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1 BC1: materiale per il II parziale La sterilizzazione è un processo validato atto a rendere un prodotto privo di ogni microrganismo vivente. Quindi la sterilizzazione è il processo volto all’eliminazione (rimozione) e alla disattivazione (uccisione) di tutte le forme viventi e patogene presenti su una superficie, in un volume di fluido, in un farmaco o in composto come terreni di cultura biologica. La disinfezione è il processo atto a eliminare gli agenti in grado di generare malattie e infezioni. La sterilizzazione può avvenire attraverso mezzi fisici (calore secco o umido, radiazioni, raggi UV) o chimici (ossido di etilene, gas plasma, ozono). La determinazione della sterilità di un oggetto avviene tramite il SAL (Sterility Assurance Level) che corrisponde alla probabilità teorica di trovare all’interno di un lotto un dispositivo che sia non sterile dopo un processo di sterilizzazione. Il SAL minimo è 10 -6 . Il calore secco permette l’alterazione della struttura delle macromolecole presenti nei microrganismi (come lipidi e proteine) tramite ossidazione e denaturazione. La resistenza dei microrganismi al calore dipende dal numero dei legami ad alta energia presenti in essi. Il calore umido permette la distruzione di componenti strutturali essenziali per la replicazione (denaturazione di enzimi essenziali e distruzione di complessi proteici e lipidici). Le radiazioni ionizzanti liberano un’energia capace di alterare la funzionalità di macromolecole fondamentali. I microrganismi muoiono per la scissione di catene di DNA; è quindi inibita la riproduzione. I raggi γ provocano la denaturazione di proteine e acidi nucleici. Il problema delle radiazioni con i materiali polimerici è l’effetto degradativo per idrolisi e ossidazione o la reticolazione. In entrambi i casi si ha la rottura dei doppi legami covalenti C=C. La reticolazione (Poliesteri, poliuretani, poliammidi e PE) porta a un aumento del peso molecolare e a un miglioramento delle proprietà meccaniche, ma anche a un infragilimento. La degradazione porta invece a una diminuzione del peso molecolare e a un peggioramento delle proprietà meccaniche. Entrambi sono effetti non voluti. I raggi UV portano ad alterazioni degli acidi nucleici. L’ossido di etilene agisce tramite l’alchilazione di gruppi amminici, carbossilici, idrossilici, fenolici e sulfidrilici di proteine strutturali e enzimatiche e di costituenti degli acidi nucleici di tutti i microrganismi. La generazione di gas plasma per effetto di un campo elettromagnetico porta alla generazione di radicali liberi e all’azione su acidi nucleici e membrane. L’ozono ossida i doppi legami C=C dei composti organici.

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BC1: materiale per il II parziale

La sterilizzazione è un processo validato atto a rendere un prodotto privo di ogni microrganismo vivente. Quindi la sterilizzazione è il processo volto all’eliminazione (rimozione) e alla disattivazione (uccisione) di tutte le forme viventi e patogene presenti su una superficie, in un volume di fluido, in un farmaco o in composto come terreni di cultura biologica.

La disinfezione è il processo atto a eliminare gli agenti in grado di generare malattie e infezioni.

La sterilizzazione può avvenire attraverso mezzi fisici (calore secco o umido, radiazioni, raggi UV) o chimici (ossido di etilene, gas plasma, ozono).

La determinazione della sterilità di un oggetto avviene tramite il SAL (Sterility Assurance Level) che corrisponde alla probabilità teorica di trovare all’interno di un lotto un dispositivo che sia non sterile dopo un processo di sterilizzazione. Il SAL minimo è 10-6.

Il calore secco permette l’alterazione della struttura delle macromolecole presenti nei microrganismi (come lipidi e proteine) tramite ossidazione e denaturazione. La resistenza dei microrganismi al calore dipende dal numero dei legami ad alta energia presenti in essi.

Il calore umido permette la distruzione di componenti strutturali essenziali per la replicazione (denaturazione di enzimi essenziali e distruzione di complessi proteici e lipidici).

Le radiazioni ionizzanti liberano un’energia capace di alterare la funzionalità di macromolecole fondamentali. I microrganismi muoiono per la scissione di catene di DNA; è quindi inibita la riproduzione.

I raggi γ provocano la denaturazione di proteine e acidi nucleici.

Il problema delle radiazioni con i materiali polimerici è l’effetto degradativo per idrolisi e ossidazione o la reticolazione. In entrambi i casi si ha la rottura dei doppi legami covalenti C=C. La reticolazione (Poliesteri, poliuretani, poliammidi e PE) porta a un aumento del peso molecolare e a un miglioramento delle proprietà meccaniche, ma anche a un infragilimento. La degradazione porta invece a una diminuzione del peso molecolare e a un peggioramento delle proprietà meccaniche. Entrambi sono effetti non voluti.

I raggi UV portano ad alterazioni degli acidi nucleici.

L’ossido di etilene agisce tramite l’alchilazione di gruppi amminici, carbossilici, idrossilici, fenolici e sulfidrilici di proteine strutturali e enzimatiche e di costituenti degli acidi nucleici di tutti i microrganismi.

La generazione di gas plasma per effetto di un campo elettromagnetico porta alla generazione di radicali liberi e all’azione su acidi nucleici e membrane.

L’ozono ossida i doppi legami C=C dei composti organici.

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2

Agente sterilizzante

Fattori determinanti

Si può sterilizzare

Non si può sterilizzare

Pro Contro

Calore secco (aria calda)

Temperatura Tempo

Materiali termoresistenti impermeabili al vapore (sostanze oleose, polveri inorganiche, strumenti chirurgici metallici, oggetti in vetro)

Materiali termosensibili, soluzioni acquose, materiale tessile

Pratica Economica

Scarso potere penetrante Cattivo conduttore di calore Scarsa affidabilità dei controlli Eccessiva durata dei cicli di sterilizzazione

Calore umido (vapore acqueo a alta temperatura)

Temperatura Tempo Pressione Umidità

Materiali in vetro, metallo e materiali tessili

Attrezzature per l’endoscopia, sostanze non idrosolubili (sostanze oleose e polveri inorganiche), materiali termolabili

Efficiente (il vapore acqueo ha alto potere penetrante e è un buon conduttore) Veloce Semplice Assenza di residui tossici

Non è indicata per materiali sensibili al calore vapore -> li degrada

Raggi γ Energia fissa (1,17 o 1,33 Mev) Dose (l’effetto sterilizzante è dose dipendente, si raggiunge a 25 KGy) Tempo di esposizione fisso (relazione lineare tra tempo di esposizione e profondità oggetto)

Prodotti monouso (aghi, fili di sutura, lame, alcune plastiche…)

Assenza di residui tossici Prodotti utilizzabili subito dopo la sterilizzazione

Uso industriale limitato per i costi elevatissimi degli impianti Non si possono superare i 25 KGy perché alcuni materiali polimerici si degradano provocando problemi di biocompatibilità

Fascio elettronico

Dose Energia liberata (tra i 5 e i 10 Mev) Tempo di esposizione

Processo semplice Effetti termici trascurabili Non comporta ossidazione Veloce

Possibili alterazioni di struttura e proprietà dei polimeri Minor potere penetrante (0,5 cm ogni Mev) rispetto ai raggi γ e minor uniformità di dose

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3

Raggi UV Piani di appoggio in ambienti controllati, aria e acqua

Scarso potere di penetrazione Azione lesiva su cute e mucose

EtOx Concentrazione (700-800 mg/l, maggiore è la concentrazione minore è il tempo di esposizione) Pressione Umidità relativa (40-60%) Temperatura (ciclo a freddo 30°C o a caldo 60°C) Tempo di esposizione

Endoscopi, materiali di plastica, gomma, PVC, protesi vascolari, libri e fibre ottiche

Tutto ciò che può essere sterilizzato tramite vapore o che è stato trattato con raggi γ -> sviluppo di epicloridina

Alto potere penetrante Molto efficiente Non modifica il substrato Effetti termici trascurabili

Tossicità Residui di ossido di etilene Non è possibile utilizzare i dispositivi subito dopo la sterilizzazione (necessitano di aerazione) Possibile modifica nella struttura e nelle proprietà dei polimeri

Gas plasma Tempo (54 o 72 minuti) Temperatura

Materiali sensibili al calore e all’umidità (strumenti per stereotassi, endoscopi, cavi per fibre ottiche, lame)

Materiali che assorbono H2O2

(teleria, materiali cellulosici, liquidi e polveri)

Buona efficacia Adatta per materiali termosensibili Buona compatibilità con i materiali polimerici I dispositivi sterilizzati possono essere subito utilizzati perché non vengono prodotti residui tossici

Scarso potere di penetrazione e instabilità di H2O2

Ozono PVC, Nylon, silicone, PP, LDPE, HDPE, UHMWPE, PMMA, Teflon, acciaio inossidabile, alluminio anodizzato

Poliuretani -> si degradano

Bassi costi Facilità di utilizzo Nessun residuo tossico Buona compatibilità con i polimeri Bassa temperatura

Tempi di esposizione lunghi

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I meccanismi di degradazione dei materiali polimerici sono risultato di attacchi fisici e chimici. Solitamente la degradazione avviene a causa di una modifica della struttura chimica che può essere causata da calore, radiazioni o sollecitazioni meccaniche. In particolare, l’acqua causa idrolisi e l’ossigeno ossidazione. Durante la lavorazione i materiali polimerici sono soggetti a sollecitazioni meccaniche e a calore, è quindi necessario incorporare stabilizzanti e antiossidanti. Anche la struttura influisce sui fenomeni degradativi: materie plastiche a struttura cristallina sono più resistenti alla degradazione rispetto a quelli a fase amorfa.

L’invecchiamento ambientale è un fenomeno degradativo che non avviene in vivo e è dato da un effetto combinato di assorbimento di umidità, esposizione all’ossigeno atmosferico e esposizione a radiazioni UV e cosmiche.

L’assorbimento di umidità porta a un effetto plastificante con conseguente aumento di flessibilità e a un’eliminazione di acqua con conseguente infragilimento.

L’effetto dell’ossidazione è aumentato dall’esposizione alla luce e in particolare alle radiazioni ultraviolette. Può provocare la scissione di catene oppure la reticolazione. In ogni caso porta al deterioramento delle proprietà fisiche del polimero e della resistenza meccanica.

La fotodegradazione è data dall’invecchiamento climatico. Il macroradicale formato, grazie all’azione dell’ossigeno dell’aria, può produrre reticolazione con conseguente indurimento, fragilità e perdita di elasticità. Si ha quindi in generale una diminuzione del peso molecolare e una perdita delle caratteristiche meccaniche. Tuttavia in genere i polimeri sono poco permeabili alle radiazioni UV e la fotodegradazione si limita alla sola superficie.

L’attacco enzimatico e batterico può avvenire in vivo e può portare a idrolisi e ossidazione con un pericolo per la struttura chimica del polimero e dell’ambiente circostante. Il fenomeno può essere evitato con l’aggiunta di sostanze farmacologiche o antibatteriche, con la scelta di polimeri resistenti a questo tipo di degradazione e con un’adeguata sterilizzazione.

L’attacco chimico è interno al polimero. In particolare i polimeri polari subiscono l’azione di solventi polari e i polimeri apolari subiscono l’azione di solventi non polari. Può portare a rigonfiamento, rammollimento, perdita di resistenza meccanica, permeazione, dissoluzione e stress cracking ambientale. Può avvenire in vivo.

L’enviromental stress cracking (ESC) è potenzialmente il fenomeno degradativo più catastrofico perché porta a fessurazioni profonde che possono causare la rottura del dispositivo impiantato. Avviene in vivo e è facilitato dalla presenza di cellule e enzimi conseguenti a una risposta infiammatoria, dalla predisposizione del materiale che presenta legami etere nel segmento soft (poliuretani) e dalla presenza di tensionamenti dati da sollecitazioni meccaniche esterne o dalla non uniformità del materiale.

L’usura è la rimozione progressiva di materiale dalla superficie di un solido in moto relativo con un altro. Può essere di diversi tipi: erosione, abrasione (a due o a tre corpi, si danneggia il materiale più soft), adesione (si creano legami forti tra le due superfici a contatto che, in presenza di moto relativo, producono residui), a fatica (in presenza di sollecitazioni cicliche con bassa componente traslazionale), fretting (presenza di movimenti oscillatori, può portare a corrosione).

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La corrosione è un fenomeno elettrochimico che avviene in acqua (o per l’esposizione all’umidità atmosferica), ma anche per il contatto con altri materiali o per l’azione di alcuni microrganismi. Perché avvenga la corrosione di devono verificare contemporaneamente:

- Ossidazione del metallo con conseguente dissoluzione Me -> Me z+ + ze- - Fenomeno di riduzione che può variare a seconda che sia presente l’ossigeno (e allora si

avrà la riduzione dell’ossigeno) 1/2 O2 + H2O + 2e- -> 2OH- oppure che non sia presente (e allora si ha sviluppo di idrogeno) 2H+ + 2e- -> H2

La velocità di corrosione misura il passaggio di elettroni e può essere espressa da una densità di corrente elettrica. Perché la corrosione possa avvenire è necessario che l’aggressività dell’ambiente (potenziale di riduzione) sia maggiore della resistenza del metallo a essere ossidato (potenziale di ossidazione). Solo i metalli nobili come Au e Pt non sono corrodibili nel corpo umano, ma hanno caratteristiche meccaniche insufficiente. Tutti gli altri metalli (compresi Ti, Ni, Co, Cr, Fe) sono termodinamicamente suscettibili a corrosione.

Se il potenziale di riduzione è molto maggiore del potenziale di ossidazione si possono verificare due situazioni:

- Metalli attivi -> la velocità di corrosione è molto elevata es. Fe - Metalli attivo-passivi -> si ha la formazione di un ossido di protezione che ostacola la

corrosione del metallo sottostante, la velocità di corrosione è molto bassa es. Ti

La corrosione può essere uniforme o localizzata. La corrosione localizzata è un fenomeno imprevedibile che può avere effetti molto gravi anche se la velocità di corrosione è lenta. Possono verificarsi: corrosione in fessura, per sfregamento o per contatto galvanico.

La corrosione in fessura avviene in presenza di piccole fessure fra due superfici di contatto. In presenza di una fessura non si ha un buono scambio di ossigeno e si ha un aumento di concentrazione di ioni metallici e un incremento del pH. In queste condizioni avviene solo la dissoluzione del metallo e gli ioni migrano sulla restante superficie alimentando la riduzione. Inoltre in condizioni di pH acido non si forma l’ossido protettivo e la velocità di corrosione è molto elevata. È la corrosione tipica del contatto viti/piastre.

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La corrosione sotto sforzo si ha quando si combinano uno stato tensionale e un ambiente aggressivo. In particolare si parla di corrosione per sfregamento quando si hanno dei carichi di compressione e dei micromovimenti locali. È la corrosione tipica tra il colletto e la testa di una protesi d’anca.

La corrosione per contatto galvanico avviene quando un materiale metallico viene messo a contatto con un altro metallo più nobile nella scala dei potenziali termodinamici. È l’unico tipo di corrosione prevedibile e evitabile.

I metalli attivo-passivi (acciai inossidabili, leghe di cobalto, leghe di titanio e titanio) in condizioni normali hanno una velocità di rilascio ionico apparentemente nulla, ma in realtà sempre presente. Un impianto di osteosintesi in acciaio inossidabile può subire un rilascio ionico pari a 500 µg/anno, mentre un impianto dentale osteointegrato può subire un rilascio di 2 µg/anno. In caso di corrosione in fessura o per sfregamento questi valori possono aumentare anche di 100 volte.

La corrosione in fessura o per sfregamento può determinare:

- Effetti trascurabili sull’integrità meccanica dell’impianto - Difficoltà nel processo di osteointegrazione - Rilascio di ioni metallici con:

Attivazione della reazione infiammatoria locale Fenomeni allergici in soggetti sensibili a alcuni ioni metallici (Nichel) o

sensibilizzazione allergica in soggetti non sensibili

Le caratteristiche richieste a un materiale metallico sono:

Rigidezza adeguata Resistenza alla corrosione (in fessura, per sfregamento) Biocompatibilità (non tossicità, non allergenicità) Elevate caratteristiche meccaniche

Nessun materiale può essere considerato completamente soddisfacente. Si possono avere difetti di tipo metallurgico (inclusioni, microvuoti, intagli superficiali) o biomeccanici (sezioni resistenti sovra/sotto-dimensionate, rigidezza inadeguata).

Gli acciai sono leghe di Ferro e Carbonio. Il Fe ha tre forme allotropiche: Fe-α CCC per T<912°C, Fe-γ CFC per 912°C<T<1394°C, Fe-δ per 1394°C<T<1539°C. Le leghe di Fe e C hanno un interesse applicativo se la concentrazione di C non supera il 6,67%. In particolare se la concentrazione di carbonio è superiore al 2,06% si hanno le ghise, altrimenti si ottengono degli acciai. Le ghise non hanno interesse biomedico. Per quanto riguarda gli acciai, a seconda della temperatura il reticolo cristallino del Fe assume una configurazione diversa. Per T>912°C si ha un Fe-γ CFC saturo di carbonio (austenite). Invece, per T<723°C e con un raffreddamento lento si ottiene una struttura con lamine intervallate di ferrite (Fe-α CCC) e di cementite (Fe3C). Tuttavia, nella realtà non è possibile un raffreddamento lento per cui il C intrappolato nella struttura che sta passando da CFC a CCC non riesce a uscire e si forma un reticolo tetragonale distorto detto martensitico. La martensite ha ottime proprietà meccaniche, ma subisce un aumento volumetrico del 4% ed è molto fragile. La fragilità può essere ridota con trattamenti termici successivi.

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Entrambe le strutture possono essere stabilizzate a temperatura ambiente con l’aggiunta in lega di alcuni elementi; si ottengono così gli acciai inossidabili:

Ni stabilizza la struttura austenitica -> se il Ni supera un certo tenore (15/20%) la transizione da Fe-γ a Fe-α avviene a una temperatura inferiore della temperatura ambiente, per cui a temperatura ambiente si avrà una struttura austenitica

Cr stabilizza la struttura ferritica -> se il Cr supera un certo valore (12/13%) il materiale dalla solidificazione alla temperatura ambiente mantiene la struttura Fe-α, non essendovi dunque la transizione da Fe-γ a Fe-α non si può avere la formazione di martensite

Le leghe integrate con Cr e Ni offrono un’elevata resistenza alla corrosione poiché il cromo forma un film di passività.

Gli acciai inossidabili possono dunque avere le seguenti strutture:

Austenitica -> proprietà meccaniche inferiori, ma alta resistenza alla corrosione Martensitica -> proprietà meccaniche superiore, ma elevata fragilità Ferritica Duplex (struttura austeno-ferritica)

Le leghe di Cobalto possono essere ottenute per getto oppure per deformazione plastica.

Il Titanio e le leghe di Titanio hanno bassa densità, sono molto biocompatibili e hanno ottime caratteristiche di resistenza alla corrosione. Tuttavia hanno tecnologie di produzione molto complesse. Il Titanio ha due fasi: EC a temperatura ambiente (fase α) e CCC per T>885°C (fase β).

Il titanio inoltre ha un modulo elastico inferiore rispetto agli altri metalli (110 GPa contro i 230 Gpa delle leghe di Cobalto e i 200 GPa degli acciai inossidabili).

In generale le leghe di Titanio hanno caratteristiche meccaniche maggiori, minore resistenza alla corrosione, alti costi e non sono lavorabili con deformazioni plastiche. A seconda dell’elemento in lega si ha una diversa temperatura di transizione da fase α a fase β. Gli stabilizzanti della fase α sono Al, N, O e aumentano la temperatura di transizione. Gli stabilizzanti della fase β sono V, Nb, Cr e Fe e diminuiscono la temperatura di transizione. Le leghe α sono molto duttili ma hanno basse caratteristiche meccaniche. Le leghe β hanno ottime caratteristiche meccaniche, ma risultano fragili e dure. Le leghe α+β a temperatura ambiente presentano invece entrambe le fasi.

La lega di Ni-Ti è un materiale a memoria di forma. Cioè il materiale che ha subito una deformazione a una certa temperatura può riprendere la forma iniziale qualora venga riscaldato a una temperatura superiore.

La resistenza a fatica è uno dei criteri fondamentali per la scelta del materiale metallico perché, specialmente nelle applicazioni ortopediche, si hanno dei carichi ciclici applicati con la possibile insorgenza di fenomeni di fatica dovuti anche a difetti metallurgici, nell’applicazione o alla discontinuità nel disegno dell’impianto stesso.

Un’altra importante caratteristica dei materiali metallici è il modo in cui trasmettono i carichi. Infatti il sistema scheletrico fa in modo che le parti che sopportano carichi aumentino la propria massa, mentre le parti che non sopportano carichi subiscano riassorbimento osseo (stress shielding). Considerando che in un sistema a due componenti il componente più rigido sopporta la maggior

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parte del carico, in una protesi d’anca se lo stelo femorale è più rigido del femore stesso si avrà riassorbimento osseo nella parte prossimale e inspessimento nella parte distale.

Nelle protesi d’anca non cementate ci deve essere una trasmissione fisiologica della forza per evitare il riassorbimento osseo nella parte prossimale con conseguente mobilizzazione dell’impianto. Per questo si utilizzano le leghe di Titanio che hanno modulo elastico inferiore agli altri metalli. Si utilizzano poi dei rivestimenti osteoconduttori sull’intero stelo per minimizzare il rischio di rottura per fatica e sull’intera coppa acetabolare per evitare la migrazione di detriti (UHMWPE).

Nelle protesi d’anca cementate, invece, un eccessivo carico della zona prossimale porterebbe a una sollecitazione consistente sul PMMA (cemento osseo) con conseguente formazione di detriti di usura e mobilizzazione dell’impianto. Occorrono dunque materiali metallici con alto modulo elastico come leghe di Cobalto e acciai inossidabili austenitici.

In ambito ortopedico i materiali metallici possono essere utilizzati sia per impianti permanenti (protesi d’anca, protesi di ginocchio, protesi di spalla, protesi di gomito) sia per impianti provvisori (mezzi di osteosintesi, distrattori intervertebrali, fissatori esterni -> problema interfaccia ambiente/corpo umano). In ambito odontoiatrico i materiali metallici possono essere utilizzati sia per fili ortodontici sia per impianti dentali osteointegrati. In ambito cardiovascolare i materiali metallici possono essere utilizzati come stent o come sistemi di supporto per le valvole cardiache.

Materiale metallico Uso biomedicale Vantaggi Svantaggi Acciaio inossidabile austenitico

Dispositivi impiantabili: protesi e soprattutto dispositivi temporanei (mezzi di osteosintesi) Stelo femorale di protesi d’anca cementata Innesto tibiale e femorale protesi di ginocchio Distrattori intervertebrali Fissatori esterni Sistemi placca/vite che sopportano carichi

Basso costo Facilità di lavorazione per deformazione plastica

Presenza di Ni Suscettibilità alla corrosione in fessura (sotto la testa delle viti nelle placche di osteosintesi)

Acciaio inossidabile martensitico

Strumentario biomedico

Leghe di Co per getto Protesi articolari, protesi di valvole cardiache, stent Stelo femorale e coppa acetabolare per protesi d’anca cementata Componente femorale e tibiale protesi di ginocchio Distrattori intervertebrali Sistemi placca/vite che sopportano carichi

Ottime proprietà meccaniche Alta resistenza alla corrosione (per sfregamento)

Alti costi Impossibilità di deformazione plastica Bassa resistenza a fatica (in presenza di difetti metallurgici)

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Leghe di Co per deformazione plastica

Protesi articolari, protesi di valvole cardiache, stent Stelo femorale e coppa acetabolare per protesi d’anca cementata Componente femorale e tibiale protesi di ginocchio Distrattori intervertebrali Sistemi placca/vite che sopportano carichi

Ottime proprietà meccaniche Alta resistenza alla corrosione

Alti costi Presenza di Ni Complessa tecnologia di produzione

Titanio commercialmente puro

Fili per apparecchi ortodontici, impianti dentali

Ottima biocompatibilità Possibilità di deformazione a caldo Buona resistenza alla corrosione (in fessura)

Scarse proprietà meccaniche Suscettibilità alla corrosione per sfregamento Difficoltà di deformazione a freddo

Leghe di Titanio (Ti6Al4V)

Protesi articolari, protesi maxillo-facciali, impianti dentali Steli femorali di protesi d’anca non cementate Innesto tibiale di una protesi di ginocchio Sistemi placca/vite che non sopportano carichi

Buone caratteristiche meccaniche Basso modulo elastico Buona biocompatibilità

Suscettibili alla corrosione per sfregamento Impossibilità di ottenere dei getti

Lega Ni-Ti Fili per gli archetti in ortodonzia, filtri per la vena cava, clips per aneurismi intracranici, stent vascolari (ha un campo di super-elasticità, adatto per zone che subiscono un movimento), protesi ortopediche

I materiali ceramici sono composti policristallini inorganici, duri, fragili, inerti, buoni isolanti termici e elettrici e con un’alta resistenza a compressione. Vengono utilizzati in ambito ortopedico/ortodontico, in ambito cardiovascolare e come rivestimenti superficiali (biointegrazione e bioattività).

I bioceramici si dividono in tre tipologie: bioceramici (quasi) inerti con alte caratteristiche meccaniche, usate in ambito ortopedico per componenti sottoposte a alte sollecitazioni, bioceramici a reattività superficiale e bioriassorbibili. Queste ultime due categorie sono formate dagli stessi materiali amorfo-cristallini e sono usati in ambito dentale, come rivestimenti che aiutano l’integrazione con il tessuto osseo e in campo maxillo-facciale.

I bioinerti sono allumina (Al2O3), zirconia (Zr2O) e carbonio pirolitico. I bioceramici a reattività superficiale sono i biovetri e l’idrossiapatite. I bioceramici bioriassorbibili sono l’idrossiapatite e il tricalcio fosfato. I componenti di queste due ultime categorie interagiscono col tessuto osseo, vengono riconosciuti come self e non scatenano reazioni infiammatorie. I ceramici quasi inerti non

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danno reattività, i ceramici riassorbibili hanno una grande reattività iniziale (vengono riassorbiti), mentre i ceramici a reattività superficiale danno una buona reattività ma formano dei legami col tessuto osseo circostante.

I bioceramici (quasi) inerti non subiscono variazioni chimiche nell’ambiente fisiologico. Vengono riconosciuti come non-self dall’organismo e per questo si forma una membrana fibrosa molto sottile (10 µm). Questa membrana porta all’isolamento dell’impianto dall’organismo con conseguente mobilizzazione e fallimento. È importante sottolineare che i bioceramici formati da ossidi (allumina, zirconia) quando sono immersi in fluidi acquosi trasformano gli ossidi superficiali in gruppi -OH che conferiscono una particolare idrofilicità all’ambiente.

L’allumina ha una configurazione EC in cui le posizioni reticolari sono occupate dagli atomi di ossigeno, mentre i 2/3 delle posizioni interstiziali sono occupate da atomi di Al. Le principali caratteristiche dell’allumina sono: polveri con elevata purezza e distribuzione omogenea e fine lavorabili a basse temperature, alta densità, buona resistenza a compressione, flessione e usura, l’inerzia chimica e la biocompatibilità. L’allumina è troppo fragile per poter costituire lo stelo femorale di una protesi d’anca, ma è utilizzata per l’accoppiamento testa femorale/coppa acetabolare a causa di un basso coefficiente d’attrito (dovuto all’idrofilicità dell’allumina contro l’idrofobicità del PE) e una conseguente bassa velocità di usura. Infatti mentre un accoppiamento metallo/UHMWPE ha una velocità di usura di 100 µm/anno e un accoppiamento Al2O3/UHMWPE di 50 µm/anno, la velocità di usura di un accoppiamento allumina/allumina è di soli 0,025 µm/anno. Un ulteriore problema di UHMWPE è la produzione di detriti d’usura che non riescono a essere smaltiti correttamente dai leucociti. Anche l’allumina produce dei pericolosi detriti d’usura perché acuminati e duri.

N.B. L’allumina è l’unico materiale con cui si possa realizzare l’intero accoppiamento.

La zirconia ha diverse forme allotropiche: CFC (T>2370°C), tetragonale (1170°C<T<2370°C) e monoclina (T<1170°C). Tuttavia, nella trasformazione da tetragonale a monoclina però si ha un aumento volumetrico del 4% che conferisce instabilità dimensionale alla zirconia con la conseguente impossibilità di ottenere prodotti. La zirconia può essere stabilizzata con l’introduzione di ossidi refrattari (CaO, MgO, Y2O3) che inoltre conferiscono al materiale un’elevata tenacità alla rottura. Infatti, il MgO permette la formazione di una struttura parzialmente stabilizzata (monoclina con precipitati tetragonali) e il Y2O3 permette la formazione di una struttura tetragonale completamente stabilizzata. Sono proprio i precipitati a conferire l’alta tenacità perché si dispongono attorno alle cricche rallentandone l’espansione. La zirconia può essere usata sia per rivestimenti sia per componenti massivi.

La zirconia e l’allumina sono utilizzate in ambito ortopedico e dentale.

Il carbonio turbostratico non si può ottenere con normali lavorazioni delle polveri perché il carbonio ha un punto di sublimazione molto alto (T>3700°C). Si devono utilizzare dunque delle tecniche che partono da precursori ricchi di carbonio suscettibili a depositare residui con le proprietà meccaniche desiderate. Una di queste tecniche è la pirolisi, ovvero la decomposizione di idrocarburi, che si ottiene facendo fluire a bassa pressione con continuità l’idrocarburo su un substrato a temperature comprese tra 800°C e 2800°C. In questo modo possono essere rivestiti materiali ceramici (LTI = low temperature isotropic). In questo procedimento possono anche essere

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introdotte delle impurezze (Si conferisce maggiore stabilità). Anche metalli, polimeri e tessuti possono essere rivestiti di carbonio turbostratico tramite la deposizione da fase vapore (ULTI = ultra low temperature isotropic) in cui un flusso ionico scalza da un target il carbonio turbostratico. Il carbonio turbostratico viene utilizzato per l’ottima resistenza all’usura (è capace di sostenere ampie deformazioni elastiche localizzate) che nel caso di LTI può essere aumentata ulteriormente aumentano la durezza del materiale riducendo il numero di cristalliti e introducendo leganti come il Si, per la resistenza a fatica, per l’ottima bio- e emo- compatibilità e inoltre non promuove l’adesione proteica e cellulare. Il carbonio LTI viene usato per rivestire valvole meccaniche cardiache. Il carbonio ULTI per rivestimenti di protesi vascolari. Il carbonio turbostratico viene utilizzato anche come parte mobile in alcune valvole cardiache, come rivestimento di gabbie di fusione vertebrale e di dispositivi di annuloplastica.

Le fibre di carbonio vengono ricavate da un precursore (PAN) che viene trattato ad alta temperatura per ottenere dei cicli di solo C. Il composto viene poi stirato e le fibre hanno alta resistenza in direzione longitudinale (E= 200/500 GPa). La tecnologia delle fibre è molto versatile.

I bioceramici a reattività superficiale e bioriassorbibili causano una reazione selettiva e appropriata nell’ambiente fisiologico. Si ha la formazione di un legame tra la superficie dell’impianto e il tessuto senza la formazione di un tessuto fibroso. Sono in particolare biovetri e bioceramici a base di fosfato di calcio. Vengono utilizzati in campo dentale, maxillo-facciale e come rivestimento di protesi ortopediche. La fase minerale dell’osso è molto complessa, ma è formata per lo più da idrossiapatite con un rapporto Ca/P = 1,67. È necessario dunque ricreare un composto che sia il più simile possibile alla fase minerale dell’osso. Nei bioceramici la fase amorfa viene riassorbita facilmente mentre la fase cristallina tende a conferire biostabilità. I criteri per l’idoneità di un materiale biodegradabile sono: la degradazione deve avvenire secondo i normali meccanismi fisiologici, l’impianto deve sviluppare la funzione a cui è preposto per un tempo appropriato, la degradazione del materiale non deve impedire la sostituzione con nuovo tessuto sano fisiologico.

L’idrossiapatite ha basse caratteristiche meccaniche e non è adatta per componenti massivi, ma per componenti che non sono fortemente sollecitati come riempitivi, impianti dell’orecchio medio, fase bioattiva in materiali compositi, rivestimenti di materiali metallici.

I biovetri sviluppano delle reazioni controllate a contatto con i fluidi corporei. Sono costituiti da una miscela di ossidi con composizioni definite. Hanno basse caratteristiche meccaniche e vengono usati come rivestimenti di impianti dentali. In particolari i biovetri assorbono i fluidi biologici tra cui le proteine che permettono la formazione di idrossiapatite. Questo meccanismo quindi ostacola la formazione di una capsula fibrosa. Tuttavia, se la miscela di ossidi non è appropriata, possono verificarsi dei micromovimenti tra impianto e osso che provocano la mobilizzazione e il fallimento dell’impianto stesso.

I materiali polimerici sono per lo più ottenuti dalla sintesi chimica del petrolio. I polimeri ottenuti per polimerizzazione a catena sono: PE, PP, PS, PMMA, PTFE, PVC, PHEMA. La differenza principale tra questi polimeri risiede nel diverso ingombro sterico dei sostituenti che influisce sulla cristallinità e sulle proprietà chimiche e fisiche.

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Il polietilene è un polimero termoplastico semicristallino a configurazione ramificata (LDPE) o prevalentemente lineare (HDPE e UHMWPE). Naturalmente la linearità influisce sulla cristallinità (< linearità > cristallinità) e sulla densità. Inoltre maggiore è il peso molecolare, maggiore sarà la viscosità allo stato fluido e minore l’indice di fluidità.

Il LDPE si ottiene a partire da granuli, ha una struttura molto ramificata, è molto flessibile e tenace, ma non è adatto a sopportare carichi, è trasparente e ha una bassa densità. È resistente agli agenti chimici ma non all’ossigeno.

Il HDPE si ottiene per polimerizzazione in presenza di catalizzatori specifici. Ha una struttura prevalentemente lineare, è rigido, cristallino, a alta densità, è termo- e foto-ossidabile ma chimicamente inerte. Ha buone proprietà meccaniche, quindi può essere utilizzato per dispositivi impiantabili a breve termine (ha una rigidezza troppo diversa da quella dei tessuti biologici, rischio di rottura).

Il UHMWPE è un materiale polimerico a alta densità e alto peso molecolare. È rigido, cristallino, tenace, chimicamente stabile, ma sensibile all’ossidazione (che può portare a reticolazione e infragilimento) e alle radiazioni. È un materiale con un’ottima resistenza all’usura e un basso coefficiente d’attrito, ha una buona biocompatibilità, può essere lavorato per barre estruse e c’è la possibilità di ottenere delle fibre tramite gel spinning. Inoltre UHMWPE assorbe molto gli urti. Il problema di questo materiale risiede nell’usura che può causare dei detriti che non riescono a essere smaltiti correttamente dal sistema immunitario con problemi localizzati e/o sistemici che possono portare al riassorbimento osseo. Poiché l’usura avviene sulla superficie meno rigida di due corpi in moto relativo, il problema può essere risolto trattando con delle radiazioni la superficie del materiale. In questo modo le parti amorfe del materiale reticolano conferendo maggiore durezza al materiale. Tuttavia questo processo può provocare la formazione di radicali liberi, ma con un trattamento termico ad alta temperatura il polimero può ricristallizzare.

Il polipropilene è un polimero semicristallino con proprietà simili al PE ma con maggiori proprietà meccaniche, minore densità e maggiore sensibilità alla degradazione ossidativa. Il PP può essere atattico (gruppi CH3 disposti random), sindiotattico (gruppi CH3 posti tutti sullo stesso piano) e isotattico (gruppi CH3 posti alternativamente su due piani diversi). Per quanto riguarda il PP sono molto importanti i copolimeri realizzati con il PE che possono sostituire il PVC quando questo richiede l’aggiunta di plastificanti. Con il PP si possono ottenere anche film e fibre.

Il polimetilmetacrilato è una resina acrilica tenace, gommosa, amorfa e molto trasparente. Le resine acriliche in generale cono ottenute da esteri che presentano gruppi vinilici e a seconda del sostituente si ha un maggiore o minore ingombro sterico. Il PMMA ha Tg pari a 100°C quindi a temperatura corporea è duro, rigido e fragile. Il PMMA ha una straordinaria resistenza ai raggi UV e agli agenti atmosferici ed è soggetto a creep. Viene utilizzato in particolare per il cemento per ossa. Nella fase di lavorazione il PMMA ha proprietà plastiche e si adatta bene alla sede, mentre alla fine del processo di polimerizzazione indurisce e assicura il fissaggio della protesi. Il cemento per ossa viene realizzato in sala operatoria a partire da una polvere (PMMA prepolimerizzato e perossido di benzoile -> iniziatore di reazione) e da un liquido (monomero di MMA, ammina aromatica -> accellerante di reazione, inibitore di reazione e attivatori). L’impasto e la lavorazione del PMMA devono avvenire prima del suo indurimento, cioè prima che la polimerizzazione sia completata. L’utilizzo di questo materiale presenta però alcuni problemi: il picco esotermico che si verifica a

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termine della polimerizzazione e che non deve superare i 56°C per evitare la denaturazione delle proteine (ciò non avviene mai per bassi spessori), la tossicità data dall’ammina aromatica e dal monomero di MMA che può dare allergie, cadute di pressione e effetti citotossici, dai microvuoti che si creano con la lavorazione e che possono portare alla mobilizzazione dell’impianto o alla formazione di detriti (con conseguenti fenomeni di usura) e il ritiro volumetrico.

Il poliidrossimetilmetacrilato è un polimero termoplastico che può rigonfiare in acqua ed è moderatamente permeabile all’ossigeno. Può essere copolimerizzato.

Il polivinilcloruro è un materiale sostanzialmente amorfo con Tg pari a 84°C. Le sue principali caratteristiche sono la tenacità e la translucentezza. Può essere rigido, semirigido o flessibile (con l’aggiunta di plastificante). A 150°C il PVC rilascia HCl che è corrosivo per le parti metalliche (non può quindi essere sterilizzato in autoclave. Quando il PVC degrada (per ossidazione o fotodegradazione superficiale) tende a scolorire diminuendo le proprie proprietà meccaniche. Il PVC che a temperatura ambiente è rigido e duro, diminuisce la sua Tg con l’aggiunta di plastificante. Il problema del plastificante è la sua tossicità: infatti col tempo può essere rilasciato nell’ambiente. Tuttavia i plastificanti alternativi sono molto costosi.

Il polistirene è sostanzialmente amorfo e ha una Tg di 100°C. È un materiale rigido, fragile, trasparente, resistente alle radiazioni γ. Tuttavia, ha il problema della presenza di un monomero non polimerizzato che causa la perdita del senso della realtà. Il polistirene ha anche forma espansa. Può essere utilizzato in molti copolimeri tutti trasparenti e con una maggiore tenacità. Con il butadiene forma polimeri resistenti a radiazioni γ e EtOx, molto resistenti all’urto e infrangibili. Con butadiene e acrilonitrile forma copolimeri molto resistenti all’urto e con una buona stabilità dimensionale. Con acrilonitrile forma copolimeri a basso costo, molto rigidi, resistenti a radiazioni, alcoli, farmaci e disinfettanti.

Il politetrafluoroetilene (Teflon) ha comportamento e struttura simili al PE. È un materiale polimerico con alta cristallinità, ad alto peso molecolare, fisiologicamente inerte, termicamente stabile, isolante elettrico, ad alta inerzia chimica, idrorepellente. Potrebbe essere usato per dispositivi impiantabili, ma presenta alcune problematiche: è un termoelastomero (dopo la fusione della parte cristallina non è abbastanza fluido), non può essere lavorato con le normali lavorazioni meccaniche, ha un basso coefficiente di attrito (ma più alto del PE) e provoca la formazione di detriti che causano un’intensa reazione infiammatoria. La sua forma espansa, il Goretex, è impermeabile all’acqua e permette lo scambio di gas e la traspirazione.

Il poliacrilonitrile è un polimero altamente cristallino che degrada sopra la Tm (quindi non può essere processato come termoplastico), è moderatamente permeabile ai gas e può essere utilizzato per formare dei copolimeri con il PS.

I polimeri ottenuti per polimerizzazione a stadi sono: poliesteri, poliammidi, poliuretani, policarbonato, gel polimerici e siliconi.

I poliesteri possono essere lineari o reticolati, alifatici o aromatici, biostabili (subiscono fenomeni di degradazione non programmati) o bioriassorbibili (dopo un certo tempo noto a priori si degradano senza lasciare residui tossici).

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Il polietilentereftalato è un poliestere altamente cristallino con una buona resistenza chimica e all’usura e con una buona stabilità dimensionale. Il suo problema maggiore è che richiede delle rigorose condizioni di stampaggio. Può essere utilizzato anche sotto forma di fibre (Dacron) che hanno una grande resistenza nella direzione longitudinale. In ambito biomedicale il Dacron può essere lavorato in diversi modi: woven (tessuto intrecciato regolare) o knitted (lavorato a maglia con una struttura più porosa). A sua volta la lavorazione knitted si suddivide in warp (lavorazione in senso longitudinale resistente agli sfilacciamenti) e weft (lavorazione radiale più flessibile e estensibile). La maggiore problematica della lavorazione knitted è che richiede precoagulazione per evitare la formazione di trombi (passaggio pericoloso per la possibile contrazione di infezioni). La problematica può essere risolta con un rivestimento in carbonio turbostratico ULTI. A entrambe le lavorazioni è possibile aggiungere un effetto velluto (velour).

I poliesteri biodegradabili subiscono dei fenomeni di degradazione (rottura delle catene) e erosione (perdita in massa). L’erosione può avvenire secondo due meccanismi diversi: la surface erosion (le dimensioni diminuiscono all’avanzare dell’erosione, indicato per il rilascio di farmaci) e la bulk-erosion (si ha una perdita di volume soltanto quando le catene si sono rotte). I poliesteri biodegradabili sono: acido polilattico, acido poliglicolico e policaprolattone. Il meccanismo di degradazione di PLA e PGA prevede l’idrolisi del legame estere, il rilascio di acido lattico/glicolico, l’eliminazione dei prodotti tramite acqua e anidride carbonica e delle variazioni in massa e peso molecolare a seconda della degradazione. PLA e PGA hanno caratteristiche diverse tra loro (in particolare il PLA è più idrofobico del PGA) che possono essere sfruttate formando un copolimero.

Le poliammidi hanno un gruppo ammidico molto polare. Sono polimeri ad elevata cristallinità e si dividono in nylon e aramidi. Il nylon è sempre seguito da due numeri che indicano il numero di atomi di carbonio nei due comonomeri. Il nylon ha il grande vantaggio di poter essere utilizzato sotto forma di fibre. Ha però il problema di subire l’azione plastificante e rigonfiante dell’acqua (anche se è stabile all’idrolisi) che nel corpo umano porta a una perdita di trazione del 15/20% ogni anno.

Il policarbonato è un polimero altamente amorfo con una Tg pari a 150°C. È quindi molto trasparente, rigido, con un’elevata tenacità (importante a bassi spessori) ed è resistente alle radiazioni.

I siliconi sono polimeri parzialmente inorganici (Si in catena); sono stabili all’idrolisi e all’ossidazione e sono molto idrofobici. In ambito biomedicale si usa il polidimetilsilossano. Ha la caratteristica di avere una Tg di -120°C e una Tm di -40°C; il polimero è maneggiabile solo perché parzialmente reticolato (e a seconda del grado di reticolazione si possono avere dei gel oppure degli elastomeri).

I poliuretani contengono il gruppo uretano e fanno parte di questa famiglia anche i poliurea-uretani che contengono il gruppo urea. Il gruppo uretano è dato dalla reazione di un isocianato con il gruppo ossidrile di un alcol, mentre il gruppo urea è dato dalla reazione di un isocianato con un’ammina. A seconda che i monomeri siano difunzionali o plurifunzionali si hanno dei poliuretani lineari (che eventualmente possono essere allungati tramite un diolo usato come estensore) o reticolati. In generale i poliuretani lineari hanno buone proprietà meccaniche, una bassa igroscopicità, ottime caratteristiche meccaniche e termiche e sono termoplastici. I poliuretani reticolati hanno caratteristiche meccaniche, termiche e elettriche superiori a quelle di altre resine

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termoindurenti. I poliuretani espansi hanno caratteristiche variabili a seconda della struttura. I poliuretani lineari (PTS, SPT, PTU) possono essere utilizzati per formare copolimeri caratterizzati dalla presenza di segmenti soft e segmenti hard (polimeri lineari a blocchi). In generale i segmenti soft rendono la struttura più flessibile mentre i segmenti hard la irrigidiscono. In particolare la risposta meccanica dipende da: concentrazione e disposizione dei segmenti hard, forza di aggregazione degli stessi, capacità dei segmenti di disporsi secondo la direzione di sollecitazione, capacità dei segmenti soft di cristallizzare parzialmente sotto deformazione. In modo più generale si può dire che i segmenti hard aumentano resistenza e rigidezza a scapito della deformazione a rottura mentre i segmenti soft hanno effetto opposto. Le caratteristiche dei poliuretani che vengono sfruttate in ambito biomedicale sono: le buone proprietà meccaniche, la buona bio- e emo-compatibilità, la bassa adesione batterica. Il problema principale dei poli-etere-uretani (storicamente i più stabili fra gli uretani) è quello di essere soggetti a fenomeni di degradazione in vivo (ESC, idrolisi e ossidazione). Per risolvere parzialmente il problema si è pensato di utilizzare dei poli-carbonato-uretani (che non contenendo il gruppo etere sono meno soggetti a ESC) o dei siliconi-poliuretani.

I gel polimerici sono in uno stato della materia intermedio tra solido e liquido. Hanno un comportamento da solidi o quasi solidi anche se sono formati per il 99% da liquidi. Sono formati da una matrice solida completamente permeata da liquidi e possono avere un comportamento che va da un fluido molto viscoso a un solido rigido. In particolari gli idrogeli sono strutture reticolate e rigonfiate in acqua che si formano per la formazione di legami a ponte fra catene idrofiliche oppure per associazioni fisiche tramite legami a idrogeno e forti interazioni di Van der Waals. Sono insolubili in acqua, ma rigonfiano in acqua fino a uno stato di equilibrio e sono a memoria di forma nello stato rigonfiato.

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Materiale polimerico

Usi

LDPE Sacchetti, pellicole per alimenti, imballaggi, guanti monouso, sacchi per la spazzatura, pipette, bottiglie di plastica, sacchi della spazzatura

HDPE Imballaggi, bottiglie, contenitori per urine, cateteri, cateteri epidurali, caschetti protettivi UHMWPE Accoppiamenti articolari, piatto tibiale delle protesi di ginocchio, coppa acetabolare delle

protesi d’anca PP Connettori, bottiglie, contenitori, membrane per ossigenatori, articolazioni delle dita, reti per il

contenimento di ernie, siringhe, fili di sutura non riassorbibili e tessuti non tessuti PMMA Vetri di sicurezza, lenti a contatto rigide, lenti intraoculari, cemento per ossa, protesi dentali e

ortopediche PHEMA Lenti a contatto, idrogeli, rivestimenti biocompatibili PVC rigido Strumenti per il laboratorio, imballaggio biomedico, apparecchiature biomedicali, accessori

monouso PVC flessibile Sacche per il sangue, tubi (dialisi e macchine cuore/polmone), guanti/accessori monouso,

cateteri per uso temporaneo, sonde intravenose PS Siringhe, imballaggi, accessori monouso, modificato in superficie piastre di coltura cellulare PS espanso Isolanti termici e acustici, imballaggi PS + PAN Componenti di strumentario medico, supporto esterno per dializzatori ePTFE Protesi vascolari di medio calibro (diametro inferiore ai 7 mm), fili di sutura non riassorbibili,

tessuti per il contenimento di ernie, patch cardiaci, membrane in campo dentale PAN Precursore delle fibre di carbonio, fibre, membrane per dializzatori PET Bicchieri, contenitori, bottiglie soffiate, nastri per musicassette, protesi vascolari di largo

calibro (diametro superiore agli 8 mm), pezze e garze, anelli di sutura, fili di sutura non riassorbibili.

PLA, PGA, PCL

Mezzi di osteosintesi (che non devono sopportare carichi), matrici per il rilascio controllato di farmaci, supporti per la crescita cellulare (ingegneria dei tessuti), fili di sutura riassorbibili

PLA + PGA Mezzi di osteosintesi (di piccole dimensioni e che non devono sopportare carichi), bone pins, fili di sutura bioriassorbibili, stent biodegradabili, supporti per la crescita cellulare -> in particolare riparazione di vasi ematici piccoli (diametro inferiore a 6 mm)

Nylon Fibre sintetiche, calze da donna, setole spazzoli da denti, rivestimenti impermeabili, fili di sutura non riassorbibili

PC Membrane per ossigenatori, chirurgia plastica del cranio, contenitori trasparenti PDMS Chirurgia estetica e generale (protesi mammarie, protesi testicolari, protesi di polpaccio),

piccole protesi (articolazioni delle dita), oftalmologia (lenti a contatto), linee ematiche (cateteri, tubi)

Poliuretani Dispositivi a uso temporaneo: cateteri venosi, tubi endotracheali, sondini nasogastrici, palloni intraaortici, membrane per dializzatori Dispositivi impiantabili a uso permanente: ventricoli artificiali, protesi vascolari di piccolo calibro, foglietti di valvole artificiali biomorfe, spaziatori vertebrali, copertura delle guide elettriche dei pacemaker.

Idrogeli Lenti a contatto (PHEMA), matrici per il rilascio di farmaci, matrici per il supporto e la crescita cellulare, rivestimenti biocompatibili, strutture a contatto con il sangue

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BC2: materiale per il primo parziale

Un polimero è una macromolecola, ovvero una molecola dall’elevato peso molecolare, costituita da un gran numero di gruppi molecolari (detti unità ripetitive, monomeri o building blocks), uguali o diversi (co-polimeri), uniti tra loro mediante legame covalente. Si dividono in polimeri sintetici e polimeri naturali.

Una base è una sostanza che in acqua acquista un elettrone caricandosi positivamente.

Un acido è una sostanza che in acqua perde un elettrone caricandosi negativamente.

I polimeri naturali sono: polisaccaridi, proteine e acidi nucleici.

Le funzioni fisiologiche dei polisaccaridi sono:

Combustile metabolico (glucosio, fruttosio, galattosio) Riserva energetica (glicogeno, amido) Componenti strutturali (acido ialuronico) Riconoscimento cellulare (recettori glicoproteici)

I monosaccaridi sono classificati in base a tre caratteristiche:

Numero di atomi di carbonio (triosi, tetrosi, pentosi, esosi e ettosi) Posizione del gruppo carbonile (aldeidi o chetoni) Chiralità, ovvero il modo in cui sono disposti i sostituenti attorno a un centro stereogenico

(si considera l’atomo di carbonio più lontano dal gruppo aldeidico o chetonico). Tutti i monosaccaridi naturali hanno configurazione D.

Es. Il glucosio è un monosaccaride esoso e aldeidico mentre il fruttosio è un esoso chetonico.

Isomeri: molecole con stessa formula bruta e stesso peso molecolare

Isomeri costituzionali: molecole con stessa formula bruta ma diversa formula di struttura

Stereoisomeri: molecole con stessa formula bruta e stessa formula di struttura, ma diversa configurazione tridimensionale

Enantiomeri: molecole che sono l’una l’immagine speculare dell’altra

Diastereoisomeri

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Alcuni esempi di derivati dal β-glucosio:

Acido N-acetilmuramico (NAM) N-acetil-glucosammina (NAG) Acido glucuronico

I primi due formano i peptidoglicani (parete rigida dei batteri), gli ultimi due formano l’acido ialuronico (elasticità alla pelle).

I disaccaridi più comuni sono:

Saccarosio (glucosio + fruttosio) Maltosio (glucosio + glucosio) -> amido Cellobiosio (glucosio + glucosio) -> cellulosa Lattosio (glucosio + galattosio)

I polisaccaridi (minimo 10 unità ripetitive) vengono classificati sulla base di:

Variabili strutturali 1. Numero di unità monosaccaridiche 2. Tipo di legami glicosidici 3. Carica 4. Tipo di struttura (lineare, ramificata o ciclica) 5. Peso molecolare 6. Tipo di sovrastrutture tridimensionali

Variabili funzionali 1. Funzione protettiva 2. Funzione energetica 3. Funzione strutturale 4. Funzione lubrificante (es. acido ialuronico in liquido sinoviale)

Tipo di struttura:

Lineare con un solo tipo di monosaccaridi (cellulosa, amilosio) Lineare con alternanza di due diversi tipi di monosaccaridi (acido ialuronico) Lineare a blocchi (alginati) Ramificata con un solo tipo di monosaccaridi (amilopectina) A blocchi con interruzioni di un’unità monosaccaridica diversa (chitosano) Strutture più complesse

Carica:

Positiva (chitosano) Neutra (cellulosa, amido) Negativa (alginati, eparina e altri GAG, acido ialuronico)

Gli alginati sono co-polimeri anionici lineari a blocchi formati dall’acido β-D-mannuronico e dall’acido α-L-glucuronico (legame β 1-4), derivano dall’acido alginico e vengono ricavati dalle alghe brune e dalle pareti di alcuni batteri. Inglobano grandi quantità di acqua e gelificano in presenza di cationi bivalenti. Vengono usati come gelificante alimentare, nelle impronte

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ortodontiche, nelle maschere di bellezza e nei farmaci sia come eccipiente sia come principio attivo per il reflusso gastro-esofageo.

L’acido ialuronico è un glicosamminoglicano a catena lineare con alternanza di due monosaccaridi: acido glucuronico e N-acetil-glucosammina (legami β 1-3) legati da legami β 1-4. Ha funzione strutturale (es. derma) e lubrificante (es. liquido sinoviale) per la sua elevata viscosità. La molecola di acido ialuronico è molto lunga (fino a 10 µm) e ha un elevato peso molecolare. Viene utilizzata anche nei filler e si ricava da processi fermentativi o da creste di gallo.

L’eparina è un glicosamminoglicano solfato a catena lineare formato da acido iduronico e acido glucuronico. È utilizzato come anticoagulante iniettabile (blocca il fattore X inibendo la trombina) ed è la biomolecola con anionicità maggiore.

La cellulosa è un omopolimero lineare formato da molecole di D-glucosio (legami β 1-4), forma delle fibrille e le sue catene sono disposte parallelamente le une alle altre e sono unite fra loro da legami H. È poco solubile in acqua. Le sue fibre hanno alta resistenza meccanica

L’amido è formato per il 70-90% da amilopectina un omopolimero a catena ramificata di D-glucosio (legami α 1-4) con innesti sempre di D-glucosio (legami α 1-6) e per il 10-30% da amilosio un omopolimero a catena lineare di D-glucosio (legami α 1-4). È contenuto in molti alimenti.

Il chitosano è formato da D-glucosammina e N-acetil-D-glucosammina (legami β 1-4), è ottenuto per deacetilazione in condizioni acide della chitina (contenuta nell’esoscheletro dei crostacei). Ha buone proprietà antibatteriche.

Le proteine sono polimeri naturali costituiti da amminoacidi (in totale ve ne sono 20) in numero variabile (da 50 a 1500). La funzione è strettamente legata alla sequenza. Brevi sequenze di amminoacidi formano i peptidi. Gli amminoacidi possono essere apolari (estremità carboniche), polari (es. gruppo -OH), ionici (gruppo amminico o carbossilico); queste caratteristiche dipendono dal residuo.

Comportamento amminoacido in acqua:

pH=7, l’amminoacido diventa uno zwitterione (ermafrodita), il gruppo amminico acquista un elettrone mentre il gruppo carbossilico cede un elettrone.

pH acido l’amminoacido assume carica positiva poiché il gruppo amminico acquista un elettrone senza che il gruppo carbossilico l’abbia ceduto.

pH basico l’amminoacido assume carica negativa poiché il gruppo carbossilico cede un elettrone senza che il gruppo amminico l’abbia acquistato.

Tutti gli amminoacidi degli eucarioti in natura si presentano come entantiomero L.

Le strutture delle proteine:

Primaria: la sequenza lineare e ordinata degli amminoacidi in successione legati da legame ammidico.

Secondaria: ripiegamenti della struttura primaria dovuti a interazioni deboli tra i residui (come i legami a H), vi sono tre configurazioni tridimensionali stabili:

1. α-eliche, struttura secondaria più presente in natura, solitamente si tratta di eliche destrorse.

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2. foglietti-β, diversi filamenti si associano a dare foglietti che possono essere paralleli o antiparalleli. La disposizione più comune è a foglietti antiparalleli uniti da una zona a loop non organizzata; questa configurazione è anche la più stabile per via del minore ingombro sterico.

3. loop, zone disorganizzate e destrutturate usate per unire le altre strutture secondarie.

Terziaria: interazione di più strutture secondarie tramite i seguenti legami chimici: 1. Legami H tra un atomo di idrogeno e un atomo più elettronegativo 2. Interazioni idrofobiche, in ambiente ostile i residui apolari si dispongono all’interno

della struttura 3. Interazioni dipolo-dipolo, forze di Van der Waals 4. Legami ionici tra i residui 5. Ponti disolfuro tra due molecole di cisteina (è un tiolo, residuo -SH)

Quaternaria (non è detto che sia presente): interazione tramite legami deboli tra più subunità terziarie indipendenti; se le subunità sono uguali la proteina è detta omodimerica, altrimenti eterodimerica (es. emoglobina).

Le funzioni delle proteine sono:

Catalisi (es. lattasi) Trasporto (es. emoglobina e mioglobina) Protettiva (es. anticorpi) Contrazione muscolare (es. actina e miosina) Ricezione e trasmissione di impulsi (es. proteine di canale) Regolazione ormonale (es. insulina) Supporto meccanico (es. matrice extracellulare)

Classificazione delle proteine:

In base alla forma 1. Globulari: di forma sferica, solubili in acqua e con attività intrinseca; sono proteine

funzionali. 2. Fibrose: filamentose, poco solubili in acqua e senza attività intrinseca; sono proteine

strutturali. In base alla coniugazione

1. Con nulla: proteine semplici. 2. Con lipidi e fosfolipidi: lipoproteine e fosfolipoproteine. 3. Con zuccheri: glicoproteine.

Un esempio di proteine globulari sono gli enzimi (catalizzatori biologici), velocizzano la reazione influenzando la dinamica della reazione e non la termodinamica.

Le proteine strutturali sono tipicamente glicoproteine, sono le proteine maggiormente presenti in peso nell’uomo: 25% (es. collagene).

Il collagene è formato da una sequenza di tre amminoacidi Gly-X-Y in cui Gly è la glicina, X è tipicamente la prolina e Y è tipicamente l’idrossiprolina. Un filamento si unisce a altri due formando una tripla elica -> protropocollagene. Un enzima interviene e taglia le frange della tripla elica ->

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tropocollagene. Più fibre di tropocollagene si aggregano tra loro a formare la vera e propria fibra di collagene (bandeggiature per non perfetta sovrapposizione). La tripla elica è dovuta al fatto che la glicina ha un ingombro sterico minimo e permette una maggiore rotazione dei piani ed è stabilizzata da legami deboli. Le varie fibre di tropocollagene invece si legano tra loro mediante veri e propri legami covalenti: legami crociati tra due residui di lisina a opera della lisil-ossidasi (agisce insieme allo ione Cu+). Il collagene si associa poi alla matrice interfibrillare a dare il collagene maturo a cui si legano poi proteoglicani e acido ialuronico (matrice matura).

L’elastina è un bioelastomero formato da Glicina, Alanina e Valina. Le fibre di elastina non hanno una direzione preferenziale e sono unite da cross-link. In presenza di sollecitazione si dispongono e organizzano parallelamente fra loro.

La matrice extracellulare è tutto ciò che non è cellula; si divide in matrice interstiziale e matrice basale. È formata in prevalenza da glicoproteine, in particolare le principali componenti sono:

Collagene Elastina Acido ialuronico Proteoglicani Fibronectina Condronectina Laminina Vitronectina Osteonectina

Le funzioni della matrice extracellulare sono:

Supporto meccanico per l’ancoraggio delle cellule (scaffold) Controllo del fenotipo cellulare Permettono a una cellula di influenzare il comportamento delle altre Stabilizzazione del microambiente tessutale

La cellula eucariote è l’unita morfo-funzionale minima degli organismi viventi, ovvero la più piccola struttura classificabile come vivente.

La membrana cellulare/membrana plasmatica/plasmalemma ha le funzioni di:

Barriera grazie al suo doppio strato fosfolipidico -> i fosfolipidi sono molecole anfipatiche (presentano code apolari idrofobe e teste polari idrofile)

Trasporto di metaboliti e ioni Ricezione di segnali e riconoscimento cellulare (glicoproteine e glicolipidi)

La membrana è costituita da:

Doppio strato fosfolipidico Colesterolo (fluidità) Proteine periferiche e integrali Glicoproteine e glicolipidi

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Come si ancorano le cellule:

Legame tra integrine e ECM stabilizzato dallo spreading Legame tra recettori e altre proteine (come fattori di crescita) stabilizzato dallo spreading Giunzioni cellula-cellula

Modalità di adesione cellulare:

Adesione focale tra glicoproteine adesive di ECM e recettori specifici Close contact siti di adesione meno forti attorno al punto di adesione focale Contatto con ECM, legame tra proteine di membrana e componenti ECM

Si definisce tessuto un insieme di cellule strutturalmente simili associate per funzione (cellule + matrice extracellulare).

Tipi di tessuto:

Tessuto epiteliale Tessuto muscolare Tessuto nervoso Tessuto connettivo

Il tessuto epiteliale è formato da cellule polarizzate, ammassate e connesse tra loro che costituiscono il rivestimento delle superfici interne e esterne del corpo e formano ghiandole. Le cellule in superficie grazie alla creatina proteggono le cellule più interne. Le cellule poggiano su una membrana basale proteica che le rende polarizzate (hanno cioè due superfici distinte). Questo tessuto non è vascolarizzato.

Tipi di tessuto epiteliale:

Pavimentoso semplice Cubico semplice Cilindrico semplice Pluristratificato

Il tessuto muscolare è formato da cellule contenenti filamenti contrattili e si divide in tre sotto-tipi:

Liscio: è associato a una contrazione involontaria, si forma un sincizio funzionale (tutte le cellule si contraggono contemporaneamente), ricopre le pareti di visceri e vasi sanguigni -> struttura concentrica (endotelio, muscolatura liscia, fibroblasti e ECM)

Cardiaco: è associato un movimento autocontrattile da parte dei cardiomiociti. Scheletrico: è associato a una contrazione volontaria, le sue cellule sono mononucleate, con

bandeggiature date dai filamenti di actina e miosina e sono attivate da un motoneurone (giunzione neuromuscolare). L’insieme di fibra nervosa e fibra muscolare forma la placca neuromuscolare.

Il tessuto nervoso è formato da cellule eccitabili (neuroni) ricchi di prolungamenti e cellule della glia. Mentre i neuroni non possono dividersi, le cellule della glia sono in attiva fase proliferativa. Le cellule neuronali vengono eccitate da neurotrasmettitori (specie chimiche) che sono in grado di depolarizzare e ripolarizzare il neurone trasmettendo lo stimolo.

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Il tessuto connettivo è formato da un numero variabile di cellule immerse in una notevole quantità di ECM. I vari tipi di tessuto connettivo vengono classificati in base alla funzione:

Funzione trofica (nutritiva) Funzione meccanica (di supporto strutturale) Funzione di connessione Funzione di difesa

La specificità dei vari tipi di tessuto connettivo dipende dalle cellule che esso stesso contiene perché sono le cellule a produrre la matrice extracellulare in cui sono immerse.

ECM è formata da:

Componente fibrillare o fibre (resistenza a trazione) -> fibre collagene, fibre reticolari (collagene III), fibre elastiche (elastina)

Sostanza amorfa o fondamentale (resistenza a compressione) -> GAG, proteoglicani, glicoproteine (fibronectina…)

Componente inorganica

Classificazione morfologica del tessuto connettivo:

Propriamente detto: 1. Lasso: poche fibre e molte cellule es. spazio fra gli organi 2. Denso: molte fibre e poche cellule es. derma

Liquido: sangue e linfa Di sostegno: tessuto osseo e cartilagineo

Le cellule del tessuto connettivo possono essere:

Fisse, con una relativa costanza in numero e distribuzione 1. Fibroblasti e osteoblasti, cellule differenziate che producono ECM 2. Adipociti, cellule contenenti lipidi 3. Mastociti, cellule che attivano la flogosi 4. Macrofagi, fagociti 5. Cellule giganti, cellule che derivano dalla fusione di macrofagi

Migranti, compaiono transitoriamente (quando serve) e provengono dai vasi sanguigni 1. Granulociti neutrofili 2. Granulociti eosinofili 3. Granulociti basofili 4. Monociti 5. Linfociti

I fibroblasti si presentano come cellule fusate oppure estremamente appiattite a seconda del tipo di ECM.

Gli osteoblasti non sono cellule totalmente differenziate. Sono cellule in attiva fase proliferativa e producono molta ECM. Quando vengono a contatto con la matrice vanno incontro a differenziazione diventano osteociti. Gli osteociti sono cellule che non hanno capacità di dividersi e producono molta meno matrice. Se l’osso sopporta dei carichi lo inspessiscono, altrimenti

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interviene l’azione erosiva degli osteoclasti. Gli osteociti riescono a comunicare tra loro e ciò risulta particolarmente utile in caso di fratture.

I mastociti sono addetti alla genesi della flogosi e delle reazioni allergiche. Sono cellule ricche di grani. Quando il mastocita viene a contatto con l’allergene libera molte sostanze tra cui istamina (vasodilatatore) e eparina (anticoagulante) permettendo la fuoriuscita di sostanze dai vasi sanguigni.

I macrofagi sono cellule ad attività fagocitica che derivano da cellule migranti: i monociti. I monociti cambiano fenotipo per affrontare infiammazioni o infezioni. L’antigene viene recettato da un anticorpo e inglobato e digerito da un macrofago.

Le cellule giganti si formano in seguito alla fusione di macrofagi (≤ 20) in presenza di alcune infiammazioni o infezioni. In questo modo le cellule giganti possono inglobare e digerire agenti patogeni più grandi.

L’endocitosi è il processo tramite il quale una cellula internalizza molecole o corpuscoli presenti nell’ambiente extracellulare tramite una vescicola endocitica -> introflessione della membrana su se stessa. Le molecole o i corpuscoli vengono poi digeriti tramite lisosomi e enzimi idrolitici. L’esocitosi avviene poi con la fusione della vescicola con la membrana.

La secrezione è la produzione e l’espulsione all’esterno della cellula di biomolecole per scopi specifici.

L’escrezione è l’espulsione di sostanze di rifiuto all’esterno della cellula.

La chemiotassi è un fenomeno con cui le cellule direzionano il proprio movimento a seconda della presenza (o assenza) di determinate sostanze chimiche nel loro ambiente. Movimento per stimolo chimico.

Endocitosi

Pinocitosi: processo attraverso il quale la cellula assume piccole molecole insieme al solvente

Fagocitosi: processo attraverso il quale la cellula assume veri e propri corpuscoli

Leucociti

Agranulari: monociti e linfociti

Granulari: in prevalenza neutrofili

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Il sangue è formato da:

Plasma: complessa soluzione acquosa ricca di sali e proteine (il siero è il plasma privo di proteine)

Elementi figurati (si definisce ematocrito la componente cellulare del sangue 42-46%): 1. Globuli rossi -> doppi dischi biconcavi privi di nucleo con funzione di trasporto 2. Globuli bianchi 3. Piastrine -> frammenti di cellule impiegati nella cascata coagulativa

L’emopoiesi è la produzione di tutti i tipi cellulari del sangue a partire dai loro precursori.

Cellula staminali pluripotente:

Cellula staminale mieloide 1. Eritropoiesi -> eritrociti 2. Trombopoiesi -> megacariocita -> piastrine 3. Leucopoiesi -> granulociti neutrofili, eosinofili, basofili e monociti

Cellula staminale linfoide -> linfociti B, T, NK

Granulociti neutrofili (o cellule polimorfonucleate o PMN) -> cellule molto ricche di grani con nucleo plurilobato che non si colorano né con coloranti basici né acidi, hanno attività fagocitica.

Granulociti eosinofili -> cellule fagocitiche con nucleo bilobato, si colorano in presenza di eosina (colorante acido), presentano molti grani e recettori per le immunoglobuline.

Granulociti basofili -> cellule fagocitiche con nucleo bilobato, si colorano in presenza di coloranti basici, sono molto ricchi di grani e rilasciano numerose sostanze durante la risposta allergica, presentano recettori per le immunoglobuline.

Linfociti B -> responsabili di immunità umorale (mediata da anticorpi), una volta a contatto con l’antigene presentato dai macrofagi si differenziano in due popolazioni: linfociti B memoria e plasmacellule. Le plasmacellule producono immunoglobuline mentre i linfociti B memoria diventano subito plasmacellule in presenza di una seconda esposizione (vaccinazioni).

Linfociti T -> cellule responsabili dell’immunità cellulare. Si dividono in: T-helper (aiutano la produzione di anticorpi da parte dei linfociti B), T-citotossici (ad attività omicida) e T-sopressori (inibiscono la produzione di anticorpi).

L’infiammazione (o flogosi) è un processo fisiologico dinamico a carico delle strutture vascolari e connettivali in risposta all’azione di agenti di varia natura per arginare e riparare i danni da essi provocati. Consta di due fasi: una fase flogistica (vera e propria infiammazione) e una fase proliferativa (formazione di neotessuto connettivale).

Stimoli lesivi:

Esogeni 1. Fisici (calore, radiazioni, traumi, corpi estranei) 2. Chimici (acidi, basi, solventi organici) 3. Biologici (virus, batteri, funghi)

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Endogeni 1. Disordini metabolici (diabete, lipidemie) 2. Alterazioni immunitarie (AIDS)

L’infiammazione è un processo multistep:

1. Stimolo infiammatorio 2. Vasodilatazione dovuta al rilascio di istamina da parte dei mastociti a cui si lega l’antigene 3. Aumento della permeabilità capillare 4. Rilascio di sostanze vasomotorie da parte dei mastociti 5. Edema (gonfiore) 6. Fuoriuscita dai vasi sanguigni di: Granulociti neutrofili -> deputati a fagocitosi Monociti/macrofagi/cellule giganti -> deputati a fagocitosi Fibroblasti -> deputati a deposizione collagene Cellule endoteliali -> proliferano e sono deputate all’angiogenesi (formazione di nuovi vasi) 7. Formazione del tessuto di granulazione (cicatriziale) che dovrà poi essere sostituito da un

tessuto con caratteristiche identiche al tessuto originario

Il meccanismo dell’extravasazione leucocitaria (modalità con cui i PMN fuoriescono dai vasi sanguigni):

1. Marginazione: i PMN si avvicinano alle cellule endoteliali 2. Rotolamento: il legame tra le selectine presenti sulla superficie delle cellule endoteliali e

molecole complementari presenti sulla superficie dei PMN permette il rotolamento 3. Adesione serrata: avviene quando vi è un legame tra le integrine presenti sulla superficie

delle cellule endoteliali e molecole complementari presenti sulla superficie dei PMN 4. Transmigrazione o diapedesi: passaggio di un granulocita neutrofilo tra due cellule

endoteliali a causa della presenza di stimoli chemiotattici 5. Una volta arrivato in loco il PMN fagocita e digerisce gli agenti estranei

Alla fine del processo infiammatorio si forma dunque un tessuto cicatriziale (fibrosi -> molto ricco di fibre depositate dai fibroblasti). Questo tessuto è detto anche tessuto di granulazione per l’elevata presenza di granulociti e di tanti nuovi fasi sanguigni che conferiscono un aspetto puntinato.

La sostituzione del tessuto cicatriziale con tessuto nativo fa parte della rigenerazione tessutale. La guarigione può essere diversa a seconda delle ferite:

Guarigione di I intenzione -> i lembi possono essere riavvicinati tramite sutura e si ha una riepitelizzazione veloce

Guarigione di II intenzione -> in seguito a asportazione di tessuto la riepitelizzazione è molto più lenta e porta a inestetismi più evidenti

I 5 segni cardinali dell’infiammazione acuta (tutti causati da rilascio sostanze vasomotorie):

Rossore (rubor) -> fuoriuscita cellule ematiche Calore (calor) -> forma di prevenzione per inattivare il potenziale patogeno Edema (tumor) -> fuoriuscita liquidi dai vasi sanguigni

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Dolore (dolor) -> reazione nervosa al colpo subito o edema che comprime le terminazioni Compromissione della funzione (functio lesa) -> conseguenza dei punti precedenti

L’emostasi è una serie di reazioni biochimiche e cellulari sequenziali e sinergiche che determina l’arresto spontaneo di un’emorragia tramite coagulazione. Il sistema emostatico ha dunque lo scopo di:

Mantenere la fluidità del sangue nei vasi normali Indurre rapidamente una coagulazione localizzata nel sito del danno vascolare

Le componenti del processo emostatico sono:

Cellule endoteliali e muscolari lisce dei vasi Piastrine Cascata coagulativa

Le fasi del processo emostatico sono:

1. Fase vascolare -> vasocostrizione 2. Fase primaria/piastrinica -> formazione del trombo bianco/piastrinico 3. Fase secondaria/plasmatica/coagulativa -> formazione del coagulo di fibrina/trombo

bianco 4. Fase retrattiva e fibrinolitica -> contrazione e dissoluzione del coagulo

La fase vascolare consiste in:

Vasocostrizione del vaso lesionato ad opera dell’endotelina rilasciata dalle cellule endoteliali danneggiate e della serotonina rilasciata dalle piastrine

Deviazione e rallentamento del flusso ematico Riduzione parziale del sanguinamento

Le cellule endoteliali (EC) costituiscono l’epitelio pavimentoso semplice che forma la tonaca intima dei vasi sanguigni (tonaca media muscolatura liscia, tonaca avventizia matrice connettivale e fibroblasti). Le cellule endoteliali svolgono le seguenti funzioni:

Regolano il flusso di sostante da e verso il vaso sanguigno Riparano il lume interno dei vasi Secernono sostanze in grado di mantenere l’equilibrio della bilancia emostatico-trombotica Possono creare nuovi vasi (angiogenesi)

Angiogenesi livello macroscopico:

1. Le EC rispondono a un segnale generato da un tessuto che richiede apporto di sangue 2. Si forma un germoglio pieno che diventa poi cavo costituendo un tubo 3. Quando un germoglio incontra un altro capillare e si connette ad esso il sangue può

circolare

Angiogenesi a livello microscopico:

1. Attivazione delle EC, si ha la produzione di enzimi litici e l’aumento della permeabilità della parete vasale

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2. Le EC migrano per chemiotassi verso la fonte dello stimolo e proliferano 3. Differenziamento delle EC 4. Richiamo di cellule sub-endoteliali di supporto

La fase primaria vede come protagoniste le piastrine. Le piastrine sono i più piccoli elementi figurati del sangue; sono frammenti del citoplasma di megacariociti privi di nucleo che inattivati hanno forma sferoidale. La fase primaria consta di 5 sotto-fasi:

1. Adesione delle piastrine al sottoendotelio a causa dell’esposizione della membrana basale che normalmente non è esposta

2. Attivazione delle piastrine con importanti cambiamenti metabolici e biochimici -> formazione di granuli

3. Cambiamento di forma -> formazione di pseudopodi (estroflessione citoplasmatiche) e morfologia a sfera spinosa

4. Secrezione dei grani: serotonina, fibrinogeno e trombina (degranulazione) 5. Aggregazione piastrinica a formare un tessuto che impedisca la fuoriuscita di sangue; le

piastrine si legano fra loro grazie a recettori specifici che permettono di creare dei ponti di fibrinogeno

La fase secondaria è caratterizzata dalla formazione di un trombo rosso permanente e stabile grazie a una fitta rete di fibrina.

La fibrina deriva dal fibrinogeno a sua volta prodotto da fegato, endotelio e piastrine. Il fibrinogeno è formato da tre catene peptidiche α, β, γ associate a tre catene identiche (eterodimero). Passaggio da fibrinogeno a fibrina:

1. Il fibrinogeno in presenza di trombina subisce l’idrolisi del fibrinopeptide A e del fibrinopeptide B in questo modo si forma un monomero di fibrina

2. Un monomero di fibrina si associa testa-coda a un altro monomero formando un dimero di fibrina, più dimeri si associano a formare un polimero instabile caratterizzato da legami a idrogeno

3. Il fattore XIIIa consente la formazione di legami crociati tra glutammina e lisina permettendo la stabilizzazione del polimero di fibrina

La formazione di una rete stabile di fibrina può avvenire per due vie:

Via intrinseca/plasmatica più lenta poiché coinvolge un maggior numero di enzimi Via estrinseca/tissutale più rapida poiché deriva direttamente dal danno subito

Entrambe convergono sulla produzione del fattore Xa che consente la conversione della protrombina in trombina (che a sua volta consente il passaggio da fibrinogeno a monomero di fibrina).

La fase retrattiva e fibrinolitica prevede:

Retroazione del coagulo: le piastrine accorciano i filamenti di fibrina e spremono il siero sanguigno al di fuori del reticolo stesso

Fibrinolisi: la via estrinseca e la via estrinseca convergono sul fattore XIIa che consente la conversione del plasminogeno in plasmina. Il plasminogeno viene attivato dalla trombina

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stessa. La plasmina ha il compito di consentire la dissoluzione del reticolo di fibrina. Vi sono poi fattori anticoagulanti come l’eparina che inibiscono la trombina facendo terminare il processo coagulativo.

La spettroscopia è lo studio della struttura e della dinamica della materia attraverso l’analisi dell’interazione con la luce. Il suo obiettivo è l’identificazione e la quantificazione delle sostanze attraverso l’analisi dello spettro di assorbimento o di emissione della sostanza in esame. La classificazione delle tecniche spettroscopiche avviene in base alla quantità fisica misurata oppure al processo di misura.

La radiazione elettromagnetica è la propagazione della luce attraverso onde e/o corpuscoli. Infatti, secondo la teoria ondulatoria, la radiazione è formata da un’onda elettrica e un’onda magnetica che si propagano su piani perpendicolari tra loro e perpendicolari alla direzione di propagazione. Importante è la lunghezza d’onda λ=c/ν (c è la velocità della luce e ν la frequenza). Secondo la teoria corpuscolare, invece, la radiazione è costituita da pacchetti di energia (fotoni) che nel vuoto viaggiano alla velocità della luce. L’energia portata dai fotoni è E=hν=hc/λ. L’energia è quindi direttamente proporzionale alla frequenza e inversamente proporzionale alla lunghezza d’onda. (h è la costante di Planck 6,63 x 10-34 J s).

La parte più conosciuta dello spettro elettromagnetico è lo spettro del visibile (390 nm ≤ λ ≤ 760 nm). In ordine di ν crescente (e quindi λ decrescente) lo spettro elettromagnetico è composto da: onde radio, microonde, infrarossi, spettro del visibile, UV, raggi X, raggi gamma.

Lo spettro di assorbimento si ottiene studiando un fascio di luce che attraversa un analita che assorbe precise quantità di energia per far passare atomi/molecole a stati energetici maggiori (stato eccitato).

Lo spettro di emissione si ottiene studiando il fascio di luce emesso da un analita quando le sue particelle passano da uno stato energetico maggiore allo stato fondamentale riemettendo energia sotto forma di radiazioni elettromagnetiche.

Lo spettro è un grafico dell’intensità dell’assorbimento o dell’emissione di funzione di λ, ν, δ o del numero d’onda v. Le principali applicazioni sono due:

Studio di proprietà qualitative (identificazione univoca di un analita, velocità di reazione, studi strutturali, enzimatici e immunologici)

Studio di proprietà quantitative (calcolo del quantitativo della sostanza presente nell’analita)

Si definisce trasmittanza T=I/I0 il rapporto tra le intensità del raggio uscente e del raggio incidente. È compresa tra 0 e 1 e può essere espressa anche in percentuale. Si definisce invece assorbanza A=log(1/T).

Lo spettrometro è formato a monte da un monocromatore che scinde la radiazione policromatica nelle sue componenti e a valle da un rivelatore. Può essere a singolo o a doppio raggio a seconda che ci sia o meno il confronto con un campione di riferimento.

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L’assorbimento molecolare è più complesso di quello atomico perché la molecola può assorbire energia per:

Etraslazionale : energia usata per la traslazione della molecola nello spazio Erotazionale : energia usata per la rotazione della molecola nello spazio (spettroscopia

microonde) Evibrazionale : vibrazione degli atomi delle molecole attorno a assi e angoli di legame

(spettroscopia IR) Eelettroni legame : gli elettroni più esterni della molecola passano a uno stato eccitato

(spettroscopia UV-Vis) Eelettroni interni : gli elettroni più interni della molecola passano a uno stato eccitato

(spettroscopia a raggi X) Enuclei : transizioni energetiche nucleari e subatomiche (spettroscopia NMR o a raggi γ)

La spettroscopia IR detta anche spettroscopia vibrazionale è utilizzata per avere delle informazioni qualitative sui gruppi funzionali presenti in un analita solido, liquido o gassoso. Non fornisce informazioni quantitative perché l’intensità riportata nello spettro non è proporzionale al numero di gruppi presenti. Si divide in NIR (spettroscopia del vicino infrarosso), MIR (spettroscopia del medio infrarosso, particolarmente importante per la caratterizzazione dei materiali) e FIR (spettroscopia del lontano infrarosso). Lo spettro è in funzione del numero d’onda (che ha lo stesso andamento di frequenza e energia) mentre sulle ordinate è riportata la trasmittanza.

I raggi IR amplificano le vibrazioni degli atomi attorno agli angoli e agli assi di legame. Si possono avere vibrazioni di due tipi:

Stretching (allungamento) -> differenza nell’asse di legame 1. Simmetrico 2. Asimmetrico

Bending (piegamento -> differenza nell’angolo di legame 1. Nel piano -> dondolio, sforbiciatura 2. Fuori dal piano -> contorsione, scuotimento

Perché la vibrazione sia attiva è necessario che vi sia una variazione del momento dipolare µ=qd e cioè che si intervenga sulla simmetria del legame. Ogni gruppo funzionale vibra per specifiche lunghezze d’onda o numeri d’onda. Prima vibrano i legami semplici, poi quelli doppi e infine quelli tripli.

La spettroscopia UV-Vis detta anche spettroscopia elettronica è utilizzata per avere informazioni quantitative sul numero di legami covalenti presenti; infatti l’integrale dello spettro è proporzionale alla quantità effettiva presente.

Gli orbitali molecolari sono composti da due elettroni con spin antiparallelo e sono formati da due orbitali atomici ciascuno contenente un elettrone. A seconda della forma degli orbitali atomici possono formarsi diversi orbitali molecolari:

Due orbitali s -> orbitale σ(s) Un orbitale p e un orbitale s -> orbitale σ(ps) Due orbitali p -> orbitale σ(p) o orbitale π

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Inoltre gli orbitali sono funzioni d’onda quindi si possono sommare in modo costruttivo dando origine agli orbitali di legame o in modo distruttivo dando origine agli orbitali di antilegame. Se eccitati, gli elettroni possono passare dagli orbitali di legame agli orbitali di non-legame o agli orbitali di antilegame (questo è il principio usato dalla spettroscopia UV-Vis). Infatti, le transizioni energetiche degli elettroni avvengono dal HOMO (highest occupied molecular orbital) al LUMO (lowest unoccupied molecular orbital). Ogni gruppo funzionale ha degli assorbimenti specifici. La legge di Beer-Lambert mette in relazione assorbanza e concentrazione: A=εbc (ε è un coefficiente tabulato, b il cammino ottico e c la concentrazione).

La spettroscopia NMR fornisce informazioni riguardanti la struttura molecolare tramite l’assorbimento della radiazione elettromagnetica da parte di nuclei (1H e 13C) costituenti la molecola immersa in un forte campo elettromagnetico. Non si esaminano dunque gli elettroni, ma i nuclei. Fornisce soprattutto informazioni qualitative. Tramite la spettroscopia NMR sono osservabili solo nuclei che possiedono un momento magnetico nucleare di spin. Esso è dato da protoni e neutroni:

Se P e N sono entrambi pari il momento magnetico nucleare di spin è nullo Se P è pari e N è dispari il momento magnetico nucleare di spin è semintero Se P e N sono entrambi dispari il momento magnetico nucleare di spin è intero

Un forte campo magnetico esterno può far allineare i momenti magnetici nucleari di spin. Quando poi i nuclei assorbono radiazione elettromagnetica il momento magnetico nucleare di spin passa da allineato al campo a opposto a esse (si dice che sono in risonanza). A seconda dell’intorno chimico dei nuclei (atomi più o meno elettronegativi) essi possono essere deschermati o schermati e quindi questo sposta il segnale NMR a frequenze maggiori o minori. La variazione di frequenza assorbita è detta chemical shift (δ). Il riferimento è dato dall’assorbimento del tetrametilsilano in cui H e C sono fortemente schermati. L’intensità dell’assorbanza è proporzionale al numero di nuclei presenti.

Spettroscopia IR, UV-Vis e NMR sono esempi di spettroscopie di assorbimento.

La microscopia è una tecnica di osservazione che permette di osservare immagini ingrandite di un oggetto o di una parte di esso. Vi sono microscopi semplici formati da una sola lente convergente e microscopi composti formati da due lenti convergenti: l’obiettivo (posto vicino al campione e con ingrandimenti diversi) e l’oculare (posto vicino all’osservatore). I microscopi possono essere:

Ottici (risoluzione fino a 0,2 µm) 1. Confocale 2. Stereomicroscopio 3. A fluorescenza

Elettronici (risoluzione fino a 0,1 nm) 1. TEM 2. SEM

A forza atomica (risoluzione fino ai nm)

Sono tre i parametri che determinano l’efficienza di un microscopio:

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Potere risolutivo: la minima distanza tra due punti affinché essi possano essere visti come distinti. Principio di Abbè d=0,6098 λ/An

Diffrazione: fenomeno fisico che coinvolge le onde quando incontrano ostacoli sul loro cammino

Ingrandimento: rapporto tra le dimensioni originali dell’oggetto e quelle ottenute. È dato dal prodotto dell’ingrandimento dell’oculare e dell’ingrandimento dell’obiettivo.

Il microscopio ottico sfrutta le radiazioni dal NIR al UV compreso tutto lo spettro del visibile. Due componenti fondamentali del microscopio ottico sono il diaframma che permette di regolare la quantità di luce inviata al campione e il condensatore che forma un cono di luce che colpisce il campione limitando rifrazione e diffrazione. Un microscopio ottico può essere:

A luce tramessa: il fascio di luce attraversa il campione, si usa con campioni trasparenti A luce riflessa: la luce proviene dal fronte oppure è posta lateralmente. Si usa con campioni

opachi. A contrasto di fase: il condensatore divide il fascio luminoso in due porzioni con diversa

fase e angolo di incidenza. Rende visibili componenti trasparenti ma con un indice di rifrazione diverso dal mezzo. Si usa con campioni trasparenti.

Lo stereomicroscopio è formato da due microscopi composti diversi, a basso ingrandimento e formanti tra loro un certo angolo. Permette, soprattutto in luce riflessa, di avere un effetto di tridimensionalità.

Il microscopio a fluorescenza permette di osservare componenti naturalmente fluorescenti o legati a molecole fluorescenti (fluorofori o fluorocromi). In genere si utilizza una radiazione UV proveniente dall’alto. La caratteristica dei fluorocromi è quella di restituire una radiazione a λ maggiore rispetto a quella incidente. Per osservare solo componenti che emettono radiazioni di specifiche lunghezze d’onda si usano dei filtri passabanda di eccitazione e di emissione e uno specchio dicroico.

Il microscopio ottico confocale permette di focalizzare un piano per volta e poi di ricostruire l’immagine elettronicamente. È utilizzato nello studio tridimensionale delle strutture biologiche. Permette la visualizzazione dei pori nucleari.

Il microscopio ottico viene utilizzato per:

Analisi morfologica cellulare (a luce trasmessa o con coloranti es. oliredO) Analisi morfologica di microorganismi (a contrasto di fase) Analisi di preparati istologici (che necessitano però di un lungo protocollo di preparazione:

fissaggio chimico in formalina, fissaggio fisico, lavaggio in etanolo, disidratazione, inclusione in paraffina, sezionamento, reidratazione, colorazione)

Nel microscopio elettronico il campione viene investito da un fascio di elettroni (elettroni primari). Ciò permette al microscopio elettronico di avere una migliore risoluzione. Gli elettroni che attraversano il campione formano un fascio di elettroni secondari. Invece gli elettroni che vengono attratti dai nuclei positivi e escono dal campione si dicono elettroni backscattered. Ha una maggiore profondità di campo e la preparazione del campione è semplice (deve solo essere

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conduttivo -> rivestito da strato metallico). Si utilizza nello studio della morfologia superficiale e nello studio della struttura di campioni biologici.

Il SEM (microscopio ottico a scansione) è costituito da un fascio di elettroni che colpiscono dall’alto il campione; il fascio non è fisso ma viene fatto scandire riga per riga. Il TEM (microscopio elettronico a trasmissione) è formato invece da un fascio di elettroni che attraversa completamente il campione in un ambiente in cui è stato creato il vuoto; ha una risoluzione migliore.

Il microscopio a forza atomica non è solo uno strumento di indagine, ma è anche uno strumento per la manipolazione su scala nanometrica. Dà informazioni sulla morfologia superficiale del campione; infatti è formato da una microleva che si flette o deflette a causa delle forze superficiali del campione. Le deflessioni sono misurate tramite un laser e rilevate da un fotodiodo. Ha la risoluzione simile a un microscopio elettronico. Lavora indifferentemente nel vuoto, in aria o nei liquidi. I campioni non necessitano di preparazione, ma devono solamente essere posti su superfici piane.

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BC2: materiale per il II parziale

Biomateriali e interazione con il corpo

Biomateriale: materiale che si interfaccia con i sistemi biologici per valutare, trattare, aumentare oppure sostituire qualunque tessuto, organo o funzione dell’organismo. È utilizzato per la costruzione di dispositivi/impianti biomedici sia permanenti sia a tempo limitato.

Def pratica: i biomateriali sono materiali posti a diretto contatto con il corpo

Def funzionale: i biomateriali sono speciali materiali che, operando in intimo contatto con i tessuti viventi, minimizzano eventuali reazioni avverse o di rigetto da parte dell’organismo.

Le prestazioni di un biomateriale sono valutate in termini di:

1. Biofunzionalità: capacità di un biomateriale di riprodurre una determinata funzione dal punto di vista fisico e meccanico

2. Biocompatibilità: è strettamente legata alle interazioni tra biomateriale e tessuto Capacità di un materiale di determinare una reazione favorevole in un sistema

vivente in relazione a una specifica applicazione Capacità del dispositivo di continuare a svolgere quella determinata funzione per

tutta la vita utile dell’impianto

N.B. La reazione favorevole è dipendente dall’applicazione: in alcuni casi è considerato favorevole l’essere inerte (es. placche di supporto meccanico), in altre promuovere reazioni (es. vite di osteointegrazione).

1. Biomateriali di I generazione: requisito fondamentale -> essere bioinerte 2. Biomateriali di II generazione: requisito fondamentale -> bioattività o bioriassorbibilità 3. Biomateriali di III generazione: requisito fondamentale -> bioattività e bioriassorbibilità

Bioattività: capacità di interazione con l’organismo.

Bioriassorbibilità: capacità di subire una degradazione controllata e un riassorbimento.

Effetti dell’impianto sull’ospite:

1. Locali Interazioni con il sangue (coagulazione, attivazione complemento, emolisi, adesione

e attivazione dei leucociti) Cito- e emo-tossicità Modifica dei processi di guarigione (infiammazione) Infezione Carcinogenesi

2. Sistemici Formazione di emboli Trasporto di materiale di rilascio e accumulo in organi bersaglio (fegato, reni,

polmoni) Sensibilizzazione allergica, tossicità sistemica e reazione immunitaria

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Effetti dell’ospite sull’impianto:

1. Fisico-meccanici Usura Fatica Corrosione Ossidazione e fessurazione superficiale Degradazione e dissoluzione

2. Biologici Adsorbimento di sostanze dai tessuti Degradazione enzimatica Calcificazione

3. Misti ESC

Gli effetti dell’impianto sull’ospite si sommano a quelli dell’atto chirurgico.

In particolare si può avere la formazione di una capsula fibrosa (struttura di cellule e matrice che ingloba il biomateriale). La capsula ha effetti sia positivi sia negativi (da valutare per ogni tipo di impianto); ma dovrebbe comunque andare incontro a riassorbimento. In caso questo non avvenisse nei casi più gravi bisogna procedere con una capsulectomia: rimozione della capsula e della protesi. In casi meno gravi si opta per una capsulotomia: tagli trasversali e longitudinali per rilassare la capsula.

L’intensità e la durata delle fasi post-impianto che conducono alla guarigione dipendono da:

Forma dell’impianto (più è anatomicamente simile meno durerà la fase post-operatoria) Dimensioni (maggiori sono le dimensioni, maggiore sarà la durata della guarigione) Topografia superficiale dell’impianto (micro- e nano-struttura) Proprietà chimico-fisiche del biomateriale (idrofilicità, carica)

Fenomeni che avvengono alla superficie del biomateriale:

1. Adsorbimento superficiale di proteine 2. Adesione cellulare 3. Attivazione cellulare (cambiamento fenotipico)

1. Il modo e il tipo di adsorbimento proteico prende il nome di organificazione -> dipende

dalle peculiarità del materiale e da fattori propri dell’individuo. Si possono verificare interazioni varie: idrofobiche, ponti salini, Van der Waals, legami idrogeno… A livello delle proteine adsorbite si possono verificare scambi (proteine più affini ma meno presenti prendono il posto delle meno affini ma più presenti), modifiche conformazionali (perdono il folding e vanno incontro a parziale denaturazione, così il fibrinogeno può legare le piastrine e il fattore XII può attivare la via intrinseca di coagulazione), cambiamenti composizionali (dovuti al sopraggiungere di nuove proteine), multistrato (per esempio grazie alle cariche).

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2. Adesione cellulare: Adesione aspecifica non mediata da recettori -> planare Interazione debole -> planare Adesione specifica mediata da recettori -> planare

La cellula agisce sul substrato per interazione con le proteine adsorbite (come per esempio la fibronectina, proteina adesiva, che si lega a specifiche integrine presenti sulle cellule) e va incontro a spreading, sintomo e conseguenza dell’attivazione cellulare. Infatti l’informazione dell’avvenuto legame arriva al nucleo che, leggendo specifici segmenti di DNA, attiva lo spreading e la proliferazione.

Cellule incluse in matrice soft o in un gel -> 3D

I meccanismi di interazione biomateriale/corpo umano dipendono dal tipo di biomateriale:

Tipologia di interazioni con il sangue Riparazione in presenza di detriti d’usura -> processo fisiologico riparativo cui si associa un

processo di smaltimento delle particelle di usura Rilascio locale di prodotti tossici Attivazione risposta immunitaria

Per quanto riguarda i detriti d’usura, ad esempio in UHMWPE, essi possono essere in numero variabile e possono avere dimensioni variabili:

Diametro ≤ 5 µm -> fagocitosi di macrofagi e fibroblasti Diametro tra i 5 e i 10 µm -> fagocitosi di cellule giganti Dimetro tra i 10 e i 40-80 µm -> drenaggio linfatico, quello linfatico è un sistema di vasi che

corrono più o meno parallelamente ai vasi sanguigni; trasportano la linfa, una sostanza simile al sangue ma con molti linfociti e pochissimi eritrociti. I linfociti vengono prodotti dagli organi linfatici dove vengono depositati i detriti.

Diametro ≥ 40-80 µm -> fissazione nella cicatrice

In tutti questi casi il processo di guarigione è notevolmente rallentato (e i tempi aumentano se aumentano i detriti). Nel caso di detriti piccoli si può avere la frustrazione del macrofago perché non riesce a digerire completamente il UHMWPE e i detriti rimangono negli endosomi. I detriti drenati finiscono in milza, fegato, linfonodi, midollo osseo e tessuto connettivo; il problema viene così generalizzato.

Si ha una reazione tissutale periprotesica contenuta (senza fallimento impianto) se le capacità drenanti sono maggiori dei detriti prodotti. Altrimenti sia ha infiammazione, riassorbimento osseo e mobilizzazione dell’impianto.

Per quanto riguarda il rilascio di prodotti tossici, si hanno tre indicatori: neutrofili, linfociti e i macrofagi. La presenza di neutrofili continua a richiamarne altri per la presenza di sostanze tossiche. Mentre il numero di linfociti e macrofagi presenti è proporzionale alla tossicità. Questo indica che si ha una persistente e intensa reazione infiammatoria e/o l’accumulo di cellule infiammatorie necrotiche.

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La calcificazione è la formazione di depositi a forma nodulata (granulazioni bianche) di fosfati o altri composti di calcio. A seconda dell’eziologia è classificata in:

Calcificazione distrofica: deposizione di sali di Ca2+ in tessuti danneggiati o sofferenti in individui con un normale metabolismo del Ca2+

Calcificazione metastatica: deposizione di sali di Ca2+ a causa di un turbamento del metabolismo del Ca2+ in tessuti vivi e normali

A seconda del distretto dove si verifica viene classificata in:

Calcificazione estrinseca: deposizione di sali di calcio alla superficie di un impianto dove è spesso associata con tessuti o cellule aderenti

Calcificazione intrinseca: deposizione di sali di calcio all’interno di componenti strutturali dell’impianto

Gli aspetti comuni associati alla calcificazione dei biomateriali sono:

Mineralizzazione delle cellule (membrane devitalizzate, cellule morte riempite di sali di calcio)

Presenza di proteine Ca2+ - leganti depositate Le sollecitazioni meccaniche hanno effetto accrescitivo sulla calcificazione

Sono soggette a calcificazione: protesi di valvole cardiache, lenti a contatto morbide, protesi urinarie…

I batteri sono organismi procarioti che competono con gli eucarioti per la colonizzazione dei materiali.

I procarioti sono strutturalmente più semplici degli eucarioti. I procarioti non hanno una compartimentazione interna: sono cioè sprovviste di organelli circondati da membrane. Entrambi hanno un citoplasma (citosol a base acquosa e organelli). Il batterio presenta un nucleoide in cui si trova il DNA ed è metabolicamente semplice. Il batterio ha una parete di polisaccaridi e proteine esterna alla membrana con funzione protettiva. Sovente i batteri hanno strutture atte alla motilità: i flagelli.

I batteri sulle superfici possono vivere in due differenti stati:

Planctonica: cellule singole e indipendenti che si muovono libere Sessile in biofilm: aggregati batterici adesi ad una superficie all’interfaccia con la fase

liquida, coperti con una matrice polimerica che viene AUTOPRODOTTA con scopo protettivo

Il biofilm è molto dannoso ed è formato da: cellule microbiche (batteriche e micotiche) variegate e matrice extracellulare (o slime o EPS).

I biofilm si vengono a formare sia strutture biotiche sia abiotiche con cinetiche di adesione più rapide delle cellule eucariote [importanza della sterilizzazione]. Una volta formatosi il biofilm, è probabile che esso porti al fallimento dell’impianto poiché formato da batteri diversi con resistenze antibiotiche diverse.

I biofilm sono ubiquitari e sono spesso fonte di patologie: carie, parodontite, otite media, fascite necrotizzante, infezioni muscoloscheletriche, infezioni del tratto biliare, osteomielite, endocardite, polmonite associata a fibrosi cistica.

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I dispositivi che possono fallire a causa della formazione del biofilm sono diversi: lenti a contatto, cateteri urinari, protesi di vari organi.

Tappe della formazione del biofilm (i tempi possono essere variabili in relazione al tipo di batteri, al distretto corporeo, al biomateriale, alla presenza di acqua e zuccheri):

1. Attacco reversibile -> legami deboli 2. Attacco irreversibile -> batteri liberano mediatori chimici che richiamano altri batteri 3. Formazione delle microcolonie -> inizio proliferazione e produzione EPS; avviene il quorum

sensing: i batteri mediante la produzione di mediatori chimici simili a ormoni comunicano tra loro

4. Maturazione -> qualora le condizioni esterne siano favorevoli tutti i batteri iniziano a duplicarsi

5. Dispersione -> il biofilm non è più in grado di essere stabile, parte del biofilm viene frammentato e rilasciato in forma planctonica

Caratteristiche del biofilm:

1. Può contenere una o più specie microbiche 2. Si sviluppa preferenzialmente su superfici abiotiche, ma anche su quelle biotiche 3. Le infezioni generalmente condividono caratteristiche cliniche molto simili 4. I tempi di formazione e gli spessori sono variabili

Valutazione della risposta biologica a un materiale

La valutazione della biocompatibilità può essere fatta in vivo o in vitro.

In vitro -> test cellulari che valutano citotossicità, mutagenicità/carcinogenità, emocompatibilità

In vivo -> impianti in un modello animale per valutare gli effetti sull’organismo

Citotossicità: capacità di un materiale o di una sostanza di provocare un effetto tossico a carico delle cellule con una conseguente variazione della loro normale morfologia e funzionalità.

Mutagenicità/carcinogenità: capacità di una sostanza di causare anomalie genetiche.

Compatibilità con uno specifico tessuto: capacità di un dispositivo/biomateriale di riprodurre una determinata funzione dal punto di vista fisico e meccanico.

In test in vitro possono essere eseguiti su:

Cellule primarie, isolate direttamente dal paziente; garantiscono parametri biologici più realistici, ma vi è scarsa riproducibilità e reperibilità.

Cellule immortalizzate, derivano da colture primarie di tumori o manipolazioni genetiche; hanno buona riproducibilità, ma presentano alterazioni nella proliferazione cellulare. Inoltre danno una risposta meno realistica.

Due possibili test:

Citossicità indiretta: il materiale da testare è incubato in un mezzo di coltura, il mezzo di coltura (eluato) viene poi prelevato e utilizzato per coltivare le cellule. Si ricavano informazioni su eventuali sostanze tossiche rilasciate.

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Citocompatibilità diretta: le cellule, in apposito terreno di coltura, vengono fatte crescere a diretto contatto con il materiale da testare. Si ricavano informazioni su come le cellule agiscono nei confronti del materiale (attacco cellulare, spreading, proliferazione…)

Per quantificare la vitalità delle cellule si possono utilizzare due diversi metodi:

Test Alamar Blue, valuta la vitalità cellulare tramite un indicatore redox; infatti la resazurina (blu scuro) viene convertita in resorufina (molecola fluorescente violetta) dal metabolismo cellulare. In questo modo la vitalità è rilevabile da uno spettrofotometro. È importante avere un confronto con le cellule non trattate perché il valore risultante deve essere normalizzato. Citotossicità % = 100% - Vitalità % Vitalita % = output test/output controllo * 100

Test MTT, saggio che sfrutta la capacità dei mitocondri di scindere la molecola di MTT (gialla) per dare un sale di formazano (violetto). Il sale è impermeabile alle membrane cellulari, e, accumulandosi nelle cellule vitali, consente di visualizzare qualitativamente la distribuzione delle cellule vive. Ciò è possibile tramite microscopia.

I test in vivo sono più complessi, lunghi e costosi, ma danno informazioni più realistiche. Possono essere:

Test non funzionali: il materiale viene passivamente impiantato in una forma non specifica in un tessuto (sottocute o intramuscolo); è un test di breve durata che fornisce informazioni sulle interazioni locali tra materiale e tessuto e le eventuali complicanze sistemiche, valuta inoltre la reazione dell’organismo.

Test funzionali: il materiale/dispositivo viene impiantato nell’animale in modo da ricoprire almeno in parte la funzione che dovrà avere nell’uomo; è un test a lungo termine costoso e complesso.

Vantaggi:

Valutare diversi aspetti della risposta biologica dell’impianto Condizioni più simili all’uomo Valutazione delle funzionalità del dispositivo

Svantaggi:

Maggiore difficoltà nel controllo dei parametri chimico-fisici Variabilità rende i test meno standardizzabili Problemi di ordine etico Costi elevati

Vi sono anche test ex vivo -> analisi di dispositivi espiantati andati in contro o meno al fallimento (le protesi vanno comunque revisionate e cambiate dopo 10/15 anni), si valutano eventuali cause di fallimento e gli effetti dell’interazione biomateriale/corpo.

Dopo i test in vivo e in vitro si passa al trial clinico valutando il dispositivo nelle normali condizioni di utilizzo e eventuali rischi o effetti indesiderati. I trial clinici sono lunghi, complessi, costosi e richiedono un numero elevato di soggetti.

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Ingegneria dei tessuti

L’ingegneria dei tessuti è un campo interdisciplinare che applica i principi dell’ingegneria e delle scienze della vita allo sviluppo di sostituti biologici che riparano, mantengono o migliorano la funzionalità dei tessuti. È un ambito della medicina rigenerativa.

L’ingegneria dei tessuti è la creazione di un nuovo tessuto per la ricostruzione terapeutica del corpo umano, dalla deliberata e controllata stimolazione di selezionate cellule bersaglio alla sistematica combinazione di segnali molecolari e meccanici.

L’ingegneria dei tessuti è un campo multidisciplinare, che coinvolge la chimica, la fisica, la biologia, la chirurgia e l’ingegneria e mira a riparare/sostituire la funzione di un tessuto o organo danneggiato attraverso l’ingegnerizzazione di sostituti biocompatibili.

La medicina rigenerativa ha lo scopo di sostituire un tessuto o organo danneggiato e ripristinarne la funzionalità. Utilizza cellule per la cosiddetta terapia cellulare. Deve sussistere la coesistenza di 3 componenti: cellule, supporti e segnali.

Le cellule possono essere classificate secondo la fonte cellulare:

Autologhe -> paziente=donatore Allogeniche -> paziente e donatore sono della stessa specie Xenogeniche -> paziente e donatore sono di due specie diverse

Oppure secondo il grado di differenziamento:

Cellule adulte differenziate -> sono le cellule che si riproducono giornalmente per fornire alcune specifiche cellule dei tessuti

Cellule staminali adulte -> presenti in molti tipi di tessuti, capaci di produrre cellule di ricambio per mantenere in condizioni ottimali e fisiologiche il sistema

Cellule staminali embrionali -> non sono ancora differenziate, sono pluripotenti. Non sono ancora dotate della potenzialità di dare origine al tessuto presente nell’organismo di cui fanno parte.

Le strategie impiegate dalla medicina rigenerativa per la rigenerazione di tessuti danneggiati sono:

Terapia cellulare Incapsulamento/veicolazione Coltivazione delle cellule su/in uno scaffold -> ingegneria dei tessuti

Terapia cellulare: le cellule autologhe (cellule del paziente che dopo essere state opportunamente modificate vengono reintrodotte nel paziente stesso, quindi paziente=donatore) vengono trapiantate nel luogo da curare, ma, non essendo vincolate a un substrato possono disperdersi e migrare nei tessuti circostanti.

Isolamento -> coltura in vitro su piastre in polistirene trattato, le cellule sono ricoperte con terreno di coltura e poste in appositi incubatori-> espansione (proliferazione) e differenziamento -> distacco -> reimmissione o reinfondo

Questo processo può essere ripetuto infinite volte asportano parte delle cellule coltivate e ripiastrandole.

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Biostabile: ovvero biointegrabile, materiale che non viene alterato dai fluidi biologici

Biodegradabile: materiale che subisce una trasformazione chimica (degradazione) che ne altera o modifica le proprietà

Bioriassorbibile: materiale che una volta all’interno dell’organismo subisce una lenta e progressiva degradazione la cui cinetica viene calcolata e studiata in base al tipo di struttura che si vuole ottenere

Bioinerte: materiale che non induce il tessuto ad interagire con esso, ma non dà vita nemmeno a fenomeni di intolleranza

Bioattivo: materiale che induce l’organismo a interagire con esso in maniera positiva senza che i due sistemi si danneggino vicendevolmente.

Incapsulamento/veicolazione: vi sono due tipi di capsule a seconda del tipo di cellule impiegate:

Cellule omologhe oppure eterologhe in microcapsule biostabili. Le cellule omologhe sono derivate da allotrapianto, il paziente è diverso dal donatore; le cellule eterologhe sono derivate da xenotrapianto, sono cioè provenienti da una specie diversa. Le capsule biostabili presentano dei pori che consentono l’ingresso degli anaboliti (nutrienti, gas) e l’uscita dei cataboliti (sostanze di scarto), ma impediscono l’accesso alle cellule del sistema immunitario (che danneggerebbero le cellule incapsulate) e l’uscita alle cellule incapsulate. La rottura della capsula causa il fallimento dell’impianto.

Cellule autologhe (derivate da autotrapianto) in microcapsule biodegradabili con funzione di veicolo. Le cellule crescono all’interno della capsula che degradandosi rilascia le cellule in situ in modo controllato in modo da riparare il danno. Un incapsulamento imperfetto provoca una dispersione cellulare non localizzata e non controllata

Coltivazione di cellule autologhe su/in uno scaffold: si utilizza uno scaffold (impalcatura) per la crescita cellulare e un bioreattore per far crescere e differenziare le cellule in modo opportuno. Lo scaffold è una struttura 3D porosa che non costituisce un ambiente confinato; per questo si usano cellule autologhe.

Isolamento -> coltura in vitro con uno scaffold, stimolazione da parte dei bioreattori in modo tale che le cellule producano ECM con caratteristiche simili al tessuto nativo -> differenziamento -> estrazione -> impianto in situ

Scaffold + ECM + cellule = costrutto

Sviluppo di un tessuto ingegnerizzato:

1. Fabbricazione di supporti (scaffold) 3D biodegradabili o biostabili. Gli scaffold possono essere molto diversi a livello chimico, fisico e meccanico

2. Coltura in vitro di cellule preferibilmente autologhe 3. Cellularizzazione dello scaffold e coltura in condizioni statiche per favorire l’adesione

(spesso gocciolatura di una sospensione cellulare) 4. Proliferazione e differenziamento cellulare in condizioni dinamiche per favorire la

colonizzazione dello scaffold 5. Crescita del costrutto in ambiente simil-fisiologico (bioreattore)

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6. Impianto nell’organismo ospite 7. Adattamento e assimilazione dell’impianto

Il bioreattore è un dispositivo per la coltura di cellule che:

Consente di irrorare il costrutto ingegnerizzato con anaboliti Permette di drenare i cataboliti Consente di controllare in tempo reale i parametri di coltura tramite sonde Consente di stimolare meccanicamente secondo pattern prestabiliti i costrutti durante il

loro sviluppo

Lo scaffold è un supporto tipicamente 3D atto alla rigenerazione di un tessuto avente generalmente:

Elevata porosità Biocompatibilità e biodegradabilità oppure biostabilità (-> caratteristiche simili ai tessuti

circostanti) Superficie chimicamente adatta all’adesione, proliferazione e differenziamento cellulare Adeguate proprietà meccaniche per tutta la vita utile dell’impianto (biostabile) oppure che

andranno degradandosi (biodegradabile)

Problematiche:

1. Distribuzione delle cellule nello scaffold: bassa penetrazione cellulare, la parte interna è scarsamente cellularizzata. Il problema è ovviato con la perfusione interstiziale dello scaffold. Alternativamente si possono deporre le cellule durante la realizzazione dello scaffold, ma alcuni prodotti usati nella lavorazione sono tossici oppure richiedono alte temperature

2. Vascolarizzazione e scambi metabolici: le cellule interne sono scarsamente irrorate sia nel bioreattore sia in vivo a meno che non si verifichi neovascolarizzazione (che rimane comunque un processo lento)

3. Utilizzo contemporaneo di diversi tipi cellulari: difficile controllo della distribuzione dei diversi tipi cellulari. Normalmente gli scaffold hanno un solo tipo cellulare. -> limite se si vuole costruire un tessuto di interfaccia (es. osso-cartilagine)

4. Ottimizzazione dello scaffold: le proprietà meccaniche devono essere adatte allo scopo e le proprietà microstrutturali e di composizione devono essere ottimali per la crescita cellulare

5. Aggiunta di fattori di crescita in gradiente di concentrazione per determinare una risposta cellulare chemiotattica. Insieme alle sollecitazioni meccaniche la stimolazione biochimica consente la proliferazione.

Materiali per realizzare uno scaffold:

Inorganici: idrossiapatite, calciofosfati, biovetri… Organici naturali: collagene, matrice ossea demineralizzata, chitosano, acido ialuronico,

fibrina, alginati… Organici sintetici Compositi organici/inorganici: calciofosfati e idrossiapatite in una matrice polimerica

Organici naturali, i vantaggi possono essere anche svantaggi

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Ottenimento da fonti naturali: reperibili, ma vanno trovati, possono subire variazioni chimico-fisiche a seconda del lotto di provenienza (scarsa riproducibilità), scarsa purezza

Strutturalmente simili ai tessuti naturali: si avvicinano, ma non sono identici Elevato contenuto d’acqua: molti tessuti corporei sono ricchi d’acqua, ma in alcune fasi di

processamento dello scaffold si lavora in ambiente anidro Compatibilità funzionale con i tessuti del corpo umano: è una compatibilità, ma riguarda

solo la funzione Biodegradabilità con prodotti di degradazione ben tollerati: ottimo, ma i prodotti di

degradazione vanno comunque tollerati

Organici sintetici, vantaggi:

Reperibilità in grandi volumi Versatilità di struttura Versatilità di forme realizzate Versatilità di proprietà meccaniche Appropriate proprietà superficiali Idoneità alla fabbricazione di matrici porose 3D Idoneità alla fabbricazione di compositi

Possono essere biostabili o biodegradabili. Alcuni esempi:

Poliesteri R – CO – O – R Come acido polilattico PLA, acido poliglicolico PGA, policaprolattone PCL, copolimeri PGA/PLA in rapporti variabili

Poliortoesteri R – C(OR)3 Polianidridi R – CO – O – CO – R Poliuretani R – NH – CO – O – R

Per esempio il PGA ha ottime proprietà meccaniche, è soggetto a bulk erosion cioè a una diminuzione in massa dopo 3-4 mesi, ma a una diminuzione in proprietà meccaniche dopo 0,5-1 mese. Si ha infatti idrolisi e degradazione delle catene senza apparente perdita di massa che avviene tardivamente a proprietà meccaniche perse.

La degradazione di uno scaffold viene studiata con il macchinario di Agrawal: ambiente ideale a 37°C, si perde la complessità perché i campioni sono immersi in soluzione fisiologica. Dopo un certo tempo si verifica la perdita in massa e in proprietà meccaniche (valutata con opportune prove). Si ottengono dei dati puramente indicativi, vanno verificati da test in vivo sia funzionali sia non funzionali. In questo modo si possono valutare anche la resistenza alle sollecitazioni meccaniche e l’organificazione.

Un materiale biodegradabile usato per uno scaffold raggiunge l’optimum quando la velocità di degradazione va di pari passo con lo smaltimento dei prodotti di degradazione e la capacità e la velocità di rigenerazione.

Compositi: i riempitivi inorganici influenzano positivamente l’inziale adsorbimento di proteine diminuendo l’idrofobicità superficiale del polimero, inoltre tamponano i prodotti acidi di

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degradazione dei polimeri (infatti i riempitivi inorganici sono sali basici) evitando la generazione di un ambiente sfavorevole per la crescita cellulare.

A seconda del materiale utilizzato di può avere la maturazione dei costrutti:

Nel bioreattore: la cinetica di degradazione è molto veloce e le proprietà meccaniche dello scaffold sono funzionali già nel bioreattore -> inizia già la sostituzione dello scaffold con tessuto neoformato

In situ: lo scaffold ha cinetica degradativa a lungo termine, le sue proprietà meccaniche sono importanti anche in vivo. La perdita in massa e in peso molecolare avvengono solo dopo l’impianto. La maturazione del tessuto finale con la dissoluzione dell’impianto e la sostituzione con nuovo tessuto avvengono in vivo.

Lo scaffold deve garantire:

Crescita cellulare e differenziamento Angiogenesi Trasporto molecolare Migrazione cellulare Microambiente biofisico e metabolico Proprietà meccaniche simili al tessuto nativo Limitata risposta infiammatoria post-impianto

I segnali sono fattori che stimolano la proliferazione e/o il differenziamento cellulare. Possono essere biochimici (fattori di crescita) oppure fisici (segnali meccanici e elettrici).

Un esempio di tessuto ingegnerizzato è la cute. La cute è composta da tre strati:

Epidermide -> cheratinociti e melanociti Derma -> fibroblasti Ipoderma -> cellule del tessuto adiposo

La cute ingegnerizzata viene usata in caso di ustioni, ulcere diabetiche, piaghe da decubito o lesioni traumatiche. Per ustioni gravi si possono adottare tre strategie:

Rigenerazione di epidermide e derma Rigenerazione di derma e autotrapianto di epidermide Autotrapianto di epidermide e derma (lesioni non estese oltre il 40% della superficie

corporea)

Il tessuto sostitutivo deve fornire immediata protezione e essere sufficientemente vascolarizzato.

Si usano degli scaffold 2D. Per la rigenerazione dell’epidermide si usa il LASERSKIN AUTOGRAFT su cui si coltivano cheratinociti autologhi. È composto da acido ialuronico e ha dei micropori che consentono la migrazione delle cellule sul letto della ferita. Per la rigenerazione del derma si usa invece lo HYALOGRAFT 3D, matrice idonea per favorire l’adesione e la proliferazione di fibroblasti autologhi. Per rigenerare la pelle della sua interezza si usa il MATRIDERM.

Nel caso di AUTOGRAFT: si prelevano le cellule dal paziente -> si isolano cheratinociti e fibroblasti -> si coltivano le cellule in vitro -> colonizzazione cellulare dello scaffold -> impianto

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Vi sono molti studi su tendini e legamenti non tanto per il tipo cellulare (condrociti) ma per le importanti proprietà meccaniche che devono possedere queste cellule. Una tecnica consiste nel prelevare condrociti dal paziente -> espandere le cellule e formare il costrutto. Un’altra invece prevede l’utilizzo di cellule staminali che devono diventare condrociti -> queste cellule vengono poi poste su uno scaffold all’interno di un bioreattore.

Immunità

L’immunità è il meccanismo mediante il quale un organismo è in grado di neutralizzare tutto ciò che gli è estraneo (non-self).

L’immunità può essere:

1. Innata/naturale/aspecifica è una parte dell’organismo che si è evoluta ed è in grado di attaccare un potenziale patogeno.

2. Acquisita/specifica/adattativa si sviluppa solo dopo l’avvenuta esposizione al patogeno, è quindi una risposta più lenta. A sua volta l’immunità acquisita si divide in:

Risposta umorale (presente negli umori del corpo come per esempio il plasma) consta di cellule e anticorpi -> proteine circolanti prodotte da particolari tipi cellulari atte a riconoscere il patogeno per complementarietà.

Risposta cellulo-mediata si basa sulla presenza di cellule effettrici della risposta immunitaria

L’immunità naturale e quella acquisita non sono completamente disgiunte, hanno dei punti in comune: i macrofagi e il sistema del complemento.

Immunità innata Immunità acquisita Aspecifica Non ha grande potere discriminante nei

confronti del potenziale patogeno e quindi non lo inattiva così efficacemente come l’acquisita

Presente da sempre (dalla nascita) e sempre presente

Non dipende dall’esposizione a agenti infettivi o molecole estranee

Non aumenta dopo la prima esposizione (non ha memoria immunologica)

Specifica Si attiva al momento dell’infezione È indotta dall’esposizione a agenti

infettivi o a molecole estranee Aumenta dopo la prima esposizione ->

ha memoria immunologica

L’immunità innata agisce tra le 0 e le 96 ore dal contatto col patogeno, l’immunità acquisita si attiva per giorni a partire dalle 96 ore dopo il contatto col patogeno. Nell’immunità acquisita si attivano i linfociti T-helper che a loro volta possono attivare i linfociti B (risposta umorale poiché queste cellule producono anticorpi) oppure i linfociti T-citotossici (risposta cellulo-mediata).

L’immunità innata è costituita da una serie di meccanismi di difesa aspecifici, presenti fin dalla nascita di un individuo. È la prima vera barriera di difesa dell’organismo. Consta di 7 componenti:

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Pelle intatta, epitelio pavimentoso pluristratificato composto in prevalenza da cheratinociti, forma una barriera impenetrabile ai patogeni

Mucose con eventuali ghiandole, le mucose rivestono il corpo in continuo con la pelle, è l’epitelio di interfaccia tra le vie aeree e l’esterno

Acidi e enzimi gastrici, saliva, lacrime, muco, sebo, sudore… sono prodotti dalle ghiandole Proteine ad azione antimicrobica -> interferoni, citochine e il sistema del complemento Febbre (iperpiressia), provocata dall’azione di pirogeni endogeni (citochine) secreti da

macrofagi e neutrofili Cellule fagocitiche (granulociti e macrofagi) e cellule natural killer Reazione infiammatoria che mobilita i leucociti

Le caratteristiche dell’immunità innata:

È immediata È generalizzata Non è molto efficace I meccanismi di riconoscimento sono completamente determinati a livello genetico (si

riconosce il non-self come tale senza esserne mai venuti a contatto) Non ha memoria immunologica

È formata da una riposta innata immediata che agisce tra le 0 e le 4 ore dall’esposizione al patogeno e da una risposta indotta precoce che agisce tra le 4 e le 96 ore. Entrambe portano alla rimozione (anche se non totale) dell’agente infettivo.

I linfociti NK fanno parte dell’immunità innata; essi attaccano cellule cancerose o infettate da virus perché queste cellule rilasciano citochine che normalmente non vengono prodotte dalle cellule e che attraggono i linfociti NK (presentano recettori aspecifici). Le cellule NK producono allora perforina, una sostanza che produce dei fori sulla membrana della cellula infettata portandola alla lisi.

Un punto di incrocio tra immunità innata e specifica è costituito dai macrofagi, cellule ad attività fagocitaria:

Nell’immunità innata, i macrofagi emettono protrusioni di membrana da un lato e invaginazioni dall’altro per generare un vacuolo (fagosoma) contenente il patogeno che va così incontro a degradazione. Inoltre producono citochine e interferone.

Nell’immunità acquisita, i macrofagi in seguito alla fagocitosi del patogeno, lo degradano in parti più piccole e incastonano questi prodotti di degradazione sul complesso maggiore di istocompatibilità (una grande proteina) che viene a sua volta esposto sulla superficie del macrofago stesso. In questo modo i linfociti T-helper sono in grado di riconoscere il non-self.

L’immunità acquisita potenzia la risposta immunitaria naturale, amplificandola e orientandola nei confronti dell’agente estraneo. Caratteristiche:

È più lenta È più selettiva (antigene-specifica)

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È più efficace (per due motivi: in primo luogo perché si trova a valle dell’immunità innata e in secondo luogo perché è più specifica)

Viene espressa solo dopo l’esposizione all’antigene tramite il meccanismo di presentazione dell’antigene

Ha memoria immunologica (i linfociti T-killer e gli anticorpi restano in circolo per molto tempo e sono subito attivi in caso di una seconda esposizione) -> questo è il meccanismo delle vaccinazioni

Consta di 4 componenti:

Cellule presentanti l’antigene (come i macrofagi) Linfociti T-helper antigene-specifici (mediano sia la risposta umorale sia la cellulo-mediata) Linfociti B Ag-specifici (responsabili della risposta umorale) Linfociti T-citotossici e anticorpi

Un antigene è un microorganismo o parte di esso in grado di essere riconosciuto dal sistema immunitario.

Un immunogeno è un antigene che è in grado di stimolare una risposta immunitaria.

Una sostanza può essere antigenica ma non immunogenica ovvero si lega a un anticorpo ma non stimola la produzione di anticorpi da parte dei linfociti B.

Il potere antigenico di una sostanza dipende da:

Estraneità all’organismo (per essere un buon antigene deve essere un antigene) Complessità molecolare o strutturale (ramificato > lineare) Dal peso molecolare (deve essere maggiore di 1000 Da) Dallo stato fisico (Ag aggregati > solubili) Dalla dose somministrata Dalla via di somministrazione

L’immunità acquisita viene attivata in risposta a specifici stimoli detti Ag.

N.B. non tutte le molecole non-self sono potenziali antigeni.

La risposta umorale consente la rimozione di tossine e patogeni extracellulari e si basa sulla presenza di anticorpi nel circolo ematico.

Il macrofago fagocita l’antigene, che viene degradato tramite idrolisi, e espone i prodotti di degradazione sul complesso maggiore di istocompatibilità. Viene poi rilasciato un mediatore chimico (interleuchina 1) che richiama il linfocita T-helper. Il T-helper dopo essere stato a contatto con il castone viene detto sensibilizzato. A questo punto il linfocita T-helper produce altri mediatori chimici (interleuchina 4) che richiamano i linfociti B complementari (cioè in grado di completare il castone esposto). I linfociti B andranno incontro a duplicazione e si genereranno due popolazioni differenti: le plasmacellule identiche tra loro e in grado di produrre anticorpi contro tale antigene e i linfociti B memoria, plasmacellule che si attiveranno in presenza di un nuovo contatto.

La risposta cellulo-mediata consente la rimozione di virus e batteri intracellulari oltre che di cellule cancerose.

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Il macrofago fagocita un virus, viene presentato il castone, si rilascia interleuchina 1 che richiama il linfocita T-helper. Il linfocita T-helper sensibilizzato rilascia interleuchina 2 che attiva il linfocita T-citotossico complementare al castone esposto. Il linfocita T-citotossico si duplica e genera linfociti T-citotossici effettori che riconoscono le cellule infette e le distruggono e linfociti T-memoria che a una seconda esposizione si convertono spontaneamente in linfociti T-citotossici.

Ai linfociti visti finora si aggiungono i linfociti T-soppressori che inibiscono la reazione linfocitaria. I linfociti sono prodotti negli organi linfoidi. In particolare i linfociti B sono prodotti nel midollo osseo, mentre i linfociti T sono prodotti nel timo.

La risposta umorale è mediata da immunoglobuline ovvero anticorpi che differiscono per:

Struttura primaria -> determina la variabilità delle altre caratteristiche Carica Dimensioni Funzione Contenuto e composizione di carboidrati coniugati (glicosilazione)

Gli anticorpi hanno una forma a Y formata da due catene pesanti e due catene leggere tenute insieme da ponti disolfuro. Hanno un dominio costante e due regioni variabili all’estremità che sono specifiche e complementari a un determinato antigene. L’interazione Ab-Ag avviene mediante l’instaurarsi di tutte le interazioni deboli possibili per le proteine: forze elettrostatiche, interazioni idrofobiche, forze di Van der Waals e legami a idrogeno.

Le immunoglobuline si dividono in 5 sottoclassi: IgG (a cui solitamente appartengono gli anticorpi), IgE (a cui appartengono gli anticorpi che determinano una reazione allergica), IgA, IgM e IgD.

La risposta cellulo-mediata è rivolta soprattutto alla rimozione di microorganismi che sopravvivono alla fagocitosi e a quelli che infettano cellule non fagocitiche, consente la rimozione di cellule infettate da virus e cellule tumorali e determina il rigetto degli organi trapiantati.

La cellula infettata determina l’attivazione del linfocita T-citotossico che riconosce per complementarietà le proteine esogene esposte sul complesso maggiore di istocompatibilità. I linfociti T-citotossici producono una molecola che provoca la formazione di fori sulla superficie della membrana della cellula infettata determinandone la lisi.

Il sistema del complemento complementa (completa) e amplifica l’azione degli anticorpi e ha un ruolo chiave sia nell’immunità innata (principalmente) sia nell’immunità acquisita. È stato scoperto alla fine del XIX secolo perché si notò che a una temperatura superiore ai 56°C non avveniva la lisi dei batteri sebbene gli anticorpi fossero termostabili.

Il sistema del complemento è costituito da circa 30 proteine tra plasmatiche circolanti inattive, attivate a cascata da proteasi sieriche e recettori di membrana del complemento.

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Le funzioni del sistema del complemento sono tipicamente tre:

1. Attivazione dei fagociti (in particolare dei PMN) grazie alla proteina C3. Questa proteina viene scissa in due metà: C3a e C3b. La C3a determina l’attivazione dei granulociti neutrofili e porta all’extravasazione leucocitaria e alla degranulazione degli stessi.

2. Opsonizzazione grazie alla proteina C3b che si lega a speci patogene come i batteri consentendone un più facile riconoscimento da parte di cellule fagocitiche come i PMN.

3. Lisi cellulare che avviene in seguito al riconoscimento di un patogeno. Il sistema del complemento provoca una serie di reazioni a catena che portano alla formazione del MAC (complesso di attacco alla membrana). Il MAC provoca un poro nella membrana cellulare di un batterio causandone la morte.

L’attivazione del sistema del complemento può seguire due percorsi: la via classica (vede l’attivazione a cascata di tutte le proteine) e la via alternativa (è aspecifica e più veloce, non coinvolge tutte le componenti del complemento). Entrambe convertono sulla formazione della C3 convertasi che permette la scissione della C3 in C3a e C3b. La C3b è anche responsabile (attraverso alcune reazioni) della formazione del MAC.

Biotecnologie e ingegneria genetica

Le biotecnologie sono l’applicazione tecnologica che si serve dei sistemi biologici, degli organismi viventi o di derivati di essi per produrre o modificare prodotti o processi per un fine specifico. Costituiscono il ramo della biologia riguardante l’utilizzo di esseri viventi al fine di ottenere beni o servizi.

Le biotecnologie si dividono in:

Red biotechnology o biotecnologie farmaceutiche che consentono l’utilizzo di sistemi biologici per produrre farmaci (es. antibiotici come la penicillina)

Green biotechnology o biotecnologie agroalimentari per la produzione di alimenti (es. mais Bt, OGM che ha consentito di introdurre un gene che codifica per una proteina insetticida; Bt indica il batterio da cui è stato estratto il frammento di DNA)

Blue biotechnology o biotecnologie marine, si applicano a ecosistemi per migliorare l’itticoltura o preservare gli ambienti marini stessi

Grey biotechnology o biotecnologie ambientali, sono in senso più ampio applicate all’ambiente (es. microrganismi in impianti di depurazione)

White biotechnology o biotecnologie industriali, utilizzano parti di microrganismi (es. enzimi che accelerano alcuni processi industriali)

Gli acidi nucleici sono eteropolimeri lineari costituiti da nucleotidi (unità monomeriche) [è possibile vedere un parallelismo con le proteine, anch’esse eteropolimeri lineari formati però da amminoacidi]. Ciascun nucleotide è formato da tre gruppi funzionali caratteristici:

1. Gruppo fosfato che contiene fosforo e ossigeno

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2. Zucchero pentoso che si chiude ad anello a cinque termini 3. Base azotata che contiene azoto, un elemento già di per sé basico

Le basi azotate si dividono in puriniche (A, G) e pirimidiniche (C, T, U).

Gli acidi nucleici contengono, trasportano e decifrano l’informazione genetica.

DNA RNA Nome Acido desossiribonucleico Acido ribonucleico Basi azotate Adenina (A)

Citosina (C) Guanina (G) Timina (T)

Adenina (A) Citosina (C) Guanina (G) Uracile (U)

Gruppo fosfato Inalterato Inalterato Zucchero Desossiribosio (in posizione 2’

manca un atomo di O) Ribosio

I nucleotidi si legano tra loro mediante una reazione di condensazione tra il gruppo fosfato (posizione 5’) e il gruppo ossidrile in posizione 3’ dello zucchero. Si libera così una molecola d’acqua. La reazione inversa è l’idrolisi e necessita di una molecola d’acqua.

Il DNA è presente come doppio filamento antiparallelo. Il filamento è doppio perché le basi azotate complementari si legano tra loro mediante legami a idrogeno. Il filamento è antiparallelo perché ogni filamento ha un verso dato dalla polarità (in un filamento si andrà da 3’ a 5’ -> il gruppo fosfato lega il nucleotide che sta più in alto, e l’altro da 5’ a 3’).

Il RNA pur presentando una polarità è presente come singolo filamento a emielica.

Il genoma indica la totalità dei geni di un organismo. Il gene è l’unità ereditaria fondamentale degli organismi viventi, ovvero una porzione di DNA, che viene trascritta in RNA, che viene tradotta in una proteina (sintesi proteica). L’ultimo passaggio è detto traduzione perché si ha il passaggio dal linguaggio dei nucleotidi a quello degli amminoacidi.

Nelle cellule eucarioti il DNA genomico di trova nel nucleo, che è circondato da una doppia membrana e è immerso nel citoplasma. Il DNA si lega a proteine (istoni) a formare nucleosomi in una sorta di spirale. I nucleosomi sono impilati a formare cromatina. La cromatina ulteriormente addensata costituisce i cromosomi che nel loro insieme formano il genoma.

Nelle cellule batteriche procarioti il DNA genomico è disposto su un unico cromosoma circolare che si trova nel nucleoide. Inoltre il procariote, oltre ad avere un DNA genomico, presenta anche degli altri piccoli frammenti di DNA a doppio filamento circolare (plasmidi) in grado di conferire al batterio proprietà specifiche (es. antibiotico-resistenza).

Il RNA è presente in tre forme diverse:

1. RNA messaggero (mRNA), filamento di RNA prodotto da uno stampo di DNA, è il prodotto della trascrizione di un gene.

2. RNA transfer (tRNA), ha solo la funzione di riconoscere delle piccole sequenze di nucleotidi del mRNA e associarle a un amminoacido. È la chiave della traduzione.

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3. RNA ribosomiale (rRNA), uno dei principali componenti dei ribosomi, organelli privi di membrana addetti alla traduzione.

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Il dogma centrale della biologia molecolare sostiene che l’informazione genetica è unidirezionale e fluisce dal DNA all’RNA e alle proteine. Ciò avviene tramite:

Duplicazione (DNA -> DNA) Trascrizione (DNA -> RNA) Traduzione (RNA -> proteine)

L’ingegneria genetica (o tecnologia del DNA ricombinante) è l’insieme delle tecniche che permettono di isolare geni, clonarli, introdurli e esprimerli in un ospite. Per esempio, per produrre l’insulina si prelevano cellule di un individuo sano e si isola il gene che codifica per l’insulina. Poi, prelevando un plasmide da un batterio, questo viene modificato con l’aggiunta del gene dell’insulina. Il plasmide viene successivamente inserito in un batterio privo di plasmidi che, coltivato in vitro, produrrà le sostanze necessarie alla sua sopravvivenza e l’insulina. Possibili applicazioni dell’ingegneria genetica sono:

1. Generazione di organismi transgenici ovvero geneticamente modificati (OGM) 2. Clonazione 3. Terapia genica

1. Con OGM si intende ogni organismo animale o vegetale geneticamente modificato. Per ottenere un OGM si isola un gene di interesse e lo si inserisce in un costrutto (plasmide + gene). Si inserisce poi il costrutto all’interno di una cellula uovo fecondata (zigote) tramite un sistema di microiniezione. Si inocula poi lo zigote modificato nell’utero di una madre adottiva. Lo zigote crescerà e darà origine a un organismo transgenico in grado di produrre la proteina codificata dal gene di interesse. (es. plasminogeno umano nel latte di ratto). Se non si va a introdurre il plasmide nello zigote, ma a valle di qualche duplicazione si ottiene un individuo mosaico, capace cioè di produrre quella proteina solo in alcuni distretti del corpo derivati dalla duplicazione della cellula modificata.

2. È il caso della pecora Dolly. Si parte da una pecora donatrice a cui vengono prelevate delle cellule somatiche (tutte le cellule dell’organismo a eccezione di quelle delle linee germinali). Si preleva poi una cellula uovo di un’altra pecora che viene enucleata. Il nucleo viene sostituito con quello della cellula somatica. Lo zigote viene successivamente impiantato nell’utero di una madre adottiva ottenendo così il clone del primo individuo. [ciò è possibile perché il nucleo adulto riceve degli stimoli biochimici sia in vitro sia dall’impianto dell’utero sia dal fatto che la cellula in cui è impiantato sia una cellula uovo].

3. È l’introduzione di materiale genetico (uno o più geni sani) all’interno di cellule che presentano uno o più geni assenti o malfunzionanti. Il processo di inserzione di materiale genetico all’interno di una cellula prende il nome di transfezione. Può essere eseguita con due diverse modalità:

In vivo -> somministrazione di DNA in plasmide direttamente al paziente, ma ha bassa efficienza e efficacia

Ex vivo -> si prelevano delle cellule dal paziente, si coltivano in vitro, si inserisce la porzione di DNA di interesse e poi si reimmettono le cellule nel paziente. Questa tecnica presenta il vantaggio di poter ottenere un gran numero di cellule e di poter selezionare solo quelle in cui il trattamento è andato a buon fine. Purtroppo però non tutte le cellule sono espiantabili

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e le cellule in cui il trattamento ha successo sono poche perché la maggior parte delle volte il DNA viene idrolizzato.

Si utilizzano così dei mezzi fisici o dei vettori per arrivare allo scopo terapeutico.

I mezzi fisici sono:

Iniezione e microiniezione. L’idea alla base dell’iniezione è somministrare molto DNA per aumentare la possibilità che esso entri nelle cellule. Può essere eseguita con siringhe, aghi o patch dotati di microaghi. La microiniezione ha un’efficienza molto alta, ma va eseguita su ogni singola cellula per milioni di cellule.

Ultrasuoni (sonoporazione). A una determinata frequenza e intensità gli ultrasuoni destabilizzano la membrana cellulare e il DNA nudo ha più possibilità di entrare per la presenza di pori.

Elettroporazione. Utilizzo di uno shock elettrico per generare dei pori temporanei sulla membrana. Non è eseguibile su tessuti che agiscono per stimoli elettrici.

Magnetofezione. Trattamento del DNA che viene immobilizzato su una particella ferromagnetica che viene orientata attraverso dei grandi magnetici nel distratto corporeo di interesse (precisione di 1mm). Non si riesce a trattare in modo accurato i tessuti profondi perché si ha una difficoltà di movimento.

Gene gun. Pistola caricata a elio i cui proiettili sono frammenti micro- e nano-metrici di metalli nobili con attaccate parti di DNA. È usata in vitro e sulle piante perché presentano cellule meno stratificate (limitato potere penetrante) e inoltre è presente la problematica del dolore.

Altrimenti si possono usare dei vettori:

Virali. I virus esistenti, svuotati di parte del genoma che viene rimpiazzato con geni a effetto terapeutico, colpiscono le cellule. È un metodo efficace e efficiente perché i virus si sono evoluti per iniettare acidi nucleici nelle cellule. Si hanno però due problemi: l’attivazione della risposta immunitaria e il fatto che un piccolo errore nel processo taglia/cuci del genoma potrebbe generare gravi patologie.

Non virali. Possono essere lipidici o polimerici. Nel caso dei vettori lipidici, si utilizzano dei lipidi cationici per ottenere delle membrane simili a quelle cellulari in cui introdurre i geni sani. Il lipoplesso viene poi inglobato tramite una fusione tra le membrane. Nel caso di vettori polimerici, essi hanno una membrana polimerica, sono chiamati poliplessi e vengono inglobati tramite endocitosi.

Tecniche diagnostiche

I termini imaging, imaging biomedico o diagnostica per immagini si riferiscono al processo attraverso il quale è possibile osservare un distretto di un organismo non visibile dall’esterno. Le tecniche di imaging utilizzano l’energia fornita da una sorgente e misurano l’interazione fra questa energia e l’organo di cui si vuole ottenere un’immagine.

Si suddividono in due classi:

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Quelle che utilizzano radiazioni nucleari (ionizzanti) [medicina nucleare] - A trasmissione: RX, TC (TAC), si ha un emettitore di radiazioni ionizzanti esterno e il

corpo è posto tra la fonte e il rilevatore - Ad emissione: PET, SPECT, scintigrafia, viene iniettato nel corpo un radiofarmaco

contenente un isotopo radioattivo in grado di emettere delle radiazioni che vengono captate da un rilevatore

Quelle che non utilizzano radiazioni ionizzanti: MRI (RMN), ecografia

I raggi X sono radiazioni con lunghezza d’onda compresa tra 10 nm e 1 pm (radiazioni molto energetiche). I raggi X sono molto penetranti e determinano l’assorbimento di energia con transizioni da parte degli elettroni interni. Si provoca in questo modo la rottura delle molecole e la formazione di ioni.

I raggi X sono pericolosi perché potenzialmente cancerogeni e responsabili di lesioni cellulari. Un esperto deve valutare il rapporto rischi/benefici. I raggi X costituiscono comunque il metodo più usato nella diagnostica medica e possono essere utilizzati anche per la cura di alcuni tipi di tumore (radioterapia).

Il loro principale uso è legato alle radiografie. In particolare, consentono la visualizzazione dell’apparato scheletrico e di eventuali protesi.

Tubo a raggi X -> fascio radiogeno -> soggetto -> lastra radiografica

I raggi X sono assorbiti in diversa misura dalle varie parti dell’organismo a seconda della loro densità e composizione. Tessuti densi o spessi oppure contenenti elementi a alto numero atomico permettono il passaggio di pochi RX e ciò determina un minore annerimento della lastra. Tessuti lassi, sottili o contenenti elementi a basso numero atomico produrranno l’effetto opposto.

Pro Contro Non invasività Le dosi di RX impiegate in diagnostica

provocano effetti stocastici in seguito all’esposizione

Facilità di utilizzo Non si hanno informazioni sulla struttura anatomica

Economicità Proiezione 2D di un oggetto 3D Assenza di radiazioni residue nel paziente Minima possibilità di danno cellulare Possibilità di visualizzare l’apparato scheletrico Possibilità di determinare la presenza di oggetti metallici

Maggiore è la dose, maggiore sarà anche la probabilità di comparsa di un tumore. Non esiste in ogni caso una dose di RX sotto la quale la probabilità è nulla. La dose inoltre non è correlata alla gravità dell’effetto.

La tomografia computerizzata è una tecnica che utilizza radiazioni ionizzanti (raggi X) e consente di riprodurre sezioni corporee del paziente ed effettuare elaborazioni 3D. Il fascio di RX viene traslato e ruotato attorno al paziente in modo da acquisire molte proiezioni da diversi angoli. Le letture vengono eseguite con una rotazione continua. Il rilevatore rimane comunque sempre in asse con la sorgente di RX.

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Richiede RX di minore intensità rispetto alle radiografie (per la singola lettura), consente una valutazione diagnostica di tutti i distretti corporei, è di ausilio a procedure interventistiche e può essere eseguita anche in presenza di pacemaker o defibrillatori. Tuttavia la dose totale assorbita durante una TC è molto maggiore di quella assorbita con una radiografia, infatti, il rischio della comparsa di un tumore è 400 volte maggiore.

La TC inoltre ha il vantaggio di avere potere discriminante nei confronti degli organi interni, caratteristica che mancava alle radiografie.

La scintigrafia è una tecnica che si basa sull’emissione di radiazioni ionizzanti. Al paziente viene somministrato, solitamente per via endovenosa, un radiofarmaco contenente un isotopo radioattivo (Tecnezio). La gamma camera di uno scintigrafo permette poi di evidenziare un accumulo preferenziale di questo isotopo nel tessuto di interesse. Sono immagini 2D.

La tomografia ad emissione di positroni (PET) sfrutta i positroni emessi in seguito al decadimento di alcuni radioisotopi legati a farmaci. Fornisce sia informazioni anatomiche sia funzionali (si esamina la distribuzione e lo smaltimento del farmaco). SI ottengono immagini tridimensionale.

La tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT) fornisce informazioni funzionali su un organo o su un intero organismo. Tuttavia presenta un grosso svantaggio rispetto alla PET: ha una risoluzione peggiore.

La risonanza magnetica nucleare (MRI) permette l’ottenimento di immagini di sezioni di un paziente a seguito dell’interazione delle onde elettromagnetiche con i tessuti. Infatti, alcuni nuclei di elementi del corpo umano si comportano diversamente a seguito dell’applicazione di un intenso campo magnetico esterno. MRI fornisce informazioni sia di tipo anatomico sia di tipo funzionale. Ciascuna sezione è costituita da voxel (elemento di volume).

Il voxel è un insieme di cellule costituite per la maggior parte da molecole d’acqua. In presenza di un intenso campo magnetico esterno gli spin di queste molecole si allineano in una sola direzione (parallela o antiparallela al campo).

MRI consente la discriminazione tra diverse tipologie di tessuti, non utilizza radiazioni ionizzanti, ha una bassa risoluzione spaziale e necessita di tempi di scansione molto più lunghi. Inoltre non può essere utilizzata su soggetti dotati di pacemaker o defibrillatori poiché questi dispositivi, avendo comportamento ferromagnetico, verrebbero espiantati.

L’ecografia è una tecnica basata sugli echi prodotti da un fascio di ultrasuoni che attraversa un organo o un tessuto. I tessuti, infatti, hanno una diversa impedenza e rispondono in modo diverso agli ultrasuoni. La sonda funziona sia da emettitore sia da antenna. È innocua, poco costosa e con elevata sensibilità sui tessuti molli. Può essere realizzata sia in 2D sia in 3D.

Spesso vengono integrate più tecniche per sfruttare le peculiarità di ognuna: TC viene usata per la risoluzione spaziale, MRI per il contrasto con i tessuti molli e la PET per l’attività metabolica.