto continuare con il calendario giuliano che esce di fase con le stagioni dopo un numero di anni che supera il doppio di quello necessario alla nostra civiltà (10 mila anni).

Il calendario gregoriano porta invece al “calendario perfetto”. Un calendario che resta in fase con le stagioni per milioni di anni. Nessuna Cultura aveva saputo elaborare un calendario così preciso come il nostro.

Se non fosse stato per la Resurrezione di Cristo non sarebbe stato risolto il problema di avere un calendario le cui date fossero perfettamente in fase con un intervallo piccolo di tempo, com’è quello di un singolo giorno. Saremmo rimasti con i calendari sincronizzati con le stagioni. Ecco perché Ciampi ha ragione ad associare il Crocefisso non solo con la Fede ma anche con la Cultura Cattolica, in quanto il calendario perfetto è motivo

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di orgoglio per quella Cultura che lo ha saputo elaborare. Questa Cultura è la nostra.

II.4 La nostra Terra

II.4-1 Il Monte Bianco cresce (S43-01)Usando i satelliti e le tecnologie più avanzate è stato

possibile stabilire che l’altezza del Monte Bianco non è 4.807 metri, bensì 4.810 metri e quaranta centimetri. L’errore in questa misura è di dieci centimetri in più o in meno. Questo errore dipende dalla precisione nella misura del Tempo e corrisponde a tre decimi di miliardesimi di secondo. L’interesse di misurare la più alta vetta d’Europa sta nel fatto che le Alpi sono state prodotte dalla spinta che la placca Africana esercita contro la placca Euro-Asiatica, su cui noi ci troviamo. Questo processo dura da milioni di anni e non si è ancora esaurito. Il crescere continuo dell’altezza del Monte Bianco dovrebbe essere una conseguenza. Saranno necessarie ulteriori misure di alta precisione nei prossimi anni per stabilire una correlazione quantitativa tra il movimento della placca Africana e l’aumento effettivo dell’altezza del Monte Bianco.

II.4-2 L’Etna sta cambiando carattere: la lenta evoluzione del “gigante” (A45-01)

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Nel passato la lava dell’Etna è arrivata fino al mare, passando per Catania. Le popolazioni della zona lo hanno definito “gigante buono”. Alto 3323 metri esso è il più grande vulcano attivo d’Europa.

Contrariamente al Vesuvio non ha mai prodotto esplosioni ma solo lente e costanti emissioni di lava. Ed è proprio studiando la composizione chimica della lava che un gruppo di studiosi francesi ha scoperto una grande novità. Il “gigante buono” potrebbe diventare cattivo. Non domani. Né l’anno prossimo. I tempi in gioco sono diecine di migliaia di anni. Però il destino dell’Etna sembra sia quello di cambiare radicalmente natura.

L’Etna è nato come vulcano di “punto caldo”. Con questo termine si indicano quei vulcani che nascono nel cuore stesso della Terra infuocata. Una “bolla” di lava si stacca dalla massa incandescente che sta sotto la crosta terrestre, la buca per effetto termico, la attraversa e arrivando in superficie diventa vulcano che emette lava. L’Etna si trova però nella zona di separazione tra “placca Africana” e “placca Euro-Asiatica”. Accade che la placca Africana da milioni e milioni di anni si infila sotto quella Euro-Asiatica. Le Alpi sono nate da questo fenomeno di inserimento della placca Africana sotto la nostra Euro-Asiatica.

Quando una placca arriva a profondità di centinaia e centinaia di chilometri, dove inizia il cuore incandescente del globo terrestre, si liquefà e, se trova fratture, emerge fino alla superficie, manifestandosi come vulcano. Questi vulcani vengono denominati di “subduzione”. La loro lava è più

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“leggera”: più ricca di zolfo e acqua, elementi tipici della crosta terrestre.

La lava dei vulcani tipo “punto caldo” è invece più ricca di Titanio, Niobio e Zirconio, che sono elementi detti “pesanti” (in quanto fatti di nuclei con maggiore numero di protoni e neutroni, rispetto a quelli dello zolfo e dell’acqua).

Lo studio della lava che l’Etna ha emesso da mezzo milione a centomila anni fa ha permesso di stabilire che essa è di tipo “pesante”. Studiando la lava emessa a partire da centomila anni e fino ai nostri giorni è stato possibile stabilire che essa è diventata sempre più di tipo “leggero”. Il passaggio dalla lava “pesante” alla lava “leggera” si può capire tenendo conto del movimento che ha la “placca Africana” rispetto alla “placca Euro-Asiatica”. Insomma la crosta africana continua a infilarsi sotto quella Euro-Asiatica e in questa spinta verso il Nord ha finito con l’incrociare il canale diretto che l’Etna aveva con il globo terrestre incandescente. La lava “pesante” ha incominciato a mescolarsi con quella “leggera”. Ecco perché è diventata sempre più “leggera”.

Immaginiamo una pentola d’acqua bollente con un tubicino che viene immerso al fine di permettere al liquido di salire direttamente verso l’alto. È ciò che accade con i vulcani detti del tipo “punto caldo”. Nel caso del vulcano però il tubo ovviamente non c’è. Come detto prima, il buco verso l’alto viene prodotto direttamente dal moto di una “bolla” incandescente che si stacca dalla massa di lava del nucleo infuocato della Terra e penetra attraverso la crosta terrestre.

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Adesso immaginiamo di inserire nell’acqua bollente una tavoletta di materiale solido leggerissimo. A contatto con l’acqua bollente quel materiale diventa liquido e in parte anche gassoso; se trova il “tubicino”, si mescola al liquido che c’era già nello stesso tubicino. Qualcosa di analogo accade con il più grande vulcano d’Europa.

II.4-3 Conoscere meglio la velocità delle placche terrestri (F50-01)

La struttura della crosta terrestre non è data dai continenti, come potrebbe sembrare a prima vista. Mezzo Oceano Atlantico si trova sulla stessa “placca” in cui ci sono Europa e Asia: la placca “Euro-Asiatica”. La crosta terrestre è suddivisa in sei grandi “placche”, alcune delle quali, tanto tempo fa, erano a contatto. Eppure New York è molto distante da Roma. È possibile che si sia arrivati a distanze così grandi nel corso degli anni trascorsi? E chi dà a queste placche la velocità di spostamento?

Questa velocità trae la sua origine dai movimenti che sono attivi nella stessa lava e che sono di qualche centimetro l’anno. Le “placche” sono come enormi zattere le quali navigano su un “mare” di lava. La velocità di navigazione ha appunto lo stesso valore: qualche centimetro l’anno. A questa velocità per andare da Roma a New York ci vorrebbero duecento milioni di anni circa. Non c’è quindi da meravigliarsi se, duecento milioni di anni fa, le due placche – quella in cui c’è adesso l’Europa e

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l’altra in cui c’è l’America del Nord – erano unite. La nostra placca si sta allontanando da quella in cui c’è il continente Nord Americano. E infatti tra le due placche c’è l’enorme fessura nel cuore dell’Oceano Atlantico, da cui esce continuamente lava. Studi in atto hanno come obiettivo la misura esatta delle velocità nelle varie “placche”.

II.4-4 Prevedere i terremoti (S3-02)

Era da tempo stata notata una correlazione tra terremoti e disturbi nella trasmissione di onde radio attraverso la ionosfera (la zona di spazio che inizia a 60 km di altezza e si estende fino a oltre i 200 km). Nessuno riusciva però a spiegare cosa potesse legare un terremoto a un fenomeno così lontano. La novità sta in un lavoro di due geofisici americani, Freund e Ouzonov. Analizzando i dati di un satellite della NASA (MODIS) essi hanno trovato che, nei giorni precedenti a un terremoto occorso in India il 26 gennaio dello scorso anno, la temperatura aveva subito un aumento tra i 2 e i 5 gradi centigradi. Questo aumento di temperatura sarebbe prodotto da una radiazione infrarossa che fuoriesce dalla superficie terrestre. La radiazione sarebbe generata dalla pressione esercitata sulle rocce sottostanti. Di sicuro c’è che Freund e Ouzonov sono riusciti, comprimendo fortemente pezzi di roccia, a produrre cariche elettriche che migrano rapidamente attraverso la roccia. I moti sismici sotterranei producono forti pressioni sulle rocce e quindi cariche elettriche. Secondo Freund e Ouzonov queste cariche arrivando

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in superficie genererebbero la radiazione infrarossa che, oltre a produrre un aumento locale della temperatura, avrebbe anche effetti sulla ionosfera.

Ulteriori studi permetteranno di capire se si è veramente aperta una nuova strada nella previsione dei terremoti.

II.4-5 Potrebbero essere i Pirenei il vero “tetto del mondo” (A9-02)

La densità dell’acqua è superiore a quella del ghiaccio; ecco perché le montagne di ghiaccio (iceberg) galleggiano. Quando vediamo un iceberg alto cinque metri, sotto ci sono cinquanta metri di ghiaccio. Anche le montagne obbediscono allo stesso principio (scoperto da Archimede). Con le montagne il rapporto è però di uno a tre. Se una montagna è alta tremila metri le sue radici dovrebbero andare non oltre i dieci chilometri. Sembra invece che le radici dei Pirenei sprofondano oltre i venti chilometri sotto terra. Nel corso dell’ultimo decennio è stato possibile studiare la struttura in profondità della crosta terrestre attraverso la propagazione delle onde sismiche. Esse permettono di fare una “tomografia” accurata in tre dimensioni. Ed è così che è stata identificata – sotto i Pirenei – una struttura verticale di materiale molto pesante. Esso viene prodotto per compressione della crosta terrestre. La densità di questo materiale è molto elevata. Ecco perché i Pirenei emergono poco dalla superficie terrestre. Se non fosse per queste radici i Pirenei supererebbero la vetta più alta del mondo (l’Everest: 8˙882 metri).

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C’è però un problema da risolvere: le origini di queste “radici” pesanti. La crosta terrestre è fatta di materiale che è circa due volte e mezzo più denso dell’acqua. Quando questa crosta sprofonda per diecine e diecine di chilometri aumentano sia la pressione sia la temperatura. La crosta terrestre si trasforma in “eclogite”, un materiale estremamente denso e pesante che agisce gravitazionalmente sui Pirenei “tirandoli” in giù.

Per essere sicuri di questa ipotesi, il cui autore è Pierre Vacher Professore di Geodinamica all’Università di Nantes (Francia), bisognerebbe andare a cercare le eclogiti (rocce che, come detto prima, si formano in zone caratterizzate da altissima pressione) perforando la crosta terrestre fino a cento chilometri. Purtroppo il buco più profondo che l’uomo sia riuscito finora a realizzare è di “appena” dodici chilometri, in Siberia. Non è impresa da poco arrivare a quelle profondità. L’ipotesi di Pierre Vacher resta quindi senza una prova sperimentale diretta. Essa però resta valida in quanto spiega le misure fatte per tomografia sismica. E non è tutto.

A favore della teoria di Pierre Vacher, oltre ai dati della tomografia sismica delle “radici” profonde, ci sono anche le cosiddette “anomalie gravitazionali”: un oggetto che pesa un chilo a Parigi, peserebbe non più un chilo se posto alla base dei Pirenei. Misure di attrazione gravitazionale realizzate in quelle zone portano alla conclusione che la crosta terrestre ha due componenti. Una “leggera” che diminuisce l’attrazione gravitazionale. E l’altra “pesante” dovuta all’esistenza delle

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eclogiti alle radici dei Pirenei. Mettendo tutto insieme la conclusione è che – se non fosse per le eclogiti – i Pirenei sarebbero le più alte montagne della Terra: il vero “tetto del mondo”.

II.4-6 Capire l’“Oceano globale” per migliorare le previsioni meteorologiche (S12-02)

Fino a pochi anni fa lo studio di ciò che accade nell’Atmosfera veniva fatto ignorando cosa fa l’enorme massa d’acqua, detta “Oceano globale”, che circonda il globo terrestre. Misure con satelliti dimostrano che l’Oceano è turbolento e tutte le sue parti giocano un ruolo nella dinamica dell’“Oceano globale”. L’Oceano risulta fatto a strati con densità diverse. Bastano minime perturbazioni per fare sprofondare enormi quantità di acque leggere in zone d’acque pesanti e viceversa. Lo studio di questi fenomeni oceanici permetterà di migliorare le previsioni meteorologiche.

II.4-7 L’acqua incapsulata nelle viscere della Terra (S17-02)

Studiando la capacità di ritenzione d’acqua nei minerali tipici delle zone terrestri più profonde, alcuni ricercatori dell’Istituto Tecnologico dell’Università di Tokyo, in Giappone, hanno scoperto che la quantità d’acqua incapsulata in queste strutture potrebbe essere enorme, ben cinque volte il cosiddetto Oceano Globale: la somma degli Oceani e di tutti i mari della Terra. La zona studiata si trova tra i 600 e i 2000 km di

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profondità. Sono ricerche mirate a capire le origini dell’acqua su questa nostra Terra.

II.4-8 Una piccolissima Atlantide in India (N23-02)Noi Europei abbiamo l’Atlantide celebrata da Platone. In

Asia ci sono altre leggende. Una di esse riguarda l’India. Ne parlava una antica leggenda e probabilmente si trattava di un porto che si inabissò oltre mille anni fa. Adesso però questo porto sarebbe stato scoperto nelle acque prospicienti la città indiana di Mahabalipuram. In attesa che noi si scopra la nostra grande Atlantide (F.C. 12), gli indiani hanno intanto scoperto la loro piccola Atlantide.

II.4-9 Di diamanti giovani ce ne sono pochi (N43-02)I diamanti delle nostre miniere sono stati prodotti grazie

alla possibilità che, in determinate zone delle viscere terrestri, fossero realizzabili condizioni di temperatura e pressione tali da permettere la trasformazione del carbone in diamanti. Riproducendo le stesse condizioni in laboratorio è possibile fabbricare un diamante, ma il costo dell’operazione supera di molto il valore del diamante prodotto. Un gruppo di geologi americani ha studiato nell’Africa Australe quelle zone in cui si formano i diamanti: le miniere più ricche. Queste ricerche portano a concludere che le condizioni di temperature e pressioni elevate sono tipiche di una Terra “giovane” ancora in via di assestamento. Condizioni che non esistono più oggi. Classificando i diamanti in funzione dell’epoca in cui si sono

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formati, è stato possibile stabilire che il loro numero diminuisce col diminuire della loro età. I diamanti più “giovani” risalgono a 100 milioni di anni fa. E il loro numero è piccolissimo, rispetto a quello dei diamanti “vecchi”. Per i Romani i diamanti erano “frammenti di Stelle”, per i Greci “lacrime divine”. Un passato glorioso destinato a finire.

II.4-10 Come nasce il “rumore” del mare (S44-02)Le onde del mare sono il posto in cui si incontrano la

superficie liquida della Terra (detto Oceano Globale) e l’atmosfera. Queste due masse, d’acqua e d’aria, comunicano attraverso bolle che galleggiano sulle stesse onde. Le bolle hanno vita breve. Se esplodono esse producono le goccioline, dando vita alle nuvole. Le goccioline agiscono infatti come centri di condensazione. Se le bolle non esplodono esse agiscono da trappole per l’anidride carbonica che viene così restituita alla flora marina. Ed ecco la novità. Un gruppo di ricercatori americani è riuscito a stabilire che esistono due tipi di “bolle”. Quelle piccole con raggio inferiore a un millimetro e quelle il cui raggio può arrivare ad essere dieci volte più grande. Le bolle piccole si formano quando un’onda si schianta contro la superficie del mare. Le bolle grandi vengono invece prodotte quando le onde rotolano su se stesse. Le “bolle” sono responsabili del “rumore” tipico del mare. Lo studio esatto di questi fenomeni permetterà di capire meglio come nascono le nuvole dal mare e come viene assorbita la parte più importante

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dell’atmosfera responsabile dell’effetto serra (l’anidride carbonica).

II.4-11 Uragani: gli studi su un fenomeno devastante della natura (A45-02)

È di pochi giorni fa la notizia di un uragano che ha investito il Messico con venti a 280 km orari. Un mese fa un altro uragano aveva investito la zona dei Caraibi per spostarsi poi a Nord, finendo sul Texas. Le piogge torrenziali che hanno colpito l’Europa e le anomalie meteorologiche registrate in questi ultimi mesi potrebbero portare a pensare che questi fenomeni meteorologici potenti e pericolosi possano abbattersi sulle nostre coste. Non è così.

Infatti la formazione di un fenomeno atmosfericamente violento com’è un uragano ha bisogno di ben cinque condizioni.

Anzitutto la temperatura del mare deve essere molto elevata: almeno 27 gradi centigradi.

Poi, c’è bisogno di una “forza” che metta in rotazione enormi masse d’aria. Questa forza è detta di Coriolis. Essa fa in modo che le masse d’aria nell’emisfero Nord ruotino in verso anti-orario. Al contrario, nell’emisfero Sud, la forza di Coriolis imprime alle masse d’aria una rotazione analoga a quella delle lancette di un orologio. I cicloni, se non fosse per la forza di Coriolis, non potrebbero aver origine. Infatti, è soltanto in una fascia, attorno all’equatore, compresa tra latitudini di 8 gradi Nord e 8 gradi Sud, che nascono i cicloni. Oltre gli 8 gradi, la forza di Coriolis è troppo debole.

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La terza condizione è che, alle alte quote, non ci siano forti venti. Essi impedirebbero lo “sfogo” del ciclone in alto.

La quarta condizione è che a bassa quota ci siano grossi flussi d’aria.

È infine necessaria, ad alta quota, una circolazione d’aria che porti via le masse in arrivo dal basso.

Nelle nostre parti queste cinque condizioni non hanno alcuna possibilità di realizzarsi. Ecco perché siamo fuori dal pericolo uragani.

Accurati e dettagliati studi sulle formazioni nuvolose sospettate di generare un uragano hanno permesso di stabilire che, su dieci candidati, solo uno rischia realmente di diventare realtà.

Come detto prima, questi fenomeni atmosferici violenti nascono sempre nelle zone dell’equatore meteorologico, che oscilla tra i due tropici e separa le correnti atmosferiche dei due emisferi, Nord e Sud. Una volta partita, la perturbazione violenta si dirige verso il Polo dell’emisfero in cui è nata.

L’evoluzione di un ciclone o uragano è possibile prevederla con buona precisione. Quando è maturo, le sue dimensioni diventano stabili e il famoso “occhio del ciclone” è perfettamente identificabile. La velocità dei venti aumenta quanto più ci si avvicina all’occhio. I venti possono toccare la velocità di 320 km l’ora. Nel ciclone ci sono piogge torrenziali. Una stima fatta sul ciclone che il 16 settembre 1989 devastò la Guadalupa permette di valutare quanta acqua è stata versata in

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un giorno dal ciclone. Il risultato è impressionante: è come se, su ciascun abitante del pianeta, fossero piovuti tremila litri d’acqua.

Un ciclone spedisce nell’alta atmosfera, fino a 15 km di altezza, le gigantesche energie che provengono dalla condensazione del vapore acqueo strappato alla superficie dell’Oceano. È questo vapore acqueo che poi ricade come pioggia torrenziale.

Se scorrazza sugli oceani un uragano può andare avanti per diecine e diecine di giorni. È quando penetra a Terra che il ciclone muore. Questa enorme e devastatrice macchina atmosferica è infatti molto fragile. Entrando a terra gli viene meno il “carburante” che è in mare. Il famoso ciclone che si è abbattuto, tanti anni fa, sulla Carolina del Sud, negli Stati Uniti, aveva vagato sull’Oceano per ben tredici giorni. Entrato a terra è sparito in appena un solo giorno.

Gli specialisti in cicloni si preoccupano poco della loro vita e della loro morte. Il punto essenziale è sapere calcolare la traiettoria. Mediamente questi oggetti meteorologici si spostano sempre da Est verso Ovest. Siccome i poli sono il loro obiettivo, nell’emisfero Sud vanno verso Sud poi a Sud-Est. Nell’emisfero Nord, prima verso Nord poi a Nord-Est. Queste sono traiettorie medie.

Nella realtà, le cose si complicano molto. I cicloni sono infatti dotati di una potenza propria. E si muovono in un mezzo (l’atmosfera) anch’esso in movimento. La precisione della traiettoria di un ciclone è oggi di cento chilometri su ventiquattr’ore.

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I cicloni sono oggetti atmosferici di dimensioni enormi. Il diametro di un ciclone può essere di mille chilometri. Il record appartiene al ciclone apparso a Est delle Filippine nell’ottobre 1979. Esso copriva una superficie pari a quella di tutta l’Europa.

Attualmente cinque satelliti scrutano le possibili formazioni cicloniche. I risultati sono incoraggianti. Oggi un ciclone uccide cento volte meno di quanto avveniva prima dell’uso dei satelliti.

II.4-12 Terremoti sotto analisi (S45-02)Trecentomila terremoti occorsi dal 1964 al 1994 sono stati

attentamente analizzati dal gruppo di sismologia di Harvard diretto dal Professore Adam M. Dziewonski allo scopo di capire meglio com’è fatta questa nostra Terra. Le “onde sismiche” generate dai terremoti permettono infatti di analizzare la struttura intima della Terra. Finora si era pensato che il nucleo della Terra fosse una sfera unica con diametro di 2.440 km. Ma ecco la novità. Questa struttura contiene un nucleo interno con diametro di 600 km, che fa corpo a sé. È come se il cuore della Terra ne avesse dentro uno ancora più piccolo e più denso. Questa scoperta permette di comprendere meglio com’è fatta la Terra e porterà ad aumentare il numero di sismografi, specialmente nel fondo degli oceani, allo scopo di “vedere” numerosi altri dettagli di grande valore per capire i terremoti.

II.4-13 L’origine comune a tutti i terremoti (A47-02)

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È il calore interno della Terra la causa comune a tutti i terremoti. Pur tuttavia non c’è alcun legame tra gli eventi sismici che avvengono nei diversi punti in cui si verificano scosse telluriche. I punti possono essere sia distanti, come ad esempio la California e l’Italia, sia vicini come due piccoli villaggi della stessa regione.

Nel primo caso (California e Italia) il motivo è che si tratta di due “zattere” diverse che navigano sullo stesso “mare” incandescente di lava. Nel secondo caso (villaggi vicini) il motivo è che la “zattera” è frastagliata: può cedere in un punto e resistere in un altro punto vicino della stessa “zattera”. Alle “zattere” si dà il nome di “placche”. La crosta terrestre che c’è sotto i nostri piedi è suddivisa in sei grandi “placche”, più altre molto piccole. A prima vista i continenti come Europa, Africa, America, circondati dagli Oceani, sembrano indicare la struttura essenziale della crosta terrestre. Non è così. La vera struttura sono le “placche” che navigano su un “mare” di lava. Nei confini tra le “placche” si concentrano terremoti e vulcani. Fu Alfred Lothar Wegener a proporre la struttura a “placche” della crosta terrestre. Lo spessore di ciascuna “placca” va da un minimo di cinque chilometri (sotto gli Oceani) a un massimo di settanta chilometri (sotto i continenti).

La placca in cui noi ci troviamo – detta Euroasiatica – va da mezzo Oceano Atlantico (estremo Ovest) all’Asia (estremo Est) a Sud fino alla Sicilia. Se le “placche” fossero ferme non ci sarebbe alcun fenomeno sismico. Le “placche” però non possono stare ferme in quanto galleggiano su un “mare” infuocato. I

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movimenti delle “placche” sono generati da questo “fuoco” il cui calore si può facilmente osservare scendendo nelle profondità di una miniera. Infatti, più si va giù, più aumenta la temperatura delle pareti di una miniera.

La quantità di calore che arriva sulla superficie della Terra, in provenienza dal suo interno, corrisponde a una potenza totale di 40 mila miliardi di Watt: la potenza del motore di tutti i terremoti. Infatti il mare di lava su cui navigano le “placche” è più caldo e denso verso l’interno; meno caldo e meno denso verso l’esterno. Una Legge Fondamentale della Natura impone a un corpo caldo di trasmettere la sua energia ai corpi freddi con i quali si trova a contatto. In questo processo di raffreddamento non si propaga calore e basta, ma calore e materia insieme. È la velocità di questa materia che si trasmette alle “placche” ed è così che nasce la “deriva” dei continenti. Sono velocità estremamente lente: qualche centimetro l’anno.

Può sembrare poca cosa ma, in un milione di anni, essa produce spostamenti di decine di chilometri. Il movimento delle “placche” ha tre possibili conseguenze. Quella che interessa l’Italia è quando una “placca” (quella Africana) spingendo contro la nostra finisce con l’infilarsi sotto. La “spinta” produce le Alpi. Lo “slittamento sotto”, produce i vulcani. Il Vesuvio nasce così.

Se due placche si scontrano – senza che nessuna delle due si infili sotto l’altra – come in California (faglia di Sant’Andrea), ci saranno solo terremoti.

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La terza possibilità è quando le due placche si allontanano, come accade in pieno Oceano, nella cosiddetta “dorsale medio-oceanica” dove dal fondo marino vien fuori una continua iniezione di lava.

Il motore dei terremoti – il calore interno della Terra – ha due origini. Il 20% risale a quando si formò la palla incandescente che doveva poi, lentamente, raffreddarsi e diventare la nostra Terra. Il restante 80% è di origine nucleare. Il materiale di cui è fatta la Terra, dalla sua superficie fino a migliaia di chilometri di profondità, contiene sostanze radioattive. Esse si disintegrano spontaneamente producendo altri materiali e tanta energia.

Fino a quando ci sarà, nel cuore della Terra, calore primordiale e calore di origine nucleare, le “placche” leggere e rigide continueranno a muoversi, come hanno fatto per miliardi di anni.

II.4-14 Gli Alisei e i contro Alisei non potrebbero esistere se la Terra non fosse sferica e non ruotasse a trottola (A50-02)

Furono molto utili a Cristoforo Colombo i venti detti Alisei. Essi spirano da Est verso Ovest in zone vicine alla superficie del mare.

Volando ad alta quota, come ad esempio fanno i jet di linea Roma-New York, i venti spirano in direzione opposta: da Ovest verso Est. Ecco perché può accadere che al ritorno da New York il volo duri un’ora in meno.

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Gli aerei infatti viaggiano nell’aria e quello che conta è la velocità dell’aereo rispetto all’aria. Se il vento spira a cento chilometri l’ora in direzione opposta a quella dell’aereo, la velocità totale dell’aereo, rispetto a chi sta fermo a terra, viene ridotta di cento chilometri l’ora.

L’esistenza dei venti Alisei era nota ben prima che esistessero gli aerei.

I marinai osservavano con attenzione i venti e raccoglievano innumerevoli dettagli sulle caratteristiche di questi fenomeni. Al punto che il famoso amico di Newton, l’astronomo Halley (quello della famosa Cometa) pubblicò una carta degli Alisei. Essi spirano in direzione da Nord-Est verso Sud-Ovest nella zona compresa tra l’equatore e 30 gradi di latitudine nell’emisfero Nord. Nella zona compresa tra equatore e 30 gradi di latitudine nell’emisfero Sud, gli Alisei invece soffiano da Sud-Est verso Nord-Ovest.

Gli Alisei soffiano regolarmente sopra le superfici dell’Oceano, mentre sopra la superficie solida della Terra subiscono forti alterazioni per motivi termici e dinamici. Il motivo delle due direzioni opposte nell’emisfero Nord e in quello Sud è dovuto alle forze cosiddette di Coriolis. Esse si manifestano quando qualcosa si muove in un sistema che ruota. A ruotare è la Terra, a muoversi sono le masse d’aria calda che vanno dall’equatore verso i due Poli.

Le forze di Coriolis non sono generate da una Forza Fondamentale della Natura. Esse “sembrano” esistere, quando le masse d’aria vengono osservate da zone diverse della superficie

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terrestre. La velocità di rotazione è infatti massima all’equatore e minima (zero) ai poli. La Terra fa un giro completo in 24 ore. All’equatore il cerchio terrestre è lungo circa 40 mila km. La superficie terrestre gira quindi alla velocità di 1670 km l’ora. Alla latitudine di Roma il cerchio terrestre è meno lungo. Il tempo per una rotazione è sempre 24 ore. Ne consegue che la velocità con cui ruota la superficie terrestre alla latitudine di Roma è 1340 km orari. L’aria che si trova all’equatore viaggia più velocemente di quella che si trova su Roma. Un osservatore che si trovasse a Roma vedrebbe l’aria dell’equatore viaggiare verso Est come se fosse sottoposta a una forza. La verità è che a Roma la velocità di rotazione è inferiore di quella all’equatore.

L’intensità degli Alisei è determinata dalla velocità alla quale la Terra gira attorno a se stessa.

La superficie solida della Terra ruota come la superficie liquida, detta Oceano globale. L’acqua dell’Oceano è a contatto con l’enorme massa d’aria che la sovrasta. L’aria però non fa corpo solido col mare; ecco perché vengono fuori gli Alisei. Infatti la superficie marina ruota alla velocità di circa millecinquecento km l’ora (come prima detto), ma non ce la fa a trascinare la massa d’aria che le sta sopra. Accade quindi che il mare si muove con la stessa velocità della Terra; l’aria viene trascinata per attrito ma non ce la fa. Perde mediamente cento chilometri l’ora.

Siccome la superficie liquida e solida della Terra, viaggiano da Ovest verso Est, l’aria, che non ce la fa, a noi appare come se viaggiasse in direzione opposta: da Est verso

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Ovest. Esattamente alla velocità pari alla perdita di contatto che c’è tra la massa marina e la massa d’aria.

Chi avesse dubbi sul fatto che la Terra è di forma sferica e gira a trottola una volta ogni ventiquattro ore deve riflettere sul motivo per cui nel volo di ritorno dagli Stati Uniti, mediamente si guadagna un’ora.

I venti ad alta quota compensano, nel loro moto, quelli che soffiano al livello del mare e che, come detto prima, vanno da Est verso Ovest. I venti d’alta quota debbono quindi soffiare da Ovest verso Est. La massa d’aria sopra l’Oceano ruota in senso orario ricevendo dalla superficie dell’Oceano il moto rotatorio.

Ecco perché tornando da New York l’aereo vola, rispetto alla superficie terrestre, più velocemente di quando da Est si va verso l’America.

II.4-15 Novità nel moto delle placche terrestri (A5-03)

II.4-16 La neve e i terremoti (F12-03)Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che potesse

esistere un legame tra neve e terremoti. E invece pare che il legame esista. Per scoprirlo è stato necessario studiare i terremoti degli ultimi millecinquecento anni. Lo ha fatto un ricercatore giapponese, Kosuke Heki, che ha focalizzato la sua attenzione su un dettaglio apparentemente privo di significato: i terremoti in primavera. Nelle zone del Giappone sottoposte a forti nevicate

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invernali, il numero di terremoti in primavera è tre volte più grande della media. Heki spiega questo aumento col fatto che in primavera la neve si scioglie e le zone sottoposte alla pressione della neve perdono peso. I calcoli di Heki dicono che il peso della neve accumulata nel corso dell’inverno è sufficiente per disturbare le strutture geologiche sismicamente fragili della zona. Venendo a mancare quel peso le strutture si muovono dando origine ai terremoti primaverili. Queste ricerche hanno dato vita a nuovi studi sulle Alpi per capire se anche nelle regioni alpine ci sono legami con fenomeni tellurici.

II.4-17 Un buco profondo contro i terremoti: la proposta del geofisico americano David J. Stevenson (A23-03)

Sarebbe bello potere essere in grado di fare previsioni su possibili scosse telluriche. Bello ma impossibile fintanto che della struttura terrestre continueremo a saperne così poco. Al di sopra della crosta terrestre siamo giunti ad altezze pari a sei miliardi di chilometri; sotto la crosta il buco più profondo non supera i dieci chilometri. Andare sotto terra è un’impresa difficile, ma non sono le difficoltà tecniche che possono spiegare come mai ne sappiamo così poco di ciò che si trova sotto i nostri piedi. L’ultima scossa tellurica in Algeria ha portato alla ribalta il problema della totale ignoranza su come prevenire i terremoti. Oltre il 90% della popolazione terrestre vive su sei grandi “placche” che navigano su un mare di lava. Se queste placche stessero ferme non potrebbero esistere i terremoti. Le placche invece si muovono a causa del calore interno della Terra, che ha

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due origini. Il 20% risale ai tempi in cui si formò la palla incandescente, che raffreddandosi lentamente dette origine a questo satellite del Sole. Il restante 80% è invece di origine radioattiva. Il materiale di cui è fatta la nostra Terra – dalla sua superficie fino a migliaia di chilometri di profondità – contiene sostanze radioattive che si disintegrano spontaneamente, producendo altri materiali e molta energia. In una tonnellata di granito ci sono diversi grammi di materiale radioattivo. Il calore interno della Terra è la causa prima del movimento delle “placche”. Movimento che corrisponde a una velocità di qualche centimetro l’anno. Può sembrare poca cosa, ma in un milione di anni si arriva già alla distanza Roma-New York. Il movimento delle “placche” può portare, sia allo scontro delle placche, com’è il caso che ha generato il terremoto in Algeria, sia all’allontanamento tra placche (la grande “fessura” oceanica da cui fuoriesce continuamente lava ha questa origine).

L’Europa, l’Asia e un pezzo di Oceano Atlantico sono sulla stessa placca, detta Euroasiatica. L’Algeria si trova ai bordi di quella Africana che spinge verso Nord contro la placca Euroasiatica (sono nate così le Alpi). È un processo iniziatosi sessanta milioni di anni fa e conclusosi nelle sue forme più violente circa tre milioni di anni fa. Il terremoto in Algeria è la prova che lo scontro tra le due placche è ancora attivo. Per difendersi da queste calamità ci sono due strade. La più immediata e sicura è la costruzione antisismica, che permette di arrivare a livelli di difesa quasi totale. È però necessario un assoluto rigore nella realizzazione delle strutture antisismiche.

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Rigore che purtroppo i fatti ci dicono che è lungi dall’essere raggiunto. L’altra strada è la previsione. Bisognerebbe saper prevedere l’arrivo di un terremoto. È un problema estremamente complesso, su cui però si è investito ben poco rispetto ad altri tipi di ricerche tecnologiche, come quelle nucleari e spaziali.

Il progetto Manhattan (prima bomba nucleare della Storia) ha trasformato, nel giro di pochissimi anni, in strumento tecnologico una serie di fenomeni che sembravano relegati alla pura speculazione teorica. C’era in ballo la tecnologia bellica. Ed è sempre la corsa agli armamenti che ha prodotto l’enorme flusso di finanziamenti per le tecnologie spaziali. Ecco perché è stata accolta con entusiasmo la proposta del geofisico americano, Dadid J. Stevenson, per un esperimento sulla struttura della Terra fino alle estreme profondità del suo nucleo.

Detto in termini semplici e telegrafici è come se volessimo versare in un buco una quantità di ferro fuso in grado di attraversare tutte le strutture geofisiche della Terra fino a raggiungere il suo nucleo. Non dobbiamo dimenticare che sotto i nostri piedi c’è la parte esterna fredda, leggera e rigida della Terra: una crosta terrestre il cui spessore va da un massimo di settanta chilometri (sotto i continenti) a un minino di cinque chilometri (sotto gli oceani). Sotto i settecento chilometri e per altri duemila-novecento la Terra diventa un fluido durissimo. Andando ancora sotto si troverebbero millesettecento chilometri di una miscela di ferro-nichel allo stato liquido. Finita la sfera liquida inizia e continua per gli ultimi duecento chilometri il nucleo solido di ferro-nichel. Nucleo, di cui si sa poco in modo

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diretto; le informazioni infatti sono dedotte da effetti secondari, come sono le onde sismiche generate dai terremoti. La quantità di ferro necessaria per l’esperimento è stimata da un minimo di cento milioni a un massimo di dieci miliardi di chili. Stevenson ha pubblicato una breve sintesi del suo progetto sulla rivista inglese Nature, definendo la sua proposta “modesta”, anche se essa dovrebbe mettere in gioco un paio di bombe H da qualche megaton ciascuna per spezzare la crosta terrestre e una quantità di ferro fuso corrispondente alla produzione mondiale di ferro di un’intera settimana.

Stevenson dice che l’aggettivo “modesta” vuole mettere in rilievo quanto sia piccolo l’impegno richiesto dal suo progetto, rispetto ai programmi spaziali.

Non vogliamo entrare nel merito della proposta in quanto il progetto deve ancora essere elaborato in tutti i suoi dettagli. E non sono pochi. Né scontati. C’è poi da tener presente che sulla previsione dei terremoti una scuola di pensiero è convinta che per arrivarci bisognerebbe capire anche i fenomeni legati ai movimenti del nucleo terrestre. Le tecnologie sviluppate per la rivelazione di onde gravitazionali, tecnologie nelle quali l’Italia è in prima linea, permetterebbero di realizzare strumenti in grado di misurare i moti possibili del nucleo terrestre. E non è tutto. C’è chi pensa ai segnali provenienti dal magma i cui moti determinano la dinamica della crosta terrestre. Dinamica estremamente complessa. Un esempio. Le zone sismiche (e anche i vulcani) possono trascorrere lunghi, lunghissimi periodi dormendo. La proposta “modesta” di Stevenson ha il merito di

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avere richiamato l’attenzione della comunità scientifica sul fatto che bisognerebbe saperne molto di più su com’è fatta la Terra per potere sperare, un giorno, di arrivare al traguardo della previsione dei terremoti.

II.4-18 Nel cuore della Terra e in quello di Marte c’è il potassio (N25-03)

Risultati ottenuti usando alte temperature e fortissime pressioni permettono di concludere che il Potassio-40 (il numero indica le palline nucleari che compongono il nucleo dell’atomo di Potassio) è una sostanza importante per produrre calore nel nucleo della Terra e in quello di Marte. L’ipotesi che nel nucleo della Terra fosse questo elemento a produrre buona parte del suo calore è vecchia di trent’anni. Mancavano però le prove sperimentali di laboratorio per corroborare la validità di questa ipotesi, che ha molte conseguenze. Tra di esse, l’origine del campo magnetico terrestre, l’evoluzione nel tempo delle caratteristiche geotermiche della Terra, il che vuol dire il modo in cui la palla incandescente si è lentamente raffreddata. E infine il modo in cui il nucleo centrale della Terra è stato prodotto. Se c’è in gioco il Potassio-40 un’altra interessante conclusione è che anche il nucleo di Marte può essere come quello della Terra. Gli esperimenti con il Potassio-40 rappresentano quindi una prova ulteriore per quelle teorie che sostengono le origini comuni di questi due satelliti del Sole.

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II.4-19 Come raddoppiare la quantità di energia di origine geotermica (S25-03)

Nella zona Est dell’Africa ci sono le condizioni ideali per raddoppiare la quantità di energia geotermica prodotta oggi nel mondo. Si tratta di una vallata che venne prodotta quando un pezzo della crosta terrestre sprofondò tra due fessure parallele (quattromila chilometri di lunghezza) della stessa crosta. Le rocce in quella valle sono scaldate dall’attività vulcanica sottostante. Attività pari a sette Gigawatts: la capacità di una decina di potenti centrali elettriche alimentate a carbone o petrolio. Sono necessari studi e ricerche per elaborare i dettagli del progetto. Esistono però le condizioni necessarie per potere trasformare quella regione (the Great Rift Valley) nella più grande sorgente di energia geotermica mai costruita sulla Terra.

II.4-20 Il Mediterraneo era una distesa di Sale (A28-03)Il “mare nostrum” comunica con l’Oceano grazie allo

Stretto di Gibilterra. Oggi. E prima? Secondo alcuni studiosi del Centro di Ricerche Marine, il Geomar (Center for Marine Geosciences Research) di Kiel in Germania, milioni di anni fa il Mediterraneo comunicava con l’Oceano attraverso due canali poco profondi: uno si trovava nella zona Nord del Marocco; l’altro nella parte Sud della Spagna. Erano questi due percorsi marini a garantire il flusso d’acqua dall’Oceano. Questo flusso venne bloccato sei milioni d’anni fa circa, producendo zone di laghi salati e deserti di sale. Quali le cause? Sono due le scuole di pensiero.

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Una attribuisce il blocco a un abbassamento mondiale dei livelli d’acqua degli Oceani, per via di un forte cambiamento climatico che ha colpito il pianeta. L’abbassamento del livello del mare deve essere stato di una sessantina di metri, vista la profondità dei due canali prima citati. Il blocco dovuto all’abbassamento del livello del mare avrebbe però dovuto produrre strati di sale di spessore pari a poche decine di metri. E invece nel Mediterraneo Occidentale ci sono spessori di ben ottocento metri di sale e in quello orientale si arriva addirittura a tremilacinquecento metri. Per spiegare queste enormi quantità di “sale marino” è necessario pensare a processi che hanno permesso alle acque oceaniche di entrare più volte nel Mediterraneo nel corso di diverse centinaia di migliaia di anni, grazie a processi irregolari. Ma non è tutto. È infatti necessario spiegare come mai si è poi aperto il Canale di Gibilterra.

Ecco perché è nata la seconda scuola di pensiero che attribuisce il blocco dei due canali a movimenti tettonici. Se è stata la crosta terrestre sottomarina a muoversi, è possibile spiegare, sia il blocco dei due canali (sei milioni di anni fa) sia l’apertura di un nuovo canale, qualche paio di centinaia di migliaia di anni dopo, com’è avvenuto con lo Stretto di Gibilterra. Anche i fenomeni irregolari di ingresso di acque oceaniche si può spiegare con i movimenti tellurici della crosta terrestre in quel periodo che ha visto, prima la chiusura dei canali e poi la apertura di Gibilterra.

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L’abbassamento del livello del mare per via di una variazione climatica non può spiegare l’apertura dello Stretto di Gibilterra, né le irregolarità dei fenomeni citati.

I geofisici del Kiel hanno studiato la struttura delle rocce vulcaniche prelevando settanta campioni nella costa spagnola e in quella marocchina. È stato così scoperto che esistono due famiglie di “rocce” vulcaniche. Un gruppo appartiene a un’epoca detta “antica”, che va da dodici a sei milioni di anni fa. L’altro gruppo – detto di rocce “giovani” – appartiene a un’epoca più recente che va da cinque milioni di anni ad appena mezzo milione di anni fa.

Ed ecco la scoperta. Il gruppo di rocce “antiche” ha le proprietà della crosta terrestre che penetra nel mantello lavico della Terra (a questo fenomeno si dà il nome di “subduzione”). Il gruppo di rocce “giovani” ha le proprietà tipiche delle isole oceaniche, come l’Arcipelago delle Hawaii. Arcipelago nato da una bolla di lava che, partendo dal cosiddetto “mantello” – che si trova sotto la crosta fredda e rigida della superficie terrestre – ha penetrato la placca terrestre che c’è sotto l’Oceano generando prima un’attività vulcanica, per poi spegnersi, lasciando come traccia di quel fenomeno, le Hawaii.

Le rocce “laviche” più recenti sono la prova che la lava è arrivata in tempi recenti dal mantello interno della Terra verso la superficie del sottosuolo marino. In un periodo che i geofisici tedeschi stimano a circa cinque milioni di anni fa, al processo di “subduzione” ha fatto seguito l’arrivo di lava che ha sollevato la crosta terrestre sottomarina. Mettendo in un supercalcolatore

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queste ipotesi teoriche, con un modello matematico che riproduce l’evoluzione termica e meccanica di quella zona della superficie terrestre, è venuto fuori che il dislivello prodotto può facilmente arrivare a mille metri: un valore sufficiente per bloccare i due canali in Marocco e Spagna.

C’è un altro dettaglio che favorisce lo sconvolgimento tettonico. Ed è il tempo. Le variazioni climatiche sono molto lente. Lo studio dei fondali marini porta a concludere che gli sconvolgimenti sono stati rapidi. E questo favorisce il cataclisma generato dai movimenti tettonici. È bene precisare che molti dettagli sono ancora tutti da capire.

Resta comunque una certezza: gli strati di “sale” che giacciono nella superficie sottostante ai fondali del Mediterraneo. Cinque milioni di anni fa, prima che si aprisse lo Stretto di Gibilterra, erano queste enormi distese di depositi salini lo spettacolo offerto dal “mare nostrum”.

II.4-21 In Groenlandia fa più freddo (N29-03)Nel periodo che va dal 1958 al 2001 la temperatura media

globale del pianeta Terra è aumentata di cinquantatrè centesimi di grado centigrado. Nonostante le difficoltà legate alle misure della temperatura nelle diverse zone del pianeta, sul dato citato c’è accordo quasi unanime. Un gruppo di ricercatori danesi ha però stabilito che in Groenlandia, nello stesso periodo, le temperature medie sono crollate di oltre il doppio: ben centoventinove centesimi di grado centigrado. Non è facile spiegare una tale inversione di tendenza a livello “locale”.

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L’unica via d’uscita sta nella famosa oscillazione delle correnti marine dell’Atlantico del Nord che portò secoli fa la “Terra Verde” (è questo il significato di Groenlandia) a diventare una distesa di ghiaccio. Molti specialisti pensano che questa anomalia possa produrre un ulteriore abbassamento della temperatura in quella zona, nonostante il riscaldamento globale del pianeta. È difficile esser sicuri di queste previsioni in quanto i modelli matematici per simulare le variazioni climatiche hanno grosse difficoltà nel tener conto dell’influenza nel clima della massa liquida della Terra, cui si dà il nome di Oceano Globale.

II.4-22 Le Alpi l’Adriatico e la Sicilia (A37-03)Quello che è stato scoperto studiando il moto della Catena

Alpina riguarda, non solo le Alpi, ma anche l’Adriatico. E addirittura la Sicilia. Non fra centro o mille anni; ma fra qualche milione di anni. L’Adriatico non ci sarà più in quanto la costa riminese sarà a contatto con quella dell’ex-Jugoslavia. E si potrà andare in Sicilia dalla Tunisia usando la bicicletta o l’automobile.

Il motivo è sempre lo stesso. La placca Africana spinge la placca Euroasiatica. Come abbiamo detto più volte su queste colonne, le Alpi sono nate dal movimento che ha la placca Africana verso quella Euroasiatica. È un processo che va avanti da milioni di anni e che ancora oggi esiste. La sua velocità è di circa 5 millimetri l’anno, e forse anche meno.

Grazie al GPS (Global Positioning System) è possibile verificare l’effetto che questo movimento produce nella Catena

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Alpina. Le aspettative erano che la velocità di compressione delle Alpi dovesse essere dello stesso ordine di grandezza della velocità alla quale – nella zona del Mediterraneo Occidentale – l’Africa si avvicina all’Europa e che porterà la costa tunisina a toccare quella siciliana. Con incredibile sorpresa è stato scoperto che le cose stanno in modo totalmente diverso.

L’impresa inizia nel 1997 con l’installazione di alcune stazioni GPS nella zona in cui ci si aspettava di misurare l’effetto di compressione massima attraverso la Catena Alpina occidentale. Questa zona di compressione doveva avere una parte solida e ferma al Nord delle Alpi, in Francia. E l’altra zona solida e stabile al Sud, in Piemonte. Ecco perché venne istallata una stazione GPS al Nord delle Alpi in Francia, a Saint-Jean-des-Vignes nella regione famosa per il vino (Beaujolais), le cui strutture geologiche profonde hanno un legame forte con la placca Europea stabile. Altre stazioni GPS sono state messe sia nella zona interna delle Alpi come Modane sia fuori della Catena Alpina, a Sud, come Torino, Nizza, Genova.

I risultati dicono che Torino non si sta affatto avvicinando alla Catena Alpina. È come se la spinta dell’Africa verso l’Europa si fosse esaurita. Perché? In effetti lo studio delle misure eseguite, 24 ore su 24 e 365 giorni l’anno nelle diverse decine di stazioni GPS, permette di concludere che Torino si sta allontanando alla velocità di circa un millimetro l’anno. L’allontanamento più forte è stato registrato a Modane. Le velocità di spostamento sono misurate rispetto a una zona fissa:

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l’Europa geologicamente “stabile” che comprende Francia, Benelux, Germania ed Europa centrale.

Le misure eseguite sono al limite della precisione sperimentale raggiungibile con il GPS. Questa precisione deve anche tener conto del fatto che l’Europa “stabile” è soggetta a “deformazioni” dovute a fenomeni di glaciazione occorsi venti mila anni fa e oggi quasi estinti. Queste deformazioni producono movimenti orizzontali e verticali inferiori ai quattro decimi di millimetro l’anno.

Per essere sicuri sulle conclusioni è necessario continuare per tanto tempo ancora a registrare i dati 24 ore su 24, 365 giorni l’anno, in quanto le velocità di allontanamento in gioco sono dell’ordine del millimetro l’anno. La certezza nelle conclusioni dei movimenti opposti alla compressione viene dalle misure in Corsica (Ajaccio) e in Sardegna (Cagliari). Il blocco geologico Corso-Sardo infatti non fa registrare alcun movimento, mostrando così di essere ancorato alla parte solida della placca Euroasiatica. È pertanto fuori discussione che la tanto attesa compressione del sistema alpino non esiste. Anzi c’è un fenomeno di “stiracchiamento” delle Alpi Occidentali.

Mettendo insieme questi risultati con i dati registrati dalle stazioni GPS istallate nelle altre zone d’Europa vien fuori che esiste una “microplacca adriatica” dotata di un movimento rotatorio. Il centro di questa rotazione si trova nella parte Nord della pianura padana. Il senso della rotazione è antioraria. È la rotazione della “microplacca adriatica” alle origini del fenomeno di “stiracchiamento” delle Alpi Occidentali. I terremoti registrati

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in quelle zone confermerebbero questo modello teorico. Una cosa è certa. Questa rotazione nasce dalla spinta che la placca Africana esercita sulla placca Euroasiatica. Se questo movimento di placche continuerà ancora per qualche milione di anni, esso porterà alla scomparsa dell’Adriatico e di quel tratto di Mediterraneo su cui si avventurano da diversi anni i disperati nel loro viaggio dalle coste africane verso la Sicilia.

II.4-23 Il Cervino è un pezzo d’Africa: la montagna valdostana è una “anomalia” (A47-03)

Non è certo facile immaginare il Cervino come un pezzo d’Africa. Eppure sembra che sia propria questa la sua origine. Tutto parte dalla spinta della placca Africana contro quella Euroasiatica. La teoria delle “placche” non è poi tanto antica. È nata totalmente fuori dalle correnti di pensiero che dominavano a quei tempi, quando un grande cultore delle problematiche geofisiche, Alfred Lothar Wegener, propose che la crosta terrestre dovesse essere immaginata come l’insieme di sei grandi “placche” solide e da altre di piccole dimensioni, tutte in moto su un immenso mare di lava sottostante. Il moto delle placche è di qualche centimetro l’anno e può portare sia allo scontro sia a un loro allontanamento. La crosta terrestre, quindi le “placche”, non potranno mai sprofondare nel “mare” sottostante in quanto la parte che sta sotto è molto più densa, pur essendo ad alta temperatura. Le “placche” galleggiano sul cosiddetto “mantello” esattamente come pezzi di sughero nell’acqua.

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Purtuttavia, nello scontro tra “placche” che galleggiano, una delle due può finire sotto l’altra. Entrando a contatto con zone di alte temperature, quel pezzo di “crosta” terrestre si mette a “bollire” aprendo la strada al materiale del “mantello”, per uscire dalle alte pressioni in cui si trova. Nascono così i vulcani lungo le zone in cui una “placca” scivola sotto l’altra.

Può anche accadere che nello scontro tra due “placche” una salga sull’altra. Le Alpi e le catene dell’Himalaya sono nate così. Ed è sempre questa l’origine dei terremoti in quelle zone.

Le “placche” si muovono in quanto, sotto i settanta chilometri di profondità, la crosta terrestre perde la sua rigidità. Si entra infatti nella cosiddetta “astenosfera” che si estende fino a settecento chilometri di profondità. Sotto i settecento chilometri e per ancora altri 2900, la Terra ritorna a essere come un fluido durissimo. La densità varia dalle 3 alle 5 volte quella dell’acqua; purtuttavia in questo “fluido” c’è una enorme quantità d’energia, di cui il 20% risale alle origini stesse della Terra e il restante 80% è dovuto alle sostanze radioattive presenti nel “mantello”. È questa energia che alimenta il movimento delle “placche”.

Fino a quando ci sarà, nel cuore della Terra, questa formidabile sorgente d’energia le “placche” che stanno in superficie e che sono leggere e rigide continueranno a muoversi come hanno fatto nel corso di centinaia e centinaia di milioni di anni. Alla velocità di qualche centimetro l’anno, in cento milioni di anni, ci si sposta di qualche migliaio di chilometri. Infatti,

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duecento milioni di anni fa l’Africa e l’America del Sud erano attaccate.

Il movimento verso Nord della “placca Africana” nel corso dei milioni e milioni di anni trascorsi ha prodotto lo spettacolo degli Appennini, delle Alpi e anche incredibili anomalie. Come quella del Cervino la cui composizione permette di concludere che quella splendida vetta appartiene alla placca Africana. Sono occorsi movimenti di ogni tipo con una serie di accavallamenti seguiti ai moti tellurici delle parti diverse in cui la placca Euroasiatica è stata spezzettata. Infatti, mentre il Cervino appartiene alla placca Africana, il massiccio del Monte Bianco appartiene alla placca Euroasiatica che ha una zona fortemente stabile in Sardegna e Corsica. Lo confermano le misure via satellite con il GPS (Global Positioning System). Questi dati dicono che mentre il Monte Bianco si muove, Ajaccio e Cagliari non mostrano alcun segno di moto rispetto alla placca continentale. In effetti dalle Alpi all’Adriatico si manifestano diversi movimenti che fanno di questa parte dell’Europa un autentico laboratorio naturale, che permette – grazie alle moderne tecnologie di misura e ai modelli matematici che usano i supercomputer – di verificare la validità delle diverse teorie proposte. Ad esempio è stato scoperto che esiste una “microplacca” adriatica e che essa è dotata di moto rotatorio. La collisione tra l’Africa e l’Europa è lungi dall’essere stata decodificata e porterà a ulteriori sorprendenti novità.

Il Cervino che sorge e l’Adriatico che ruota sono esempi dei meccanismi innescati da quello che appena un secolo fa

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appariva un semplicissimo movimento tra due placche. Movimento che adesso interessa tante microplacche con enormi quantità di dettagli che impegneranno gli studiosi nei decenni a venire. Avrebbe un nostro antenato saputo immaginare che la proposta di Wegener, apparentemente semplice, avrebbe portato a scoprire che il Cervino è un pezzo d’Africa?

II.4-24 Perché è possibile una banca dati per i diamanti (N48-03)

Con un fascio laser si fa un piccolissimo buco nel diamante. Questo permette di conoscere l’impronta chimica di quella pietra preziosa. Diamanti provenienti da miniere diverse contengono minuscole quantità di elementi tipici che solo quella sorgente di pietre preziose possiede. Infatti ciascuna miniera ha una sua composizione chimica. Mettendo insieme questi dettagli chimici in una banca-dati mondiale è possibile associare a ciascun diamante la sua origine senza dubbi né ritardi. Questo nuovo strumento è stato messo a punto da ricercatori dell’Università di Sand (Belgio) e, oltre a permettere l’identificazione Doc di un diamante in tempo reale, sarà uno strumento nuovo nella lotta contro il traffico delle pietre preziose.

II.4-25 Grattacieli e montagne: i limiti della corsa a costruire edifici sempre più alti (A5-04)

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A Ground Zero dovrebbe sorgere una torre alta 600 metri. Torre interpretata come risposta alla sfida di Taiwan che ha costruito un edificio alto 508 metri con 101 piani e una superficie interna pari a 250 mila metri quadrati. La sfida a costruire edifici sempre più alti ha due motivazioni: una è il primato d’altezza in funzione delle nuove tecnologie; il che vuol dire materiali sempre più leggeri e sempre più robusti; questo primato tecnologico attrae l’attenzione di tutti e garantisce un prestigio notevole a chi arriva più in alto. L’altro motivo è la sempre crescente esigenza di territorio in città.

Secondo una stima delle Nazioni Unite, entro il 2006, metà della popolazione mondiale vivrà in agglomerati cittadini. Saranno necessari spazi e l’unico che rimane libero è quello verticale.

Nasce così il progetto X Seed 4000, per un grattacielo a forma di cono con un’altezza di ben quattro chilometri. La struttura del progetto giapponese della società Taisei Corporation è simile al Monte Fujiyama che è alto 3.778 metri. Il grattacielo del progetto X Seed 4000 prevede la capacità di ospitare almeno un milione di persone con tutti i servizi tipici di una grande metropoli. Gli abitanti di X Seed 4000 non avranno mai bisogno di uscire dal loro grattacielo. In esso potrebbero trascorrere tutta la loro vita. L’entusiasmo che spinge verso l’alto la costruzione delle megalopoli verticali, ha fatto dire a qualcuno che, in via teorica, potrebbero essere costruiti grattacieli alti fino alla Luna. Basterebbe avere abbastanza soldi in quanto le formule della fisica e dell’ingegneria sono ben note. Una su tutte: per

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assicurare la stabilità dell’edificio, l’altezza dovrebbe mantenersi tra le 6 e le 8 volte la dimensione lineare della base. Un grattacielo da mille metri dovrebbe avere come base un cerchio di raggio pari a 150 metri. All’entusiasta esponente della “via teorica” diciamo subito che c’è un limite all’altezza. Questo è dettato dalle intensità delle due forze fondamentali che agiscono ovunque e sempre. Una è la forza gravitazionale, l’altra è la forza elettromagnetica. Noi possiamo stare in piedi in quanto le nostre ossa e i nostri muscoli sono strutture elettromagnetiche. Se non fosse per la carica elettrica che c’è nelle strutture atomico-molecolari di muscoli e ossa, l’attrazione gravitazionale schiaccerebbe il nostro corpo totalmente, rendendolo piatto.

L’Everest può raggiungere i suoi 8.807 metri d’altezza in quanto è fatto di strutture atomiche e molecolari governate dalla carica elettrica. L’altezza di una montagna terrestre non può superare i 20 mila metri. L’Everest quindi non è la massima vetta possibile. Volendo andare ad altezze superiori bisognerebbe ridurre l’attrazione gravitazionale. Per far questo è necessario cambiare pianeta andando, per esempio, su Marte. Essendo questo satellite del Sole più leggero della nostra Terra, la sua attrazione gravitazionale è meno della metà di quella terrestre. Più esattamente essa vale circa il 38% della nostra. Il limite dell’Everest equivalente su Marte sarebbe sui 50 chilometri. Su Marte c’è il Monte Olimpo che è circa 3 volte più alto dell’Everest; la sua cima arriva infatti ai 25 chilometri.

Forse è bene precisare come nascono questi limiti quando ci sono strutture elettromagnetiche sottoposte alla forza

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gravitazionale. Le quantità essenziali sono l’energia potenziale dovuta all’attrazione gravitazionale e l’energia necessaria per trasformare un corpo solido in materia liquida. Consideriamo il caso dell’attrazione terrestre e la struttura di un mattone. Per portare un mattone in cima a un grattacielo è necessaria una certa quantità di energia. Essa è esattamente eguale a quella che lo stesso mattone possiede quando, lasciandolo cadere dalla cima dello stesso grattacielo, arriva alla base dell’edificio. All’energia che ha il mattone in cima al grattacielo si dà il nome di energia potenziale. Essa precisa infatti la “potenzialità” di cui dispone il mattone per il fatto di trovarsi molto più in alto rispetto alla base del grattacielo. Quando questa “energia potenziale” acquista un valore eguale all’energia necessaria per trasformare lo stesso mattone dallo stato solido allo stato liquido, allora l’altezza raggiunta è il valore massimo possibile. Se aggiungiamo un altro mattone, l’altezza dell’edificio non aumenta per via del fatto che i mattoni della base del grattacielo subiscono il processo di liquefazione.

A conti fatti vien fuori che, per il materiale tipico della crosta terrestre, l’altezza massima deve essere sui 20 chilometri. Il sogno di costruire grattacieli in grado di arrivare alla Luna è destinato a restare sogno.

II.4-26 Trecento anni per venire a capo del legame che esiste tra maremoti e terremoti (F6-04)

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Il 26 gennaio del 1700 un maremoto di potenza enorme si è abbattuto sul Giappone. L’altezza delle onde marine superò i 30 metri. Brian Atwater, dell’Università di Seattle (USA) ha cercato di capirne le origini. E ha scoperto che nello stesso giorno un terremoto di potenza estrema (magnitudo 9 nella scala Richter) devastò la costa orientale degli Stati Uniti. Secondo lo studioso americano, il maremoto arrivò in Giappone 14 ore dopo il terremoto della California. È fuori discussione che – prima o poi – la costa californiana dovrà subire una scossa tellurica di potenza estrema. Il prima potendo essere tra qualche anno, il poi tra qualche secolo. Se dovesse accadere un terremoto in California stavolta l’allarme scatterebbe in Giappone con il massimo anticipo.

II.4-27 Terremoti e previsioni: novità sulla prevenzione dei fenomeni sismici (A10-04)

Prevedere le scosse telluriche è un problema su cui da tanti anni è impegnata una vasta comunità scientifica. In tempi recenti molte novità hanno fatto nascere qualche seria speranza di successo.

È bene precisare subito che la previsione di un terremoto, per essere valida, deve sapere rispondere a tre domande. Anzitutto la data, che deve essere corretta entro un intervallo di tempo di qualche settimana. C’è poi la zona dell’epicentro che deve essere localizzato entro un raggio non troppo grande e comunque inferiore quanto più possibile ai 100 chilometri. Infine, e questo è un altro parametro di straordinaria importanza,

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la cosiddetta “magnitudo”. Ci sono due scale; la più utile e adesso universalmente adottata è quella di Richter. Secondo un accordo tra specialisti, l’errore sulla previsione del valore della “magnitudo” deve essere inferiore all’unità.

Due parole sulla scala Richter, che è legata all’ampiezza della vibrazione della superficie terrestre. L’aumento di una unità nel valore della “magnitudo” corrisponde a un aumento di ben dieci volte nell’ampiezza della vibrazione della superficie. Più grande è l’ampiezza, più grande è l’energia in gioco. Quando l’energia di un terremoto aumenta di trenta volte l’ampiezza corrispondente aumenta di dieci volte.

Non esiste un limite inferiore nella misura dell’ampiezza, quindi dell’energia di un terremoto. Il numero di terremoti con magnitudo piccola sono molto frequenti. Quelli con magnitudo grande sono invece molto rari. Di terremoti con magnitudo compresa tra 6 e 7 della scala Richter se ne contano cento l’anno in Europa. E, restando sempre nell’area Europea, con magnitudo inferiore a 3 se ne contano circa mezzo milione l’anno.

Terremoti con magnitudo tra 6 e 7 della scala Richter corrispondono a un’energia che va da diecimila e centomila GigaJoules. Giga vuol dire miliardo. Un GigaJoules è l’energia necessaria per spostare di due metri un milione di armadi, ciascuno pieno di roba.

La profondità degli epicentri dei terremoti in Europa è quasi sempre inferiore ai sessanta chilometri. Il valore massimo nella profondità dei terremoti finora registrati non supera i 700 chilometri. A queste profondità infatti la crosta terrestre diventa

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liquida, perdendo così totalmente la rigidità che è causa delle fratture. Ecco perché un terremoto non può nascere oltre questo limite di profondità, determinato dal rapporto tra forza gravitazionale e struttura elettromagnetica della crosta terrestre.

È proprio la struttura elettromagnetica della Terra che sembra dare segnali corretti sull’arrivo di una perturbazione sismica. Questa perturbazione è di natura meccanica, ma pare che sia preceduta da uno stato “critico” di natura elettrica. È questa particolare condizione “critica” che produce un “segnale elettrico”, rivelatore della perturbazione meccanica che genera il sisma.

Sono molto interessanti le proprietà caratteristiche di questi segnali. Essi vanno molto più lontano di ciò che prevedono i calcoli. Inoltre essi sembra che seguano percorsi stretti e privilegiati della crosta terrestre. Queste proprietà avvalorano l’ipotesi che si tratti di segnali elettrici di natura sismica che si propagano attraverso le irregolarità della crosta terrestre. D’altronde, è noto che le irregolarità legate ai fenomeni sismici sono ottimi conduttrici d’elettricità.

Una serie di calcoli modellistici e misure eseguite da un gruppo di sismologi greci ha permesso di stabilire che ci sono tempi diversi per l’arrivo dei segnali elettrici e di quelli magnetici. Si tratta di pochi secondi, ma misurare con precisione segnali di tipo elettrico e segnali di tipo magnetico serve a identificare le sorgenti genuine di terremoti in modo da separarli da effetti spuri che portano fuori strada. È quindi necessario studiare come viaggiano attraverso la crosta terrestre i segnali

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elettrici e magnetici, tenuto conto che un “segnale” elettrico generato da un terremoto dura circa 10 secondi ed è sfasato di circa un secondo rispetto a quello “magnetico”.

Queste ricerche pare abbiano permesso in Grecia di prevedere 11 terremoti, occorsi tra il 1984 e il 2003, con magnitudo superiore a 5,5 della scala Richter. In un caso non è stato possibile prevedere l’epicentro e tre terremoti sono arrivati senza che fosse possibile prevederli.

È troppo ottimistico dire che si è aperta una speranza verso la previsione dei fenomeni sismici, le cui proprietà sono diversificate e difficili da tenere sotto controllo. Penso sia però corretto incoraggiare lo studio della propagazione dei segnali elettrici e magnetici attraverso la crosta terrestre. Sono necessarie molte ricerche e anche studi dettagliati di natura teorica perché questa speranza possa diventare certezza. È anche bene precisare che, oltre ai segnali elettrici e magnetici ci sono altri effetti da studiare su alcuni dei quali esistono diverse misure. Se i risultati dei sismologi greci e di altri ricercatori saranno confermati, le “strutture” sismiche della superficie terrestre potrebbero diventare un sistema tra i più utili per lo studio di come prevedere i terremoti.

II.4-28 Dighe e terremoti (S16-04) = S15-04Nel lontano 14 novembre 1981 la regione di Assouan, in

Egitto, ha subito una forte scossa sismica: magnitudo 5.4 della Scala Richter. Secondo uno studio del geofisico svizzero, Mahmoud Mekkawi, le origini di questo sisma sarebbero proprio

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nell’esistenza stessa della diga di Assouan. La diga contiene infatti 157 miliardi di metri cubi di acqua, che esercita una pressione enorme sul fondo. La diga si trova però vicino a una fessura della crosta terrestre attraverso la quale si infiltra l’acqua del lago Nasser. Questa infiltrazione è stata scoperta misurando le proprietà elettro-conduttrici di quelle rocce. Le rocce secche conducono male l’elettricità. È l’acqua che – essendo un ottimo conduttore d’elettricità – aumenta la conduttività delle rocce. Pressione e infiltrazione d’acqua destabilizzano la struttura del terreno producendo fenomeni di riassestamento, quindi scosse telluriche. Il lavoro di Mekhawi vale per tutte le dighe costruite nel mondo e soprattutto per quelle in progetto.

II.4-29 L’acqua dell’era pre-lunare (N8-02)Nel corso di milioni e milioni di anni nel Sole sono finite

Comete e Asteroidi. Il loro materiale, per effetto dell’enorme energia solare, viene espulso dal Sole sotto forma di polvere sottilissima. Ecco perché le piste attraversate dai satelliti del Sole sono così cariche di polvere cosmica. La polvere che finisce sull’Antartide viene conservata per milioni e milioni di anni. In questa “polvere” c’è anche acqua. Studiando la natura di queste molecole d’acqua (in termini specialistici: la loro composizione isotopica) viene fuori che esse sono diverse dall’acqua dei nostri Oceani. Essa avrebbe le sue origini nell’era precedente all’impatto cosmico da cui è nata la nostra Luna.

II.4-30 Al millimetro la distanza Terra-Luna (S13-02)

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Ci vorranno cinque anni ma sarà possibile misurare la distanza della nostra Luna con una precisione di un millimetro. È il progetto cui si dedicherà l’astrofisico americano Tom Murphy dell’Università di Washington usando raggi laser prodotti in una stazione del Nuovo Messico (USA) inviati sulla superficie lunare dove tre missioni Apollo (USA) e due russe (senza astronauti) hanno posto speciali riflettori. Siccome la luce viaggia a un miliardo di chilometri l’ora, al fine di misurare una distanza con la precisione di un millimetro sarà necessaria una precisione nella misura del tempo pari a tre picosecondi (un picosecondo è un millesimo di miliardesimo di secondo).

II.4-31 Il fulmine più alto lega le nuvole alla Ionosfera (S15-02)

Si pensava fino a poco tempo fa che l’altezza cui potesse arrivare una scarica elettrica di natura temporalesca non potesse superare i 40 chilometri. Un gruppo di ricercatori diretti da Victor Pasko ha invece registrato una scarica elettrica che si estende fino ai 70 chilometri, là dove inizia la cosiddetta Ionosfera: quello strato fatto di cariche elettriche opposte (ioni e elettroni) che riflettono le onde radio. È la prova di un contatto diretto tra nuvole e Ionosfera. Questo “contatto” permetterà di capire ciò che gli specialisti chiamano il “circuito elettrico globale” che avvolge la Terra.

II.4-32 Risolto un mistero della lava (N16-02)

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Milioni di anni fa fu la fuoriuscita di lava basaltica attraverso le fessure della crosta terrestre a produrre la piattaforma lavica oggi esistente nella provincia di Antrim, nell’Irlanda del Nord. Questa struttura ha sorprendenti regolarità: colonne poligonali parallele, molte delle quali esagonali. Ce ne sono però anche con cinque e sette lati. Il meccanismo che trasforma una massa di lava incandescente in colonne poligonali solide è stato studiato da due fisici, Alberto Rojo e Eduardo Jagla, dell’Università di Michigan, usando un modello matematico che mette in evidenza l’importanza dei livelli minimi d’energia. La lava raffreddandosi sceglie la struttura esagonale poiché è quella di minima energia. Le altre si formano perché le loro energie sono appena superiori a quella esagonale.

II.4-33 Fuiji. UN GIGANTE GIAPPONESE DI NOME FUIJI (A17-04)

La tradizione popolare vuole Fuiji non come vulcano ma solo come montagna sacra, con dei e leggende che spingono ogni anno migliaia di pellegrini ad arrampicarsi sempre più in alto, sfidando mille difficoltà per raggiungere il traguardo della vetta estrema. Nell’immaginario collettivo il monte Fuiji è anche sorgente di raffinato piacere visivo. Basti pensare al valore aggiunto che hanno gli appartamenti di Tokyo con finestre in grado di potere offrire lo spettacolo della sua struttura, nei pochi luminosi giorni di trasparente atmosfera invernale, che

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permettono alla vetta innevata di superare i cento chilometri d’aria per essere vista da Tokyo.

È una vetta alta 3.776 metri. La sua fama non potrebbe essere più grande: la più alta che ha il Giappone. Una “vetta” che il 16 dicembre 1707 è saltata in aria dando luogo all’emissione – per oltre due settimane – di enormi quantità di cenere infuocata. Cenere, che ha ricoperto i letti dei fiumi nelle aree agricole circostanti, causando per anni e anni terribili inondazioni nelle campagne. La cenere si è riversata sulla capitale Edo – oggi Tokyo – che, pur distando da Fuiji ben cento chilometri, venne ricoperta con uno strato spesso ben 5 centimetri.

Nessuno pensa che quel gigante possa ritornare a essere quello che in effetti è: un vulcano. “Quasi tutti pensano – dice il Direttore del Centro di Ricerche Vulcanologiche dell’Università di Tokyo – che sia morto”. Esso sta invece dormendo da quasi tre secoli. Potrebbe svegliarsi. Quattro anni fa sono stati sentiti forti rumori provenienti dalle viscere profonde del vulcano. Nell’ottobre del 2000 sono state osservate onde geosismiche provenienti da oltre 10 km di profondità. Potevano essere fenomeni di breve durata. E invece sono andati avanti per ben otto mesi raggiungendo un picco nell’aprile del 2001 con cento scosse telluriche in appena un mese. Il valore medio registrato nel corso degli ultimi 20 anni era stato di appena 15 al mese. Si tratta di scosse telluriche che non arrivano in superficie. Esse però dicono che il magma sotto Fuiji è in movimento. È un magma che non interessa gli specialisti in quanto gli studiosi del magma preferiscono le sorgenti che si trovano in pieno oceano;

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in quella “fessura” lunga migliaia di chilometri e che ha il vantaggio di essere in contatto diretto con il “magma” puro di cui è fatto il cosiddetto “mantello” della nostra Terra. Il magma di Fuiji deve invece attraversare molte strutture tettoniche che si accavallano e incastrano a vicenda rendendo tortuoso il suo percorso prima di potere arrivare in superficie. Per gli studiosi di magma quello di Fuiji è troppo sporco. Sono anche questi i motivi per cui il vulcano non è stato mai al centro dell’attenzione scientifica.

Il Governo di Tokyo l’ha capito ed è per questo che nel novembre 2001 ha varato un progetto inteso a studiare Fuiji per quello che è: un vulcano che potrebbe ritornare in piena attività. Il progetto è stato quindi finanziato con la tecnica del “fifty-fifty”: quattro milioni e mezzo di dollari (nove miliardi delle nostre vecchie Lire) per la parte relativa allo studio geofisico del vulcano; e altri quattro milioni e mezzo per lo studio di cosa potrebbe accadere in una zona che include una metropoli enorme com’è Tokyo.

Per tentare di fare qualche previsione è necessario partire dalle diverse possibili attività del vulcano. Il problema è anzitutto quello di capire cosa è successo nel 1707. Gli studi intrapresi pochi anni fa avrebbero potuto essere stati fatti molto tempo prima. E invece i campioni di lava estratti da profondità pari a 100 e 600 metri sono sotto analisi in questi giorni. L’interesse nello studio di questa lava sta nel fatto che Fuiji non dovrebbe essere un vulcano che esplode ma un vulcano che emette lava senza azioni violente. Questo porta alla conclusione

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che l’esplosione del 1707 dovrebbe essere l’eccezione non la regola. Questa eccezione si arricchisce di un dettaglio che aumenta il livello di incomprensione per ciò che ha fatto Fuji nel 1707. Uno studioso di vecchi diari è riuscito a decifrare alcuni testi in base ai quali l’intensità dell’eruzione avrebbe raggiunto il suo punto massimo negli ultimi giorni, quando – secondo i modelli teorici – l’attività del vulcano avrebbe dovuto diminuire.

Quello che resta al livello di massima priorità è sapere – nel caso in cui il vulcano ritornasse in piena attività – quanto durerebbe e quanto forte potrebbe essere l’eruzione. Il che vuol dire quanta cenere infuocata, quanta lava e quanto gas potrebbero riversarsi sulle zone vicine e lontane, inclusa la città di Tokyo. Polvere e cenere bloccherebbero il traffico aereo e le stesse strutture tecnologiche su cui si regge quell’enorme metropoli in cui vivono e lavorano milioni di persone. Se l’eruzione avvenisse d’estate sarebbero ben 20 milioni le persone coinvolte. Ecco perché il SABO Technical Center, un Istituto semigovernativo di Tokyo, è impegnato per mettere a punto un piano dettagliato per lo studio dei rischi da affrontare. Alla elaborazione del piano debbono contribuire diverse specialità che vanno dalla vulcanologia all’elettronica avanzata, alla medicina, alla psicologia di massa. Niente allarmismi. Meglio si studiano i dettagli, più grande sarà il livello di sicurezza per affrontare le conseguenze di un evento del genere.

II.4-34 Sessant’anni fa l’ultima emissione di lava del Vesuvio (N17-04da scrivere)

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Sessant’anni fa è occorsa l’ultima emissione di lava dal Vesuvio, la cui attività è da molti anni rigorosamente sotto controllo giorno e notte grazie agli strumenti dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Il controllo ha tre componenti essenziali.

Quella sismica è effettuata attraverso una rete di ventotto stazioni dotate di strumenti ad alta sensibilità; essi trasmettono i loro segnali sismici al Centro di Monitoraggio dell’Osservatorio Vesuviano. La componente geodetica è dotata di dieci stazioni i cui strumenti sono in grado di rivelare piccole deformazioni del suolo. Le deformazioni possono essere di pochi millimetri, se di natura lineare, e di pochi milionesimi di radianti, se di tipo angolare. Tutti i segnali vengono trasmessi all’Osservatorio Vesuviano. La componente di controllo geochimico ha due stazioni istallate nell’area craterica della Solfatara e due nell’area craterica del Vesuvio: una nel bordo e l’altra nel fondo. Il controllo geochimico ha lo scopo di stabilire se ci sono variazioni nei flussi delle sostanze emesse.

La logica di controllo in queste tre componenti sta nel fatto che se non si registrano variazioni si può essere sicuri che il vulcano è tranquillo. Il problema nascerebbe quando venissero fuori anomalie. La loro presenza non sarebbe certezza di qualcosa da temere per il risveglio del vulcano che dorme. La loro presenza potrebbe essere perfettamente compatibile sia con la fase di tranquillità per il vulcano e purtroppo però sia anche con la fase corrispondente a un risveglio. La certezza è solo

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quando tutto procede senza anomalie, né sismiche, né geodetiche, né geochimiche. Attualmente è così.

II.4-36 Aurore Boreali (Nord) e Australi (Sud) osservate simultaneamente per la prima volta (N47-01)

Interagendo con l’atmosfera il “vento solare” produce quei fenomeni luminosi cui è stato dato il nome di Aurora Boreale (al Polo Nord) e Australe (al Polo Sud). Fu la squadra del Capitano Cook che, nel lontano 1770 – pur trovandosi nell’emisfero Sud – riportò l’esistenza di un “fenomeno analogo” all’Aurora Boreale. Nel corso della stessa notte, era il 16 settembre 1770, nell’emisfero Nord, astronomi cinesi riportarono l’osservazione di un’Aurora Boreale. Le Aurore Polari sono prodotte dal “vento solare” che, arrivando sulla Terra, “precipita” nei suoi due Poli Nord e Sud. Le due Aurore dovrebbero quindi manifestarsi simultaneamente. La Terra è dotata di campo magnetico, come ci dice il moto dell’ago di una bussola. Il vento solare è fatto di particelle cariche (elettroni e protoni) che – alle nostre latitudini – non riescono a penetrare nell’Atmosfera in quanto deviate dal campo magnetico terrestre. Ai poli della Terra però il campo magnetico si chiude e le particelle cariche “precipitano” sui poli. È la prima volta che le due Aurore vengono osservate simultaneamente. Lo ha fatto la navicella spaziale Polar della Nasa che ha fotografato le due Aurore.

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III IL MONDO LONTANO

III.1Segni Zodiacali e verità scientifiche (A3-02)Il calcolo elettronico, i satelliti, le esplorazioni spaziali, la

medicina moderna sono esempi di uso della Scienza a fini di pace e di progresso civile e sociale. Progresso che nasce dall’avere saputo decifrare molte pagine del Libro della Natura. Qualsiasi fenomeno galileianamente noto (perfettamente misurato e riproducibile) sappiamo spiegarlo come esempio di quella Logica rigorosa che in appena 400 anni ci ha portato alle soglie del Supermondo. Abbiamo capito che le Stelle sono candele nucleari che brillano più di neutrini che di luce. Esse sono distribuite nello spazio cosmico non su un’unica superficie, come veniva immaginata la “sfera celeste”, ma a profondità diverse e distanze enormi. Queste formidabili scoperte sulla struttura cosmica del Creato danno ai Segni Zodiacali il loro vero significato: tentativi inventati migliaia di anni fa nella speranza di capire com’è fatto il mondo. La Scienza ha scoperto che non esistono. Né esiste l’influenza degli innocui satelliti del Sole sul nostro futuro. Lo Zodiaco viene dal Greco “xo ” derivato da “o” che significa “animale”. I Greci associavano le Costellazioni a figure di specie animali. Nel corso dei secoli vennero introdotte anche figure di persone (Gemelli, Vergine) e addirittura un oggetto, la Bilancia.

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Passiamo dalle figure ai tempi necessari alla nostra Stella (il Sole) per attraversare un determinato Segno Zodiacale. Non è vero che i dodici Segni Zodiacali vengono percorsi dal Sole in tempi eguali. Il Sole impiega, non un mese ma appena 6 giorni per attraversare il “segno” dello Scorpione, mentre impiega ben 45 giorni per attraversare il “segno” della Vergine. Ma c’è di più.

La nostra Terra non ha solo i due ben noti movimenti: rotazione a trottola (che ci dà il giorno e la notte) e rotazione attorno al Sole (che produce le quattro stagioni). C’è un terzo movimento di cui non si parla mai: l’asse della trottola-Terra non è immobile nello spazio cosmico. Esso gira (in senso orario) attorno a un asse fisso impiegando 25˙800 anni per un giro completo. Prova: i nostri posteri fra un paio di migliaia di anni avranno come Stella Polare un’altra Stella. Non la nostra. Esattamente come ai tempi di Ipparco (200 a.C.) in cui non c’era la nostra Stella Polare. Fu infatti il grande astronomo greco a scoprire questo effetto. A cosa porta? Allo sfasamento tra data di Calendario e Segno Zodiacale. Esempio. Coloro i quali credono di essere nel “segno” del Leone debbono rendersi conto che sarebbe così se fossero nati 2˙200 anni fa, quando Ipparco scoprì l’effetto. Adesso il Sole attraversa il “segno” del Leone dal 10 agosto al 15 settembre, non dal 24 luglio al 23 agosto come pensa chi crede nei Segni Zodiacali. Nel “segno” dello Scorpione il Sole resta appena sei giorni, dal 23 al 28 Novembre, non dal 24 ottobre al 22 novembre come stampato nei Calendari astrologici.

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Coloro che volessero credere nei Segni Zodiacali dovrebbero almeno preoccuparsi di essere nel “segno” giusto. Preoccupazione comunque inutile in quanto le forze in gioco nel Creato, dalle più forti alle più deboli e debolissime le abbiamo scoperte e capite. Se esistessero forze talmente potenti da dare alle Stelle e ai satelliti del Sole la possibilità di determinare il nostro futuro (nonostante le enormi distanze in gioco) queste formidabili forze le avremmo scoperte da tempo. Anzi, sarebbero stati i nostri antenati a scoprirle. E invece già Sant’Agostino aveva studiato la validità dei Segni Zodiacali e degli oroscopi concludendo che il nostro futuro è soltanto nelle mani del Signore, non delle Stelle. La Scienza dà ragione a Sant’Agostino. Chi continua a credere nei Segni Zodiacali e nella loro influenza sul nostro futuro dovrebbe ricordarsi che se ciò fosse vero non potrebbero esistere la TV, i telefonini e le moderne tecnologie citate in apertura.

III.2 Le Stelle dei segni zodiacali si muovono a velocità altissime (A27-02)

Le Stelle che determinano i segni zodiacali vanno a velocità enormi. Molto più elevate di quelle a noi familiari. Eppure c’è chi crede ancora nel fatto che quelle Stelle siano fisse in cielo allo scopo di dirci qual è il nostro segno zodiacale. Quelle Stelle viaggiano vorticosamente. Ci sembrano ferme in quanto lontanissime. Il motivo è la velocità angolare. Se un oggetto è a noi vicino lo vediamo muoversi anche se la sua

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velocità è piccola. Un oggetto più è da noi lontano, più veloce deve muoversi perché noi ci si renda conto della sua velocità. La rondine ci appare muoversi in cielo più di un jet di linea. E l’aereo ci appare in moto nel cielo mentre la Luna no, nonostante la velocità della Luna sia tre volte più grande di quella di un jet di linea. Vediamo come entra in gioco la velocità angolare.

Se stendiamo un braccio e, in un secondo, muoviamo la mano destra di sessanta gradi da Ovest verso Est, otteniamo una velocità angolare superiore a poco più di un “radiante” al secondo. La nostra mano ha descritto l’arco di un cerchio lungo circa quanto il nostro braccio: ecco l’origine del “radiante”. Un “radiante” è circa 57 gradi. La velocità della nostra mano è di un metro al secondo; e cioè di 3˙600 metri l’ora. La Luna viaggia mille volte più veloce della nostra mano. Per muoversi di 60 gradi la Luna ha bisogno di mille volte meno tempo della mano. Eppure la velocità angolare della Luna ci sembra zero; la Luna ci appare ferma, non si muove come la nostra mano. La Luna si trova infatti 400 milioni di volte più lontana della nostra mano. La sua velocità, mille volte più grande, deve fare i conti con la distanza. Il suo percorso è infatti 400 milioni di volte più lungo di quello descritto dalla nostra mano. Dividendo 400 milioni per mille si ottiene 400 mila. Per girare di 60 gradi la Luna deve impiegare, non un secondo come fa la nostra mano, ma 400 mila secondi. Per girare di 360 gradi, sei volte di più: due milioni 400 mila secondi. In un giorno ci sono 86 mila secondi circa. Dividendo due milioni e 400 mila per 86 mila si ottiene il numero di giorni necessari alla Luna per un giro completo

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attorno a noi. E cioè 28 giorni. Considerate le approssimazioni usate, il risultato è soddisfacente. La Luna si muove a 3 Mach ma ci sembra ferma in quanto è molto distante.

Passiamo alle Stelle. Esse distano da noi migliaia di “anni-luce” (un anno-luce è lo spazio percorso in un anno viaggiando alla velocità della luce: poco più di un miliardo di chilometri l’ora). Le Stelle del centro della Galassia distano da noi 30 mila “anni-luce”. Prendiamo una Stella dello Zodiaco che disti da noi solo mille “anni-luce”. Per muoversi di un “radiante” deve spostarsi di una quantità di spazio pari alla sua distanza da noi: mille “anni-luce”. Perché ci si possa accorgere del suo movimento a noi basterebbe che si spostasse di un “milliradiante” (un millesimo di radiante), quindi di appena un solo “anno-luce”. L’acuità visiva dei nostri occhi arriva a vedere se qualcosa si sposta di un milliradiante. Un decimo di milliradiante non riusciamo più a vederlo. La velocità delle Stelle è tipicamente di un milione di chilometri l’ora: velocità altissima, ma mille volte più piccola di quella della luce. Per spostarsi di un milliradiante una Stella ha bisogno di mille anni. A noi, che viviamo cent’anni, le Stelle sembrano fisse. Eppure sono dotate di velocità altissime.

Credere nei segni zodiacali vuol dire ignorare velocità pari a un milione di chilometri l’ora: una velocità mille volte inferiore a quella della luce, ma talmente elevata che, in appena un’ora, si potrebbe fare ben 25 volte il giro attorno alla Terra.

Le Stelle non sono fisse nel tempo: cambiano continuamente struttura e posizione. L’áncora della nostra

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esistenza nell’Immanente non sono le Stelle dei segni zodiacali ma la Logica del Creato e cioè le Leggi Fondamentali che – esse sì – non cambiano mai.

III.3La battaglia di Nettuno: l’ottavo satellite del Sole: Galilei, Adams, Le Verrier (A36-03)

Nettuno è diventato in questi giorni esclusiva proprietà intellettuale francese. Forse però appartiene all’Italia. Vediamone la storia. La sua scoperta era stata annoverata tra quelle “previste”, come quella di Halley; usando l’equazione di Newton, l’astronomo inglese annunciò nel 1705 che le tre precedenti comete viste negli anni 1531, 1607 e 1682 erano lo stesso corpo celeste, che impiegava 76 anni per fare un giro completo attorno al Sole. Quel corpo – disse Halley – sarebbe apparso di nuovo come cometa tra la fine del 1758 e l’inizio del 1759. Fu un trionfo per Halley, quando la cometa tornò in cielo. Nasce così la gara a fare previsioni astronomiche usando l’equazione di Newton. È ciò che fece nel 1845 un giovane astronomo della Cornovaglia, John Couch Adams, mentre studiava a Cambridge le piccole irregolarità di Urano. Adams concluse che doveva esserci un ottavo satellite e si recò all’Osservatorio di Greenwich per mostrare i suoi calcoli al Direttore, George Airy. Non riuscì a parlargli e lasciò alla moglie di Airy le sue note con calcoli e dettagli.

L’astronomo francese Urbain Jean-Joseph Le Verrier (1811-1877), analizzando le anomalie delle orbite di Saturno concluse – un anno dopo – che ci deve essere un altro satellite

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dicendo dove avrebbe dovuto trovarsi. Comunicò i suoi risultati ai colleghi tedeschi che possedevano un potente telescopio. Dopo mezz’ora dalla lettura della lettera viene scoperto l’ottavo satellite del Sole. Era il 23 settembre 1846. Gli inglesi inneggiano ad Adams; i francesi a Le Verrier. Anzitutto in quanto della “previsione” di Adams, Le Verrier non sapeva alcunché. Eppoi perché era stato lui a indicare agli astronomi tedeschi la zona di cielo in cui cercare l’ottavo satellite. Gli inglesi però continuarono a insistere che, un anno prima, in quella stessa zona di cielo Adams aveva previsto che doveva esserci un satellite del Sole. La paternità della scoperta ha generato una “battaglia” più lunga della guerra dei cent’anni. È infatti da due secoli e mezzo che i francesi difendono Le Verrier e gli inglesi Adams.

C’era qualche dettaglio che restava un po’ misterioso. Come mai gli astronomi inglesi non l’avevano scoperto un anno prima, visto che sapevano dove cercarlo? Pare che l’abbiano cercato per sei settimane, senza riuscire a trovarlo. E come mai le note relative ai calcoli di Adams erano scomparse dall’Osservatorio Reale di Greenwich? Airy aveva gelosamente conservato le note di Adams; lasciandole nel suo archivio. Non si sa come, intorno agli anni sessanta del secolo scorso, l’archivio scomparve. Della scomparsa venne accusato l’astronomo Olin J. Eggen, che però negava di avere il “file” contenente le note di Adams. Alla morte di Eggen, una sua studentessa, Elain MacAuliffe, trova nel suo studio, all’osservatorio “La Serena” in Cile, non solo le note di Adams,

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ma anche altri manoscritti di valore storico appartenenti all’Osservatorio Reale di Greenwich. Siamo nel 1999. La preziosa documentazione viene studiata, nel corso di questi quattro anni, da un gruppo di ricercatori dell’University College di Londra. Proprio in questi giorni essi hanno ridato la totale paternità della scoperta di Nettuno a Le Verrier. Infatti l’analisi dettagliata delle note di Adams porta alla conclusione che i risultati sono “confusi”. Più esattamente pare che i calcoli del giovane Adams portavano a una incertezza di 20 gradi sulla posizione dell’ottavo satellite. Cantano vittoria i francesi. La storia però non finisce qui.

Uno storico della Scienza, Stillmann Drake, illustre docente della Scuola di Erice, attento e scrupoloso studioso delle opere galileiane, ha scoperto che Galilei aveva osservato nel lontano dicembre 1612, per la prima volta nella Storia dell’Astronomia, una Stella di debolissima luminosità. Questo avveniva 234 anni prima della scoperta di Le Verrier. Galilei pensò che si trattasse di una “Stella fissa” e non parlò quindi di un nuovo satellite del Sole. Stillmann Drake ha però studiato le osservazioni di Galilei concludendo che Galilei scoprì Nettuno nel dicembre 1612, prima che venisse occultato da Giove. Occultamento che si sarebbe verificato dopo tredici mesi circa: nel gennaio 1613. Galilei non osservò l’occultamento, altrimenti avrebbe capito che quell’oggetto celeste non stava fisso in cielo. Galilei scrisse esattamente dove si trovava in cielo quella nuova debolissima Stella e considerò chiuso il problema.

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Nettuno appare quasi fermo per l’estrema distanza alla quale si trova: trenta volte più lontano di noi dal Sole. Essendo così lontano riceve quasi mille volte meno luce di noi: ecco perché appare così debole in luminosità. E infine il suo periodo. Nettuno impiega centosessantacinque anni circa (più esattamente 164,8) per fare un giro attorno al Sole. Ecco perché sembra quasi immobile.

La scoperta di Nettuno chiama in causa tre persone: Galilei, Adams e Le Verrier. Come spesso nella vita, anche nelle scoperte astronomiche, può accadere che la verità sia più complessa di come possa sembrare a prima vista. Oggi però una cosa è certa. Lo sviluppo delle tecnologie astrofisiche galileiane ci permette di sapere che quella debolissima sorgente di luce osservata 381 anni fa dal padre della Scienza è oltre cinquanta volte (in volume) più grande della Terra e possiede ben undici “Lune”.

III.4Keplero e i 6 pianeti. Sono invece 9 (F41-01)Keplero cercò di capire per quale motivo i “pianeti”

dovessero essere 6. I nostri antenati avevano scoperto che i corpi celesti sono di due tipi: alcuni si muovono (ecco l’origine del termine greco “pianeta” che vuol dire “errante”), altri sono fissi. Le Stelle fisse avrebbero dovuto essere incastonate nella sfera celeste più grande. Le Stelle erranti invece, su sfere celesti più piccole. Perché 6? Si chiese Keplero. Risposta: bisogna che stiano separate. Per far questo ci vogliono 5 strutture. Affrontando un problema geometrico di estrema complessità,

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Keplero riuscì a separare le 6 sfere con 5 figure geometriche perfette. L’idea di Keplero era legata al numero massimo di figure geometriche perfette nello spazio a tre dimensioni. La geometria euclidea insegna che 5 è proprio il numero di figure geometriche perfette; Keplero morì convinto di avere capito perché il Sistema Solare è fatto con 6 pianeti: Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno. Il settimo non poteva esistere in quanto non c’era una struttura per tenerlo separato dal sesto. Oggi sappiamo che ce ne sono ancora 3: Urano, Nettuno e Plutone. Totale 9. L’ inutile fatica geometrico-matematica di Keplero è il primo esempio di validità dell’insegnamento galileiano: non bastano il rigore e la logica matematica. Per capire come è fatto il mondo è necessaria l’osservazione sperimentale. Il che vuol dire: chiedere all’Autore. L’osservazione sperimentale ci dice che i satelliti sono 9. Non abbiamo ancora capito perché non 8, 10, 11 ecc.. Lo sapremo quando saremo riusciti a capire l’esatta origine del Sistema Solare.

III.5Come nascono le Comete (F42-01)Le comete hanno da sempre attratto l’attenzione dei nostri

antenati: di tutte le epoche e civiltà. Fu Galilei a porsi le tre domande chiave. Di cosa sono fatte? Da dove vengono? Come nascono? Per trovare le risposte ci sono voluti quattro secoli di scienza galileiana.

Sono fatte di ghiaccio e polvere. Vengono dalle estreme periferie del Sistema Solare, dove c’è una enorme fascia di

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materia gelida (ghiaccio e polvere) rimasta fredda per via dell’enorme distanza dal Sole.

La risposta più difficile è quella alla terza domanda. Esse nascono per instabilità gravitazionale. Un fenomeno che solo adesso viene studiato grazie ai supercomputer: due corpi celesti si attraggono gravitazionalmente come fanno la Terra e la Luna e tutte le Stelle. Se sono due, e solo due, essi possono ruotare indefinitamente in modo stabile. Se i corpi sono più di due il sistema diventa però instabile. L’enorme fascia di materia gelida è fatta con milioni di parti, ciascuna delle quali è un satellite del Sole. A un certo punto, senza che alcun altro corpo celeste lo colpisca, un pezzo di ghiaccio e polvere – per instabilità gravitazionale – abbandona la sua traiettoria e si dirige verso il Sole lasciandosi dietro un po’ di pulviscolo. Illuminato dal Sole quel pulviscolo diventa la “coda” della cometa.

III.6Una sorpresa nelle rocce della Luna (S44-01)Ci sono due scuole di pensiero per la Luna. Una sostiene

che si tratta di un grosso asteroide “caduto” nella trappola gravitazione della Terra. L’altra scuola di pensiero sostiene che fu un asteroide grosso come Marte che colpì la Terra appena 50 milioni di anni dopo la formazione del Sistema Solare. Ricerche fatte da geologi del Politecnico di Zurigo portano acqua la mulino della collisione gigantesca. Studiando alcuni campioni di rocce lunari, essi infatti hanno scoperto che l’Ossigeno presente in queste rocce ha la stessa composizione “isotopica” di quello presente nella rocce della nostra Terra. Per composizione

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“isotopica” si intende quella delle strutture neutroniche. Il nucleo d’Ossigeno normale è fatto con otto protoni e otto neutroni. Ci sono però varietà di Ossigeno con numeri diversi di neutroni. Le proprietà chimiche dell’Ossigeno dipendono dal numero di protoni. L’Ossigeno quindi rimane Ossigeno se cambia il numero di neutroni nel nucleo. Alle varietà con numeri diversi di neutroni si dà il nome di varietà “isotopiche”. Rocce con identiche varietà “isotopiche” di uno stesso elemento è molto probabile che vengano dallo stesso corpo celeste. La Luna quindi sarebbe un pezzo della Terra staccatosi per colpa di un gigantesco asteroide. Purtuttavia studi e ricerche ulteriori potrebbero portare a sorprese. Bisogna saperne di più.

III.7Una conferma dallo Spazio della nostra esistenza privilegiata (N50-01)

Ha fatto il giro del mondo la scoperta – grazie al telescopio spaziale Hubble – di uno strato gassoso definito “Atmosfera” che circonda un satellite di una Stella simile al nostro Sole. Questa scoperta in nessun modo altera le nostre conoscenze sull’estrema difficoltà di produrre nel Cosmo le condizioni di vita che caratterizzano la nostra straordinaria esistenza. Anzitutto una precisazione. Questo satellite era stato già scoperto due anni fa. Esso è lungi dall’avere le caratteristiche della nostra Terra. Somiglia molto a Giove: è gassoso. Ma contrariamente a Giove, esso è vicinissimo alla sua Stella. Impiega infatti appena tre giorni e mezzo per una rotazione completa. Noi impieghiamo un anno; Giove di anni ne impiega

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più di undici (11,86). Insomma siamo a distanza di sicurezza dalla nostra Stella. Se fossimo più vicini al Sole moriremmo di caldo. Più lontani, di freddo. La scoperta del telescopio spaziale Hubble è una conferma di quanto sia unico il privilegio di cui godiamo.

III.8La vita tra le Stelle (S51-01)Capire da dove veniamo è il sogno di tutti. C’è chi crede

che la vita sia nata negli spazi cosmici. Spazi cosmici vuol dire temperature bassissime: appena 3 gradi sopra lo Zero assoluto. Le basi chimiche della vita sono le molecole biologiche. Capire come interagiscono atomi e molecole a temperature bassissime lo si potrebbe se fossimo in grado di fare esperimenti negli spazi cosmici.

Più bassa è la temperatura meno si muovono gli atomi e le molecole. Lo zero dei nostri termometri corrisponde a movimenti energici di atomi e molecole in quanto questo zero è a 273 gradi sopra lo Zero Assoluto. Quando c’è in gioco tanta energia le reazioni chimiche avvengono in modo veloce. Nello spazio cosmico le temperature bassissime rallentano l’interazione tra atomi e molecole. Queste condizioni si possono simulare con modelli da mettere in computer. Essi servono ad aprirci gli occhi sugli aspetti teorici di questi problemi nella speranza che possano portare ad esperimenti da realizzare in un prossimo futuro. L’ultimo modello è quello messo a punto da Franco Gianturco, professore di Chimica Fisica all’Università di Roma: una nuova frontiera nello studio delle interazioni tra

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molecole. Siamo ai primi passi per capire se ha un minimo di credibilità scientifica l’ipotesi della formazione di molecole biologiche in condizioni fisiche tipiche degli spazi interstellari.

III.9I buchi neri emettono energia (F51-01)Un buco nero contiene miliardi di Stelle simili al nostro

Sole. La quantità di materia è talmente enorme e densa che nulla può sfuggire alla sua attrazione gravitazionale. Chi si avvicina a un buco nero viene inesorabilmente inghiottito. I raggi X osservati nelle vicinanze di un buco nero erano finora stati attribuiti alla materia in procinto di precipitare. Misure più precise sembrano indicare che i buchi neri sono dotati di giganteschi movimenti a trottola. Essendo presenti potenti campi magnetici è come se il buco nero diventasse una dinamo la cui energia viene trasmessa alla materia circostante. I raggi X non vengono prodotti dalla materia che cade, ma dall’energia che la materia riceve dal buco nero. Si apre così una nuova frontiera nello studio di queste incredibili realtà cosmiche.

III.10 Oggetti quasi stellari (F1-02)Centinaia di miliardi di Stelle in una zona di spazio

piccola come il nostro Sistema Solare rappresentano quegli oggetti stellari detti Quasar (acronimo di Quasi-Stellar Objects; oggetti quasi stellari). Quando vennero scoperte le prime Quasar sembravano fenomeni cosmici destinati a restare una rarità. Il potente telescopio da due metri e mezzo di diametro installato sull’Apache Point Observatory nel Nuovo Messico (USA) ha

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messo a disposizione della comunità astronomica i dati relativi a cinquemila Quasars. Due di esse sono alle estreme frontiere dell’Universo e rappresentano gli oggetti cosmici più lontani da noi. Capire le vere origini dei Quasar è la nuova frontiera dell’Astrofisica Moderna.

III.11 Studiare Marte per capire la Terra (S2-02)Per compiere un intero giro attorno al Sole Marte impiega

circa il doppio del tempo a noi necessario e cui diamo il nome di anno. Marte ha – come la nostra Terra – cicli stagionali. I dati raccolti dal satellite della Nasa “Mars Global Surveyor” sembrano indicare che Marte stia subendo un ciclo di “global worming” (riscaldamento globale) tale da cambiare profondamente il suo “clima”. Non domani né l’anno prossimo, ma nei prossimi millenni. Sono variazioni che possono essere di grande interesse per noi. Su Marte infatti non ci sono né industrie né uomini. Eppure il suo clima sta subendo notevoli cambiamenti.

III.12 Come sono nate le Galassie (F3-02)Nessuno scienziato può dire di avere una teoria precisa e

sicura sulla formazione delle Galassie. La famosa equazione di Einstein che descrive le forze gravitazionali corrisponde a una massa distribuita uniformemente nell’immenso volume del Cosmo. Se così stessero le cose noi non potremmo esistere. Anzitutto è necessario che si formino le Galassie. Poi bisogna che vengano fuori le singole Stelle e i sistemi con satelliti. Noi

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viviamo in uno di questi. È stato detto più volte che l’esperimento Boomerang ha “fotografato” il Big-Bang. Questa definizione ha eccitato la fantasia del grande pubblico. Non si tratta di alcuna “foto”, ma della struttura che la “luce” del Cosmo aveva 300.000 anni dopo il Big-Bang. Questa struttura non era perfettamente omogenea ma con fluttuazioni di densità. L’interesse per studiare queste fluttuazioni sta nel fatto che esse sarebbero il seme da cui sono nate le Galassie; di strada per capire come si arriva al Sole, ai suoi satelliti e a noi ce n’è ancora tanta.

III.13 Nuove strade per capire le forze che ci tengono legati al Sole (S5-02)

Immaginiamo di mettere sul piatto di una bilancia ideale un jumbo. Effettuata la misura si aggiunga un granello di sabbia. La scala di lettura della bilancia subirà una minuscola deviazione. Prendiamone la miliardesima parte e avremo ciò che i fisici dell’Istituto Lane-Langevin in Grenoble sono riusciti a fare. Non usando jumbo né granelli di sabbia, bensì le particelle prive di carica elettrica che costituiscono i nuclei dei nostri atomi: e detti neutroni. Lo scopo dell’esperimento era (ed è) quello di misurare debolissimi segnali della Forza Gravitazionale cui si dà il nome di “effetti quantistici”. Se i risultati saranno confermati, si può essere certi che è stata aperta una nuova strada nello studio delle Forze Gravitazionali. Di quelle forze che sono responsabili della caduta delle mele dagli alberi, del nostro restare appiccicati alla Terra, del fatto che la Luna non può

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abbandonarci e che noi resteremo sempre legati al Sole senza mai perderci nel gelo dello Spazio cosmico.

III.14 Affascinanti studi sulla vita da Marte a noi: la suggestiva ipotesi di scienziati tedeschi (A11-02)

Usando il satellite russo “Foton” un gruppo di scienziati tedeschi del Centro Aerospaziale di Colonia, diretto dalla Professoressa Gerda Horneck, ha realizzato un esperimento di grande interesse, per capire, fino a che punto la materia vivente può essere portata da un pianeta a un altro nel Sistema Solare.

Piante, funghi, batteri possono produrre una delle forme più primitive di vita cui si dà il nome di “spora”. Essa è una cellula che può, senza bisogno di fondersi con alcuna altra cellula, sviluppare un’entità dotata di vita e con la capacità di riprodursi.

Usando cinquanta milioni di spore del “Bacillus Subtilis” è stato stabilito che quasi tutte sono state uccise dalla radiazione ultravioletta emessa dal Sole. Mettendo le spore sotto uno spessore di quarzo non è stato ottenuto praticamente alcun effetto protettivo.

E invece usando materiale in gran parte composto di arenaria quasi tutte le spore sopravvivono alla radiazione ultravioletta del Sole. Questi risultati portano a concludere che meteoriti anche piccole (da un centimetro di diametro) avrebbero potuto portare forme elementari di vita da un pianeta all’altro nel Sistema Solare: a condizione che il viaggio non si prolunghi oltre il paio di anni.

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È la prima volta che milioni di spore batteriche vengono esposte nello Spazio alla radiazione solare. L’ipotesi che la vita primitiva sia nata fuori dalla nostra Terra risale al chimico svedese Svante Arrhesius che la propose all’inizio del secolo scorso (più esattamente, nel 1903). Arrhesius è il Premio Nobel per la Chimica che – nel 1866 – propose l’Anidride Carbonica come responsabile del riscaldamento dell’atmosfera. Per spiegare come le spore potessero viaggiare nello Spazio cosmico Arrhesius suggerì che fosse la radiazione solare a spingere le spore da un satellite del Sole all’altro.

Nel 1970 Fred Hoyle (l’astrofico che coniò il termine Big Bang per esprimere il suo dissenso dalle teorie cosmiche non statiche) e Chandra Wickramasinghe, studiando la radiazione infrarossa del materiale interstellare, conclusero che doveva trattarsi di radiazione emessa da batteri secchi e congelati. Su queste basi formularono l’ipotesi che la vita sulla Terra avrebbe potuto avere avuto origine extraterrestre.

Un coro di critiche si riversò su questa ipotesi: raggi cosmici e radiazioni ultraviolette avrebbero ucciso le spore nel loro viaggio tra le Stelle.

Dalle Stelle si è tornati in tempi recenti a proporre le meteoriti quali veicoli di vita. Il guaio è che le meteoriti restano nello spazio interplanetario milioni e milioni di anni e nessuna forma di vita può sopravvivere così a lungo al bombardamento della radiazione cosmica e solare.

C’è però una piccola probabilità che qualche pezzettino di materiale cosmico possa, nel giro di pochi anni, venire quasi

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direttamente sulla Terra partendo da Marte. A questo punto nasce il problema di capire se le spore contenute nelle meteoriti possono resistere alla radiazione ultravioletta del Sole un paio di anni. I risultati ottenuti dagli studiosi tedeschi sembrano dire che la vita può resistere un paio d’anni viaggiando su un pezzettino di pietra da un satellite all’altro del Sistema Solare. Conclusione: dalle Stelle no, la vita non può venire; da qualche satellite del Sole si.

Che la materia vivente possa o no venire da Marte è un problema secondario. Il problema di base è capire come si passa dalla materia inerte alla materia dotata di vita. Nel secolo scorso siamo passati da un’ingegneria che per diversi secoli aveva lavorato usando materia inerte a un’ingegneria (detta ingegneria genetica), che manipola materia vivente. Il passaggio da inerte a vivente però non lo sa fare nessuno, nonostante gli enormi progressi della tecnologia.

Che forme elementari di vita possano viaggiare nello spazio nulla toglie alla soluzione legata alla nostra formidabile navicella spaziale, così splendidamente ricca di albe e tramonti, oceani e montagne e di quella specie vivente dotata di ragione che cerca di capire le origini della vita. Insomma la soluzione che resta sempre la più probabile è quella della vita sbocciata qui, su questo satellite del Sole dove abbiamo avuto il privilegio unico di essere nati.

III.15 Un vento da Giove (F14-02)

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Giove è il gigante del sistema planetario-solare: la sua massa supera più di mille volte quella della nostra Terra. Due telescopi spaziali, “Chandra” e “Hubble”, più due sonde, Cassini e Galileo, hanno scandagliato i dintorni spaziali di Giove. È stato così scoperto che da questo enorme satellite del Sole soffia un vento di Ossigeno, Zolfo e Sodio alla velocità di tre milioni di km l’ora. Questo vento si estende oltre i 100 milioni di chilometri di distanza. Venire a capo di come e perché nasca questo vento richiederà molto tempo.

III.16 Stiamo viaggiando nel mare di luce cosmica (F15-02)

La nostra navicella spaziale viaggia ruotando attorno al Sole. Il Sole ruota attorno al centro della Galassia. La Galassia non è sola. Essa è legata gravitazionalmente ad altre Galassie, tra cui Andromeda che è doppia della nostra. Esse formano un piccolo gruppo detto “locale”, che è immerso in un mare di luce cosmica, di bassissima energia e per questo invisibile ai nostri occhi. Questa luce è stata prodotta 300 mila anni dopo il big bang. Misure recenti permettono di concludere che il gruppo “locale” di Galassie si muove – rispetto al mare di luce cosmica – alla velocità di un milione e 300 mila chilometri l’ora. Incredibile ma vero: siamo immersi in un mare di luce e ci muoviamo come subacquei a una velocità superiore a mille volte quella di un jet supersonico che volasse a poco più di un Mach (la velocità del suono nell’aria).

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III.17 Alluvioni su Marte (S19-02)Potrebbe forse essere ancora attiva la zona a Sud

dell’Equatore di Marte dove, grazie ai dati ottenuti con la Mars Orbital Camera, i ricercatori dell’Università dell’Arizona (USA) pensano d’avere scoperto gli effetti prodotti da fenomeni alluvionali sull’enorme pianura “Cerberus”.

Non si tratta di piccole anomalie meteorologiche ma di alluvioni con 650 miliardi di metri cubi d’acqua. Le tracce di alluvioni scoperte 25 anni fa dalle sonde Viking risalivano a fenomeni occorsi su Marte due miliardi di anni fa. Queste sono molto più vicine nel tempo: appena dieci milioni di anni fa; come dire “ieri l’altro” sulle scale dei tempi e delle incertezze tipiche per questi fenomeni. C’è addirittura chi pensa che in un prossimo futuro – domani o fra un milione di anni – la struttura geotermica possa essere ancora attiva al punto da potere inondare con nuove alluvioni quelle aride pianure laviche di Marte. Il punto chiave è sapere se ci sono enormi riserve d’acqua nelle viscere di questo satellite del Sole.

III.18 Di lampi cosmici ce ne sono mille al giorno (S25-02)

Finora sembrava che ce ne fossero un paio al giorno. Essi potrebbero però essere mille volte di più. Stiamo parlando dei “lampi di raggi gamma”. E cioè di raggi molto più potenti dei raggi X che vengono dalle profondità cosmiche più lontane. Se la loro sorgente fosse altamente direzionale, noi vedremmo solo

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quelli che sono diretti esattamente là dove c’è questo minuscolo satellite del Sole in cui noi viviamo. Un insieme di dati raccolti dai due satelliti Chandra e BeppoSax [i cui nomi ricordano due illustri scienziati del XX secolo (l’indiano Chandrasekhar e il nostro grande Occhialini, per gli amici Beppo)] corroborano l’ipotesi che questi lampi vengano prodotti da collassi stellari e che siano altamente direzionali. I lampi dovrebbero essere quindi mille volte più numerosi.

III.19 L’oggetto cosmico più lontano è una Galassia (F27-02)

Fino ad oggi l’oggetto cosmico più distante da noi era un quasar, cioè una Galassia con un superpotente buco nero nel suo centro. Questo primato è adesso passato a una normale Galassia, denominata HCM-6A, che si trova alla massima distanza finora registrata. La sua luce impiega 15 miliardi e mezzo di anni per arrivare a noi. Quando la luce è partita da quell’estrema periferia del Cosmo il nostro Sole non era ancora nato. Lo studio di questa Galassia permetterà di capire com’era il Cosmo 780 milioni di anni dopo il Big Bang. L’interesse di questa scoperta sta nel capire le origini delle condizioni fisiche che hanno portato alla formazione delle Galassie. Non dimentichiamo che noi siamo in una di esse.

III.20 I “tre pilastri” si stanno spegnendo (F28-02)Nuove osservazioni dal famoso Telescopio spaziale che

porta il nome di Hubble, l’astrofisico che nel 1929 scoprì

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l’espansione dell’Universo, ci dicono che i “Tre Pilastri” si stanno “spegnendo”. Nella Costellazione del Serpente c’è una nebulosa detta “Eagle Nebula” con “Tre Pilastri”, fatti di polvere e gas illuminati dalle Stelle che si trovano in quella zona. I “Tre Pilastri” divennero famosi nel 1995, quando le immagini trasmesse da Hubble ne rivelarono gli straordinari dettagli. La nebulosa si trova a 7 mila anni luce da noi. Il “Pilastro” più grande è alto 4 anni luce: 40 mila miliardi di chilometri. In quella zona di cielo le Stelle che illuminano le estreme sommità dei “Pilastri” sono in netta diminuzione. A meno che non siano le polveri e i gas a migrare. Ce lo diranno le prossime misure di Hubble.

III.21 Trentanove “Lune” attorno a Giove (N31-02)Attorno a Giove ruotano ben altre undici “Lune”. Queste

undici Lune portano a 39 il totale dei satelliti che girano attorno al più grande oggetto cosmico del Sistema Solare. Ci sono due scuole di pensiero per spiegare come mai tante Lune. Una possibilità è legata al campo gravitazionale di Giove che, essendo il più pesante dei satelliti del Sole, “cattura” gravitazionalmente più degli altri. L’altra scuola di pensiero sostiene la tesi che si tratta di frammenti di un unico asteroide che si è disintegrato, finendo la sua corsa cosmica contro l’enorme massa di Giove. Un fatto è certo: tutte le Lune di Giove hanno orbite fortemente eccentriche. Questo avvalora la seconda scuola di pensiero.

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III.22 Un miliardo di “pianeti blu” (F38-02)La stima più recente del numero di “pianeti blu”

simili alla Terra è di un miliardo. Ne sono autori due ricercatori inglesi. Se fosse vero potrebbero esistere forme di vita come la nostra e intelligenze ancora più potenti delle nostre. Siccome i tempi in gioco sono miliardi di anni non si capisce come mai di questi nostri fratelli cosmici non ci sia traccia. In appena 400 anni, grazie a Galilei, siamo arrivati a capire che sarebbe possibile passeggiare nel Cosmo. Forse tra un paio di secoli lo sapremo fare. È possibile che i nostri fratelli cosmici, nonostante i milioni di anni a loro disposizione, non siano riusciti in questa impresa, quasi banale per intelligenze superiori alla nostra? Purtroppo di Stelle come il Sole non se n’è finora trovata nemmeno una. La galassia conta cento, forse duecento miliardi di Stelle. Tutte diverse. Se il Sole non fosse esattamente com’è, la vita sulla Terra sarebbe stata diversa dalla nostra. Nel calcolo del miliardo, mettendo tutte le innumerevoli diversità, si arriverebbe alla conclusione che, forse, siamo gli unici nel Cosmo.

III.23 400 briciole di Comete aprono una nuova finestra sul Sistema Solare (A43-02)

La più famosa cometa è quella di Halley. Per secoli e secoli erano una autentica rarità. Le attente osservazioni del cielo intraprese in tempi recenti ha invece portato il loro numero a toccare quota quattrocento.

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Di queste 400 comete la maggior parte hanno però un “nucleo” piccolo: qualcosa come dieci metri appena.

Comete così piccole non avrebbero potuto sopravvivere a più di un passaggio attorno al Sole. La nostra Stella infatti emette una tale quantità di luce e calore che il “nucleo” della cometa – fatto di polvere e ghiaccio – avrebbe dovuto sciogliersi passando anche una sola volta vicino al Sole.

Alla piccola dimensione del “nucleo” di queste numerose comete si aggiunge un’altra caratteristica. Le orbite di ciascuna cometa sono molto simili; alcune addirittura parallele ad altre.

Insomma è come se una grande cometa, nel suo viaggio cosmico, si fosse disintegrata producendo tante piccole comete. Comete destinate però a sciogliersi quando si troveranno a passare vicino alla nostra Stella. Sarebbe quindi una sola cometa la madre delle comete dal “nucleo” piccolo. E qui nasce un altro problema. Com’è possibile che una grande cometa possa disintegrarsi senza motivo. Per andare in frantumi c’è una sola via: “l’effetto marea”.

Quando una grande cometa si avvicina al Sole la parte del suo nucleo che si trova più vicina al Sole subisce una attrazione gravitazionale più forte della parte che sta dal lato opposto. È come se le due estremità della cometa subissero uno “stiracchiamento”. Quando si “stiracchia” un elastico le forze in gioco sono di origine elettromagnetica. Ecco perché l’elastico non si rompe subito. Se a tenere insieme l’elastico fossero le forze gravitazionali, basterebbe un piccolissimo sforzo per rompere l’elastico. Infatti la potenza delle forze gravitazionali è

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miliardi di miliardi di volte inferiore alla potenza delle forze elettromagnetiche.

Se il nostro corpo non fosse nelle sue parti microscopiche incollato elettromagneticamente, anche noi saremmo spappolati dall’“effetto marea”: i nostri piedi subiscono infatti una attrazione gravitazionale superiore a quella della parte alta del nostro stesso corpo. Questa attrazione è però totalmente trascurabile rispetto alle forze elettromagnetiche in gioco tra molecole e macromolecole che insieme fanno muscoli, ossa e l’intera nostra struttura.

La cometa può rompersi in due, tre, quattro pezzi per “effetto marea” in quanto le sue parti sono incollate dalle forze gravitazionali. È questa l’origine dello spettacolo cosmico occorso dal 16 al 22 luglio del 1994 quando finì su Giove, spappolandosi in tanti pezzi, la cometa scoperta nel 1993.

Finora lo “spappolamento gravitazionale” per “effetto marea” (detto anche “effetto Roche” dal nome del fisico francese che ne ha studiato i dettagli) era l’unico meccanismo noto per spiegare la frantumazione delle comete. Ma questo può avvenire solo quando la cometa si trova a passare vicino al Sole. Superato questo ostacolo, la cometa dovrebbe non subire alcun tipo di forza in grado di mandarla in frantumi.

E invece no. L’esistenza delle comete col “nucleo” piccolo e con le orbite molto simili si può solo spiegare con un meccanismo nuovo in grado di rompere il grande “nucleo” di una cometa di stazza normale. E cioè non piccola come quelle citate. Solo gli anni a venire ci potranno far capire cosa accade.

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Una possibilità sarebbero gli urti tra comete e asteroidi. Ma di asteroidi dovrebbero essercene tanti per spiegare l’alta probabilità di scontro negli spazi cosmici che sono privi di traffico.

Una cosa è certa. Le 400 comete dal nucleo piccolo hanno aperto una nuova finestra sugli spazi cosmici per noi di vitale importanza. Le comete infatti nascono all’estrema periferia del Sistema Solare ma fanno parte di questo “angolo” cosmico in cui siamo anche noi.

III.24 La “scala” degli asteroidi per valutarne il pericolo (A46-02)

Diciamo subito che l’asteroide 2002-NT-7 scoperto il 5 luglio dal Telescopio americano, installato nel Nuovo Messico, non colpirà la Terra il primo febbraio del 2019. La posizione che l’asteroide avrebbe avuto era nota con una precisione di dieci milioni di km: più di venti volte la distanza Terra-Luna. Calcoli più accurati permettono di concludere che questo satellite del Sole dal diametro di 2 km passerà lontano dalla Terra. L’allarme “asteroide” è però entrato nelle problematiche planetarie ed è infatti stato elaborato un criterio che permette di stabilire il livello di pericolo rappresentato da un corpo celeste del quale si conoscano le dimensioni e l’orbita.

Appena mezzo secolo fa si sapeva poco e niente dei corpi celesti che potrebbero prima o poi finire su questo satellite del Sole. È la conquista dello Spazio per motivi militari che ha aperto la strada maestra. Oggi questa strada sta abbandonando le

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tematiche di guerra per entrare sempre più nella zona riservata alla difesa effettiva di questa navicella spaziale.

È nata così la “scala” di pericolosità cosmica, in analogia con la scala sismica. C’è purtuttavia una notevole differenza tra le due scale.

Quella sismica misura i danni prodotti dal terremoto che è già avvenuto.

Quella cosmica misura invece il grado di pericolosità legato a un corpo celeste il cui effetto devastante sulla Terra vogliamo decisamente evitare. Il grado di pericolosità serve a fare scattare l’allarme, con i terremoti la scala interviene a disastro avvenuto.

Di oggetti celesti pericolosi se ne contano oggi ben 27. Le date di eventuali scontri vanno dal 2004 al 2095. I livelli di pericolosità sono dieci.

Il primo è zero. Il che corrisponde a dire che la probabilità di collisione nei prossimi decenni è zero. La classe di oggetti celesti che viene inclusa in questo livello di pericolosità comprende tutti i corpi le cui dimensioni sono tali da non avere alcuna speranza di toccare terra.

Segue il livello uno. Questo corrisponde a una probabilità piccolissima di collisione nei prossimi decenni. Gli oggetti in questo livello devono purtuttavia essere tenuti sotto controllo.

I tre livelli seguenti, due, tre e quattro, sono raggruppati nella classe di “oggetti cosmici potenzialmente pericolosi”. Il livello due corrisponde a un oggetto cosmico che si avvicina alla Terra. Dicevo che si conosce la traiettoria, ma la probabilità di

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una collisione eccezionale è esclusa. Però rimane l’eccezionalità del caso. Il livello tre corrisponde a oggetti cosmici con probabilità dell’uno per cento di provocare danni a livello locale, tipo città. Il livello quattro ha probabilità eguale o superiore all’uno per cento di produrre danni a livello più vasto, tipo grande città o area di una provincia.

Il gruppo che segue ha ancora tre livelli, cinque, sei e sette, ed è considerato un insieme che rappresenta una minaccia reale. Il livello cinque ha una probabilità sempre a livello eguale o superiore a qualche percento con danni su scala regionale. Il livello sei si arriva con probabilità superiori alle precedenti e con effetti catastrofici su scala planetaria. Il livello sette rappresenta una minaccia ancora più probabile delle precedenti, con effetti catastrofici su scala planetaria.

Il livello otto è il primo a potere essere valutato con una frequenza temporale precisa. Essa va da un minimo di mezzo secolo a un massimo di dieci secoli. I danni prodotti da una tale collisione cosmica sarebbero però su scala locale, tipo città.

Il livello nove riguarda collisioni che accadono con frequenze calcolabili tra i mille e i centomila anni. I danni prodotti sarebbero su scala regionale.

Il livello dieci ha una frequenza di centomila anni con effetti devastanti tali da produrre sconvolgimenti climatici.

Questa scala è il primo passo per cercare di esprimere in modo quantitativo il pericolo di collisioni cosmiche cui è esposta la nostra navicella spaziale nel suo viaggio attorno al Sole.

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Nel Sistema Solare ci sono numerosi asteroidi, di cui si sapeva poco, come detto prima, fino a meno di mezzo secolo fa. Questa folla di asteroidi è molto probabile che venga dalla “fascia” compresa tra Marte e Giove. È una fascia considerata “innocua” fino a quando non è stato scoperto un effetto noto ma dimenticato: l’instabilità gravitazionale.

È tale fenomeno che fa nascere le comete. Quelle sfere di ghiaccio e polvere che girano per secoli e secoli, millenni, milioni di anni in modo perfettamente regolare alla periferia del Sistema Solare, ben oltre Plutone. E girano finché – senza l’intervento di alcun altro corpo celeste – una di quelle sfere abbandona la sua traiettoria dirigendosi verso il Sole e diventando così “cometa”.

Lo stesso fenomeno di instabilità gravitazionale agisce sull’enorme numero di asteroidi che c’è tra Marte e Giove. La novità sta nel fatto che – osservandone da Terra le traiettorie – è possibile valutare la probabilità che si produca una anomalia tale da porre quel corpo in condizioni di subire l’instabilità gravitazionale. Ecco un altro motivo per restare tranquilli.

Più si studiano gli spazi cosmici meglio potremo valutare i pericoli. E valutandoli intervenire. Le tecnologie moderne permettono infatti di potere evitare ciò che occorse in Siberia nel 1908, in Arizona 50 mila anni fa e con i dinosauri 60 milioni di anni fa.

III.25 Scoperto un pianeta dove non se l’aspettava nessuno (N47-02)

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Finora i “pianeti” (sarebbe più giusto chiamarli satelliti) erano sempre stati cercati attorno a Stelle singole. Il Sole, per nostra fortuna, non è accoppiato con un’altra Stella. Nella nostra Galassia ci sono miliardi di sistemi con Stelle doppie. È però la prima volta che viene osservato un “pianeta” in un sistema binario di Stelle. Questo apre un nuovo orizzonte alla ricerca dei satelliti fuori dal Sistema Solare. Osservando Stelle singole il numero di “pianeti” scoperti finora ha superato il centinaio. Tuttavia non è stato ancora capito quanto sia probabile la formazione di sistemi planetari attorno a una Stella singola o attorno a Stelle doppie. Il satellite scoperto è più grande di Giove (il massimo satellite del Sistema Solare). Esso gira attorno alla Stella più grande del sistema binario e si trova a 45 anni-luce da noi. Il Sole dista da noi 8 minuti-luce, 150 milioni di km.

III.26 Scoperto il lontano più pianeta (F6-03)La ricerca di sistemi planetari simili al nostro si

arricchisce di una ulteriore novità. A cinquemila anni-luce si distanza è stato scoperto un corpo celeste che ruota attorno a una Stella impiegando – non un anno come noi – ma appena 29 ore per un giro completo. L’orbita di questo satellite rispetto alla sua Stella è più piccola di quella che ha il nostro Mercurio rispetto al Sole. Questo nuovo “pianeta” non è come la nostra Terra ma somiglia piuttosto a Giove. È stato scoperto usando la tecnica di osservare attentamente una Stella cercando di vedere se qualcosa ne assorbe la luce con regolarità: infatti ogni 29 ore il nuovo pianeta trovandosi tra noi e la sua Stella ne assorbe la luce.

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III.27 Il sogno di una seconda Luna (N49-02)C’è mancato poco che il terzo stadio di Apollo XII,

lanciato nel novembre 1969, diventasse la nostra seconda Luna. E infatti diversi osservatori astronomici avevano osservato un piccolissimo corpo celeste in orbita stabile attorno alla nostra Terra. In fondo ci siamo rimasti tutti un po’ male quando è venuto fuori che quel piccolo nuovo satellite della Terra non veniva dalle profondità cosmiche del Sistema Solare ma dai nostri laboratori. Addio, quindi con tristezza, al sogno di avere scoperto un’altra piccola, piccolissima Luna.

III.28 Sonde su Venere per scoprire se c’è vita (S51-02)

Potrebbe essere l’attività di materia vivente, sotto forma di microbi a spiegare i risultati ottenuti da alcuni ricercatori studiando i dati raccolti dalle sonde lanciate dagli americani e dai russi su Venere. Nelle nuvole che si trovano a una altezza di 50 km dal suolo la temperatura è di circa 70 gradi centigradi e c’è un’alta percentuale di goccioline d’acqua. In quelle nuvole ci sono molecole fatte con un atomo di Carbonio, uno di Zolfo e uno di Ossigeno. Queste molecole sono considerate l’indice di una attività biologica. Quindi di una forma anche molto primitiva di vita.

III.29 Le nuove Stelle nascono al ritmo di una al mese (A1-03)

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Ci sorprenderemmo anche noi se in pieno giorno vedessimo brillare nel cielo una Stella. E diremmo che si tratta di una “Stella nuova”. Vedremo che non è così: quella Stella non nasce affatto quando con la sua luce supera le Stelle di tutta la Galassia. Sta lì da milioni di anni e quando arriva al suo ultimo respiro emette enormi quantità di luce. Le vere Stelle nuove che nascono adesso le abbiamo scoperte solo in questi ultimi anni. E abbiamo anche capito il vero significato delle “Stelle nuove” che sorprendevano i nostri antenati. Una Stella ci appare fissa nel firmamento. In verità si muove ma è talmente lontana che per osservarne il moto ci vorrebbero decine di migliaia di anni. Ecco perché sembra immobile. La “Stella nuova” non arriva da alcun posto. Era lì ma brillava poco. Era stata confusa tra le migliaia di altre Stelle. A un certo punto brilla emettendo più luce di tutte le Stelle della Galassia messe insieme. Per brillare in pieno giorno la sua luminosità deve in poco tempo acquistare una straordinaria potenza. Chi dà a quella Stella la potenza necessaria per emettere l’enorme quantità di luce che la rende perfettamente visibile in pieno giorno? Risposta: il collasso gravitazionale.

La domanda se la erano posta i nostri antenati ma la risposta è arrivata dopo 400 anni di Scienza galileiana. In effetti quella che appare come “Stella nuova” è l’ultimo saluto che lancia nel Cosmo una Stella la cui massa supera di molto quella del Sole.

L’esempio più famoso di “Stella nuova” risale al 1054 quando gli astronomi cinesi osservarono il brillare in pieno

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giorno di una “Stella nuova”. In quella stessa zona di cielo c’è oggi una radio-sorgente: l’ultimo stadio cui si riducono i bagliori di una grande Stella.

Le Stelle hanno masse diverse. Per vivere come il nostro Sole la loro massa deve essere come la sua. Se è venti volte più piccola non si può accendere. Se è dieci volte più grande non può vivere a lungo. Il nostro Sole ha la massa giusta per vivere dieci miliardi di anni. Però se non esistessero Stelle più pesanti del Sole non potrebbero essere prodotti i materiali pesanti come il ferro, l’oro, l’argento e il piombo. Questi nuclei atomici vengono prodotti nel collasso delle Stelle pesanti oggi dette “Supernovae”.

Nella nostra Galassia l’ultima “Supernova” venne osservata nel 1604 da Keplero e Galilei cercò di capirne la natura. Non era facile immaginare che quelle Stelle nuove fossero la fucina cosmica in cui si fabbricano i nuclei degli atomi pesanti.

La nascita di una vera “Stella nuova” è ben altra cosa. Le Stelle che nascono oggi non vanno confuse con le Supernovae. La nascita delle Stelle nuove ci permetterà di aprire un capitolo nuovo nella comprensione del Cosmo, che riguarda la formazione delle Galassie. Oggi sembra prevalere l’idea che a nascere siano state prima le Galassie e poi le Stelle. Galassia vuol dire zone vastissime dello spazio cosmico in cui la materia primordiale (protoni ed elettroni) distribuita in modo non perfettamente uniforme ha iniziato a concentrarsi per attrazione gravitazionale. Stella vuol dire una parte minima della Galassia

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in cui la distribuzione non uniforme della materia permette l’inizio di una contrazione gravitazionale.

Attorno al disco della Via Lattea (che è la Galassia in cui noi viviamo) ci sono enormi “nuvole” di gas e polvere cosmica. La loro densità è estremamente piccola rispetto a quella delle nostre nuvole che galleggiano nella materia di cui è fatta l’atmosfera. Le “nuvole” cosmiche non possono galleggiare in quanto si trovano nello spazio cosmico vuoto. La polvere cosmica, per attrazione gravitazionale, precipita come fanno le nostre pietre verso la zona della “nuvola” dove c’è un po’ più di materia rispetto al resto della stessa nuvola. Questa disuniformità è di vitale importanza affinché possa scattare l’inizio della contrazione che darà vita a una Stella. Questa contrazione gravitazionale va avanti per non meno di centomila anni prima che la “nuvola” incominci a emettere radiazione infrarossa. Questi raggi sono generati dalla polvere cosmica che si riscalda in quanto acquista energia precipitando per attrazione gravitazionale. A questa “nuvola” che emette raggi infrarossi si dà il nome di “proto-stella”.

Col passare del tempo aumenta la velocità alla quale precipitano le varie parti della pro-stella. Esse acquistano sempre più energia fino ad arrivare al limite oltre il quale scatta il processo di “fusione” nucleare. È così che la proto-stella diventa dopo qualche milione di anni “candela” nucleare dando vita alla esistenza di una vera Stella che inizia a brillare come fece il nostro Sole cinque miliardi di anni fa.

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I nostri antenati avrebbero avuto non poche difficoltà a immaginare come nasce una Stella: la polvere cosmica precipitando per attrazione gravitazionale innesca l’accensione del fuoco di fusione nucleare. Adesso sappiamo che nella nostra Galassia la nascita di una vera “Stella nuova” è un evento che accade al ritmo di circa una al mese.

III.30 Due oggetti che passeggeranno tra le Stelle (S1-03)

Ha battuto il record più ambito dai viaggiatori solitari: Voyager-1. Esso si trova a oltre 12 miliardi di chilometri da noi ed è seguito a poca distanza da Voyager-2 che si trova 2 miliardi di chilometri meno lontano da noi. Le due sonde (Voyager-1 e 2) sono state lanciate nel 1977 e hanno esplorato, nel corso di ben 25 anni, il Sistema Solare e in particolare i quattro satelliti: Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Le due sonde hanno abbastanza risorse d’energia per riuscire a trasmettere segnali fino al 2020. Dopo questo limite diventeranno vagabondi erranti della Via Lattea. Fra 40 mila anni la sonda Voyager-1 passerà nella zona di cielo dove c’è la Stella indicata in sigla (AC+79.3888). L’altra sonda Voyager-2 arriverà su Sirio tra circa 300 mila anni: più esattamente nell’anno 296.000.

III.31 L’ultima scoperta dell’Astrofisica. Un miliardo di Stelle attorno alla nostra Galassia (F4-03)

Due gruppi di astrofisici impegnati nello studio delle zone esterne alla nostra Galassia sono arrivati alla conclusione che

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esiste un cerchio di Stelle che circonda la nostra Galassia. Il loro numero è enorme: un miliardo di Stelle. Siccome la nostra Galassia è fatta con 200 miliardi di Stelle si potrebbe pensare che si tratta di una parte minima del totale quindi irrilevante. Così non è in quanto questo cerchio esterno alla Galassia ha un ruolo importante per farci capire come si formano queste strutture cosmiche. Una possibilità è che queste Stelle siano nate nella parte interna della Galassia e poi espulse. Un’altra possibilità è che sia stata la forza gravitazionale della nostra Galassia ad attrarne una più piccola. In questo caso quel miliardo di Stelle sarebbe ciò che rimane della piccola Galassia che trovandosi a noi vicina è stata incorporata nella struttura dominante della nostra. È un problema che solo ulteriori ricerche potranno permettere di risolvere.

III.32 La più potente “lente” cosmica (A5-03) = S5-03Da tempo immemorabile vorremmo sapere com’è nata la

Terra. Com’è nato il Sole e la Galassia in cui viviamo. A dircelo sarà la più potente e naturale lente che si possa immaginare. Questa potente “lente” cosmica focalizza la luce emessa da Galassie che sono troppo lontane per essere “viste”. La loro luce ha impiegato 13 miliardi di anni per raggiungere il telescopio spaziale Hubble. Si tratta quindi dei più lontani corpi celesti mai prima osservati. La “lente gravitazionale” agisce come le nostre lenti nel “curvare” i raggi di luce. Essa però si trova a duemila e duecento milioni di anni-luce da noi ed è costituita dal più grande e massiccio gruppo di Galassie noto, denominato Abel

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1698. Quando Galilei rivolse al cielo le sue lenti montate sul suo “binocolo” per studiare come la forza gravitazionale aveva forgiato il mondo, non poteva pensare che dopo quattro secoli sarebbe stata la stessa forza di gravità a produrre una lente molto più potente delle sue. Questa struttura galattica rappresenta il primo esempio di potente “lente” cosmica e ci aprirà gli occhi sui primi vagiti delle Galassie.

III.33 Una nuova Luna per Giove (N8-03)Fu Galilei a scoprire le prime quattro Lune di Giove. In

tempi recenti il numero di satelliti che girano attorno a Giove aveva toccato l’incredibile livello di trentanove Lune. Adesso ne arriva ancora una: totale quaranta. Questa scoperta corrobora la tesi in base alla quale molte Lune di Giove non vengono dalla sua massa in parte espulsa ma dalla cattura di asteroidi. La massa di Giove, pur essendo appena l’uno per mille della massa solare, è la più grande del Sistema. Insomma la trappola gravitazionale di Giove è la più potente: ecco perché cattura tanti asteroidi in giro.

III.34 Un Universo in espansione. Niente più collasso cosmico finale (A9-03)

Usando il satellite MAP (Microwave Anisotropy Probe) la NASA regala un respiro di sollievo a tutti coloro che non amano immaginare la fine violenta dell’Universo in un Big-Crunch.

MAP è stato lanciato nel 2001 verso un punto del Cosmo detto “Lagrange 2” dal nome del grande fisico italiano Giuseppe

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Luigi Lagrangia (noto con la versione francese del suo cognome) che ne scoprì l’esistenza. Questo punto corrisponde a una posizione di perfetto equilibrio gravitazionale tra la Terra e il Sole. Di questi due punti ne esistono cinque (ecco perché c’è il 2). Sono posizioni ideali per stare a lungo in orbita attorno al Sole in quanto un satellite posto in un punto di Lagrange subisce perturbazioni gravitazionali minime. MAP è a quattro volte la distanza Terra-Luna e gira con noi attorno al Sole. È un formidabile osservatorio spaziale. MAP misura con grande precisione la “luce” che il Cosmo ha emesso quattrocentomila anni dopo il Big Bang. Più esattamente, come questa “luce” è distribuita nell’Universo: la sua intensità in punti diversi e la sua regolarità. Il risultato di queste misure permette di concludere che il modello cosmologico favorito è quello in cui domina la cosiddetta “energia del vuoto”. Vediamo come nasce e cosa è.

Immaginiamo un mondo senza la Terra. Né la Luna. Né il Sole. Niente Stelle né Galassie. Un Universo fatto solo di Spazio e di Tempo. In questo Universo mettiamoci due pietre. Newton scoprì che questi due oggetti materiali si attraggono con una forza che nessuno può spegnere. Se al posto delle due pietre mettiamo due Stelle o due Galassie l’attrazione è inevitabile.

Osservando il cielo stellato Newton si pose il problema del collasso: se è vero che la forza di attrazione gravitazionale vale anche per le Stelle come mai non si attraggono a vicenda? Per evitare il collasso, il padre della forza gravitazionale, essendo un credente, si appellò alla Forza Divina. È Dio che evita la fine del mondo, concluse Newton.

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Dopo un paio di secoli di Scienza Galileiana il problema ritorna con Einstein che introduce nella Forza di Newton gli effetti dovuti al fatto che Spazio e Tempo non possono essere entrambi reali e che la luce non può avere velocità infinita. Queste profonde novità concettuali lasciano inalterato il problema del collasso stellare scoperto da Newton.

Pur essendo un credente Einstein non volle appellarsi a Dio in quanto – per via delle novità concettuali citate – era possibile esprimere la forza di attrazione gravitazionale usando un formalismo matematico diverso da quello di Newton. Questo formalismo permetteva ad Einstein una via d’uscita: introdurre “ad hoc” una quantità in grado di evitare il “collasso”. Einstein la chiamò “costante cosmologica”. L’introduzione di questa “quantità” – ripeto “ad hoc”, non derivata dalla sua equazione – bloccava il collasso ma anche l’espansione. Ecco perché quando nel 1929 Hubble scoprì l’espansione dell’Universo Einstein si pentì di averla introdotta.

Ma cos’è questa “costante cosmologica”? Risposta: è l’energia del vuoto. Sì del vuoto. Di quella entità fatta di niente eccetto che Spazio e Tempo. Questo vuoto possiede energia. Un’energia repulsiva: di segno opposto all’attrazione gravitazionale dovuta alle masse di Stelle e Galassie.

Einstein non poteva sapere che mezzo secolo dopo un giovane fisico, Alan Guth, avrebbe scoperto che quell’energia del vuoto era necessaria nell’istante iniziale al fine di produrre un’espansione estremamente rapida e forte subito nel primo istante di vita dell’Universo. Che non sia fantascienza ce lo dice

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l’Universo stesso. Osservandolo da un lato e dal suo opposto appare identico. Questa incredibile proprietà dei confini estremi del Cosmo non si può spiegare se il Big Bang è lento. Deve essere rapido. Rapidissimo.

Ma ecco la novità di questi giorni: l’energia del vuoto domina. Essa supera l’energia totale dell’Universo visibile. Per visibile si deve intendere l’Universo che noi possiamo osservare con qualsiasi strumento: dai più semplici (piccoli telescopi a Terra) ai più sofisticati (radiotelescopi a Terra e telescopi spaziali).

Se l’energia del vuoto è così potente l’Universo non potrà mai subire il collasso cosmico. Esso continuerà a espandersi indefinitamente e noi possiamo tirare un grande sospiro di sollievo. Anche tra mille miliardi di anni continueremo l’irresistibile cammino verso spazi sempre più grandi. Peccato che tra cinque miliardi di anni la nostra candela nucleare (il Sole) è destinata a spegnersi.

III.35 C’è Vita su Giove? (F11-03)Fino a oggi era sempre stato Marte il satellite del Sole nel

quale cercare segni di vita. Adesso entra in gara Giove. O meglio, la sua “Luna”, di nome Europa. Sono i ricercatori del Centro di Ricerche NASA in California ad avere simulato un impatto di meteorite negli oceani ghiacciati di Europa. Le prove sperimentali usano acqua gelata alla temperatura di 196 gradi sotto zero per simulare le condizioni di Europa. Sparando pezzi di alluminio nel blocco di ghiaccio sono state prodotte scariche

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elettriche. E dopo un po’ di tempo scariche ancora più potenti. Il mare gelato di Europa ha uno spessore di molti chilometri. L’idea che sotto quello spessore di ghiaccio possano esserci forme di vita è nata dalle macchie giallo-brune registrate dalla sonda Galileo. I ricercatori della NASA considerano di straordinaria importanza la produzione delle scariche elettriche in quanto nel 1950 Stanley Miller riuscì a produrre molecole organiche sottoponendo una miscela d’acqua con metano e ammoniaca a una serie di scariche elettriche. Dalle scariche elettriche alla produzione di molecole organiche bisogna però passare poi alla vita. E questo nessuno è mai riuscito a farlo. L’entusiasmo dei ricercatori della NASA nasce dal fatto che senza scariche elettriche in acqua non è possibile il primo passo. L’impatto di un asteroide metallico sui ghiacciai d’Europa può avere prodotto nel passato scariche elettriche. Senza di esse non sarebbe stato possibile ipotizzare il primo passo necessario per la produzione di molecole organiche. Ecco il motivo dell’entusiasmo che potrebbe far capire le origini delle macchie giallo-brune sugli oceani gelidi di Europa.

III.36 Un evento unico nella storia dell’Universo: una Galassia che deve ancora nascere (N13-03)

Una Galassia è una zona dello Spazio cosmico in cui ci sono tante Stelle e anche molta polvere molecolare. È da questo tipo di materia estremamente poco densa che nascono le nuove Stelle della stessa Galassia. Fuori dalle Galassie si era finora

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pensato non dovesse esserci altro che il vuoto più spinto. E invece usando il Radiotelescopio di Granada, in Spagna, un gruppo di astrofisici americani francesi e messicani ha scoperto – fuori da qualsiasi Galassia – enormi quantità di monossido di Carbonio e di molecole d’Idrogeno. Una massa pari a quattro miliardi di volte quella del Sole. Essa dista almeno 150 mila anni-luce dalla Galassia più vicina. Questa massa corrisponde al gas molecolare che c’è in tutta la Via Lattea (la nostra Galassia). Secondo alcuni studiosi da questa massa potrebbe nascere una nuova Galassia. Essa sarebbe la più giovane dell’Universo in quanto non è ancora nata. L’interesse di questa scoperta sta nel fatto che non si è ancora capito chi nasce prima: le Stelle o le Galassie. Se sono le Stelle che si mettono insieme per fare una Galassia, o se una zona di Spazio cosmico con tanta polvere molecolare fa nascere le Stelle destinate però a essere già in quella Galassia. Questa scoperta corrobora la nascita delle Galassie prima delle Stelle.

III.37 Scoperto il più lontano e pesante oggetto cosmico: un Buco Nero pari a tre miliardi di Soli. Sono i “buchi neri” i semi delle galassie? (A14-03)

Un “buco nero” è una struttura dalla quale non riesce a scappare nemmeno la luce. I “buchi neri” pesanti sono rari. Di lontani come l’ultimo scoperto non se ne era mai stato visto alcuno. Esso si trova a tredici miliardi di anni-luce da noi: il che vuol dire alla estrema periferia dell’Universo. La sua massa equivale a un milione di miliardi di volte quella della nostra

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Terra. Il che corrisponde a tre miliardi di volte la massa del nostro Sole. Quest’enorme “buco nero” si trova al centro di un corpo celeste appartenente alla speciale classe denominata “quasar” che in inglese sta per “oggetto quasi stellare”. Sono corpi celesti tipici del periodo relativo alla prima infanzia dell’Universo. Un “quasar” emette una quantità di energia che supera per migliaia e migliaia di volte quella di una Galassia come la nostra che conta ben duecento miliardi di Stelle. La scoperta è stata fatta usando il telescopio per raggi infrarossi – UKIRT (United Kingdom Infrared Telescope) – istallato nelle Hawaii, da un gruppo di astrofisici inglesi e canadesi diretti da Chriss Willott. Hanno di che essere fieri: appartiene a loro la scoperta del più lontano e massiccio “buco nero” del Cosmo. Il quasar che contiene l’enorme “buco nero” ha come sigla (SDSSJ-1148+5251).

Questa scoperta porta un contributo prezioso per venire a capo di un fenomeno, ancora oggi non capito: come nasce una Galassia. Questo enorme “buco nero” si è formato quando l’Universo era quasi in fasce. Otto miliardi di anni prima che si formasse la nostra Terra. La scoperta dà forza alla scuola di pensiero che attribuisce ai “buchi neri” il ruolo di “semi” per far nascere le Galassie.

È probabile che i tanto temuti “buchi neri” siano strutture indispensabili alla nostra esistenza. È bene quindi considerarli amici. In fondo essi nascono da quella stessa forza che ci tiene legati alla Terra e che permette alla Terra di restare legata al Sole, senza perdersi nel buio gelido del Cosmo: è la prima Forza

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Fondamentale della Natura scoperta da Galilei e Newton, la forza gravitazionale, che tiene insieme Stelle, Galassie e Cosmo. Questa forza aumenta all’aumentare della massa e al diminuire della distanza tra le masse. Essa genera strutture materiali totalmente diverse da quelle a noi familiari. Strutture la cui densità aumenta al diminuire delle dimensioni. Nella materia a noi familiare non è così. Un milione di litri d’acqua ha la stessa densità di dieci litri, di un litro e di una piccola goccia d’acqua. Sembra banale e invece c’è un motivo fondamentale: la densità dell’acqua è dovuta alla struttura atomica della materia e non cambia se aumenta la quantità. Sono le forze elettromagnetiche a garantirlo. Ecco perché la densità dei corpi pesanti a noi familiari (ferro, piombo, mercurio) non può andare molto oltre le dieci volte la densità dell’acqua.

Passando dalle strutture elettromagnetiche a quelle nucleari la densità salta a valori enormi: milioni di miliardi di volte più grandi. È così che nascono le cosiddette “Stelle a neutroni”. Stelle fatte con le “palline” nucleari senza più alcuna struttura atomica. Nelle Stelle a neutroni a reggere la struttura sono le forze nucleari. Per arrivare a densità tipiche dei “buchi neri” è necessario superare anche la barriera delle forze nucleari.

Questo riescono a farlo solo le forze gravitazionali; le prime scoperte dalla Scienza.

Niente paura: nessuno riuscirà a ridurre il Sole alle dimensioni di una collina, né a mettere la massa della Terra in un cucchiaino da caffè. Il Sole non potrà mai diventare un “buco nero”. La sua massa è troppo piccola. Per trasformarlo in “buco

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nero” bisognerebbe ridurre il suo raggio ad appena tre chilometri. Se volessimo trasformare la nostra Terra in “buco nero” dovremmo comprimere la sua massa in modo da avere una sferetta dal raggio di appena nove millimetri. Nessuno riuscirà mai a farlo in quanto tutte le tecniche immaginabili non possono superare né la barriera atomica né quella nucleare. Ecco perché nessuno riuscirà mai a comprimere la massa della Luna in modo da ridurre il suo raggio ad appena un decimo di millimetro: le dimensioni di un granellino di polvere.

La materia a noi familiare è nata dopo, molto dopo, l’istante iniziale del Big Bang. Nei primi istanti dopo il Big Bang la materia non aveva le strutture nucleari e atomiche essenziali per la nostra vita. Queste sono nate dopo quelle gravitazionali. Chissà quale forma di materia c’è dentro gli enormi “buchi neri” delle “quasi Galassie” (quasar) e delle Galassie stesse. Anche la nostra ne ha uno (non molto pesante) nel suo cuore. Forse in quei “buchi neri” la materia non è fatta né di atomi né di nuclei. Nuove e affascinanti realtà cosmiche ci aspettano.

III.38 Le ultime notizie da Giove: 58 Lune (N17-03)Dei nove satelliti del Sole, Giove è quello che ha la massa

più grande. Le ultime notizie sullo studio delle sue “Lune” porta a ben 58 il totale. Noi qui sulla Terra di “Lune” ne abbiamo appena una. Galilei non avrebbe mai potuto immaginare che a ruotare attorno a Giove ci fossero oltre dieci volte più “Lune” di quelle che lui aveva saputo scoprire, grazie al “binocolo”. Il

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numero enorme di piccoli satelliti di Giove corrobora la teoria che attribuisce all’enorme massa di Giove (trecento-diciotto volte più grande di quella della Terra) l’origine di queste “Lune”. Se la Terra “acchiappa” gravitazionalmente un asteroide, Giove ne dovrebbe catturare 318 volte di più. Gli astronomi impegnati nella ricerca di nuove “Lune” attorno a Giove sono convinti che arriveremo presto a quota cento. Le “Lune” di Giove dovrebbero essere asteroidi catturati dalla potente attrazione gravitazionale di questo che è il più grande satellite del Sole. Le “Lune” non dovrebbero essere “pezzettini” della massa di Giove che si staccano, mettendosi a girare intorno alla massa centrale. A sostegno dell’ipotesi “asteroidi” c’è anche il fatto che queste “Lune” hanno orbite irregolari, impossibili da produrre se provengono dalla stessa massa centrale.

III.39 È di Ferro il cuore di Marte (N18-03)Il famoso “pianeta” rosso del Sistema Solare ha un cuore

di Ferro. È la conclusione cui sono pervenuti gli specialisti che hanno studiato i dati raccolti dalle due sonde americane “Global Surveyor” e “Pathfinder”. Questi dati dimostrano che la superficie di Marte subisce piccolissime maree e che l’asse di rotazione a trottola del pianeta rosso è dotato di un moto di “precessione”. Da queste misure è possibile dedurre la struttura non perfettamente rigida di Marte e la sua “elasticità” porta a concludere che nella sua parte centrale deve esserci un nucleo di Ferro, in parte liquido, le cui proporzioni sono simili a quelle del nucleo di Ferro della nostra Terra. Nei millenni passati alcuni

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nostri antenati consideravano Marte il fratello piccolo della Terra. Pur restando lungi dall’essere capita l’origine dei nove satelliti del Sole, è certamente vero che le strutture di Marte e Terra abbiano parecchie caratteristiche comuni.

III.40 Un asteroide sulla Luna (N19-03)Sono passati quasi 50 anni dal lontano 15 novembre del

1953, quando un americano amante delle Stelle e della Luna, Leon Stuart, fotografò un fugace punto brillante sulla superficie del nostro satellite. L’astronomo non professionista dette di quella fugace luce un’interpretazione destinata a restare controversa: dovuta cioè all’impatto di un asteroide con la superficie lunare. Nel 1994 la sonda spaziale “Clementine” ha ripreso diverse foto della superficie lunare che solo adesso sono state analizzate da due ricercatori americani. Risultato: nel punto fotografato da Stuart nel 1953 c’è un cratere. Le sue dimensioni sono tali che, per produrlo, è stato necessario l’impatto di un asteroide il cui raggio doveva essere di dieci metri. L’energia dell’impatto giustifica perfettamente il fugace punto brillante fotografato da Stuart.

III.41 Anche Nettuno ha le sue stagioni (S23-03)Qui sulla Terra ci sono le ben note quattro stagioni che

nascono grazie alla luce e all’energia che il Sole ci procura. Visto da Nettuno il Sole appare però 900 volte meno potente e nessuno pensava che in questo lontano satellite potesse funzionare un “motore meteorologico” con così poca energia. Le

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immagini prese dal telescopio spaziale Hubble sembrano dar vita all’idea che anche su Nettuno ci siano le stagioni. Infatti le immagini relative al 2002 sono più brillanti di quelle del 1996. Questa scoperta viene interpretata in funzione di un lento aumento della formazione di “nuvole”. Le “nuvole” infatti riflettono molto meglio la luce del Sole. Se è vero che si tratta di un periodo “stagionale”, come il nostro autunno, l’aumento di luce riflessa da Nettuno dovrebbe andare avanti per diversi decenni. Nettuno infatti impiega ben 165 anni per fare un giro attorno al Sole e una stagione dovrebbe durare quarant’anni. La scoperta che su Nettuno possa essere attivo un motore meteorologico, ha spinto i ricercatori del telescopio a raggi infrarossi di Manua Kea, nelle Hawai, a mettere sotto controllo possibili ulteriori cambiamenti nella luce riflessa da Nettuno, che è il più lontano satellite gassoso del Sistema Solare. Saranno necessarie ulteriori ricerche per arrivare a capire se questa scoperta di Hubble porta inequivocabilmente alla conclusione che anche Nettuno ha le sue stagioni.

III.42 Quattro candidati a “Buchi Neri” nelle “Nubi di Magellano” (S24-03)

Usando il rivelatore VLT (Very Large Telescope) istallato in Chile, un gruppo di astrofisici ha scoperto che le due Galassie a noi vicine – dette “Nubi di Magellano”, dal nome del navigatore transoceanico – contengono ben quattro Stelle che sono le più pesanti e calde mai osservate. La loro massa supera di venti volte quella del Sole e la loro temperatura in superficie

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supera di oltre dieci volte quella del nostro Sole. Il destino di queste Stelle è sicuro: Buchi Neri. Esse distano da noi poche centinaia di migliaia di anni-luce. E potrebbe darsi che, invece di brillare, siano già diventate dei formidabili “Buchi Neri”. I segnali (neutrini) del loro collasso potrebbero arrivare nei prossimi anni e, perché no, addirittura nei prossimi mesi, in quanto nessuno può sapere cosa è successo nei centocinquantamila anni (circa) che ci separano da quelle realtà. Non dimentichiamo che le quattro Stelle le vediamo oggi come erano molto tempo fa. Se hanno chiuso la loro esistenza con un collasso, quel segnale potrebbe arrivare da noi anche domattina. Quel segnale sarebbe “visto” dai nostri potenti strumenti istallati al Gran Sasso.

III.43 Missione su Marte (A26-03)È la prima volta che l’Agenzia Spaziale Europea (ESA)

lancia verso Marte un veicolo spaziale, “Mars-Express”. Esso trasporta un robot costruito in Inghilterra, “Beagle-2”, che, insieme ad altri due robot USA, MER-1 e MER-2 (la sigla nasce da Mars Exploration Rover), studieranno la superficie del pianeta rosso. Queste tre nuove macchine esploratrici continueranno il lavoro delle due sonde spaziali che ruotano attorno a Marte e che sono già in azione: Mars Global Surveyor e Mars Odyssey. Ce n’è una giapponese partita nel 1998 e denominata Nozomi. Per motivi tecnici non è stato possibile imprimerle in fase di lancio la corretta velocità e non è sicuro

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che abbia sufficiente carburante per mettersi correttamente in orbita nel 2004. Di questa sonda si sa poco.

Si hanno invece buone notizie dalla sonda Mars Odyssey su cui è istallato uno strumento detto THEMIS (Thermal Emission Imaging System) e che ruota regolarmente attorno a Marte. Questo strumento sta accumulando una preziosa serie di dati che – secondo il responsabile del progetto, Philip Christensen, dell’Università dell’Arizona – permetterà di scrivere a nuovo e totalmente la mappa del pianeta e della sua struttura geologica. L’analisi dei dati impegnerà i ricercatori che partecipano al progetto per almeno due decenni in quanto Odyssey osserva l’intera superficie di Marte, permettendo così di mettere in relazione diversi dettagli. È stato ad esempio scoperto che potrebbero esserci più acqua e ghiaccio di quanto si pensasse. Sono stati scoperti processi generati da azioni vulcaniche e da venti violenti. Sono stati osservati crateri prodotti da oggetti cosmici piombati su Marte.

Gli strumenti montati sull’altra sonda spaziale, Mars Global Surveyor, permettono di avere immagini quasi perfette della superficie di Marte. È grazie a queste immagini che sono state scoperte le strutture a strati che ricoprono la superficie. Per sapere di cosa consistono i diversi strati è però necessario THEMIS che misura le temperature notturne e diurne. Queste misure permettono di distinguere gli strati rocciosi da quelli fatti con sabbie e polveri. Sono stati scoperti tratti di roccia-viva lunghi diversi chilometri e aree di rocce esposte a fenomeni di erosione prodotti da materiale in provenienza sia interna, dal

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sottosuolo, sia esterna, dall’atmosfera di Marte. Insomma appare evidente che Marte sia un satellite “attivo”. Ci sono infatti “colline” fatte non tutte d’un pezzo, ma di rocce e pietre accumulatesi in tempi non molto lontani. Se queste “colline” risalissero a miliardi di anni fa – dice Christensen – sarebbero coperte di polvere cosmica.

Nonostante Odyssey abbia trovato prove sicure di depositi con ghiaccio, è altrettanto certo che non sia stata l’acqua l’elemento geologicamente attivo sulla superficie di Marte. Ci sono zone infatti – come il Deep-Canyon detto Ganges Chasma – che è profondo quattro chilometri e mezzo ma ha nel fondo un minerale che si scioglie in acqua. Questa zona – dice Christensen – deve essere estremamente secca in quanto deve essere rimasta per milioni di anni in totale assenza d’acqua.

Questo non vuol dire che non ci siano zone umide. Tutt’altro. Infatti nell’emisfero Sud di Marte gli scienziati che analizzano i dati dell’altra sonda – Mars Global Surveyor – pensano d’avere identificato la regione in cui potrebbero esserci state o esserci ancora adesso, forme di vita. È il cratere Russell. Studiando cosa accade nel corso di primavere ed autunni marziani, i ricercatori del Centro Aerospaziale tedesco pensano di avere scoperto fenomeni legati a possibili presenze di acqua in stato liquido, come ad esempio fiumi di fango. Quando arriva l’inverno (non il nostro ma quello di Marte) si verificano fenomeni di condensazione, per il vapore acqueo e per l’anidride carbonica. Queste sostanze ritornano in stato liquido e gassoso quando arriva l’estate. Secondo i ricercatori del Centro

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Aerospaziale tedesco, in quella zona, l’acqua potrebbe apparire addirittura in superficie quando d’estate il Sole è a picco, come da noi a mezzogiorno. Per chi cerca vita su Marte trovare acqua è il primo passo.

Le tre macchine automatiche in arrivo non verranno nella zona del cratere Russel. Beagle-2 andrà nella pianura arida di Issidis, che si trova verso il Nord a circa 10 gradi sopra l’equatore. Gli altri due robots americani (MER 1 e 2) andranno in due zone simmetricamente opposte nel cerchio che sta sull’equatore. I tre lanci nel giro di così poco tempo hanno un motivo molto semplice. Ogni due anni la distanza Terra-Marte tocca valori minimi. Il 2003 è l’anno giusto e la “finestra” dei tre lanci si è infatti aperta il 25 maggio per chiudersi dopo un mese circa. Di Marte ne sapremo molto di più negli anni a venire. Speriamo di poter dire lo stesso sulla struttura della nostra Terra (F.C. 23).

III.44 Il Bismuto è un miliardo di volte più longevo dell’Universo (F27-03)

Un gruppo di fisici dell’Istituto di Astrofisica Spaziale (IAS) di Orsay in Francia è riuscito a dimostrare che la vita media del Bismuto è un miliardo di volte più grande di quella dell’Universo. Scopo dell’esperimento era di trovare un materiale che fosse capace di rivelare la presenza della tanto ricercata “materia oscura”; quella forma di materia totalmente diversa dalla nostra e di cui nessuno conosce la natura né le proprietà, eccetto quella di agire gravitazionalmente. Di “materia

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oscura” dovrebbe essere pieno l’Universo. Ce ne dovrebbe essere almeno dieci volte più di tutte le Stelle e Galassie. Se un pezzo di Bismuto viene colpito da un pezzo di “materia oscura” deve dare un segnale. Però se il Bismuto non fosse dotato di vita lunghissima, quel segnale potrebbe essere dovuto alla sua disintegrazione spontanea, non all’urto con un pezzo di “materia oscura”. Ecco l’interesse nel misurare il valore della sua vita media. Siccome essa è 20 miliardi di miliardi di anni, il Bismuto può essere usato come ottimo rivelatore di “materia oscura”. Una nota di dettaglio: il nucleo del Bismuto è fatto con 209 palline nucleari (83 protoni e 126 neutroni). Il Piombo ne conta 208.

III.45 Un buco pieno di Galassie (F30-03)Il telescopio spaziale “Chandra” ha messo in crisi il

famoso “Buco di Lockman”, una zona di cielo che sembrava priva di Galassie. Erano già state elaborate teorie cosmologiche per spiegare l’esistenza di quei “vuoti” ma è anche vero che si era in molti a non credere in quelle teorie “ad hoc” e a continuare nel dire che nessuno poteva sostenere di avere capito come mai in quella vastissima zona dello Spazio cosmico non ci fosse nemmeno una Galassia. La scoperta di “Chandra” ci dice che la densità di Galassie osservate è sette volte più grande del previsto. Si tratta di Galassie molto lontane; la loro esistenza è stata scoperta grazie al fatto che il telescopio spaziale “Chandra” ha misurato in quella zona di cielo, non l’emissione di luce – che non c’è, per motivi capiti – ma l’emissione di raggi X. Le Galassie che si trovano nel “Buco di Lockman” risalgono a

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cinque miliardi di anni fa e rappresentano la fase giovane dell’Universo: quando il Cosmo aveva cinque miliardi di anni meno di oggi.

III.46 Da dove veniamo ce lo faranno capire i telescopi spaziali (F33-03)

Forse sarà il telescopio spaziale Hubble a farci capire da dove veniamo. Le origini di questo satellite che gira attorno a una giovane Stella – il nostro Sole – ce le potrà far capire la scoperta di un pianeta, là dove nessuno pensava potesse essercene la pur minima traccia. Il nuovo pianeta si trova infatti in una zona – l’ammasso M4 – fatto con Stelle molto vecchie. Questa scoperta porta a un nuovo modello per la formazione di sistemi fatti con Stelle e pianeti. Se il modello sarà confermato, l’abbondanza di satelliti nella nostra Galassia è garantita. Il modello si sviluppa teoricamente su miliardi di anni e mette in gioco tutte le fasi dell’evoluzione stellare. Un problema per capire la formazione del Sistema Solare è stato finora la sua unicità. Se ne vengono fuori tanti, sarà possibile mettere insieme le diverse osservazioni per potere finalmente venire a capo di un problema che solo adesso è possibile affrontare in modo galileianamente credibile: da dove veniamo.

III.47 Oltre Nettuno (F44-03)Se ne aspettavano una sessantina. Il numero trovato è

venti volte inferiore: appena tre. Stiamo parlando dei più piccoli satelliti del Sole che si trovano oltre Nettuno. Negli anni

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cinquanta Gerard Kuiper e Kenneth Edgeworth formularono l’ipotesi che al di là di Nettuno non avrebbero più dovuto esserci “pianeti” ma una zona fatta di piccoli pezzettini di ghiaccio: quella struttura cosmica oggi nota come “Cintura di Kuiper”. Usando telescopi terrestri i primi oggetti cosmici con queste caratteristiche vennero scoperti solo nel 1992. Con l’avvento del telescopio spaziale “Hubble” era stato previsto che almeno 60 piccoli satelliti dal diametro di 15 km circa avrebbero dovuto essere scoperti nella fascia di Kuiper. Purtroppo ne sono stati visti solo 3. Questo piccolo numero è in contraddizione con i dati relativi alle comete osservate qui dalla Terra. Le comete con orbite particolarmente “allungate” dovrebbero venire dalla “Cintura di Kuiper”. Sarà necessario capire come mai il numero di comete è così grande rispetto ai corpi cosmici scoperti al di là di Nettuno.

III.48 Hermes l’Asteroide ritrovato dopo 66 anni si avvicinerà alla Terra, ma non troppo (A49-03)

Per le distanze cosmiche l’asteroide 1937 UB era passato proprio dietro l’angolo, poco più in là della Luna, battendo il 30 ottobre 1937 tutti i precedenti record di avvicinamento cosmico alla Terra (800 mila chilometri). Record rimasto tale per mezzo secolo. Scoperto da Karl W. Reinmuth di Heidelberg (Germania) il 28 ottobre 1937, l’asteroide era però stato perso dopo appena cinque giorni. Motivo: la sua traiettoria incrociava la zona di cielo illuminata dalla potentissima luce del Sole. Nonostante le ricerche, nessuno era riuscito a ritrovarlo. È stato per puro caso

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che Brian Skiff dell’Osservatorio Lowell in Arizona (USA) il 15 ottobre scorso abbia osservato un oggetto celeste con orbita vicina alla Terra. Seguendo l’accordo esistente tra diversi osservatori astronomici, Skiff ha dato l’allarme al Centro di Astrofisica di Harvard. Molti astronomi si sono messi al lavoro. Mettendo insieme tutte le misure fatte anche in precedenza, è stato possibile dedurre che quell’asteroide era stato già osservato il 26 agosto. Questa conclusione è frutto del lavoro di molti astronomi tra i quali è giusto ricordare Timothy Spahr e Jim Young il cui lavoro è stato prezioso per meglio definire l’orbita.

Un astronomo del Centro di Harvard, Brian Marsden, mettendo insieme tutti i dati raccolti e calcolando l’orbita del nuovo corpo celeste, si accorge il 4 novembre scorso che essa è molto vicina a quella di Hermes. Non è esattamente la stessa, ma questo si spiega con le perturbazioni gravitazionali causate dai numerosi passaggi dell’asteroide vicini a Venere e alla Terra. Intervistato dal New Scientist, Marsden si è detto sicuro che quell’asteroide è Hermes; infatti già nel 1969 ne aveva calcolato l’orbita. Sarà possibile avere dati più esatti sull’orbita quando Hermes si avvicinerà a noi e sarà così possibile avere misure più precise sulle sue posizioni nello spazio cosmico, al passare del tempo, usando le potenti stazioni emittenti in grado di spedire su Hermes intensi fasci di onde radar.

Hermes non è mai stato dimenticato. Infatti due astronomi tedeschi, Lutz Schmadel e Joachim Schubert dell’Università di Heidelberg, ne avevano anch’essi studiato l’orbita due anni fa. E siccome il vero problema era quello di ritrovarlo, Schmadel e

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Schubert predissero che bisognava intensificare tutti i tentativi di osservazione nell’ottobre 2003 in quanto questo periodo sarebbe stato ottimo per cercare di ritrovare l’asteroide perduto. E così è stato.

Nelle prossime settimane la sua luminosità dovrebbe aumentare in modo da diventare visibile agli astrofili dotati di un normale telescopio. Il diametro di Hermes non dovrebbe essere superiore a qualche chilometro. Se si scontrasse con noi produrrebbe devastazioni a livello planetario. La sua potenza devastatrice potrebbe essere pari a centomila volte Hiroshima. È bene che se ne stia lontano. La sua orbita ce lo assicura. Il fatto che fosse stato perso aveva dato vita a innumerevoli ipotesi sulla stabilità del suo moto orbitale. Averlo ritrovato fa tirare a molti un sospiro di sollievo.

È forse bene ricordare che, dagli anni in cui Galilei dette vita allo studio delle irregolarità sulla superficie lunare, nessun nuovo cratere, grande o piccolo, è apparso sulla Luna, eccezione fatta per quell’asteroide da 10 metri la formazione del cui cratere è stata osservata in diretta il 15 novembre 1953; ne abbiamo già parlato (FC 19). Di crateri come questi sulla Luna ce ne sono però centinaia di migliaia. Ecco perché si pensa che il Sistema Solare abbia attraversato un periodo di bombardamento cosmico molto intenso rispetto ai tempi storici (diecimila anni). La frequenza degli asteroidi diminuisce esponenzialmente man mano che aumentano le loro dimensioni. Per gli asteroidi con raggio da un chilometro – come dovrebbe essere quello di Hermes – la frequenza si valuta sui centomila anni. Comunque

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Hermes è ritornato perfettamente visibile e la sua traiettoria non risulta pericolosa per la nostra Terra.

III.49 Plutino arriva dal freddo (N49-03) Lo hanno chiamato così per via della sua orbita, il cui

periodo è simile a quello del nono satellite del Sole. Plutone infatti gira due volte attorno alla nostra Stella, impiegando la stessa quantità di tempo di cui ha bisogno Nettuno per fare 3 giri. Il nuovo satellite del Sole è stato scoperto il 15 novembre da Neat (Near Earth Asteroid Tracking Project) il progetto di ricerca automatica per asteroidi potenzialmente pericolosi. A osservarlo è stato il grande telescopio di Molte Palomar in California. Il diametro di Plutino è di 570 km: uno dei più grandi corpi celesti del sistema solare osservato in tempi recenti. È fatto di ghiaccio e roccia e si trova nella cosiddetta fascia di Kuiper alla periferia del Sistema Solare. Si pensa che questa “fascia” gelida sia ciò che rimane della materia primordiale da cui sarebbe nato il Sistema Solare. Il primo oggetto della fascia di Kuiper venne scoperto undici anni fa, nel 1992. Da allora ne sono stati scoperti più di 400 altri, di cui molti hanno lo stesso periodo orbitale di Nettuno. In sigla è designato 2003VS2. Studiando altre immagini è stato capito che la sua prima osservazione risale al 1998. Il lettore non si sorprenda: per fare un giro Plutino impiega un quarto di millennio; ecco perché sono necessarie diverse misure per stabilirne l’orbita. La “fascia” di Kuiper si estende ben oltre l’orbita di Plutone che è quasi quaranta (39,4) volte più lontana di noi dal Sole, arrivando fino a

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circa mille volte più in là. L’interesse di questa “fascia” sta nel fatto che sono i suoi componenti a generare le comete. Nella fascia – che ruota attorno al Sole – dovrebbero esserci centinaia di milioni di oggetti cosmici fatti di polvere e ghiaccio. Quando uno di questi oggetti – per instabilità gravitazionale – lascia la “fascia” si dirige verso il Sole diventando cometa. L’orbita di Plutino – per nostra fortuna – ha caratteristiche di stabilità e non dovrebbe diventare cometa.

III.50 Una Stella inghiotte i suoi satelliti (F50-03)Fra cinque miliardi di anni il nostro Sole dovrebbe

diventare una Stella del tipo “gigante rossa”. Da piccolo com’è il Sole dovrebbe espandersi al punto da includere nel suo abbraccio anche la nostra Terra. Questa previsione “teorica” è confermata dalle osservazioni fatte su una zona di cielo che dista da noi 20 mila anni-luce. Lì c’è una Stella, V838, che è diventata “gigante rossa”. Nell’espandersi ha inghiottito i suoi tre pianeti anch’essi giganti, il cui Idrogeno ha agito da detonatore per un’esplosione cosmica con luminosità 600 mila volte più intensa di quella del nostro Sole.

III.51 Due nuove Lune per Urano (N2-04)Le prime due Lune di Urano erano state scoperte nel 1787

da W. Herschel, lo stesso astronomo che, nel 1781, scoprì l’ottavo satellite del Sole. I loro diametri erano superiori a 1500 km. E superiore ai 1000 km erano le altre due Lune d’Urano, scoperte nel 1851 da W. Lassel. Poi venne nel 1948 la scoperta

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della quinta Luna d’Urano da parte dell’astronomo G. Kuiper. Si arriva così al 1986, quando ne scoprì ben dieci la sonda spaziale americana Voyager 2. I diametri di questi satelliti di Urano erano però molto più piccoli delle precedenti Lune. Il più grande 145 km (Puck); il più piccolo 24 km (Cordella). Da allora niente più notizie di nuove Lune per Urano, il satellite del Sole, il cui asse di rotazione giace quasi completamente sul piano dell’orbita. Adesso arriva il telescopio spaziale Hubble che porta a diciassette il numero totale di Lune finora scoperte per Urano. Le ultime due sono ancora più piccole delle precedenti. I loro diametri sono infatti di appena 16 km e 12 km, rispettivamente: il diametro di città come Roma e Parigi.

III.52 In diretta da Marte: le prospettive aperte dallo sbarco della sonda “Spirit” (A3-04)

È probabile che fra qualche anno sarà di moda vivere il Tempo di Marte usando calendari e orologi sincronizzati con i due movimenti – a trottola e orbitale – del quarto satellite del Sole. In effetti, dall’alba della civiltà, Marte è stato al centro dell’attenzione nello studio della struttura del Cosmo. A Marte venne dedicato il primo dei dieci mesi dell’anno, quando i Romani dettero vita al loro primo tentativo di calendario. Tentativo cui seguì l’anno con dodici mesi, ma il terzo conservò il nome godendo ancora una volta di un altro privilegio. Quello numerologico legato alla “perfezione” del numero “3”.

Dopo migliaia e migliaia di anni trascorsi in un tributo mai venuto meno a questo satellite del Sole per motivi privi di

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fondamento scientifico, si arriva, con Galilei, alla scoperta della Scienza. E qui tocca, ancora una volta, a Marte un altro privilegio. Quello di destare nel padre della Scienza un incredulo stupore. Usando i dati di alta precisione che Ticho Brahe era riuscito a ottenere sulle posizioni nel cielo di Marte, Keplero era infatti arrivato alla conclusione che l’orbita di Marte non poteva essere un cerchio perfetto, come aveva pensato Galilei. Il padre della Scienza era infatti convinto che solo le figure geometriche perfette avrebbero potuto essere usate dal Creatore per costruire la struttura del Sistema Solare.

Galilei morì convinto che qualcosa doveva essere sfuggito a Keplero per arrivare alla forma ellittica dell’orbita di Marte. E invece no. Il motivo delle orbite ellittiche sta nella eleganza matematica della legge cui obbediscono tutti i corpi materiali: la legge di Newton. È la semplicità di questa legge che non obbliga le orbite dei satelliti del Sole a essere di forma rigorosamente circolare. L’orbita di Marte apre la strada alla totale scomparsa dei “misteri” del Cosmo. Le orbite dei satelliti del Sole e i loro diversi movimenti sono il risultato di ciò che è occorso durante la loro vita cosmica. È la distanza dal Sole che determina l’anno di Marte. Marte dista dal Sole una volta e mezzo più di noi. Ecco perché la durata della rotazione orbitale di Marte è di ben 687 giorni.

La sua rotazione a trottola dura invece 24 ore 37 minuti e 23 secondi. Infatti il “giorno” di Marte dipende da come esso ruotava a trottola prima di finire sotto l’attrazione gravitazionale del Sole. I due movimenti sono totalmente scorrelati, com’è

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anche per noi qui sulla Terra. Quando sarà di moda vivere il Tempo di Marte bisognerà tener conto che l’anno di Marte dura circa dieci mesi più del nostro e il giorno qualcosa come quaranta minuti più a lungo. I calendari marziani e le lancette dell’orologio che scandiranno il Tempo di Marte dovranno tener conto di queste differenze, come fa Spirit e faranno tutte le sonde che passeggeranno sul suolo di Marte. C’è chi sogna già il giorno in cui su Marte sarà scoperta l’acqua e chissà, forse anche, tracce di antica vita. Fra un quarto di secolo su quel satellite del Sole potrebbero arrivare i primi astronauti, rendendo così reale il sogno di milioni e milioni di persone che continueranno a subire il fascino di Marte.

Senza nulla togliere ai sogni di questi nostri amici, è però giusto indurli a una riflessione. Se l’uomo si fosse dedicato a studiare la volta celeste, le costellazioni, i pianeti e le Stelle fisse, oggi sapremmo poco di come è fatto il mondo. Quasi nulla di Marte. E non avremmo alcuno strumento tecnologico per investigare da vicino – come sta facendo Spirit e come faranno altre sonde – il suolo di Marte.

Le navicelle spaziali, le telecamere che osservano e trasmettono immagini a centinaia di milioni di chilometri, gli strumenti che hanno permesso a David Scott (il Comandante di Apollo 15) di andare sul suolo lunare e di far cadere una piuma e un martello per stabilire che arrivano sul suolo lunare esattamente nello stesso istante, come aveva previsto Galileo Galilei, sono la prova di quanto fosse necessario spostare dalle Stelle alle nostre pietre, qui sulla Terra, lo studio della Logica

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che regge il mondo. È studiando le nostre pietre che abbiamo scoperto le Leggi Fondamentali del Creato. Sono queste leggi che hanno permesso l’invenzione delle tecnologie da cui sono scaturite le navicelle spaziali, le telecamere e tutti gli strumenti che hanno portato i robot su Marte. Marte è però dietro l’angolo, se misuriamo le distanze usando la scala cosmica. Già Plutone dista dal Sole quasi 40 volte più della Terra e impiega poco meno di un quarto di millennio (247,7 anni) per fare un giro attorno al Sole.

Studiando le pietre abbiamo scoperto che la volta celeste non esiste, né esistono le costellazioni e le Stelle non sono immobili. Sembrano fisse in quanto sono lontanissime da noi. Dopo appena 4 secoli di Scienza Galileiana siamo arrivati al cuore delle pietre scoprendo che esse sono fatte di tre tipi di particelle: protoni, neutroni ed elettroni. È la scoperta di queste particelle che ci ha permesso di avere gli strumenti in grado di osservare il suolo di Marte a distanza ravvicinata. E fra qualche decennio di passeggiare sul quarto satellite del Sole. Ma se vogliamo proseguire nel sogno di riuscire un giorno a potere passeggiare tra le Stelle – questo ancora non lo sappiamo fare – è sempre qui nei nostri laboratori, sulla Terra, che dovremo continuare a cercare di capire meglio la Logica del Creato. Deve essere quindi detto con chiarezza che trovare acqua e tracce di vita passeggiando su Marte servirà a poco per darci gli strumenti in grado di potere un giorno andare in giro tra le Stelle. Saranno le scoperte della Scienza ottenute studiando le “pietre” galileiane

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del terzo millennio – che sono i quark e i leptoni – ad aprire le strade verso orizzonti ben più lontani di Marte.

III.53 La Stella più piatta finora scoperta (F4-04)La nostra Terra è un po’ più gonfia all’equatore e piatta ai

poli per via del fatto che ruota a trottola attorno a se stessa. C’è un modo per valutare di quanto un corpo celeste può schiacciarsi ai poli gonfiandosi all’equatore. Più velocemente ruota attorno a se stesso più piccola sarà la distanza dei due poli (Nord e Sud) dal centro e più grande sarà il raggio dell’equatore. Per la nostra Terra il raggio equatoriale è appena del 3 per mille più grande del raggio polare. C’è una Stella in cielo che è la più brillante della sua costellazione: si chiama Achernar ed è in assoluto la nona Stella più brillante del firmamento. Dista da noi 145 anni-luce ed è stato scoperto che è la più piatta di tutte le Stelle. Il suo raggio equatoriale dovrebbe essere non più del 30% più grande di quello polare. Esso è invece più grande del 50%. Una possibile spiegazione è che il nucleo centrale della Stella ruoti più velocemente della sua parte esterna e che la velocità di rotazione sia quindi non quella che si vede in superficie ma quella del suo nucleo centrale. Se la Stella girasse più velocemente l’appiattimento sarebbe capito. L’origine però potrebbe essere di natura ben diversa. È quello che ci diranno le future misure che il gruppo di astrofisici intende continuare a fare usando un sistema più potente di telescopi. Quelli che hanno permesso di scoprire la più piatta Stella del mondo hanno una risoluzione in grado di osservare una moneta di un Euro da una

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distanza di centomila chilometri (poco meno di un terzo della distanza Terra-Luna).

III.54 La più grande mappa mai fatta dell’Universo e l’energia oscura (F5-04)

Il numero di Galassie che compongono la realtà cui diamo il nome di Universo è valutato sui cento miliardi. Di queste però non se ne conosce la “mappa”. Per arrivare a metterne a posto duecentomila è stato necessario elaborare il progetto SDSS (Sloan Digital Sky Survey) cui collaborano 200 astronomi di 13 istituti nel mondo. Le più lontane Galassie nella mappa distano da noi due miliardi di anni-luce. Il lavoro da fare è ancora tanto, pur tuttavia dai dati ottenuti è già possibile essere certi che deve esistere la cosiddetta “energia oscura”, termine che non rende giustizia al fascino di questa incredibile quantità fisica. Sarebbe più corretto chiamarla energia del vuoto. Immaginiamo una qualsiasi quantità di spazio, totalmente vuoto. Esempio un metro cubo d’aria, senza aria dentro. Senza nemmeno un atomo. Niente. Ebbene quel metro cubo possiede una spinta energetica per il solo fatto di esistere come metro cubo di spazio totalmente vuoto. L’Universo è un laboratorio in cui, nel corso dei venti miliardi di anni trascorsi, è stato messo in opera ogni dettaglio legato a forze e strutture fondamentali, che insieme costituiscono la Logica che regge il mondo. Di questa logica fa parte l’energia del vuoto (detta oscura) che Einstein invocò al fine di evitare il collasso di tutte le Stelle già scoperto da Newton. Infatti, se è vero che c’è una forza gravitazionale per tutte le Stelle, come

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mai non precipitano attraendosi l’una con l’altra? Risposta: è l’energia del vuoto che le respinge. Nasce così questa novità scientifica che però, solo oggi – dopo quasi novant’anni – incomincia ad avere il battesimo della prova sperimentale di stampo galileiano.

III.55 Acqua su Marte. Da dove viene? (A6-04)È la prima volta che viene misurata in modo diretto la

presenza su Marte della molecola d’acqua: due atomi di Idrogeno e un atomo di Ossigeno. Lo ha saputo fare la sonda spaziale europea Mars-Express. In effetti i segnali registrati dalla sonda dicono che c’è ghiaccio nella calotta polare Sud di Marte e anche vapore acqueo nell’atmosfera del pianeta rosso. Ci sono poi le immagini ad alta risoluzione stereoscopiche del suolo di Marte. Le immagini mostrano tracce di erosione del suolo che avrebbero potuto essere prodotte dallo scorrere di enormi quantità d’acqua.

L’idea che su Marte potesse esserci acqua è molto antica. Anche se in numero elevato le idee però non sono mai prove. Il primo segnale effettivo di presenza di fiumi su Marte fu la sonda americana Mariner 9 a darcelo, nel lontano 1972, con le immagini di un insieme ramificato di insenature profonde scavate nella superficie del pianeta rosso. Dopo 27 anni, la sonda Mars Global Surveyor riesce a ottenere precisioni mai prima registrate sulla superficie di Marte, con strutture simili a quelle che abbiamo qui sulla Terra. Strutture come i Canyons, valli,

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laghi prosciugati e riviere secche. Fin qui tracce nel suolo di Marte. Non acqua.

Nel 2001 gli strumenti di Mars Odyssey rivelano tracce di uno dei due componenti della molecola d’acqua: l’Idrogeno. Viene così fuori la prima prova indiretta dell’acqua su Marte. Non solo nelle calotte polari ma giù fino a 60° di latitudine.

Il radar di cui è dotata la sonda Mars Express dovrebbe farci sapere se c’è – e in quali quantità – acqua nel sottosuolo di Marte. Nasce così un problema di fondo. L’acqua su Marte da dov’è venuta? La risposta a questa domanda ci tocca da vicino. Infatti, col passare degli anni, l’età della nostra Terra è aumentata. Negli anni sessanta la stima dell’età delle rocce più antiche non superava i 3 miliardi di anni. Oggi invece l’età della Terra si fa risalire a quella delle più antiche meteoriti: 5 miliardi di anni; il che vuol dire l’età del Sole. Si fa quindi sempre più strada la Scuola di pensiero in base alla quale la nostra Terra non si sarebbe formata con la contrazione della nebulosa primitiva del Sistema Solare. Il satellite del Sole su cui siamo imbarcati potrebbe venire da lontano. E l’acqua sulla Terra? Risposta: dallo scontro con comete giganti. E dalle comete potrebbe essere venuta anche l’acqua su Marte. Se sul pianeta rosso di acqua liquida in superficie non se ne trova più, il motivo potrebbe essere l’attrazione gravitazionale che su Marte è il 38% della nostra. Siamo stati abbastanza fortunati in quanto la massa della Terra è sufficientemente grande per avere un’attrazione gravitazionale superiore al doppio di quella esistente su Marte. È questa attrazione gravitazionale che ha permesso di trattenere sia

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l’atmosfera sia gli strati d’acqua che circondano la Terra. Strati d’acqua liquida cui si dà il nome di Oceano Globale. È probabile – anzi molto probabile – che con Marte si siano scontrate diverse comete, ma che al pianeta rosso sia mancata la giusta quantità di forza attrattiva perché potessero realizzarsi quelle condizioni di stabilità gravitazionale che hanno permesso da noi l’esistenza dell’Oceano Globale prima e dell’Atmosfera dopo.

Qui sulla Terra, attraverso una serie di processi durati milioni e milioni di anni, l’Oceano Globale è diventato salato e l’atmosfera si è arricchita dell’Ossigeno prodotto dalle alghe marine e diffusosi nell’atmosfera centinaia di milioni di anni fa, quando la vita passò dal mare alla terra ferma. Senza il perfetto equilibrio garantito dalla forza gravitazionale della nostra Terra, addio atmosfera e Oceano Globale. Su Marte sono rimaste le tracce dell’acqua e quella che resta non è certo in superficie né allo stato liquido. Abbiamo già detto che il motivo di questa diversità tra Marte e Terra potrebbe essere il valore – inferiore a metà – che ha l’attrazione gravitazionale su Marte. Attrazione che ha anche un ruolo importante nel catturare comete.

In tempi recenti, da noi sulla Terra, l’ultima cometa è piombata – il 30 giugno 1908 – nella zona del fiume Tunguska in Siberia, devastando una enorme superficie di Foresta Siberiana. La sua potenza è stata valutata essere equivalente a 10 Megaton (10 milioni di tonnellate di tritolo equivalente: settecento volte Hiroshima). Il suo diametro era inferiore ai cento metri. Poca cosa. Su Giove finì nel 1994 la cometa Shoomaker-Levy permettendo a noi di assistere a uno spettacolo

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cosmico senza precedenti. La cometa si è spezzata in 21 parti per effetto gravitazionale. Uno solo di quei pezzi, il settimo, ha prodotto un’esplosione equivalente a 400 milioni di volte Hiroshima. Fu quella la prima collisione cosmica attentamente osservata nel Sistema Solare. Anche quella cometa era però poca cosa rispetto a quelle che, scontrandosi con la Terra e con Marte, hanno regalato a noi l’Oceano Globale e a Marte le tracce che oggi ci fa vedere la sonda spaziale europea.

III.56 Scoperta una piccola Galassia dietro l’angolo (N11-04)

Un gruppo di astronomi italiani, inglesi, francesi e australiani ha scoperto una piccola galassia che dista da noi appena 42 mila anni-luce. Le più vicine finora note erano la Nana Ellittica del Sagittario, la Grande Nube di Magellano e la Piccola Nube di Magellano che distano, rispettivamente, 80 mila, 165 mila e 195 mila anni-luce. La scoperta è stata possibile grazie alla coppia di telescopi sensibili alle onde elettromagnetiche dell’infrarosso. Esse riescono infatti a passare attraverso la polvere galattica rendendo possibile l’osservazione di oggetti cosmici che resterebbero altrimenti nell’ignoto. È come quando il Sole tramonta. Lo vediamo rosso in quanto i raggi di colore diverso non riescono a penetrare attraverso l’atmosfera. Se i nostri occhi non fossero sensibili al rosso non vedremmo più il Sole quando tramonta. Al posto degli occhi, per osservare le Galassie nell’infrarosso, ci sono due speciali telescopi in Arizona (USA) e nel Cile. Un dettaglio interessante:

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questa piccola Galassia è destinata a sparire in quanto la nostra – molto più grande – la sta gravitazionalmente inghiottendo.

III.57 Un asteroide minaccioso che viene da lontano: stavano per svegliare Bush (N12-04)

Dove sarebbe andato a finire nessuno era in grado di prevederlo. Sarebbe esploso prima di toccare terra e l’effetto devastante sarebbe stato pari a quello di Hiroshima. Secondo coloro che ne avevano scoperto l’esistenza, l’oggetto cosmico (in sigla 2004-AS1) aveva una probabilità su quattro di colpire la Terra. La crisi è andata avanti per ben nove ore. Le orbite possibili erano diverse. Pur tuttavia David Morrison, responsabile del gruppo specializzato nella ricerca di oggetti cosmici pericolosi, insieme a Clark Chapman furono sul punto di considerare se era il caso di avvertire il Capo della Casa Bianca. L’allarme è cessato quando si è capito che le dimensioni dell’asteroide erano almeno dieci volte più grandi ma che la sua traiettoria sarebbe rimasta a una distanza da noi oltre 30 volte più grande di quella della Luna.

III.58 Il diamante più grande del mondo (F12-04)Il più grande diamante esistente qui sulla Terra si trova in

Inghilterra, e fa parte dei gioielli della Corona Britannica. È un diamante di 530 carati, tirato fuori da una gemma di 3100 carati. Poca cosa rispetto all’ultima scoperta dell’astrofisica. A 50 mila anni-luce da noi brilla una sfera di diamante il cui diametro è grande come la distanza Roma-Parigi. La sua sigla è BPM-

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37093 ed è in effetti la forma cristallina di una “nana bianca”. Si tratta dell’ultimo stadio di una Stella che una volta splendeva come il nostro Sole. Alla conclusione che il cuore di questa “nana bianca” sia un “diamante” di dimensioni cosmiche si è arrivati attraverso la misura delle “pulsazioni” della sua superficie. È quello che fanno i nostri geofisici quando studiano la struttura interna del globo terrestre usando i sismografi.

III.59 Sedna ha forse la sua Luna e obbedisce alle leggi che reggono il mondo (N13-04)

Se la Luna – invece che attorno a noi – girasse attorno al Sole, avrebbe tutti i titoli per essere considerato il decimo “pianeta” non perché si trova oltre Plutone ma perché ha i titoli per esserlo: il diametro. Quello della Luna è di circa 3.472 km, mentre Plutone arriva ad appena 2.250 km. Quando nel 1930 venne scoperto il nono “pianeta”, furono in tanti a dire che quello non poteva essere considerato un satellite del Sole, usando come argomento proprio il suo diametro, più piccolo della Luna. Adesso arriva Sedna il cui diametro è stimato sui 2.000 km, ma potrebbe essere superiore a quello di Plutone. In ogni caso più piccolo di quello della Luna. Non è il primo satellite del Sole a essere scoperto alla estrema periferia del Sistema Solare, oltre Nettuno. Il primo fu Plutone; oggi però di oggetti celesti in quelle zone ne sono stati osservati più di 400. Ecco i cinque più grandi. Varuna con diametro di 900 km scoperto nel 2000; Ixion, diametro 1.065 km, scoperto nel 2001; Quaoar, diametro 1.200 km, scoperto nel 2002. Lo scorso

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febbraio fu la volta di un altro satellite denominato 2004 DW: diametro 1.800 km. Adesso arriva Sedna, la cui sigla era 2003 VB-12, scoperto – come dice il primo numero – nel 2003. La novità di questi giorni è non solo nel nome, Sedna, che sostituisce la vecchia sigla, ma anche nel fatto che la scoperta del 14 novembre 2003 [fatta con il Telescopio di Monte Palomar in California dagli astronomi di Caltech, dell’Osservatorio Gemini e di quelli dell’Università di Yale] viene adesso confermata dal Telescopio Spaziale Spitzer (nome di un famoso astronomo di Princeton) e corroborata di altri interessanti dettagli. Il primo: forse Sedna ha la sua Luna. Motivo: gira a trottola molto più lentamente del previsto. Altro dettaglio: è il più rosso satellite del Sole, dopo Marte. La sua orbita è fortemente ellittica: attualmente si trova a una distanza 13 miliardi di km (oltre il doppio di Plutone) ma arriverà a dieci volte tanto: 900 volte la distanza Terra-Sole. Per fare un giro completo impiegherà 10.500 dei nostri anni. Se immaginassimo di essere su Sedna troveremmo che la sua temperatura è di 33 gradi sopra lo zero assoluto. Motivo: il Sole è talmente lontano che di luce ed energia ne arrivano pochissime. Noi stiamo al caldo in quanto distiamo dal Sole appena 150 milioni di km. Infatti il disco del Sole ci appare grande come quello di una monetina da circa un centimetro, vista alla distanza di un metro. La stessa monetina, vista da 90 metri ci apparirebbe con un diametro inferiore al decimo di millimetro: ci apparirebbe piccolo così il disco del Sole se fossimo su Sedna. Sedna e i suoi vicini sono l’inizio della Fascia di Kuiper, “immersa” con tutti noi nella cosiddetta

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Nube di Oorte, che dovrebbe estendersi ben oltre i 10.000 miliardi di km dal Sole. Ci sarà l’imbarazzo della scelta per decidere quale delle numerose scoperte dovute all’aumento nella potenza dei Telescopi dovrà essere la più interessante.

III.60 Galassie in fila indiana (N15-04) = N24-04È una regione dello Spazio che dista da noi sette miliardi

di anni-luce; è molto più ricca di Galassie della nostra zona ed è depositaria di un effetto mai prima osservato: un allineamento di Galassie, che pone nuovi interrogativi agli astrofisici. Secondo alcuni di loro potrebbe trattarsi della fase iniziale nella formazione di un “gruppo” di Galassie. Nel Cosmo infatti le Galassie si mettono insieme prima in “gruppi” eppoi in “supergruppi”. In effetti è ancora da capire come si forma una Galassia. Sui “gruppi” e i “supergruppi” il discorso è totalmente aperto. Questa “fila indiana” ha suscitato un vivo interesse anche perché nessun modello teorico aveva finora previsto che potesse esistere un tale effetto nella formazione di un “gruppo” di Galassie.

III.61 Niente acqua sulla Luna (A18-04)Si era quasi sicuri che negli abissi in ombra vicino ai Poli

Nord e Sud della Luna ci fossero ingenti quantità di ghiaccio. Una riserva preziosa per le future missioni spaziali che avrebbero dovuto avere una base fissa installata sulla Luna. Per questa base sarebbe stato di straordinario valore poter disporre di una riserva d’acqua sul posto. Questa speranza sembrava

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corroborata dai risultati di due sonde inviate a scrutare i crateri in ombra della Luna. Da Terra – più esattamente da Arecibo – arrivano invece brutte notizie. Pare che non esistano gli strati di ghiaccio che molti astronomi avevano pensato fossero depositati nei crateri della Luna ai Poli Nord e Sud. Queste zone della Luna poco esposte ai raggi solari si candidano potenzialmente a depositi di acqua gelida, se di acqua sulla Luna ce ne fosse stata in passato. Le nuove misure, usando il radiotelescopio Arecibo in Portorico, sembrano spengere questa speranza.

Eppure la sonda spaziale, Clementine, che gli USA avevano inviato nel 1994, aveva scandagliato il suolo lunare per ben due mesi nel 1996, registrando forti segnali di ritorno come se venissero riflessi da spessori notevoli di ghiaccio. Nel 1998 un’altra sonda spaziale della NASA, Lunar Prospector, aveva messo in evidenza l’esistenza di forti quantità di Idrogeno nei Poli Nord e Sud della Luna. Conclusione: devono esserci milioni di tonnellate d’acqua ghiacciata nei due poli permanentemente in ombra rispetto ai raggi del Sole.

L’analisi da Terra dei due poli non conferma le previsioni di Clementine e di Lunar Prospector. I forti segnali captati da queste sonde spaziali potrebbero essere dovuti alle strutture dei crateri, non agli strati di ghiaccio. Infatti, un cratere privo di ghiaccio, Shacketon, ha prodotto segnali di ritorno simili a quelli ricevuti da Clementine. E un altro cratere, che non è sempre in ombra, ha prodotto segnali di eco simili a quelli osservati da Clementine.

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Alcuni dettagli possono essere utili per capire cosa effettivamente vien fatto. Il segnale di base è l’eco ottenuto inviando onde radar. Se ci sono strati di ghiaccio, l’eco deve essere forte. Nella zona vicina al Polo Nord della Luna il radar “illumina” aree che sono permanentemente in ombra. Esempio, il fondo del cratere Hermite e di molti altri piccoli crateri che si trovano nella zona del grande cratere polare detto Peary. I segnali eco-radar ricevuti da queste zone non sono diversi da quelli riflessi dalle altre zone della superficie rocciosa della Luna in cui non c’è ghiaccio. Lo stesso accade nelle aree vicine al Polo Sud, in cui ci sono i crateri denominati Shoemaker e Faustini, che sono sempre in ombra. Illuminate dalle onde radar di Arecibo, nessuna di queste zone produce forti segnali di ritorno: l’eco è debole, come in una normale zona di superficie lunare.

Se ci fossero strati di ghiaccio, come sembrava dovesse essere il caso secondo i dati di Clementine, e come è il caso per le zone in ombra di Mercurio, Arecibo avrebbe dovuto ricevere segnali-eco molto forti. I nuovi risultati ci dicono che, se c’è ghiaccio sulla Luna, esso deve essere sotto forma di granelli di dimensioni non superiori a qualche centimetro, dispersi sui fondi dei vari crateri e forse anche lungo le zone in ombra del suolo lunare.

Il responsabile di queste ricerche, Bruce Campbell, dell’Istituto Smithsonian a Washington (USA), si è detto convinto che non ci siano strati di ghiaccio nelle zone illuminate della Luna. Proprio per cercare la presenza di strati ghiaccio è

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stato esplorato il 20% delle regioni lunari non esposte alla luce del Sole. Secondo le stime di Campbell, in un chilometro cubo di suolo lunare potrebbe esserci al massimo un metro cubo di acqua: una frazione talmente piccola che renderebbe praticamente impossibile l’estrazione di acqua dal suolo lunare, nel caso in cui si volesse realizzare sulla Luna una stazione spaziale permanente autonoma, come ha detto di voler fare il Presidente Bush.

Per saperne di più sul contenuto di acqua solida o liquida sulla Luna sarà necessario aspettare i risultati di SMART-1 che l’Agenzia Spaziale Europea invierà sulla Luna nel 2005. La sonda europea avrà uno strumento a raggi infrarossi che osserverà i crateri della Luna non esposti alla luce solare.

Per una risposta sicura sulle riserve di ghiaccio nel nostro satellite naturale, sono in molti a pensare che sarà però necessario realizzare una missione speciale. Missione che ha già un nome: Polar Night. L’assenza di acqua sulla Luna deve farci riflettere sul privilegio di cui godiamo qui sulla Terra. Privilegio le cui origini sono ancora tutte da capire. Secondo alcune scuole di pensiero l’acqua sulla Terra è venuta grazie a una serie di impatti con comete. Lo stesso avrebbe dovuto accadere alla Luna. Però il nostro satellite è troppo leggero mentre la Terra ha una massa sufficientemente grande per intrappolare gravitazionalmente elementi leggeri com’è l’acqua e la stessa aria che respiriamo. Insomma la Terra, più si studiano i corpi celesti vicini e lontani, più sembra fatta proprio su misura per noi.

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III.62 Venere vista da vicino (N19-04) = N18-04Secondo alcuni specialisti, l’impulso nuovo per produrre –

dove possibile – immagini di alta qualità dei satelliti del Sole è merito di Marte, che ha destato nel grande pubblico un vivo interesse. Infatti le immagini di Venere finora ottenute erano tutte di bassa qualità. Eppure c’erano i dati sufficienti per dare al pubblico immagini molto belle. È quello che ha fatto uno specialista in analisi dei dati Don Mitchell. Serve a poco andare su un satellite del Sole e poi non impegnarsi a tirar fuori i dati necessari per riprodurre nel miglior modo possibile la struttura di quel satellite. Sembra poco probabile che ciò possa accadere e invece è proprio quanto è occorso con le dieci visite su Venere delle sonde spaziali sovietiche finite sul secondo satellite del Sole tra il 1975 e il 1981. È stato Don Mitchell ad avere rianalizzato i dati ottenuti con le prime due sonde, Venera 9 e 10, atterrate su Venere nel 1975 e rimasti in archivio per quasi trent’anni. Don Mitchell ha ricalibrato e rianalizzato i dati ottenendo immagini del suolo di Venere estremamente chiare. I dati di Venera 9 e 10 sono 6 bit per pixel; quelli di Venere 13 hanno una risoluzione due volte più potente e distinguono i colori. Forte del successo ottenuto, Don Mitchell userà adesso i dati di Venera 13 per riprodurre immagini a colori del suolo di Venere: un satellite terribilmente inospitale. La sua temperatura è di ben 490 gradi centigradi positivi e la pressione ben 90 volte superiore a quella terrestre.

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III.63 Il secondo grande muro di Galassie (S21-04)Nello stesso anno in cui crollava il Muro di Berlino due

astrofisici, Margaret Geller e John Huchra, scoprirono una struttura galattica cui venne dato il nome di “Great Wall” (Grande Muro), composto da almeno duemila Galassie (1.732) a una distanza di circa cinquecento milioni di anni-luce da noi. Adesso, due astrofisici dell’Università di Princeton, J. Richard Gott III e Mario Juric, annunciano la scoperta di un secondo “grande muro” di Galassie, che dista da noi un miliardo di anni-luce circa, ed è fatto con più di diecimila Galassie (11.243). Il “muro” si estende su oltre mille e trecento milioni di anni-luce ed è quindi poco meno del doppio più lungo del precedente “Great Wall”. Esso è di fatto la più grande struttura cosmica che sia finora stata scoperta nell’Universo.

III.64 Scoperta la prima Galassia senza Stelle (A22-04) = A29-04

Sembra una contraddizione, eppure accade anche questo: una Galassia senza nemmeno una Stella. Se l’uomo si fosse limitato a usare gli occhi per osservare le Stelle, questa Galassia non sarebbe stata mai scoperta. Infatti essa non emette luce, ma onde radio. E sono state queste a essere state rivelate nel radiotelescopio di Arecibo in Portorico. La nostra Galassia brilla di tante Stelle (200 miliardi) e offre ai nostri occhi lo spettacolo della Via Lattea. Fu Galilei a scoprire che quella “via luminosa” non era il riflesso della luce del Sole, ma un insieme di tante

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Stelle. Adesso siamo all’ultima novità astronomica: una Galassia che non brilla di Stelle.

A trovarla sono stati tre astrofisici americani, dell’Università di Berkeley in California: Joshua Simon, Timothy Robishaw e Leo Blitz. Si tratta di una enorme quantità di Idrogeno gassoso dove non è nata nemmeno una Stella. Dista da noi due milioni di anni-luce e ruota più velocemente di molte altre Galassie. Ed ecco un problema di grande attualità: per spiegare come mai – nonostante il fortissimo moto rotatorio – l’enorme nuvola di gas non vada a pezzi c’è bisogno di postulare l’esistenza di almeno un altro 80% di materia oscura. Materia di cui nessuno conosce la natura. In quella stessa zona di spazio nella quale c’è la Galassia senza Stelle ci deve essere una enorme quantità di materia oscura. Forse è proprio questa materia oscura a evitare che si formino le Stelle. Infatti, questa forma di materia potrebbe essere refrattaria a subire forti concentrazioni. E se la materia rimane distribuita in modo uniforme non è possibile la formazione delle Stelle.

Che un’enorme quantità cosmica di Idrogeno gassoso non dia luogo alla formazione di Stelle non ha alcunché di misterioso. Affinché si possa accendere una Stella è infatti necessario che in una zona non troppo estesa dello spazio cosmico ci sia una quantità di Idrogeno non inferiore al 7% della massa solare. Può accadere che questa concentrazione non si realizzi. In questo caso l’Idrogeno non può subire l’accelerazione gravitazionale necessaria ad accendere il fuoco nucleare. È come se pretendessimo di accendere un fiammifero non usando la

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spinta necessaria nello strofinarlo sulla parete della scatola dei fiammiferi predisposta per generare sufficiente attrito. Nel caso del fiammifero sono le forze elettromagnetiche a innescare la trasformazione di massa in energia: e noi vediamo la fiamma. Nel caso delle masse cosmiche d’Idrogeno, sono le forze gravitazionali ad imprimere l’equivalente della “spinta” necessaria ad accendere il fiammifero. Ottenuta la “spinta” sono le forze nucleari a innescare la trasformazione di massa in energia. È così che si accende il fuoco nucleare. Questo avviene nella parte centrale della massa stellare. L’energia prodotta nuclearmente si trasferisce lentamente nella superficie ed è lì che si accende la luce della Stella che diventa visibile ai nostri occhi. Nel caso di HCV-127-41-330, è questa la sigla data a questa nuova e finora unica Galassia priva di Stelle, non c’è modo di accendere alcuna Stella per mancanza di concentrazione gravitazionale in una zona qualsiasi di quello spazio cosmico. È invece possibile produrre onde elettromagnetiche di bassa frequenza come lo sono le onde radio. Ed è così che quella enorme quantità di Idrogeno e i suoi movimenti possono essere osservati. Secondo alcuni astrofisici lo studio delle Galassie prive di Stelle sarà di grande ausilio per venire a capo del meccanismo da cui nascono le Galassie. Meccanismo ancora oggi non capito, nonostante sia sul tavolo delle priorità astrofisiche da più di mezzo secolo. Ricordo quando Jeremiah Ostriker mi raccontò del suo modello galattico che lo portava a esigere l’esistenza di una grande quantità di materia oscura per poterne spiegare la stabilità. Che questo tipo di materia debba

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esserci nessuno lo mette più in dubbio, dopo le numerose osservazioni fatte grazie allo sviluppo dei telescopi a terra e nello spazio, come ad esempio il telescopio Hubble.

Fino agli inizi degli anni novanta si pensava che le Galassie si fossero formate tutte nello stesso periodo, subito dopo il Big Bang. Il nuovo schema ci dice che l’Universo è dinamico; le Galassie ellittiche non sono giovani. Esse nascono dallo scontro di due Galassie a spirale (come la nostra): ecco perché possono essere molto più grandi, al punto di contenere cento volte più Stelle delle normali Galassie. La scoperta della Galassia senza Stelle potrebbe essere il primo esempio di una lunga serie destinata a darci nuove sorprese. Capire come nasce una Galassia vuol dire sapere finalmente come si è formata la casetta cosmica nella quale viviamo.

III.65 Un milione di miliardi di Stelle in un decimo del disco lunare: le prime Stelle dopo il Big Bang (F14-04)

Immaginiamo di osservare per 12 giorni una piccolissima zona del cielo, una zona tanto piccola quant’è un decimo del disco lunare. A occhio nudo ci appare vuota. Puntiamo il più potente telescopio esistente sulla superficie della Terra. Risultato: niente, nemmeno una Stella. Usciamo fuori dall’atmosfera come fa il telescopio spaziale Hubble. Risultato: in quella zona che sembrava priva della pur debolissima Stella ci sono diecimila Galassie: qualcosa come un milione di miliardi di Stelle. Non è fantascienza, bensì la scoperta delle prime Stelle che si sono accese subito dopo il Big Bang. Dove, subito dopo

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corrisponde a settecento milioni di anni. Infatti, per ben quasi un miliardo di anni il Cosmo è rimasto al buio, senza nemmeno una Stella.

III.66 Una nuova Tavola di Mendeleev per il mondo lontano (S7-04)

Capire come si è formato il Sole con “pianeti”, meteoriti e asteroidi rappresenta ancora oggi un traguardo tra i più interessanti dell’astrofisica moderna. Ci sono motivi per credere che la nostra Terra venga da lontano. E così altri satelliti del Sole. In queste ricerche ha un ruolo importante la percentuale dei diversi elementi che si trovano nelle varie zone del Sistema Solare e specialmente quella più lontana fatta quasi esclusivamente di ghiaccio. Per facilitare lo studio comparativo delle diverse zone, una ricercatrice dell’Università di Washington (USA) ha elaborato una “Tavola Periodica” degli elementi ben diversa da quella che si studia a Scuola e che porta il nome del suo compilatore, il grande chimico Mendeleev. La tavola della Dott.ssa Caterina Lodders si chiama Tavola Periodica “Cosmochimica degli elementi nel Sistema Solare” e rappresenta il lavoro svolto da molti astronomi nel corso dei passati decenni. Per ogni elemento c’è la sua percentuale nello spazio cosmico del Sistema Solare e la temperatura di condensazione. È stato a lungo pensato che le percentuali di elementi che si trovano nella parte superficiale del Sole fossero identiche a quelle che mediamente costituiscono i “satelliti” dello stesso Sole. Le percentuali su cui si è lavorato per tanti

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anni non sono esatte. Esempio: le quantità di Ossigeno e di Carbonio sono la metà. Questo ha conseguenze sulla formazione dei pianeti, delle varie Lune e della parte estrema e gelida del Sistema Solare. Infatti se c’è meno Ossigeno ci sarà meno ghiaccio per formare le comete. La nuova Tavola Cosmochimica degli Elementi tiene conto dei valori più recenti sulla composizione chimica del Sistema Solare e dovrebbe portare un contributo notevole per saperne di più sulle origini di questo remoto angolo di Galassia.

IV ALCUNE FIGURE STRAORDINARIE DEL XX SECOLO E QUALCHE SCOPERTA TRA LE PIÙ RECENTI

IV.1Cent’anni fa nasceva il più grande galileiano del XX secolo: Enrico Fermi (A39-01)

Cent’anni fa nasceva Enrico Fermi, il più grande galileiano del ventesimo secolo. Colui che passerà alla Storia per essere stato il primo uomo ad accendere un tipo di fuoco nuovo. Un fuoco che non dipende dal Sole e che permette di estrarre un’enorme quantità d’Energia da pochi chili di materia (Uranio e altri materiali fissili) invece che da migliaia di tonnellate di combustibile convenzionale (legna, carbone, petrolio).

I fuochi a noi familiari sono tutti esempi dello stesso tipo di fuoco. Quello azionato dalle forze elettromagnetiche che permettono agli atomi e alle molecole di esistere. Qualsiasi cosa, inclusi noi stessi, è fatta di atomi e molecole. Accendere un

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fiammifero vuol dire trasformare strutture molecolari pesanti in altre più leggere. La differenza di massa si trasforma in energia. Ecco l’origine della fiamma del nostro fiammifero. Il fuoco è trasformazione di massa in energia. Potremmo misurare l’energia in grammi. Scopriremmo che settantacinque milioni di chilowattore corrispondono ad appena tre grammi. Per avere questi tre grammi d’energia dobbiamo bruciare un’enorme quantità di petrolio. Il motivo sta nel fatto che le forze elettromagnetiche sono estremamente inefficaci nel trasformare massa in energia.

Immaginiamo di bruciare diecimila tonnellate di petrolio e di pesare tutti i prodotti della combustione. Troveremmo che mancano all’appello appena tre grammi di massa. Essi corrispondono ai settantacinque milioni di chilowattore prodotti bruciando le diecimila tonnellate di petrolio.

Quando il 2 dicembre 1942 Enrico Fermi riuscì ad accendere a Chicago il primo esempio di fuoco nucleare disse – giustamente – che quel fuoco era miliardi di volte più efficace per trasformare massa in energia. In questo nuovo tipo di fuoco, ad agire sono le forze nucleari. Le forze che permettono ai nuclei dei nostri atomi di esistere. Esse sono molto più potenti di quelle elettromagnetiche. Ecco perché basta appena qualche chilo di Uranio per produrre settantacinque milioni di chilowattore.

Cosa non faremmo per sapere quando e dove venne acceso il primo fuoco artificiale. E chi fu il nostro antenato ad essere riuscito nell’impresa di avere a portata di mano una sorgente di fuoco per cuocere le vivande, per scaldarsi, per

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lavorare materiali diversi e per avere un po’ di luce dopo il tramonto.

Gli esperti ci dicono che il fuoco artificiale risale all’alba della civiltà: qualcosa come diecimila anni fa. Nel corso di questi dieci millenni l’umanità si è avvalsa solo e sempre dello stesso tipo di fuoco estremamente inefficace nel trasformare massa in energia: il fuoco elettromagnetico. Ecco perché l’accensione del primo fuoco nucleare è destinato a entrare nella Storia del mondo come una delle più grandi conquiste della Scienza galileiana.

E infatti, fra mille anni, quando le riserve dei combustibili convenzionali (carbone, metano e petrolio) saranno esaurite, i nostri posteri avranno a loro disposizione la potente sorgente d’energia scoperta da Enrico Fermi il 2 dicembre 1942.

IV.2I quattro ragazzi di Via Panisperna ed Emilio Segré (A22-03)

Il sette giugno il Comune di Tivoli rende omaggio a uno scienziato che con le sue scoperte ha dato lustro e prestigio scientifico all’Italia, all’Europa e alla sua città natale. Emilio Segré con gli altri tre “ragazzi”, Fermi, Majorana e Pontecorvo, fa parte del prestigioso gruppo detto “I quattro ragazzi di Via Panisperna”.

Nato a Tivoli nel 1905, Emilio Segré iniziò la sua carriera come assistente di Orso Mario Corbino, che Enrico Fermi definì uno dei due “Santi Protettori” dei ragazzi di Via Panisperna. L’altro “Santo” era Guglielmo Marconi. Le ricerche scientifiche

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su cui questi quattro ragazzi erano impegnati avevano dell’incredibile.

C’era una proprietà molto peculiare che era stata scoperta in Francia: la radioattività. Un certo tipo di materiale, detto Radio, produceva una “radiazione” tutta particolare, in modo totalmente naturale. Questo fenomeno era talmente raro che avrebbe potuto essere lasciato perdere.

C’era un altro fenomeno tutto da capire: com’erano fatti i nuclei degli atomi. Sembrava dovessero essere fatti soltanto con particelle cariche positivamente e dette “protoni”. Motivo: la parte esterna degli atomi era fatta di particelle cariche negativamente e dette “elettroni”. Sembrava non dovesse esserci bisogno d’altro per garantire carica zero alla materia. Anche gli spaghetti debbono essere elettricamente neutri, altrimenti farebbero scintille e noi non potremmo mangiarli. Qualunque tipo di materia per evitare scintille di ogni tipo deve essere fatta con lo stesso numero di particelle cariche di segno opposto: protoni ed elettroni sembravano risolvere il problema.

Però quel raro fenomeno della radioattività faceva nascere qualche dubbio. E Majorana pensò a una particella pesante come il protone, ma senza carica elettrica. Il gruppo dei quattro ragazzi lo chiamò “neutrone”. Purtroppo Majorana non pubblicò quell’idea e quando (1932) a Cambridge venne scoperto il neutrone i quattro ragazzi non poterono far altro che impegnarsi per essere in prima linea nel capirne le proprietà. Sarebbe stato impossibile nelle strutture accademiche della vecchia Italia permettere a un gruppo di giovani lo studio degli effetti di quelle

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particelle appena scoperte e dette “neutroni” le cui proprietà erano ancora tutte da capire.

In quelle nuovissime particelle c’era un’impensabile serie di formidabili novità. La più importante è la scoperta di una nuova Forza Fondamentale della Natura, che Fermi chiamò “debole” e che oggi porta il suo nome. L’uso dei neutroni lenti fece scoprire ai quattro ragazzi la radioattività artificiale che doveva portare all’accensione del fuoco nucleare di pace – il primo esempio di fuoco che non dipende dal Sole.

La libertà scientifica di cui godevano i quattro ragazzi era dovuta ai due “Santi Protettori”. Prova ne fu che, quando nel giro di pochi mesi scomparvero Marconi e Corbino, Enrico Fermi non riuscì nemmeno a essere nominato Direttore dell’Istituto di Fisica dell’Università di Roma. Fermi avrebbe voluto creare l’Istituto Nazionale di Radioattività e invece fu costretto ad abbandonare l’Università di Roma anche perché, dopo la morte dei due “Santi Protettori”, furono varate in Italia le sciagurate leggi razziali che costrinsero Segré, vincitore della Cattedra di Fisica dell’Università di Palermo, ad abbandonare il suo Paese. Enrico Fermi incluse Segré nella lista “riservata” dei giovani ebrei cacciati dalle Università Italiane affinché venissero accolti dalle Università USA.

Ho avuto il privilegio e la fortuna di conoscerlo nel 1956 a Ginevra dove la sua relazione sulla scoperta dell’antiprotone era al centro di quel Congresso mondiale dei fisici.

Uno dei più famosi fisici USA aveva scommesso mille dollari che l’antiprotone non sarebbe mai stato scoperto.

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Quell’assegno non venne incassato ma messo in cornice ed esposto nello studio del Direttore del Laboratorio in cui Segré aveva scoperto l’esistenza del primo esempio di antiparticella diversa dall’antielettrone. C’era in gioco una Legge di Simmetria Fondamentale: se esiste una particella deve esistere la sua antiparticella. La base di questa Simmetria era la famosa equazione di Dirac. Equazione la cui validità andava però messa al vaglio della prova sperimentale: caso per caso.

Infatti l’elettrone e l’antielettrone sono esempi di “particella” e “antiparticella” che operano usando solo le forze elettromagnetiche (quelle che permettono l’esistenza di Radio, TV, computer, Internet ed elettrodomestici di varia natura).

Il protone è una particella che opera usando, oltre alle forze elettromagnetiche, anche quelle nucleari (che agiscono nel cuore degli strumenti di medicina nucleare oltre che nei reattori che producono energia e nelle tecnologie che i nostri posteri useranno). Domanda: essendo in gioco le forze nucleari chi può essere sicuro che – anche nel caso del protone – vale la simmetria stabilita nel caso dell’elettrone? Ecco perché il fronte dei fisici era diviso. E c’era chi scommetteva addirittura mille dollari.

Segré era molto fiero di un’altra sua scoperta: quella del primo elemento artificiale, che battezzò Tecnezio. Ed era orgoglioso di essere stato tra i fisici che, lavorando al Progetto Manhattan, si erano impegnati per evitare che l’Europa finisse sotto il dominio della ferocia nazista. Non bisogna dimenticare – amava ripetere Segré – che il progetto-bomba-nucleare nazista

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aveva un vantaggio di ben tre anni sul “nostro progetto”. Fu Segré con Kennedy, Seaborg e Wahl a dimostrare che il Plutonio poteva essere usato come combustibile nucleare e come esplosivo. Era ad Alamagordo quando il gruppo di scienziati europei ebbe la certezza che non sarebbe stato Hitler con le sue bombe nucleari a dominare l’Europa.

Rendiamo omaggio a uno scienziato che si distinse anche per impegno civile e modestia scientifica. «Quando parlerete di me non ricordatemi come “allievo di Fermi”. Lui era il Papa. Noi soltanto Cardinali.» I quattro ragazzi di via Panisperna hanno scritto una pagina gloriosa nella Storia della Scienza, non solo per quello che hanno fatto con Fermi, ma anche e soprattutto per i contributi da loro dati con scoperte e invenzioni al progresso delle nostre conoscenze scientifiche. Mi sia permessa una nota di gratitudine personale. Nei tempi difficili di due miei progetti, il Centro di Erice e il Laboratorio del Gran Sasso, Segré fu al mio fianco.

IV.3Dirac: l’uomo che seppe immaginare l’Antimateria (A37-02)

I buchi neri non sono la fine del mondo ed è possibile che tutto – Stelle, Galassie, oceani e montagne – abbia avuto inizio partendo da un gesto fatto solo d’energia. Affinché queste idee potessero entrare nel cuore della Scienza c’era bisogno di qualcosa cui nessuno aveva pensato fino al 1929. Il merito va a Paul Dirac. Vediamo perché. Incominciamo dai buchi neri.

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È vero che in un buco nero non c’è più Tempo né Spazio: entrambe queste quantità sono ridotte quasi a zero. Però, pur essendosi annullato lo scorrere del Tempo e pur essendo lo Spazio ridotto a poco più di un minuscolo punto, tutte le cariche restano lì. Cosa sono le cariche? Se un bicchiere di vino non salta in aria, trasformando la sua massa in energia, il merito va alle cariche. Un bicchiere di vino ha infatti una massa di cento grammi circa. Se questa massa si trasformasse in energia – come vorrebbe la famosa equazione di Einstein – la potenza devastante sarebbe trenta volte più tremenda di Hiroshima. Nel bicchiere di vino ci sono miliardi di cariche elettriche e subnucleari. Esse vanno immaginate come “lucchetti” che bloccano la massa impedendole di trasformarsi in energia. In un salvadanaio se non ci fosse il lucchetto, qualunque persona potrebbe aprirlo per trasformare i soldi in beni di consumo qualsiasi. La massa di cui è fatta ogni cosa, se non fosse per il lucchetto delle cariche, si trasformerebbe in energia. E noi non potremmo esistere. Nulla potrebbe esistere se Colui che ha fatto il mondo avesse dimenticato di creare, oltre allo spazio, al tempo e alla massa, anche le cariche.

Non è un dettaglio da poco. Fu quello che capì uno dei giganti della Fisica del ventesimo secolo: Paul Dirac. Erano i tempi della Prima Guerra Mondiale. Per sua fortuna non lo accettarono come recluta e restò così a Cambridge a studiare le ultime novità della Fisica di quei tempi. Era rimasto colpito dalla scoperta di Lorentz sulla natura non “reale” della miscela di cui è fatto il mondo, inclusi noi stessi. Secondo Kant lo Spazio e il

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Tempo avrebbero dovuto essere le due colonne portanti della realtà: entrambe reali. Quanti anni hai? Gli anni sono una quantità di Tempo “reale”. Mi dai un litro d’acqua? Il volume di un litro è una quantità, anch’essa “reale”, di Spazio. Almeno così a noi sembra.

E invece Lorentz – studiando con estremo rigore matematico la sintesi di tutti i fenomeni elettrici, magnetici e ottici – era arrivato alla conclusione che, se lo Spazio è reale, il Tempo deve essere immaginario. E viceversa. Una miscela così fatta si chiama “complessa”. Dirac riuscì a descrivere come evolve, in questa miscela “complessa”, la cosa più semplice che esista in natura: l’elettrone.

A prima vista potrebbe sembrare banale. Molti avevano provato ma nessuno era riuscito nell’impresa. Fu Dirac, nel 1929, a toccare il traguardo, scrivendo l’equazione che porta il suo nome. Quell’equazione è carica di novità che nessuno – filosofi, poeti, artisti, pensatori e gli stessi scienziati del tempo – era riuscito a immaginare. Ecco la più incredibile: deve esistere l’antielettrone. Cosa vuol dire “anti”?

Nella vita quotidiana diamo ad “anti” un significato banale. Churchill fu l’anti-Hitler. Ma se avessimo costretto Churchill a stringere la mano a Hitler, entrambi sarebbero rimasti come prima. Il vero anti-Hitler invece mai potrebbe dare la mano a Hitler. Entrambi si annullerebbero a vicenda, trasformandosi in energia. L’equazione di Dirac porta a scoprire l’annichilazione.

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Per distruggere le cariche rimaste nel buco nero sarebbe necessario mettere in quel buco lo stesso numero di anticariche. Siccome di anticariche nel cosmo non ce ne sono più, il buco nero continuerà a esistere.

L’opposto dell’annichilazione è la creazione. Partendo da energia pura si creano cariche e anticariche. Noi siamo fatti di cariche ed è per questo che possiamo esistere. Le anticariche sono sparite istanti dopo il Big Bang. Come, non si è ancora capito. Una cosa è però sicura. Se non fossero state scoperte le anticariche sarebbe impossibile il “Fiat-lux”.

Didascalia n. 1: L’otto agosto di cent’anni fa nasceva, da padre svizzero e madre inglese, Paul Adrian Maurice Dirac.

Didascalia n. 2: Nei libri di Storia della Scienza che saranno scritti fra qualche migliaio di anni un nome sarà certamente presente: quello di Paul Dirac. Con esso si apre un orizzonte nuovo nello studio dell’Universo. Non basta la materia per descriverlo, la materia a noi familiare. C’è bisogno di ben altro: qualcosa che nessuno aveva saputo immaginare nei diecimila anni di civiltà fino al 1929: le Antiparticelle e l’Antimateria.

IV.4Werner Heisenberg: l’uomo che scoprì il “principio d’Indeterminazione”. Un gigante della Scienza del XX secolo ingiustamente dimenticato (A7-02)

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“Cara mamma, sono soddisfatto di intravedere in quel piccolo settore della Scienza in cui lavoro i valori che diventeranno importanti per il futuro della nostra società”. È l’autunno del 1935. L’autore è Werner Heisenberg, scopritore, nel 1927, di una delle leggi più innovative della Scienza galileiana: il principio detto di “indeterminazione”. Fino al marzo del 1927 si era pensato che qualsiasi misura di una quantità fisica potesse essere fatta senza alcun limite alla sua precisione. Heisenberg scoprì invece che l’Energia e il Tempo sono variabili “coniugate”. E se misuro bene il Tempo, non posso altrettanto bene misurare l’Energia. Meglio misuro una quantità, peggio le cose mi vanno con l’altra ad essa “coniugata”. Crolla il mito delle misure perfette per qualsiasi quantità fisica. È infatti necessario fare attenzione alle quantità fisiche “coniugate”. Non è possibile misurarle con precisione piccola a piacere. C’è un limite sotto il quale nessuno potrà mai andare. Questo limite è fissato da una “costante fondamentale” della Natura. Una quantità che non potrà mai cambiare. Tra un milione, un miliardo di anni, avrà lo stesso valore di oggi. Essa è detta “costante di Planck”.

Max Planck (1858-1947) scoprì infatti che se questo foglio ci appare continuo il motivo è pura illusione ottica. Le “palline di luce” che vengono riflesse dalle molecole che compongono il foglio sono troppo grandi rispetto alla struttura molecolare che costituisce il piano del foglio su cui sono impresse le frasi che Lei lettore sta leggendo. Una pallina di luce è grande come milioni e milioni di molecole. Se le palline

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fossero più piccole, invece della superficie apparentemente liscia del foglio, vedremmo ciò che vedono i microscopi: montagne e valli fatte di molecole. Con microscopi potenti, come quelli in uso nei nostri laboratori, riusciremmo a vedere la struttura atomica delle molecole. E scopriremmo che gli atomi sono fatti dalle stesse particelle: elettroni, protoni e neutroni. L’atomo di Carbonio (presente nelle cellule del nostro corpo, nei diamanti e in questo foglio) è fatto con sei elettroni, sei protoni e sei neutroni. L’atomo di Ossigeno (presente nell’acqua che beviamo e nell’aria che respiriamo) è fatto con otto elettroni, otto protoni e otto neutroni. Non esiste l’atomo fatto con otto elettroni e mezzo. Né con otto protoni e mezzo. Il numero di particelle deve essere sempre intero. È una conseguenza della struttura “quantistica” della materia. Una struttura che Max Planck scoprì nel 1900 studiando la luce. Ed è al padre della struttura quantistica del Creato che Heisenberg si rivolse nel 1938, cinque anni dopo la conquista del potere da parte di Hitler. Planck aveva infatti assicurato Heisenberg che nel giugno del 1933 era andato dal Furher e aveva ricevuto l’impegno che la Scienza non sarebbe stata attaccata dai nazisti. E invece, nell’Università di Lipsia, nel marzo del 1935, un gruppo di professori non-Ariani veniva congedato senza motivo. Heisenberg prese la parola in Consiglio di Facoltà per condannare quell’atto. L’unico risultato fu che i nazisti incominciarono ad attaccarlo come “spirito dello spirito di Einstein”. La campagna diffamatoria contro Heisenberg raggiunse il suo apice con la nomina, nel 1939, del Direttore dell’Istituto di Fisica di Lipsia. Heisenberg aveva

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fondato una delle più prestigiose Scuole di Fisica. Di essa facevano parte Felix Bloch, Rudolf Peierls, Edward Teller, Victor Weisskopf, Carl Friedrick von Weizsäcker e il nostro Ettore Majorana, entrato in quel gruppo per raccomandazione di Enrico Fermi. C’erano anche alcuni giapponesi tra cui Tomanaga. Tutti nomi che sono già nella Storia della Fisica.

Heisenberg era diventato professore a Lipsia nel 1927. Il suo maestro era il grande Arnold Sommerfeld (1868-1951), uno dei padri della fisica atomica. Quando, raggiunta l’età della pensione, il posto di Direttore rimase vacante, non poteva che essere il fondatore della nuova Scuola di Lipsia – Heisenberg – il suo successore. E invece i nazisti imposero – come successore del grande Sommerfeld – un oscuro professore, Wilhelm Müller, che Sommerfeld definì “completamente idiota”.

La data del centesimo anniversario della nascita di Heisenberg – 5 dicembre scorso – è passata sotto silenzio per via delle accuse a lui rivolte per avere accettato di dirigere il progetto nazista della bomba nucleare. “Fare gli eroi quando al governo c’è una persona per bene è facile. Provate a farlo quando c’è Hitler”. Parole del grande Weisskopf. Al mitico Max Planck i nazisti uccisero il figlio; Planck aveva infatti rifiutato di far parte del gruppo di studio per la superbomba nazista con la scusa di essere troppo anziano. Planck consigliò Heisenberg – di oltre quarant’anni più giovane – a non mettersi nei guai rifiutando di dirigere il progetto. Sta di fatto che il progetto diretto da Heisenberg – pur essendo in vantaggio di tempo e di tecnologia su quello americano detto “Manhattan” (che portò

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alle bombe di Hiroshima e Nagasaki) – fallì. Io credo nella versione di alcuni storici secondo i quali il grande Heisenberg boicottò in silenzio il progetto di cui era Direttore. Agli storici che attribuiscono a incapacità scientifica il fallimento del progetto nazista dico di andare a rileggersi le lettere di Heisenberg alla madre e ai suoi maestri. Lettere intrise di amore per la Scienza e i suoi valori. E di disperazione per vedere come la sua Patria, culla di Arte e Scienza tra le più avanzate al mondo, stava mettendosi nelle mani di un politico incredibilmente ignorante e pazzo. Al padre del principio d’indeterminazione mi lega la profonda riconoscenza per essere stato tra i miei più autorevoli sostenitori nelle ricerche che portarono alla scoperta dell’Antimateria.

IV.5L’inventore del telefono. Finalmente la verità su chi inventò il telefono. Niente più decibel ma decimeucci (A29-02)

La trasmissione a distanza della nostra voce attraverso fili elettrici è entrata a far parte della vita di tutti i giorni eppure appena un secolo e mezzo fa nessuno ci credeva. La nostra voce può essere trasmessa a migliaia e migliaia di chilometri. Alla base di questa tecnologia ci sono i circuiti elettrici e le successive invenzioni le cui radici risalgono ad Antonio Meucci che, nel 1849, ebbe per primo l’idea di ciò che oggi chiamiamo “telefono”. Idea che gli venne “rubata” e adesso finalmente “restituita” con tutti gli onori dal Parlamento Americano, grazie all’iniziativa di un deputato del partito del Presidente Bush.

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Fino a poco tempo fa, come recitano tutte le enciclopedie, si riteneva che l’inventore del telefono fosse Alexander Graham Bell (1847-1922). E infatti, in suo onore, le intensità dei suoni sono espresse in “bel” (B) e in unità dieci volte più piccole, dette decibel (dB). Un decibel rappresenta la più piccola variazione sonora percepibile dal nostro udito. Come abbiamo già visto su F.C. 10 in una normale conversazione i livelli sonori sono sui 60 dB; nei concerti rock 120 dB. Dalla telefonia siamo arrivati alla telefotografia pensando sempre che all’origine di tutto c’era sempre e soltanto l’invenzione di A.G. Bell (da non confondere con il grande John Stewart Bell, autore del famoso Teorema sulla Meccanica Quantistica che porta il suo nome).

Come detto già, fu Antonio Meucci ad avere nel 1849 la prima idea del telefono, avendo scoperto che era possibile trasmettere suoni attraverso fili elettricamente attivi. E fu così che nel 1860 – dopo avere realizzato molte decine di modelli diversi di telefono – presentò al pubblico la sua invenzione trasmettendo la voce di un suo amico cantante d’opera attraverso chilometri e chilometri di filo telefonico. La notizia fu ripresa solo dai giornali in lingua italiana pubblicati a New York in quanto nessuno credeva che la voce potesse essere trasmessa attraverso un filo elettrico. Meucci voleva brevettare la sua invenzione ma non aveva i soldi per farlo. Dopo tante vane ricerche di finanziamenti, riuscì, con i suoi pochi soldi, a farsi rilasciare – nel 1871 – un brevetto della durata di un anno, rinnovabile. Però – sempre per motivi di natura economica – poté rinnovare il brevetto solo due volte. Cercò – senza successo

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– di interessare la WTC (Western Telegraph Company) alla sua invenzione mettendo in giro i suoi telefoni perché se ne verificasse la validità.

Non poteva credere a quel che scrivevano i giornali nel 1876: A.G. Bell ha inventato il telefono. Ebbe così inizio una complessa vicenda giudiziaria per stabilire le priorità che, solo nel 1886, la Corte Suprema dichiarò accertate definitivamente in favore di Meucci che però tre anni dopo moriva in miseria nella sua povera casa di Clifton. La vittoria fu solo morale in quanto già dal 1873 il brevetto di Meucci era scaduto.

Poche settimane fa il deputato repubblicano Vito Fossela, che risiede a Staten Island, ha fatto approvare una risoluzione in cui la Camera USA riconosce ufficialmente come inventore del telefono l’italiano Antonio Meucci. Il voto è anche merito del “Garibaldi-Meucci Museum” di Staten Island (New York) che ha lanciato una campagna per far conoscere i meriti dell’inventore fiorentino. Antonio Meucci era infatti nato a Firenze nel 1808. Emigrato a Cuba venne assunto dal Teatro dell’Opera di Avana (1833—1841) per realizzare i complessi meccanismi necessari agli spettacoli. Successivamente si trasferì in un villaggio vicino a New York (Clifton on Staten Island) dove nel 1851 accolse Giuseppe Garibaldi, profugo dalla difesa di Roma, prima che si imbarcasse per il Sud America dove doveva diventare “l’eroe dei due mondi”. Fu proprio in quel periodo che Meucci avendo avuto l’idea del telefono costruì il primo modello che chiamò “teletrofono”.

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La risoluzione del Parlamento Americano rende omaggio alla sua carriera “straordinaria e tragica” e ritiene “che la vita, il lavoro, i risultati e l’invenzione di Antonio Meucci debbano ottenere il giusto riconoscimento”. Adesso in tutte le enciclopedie bisogna cancellare il nome di A.G. Bell e sostituire i decibel (dB) con decimeucci (dM).

IV.6Guglielmo Marconi: la sua genialità dopo cent’anni dal primo collegamento oltreoceano (A49-01)

La prima trasmissione telegrafica transoceanica tra l’Inghilterra e il Canada avvenne cent’anni fa, il 12 dicembre 1901. Il Canada con una serie di monete da cinque dollari e la Gran Bretagna con una serie di monete da due sterline rendono omaggio a Guglielmo Marconi.

Aveva 21 anni quando riuscì a trasmettere i tre punti dell’alfabeto Morse (che corrispondono alla lettera S) al di là di una collina. Era la prova galileiana che le onde dette “hertziane” riuscivano a superare ostacoli naturali. La luce no. Non supera ostacoli. Se la luce del Sole batte su una collina, un lato è illuminato l’altro lato è in ombra. Ma le onde “hertziane” prodotte dal giovane Marconi si propagavano in modo straordinariamente interessante. Erano distanze piccole. Il 27 marzo 1899 Marconi riesce a stabilire una trasmissione radiotelegrafica attraverso la Manica per una distanza di ben 18 km. L’ostacolo da superare era adesso legato alla curvatura terrestre. La luce va dritta, non gira attorno alla Terra. Cosa faranno le onde “hertziane”? Con due stazioni poste a 300 km –

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una in Cornovaglia (a Capo Lizard) e l’altra nell’isola Wight (a Santa Caterina) – Marconi riesce a stabilire un contatto radiotelegrafico. La curvatura della Terra non era più un problema (vedremo poi perché).

Prova del fuoco, il salto transatlantico. Marconi costruisce e mette a punto due stazioni: una trasmittente a Poldhu in Cornovaglia e una ricevente a Signal Hill, in Terranova. Come detto già, il 12 dicembre 1901, Guglielmo Marconi riceve i tre soliti punti dell’alfabeto Morse lanciati dall’altro lato dell’Oceano.

La cosa stupì il mondo: non erano più necessari i cavi sul fondo dell’Oceano per trasmettere segnali Morse. Bastava un’antenna. Un anno dopo, sempre in Terranova, Marconi costruisce una potente stazione radiotrasmittente trans-oceanica. Ai due lati dell’Oceano ci sono Theodore Roosevelt ed Edoardo VII che si scambiano auguri e messaggi di amicizia per il futuro dei popoli.

Il 23 gennaio 1909, grazie al perfetto servizio radiomarittimo stabilito a bordo di molte navi, viene fatta una formidabile azione di salvataggio dei passeggeri imbarcati nei piroscafi “Florida” e “Republic” che – a causa della nebbia – si scontrano in pieno Atlantico. L’invenzione della trasmissione dei messaggi senza fili commosse il mondo quando (1912) fu possibile salvare la maggior parte dei passeggeri del transatlantico “Titanic”. Marconi non si fermò alla trasmissione dei segnali Morse. Perfezionò i trasmettitori radiotelegrafici riuscendo così a scoprire che era possibile trasmettere e ricevere,

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non solo i segnali Morse, ma anche suoni e parole. Si passa così dalla radiotelegrafia alla radiotelefonia.

Alla base di queste conquiste ci sono 150 anni di esperimenti di stampo galileiano culminati nella sintesi maxwelliana che dice: la luce è fatta di onde elettromagnetiche la cui origine è semplicissima. Basta fare “oscillare” una carica elettrica. Se essa oscilla 400 mila miliardi di volte al secondo, avremo luce rossa. Facendola oscillare 750 mila miliardi di volte al secondo, avremo luce violetta. Se invece facciamo oscillare una carica elettrica appena diecimila volte al secondo, avremo onde radio (quelle dette lunghe).

Che la luce esiste sono gli occhi a dircelo. Che fosse possibile produrre onde elettromagnetiche (diverse dalla luce) facendo “oscillare” una carica elettrica fu Heinrich Hertz (1857-1894) a dimostrarlo. E a provare che sono onde facendole riflettere, rifrangere e riuscendo addirittura a focalizzarle: come si fa con la luce. Hertz produceva onde elettromagnetiche e le raccoglieva a piccola distanza dal punto di produzione. La genialità di Marconi sta nell’avere inventato un’antenna per trasmettere e un’altra per ricevere le stesse onde. La prima volta effettuò una trasmissione fuori dalla portata di voce, ma a vista. Si pensava infatti che le onde elettromagnetiche – proprio in quanto identiche alla luce – non potessero attraversare gli ostacoli. Guidato dall’insegnamento della riproducibilità galileiana, Marconi chiese al suo assistente di mettersi dietro una collina per stabilire se le onde elettromagnetiche da lui prodotte potevano superare ostacoli come fanno le onde acustiche.

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L’assistente di Marconi sparò un colpo di fucile per comunicare di avere ricevuto il segnale via antenna. Le equazioni di Maxwell dicevano che le onde elettromagnetiche per propagarsi non avevano bisogno di alcun mezzo materiale. Le onde sonore non si possono propagare nel vuoto. Le onde elettromagnetiche invece si. Anzi si propagano meglio nel vuoto che in qualsiasi altro mezzo materiale. Una certezza guidava Marconi: la riproducibilità sperimentale. E questa diceva a chiare lettere che le onde elettromagnetiche si propagavano da un qualsiasi punto del globo terrestre a un qualsiasi altro punto: un fenomeno totalmente inaspettato e apparentemente misterioso.

Spiegazione del mistero. La nostra Terra è come avvolta da sottilissimi strati che riflettono le onde radio. Le onde elettromagnetiche prodotte da Marconi non giravano (né girano) attorno alla Terra. Esse venivano (e vengono) riflesse da questi strati di Aria ionizzata: fatta cioè di elettroni liberi e di atomi e molecole cui mancano quegli elettroni. È la radiazione cosmica e soprattutto quella solare che strappa gli elettroni dalle molecole e dagli atomi. Gli strati d’Aria ionizzata sono tre. Il primo è a una altezza media di 75 km, il secondo a 120 km e il terzo va oltre i 250 km. Le onde radio vengono riflesse da questi strati ionizzati detti Ionosfera.

Furono Kennelly e Heaviside – nel 1902 – a ipotizzare l’esistenza dell’Ionosfera al fine di spiegare il successo degli esperimenti di trasmissione transoceanica di Marconi. C’è voluto un quarto di secolo per accertarne l’effettiva esistenza. Ancora

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oggi essa viene studiata con strumenti installati a bordo dei satelliti artificiali.

La genialità di Marconi sta nell’avere scoperto una serie di fenomeni che erano in contrasto con le previsioni teoriche e che sarebbero stati capiti quale risultato della esistenza della Ionosfera, dopo diversi decenni. Marconi riuscì a trasmettere, il 12 dicembre 1901, i suoi segnali-radio da un lato all’altro dell’Oceano Atlantico senza sapere nulla della Ionosfera.

IV.7Oreste Piccioni e l’avventura delle “particelle inutili” (A17-02)

«L’esperimento del muone è quello che è rimasto nel mio cuore». Me lo disse mezzo secolo fa a Ginevra Oreste Piccioni. Ero lì per partecipare alla Conferenza Mondiale dei fisici ed è in quell’occasione che ebbi il privilegio di incontrare uno dei più famosi fisici italiani. Voglio ricordarlo con immensa gratitudine per essere stato negli anni sessanta un mio forte sostenitore quando decisi con John Bell, Blackett, Rabi e Weisskopf di dar vita a una Istituzione per portare in Italia l’insegnamento di Enrico Fermi.

Già cinquant’anni fa, Fermi voleva che la Scienza superasse le barriere ideologiche, politiche e razziali, tenendo fermo un solo principio: privilegiare le scoperte e le invenzioni. Oreste Piccioni difese con determinazione quell’impresa ed era un elemento di punta affinché potesse nascere in Italia un’Istituzione che, alle frontiere della Scienza, operasse dando la priorità assoluta all’insegnamento di Fermi. Piccioni aveva al

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suo attivo un’impresa senza precedenti. In piena II Guerra Mondiale era riuscito a progettare e costruire, con Ettore Pancini e Marcello Conversi, un dispositivo sperimentale di eccezionale originalità.

Quello che sarebbe stato scoperto nessuno l’aveva saputo immaginare. L’aria che respiriamo, il mare, gli alberi, le montagne, lo stesso nostro corpo è fatto a partire da appena tre particelle. Due pesantissime (protone e neutrone) e una leggerissima (l’elettrone). Con queste tre particelle si può fare qualsiasi cosa. Che bisogno c’è di cercarne altre? E invece c’era qualcosa di nuovo che solo Colui che ha fatto il mondo poteva conoscere. Questa novità si trovava (e si trova) nella radiazione detta “cosmica” in quanto viene dalle remote zone dello spazio cosmico. Piccioni aveva progettato il suo esperimento per chiudere il capitolo delle tre particelle con le quali si poteva fare l’oro, l’argento, gli spaghetti e le pietre, le farfalle e le rondini, insomma tutto. Per chiudere mancava la “colla nucleare”. Un pezzo d’oro o di qualsiasi altro elemento chimico è fatto di molecole e di atomi. Le molecole e gli atomi possono esistere grazie alla colla “elettromagnetica” (di cui la luce è un esempio). È infatti questa colla che permette agli elettroni di stare fuori dai nuclei (fatti di protoni e neutroni) per fare le strutture atomiche e molecolari. Ed ecco il problema: qual è la colla che tiene insieme protoni e neutroni? I neutroni – lo dice la stessa parola – sono elettricamente neutri: come fanno a incollarsi con i protoni? Risposta: deve esistere la “colla” nucleare. Nel 1936 Anderson e

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Nedermayer scoprirono che nei raggi cosmici c’è una particella. Sembrò proprio la tanto sperata “colla nucleare”.

Piccioni, con Pancini e Conversi, decide di studiarne le proprietà. Ed ecco l’incredibile risultato: quella particella non ha affatto le proprietà tipiche della “colla nucleare”. Enrico Fermi si entusiasma e, insieme a Edward Teller e Victor Weisskopf, analizza le conseguenze di quella scoperta.

Si apre così un orizzonte nuovo nella Scienza galileiana del XX secolo: la fisica delle particelle totalmente inutili per fare il mondo a noi familiare.

È come se all’Aeroporto di Ginevra ci fossero sulla pista due aerei identici per assicurare il volo Ginevra-Roma: stessi motori, stesso servizio, stessi comfort. Insomma identici. Ma in uno si paga duecento volte di più. Forse c’è qualche sorpresa piacevole che giustifica il prezzo. Per esserne sicuri bisogna provare. Arrivati a Roma ci si accorge che l’unica diversità tra i due aerei è il prezzo.

Duecento volte di più è la massa della particella che tutti pensavano “colla nucleare” e che era invece con proprietà identiche a quelle del leggerissimo elettrone. Altro che “colla nucleare”!

Nasce così il “muone”: identico all’elettrone ma dotato di una massa duecento volte più grande. La Natura non spreca le masse per fare capricci. E ancora oggi non sappiamo per quale motivo il muone abbia una massa duecento volte più grande di quella dell’elettrone che è nei nostri atomi.

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L’avventura delle “particelle inutili” è oggi al centro dell’attenzione in quanto queste particelle inutili non sono. Anzi. Esse sono essenziali per farci capire la Logica del Creato, il cui traguardo finale è ancora lontano. Forse è il Supermondo. Forse no. Una cosa è certa. Solo quando saremo arrivati al traguardo sapremo perché il muone pesa duecento volte più dell’elettrone. Oreste Piccioni adesso lo sa.

IV.8Victor Weisskopf il padre della realtà virtuale: uno scienziato cui l’Europa deve molto (A31-02)

«Ragazzi, quando parlerete di me, lasciate perdere incarichi e onori, raccontate qualcosa di ciò che ho fatto come fisico».

È quello che farò, avendo avuto la fortuna e il privilegio di conoscerlo quand’era all’apice della sua potenza scientifica. Fu mio maestro e fermo sostenitore della mia attività scientifica. Amava ricordare i suoi primi passi. E che passi! Racconterò l’episodio più bello. Quello che ha dato inizio al calcolo della realtà “virtuale”.

Fu lui infatti il primo ad avventurarsi nel terreno inesplorato dei fenomeni detti “virtuali”. Immaginiamo uno strumento talmente potente da potere osservare qualsiasi fenomeno; anche se esso avviene nel cuore intimo della materia. Uno strumento cui nulla può sfuggire. Ebbene non è così. Questo potentissimo strumento non potrà mai osservare in modo diretto i fenomeni detti “virtuali”. Prima degli anni '30 sarebbe stato impossibile immaginare l’esistenza di questa realtà. Eppure –

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adesso che è diventata pane quotidiano nei nostri laboratori – essa ci appare quasi scontata.

Partiamo da un chicco di caffè. Esso è fatto con miliardi e miliardi di atomi. Ciascun atomo ha come “nuvola” esterna uno (se è Idrogeno) o tanti elettroni. L’elettrone è dotato di carica elettrica. Il sapore del caffè dipende da questa carica. La luce di una lampadina è emessa dagli elettroni che ci sono negli atomi che compongono il filamento della lampadina. Se l’elettrone non avesse carica elettrica non potrebbe produrre la luce, che è fatta di “pezzettini” o “quanti” cui si dà il nome di “fotoni”. Era noto che i fotoni emessi da un elettrone possono essere assorbiti da altri elettroni. Se così non fosse non potremmo vedere alcunché. Infatti i fotoni emessi dagli elettroni del filamento della lampadina sono assorbiti dagli elettroni che ci sono negli atomi che fanno la retina dei nostri occhi. Il segnale elettromagnetico viene trasmesso ai nervi ottici e quindi al cervello che traduce quei fotoni nella sensazione cui diamo il significato di “luce”. Insomma se il fotone emesso da un elettrone non potesse essere assorbito da altri elettroni, addio vista. Ed ecco la domanda da cui nasce la realtà “virtuale”.

Se è vero che l’elettrone emette un fotone, può lo stesso elettrone assorbire quello stesso fotone? La risposta è positiva, ma il fenomeno non è osservabile. Infatti, se osservassimo quel fotone, l’elettrone non lo potrebbe più ricevere in modo diretto. Ecco un esempio semplicissimo di realtà “virtuale”. Essa – pur non essendo direttamente osservabile – produce effetti

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calcolabili e rigorosamente riproducibili. Fu quello che scoprì il giovane Weisskopf.

La storia di questa formidabile nuova realtà ha dell’incredibile. Invece del semplicissimo fenomeno “virtuale” da me descritto (grazie al “senno del poi”) il giovane Weisskopf – trascinato dal fascino di queste straordinarie novità – calcolò un fenomeno “virtuale” molto complesso e concluse che l’effetto era piccolo, ma un giorno sarebbe stato misurabile. Nel 1947 un fisico della Columbia (Willis Lamb) e un suo collaboratore misurarono l’effetto virtuale semplicissimo da me citato, scoprendo che era dieci volte più grande di quanto aveva previsto il giovane Weisskopf. È facile (col “senno di poi”) capirne il motivo. Più complicati sono i fenomeni virtuali in gioco, più piccoli sono gli effetti misurabili.

I contributi di Weisskopf al progresso delle nostre conoscenze sono tanti che sarebbe far torto alla sua memoria citarne alcuni, non tutti.

Quello che rende unico nel XX secolo Victor F. Weisskopf è l’essere stato grande scienziato, eccezionale Maestro e dotato di qualità umane difficilmente eguagliabili. L’Europa scientifica ha un debito enorme verso di lui. Il CERN (Centro Europeo Ricerche SubNucleari) lo ebbe come guida scientifica, morale e materiale negli anni cruciali della sua giovane esistenza, dal 1961 al 1965: la prima impresa scientifica europea che si trovava a competere con i colossi USA. La sua responsabilità di Direttore Generale del CERN fu determinante per creare quello che oggi è noto nel mondo come lo “spirito del

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CERN” in cui primeggia l’eccellenza scientifica. Nella Fisica Subnucleare l’Europa è oggi in prima fila, grazie al grande Weisskopf.

1 È scomparsa una figura mitica della Scienza cui l’Europa deve molto. “Lo spirito del CERN lo ha creato Weisskopf”, ha detto Louis Leprince-Ringuet, fondatore della Scuola Francese di Fisica Subnucleare.

2 Nato a Vienna il 19 settembre 1908 si è spento nel Massachussetts all’età di 93 anni. Era Professore emerito del prestigioso MIT di Boston, il Centro Universitario Scientifico e Tecnologico più avanzato d’America dove aveva fondato la Scuola di Fisica Teorica che ha avuto un ruolo determinante nello sviluppo dei concetti più avanzati della Fisica Subnucleare.

IV.9Ma l’arcobaleno pesa? (S39-01)«Vorremmo sapere cos’è l’arcobaleno e se è vero che

pesa», ci chiedono alcuni lettori. L'Arcobaleno consta di minuscole particelle d’acqua che agiscono sulla Luce scomponendone i colori. La Luce è fatta dalla somma di tanti colori. Essi, messi insieme, danno Luce bianca. Però questa Luce bianca — questa somma — può essere suddivisa nelle sue parti. Luce blu vuol dire alta energia. Luce verde meno alta. Luce rossa bassa energia. Più bassa è l’energia meno viene deflessa

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dalla materia di una sostanza trasparente. Quando la Luce bianca entra in una goccia d'acqua, la Luce blu viene deflessa molto, quella verde meno, quella rossa ancor meno. Le particelle d'acqua che sono nell'Atmosfera suddividono la Luce bianca nelle sue componenti colorate. Ecco perché vediamo i colori dell’Arcobaleno. Se non fosse per le gocce d'acqua sospese nell’Aria, la Luce non potrebbe essere suddivisa nei suoi colori; addio quindi Arcobaleno. Sono le gocce d'acqua che producono l’Arcobaleno. Le gocce d’acqua hanno massa e qui sulla Terra pesano, come qualunque altra cosa: le pietre e la stessa aria. Ecco perché anche l'Arcobaleno ha un peso.

IV.10 La Logica del Creato: massa, energia e cariche subnucleari (A40-01)

Se non fosse per quella quantità fisica cui diamo il nome di massa, un chilo di spaghetti non potrebbe esistere; né un lingotto d’oro. Né noi stessi.

La massa è fondamentale per la nostra esistenza. Tutto lì? Sembrava di sì fino a cent’anni fa quando, dopo due secoli di esperimenti galileiani usando l’elettricità, il magnetismo e l’ottica, venne scoperto un legame profondo tra massa ed energia. Fino ad allora si era pensato che una colonna di marmo è robusta in quanto dotata di grande massa. Le nuvole no, in quanto, a prima vista, di massa sembrano non averne. Se è vero che la stabilità della materia dipende dalla massa, allora il legame con l’energia non dovrebbe esistere. Se esistesse, la massa potrebbe sparire trasformandosi in energia. L’esperienza

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di tutti i giorni sembra dirci che la massa non cambia mai, l’energia sì. Se io cammino, ho energia di movimento, detta cinetica. Se mi fermo la perdo. Però la massa del mio corpo è tutta lì. Non è cambiata. Energia e massa dovrebbero essere totalmente indipendenti. E invece no. Gli esperimenti dicevano che c’è un legame profondo.

Galilei insegna che la verità sperimentale è l’unica fonte di certezza per sapere la Logica seguita da Colui che ha fatto il mondo. Quel legame aveva tolto il sonno ai nostri nonni.

Gli ultimi cent’anni di esperimenti hanno corroborato questo legame. Oggi nei nostri laboratori, qui a Ginevra, e anche in USA, in Cina, nell’ex-URSS, si studia la trasformazione di energia in massa. Come si spiega allora, che un piatto di spaghetti non si trasforma, in energia? Se avvenisse, la deflagrazione sarebbe trecento volte più potente della bomba di Hiroshima. Anche una colonna di marmo dovrebbe potersi trasformare in energia. L’effetto sarebbe milioni di volte più devastante di Hiroshima. Ci salva quella quantità fisica cui diamo il nome di “carica”. Più esattamente “carica di sapore subnucleare”. A fare un piatto di spaghetti, un lingotto d’oro, una colonna di marmo sono particelle dotate di massa e di cariche dette in gergo specialistico “di sapore subnucleare”.

A evitare la trasformazione di massa in energia sono queste cariche. Oggi siamo sicuri che esse sono ben dodici. Negli spaghetti, nel lingotto d’oro, nella colonna di marmo, così come in tutte le forme di materia a noi familiare, ci sono appena tre delle dodici cariche. Le altre sono state di importanza

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fondamentale per l’evoluzione cosmica, iniziata venti miliardi di anni fa.

Se il Creatore avesse dimenticato queste tre cariche, non potremmo essere qui a discuterne. La massa di una colonna di marmo e di un qualsiasi altro tipo di materia (che è massa più cariche) non può trasformarsi in Energia in quanto è associata indissolubilmente alle cariche di sapore subnucleare. E queste sono indistruttibili.

IV.11 Un vetro per l’arte (N40-01)Utilizzando speciali filtri, presto sarà possibile proteggere

un’opera d’arte dal calore della luce e da altri agenti esterni, garantendo, nel contempo, al visitatore una visione perfetta. Ricercatori dell’Enea stanno mettendo a punto un vetro, ricoperto da sottilissimi strati di film, realizzati con degli ossidi, in grado di soddisfare entrambe le esigenze. Il progetto è stato illustrato al Centro “Ettore Majorana”, nel corso dei lavori della Scuola Internazionale di Elettronica Quantistica. Per impedire il passaggio attraverso il vetro dei raggi infrarossi e ultravioletti è necessario porre dei filtri in maniera da interferire sulla riflessione della luce. Ed è proprio la combinazione di queste riflessioni che permette al vetro trattato di avere le caratteristiche desiderate: proteggere l’opera d’arte, e dare ai nostri occhi una visione quasi identica dei colori in gioco nell’opera.

IV.11 L’aria è fonte di attrito (S40-01)

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Se nelle previsioni meteorologiche ignorassimo l’attrito dell’aria, concluderemmo che dovrebbe splendere il Sole là dove (per via dell’attrito nelle zone con montagne) sicuramente pioverà. Fu Galilei a scoprire che l’aria è fonte di attrito.

Cento milioni di miliardi di tonnellate non è cosa da poco. Ebbene è questa la quantità di materia che per millenni era stata considerata di fatto come entità inesistente e comunque trascurabile: la nostra atmosfera. Galilei scoprì l’enorme importanza che ha la resistenza dell’aria, per capire il moto dei corpi materiali. Incredibile ma vero. L’uomo avrebbe potuto scoprire l’attrito migliaia di anni prima che Galilei arrivasse al pendolo e al piano inclinato. Fu studiando come oscilla un pendolo e come rotola una sfera di marmo lungo un piano inclinato che Galilei scoprì le prime leggi del moto. Quindi l’attrito: una forza che si oppone al moto. E capì come mai una piuma e un martello – se non fosse per l’attrito dell’aria – cadrebbero esattamente allo stesso modo. Arrivando al suolo nello stesso istante.

Un pezzo di legno, per fare una superficie liscia sulla quale fare rotolare una pietra levigata tipo sfera, non era un’impresa tanto difficile. Bastava pensarci e avere qualcosa dentro cui fermamente credere. Quel qualcosa che bruciava dentro il grande Galileo Galilei era la certezza che non siamo figli del caos ma di una logica rigorosa che regge il moto delle pietre e l’Universo. Una scoperta ancora oggi di grande attualità.

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IV.12 Il sapore del caffè non cambia; la bellezza sì (F40-01)

Il sapore del caffè non cambierebbe se invece di andare dal Passato al Futuro invertissimo il segno del Tempo andando dal Futuro al Passato. Fu il grande Eugene Wigner a immaginare questa legge di simmetria fondamentale scoprendo quello che oggi è noto come “Teorema del Tempo”. Il sapore del caffè è un effetto dominato dalle Forze Elettromagnetiche. Che esse obbediscano al Teorema del Tempo è un risultato rigoroso da me ottenuto tanti anni fa.

Le Forze di Fermi (agiscono come valvola di sicurezza nel Sole) invece violano il Teorema di Wigner. Capirne il motivo è una delle frontiere della Fisica Moderna. Esperimenti attualmente in corso in USA sembrano indicare che anche in settori diversi da quelli finora studiati – quello dei quark con carica subnucleare denominata “beauty” (bellezza) – violano il teorema di Wigner. Questi risultati, se confermati, ci direbbero che nel cuore intimo della materia, la “bellezza” non può ignorare lo scorrere del Tempo. Esattamente come avviene nel nostro mondo macroscopico.

IV.13 Il Sole brilla più di neutrini che di luce (A41-01)

Dopo un lauto pasto ci consideriamo soddisfatti. Cosa mai potrebbe mancare alla nostra esistenza materiale? Eppure a quel lauto pasto non saremmo mai potuti arrivare se Colui che ha fatto il mondo avesse dimenticato i neutrini.

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A prima vista potrebbe sembrare assurdo che particelle di cui non abbiamo mai sentito parlare possano avere un ruolo di un qualsiasi rilievo nella consistenza di un lauto pasto.

Eppure è così. Senza quel dettaglio a noi poco familiare – i neutrini – noi non potremmo esistere. Vediamo perché.

Potremmo esistere se non ci fosse il Sole? Risposta: no. E il Sole non potrebbe esistere senza i neutrini. Cosa sono queste a noi sconosciute particelle? Anzitutto sono quasi prive di quella cosa di cui siamo tutti fatti: la massa. Se non ci fosse la massa, addio spaghetti, bistecche, e noi stessi saremmo figure geometriche evanescenti. I neutrini sono le particelle più leggere che si possano immaginare. Molto più leggere dei pur leggerissimi elettroni, che costituiscono la nuvola esterna e leggerissima degli atomi.

In un chilo di spaghetti, oltre il 99,9% della massa è dovuta ai nuclei atomici, fatti di protoni e neutroni, particelle duemila volte più pesanti degli elettroni. Niente però neutrini.

Per capire il loro ruolo nella nostra esistenza materiale ci sono voluti 350 anni di Scienza galileiana. È solo all’inizio degli anni trenta che sono stati scoperti i primi sintomi della loro esistenza. Oggi non c’è dubbio che, se con una bacchetta magica (non ne esistono) potessimo cancellare l’esistenza dei neutrini, il Sole si spegnerebbe.

Infatti, la nostra sorgente di luce e calore, brilla più di neutrini che di luce. Queste particelle evanescenti, totalmente prive di carica elettrica e quasi senza massa, sono necessarie affinché nella nostra Stella possa essere prodotta la “benzina”

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che ne assicura il funzionamento. La “benzina” del Sole non è come quella che mettiamo nelle nostre auto. Essa è fatta degli stessi “neutroni” che sono nei nuclei dei nostri stessi atomi. I neutroni nel Sole vengono prodotti istante per istante. Se fossero già tutti lì il Sole salterebbe in aria come una tremenda bomba a fusione nucleare. Sono i neutrini a far sì che il Sole invece funzioni come una perfetta candela a fusione nucleare. In effetti, la produzione di ogni neutrone – che possiamo immaginare come una goccia di “benzina nucleare” prodotta nel Sole – è controllata da un neutrino. Dicevamo che il Sole brilla più di neutrini che di luce. E infatti secondo per secondo, su ciascun centimetro quadrato del nostro corpo arrivano dal Sole ben sessanta miliardi di neutrini. Arrivano più neutrini che luce. Vediamo la luce in quanto essa interagisce con gli elettroni di cui è fatta ciascuna parte del nostro corpo inclusa la retina dei nostri occhi. I neutrini non li possiamo sentire in quanto sono privi di carica elettrica; essi però sono indispensabili per la nostra esistenza materiale. Salvo a non pensare che potremmo esistere senza quella fonte di luce e calore qual è la Stella a noi più vicina cui abbiamo dato il nome di Sole.

IV.14 Manca all’appello il 95% della materia nel Cosmo (N41-01)

“Nell’Universo la materia a noi familiare, Stelle e Galassie, è inferiore al 5%”. Sono questi gli ultimi risultati dell’esperimento Boomerang. È quanto ha comunicato al Centro Majorana di Erice il Prof. P. De Bernardis. Era un risultato su cui

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si discuteva da tempo. I dati dell’esperimento Boomerang ci permettono di dire che è proprio così. Ricordiamo che un piatto di spaghetti, un lingotto d’oro, lo stesso Monte Bianco, gli oceani, il Sole, la Luna e le Stelle sono fatti, per oltre il 99,9%, di materia barionica (protoni e neutroni). Ebbene queste realtà a noi note sono meno del 5% dell’Universo materiale. Non sappiamo di cosa sia fatto il restante 95%. Tutto da scoprire.

IV.15 La cenere del Supermondo (S45-01)Quando osserviamo un cielo stellato quello che vedono i

nostri occhi sono qualche migliaio di Stelle. Di fatto, nella nostra Galassia ce ne sono cento miliardi. Fino al 1929 nessuno sapeva che di Galassie non c’è solo la nostra. Ce ne sono almeno ben altre cento e forse duecento miliardi. Moltissime sono come la nostra e ruotano troppo velocemente per non andare a pezzi. A tenerle compatte potrebbe essere la “cenere” del Supermondo. Anche la materia di cui sono fatte le Stelle e noi stessi è cenere del Supermondo. Essa è fatta con protoni, neutroni ed elettroni e le abbiamo dato il nome di mondo. Però se è vero che l’Universo nasce dal Supermondo dovrebbe esistere anche l’altro tipo di cenere. Essa è fatta di un solo tipo di particelle cui abbiamo dato il nome di “neutralini” (da non confondere né con i neutrini né con i neutroni). Potrebbero essere i neutralini a spiegare perché la nostra Galassia è così compatta: gira vorticosamente, ma non si disintegra. Il disco galattico potrebbe essere immerso in una sfera cosmica di neutralini. Se così stessero le cose, dovremmo scoprirli.

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IV.16 Il Tempo che tutto può essere eccetto che macchina (A19-02)

Se la velocità della luce fosse infinita, potrebbe esistere l’orologio cosmico universale in grado di misurare il Tempo assoluto. Qualunque evento che occorresse in qualsiasi parte del Cosmo avrebbe una sequenza di prima e di poi identica e inalterabile, come lo è ad esempio la sequenza Cesare-Napoleone. Prima Giulio Cesare, poi Napoleone, 1813 anni dopo.

Grazie a Galilei i fisici scoprirono che la luce non viaggia a velocità infinita ma ad appena un miliardo di chilometri orari. Questa velocità non cambia mai. Non esiste mezzo più veloce per trasmettere messaggi. Per arrivare su Andromeda Nebula (la Galassia a noi più vicina) la luce impiega due milioni e 200 mila anni. Il Tempo assoluto deve fare i conti con questa realtà fisica e deve quindi cedere il passo al Tempo, così come lo ha voluto fare il Creatore. Questo Tempo è relativo. Il suo scorrere dipende da come lo si osserva. In zone diverse del Cosmo può addirittura scorrere in modo diverso. Lo stesso orologio sul Sole batte il tempo più lentamente di come lo batte qui sulla Terra. E non è tutto. Lorentz (1853-1928) scoprì che Tempo e Spazio sono inseparabili. E che se lo Spazio è reale il Tempo deve essere immaginario. La miscela Spazio-Tempo è fatta quindi di una parte reale e di una immaginaria. A una miscela così fatta si dà il nome di quantità “complessa”.

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La natura “complessa” della miscela Spazio-Tempo ha come conseguenza che la realtà può essere di due tipi. Una la si chiama tipo-Tempo, l’altra tipo-Spazio. Nella prima domina il Tempo. Nella seconda lo Spazio. Si possono mettere a confronto lo Spazio e il Tempo in quanto la velocità della luce è una costante fondamentale della Natura.

La realtà a noi familiare è tipo-Tempo. Nella nostra vita quotidiana infatti le quantità di Tempo vanno dal secondo alle ore, ai giorni, agli anni. Le quantità di Spazio sono il centimetro, il metro, i chilometri. Tremila chilometri sono già una enorme quantità di Spazio. Ma corrispondono a un centesimo di secondo: una piccolissima quantità di Tempo. Qui sulla Terra abbiamo tanto Tempo e poco Spazio. Le distanze sono estremamente piccole rispetto ai tempi che caratterizzano la nostra vita. È come se tutto avvenisse nello stesso punto del Cosmo. Il nostro cuore batte al ritmo di un colpo al secondo. In questo intervallo di Tempo la luce percorre ben 300 mila chilometri.

In questa realtà, se qualcosa avviene prima (esempio nasce Giulio Cesare) e un’altra accade poi (nasce Napoleone) un qualsiasi cosmonauta extragalattico (non esistono) che osservasse questi due eventi vedrebbe sempre Cesare prima e Napoleone poi. Motivo: sono entrambi nati a distanze di Spazio estremamente piccole: pochi centesimi di secondo. La quantità di Tempo che separa Napoleone da Cesare è invece enorme: due mila anni.

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Se Napoleone fosse nato in una Galassia diversa dalla nostra il discorso cambierebbe. Immaginiamolo su Andromeda Nebula: la distanza che separa Napoleone da Cesare è venti miliardi di miliardi di chilometri. Grazie al legame stretto tra Spazio e Tempo possiamo esprimere questa distanza in quantità di Tempo-equivalente e viene fuori che la distanza di questa Galassia corrisponde a 2 milioni e 200 mila anni. La distanza in Tempo che noi vogliamo tra Cesare e Napoleone è però di appena due mila anni. In questo caso predomina la distanza in Spazio che è oltre mille volte più grande di quella in Tempo. La sequenza “prima-poi” nella realtà tipo-Spazio non è più garantita. Un osservatore potrebbe vedere Napoleone nascere prima di Cesare e un altro invece dopo. Un terzo potrebbe addirittura vederli nascere nello stesso istante di Tempo.

Di quelle quantità fisiche che si misurano con l’orologio l’una (il Tempo) e col metro l’altra (lo Spazio) nessuno: filosofi, pensatori, logici, matematici, proprio nessuno ne aveva saputo immaginare proprietà e conseguenze.

Il prima e il poi sono proprietà valide soltanto nella realtà in cui predomina il Tempo, com’è il mondo in cui siamo nati e viviamo. Nella realtà in cui predomina lo Spazio, il prima e il poi dipendono dall’osservatore. Incredibile ma vero.

IV.17 Stelle fatte di quark (F20-02)La massa di un lingotto d’oro è al 99% fatta con protoni e

neutroni. Anche la massa di un pezzo di ferro, di una pietra, dell’aria che respiriamo. Con protoni e neutroni si fabbricano i

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nuclei di qualsiasi atomo; insomma la materia nucleare che rappresenta il nocciolo della famosa Tavola degli Elementi Chimici di Mendeelev. Un protone, un neutrone sono fatti ciascuno con tre particelle infinitesimali dette quark. Ed ecco una nuova frontiera. Può esistere una materia fatta a partire dai quark, senza passare attraverso la costruzione di protoni e neutroni? Questa nuova forma di materia sarebbe il nocciolo dell’Universo Subnucleare. Esperimenti in corso nei laboratori BNL (vicino a New York) stanno tentando di vedere se è possibile produrre questo nuovo tipo di materia. Nei nostri Laboratori al CERN (Ginevra) stiamo costruendo una struttura ancora più potente per studiarne le caratteristiche. Non c’è però ancora la certezza che possa veramente esistere questa nuova forma di materia.

Ecco l’interesse per quanto pensano di avere scoperto Jeremy Drake e colleghi del Centro di Astrofisica di Harvard, a Cambridge nel Massachussetts (USA). Oggetto delle loro osservazioni è la Stella denominata RX-J-1856. Essa emette raggi X: questo ce lo dice il satellite Chandra (per ricordare il grande astrofisico indiano Chandrasekhar), che è fatto proprio per scoprire le sorgenti di raggi X. Le emissioni di raggi X permettono di concludere che la Stella deve essere cento volte più calda del nostro Sole: settecentomila gradi centigradi. Usando il Telescopio Spaziale Hubble è possibile osservare lo spettro in luce della stessa Stella: viene fuori che è debolissima in luce blu. Una Stella così calda può essere debole in luce blu se è piccola. Piccolissima. Il gruppo di Harvard conclude che il suo

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diametro deve essere di undici chilometri. Una Stella così piccola non può essere fatta con neutroni. Dovrebbe essere fatta di quark. Se questi risultati saranno confermati, la Stella RX-J-1856 ci dice che la materia subnucleare fatta soltanto di quark esiste davvero.

IV.18 Un fenomeno affascinante: le bolle luminose (A28-02)

I nostri antenati non conoscevano l’origine dei fulmini: scariche elettriche potenti che scattano tra le nuvole cariche di elettricità e il suolo. Essi avevano certamente visto che, nel corso di un temporale, ogni tanto, a terra si genera una bolla luminosa grande come un pallone da football che si muove lentamente per qualche secondo, sparendo senza produrre alcun rumore, come invece avviene nel caso del fulmine che è sempre seguito dal tuono. In tempi recenti (1987), in Australia, una guardia forestale è riuscita a fotografare due “bolle luminose” del diametro di 100 metri e dalla durata di 5 minuti. Le bolle luminose richiamarono l’attenzione del grande Benjamin Franklin (1706-1790) che, nel 1757, cercò di produrle artificialmente in Laboratorio, senza successo.

Dopo quasi un secolo, nel 1854, il fisico francese François Arago (1786-1853) definì questi fenomeni “uno dei problemi più inspiegabili”. Il padre della Superfluidità, Piotr Kapitza, era convinto che si trattasse di onde elettromagnetiche fortemente focalizzate. Il problema principale da spiegare è la loro longevità: scariche ottenute artificialmente in laboratorio hanno

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longevità di pochi millisecondi. È da mezzo secolo che la fisica del plasma (uno stato della materia che non è né solida, né liquida, né gassosa, e non fatta di atomi ma dei suoi componenti, e cioè elettroni e nuclei) non riesce a produrre scariche la cui longevità superi i millesimi di secondo.

Per avere tempi lunghi è necessaria la presenza di nano-particelle (pezzettini di materia con dimensioni tipo miliardesimi di metro). In tempi recenti due fisici inglesi, John Abrahamson e James Dinnis, hanno proposto che fossero le alte temperature a produrre nano-particelle di silicio. Questa proposta è corroborata da esperimenti realizzati in laboratorio. La luce viene prodotta dalla ossidazione del silicio. Il processo è lento, in quanto è lento il fenomeno di ossidazione del silicio. Qui non mancano le misure. Siamo nel cuore di una intensa attività industriale: la tecnologia dei semiconduttori, il che vuol dire telefonini, televisori e strumenti che sono entrati a far parte della nostra vita quotidiana. Come dice lo stesso termine, una sostanza “semi-conduttrice” non è né conduttrice né isolante. Nel secolo XVIII, studiando i corpi caricati di elettricità, i fisici scoprirono che era possibile estrarre cariche elettriche mediante il contatto con altri corpi solidi, senza fare altro. Buoni conduttori come il rame, l’argento e l’oro risultavano i migliori, ma vi erano sostanze che, pur relativamente efficaci, reagivano molto lentamente. Alessandro Volta li definì “materiali di natura semiconduttiva”. Intorno alla Prima Guerra Mondiale si definivano “semiconduttori” quei materiali che, pur non essendo metalli, riuscivano a condurre l’elettricità. Fu nei primi anni venti del

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secolo scorso che vennero fatti notevoli progressi per capire le proprietà ottiche ed elettriche di questi materiali. In effetti, per capire le origini delle proprietà dei semiconduttori è necessaria la struttura quantistica della materia, le cui proprietà, ottiche ed elettriche, hanno un ruolo nella formazione delle “bolle luminose”. Ma c’è di più.

Se invece di silicio, ci sono in giro nano-particelle di metalli, come ad esempio le leghe di alluminio usate per fare gli aerei, il fenomeno delle “bolle luminose” viene riprodotto. A produrre le “bolle luminose” sarebbe, in questo caso, l’ossidazione delle nano-particelle di alluminio. Questa proposta spiegherebbe l’origine delle bolle luminose più volte osservate nelle cabine degli aerei, lungo il corridoio. Una rivista scientifica inglese cita due casi recenti, ancora non pubblicati. Uno di essi riguarda una “bolla luminosa” registrata da un dispositivo di sicurezza TV. L’altro è invece un caso di bruciatura superficiale di un paziente colpito da una “bolla luminosa”. Un fisico russo, Vladimir Bychkov, dell’Istituto di Fisica delle Alte Temperature di Mosca, ha proposto un modello in cui introduce sistemi complessi di polimeri. Il modello deve però essere sottoposto a verifiche sperimentali. Una cosa è certa: da Arago a oggi sono state osservate molte “bolle luminose” ma la loro origine è tutta ancora da capire.

IV.19 La data esatta della legge sulla caduta dei corpi (N39-02)

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La Cina ha celebrato nel 1984 il 380º anniversario della scoperta che, se non fosse per l’attrito dell’aria, piuma e martello cadrebbero allo stesso modo. Fu il Comandante di Apollo 15, David Scott, a realizzare sulla Luna l’esperimento galileiano. Nessuno però era riuscito a stabilire con certezza la data della scoperta. Motivo: le note scritte da Galilei non recano data. Esse vanno dal 1590 al 1632. I fisici della sezione di Firenze dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e Subnucleare), analizzando con un fascio di protoni la composizione degli elementi che ci sono nell’inchiostro, hanno stabilito che la data è il 1604. È proprio quella data che i Cinesi avevano scelto per celebrare il 380º anniversario.

IV.20 Una nuova Alice (F45-02)Più pesante del ferro e trasparente come un limpidissimo

cristallo. Questo materiale ha la proprietà di rivelare raggi di luce di alta, altissima, energia. A questo tipo di “raggi” si dà il nome di raggi “gamma”. La loro natura è identica a quella della luce ma la loro energia è miliardi di volte più elevata. La densità del nuovo materiale – più alta di quella del ferro – permette a un solo raggio “gamma” di produrre un enorme numero di fenomeni elettromagnetici che si trasformano di nuovo in luce. La trasparenza permette alla luce prodotta di essere osservata da speciali rivelatori che ne permettono lo studio dettagliato. I raggi “gamma” sono uno dei segnali aspettati quando viene prodotta una nuova forma di “materia” nell’urto tra nuclei atomici di altissima energia. Questa “materia” era il nostro Universo

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quando, invece di essere vecchio com’è oggi – 20 miliardi di anni – era giovane, giovanissimo: appena una frazione di miliardesimo di secondo dalla nascita. All’esperimento che permetterà questi studi è stato dato il nome di “Alice” e sarà operativo al CERN di Ginevra fra cinque anni.

IV.21 L’ultimo record sulla misura del Tempo (F47-02)

È di questi giorni la notizia che è stato tagliato un nuovo traguardo nella misura del Tempo. I fisici di uno dei più prestigiosi Centri Tecnologici USA, il Jet Propulsion Laboratory in California, hanno saputo realizzare il più preciso orologio atomico del mondo. Un orologio che sfida i tempi cosmici. Infatti, per misurarne la deviazione di appena 2 minuti, bisognerebbe aspettare ben 20 miliardi di anni: la stessa quantità di tempo che ci separa dal Big Bang.

IV.22 Il ghiaccio che affonda (S6-03)Il ferro solido affonda nel ferro liquido, e così tutti gli altri

solidi. Il ghiaccio è l’unico solido che non affonda nel suo liquido. Per spiegare questa anomalia è necessario ricorrere alla “meccanica quantistica”. C’è bisogno di usare il formalismo matematico che nasce da una proprietà fondamentale della realtà a noi familiare: il continuo è pura illusione. Tutto ciò che esiste è fatto con “pezzettini” di qualcosa. Ebbene un gruppo di fisici di Londra (University College) è riuscito a produrre un pezzo di ghiaccio che affonda nell’acqua. Affonda non perché viola le

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leggi della “meccanica quantistica” ma in quanto è stato ottenuto usando una pressione 15 mila volte superiore a quella atmosferica. In queste condizioni un centimetro cubo di ghiaccio pesa più di un grammo (1,25 grammi) mentre il ghiaccio che mettiamo per l’aperitivo pesa meno (0,9 grammi). Un centimetro cubo d’acqua pesa un grammo: ecco perché il ghiaccio a noi familiare galleggia mentre quello dei fisici londinesi affonda. Queste ricerche permetteranno di capire bene la struttura intima dell’acqua.

IV.23 L’“attosecondo”: una nuova frontiera nello studio degli atomi (F10-03)

Il nostro cuore batte al ritmo del secondo. Il cuore di un atomo batte al ritmo di una quantità di Tempo incredibilmente piccola cui si dà il nome di “attosecondo”: un miliardesimo di miliardesimo di secondo. Per studiare come si muovono gli elettroni in un atomo dovremmo avere impulsi di durata confrontabili con queste minuscole quantità di Tempo. Proviamo a metterci nei panni di un atomo. Il nostro secondo corrisponderebbe a una quantità di Tempo estremamente lunga. Analoga a quella che è per noi la vita dell’Universo. Pur restando un “attosecondo” il traguardo da raggiungere, l’ultima novità in questa corsa verso la costruzione di nuovi strumenti l’ha ottenuta un gruppo di ricercatori dell’Istituto Max Planck e dell’università di Vienna. Essi sono riusciti a produrre impulsi elettromagnetici che toccano i 200 “attosecondi”. Siamo ancora lontani dal “battito” del cuore tipico di un atomo però il livello di

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precisione con 200 “attosecondi” permetterà di studiare il moto degli elettroni attorno ai nuclei, aprendo una nuova finestra su orizzonti inesplorati nella struttura atomica della materia.

IV.24 I “Lampi” che vedono gli Astronauti (A21-03)Nessuno avrebbe saputo immaginare che, un giorno,

standosene a 400 km d’altezza, un uomo o una donna sarebbe riuscito a “vedere” con i propri occhi i “raggi” detti “cosmici”. Quando vennero scoperti, all’inizio del secolo scorso, furono in tanti a restare molto sorpresi. Come sempre, i grandi salti nel capire la Logica del Creato vengono dalla scoperta di fenomeni totalmente inattesi: da nessuno previsti.

Ed ecco la prima anomalia scoperta nello studio di questa radiazione, fino ad allora sconosciuta: la sua intensità cresce all’aumentare dell’altezza. Se venisse prodotta dalla superficie terrestre, la sua intensità dovrebbe diminuire man mano che ci si allontana da Terra. Dopo attenti studi di molte sue proprietà, l’unica ipotesi rimase quella che dovesse provenire non dalla Terra ma dal Cosmo. Ecco il motivo del nome: raggi cosmici.

A conti fatti vien fuori che molti di questi raggi hanno viaggiato per milioni e milioni di anni prima di venire da noi e manifestare la loro presenza interagendo nuclearmente con i nuclei degli atomi di Ossigeno e Azoto che compongono la massima parte della nostra atmosfera.

Dai tempi delle missioni Apollo gli astronauti erano rimasti sorpresi nell’accorgersi che ogni tanto osservavano “lampi” di luce, pur non essendoci alcun tipo di fenomeno del

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genere nell’astronave. Me ne parlò per primo il Comandante di Apollo 15, David Scott, l’astronauta che realizzò sulla Luna l’esperimento galileiano della “piuma e del martello”. Me ne parlarono ancora gli astronauti che portarono sullo Shuttle (per una prova di tipo generale) il nostro sistema di alta precisione per la misura del “Tempo di Volo” delle particelle subnucleari, che sarà posto nella ISS (Stazione Spaziale Internazionale). Si tratta di un dispositivo di alta tecnologia realizzato dall’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare). La spiegazione più semplice dei “lampi” è che siano prodotti dalle particelle cosmiche.

Queste particelle sono in massima parte “protoni”. Ci sono però anche nuclei di elementi leggeri quali l’Elio (2 protoni e 2 neutroni) e il Litio (3 protoni e 4 neutroni). I “lampi” di luce si pensa siano dovuti agli effetti che un raggio cosmico produce nella retina degli astronauti. C’è da capire se si tratta di uno sciame di particelle che il raggio cosmico produce colpendo la struttura materiale dell’astronave o se, invece, lo sciame viene prodotto nel corpo stesso dell’astronauta.

Se fosse vera la prima ipotesi tutti gli astronauti dovrebbero vedere simultaneamente un “lampo” ciascuno. Se è vera la seconda ipotesi ciascun astronauta deve vedere un “lampo” indipendentemente. Nella Stazione Spaziale MIR gli astronauti hanno montato sulle loro teste rivelatori di particelle cosmiche scoprendo che c’è un legame tra raggi cosmici che arrivano e “lampi”. I rivelatori sono stati progettati e costruiti dai tecnici dell’INFN. Il nostro Istituto partecipa sia agli esperimenti

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nella MIR sia a quelli nell’ISS (Stazione Spaziale Internazionale).

È particolarmente interessante uno studio fatto da un fisico dell’INFN (Marco Casolino) sulla frequenza dei “lampi” visti dagli astronauti nella zona dello spazio cosmico attorno alla Terra detta SAA. La sigla vuol dire South Atlantic Anomaly (Anomalia dell’Atlantico del Sud). Se gli astronauti avessero visto aumentare il numero di “lampi” nella zona SAA, allora sarebbe stato possibile concludere che sono i protoni di bassa energia a produrre l’effetto “lampo” nel sistema visivo degli astronauti. In questa zona infatti si registrano valori del campo magnetico terrestre inferiori alla media globale. L’esistenza del campo magnetico terrestre ce lo dice qualsiasi bussola. Esso però varia in zone diverse dello spazio. Dove il campo magnetico è basso deve aumentare l’intensità dei raggi cosmici in quanto viene meno lo “scudo protettivo magnetico”. È uno “scudo” che deflette i raggi cosmici di bassa energia in quanto quelli energeticamente robusti penetrano comunque attraverso lo “scudo” magnetico terrestre. Nella zona SAA aumenta il flusso di raggi cosmici fatti con protoni di bassa energia. Quelli di energia elevata penetravano già e quindi non possono aumentare. D’altronde il loro numero diminuisce esponenzialmente all’aumentare dell’energia.

Di sicuro c’è il fatto che la strumentazione prodotta dall’INFN ha permesso di stabilire l’esistenza di un legame tra raggi cosmici e “lampi” negli occhi degli astronauti. Il prossimo passo sarà capire in che modo i “lampi” sono legati al tipo di

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raggio cosmico primario. In altre parole, quale frazione di “lampi” è dovuta ai “protoni” e quale frazione alle altre particelle cosmiche diverse dai protoni.

IV.25 Un mesone troppo leggero (F28-03)La Fisica Subnucleare studia la struttura intima della

materia a livelli che è difficile riuscire a immaginare: siamo infatti alle frazioni di decimi di millesimi di miliardesimi di centimetro. Sembra strano ma è a questi livelli che esiste il vero nuovo mondo: l’Universo detto Subnucleare retto da leggi rigorose e immutabili. Ed è proprio per il rigore che pensiamo di essere riusciti a stabilire nello studio di questi fenomeni che un certo tipo di “colla” subnucleare, un “mesone” mai prima osservato, e battezzato Ds(2317), ha fatto scattare il campanello d’allarme. Questo tipo di “colla” risulta più leggera del previsto ed è quindi necessario spiegarne i motivi. In Scienza Galileiana è proibito lasciar perdere anche un minimo “dettaglio”. La scoperta è stata realizzata con una partecipazione determinante di fisici italiani dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Subnucleare) in USA (Stanford) usando una macchina a collisione tra elettroni e antielettroni.

IV.26 La Materia è evanescente come lo Spazio e il Tempo (A31-03)

Una colonna portante del “materialismo scientifico” – inventato da Karl Marx – fu la pretesa di avere capito il significato rigoroso di ciò che si deve intendere per “materia”.

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Questa pretesa non nacque nei centri in cui si cercava di capire la Logica rigorosa che regge la realtà in tutte le sue dimensioni, piccole e grandi. Questa pretesa è nata fuori dai laboratori scientifici di quei tempi ed è andata avanti senza più tener conto degli enormi sviluppi che la Scienza galileiana ha saputo ottenere nel corso del suo formidabile sviluppo.

Si arriva così alla conclusione che certamente non avrebbero immaginato i padri del “materialismo scientifico”. E cioè che la “Materia” ha le sue radici in qualcosa che più “etereo” non potrebbe essere. Insomma un pezzo di piombo, una pietra, un asse di acciaio, la più robusta struttura che si possa immaginare è fatta di un “concentrato” che ha come ingredienti le dimensioni dello “Spazio” e quella del “Tempo”.

Nessuno sa acchiappare un pezzo di “Tempo”. Né un pezzo di “Spazio”. E nessuno sa comprimere queste due strutture fondamentali della nostra esistenza materiale. Eppure se osserviamo con un potente microscopio un pezzo di piombo o una pietra, entrambi questi esempi di materia sono fatti con le stesse identiche particelle. Particelle che sono di appena due tipi diversi. Appena due, non duecento. Né duemila. Eppure è partendo da questi due tipi diversi di particelle che si può realizzare l’enorme varietà delle innumerevoli forme di materia com’è un fiore, l’acqua del mare, le rocce delle Dolomiti, le strutture in cemento armato dei grattacieli, insomma tutto. Anche il Sole, la Luna e le Stelle.

I due tipi diversi di particelle sono detti, rispettivamente, “quark” e “leptone”. E cos’è che determina l’esistenza di un

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quark? Risposta: la sua massa e le sue “cariche”. E quella del leptone? Risposta identica: la sua massa e le sue cariche. Capire le origini della massa e delle cariche corrisponde quindi a capire le origini della materia. Impresa su cui si sono cimentate diverse generazioni di fisici.

Noi non abbiamo alcuna difficoltà per capire che attorno a noi c’è lo Spazio. Fu Euclide a elaborare con rigore le sue proprietà, dando vita alla geometria. L’altezza, la larghezza e la lunghezza di una stanza sono un esempio del fatto che lo “Spazio” ha tre dimensioni. Non abbiamo alcuna difficoltà per capire che esiste il “Tempo”. Galilei lo misurava usando il battito del suo cuore per scoprire le leggi di quell’oggetto che aveva appena inventato: il pendolo. Dall’alba della civiltà l’errore nella misura del Tempo era stato di un secondo al giorno. In appena quattro secoli siamo alla precisione di un millesimo di miliardesimo di secondo. Nessuna civiltà aveva saputo scoprire il modo per dare alla misura del Tempo il rigore necessario perché questa quantità fisica detta “Tempo” potesse entrare nel cuore della Scienza.

Oggi sappiamo che le tre dimensioni dello “Spazio” e quella del “Tempo” non sono separabili. Né possono essere tutte e quattro reali. Questo lo scoprì Lorentz, mentre Einstein dimostrò che la “massa” altro non era che “curvatura” dello Spazio-Tempo. Mangiare spaghetti corrisponde a masticare un certo concentrato di “Spazio-Tempo”. E le cariche? Ci illudiamo di averne capito le radici. Esse sono nelle dimensioni “non espanse” dello Spazio-Tempo. Se potessimo entrare nel cuore di

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un quark o di un leptone, scopriremmo che lo Spazio-Tempo non ha le quattro dimensioni a noi familiari, ma ben 43. Non è facile immaginare un numero così elevato di dimensioni. Riflettendo saremmo costretti a dire che Poincaré l’aveva già capito: il massimo numero di dimensioni che noi riusciamo a visualizzare è tre. Già la quarta è impossibile: il nostro cervello esiste nello Spazio-espanso a noi noto e di cui abbiamo citato ad esempio altezza, lunghezza e larghezza di una stanza. Lo spazio con dimensioni superiori a tre possiamo solo studiarlo in modo matematico. E scoprirne le proprietà. Viene così fuori che le cariche di leptoni e quark e le loro masse sono manifestazioni macroscopiche delle 43 dimensioni che possiede lo Spazio-Tempo.

Senza massa e senza cariche non potrebbe esistere la “materia”. Essa però nasce nelle stesse strutture in cui affondano le radici quelle realtà che noi – giustamente – consideriamo evanescenti ed esclusivamente eteree: lo Spazio e il Tempo. Il “materialismo scientifico” aveva sognato l’esatto contrario. La materia è altrettanto eterea quanto eteree sono le tre dimensioni dello Spazio geometrico e l’unica dimensione che possiede il Tempo. Addio “materialismo scientifico”.

IV.27 Addio a un grande fisico ingiustamente attaccato dalla cultura dominante come il padre della bomba H (N38-03)

È scomparso all’età di 95 anni il Professore Edward Teller che ha avuto un ruolo determinante nella strategia di difesa degli

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Stati Uniti d’America. «Sono solo padre dei miei figli» amava rispondere quando lo chiamavano in causa come “padre della bomba H”. Ecco il suo pensiero su scienziati e libertà. «È facile rifiutare di impegnarsi nelle ricerche applicative militari – disse Teller in una intervista – quando si vive in regimi democratici. Provate a farlo dove ci sono Hitler o Stalin. Parlano chiaro gli esempi di Planck (cui i nazisti condannarono a morte il figlio) e di Kapitza ridotto sul lastrico da Stalin per avere rifiutato di dirigere il progetto H sovietico». Mentre l’America si dibatteva sui dubbi di Oppenheimer (la guerra è finita; perché continuare la corsa per armi nucleari più potenti?) Stalin aveva deciso di passare dalla bomba a fissione nucleare (Hiroshima e Nagasaki) a quella a fusione nucleare – detta bomba H. Lo si è saputo dopo il crollo del Muro di Berlino. «Fintantoché ci saranno i carri armati dell’URSS nella mia Budapest – diceva Teller – non smetterò di usare il mio sapere contro Stalin». Fu così che gli USA decisero di non abbandonare il progetto Teller per la terribile bomba H che, con l’equilibrio del terrore, ha prodotto mezzo secolo di pace armata. Negli anni 80 quando le previsioni – a porte chiuse dei Seminari di Erice – portavano alla certezza che in uno scontro USA-URSS avrebbe vinto l’URSS, Teller propose il progetto SDI (Space-Defence-Initiative) meglio noto come lo “scudo stellare”. I famosi “patriot”, che hanno salvato Israele, sono i primi tentativi della terza fase “a terra” dello “scudo stellare”. La prima fase era la distruzione dei missili prima che lasciassero l’area di partenza. La seconda fase il volo intercontinentale. Nel caso di fallimento delle prime due fasi,

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sarebbe scattata la terza: colpire il missile nella zona vicina all’obiettivo. Il progetto di “Difesa Spaziale” venne presentato a Erice nell’agosto 1985 e fatto proprio da Reagan nel febbraio 1986. La fine della guerra fredda ha nel progetto SDI il centro propulsore. Teller è stato determinante in due momenti che passeranno alla storia per la loro straordinaria valenza nell’equilibrio bipolare USA-URSS. Per esprimere un giudizio su Teller è necessario aspettare qualche secolo per passare dalla cronaca alla storia. C’è chi pensa che senza Teller l’Europa sarebbe probabilmente finita o sotto il tallone di Hitler o sotto quello di Stalin. Sarà la storia a porre questa straordinaria figura di scienziato, impegnato nella difesa della democrazia e della libertà, nel posto giusto senza polemiche né rancori.

IV.28 A condurre il calore è lo spin dell’elettrone (N39-03)

Furono Wiedemann e Franz a scoprire – 150 anni fa – che c’è una forte correlazione tra calore ed elettricità. Infatti buoni conduttori di elettricità sono anche efficaci trasportatori di calore. La scoperta fu corroborata dalle proprietà dell’elettrone: la particella dotata di carica elettrica è anche dotata di energia; si pensò che la prima proprietà fosse associata alla corrente elettrica, la seconda al calore. Nessuno avrebbe saputo immaginare che a trasportare il calore fosse quella proprietà dell’elettrone cui si dà il nome di spin. L’elettrone non va immaginato come “pallina” ma come “trottolina”. In inglese spin vuol dire “trottola”. Un esperimento realizzato usando materiale

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superconduttore a temperature vicine allo zero assoluto, ha permesso a un gruppo di fisici (Hill, Proust, Taillefer, Fournier e Greene) di scoprire che il trasporto del calore avviene grazie allo “spin” dell’elettrone; quindi alle sue proprietà magnetiche.

IV.29 Camminare sull’acqua (F39-03)Ci sono insetti che riescono in una impresa a noi

impossibile: camminare sull’acqua. Studi recenti hanno portato a chiarire cosa effettivamente accade. Anzitutto una precisazione: la maggior parte dei movimenti che permettono il moto delle creature viventi è basato sulla terza legge di Galilei-Newton. Essa dice che a ogni azione corrisponde una reazione eguale e contraria. Per gli animali terrestri l’azione è esercitata contro una superficie solida. Per gli animali che si muovono in acqua o in aria il discorso si complica in quanto non c’è una superficie solida su cui spingere. Ed ecco la novità. Uccelli, insetti e pesci riescono a muoversi in quanto producono vortici (d’aria e d’acqua). Sono questi “vortici” che permettono di ricevere dal mezzo in cui si trovano la spinta necessaria al moto. Spinta che è la “reazione”, che obbedisce alla terza legge del moto. Gli insetti che passeggiano sull’acqua hanno il vantaggio di usare anche le forze di tensione superficiale del liquido. È la tensione superficiale che produce la forma sferica dell’acqua quando il bicchiere è totalmente pieno.

IV.30 Ricerca senza confini: La visita di Ciampi al CERN (A50-03)

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Esiste un’attività di ricerca scientifica nella quale l’Europa è in prima linea, seconda a nessuno, nemmeno al colosso USA. Questa attività rigorosa nello studio della Logica che regge il mondo rappresenta il proseguimento naturale della linea tracciata da Enrico Fermi quando, negli anni cinquanta del secolo scorso, scoprì il primo esempio di particella “barionica” diversa da quelle di cui è fatta ogni cosa, inclusi noi stessi.

Questa attività è in corso al CERN (Centro Europeo Ricerche di Fisica Nucleare e Subnucleare), nel laboratorio che l’Europa ha saputo realizzare – a Ginevra nel 1955 – dopo aver corso il rischio di essere cancellata dal mondo con la seconda guerra mondiale. Noi fisici europei rendiamo omaggio ai padri fondatori della più grande struttura scientifica europea: Isidor Rabi, Patrick Blackett e Niels Bohr.

Questi tre giganti della Scienza europea misero il loro prestigio scientifico e il loro impegno personale per convincere i leader politici di quegli anni a superare qualsiasi barriera allo scopo di creare, nel nostro continente in ginocchio, un centro di eccellenza nel settore più difficile della Scienza galileiana: la Fisica delle Alte Energie. «A partire da Galileo Galilei, la Scienza ha irradiato della sua presenza tutte le Nazioni» ha detto – il due dicembre scorso – il nostro Presidente della Repubblica in occasione della sua visita al CERN. «Anche il CERN non avrebbe potuto svilupparsi sulla base di considerazioni meramente scientifiche. Se ha avuto tanto successo – ha detto Ciampi – è perché ha un’anima».

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A oltre mezzo secolo dalla fine del “secondo tentativo di suicidio” (parole di Bertrand Russell) meglio noto come Seconda Guerra Mondiale, la competitività dell’Europa «ristagna o addirittura diminuisce – ha ammonito Ciampi – mentre quella americana progredisce a un ritmo sostenuto». Se diamo un’occhiata alle tecnologie informatiche e a quelle centrate sull’innovazione tecnologica, l’Europa cosa fa? Investe poco più della metà degli Stati Uniti. Eppure il Consiglio Europeo di Lisbona, ha ricordato Ciampi, «ha lanciato il progetto per fare dell’Europa, entro il 2010, l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo». Questo però si può fare solo alla condizione di incrementare la spesa della ricerca in modo da arrivare al 3% del Pil nei prossimi sei anni. Il nostro continente oggi non arriva al 2% e l’Italia è ancora sotto.

Il Presidente Ciampi ha fatto una proposta concreta: «scorporare le spese per la ricerca scientifica, soprattutto quella fondamentale, dal calcolo della percentuale di deficit – fissato nel patto di stabilità – rispetto al Pil». Ancora una volta Carlo Azeglio Ciampi ha dato prova di concretezza nel difendere la Scienza. La comunità scientifica europea – e quella italiana in particolare – non ha dimenticato il ruolo avuto da Ciampi – a metà degli anni ottanta – per sostenere la realizzazione del progetto che il CERN aveva per lo studio di nuove tecnologie subnucleari (in sigla: progetto LAA). Chi scrive era il Direttore del progetto e andò dal Ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, che assicurò il sostegno del Governo italiano al progetto il cui obiettivo era quello di inventare e costruire al CERN

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strumenti più potenti per misurare con precisioni sempre maggiori le quantità fondamentali (tempo, spazio, massa, energie e cariche). Il progresso tecnologico negli strumenti della vita quotidiana, incluso il settore vitale della medicina, nasce così, nei nostri laboratori. Ed è una felice coincidenza che, proprio in sintonia con la visita di Ciampi, quel progetto da lui sostenuto abbia realizzato un nuovo record nella misura dei tempi di volo delle particelle subnucleari: 40 picosecondi (un picosecondo è un millesimo di miliardesimo di secondo).

«La Scienza italiana ha avuto un ruolo fondamentale – ha detto Ciampi – nell’attuazione, conduzione e sostegno del CERN. Questo successo è stato reso possibile grazie anche all’incalzante impegno dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e Subnucleare)».

Ciampi ha voluto ricordare l’impegno della Scienza a voler superare il divario Nord-Sud definendo la Scienza «strumento di avanzamento della condizione umana» e «possente veicolo di progresso civile e culturale». È da questo progresso che nasce quella collaborazione multilaterale capace di creare «intese durature tra i popoli» e quindi – ha concluso Ciampi – «una pace duratura».

IV.31 Un nuovo tipo di “colla” nucleare (N4-04)Fu per un quarto di secolo il problema numero uno:

trovare la “colla” che permette al 99% della nostra struttura materiale di esistere. Senza questa “colla” non potrebbero esistere i nuclei dei nostri atomi. Nel 1947 – grazie a Lattes,

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Occhialini e Powell – i nostri padri tirarono un sospiro di sollievo e Fermi disse ai suoi ragazzi di Chicago: «forse abbiamo veramente capito tutto». In questo mezzo secolo è stato scoperto l’Universo Subnucleare e la “colla” del 1947 è diventata il primo esempio. Non l’unico. Adesso arriva una novità totalmente inaspettata: un nuovo tipo di “colla” nucleare che è quasi trenta volte più pesante di quella scoperta nel 1947. È stata denominata X(3872) e dovrebbe essere fatta con due quark e due antiquark. Non è un dettaglio qualsiasi. Esso apre un panorama nuovo nella fisica delle “colle” nucleari. La scoperta è stata fatta con la macchina di Tsukuba in Giappone, ma la conferma arriva dal laboratorio americano Fermilab di Chicago. L’Universo Subnucleare è ancora tutto da capire.

V LE ATTUALI FRONTIERE DELLA REGINA DI TUTTE LE SCIENZE

VI CONCLUSIONI

VI.1 Ci libera dalle false verità: gli oroscopi

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VI,1.1 Oroscopi e TV. Le contraddizioni di una credenza diffusa (A38-02)

Tutti sanno che non è il Sole a girare attorno alla Terra. E nessuno crede a quello che pensavano gli Egizi: ogni giorno che nasce c’è un Sole diverso da quello del giorno prima. Sappiamo tutti che la Terra gira attorno al Sole e che questa sorgente di luce e calore è una candela il cui cuore è una reazione di fusione nucleare. Il Sole è sempre la stessa Stella che ci illumina e riscalda da 5 miliardi di anni. Chi crede agli oroscopi si trova in una posizione culturalmente inferiore a chi crede che sia il Sole a girare attorno a noi e che ogni giorno ci sia un nuovo Sole come pensavano gli Egizi i quali, per conoscere le novità scoperte dai loro studiosi, non avevano né libri né giornali da leggere.

Se leggo il giornale ho la certezza che esiste la carta stampata e tutta la struttura che permette a un lettore di comprare il quotidiano scelto. Sarebbe assurdo leggere sul giornale un titolo che dicesse: chi legge sappia che questo giornale non può esistere. Accendere la TV per avere notizie sull’oroscopo equivale a un’azione altrettanto assurda. Vediamo perché.

La luce, la radio, la TV, i calcolatori e tutta la tecnologia a noi familiare esistono quale conseguenza di una Forza Fondamentale della Natura detta “Elettromagnetica”. Ci sono voluti 200 anni di studi e ricerche per capire che fenomeni elettrici, magnetici e ottici avevano (e hanno) la stessa origine. È però in tempi recenti che si è scoperto come nasce questa Forza Fondamentale della Natura.

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C’è di più: tutte le Forze note nascono su basi identiche cui è stato dato un nome molto strano: “Principio di Gauge”. Il termine è di origine tedesca e letteralmente vuol dire “Principio della Stazza”. A proporre questo principio fu uno dei più grandi fisici teorici del XX secolo: Herman Weyl. Sarebbe troppo lungo – anche se molto divertente – raccontare come nasce il “Principio della Stazza” e come si è trasformato nel corso dei successivi decenni, per assurgere oggi al ruolo di principio da cui nascono tutte le Forze Fondamentali della Natura.

Se con una bacchetta magica cancellassimo la validità del “Principio di Gauge” il Sole si spegnerebbe, l’Universo cesserebbe di essere com’è, per il semplice motivo che non potrebbero esistere le Forze Fondamentali da cui nasce l’Universo a noi familiare.

Questo formidabile principio stabilisce che non deve esistere alcun punto privilegiato – né nello Spazio né nel Tempo – in grado di produrre effetti su una Forza Fondamentale qualsiasi.

Anche se non ce ne accorgiamo, noi viviamo nella miscela inscindibile di Spazio e di Tempo. Non posso limitarmi a dire dove sono, debbo anche dire quando. E infatti fra mille anni chissà dove sarò. Una legge, quella elettromagnetica – che è la più semplice – nasce dalla condizione indispensabile che non è possibile assegnare a un istante di Tempo in un qualsiasi punto dello Spazio un privilegio che lo distingua da un altro istante di Tempo in un qualsiasi altro punto dello Spazio.

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Se qualcuno pretendesse che un privilegio del genere deve esistere, addio Sole, albe e tramonti. Addio Cosmo.

La scoperta del “Principio di Gauge” mette in grave crisi l’esistenza degli oroscopi. La base essenziale della esistenza di un oroscopo è che esistano zone dello Spazio Cosmico e intervalli di Tempo privilegiati e tali che trovandosi in corrispondenza con uno o più corpi celesti abbiano effetti sul nostro futuro. In altre parole non può essere vero il “Principio di Gauge”. Se così fosse la televisione non potrebbe esistere. Si arriva quindi all’assurdo seguente. La TV trasmette informazioni (esempio oroscopi) che, se veramente esistessero, avrebbero un effetto immediato: la non esistenza dello stesso mezzo che trasmette l’informazione.

Insomma chi accende il televisore per conoscere l’oroscopo della sua giornata deve rendersi conto che, se quell’oroscopo avesse validità, lo strumento che glielo sta trasmettendo non potrebbe esistere. Né potrebbe esistere alcunché del mondo in cui vive.

VI.2 Scienza in cucina

VI.2.1 Il bianco d’uovo ha bisogno del rame (F48-03)I cuochi sanno da sempre che per avere una schiuma di

bianco d’uovo in grado di durare senza sparire dopo poco tempo, bisogna farla montare usando un recipiente di rame. Il Direttore

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Hervé This della Scuola di Erice (International School on Molecular and Physical Gastronomy) che porta il nome del fondatore, l’illustre fisico Nicholas Kurti, è venuto a capo di questo problema. Due parole per spiegare il motivo per cui si forma la schiuma quando viene “battuto” il bianco dell’uovo. Le proteine contenute nell’uovo riducono la tensione superficiale tra l’acqua e l’aria. È la stessa tensione che permette alle gocce d’acqua di esistere. Quando diminuisce questa tensione le “gocce” si trasformano in bollicine. Battendo il bianco d’uovo in un recipiente di rame, questo elemento entra nella formazione delle bollicine che acquistano una elasticità superiore a quelle prive di rame. È il rame che rende le bollicine più resistenti alle perturbazioni di bassa frequenza che distruggono le bollicine. Perturbazioni presenti nell’ambiente in cui viviamo e di cui non ci accorgiamo.

VI.2.2 Perché i biscotti si sgretolano (N51-03)C’è voluto l’impegno di alcuni fisici dell’Università di

Loughborough, in Gran Bretagna, per dare soddisfazione a pasticcieri onesti e alle massaie che, pur giurando di avere seguito esattamente le istruzioni del libro, non riuscivano a spiegare come mai i biscotti si potessero rompere così facilmente. Il problema è stato risolto in quanto le fabbriche e i trasportatori di biscotti si accusavano – se pur molto velatamente – a vicenda. Gli uni restando convinti che la colpa fosse degli altri. La credibilità dei produttori e dei trasportatori lasciava perplessi; non quella delle massaie. È proprio prestando fede alle

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massaie che gli specialisti hanno scoperto il motivo della fragilità. L’effetto che rende fragile la struttura del biscotto nasce da due forze di segno opposto che si producono dopo la cottura del biscotto. Sulla sua superficie si produce un po’ di umidità per via del vapore acqueo presente nell’aria che, trovandosi a una temperatura superiore a quella del biscotto appena cotto, si condensa sui bordi provocando una dilatazione. Il centro del biscotto però, nel raffreddarsi, evapora l’umidità intrinseca producendo una contrazione. Nel biscotto si producono quindi sottilissime fessure in quanto la parte interna si restringe e quella esterna si dilata. I produttori, i trasportatori dei biscotti – e ovviamente anche le massaie – non hanno alcuna colpa.

VI.2.3 La cottura a vapore è la migliore (S10-04)Fu il grande Nicholas Kurti, fisico nucleare, a istituire a

Erice la prima Scuola di Scienza interamente dedicata alla Cucina. Prima di allora le innumerevoli pratiche, croce e delizia di cuochi e massaie, erano state ignorate dalla Scienza. Al centro dell’attenzione c’erano – e ci sono – le tecniche di cottura. Un gruppo di ricercatori spagnoli ha stabilito che la cottura a vapore è il modo migliore per cuocere i legumi. Il modo peggiore, secondo questi studiosi, sono le microonde. Questa conclusione si basa sulla quantità di una sostanza antiossidante presente nei legumi studiati dopo la cottura. La quantità di questa sostanza che resta nei legumi cotti a microonde è di appena qualche percento. La cottura a vapore conserva invece ben il 90% della sostanza antiossidante. Anche la cottura nell’acqua è bocciata. I

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legumi perdono infatti l’80% della sostanza antiossidante. Il 15% finisce nell’acqua. Il resto viene distrutto. Se le ricerche con altri legumi e altre sostanze antiossidanti confermeranno questi risultati, la cottura a vapore sarà senza rivali e dovrà essere adottata su vasta scala.

VI.3 Nello SportVI.3.1 Rutherford e la Coppa America: il vero orgoglio

della Nuova Zelanda (A11-03)Dopo più di un secolo e mezzo ritorna in Europa la

prestigiosa “Coppa America” che Alinghi è riuscita a strappare dalle mani dei difensori neozelandesi.

La Nuova Zelanda è stata al centro dell’attenzione sportiva mondiale grazie alla vela. La sconfitta li ha prostrati. Forse è il momento giusto per riflettere su un motivo d’orgoglio scientifico e culturale che appartiene alla Nuova Zelanda e che nessuno riuscirà mai a togliere loro. Fra mille e anche fra diecimila anni i posteri si chiederanno da dove veniva quell’uomo che all’inizio del XX secolo scoprì l’esistenza dei nuclei atomici con un esperimento che nessuno potrà mai dimenticare. Quell’uomo veniva dalla Nuova Zelanda e lavorava a Cambridge, in Inghilterra. Il suo nome, Ernest Rutherford, resterà nella Storia della Scienza, non solo per avere scoperto la Fisica Nucleare, ma per aver dato la prova lampante della differenza profonda che c’è tra Scienza e Tecnologia.

Quando Rutherford scoprì che gli atomi, atomi non sono, la notizia fece il giro del mondo. Dominava in quegli anni la

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Teoria detta Atomica della Materia. I nostri bisnonni s’erano posti il quesito di capire perché l’oro è diverso dal ferro. Risposta: il primo è fatto con atomi d’oro, il secondo con atomi di ferro. E cos’è un atomo? Lo dice la stessa parola, dal greco, che significa “non-spezzabile”. L’atomo d’oro dovrebbe essere una piccola sferetta totalmente diversa da quella che rappresenta l’atomo di ferro. E quant’è grande? Risposta: un centesimo di milionesimo di centimetro.

Rutherford scoprì che questa sferetta è come un “palloncino” leggerissimo e fragile. Oltre il 99% della sua massa è concentrata nel nucleo che è centomila volte più piccolo. Gli atomi di oro, ferro, argento e di qualsiasi elemento sono “palloncini” fragilissimi fatti a partire da tre e solo tre particelle cui è stato dato il nome di elettrone, protone e neutrone.

L’elettrone è una particella leggerissima responsabile della fragilità dei palloncini. Protone e neutrone sono invece duemila volte più pesanti e si trovano nel nucleo.

Nasce una visione nuova della struttura intima della materia. Al centro dell’attenzione scientifica mondiale c’è il neozelandese Rutherford. Tra le centinaia di interviste una lo colpì; quando un giornalista gli chiese: «Professore Rutherford, la sua scoperta potrà avere conseguenze nel campo dell’energia?». Tanto questa domanda lo colpì che ne parlò al suo pupillo: il giovane Piotr Kapitza, figlio di un Generale dello Zar che era stato ammesso nell’Università di Cambridge. «Sai – disse Rutherford al suo allievo – qual è la domanda più incredibile che mi hanno fatto?» E riportò quanto detto sopra.

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«Avrei avuto voglia di rispondergli come meritava: Lei non sa nemmeno cosa vuol dire energia, né atomo né nucleo. Vada via! Però qui, io e te pur non essendo “British”, dobbiamo seguire le regole di chi ci ospita. Ho riflettuto un po’ e gli ho detto, alla maniera di un gentlemen: La sua domanda è molto interessante, però io penso che coloro i quali credono che la mia scoperta possa mai avere applicazioni nel settore energetico sono come quelli che amano illudersi di potere scaldarsi al chiar di Luna». Questo episodio mi è stato raccontato dal grande Kapitza mezzo secolo dopo. Quando il “pupillo” di Rutherford – dopo avere scoperto la superfluidità e dopo essere stato escluso per ben 40 anni dal Nobel per il veto di Stalin – fu a Stoccolma per la sua scoperta e venne a Erice al primo Seminario sulle Guerre Nucleari. Kapitza – come abbiamo detto in altre occasioni – ebbe il coraggio di dire no a Stalin che lo fece espellere dall’Università costringendolo a una vita di stenti fino al 1953, anno in cui Stalin scomparve. Kapitza aveva osato dir no al progetto stalinista per la tremenda bomba H.

Quando Giovanni Paolo II in un suo messaggio alla WFS (World Federation of Scientists) disse che Scienza e Tecnica vanno nettamente distinte Kapitza ne fu entusiasta e disse che la prova formidabile era Rutherford. Il padre della Fisica Nucleare, scoprendo che gli atomi sono fatti con un nucleo pesantissimo, circondato da una leggerissima nuvola d’elettroni, aveva saputo leggere una pagina tra le più interessanti nel Libro della Natura, aperto da Galilei. In quella pagina non è scritto che bisogna usare quella scoperta per fare bombe nucleari. L’uso nefasto di

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quella scoperta è responsabilità della violenza politica. Infatti Rutherford non aveva nemmeno immaginato che dal nucleo fosse possibile estrarre energia. E il fedele allievo di Rutherford aveva avuto il coraggio di opporsi all’uso di quella scoperta per fini bellici.

La Nuova Zelanda si prepari a celebrare nel 3010 il centesimo anniversario della scoperta che quella straordinaria figura di scienziato neozelandese seppe dare al mondo. E di quella sua famosa frase che andrebbe incisa in una Coppa da mettere in gara affinché la Cultura Moderna possa imparare a distinguere la Scienza dalla Tecnica. Il primo vincitore c’è già: Giovanni Paolo II.

VI.3.2 Dalla Formula-1 alle nostre Auto (A30-03)Un miliardo di vecchie Lire è il costo di un bolide da

Formula-1 (F-1). Il traguardo è un posto sul podio cui aspirano non solo i piloti ma anche l’enorme quantità di materia grigia concentrata nei laboratori in cui lavorano, giorno e notte, ingegneri, tecnici e specialisti di campi diversi (inclusa la psicologia) appartenenti alla dozzina di scuderie che – con i loro bolidi scatenati a velocità vertiginose – attraggono l’attenzione di milioni e milioni di tifosi di F-1. Ma non è solo la corsa che appassiona il pubblico degli “aficionados”. Un terzo del mercato dei giochi-video è legato allo sport automobilistico e c’è chi pensa di aprire le gare di Formula-1 all’interesse dei giovani che vorrebbero saperne di più sui dettagli tecnici, gelosamente tenuti segreti da tutte le scuderie.

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In un bolide di F-1 sono infatti attivi ben 500 rivelatori i cui dati sono accessibili solo agli esperti. Nel monoposto è tutto sotto controllo: non solo i dati tecnici (pressione dei pneumatici, numero di giri del motore, velocità, accelerazioni lungo diverse direzioni, ecc.) ma anche quelli relativi al pilota (il modo in cui reagisce nelle diverse occasioni, la sua regolarità, quante volte interviene sul volante e perché, se sbaglia alla partenza anche il pur minimo dettaglio, la sua pressione arteriosa, la sua temperatura, il battito del cuore, ecc.). E, ovviamente, non è tutto. Anche il pilota delle automobili normali reagisce spesso in modo sbagliato, e viene fuori un incidente.

Dal carattere del pilota di F-1 al normale conduttore non c’è quell’abisso che si pensa. Passando dal pilota al bolide c’è il trasferimento tecnologico che avviene sotto i nostri occhi e di cui non ci accorgiamo. Ecco alcuni esempi. Il controllo elettronico delle marce, del volante, del motore sono già nelle vetture di serie, ma vengono dalla F-1. Diverse auto di serie hanno dei sensori nelle ruote che misurano la pressione dei pneumatici ogni 3 secondi, trasmettendo i dati al computer di bordo che li analizza ogni minuto, per dare l’allarme in caso di anomalie. In molti modelli di serie ci sono i rivelatori in grado di misurare il consumo di carburante in tempo reale. Ed è studiando come i piloti reagiscono al loro stretto legame con il seggiolino del monoposto che è nata l’idea di un nuovo tipo di cintura di sicurezza in modo da aumentare il confort e al tempo stesso diminuire gli effetti di un urto, anche molto violento. La soluzione di questo problema esige una struttura tale da

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raddoppiare il peso del seggiolino. Un sedile classico pesa mediamente 15 chili. Quello super sicuro ne peserebbe 30. A questo punto entra la componente specialistica di tipo psicologico che studia le possibili conseguenze sulle ricadute delle scoperte in F-1. Quando un pilota sa di avere una struttura più sicura, corre di più. Questo va bene in F-1, non per le auto normali.

Dalla F-1 arrivano applicazioni in almeno tre settori diversi della nostra vita: strutture edilizie, sistemi di protezione antincendio, caschi per sciatori e motociclisti. I nostri posteri vedranno grattacieli con strutture non più in acciaio ma in Carbonio, grazie alla F-1. Le strutture F-1 in Carbonio sono infatti quattro volte meno pesanti e due volte più resistenti delle strutture in acciaio. Le fibre di Carbonio sono resistenti più dell’acciaio alle variazioni di temperatura e di pressione. La rigidità delle strutture in Carbonio addirittura aumenta quando la temperatura passa da venti a ben duemila gradi. A questa temperatura le strutture d’acciaio fondono. Il tremendo crollo delle torri gemelle ne è l’esempio più clamoroso. Per essere usate su vasta scala è necessario che il prezzo delle strutture in Carbonio diminuisca. Anche qui le cose vanno in direzione giusta: nel giro di pochi anni il prezzo è passato da 200 Euro ad appena 5 Euro al chilo. Una casa automobilistica usa già strutture in Carbonio per rendere più robusti i sedili, il tetto, le porte e la parte frontale della carrozzeria. L’auto non solo è più robusta ma pesa meno e permette di ridurre il consumo di energia.

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Ed è sempre il Carbonio – stavolta impregnato di resina – che permette di realizzare freni eccezionali per la F-1. In appena tre secondi la velocità passa da 350 ad appena 80 km/h. È un tipo di Carbonio diverso da quello usato per le strutture dei bolidi. Per produrlo ci vogliono 50 giorni in un forno la cui temperatura è impregnata di gas idrocarbonati. I freni prodotti per i bolidi di F-1 funzionano solo ad alta temperatura: tra i 200 e i 300 gradi. E debbono essere sostituiti dopo ogni gara. Niente da fare per le nostre auto. Purtuttavia una casa automobilistica ha prodotto dei freni per auto di serie che usano un derivato di questo prodotto eccezionale per la sua presa in frenata: costa dieci volte più dell’acciaio ma dura due volte più a lungo.

Passiamo al casco che deve resistere agli urti e al fuoco. Per la rigidità ci vuole il Carbonio; per evitare le perforazioni da urti con schegge e materiali appuntiti ci vuole uno speciale tipo di polietilene; per il fuoco è necessario un altro tipo di materiale (Aramide). Il risultato è che un pezzo di metallo da tre chili lanciato dall’altezza di tre metri non riesce a penetrare nonostante la sua punta estremamente aguzza. Esposto per 45 secondi a un fuoco di 800 gradi centigradi la temperatura all’interno non supera i settanta gradi. Anche la visiera è progettata e costruita in modo da garantire la sicurezza del pilota: un proiettile che viaggiasse a 500 km/h non riuscirebbe a penetrare nella visiera. I futuri caschi per sciatori e motociclisti faranno tesoro dei risultati ottenuti con i bolidi di F-1. Passiamo alle tute antincendio.

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Non solo la tuta ma anche la biancheria stessa e i guanti del pilota sono fatti con doppio strato di materiale ignifugo che nasce dalle ricerche fatte per gli astronauti del Programma Apollo. Prove in laboratorio permettono di concludere che esponendola nel corso di ben 12 secondi a fiamme da 800 gradi brucerebbe solo lo strato esterno lasciando intatta la superficie interna. Il materiale di cui è fatta la tuta resiste anche ai prodotti chimici, alle scariche elettriche e inizia a bruciare quando la fiamma arriva a 390 gradi; non si scioglie e se la temperatura diminuisce si spegne.

Le ricerche tecniche su liquidi diversi hanno migliorato notevolmente sia la parte lubrificante sia quella di raffreddamento. I progressi fatti con liquidi lubrificanti significa – per le vetture standard – che sarà possibile un risparmio del 10% in carburante e il “cambio d’olio” ogni trentamila chilometri.

Le novità con i liquidi di raffreddamento porteranno a ridurre le dimensioni dei radiatori in quanto i liquidi usati saranno più efficaci negli scambi di calore e meno corrosivi per i metalli (leghe leggere, alluminio e magnesio) che compongono i motori. Le auto potranno essere ancora più aerodinamiche e i motori a più lunga vita media.

VI.3.3 A una cicala il record del salto in alto (F49-03)Non è facile per un atleta superare i due metri e mezzo,

nel salto in alto. Javier Sotomayor ha toccato i due metri e 45 centimetri. Andare in alto vuol dire vincere la forza di gravità

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avendo a disposizione una determinata quantità di energia muscolare. Tenendo conto delle dimensioni e degli altri parametri essenziali per mettere a confronto i diversi record di salto in alto, un ricercatore dell’Università di Cambridge (Inghilterra), Malcolm Burrows, ha concluso che la medaglia d’oro spetta a una cicala speciale: Philaenus Spumarius, che è lunga 6 millimetri. Essa riesce a saltare oltre i settanta centimetri; questo, tradotto su scala umana, corrisponde a superare i 200 metri: più esattamente 228. Questa cicala riesce a produrre una forza pari a 414 volte il suo peso. Si tratta di una serie di studi fatti con l’obiettivo di capire i dettagli dinamici che permettono di ottenere questi primati allo scopo di estendere ad altri settori tecnologici queste proprietà della materia vivente.

VI.4 Nell’amicizia tra i popoli: EriceVI.4.1 Erice: Scienza e amicizia tra i popoli (A23-02)Il Centro di Cultura Scientifica che porta il nome di uno

dei più grandi fisici del XX secolo, Ettore Majorana, esiste da quarant’anni: ci sono stati periodi di forti tensioni politiche in diverse zone del mondo. A Erice però gli scienziati di schieramenti opposti sono sempre venuti nonostante le difficoltà del momento. Il motivo è semplice. Tra tutte le attività intellettuali che si riferiscono alla sfera immanentistica della nostra esistenza, la Scienza è quella che meglio caratterizza questa forma di materia vivente cui noi apparteniamo. Infatti siamo l’unica a essere dotata di Ragione. Ed è la Scienza la prova più lampante di questa straordinaria e unica proprietà.

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Ecco perché quando il mondo si trovava sull’orlo del precipizio di olocausto nucleare fu la comunità scientifica internazionale – nonostante le enormi difficoltà della guerra fredda – a elaborare il Manifesto di Erice che non divideva il mondo tra buoni e cattivi, ma ribadiva l’importanza di un impegno unitario che aveva come traguardo quello di abbattere le barriere ideologiche, politiche e razziali: causa prima di tutti i conflitti.

Il conflitto medio orientale si deve affrontare con idee radicalmente nuove. L’Italia politica ha saputo dare un impulso senza precedenti alla soluzione di problemi che i Paesi industrializzati conoscono ma che, restando senza soluzione, producono effetti sempre più devastanti, com’è oggi il terrorismo: il nemico numero uno dell’umanità. La Russia nella NATO cancella finalmente ogni pericolo di olocausto nucleare. La Russia in Europa è un traguardo che apre orizzonti nuovi. Appena mezzo secolo fa l’Europa usciva dal suo secondo tentativo di suicidio politico (quello precedente lo aveva tentato con la Prima Guerra Mondiale). Non è certo un caso che furono gli scienziati europei a creare l’unità scientifica dell’Europa quale fattore di stabilità per il futuro del vecchio continente. L’Europa scientifica è nata prima di quella economica ed è questa unità che oggi permette all’Europa di non essere seconda a nessuno nel settore più avanzato della Scienza galileiana moderna. La collaborazione scientifica è un fattore di grande stabilità. Quando c’è unità scientifica non può esserci conflitto.

La comunità scientifica internazionale (diecimila scienziati di centoquindici nazioni) che fa capo a Erice è unita

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nella volontà di dare il suo contributo affinché il conflitto medio orientale trovi una soluzione di vera e autentica collaborazione pacifica tra le due parti. È un’impresa che ha bisogno di una forte volontà politica e di proposte concrete. È quello che ha fatto Berlusconi proponendo un nuovo Piano Marshall al fine di creare le basi affinché i due popoli – israeliano e palestinese – possano lavorare e progredire insieme. La proposta di Erice arricchisce l’iniziativa italiana della componente scientifica che porta le migliori energie intellettuali dei due popoli a impegnarsi sulle frontiere più avanzate dell’umano sapere. La World Federation of Scientists (la più grande associazione di scienziati impegnati nella lotta alle Emergenze Planetarie con lo studio e la realizzazione di progetti-pilota in ogni parte del mondo) accoglie con entusiasmo la proposta fatta dal Presidente Berlusconi di avere Erice come fulcro delle iniziative per la pace in Medio Oriente. Gli scienziati di Erice, su cui il Santo Padre ha rivolto la sua forte speranza nei momenti più drammatici del pericolo di olocausto nucleare, trova adesso in Berlusconi il politico sensibile e attento a elaborare soluzioni originali alla crisi medio orientale. È questa una nuova impresa che si aggiunge a quelle realizzate in quaranta anni di attività di collaborazione scientifica senza barriere ideologiche, né politiche, né razziali. Barriere, che sono le radici di tutti i conflitti.

Didascalia della foto da sinistra a destra:La stretta di mano tra il Consigliere Scientifico del Presidente Deng Xiaoping, Professore Zhou Guang Zhao, il Consigliere Scientifico del Presidente Ronald Reagan, Professore Edward

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Teller, il Presidente del Comitato Internazionale "Science for Peace", Professore Antonino Zichichi ed il Consigliere Scientifico del Presidente Michail Gorbachev, Professore Eugenij Velikhov, quando nell’agosto del 1987 venne raggiunto il primo accordo di Collaborazione Scientifica Internazionale Nord-Sud-Est-Ovest senza Segreti e senza Frontiere.

VI.4.2 Una nuova sfida per la Scienza (A33-02)Siamo alla terza sfida. Le due precedenti erano forse di

più facile soluzione. Se ne conoscevano le basi: quella del pericolo di Olocausto Nucleare, negli anni ’80 e, dieci anni dopo, quella del rischio di Olocausto Ambientale. Nessuno aveva però previsto l’arrivo del Terrorismo. Può la Scienza contribuire a capirci qualcosa? Le radici, come agire e soprattutto cosa fare per superarlo? Forse è bene non dimenticare il passato. In fondo stiamo parlando di pochi anni fa, quando il mondo era retto da due blocchi. Il Terrorismo non può non avere legami con il cosacco dell’URSS.

Fu agli inizi degli anni ’80 che la Scienza si decise finalmente a uscire dalle sue torri d’avorio per intervenire nella cultura del nostro tempo con chiarezza e determinazione.

C’era in gioco l’avvenire del mondo. Due superpotenze (USA e URSS) avevano, nei rispettivi arsenali, 60 mila bombe H. Ciascuna con una potenza distruttrice superiore a 60 volte quella che devastò Hiroshima. Diecimila scienziati di 115 nazioni firmarono il Manifesto di Erice nel quale si diceva a chiare lettere che la corsa agli armamenti non era la conseguenza ineluttabile del progresso scientifico ma la prova che imperversava nel mondo la violenza politica. Il Manifesto di

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Erice non divideva il mondo tra buoni e cattivi, ma rivendicava alla Scienza la sua parte di sorgente di valori, distinguendola nettamente dalla Tecnica. In questa opera di promozione della Cultura Scientifica, la Scienza trovò un alleato di valore eccezionale: Giovanni Paolo II. Oggi nessuno confonde più la Scienza con le bombe né con le Emergenze Planetarie. Infatti, superato – con il crollo del muro di Berlino – il pericolo di Olocausto Nucleare, il Papa ci invitò a studiare le Emergenze Planetarie mettendo in atto il “volontariato scientifico” che è «una delle forme più nobili – dice Giovanni Paolo II – di amore verso il prossimo».

La seconda sfida portò a realizzare un po’ ovunque nel mondo diverse decine di progetti-pilota. Tra questi, uno su come bloccare la desertificazione. Altri li abbiamo discussi su queste pagine. Tutti insieme rappresentano le uniche prove concrete che la comunità scientifica porta ai governi, allo scopo di cancellare i dubbi sulle possibilità di vincere le 53 Emergenze. E qui si inserisce una riflessione. In nessuna delle nostre sessioni plenarie, ristrette, specialistiche, insomma mai era stato messo sul tavolo delle possibili nuove minacce quella del terrorismo. Si erano studiate come emergenze gli ordigni facili da costruire e a buon mercato: le bombe chimiche e batteriologiche, denominate: WMD (Weapons for Mass Destruction). Ciò che è occorso l’11 settembre nessuno l’aveva saputo prevedere. Né gli sviluppi conseguenti da cui nasce la terza sfida per la Scienza.

È quello che inizieremo a discutere nella 27ma Sessione dei Seminari di Erice. Saranno trattati temi di natura teorica

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come il concetto di modernità tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo. Siamo infatti convinti che l’unità scientifica porti all’unità economica prima e a quella politica poi, bloccando i conflitti. Da buoni Europei non possiamo non riflettere sui due tentativi quasi riusciti di suicidio (Prima e Seconda Guerra Mondiale) e sull’attuale stato di Europa con cinquanta anni di pace sulle spalle.

Furono gli scienziati europei a volere, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, che si creassero in Europa le basi per una effettiva collaborazione scientifica tra nazioni che si erano combattute per secoli e secoli. Dove c’è unità scientifica non può esserci divisione né lotta politica.

La terza sfida sta nel vedere se è possibile trovare temi comuni di interesse scientifico e tecnologico per tutti: ricchi (Nord) e poveri (Sud).

È fuori discussione che i Paesi in via di sviluppo (5 miliardi e mezzo di persone) non possono ripetere i nostri stessi errori: ne va di mezzo il futuro della nostra Civiltà. I tanto declamati problemi dello “sviluppo sostenibile” debbono essere discussi e studiati, non in conflitto, ma in clima di reciproca fiducia e di effettiva collaborazione. Le radici del terrorismo vanno capite in quanto il nemico numero uno dell’umanità ci appare emergere in tutta la sua chiarezza ed è l’ignoranza. È necessario aprire le porte dei laboratori scientifici alle migliori energie intellettuali senza barriere ideologiche, politiche, razziali. I problemi di natura scientifica, medica, tecnologica debbono trovare nella collaborazione internazionale la strada

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giusta per capire se questa terza sfida può trovare nella Scienza un valido contributo.

VI.4.3 Tecniche per la pace tra indù e musulmani (F18-03)

La tecnologia moderna è l’ultima speranza per portare la pace tra indù e musulmani. Nel 1528 i musulmani hanno costruito a Ayodhya (Uttar Pradesh) la moschea Babri Masjid che non cessa di infiammare le due comunità di indù e musulmani causando violenti scontri con migliaia di morti. Motivo: nel 1992 attivisti indù hanno distrutto la Moschea in quanto sarebbe stata costruita sui resti di un Tempio dedicato a Rama. Per metter fine a questi violenti scontri la corte di giustizia di Alahabad ha deciso di far eseguire ricerche archeologiche usando tecnologie moderne (magnetometriche) per realizzare scavi senza recare danni all’attuale stato delle strutture di grande valore archeologico. I primi risultati sembrerebbero indicare che esistono effettivamente strutture nel sottosuolo. Se queste ricerche venissero confermate, ciò che sosteneva la comunità indù – sulla base di antichissime tradizioni – sarebbe corroborato da obiettive prove che il loro non era “spirito di parte” ma desiderio legittimo di difendere le loro radici culturali. La comunità islamica accetterebbe il verdetto della Scienza.

VI.5 Il rapporto tra Scienza e Fede nel Magistero di Giovanni Paolo II: doni di Dio (A41-03)

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Questi 25 anni di Apostolato non hanno precedenti nella Storia del mondo: il crollo del Muro di Berlino, la lotta alle Emergenze Planetarie e la vittoria sulle mistificazioni culturali di cui è massimo esempio la pretesa antitesi tra Scienza e Fede. Queste novità non erano state previste da alcun futurologo. La nostra Cultura era considerata al tramonto quando venne eletto Giovanni Paolo II. Nei libri di Storia dei secoli a venire l’irrompere di questo Papa nella Storia del mondo sarà al centro dell’attenzione. È con il Suo Apostolato che la Cultura Cattolica riporta a casa i tesori della Scienza Galileiana che sono i suoi stessi tesori. Il 30 marzo 1979 il Papa incontra in Vaticano i fisici europei e dice che la Scienza era nata da un atto di Fede. Galilei infatti studiò le pietre per scoprire la Logica del Creato. Avrebbe potuto scoprire il caos. Cosa ne sapeva Galilei che dovevano esistere le Leggi Fondamentali della Natura? E su quali basi – se non per atto di Fede – poteva lui pensare che queste Leggi dovessero essere Universali e Immutabili? È con questi pensieri che Giovanni Paolo II apre le porte della Chiesa alla Scienza e la pone sullo stesso piedistallo di valori della Fede dicendo: «Scienza e Fede sono entrambe doni di Dio». Da questa frase nasce una nuova alleanza tra Giovanni Paolo II e la più vasta comunità scientifica mai messa insieme da alcun organismo al mondo: la WFS (World Federation of Scientists). Giovanni Paolo II dà alla Scienza la forza per difendersi dall’assalto della cultura dominante, separando nettamente Scienza (che è studio della Logica del Creato) e Tecnica (che è uso della Scienza, nel bene e purtroppo anche nel male). In un

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messaggio alla WFS Giovanni Paolo II dice: «L’uomo può perire per effetto della tecnica che egli stesso inventa, non della verità che egli scopre seguendo l’insegnamento di Galilei». Questa frase del Papa permette di distinguere le grandi scoperte scientifiche dalle tecnologie belliche, dall’industrializzazione selvaggia e dalle manipolazioni genetiche.

L’azione congiunta di Giovanni Paolo II e degli scienziati di 115 Nazioni firmatari del Manifesto di Erice ha dato un contributo determinante al crollo del Muro di Berlino, corroborando con fatti concreti la validità di questa Grande Alleanza tra Scienza e Fede.

Scongiurato il pericolo di Olocausto Nucleare, il Santo Padre dà vita a un’altra azione per combattere le Emergenze Planetarie. È così che la comunità scientifica internazionale mette in atto il Volontariato Scientifico realizzando 55 progetti-pilota i cui risultati permettono di concludere che è possibile affrontare e risolvere le Emergenze Planetarie, dando alle generazioni future la speranza di una vita in comunione di benessere e fratellanza tra tutti i popoli della Terra.

Se non fosse per la violenza politica ed economica le scoperte scientifiche troverebbero una e una sola via applicativa: quella che ha come traguardo il miglioramento della qualità della vita e la difesa della dignità per tutte le creature imbarcate in questo satellite del Sole. Se non fosse per la violenza politica ed economica non esisterebbero né la corsa agli armamenti, né l’industrializzazione selvaggia, né le mistificazioni culturali, né le Emergenze Planetarie. L’uso della Scienza sarebbe solo a fin

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di bene e corrisponderebbe a continuare l’Opera della Creazione. È questo l’insegnamento di Giovanni Paolo II. Venticinque anni fa poteva sembrare solo utopia. In questo quarto di secolo sono state accese tante luci sulla speranza che questa utopia possa diventare realtà.

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