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In Dizionario dei temi letterari, a cura di R. Ceserani, M. Domenichelli, P. Fasano, Utet.
Voce: Esilio
1. Il termine (it. 'esilio', fr. 'exil', ingl. 'exile', ted. 'exil', sp. 'exilio') deriva dal latino 'exilium'
('ex+solum' 'fuori dal territorio' secondo l'etimologia di Isidoro di Siviglia) e indica
l'allontanamento dalla patria. Più esplicito in questo senso il termine dell'antico greco 'exoriso'
che letteralmente significa 'mandare fuori dai confini', alternato a 'ekdemos', che insiste di più sul
significato sociale e civile dell'esclusione dalla comunità umana. In spagnolo un sinonimo è
'destierro', 'desterrar', 'allontanare dal territorio'. Nell'uso del termine al significato etimologico di
'allontamento dalla patria' si è affiancata l'accezione negativa di sradicamento, isolamento,
privazione e quindi anche, per estensione, fuga, abbandono, solitudine; in inglese 'exile' significa
anche devastazione e distruzione. Nella tradizione letteraria il termine viene usato anche come
metafora di sofferenza, esclusione e diversità; l'esiliato è l'isolato, il solitario, colui che per motivi
diversi vive in una condizione di ripiegamento interiore e di estraneità nei confronti della società.
Nei testi sacri esilio indica anche la vita terrena, percepita come incompleta e inautentica rispetto
a quella vera, ultraterrena. Tema polisemico, legato agli eventi politici e sociali della storia
dell'uomo e allo stesso tempo ricco di potenzialità metaforiche, allegoriche e simboliche, il
motivo dell'esilio subisce i condizionamenti dovuti all'urgenza dell'esperienza autobiografica
all'origine di molti testi memorialistici o strettamente legati alla situazione storica, ma si
costituisce anche come tema letterario autonomo, svincolato dalle circostanze esteriori. E'
opportuno inoltre distinguere tra una letteratura d'esilio (Exilliteratur in tedesco), che indica le
opere, che possono riguardare o meno il tema dell'esilio, scritte da un gruppo di esuli in un
determinato periodo storico (ad esempio gli émigrés francesi del periodo rivoluzionario o i
tedeschi che sfuggirono al nazismo) e una letteratura sull'esilio, reale o metaforico, che può
implicare o meno un contesto autobiografico. Controverso è il rapporto tra letteratura
d'emigrazione, un fenomeno che riguarda gli spostamenti, per motivi socio-economici, di gruppi
di popolazione, e letteratura d'esilio, legata a esperienze individuali di scrittori appartenenti già a
un determinato contesto culturale. Se in alcuni periodi storici possono esserci stati dei punti di
contatto, in genere il tema dell'esilio ha un suo sviluppo autonomo, caratterizzato da una forte
metaforizzazione e dalle escursioni semantiche cui si è accennato.
2. L'Antico Testamento è all'origine di una tradizione negativa dell'esilio che si configura come
un segno del disfavore e della collera divina per i peccati commessi dagli uomini; le partenze, i
ritorni, le deportazioni di cui l'antica storia ebraica è ricca, sono la manifestazione della volontà
di Dio, che a partire dalla cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre punisce con l'esilio gli
uomini per i peccati commessi; solo il riconoscimento, da parte dei singoli, delle proprie
responsabilità e la purificazione dai peccati, guidata da Dio, possono porre fine alla condanna e
restituire il popolo alla sua terra. Nell'esilio è quindi implicito, e in questa direzione insisteranno i
padri della Chiesa, il significato di una prova particolarmente dura che la comunità deve scontare
per essere riammessa nelle grazie del Signore. Nel libro dell'Esodo il ritorno in patria dall'Egitto è
infatti il segnale di un rinnovato accordo tra la divinità e il popolo degli ebrei, guidati da Mosè in
un itinerario che è assieme riconquista della sovranità territoriale e riconciliazione con Dio. Il
periodo della cattività babilonese si configura invece come una ritorsione punitiva del Signore,
adirato per il comportamento peccaminoso del popolo eletto. Nell'Antico testamento sono già
presenti alcuni dei topoi narrativi più ricorrenti legati all'esilio, che influenzeranno la tradizione
letteraria successiva: tristezza e malinconia, rimpianto e desiderio di vendetta sono espressi nei
salmi (si vedano in particolare il 41 e il 137); il libro di Ezechiele, uno dei più narrativi della
Bibbia, contiene l'immagine, divenuta poi canonica, del deportato che parte per l'esilio in modo
avventuroso, di notte, al buio, solo e con pochi bagagli; la gioia per l'intervento liberatore di Dio
che conclude il periodo di deportazione viene espressa in più momenti, soprattutto nei salmi e nel
libro di Isaia.
3. La possibilità di un riscatto dell'esule e quindi di una configurazione in chiave eroica
dell'esilio, esperienza non solo punitiva, ma proficua per l'individuo è presente, anche se in forme
diverse, fin dall'antichità greca. Se alcuni accenni autobiografici sono contenuti nei versi
licenziosi e sarcastici di Ipponatte, vissuto nel VI secolo a.C., cacciato da Efeso per aver
combattuto i tiranni, sono soprattutto Tucidide e Senofonte (nonostante i dubbi sollevati
recentemente da Luciano Canfora sulla attribuzione a Tucidide del passo della Storia del
Peloponneso che parla di un esilio ventennale, che sarebbe opera invece di Senofonte) condannati
per motivi politici, ad impersonificare, in una direzione ricca di sviluppi successivi, il ritratto
eroico dell'esule che mantiene, nonostante le avversità, tutta la sua dignità e la sua statura
intellettuale.
Una netta valenza etica e morale dell'esilio è presente anche nelle tragedie di Sofocle; l'esclusione
coatta dalla comunità degli uomini è certamente una durissima condanna che colpisce l'uomo che
ha trasgredito al massimo grado le regole della convivenza civile, ma può anche trasformarsi, con
un movimento catartico, in un'esperienza di purificazione, in grado di riqualificare l'individuo,
facendogli acquisire, nella solitudine e nell'isolamento, un'identità superiore di saggezza e di
giustizia.
InEdipo re, Edipo minaccia l'esilio all'uccisore del re Laio e quindi, inconsapevolmente, a se
stesso, autoescludendosi in questo modo, alla fine del dramma, dalla comunità degli uomini.
Nella continuazione, l'Edipo a Colono, l'esilio diventa però non un segno di condanna, ma un
modo per valorizzare l'escluso, che proprio in quanto esule e quindi estraneo alle lotte, si riveste
di una sapienza pura e assoluta. L'esule viene come purificato e può diventare quindi il garante
super partes di una giustizia superiore. Anche nella tragedia Filottete, sempre di Sofocle,
l'isolamento forzato cui è costretto Filottete, malato e abbandonato dai compagni in un'isola
deserta, prelude all'acquisizione di una funzione eroica del protagonista, a un potenziamento
sacrale delle sue qualità; secondo la profezia degli indovini solo l'intervento armato del reietto,
riammesso a questo punto anche contro la sua volontà nella comunità degli uomini, potrà
permettere la vittoria dell'esercito acheo su Troia.
4. Se il filone biblico suggerisce una valenza sacra dell'esilio e introduce alcuni importanti topoi
narrativi e la cultura greca propone un modello positivo e eroico di esule politico e suggerisce il
motivo, anch'esso di grande fortuna, di una valenza purificatrice insita nell'esperienza
dell'estraneamento, è soprattutto nell'ambito della civiltà latina che si costituiscono dei modelli
letterari e filosofici paradigmatici, sui quali si fonda gran parte della fortuna successiva del tema:
l'esilio epico avventuroso, strettamente legato al tema del viaggio, raccontato nell'Eneide di
Virgilio; l'esilio visto non, in negativo, come allontanamento dalla comunità degli uomini ma
come esperienza positiva di recupero di una propria dignità intellettuale e incentivo alla
riflessione filosofico-morale (Cicerone, Seneca); l'esilio come sofferenza interiore, all'origine di
una poesia intimistica e consolatoria (Ovidio).
Nell'Eneide di Virgilio la parola 'exilium' ritorna soprattutto tra la fine del secondo libro e l'inizio
del terzo, quando Enea profugo a Cartagine presso la regina Didone, racconta le sue avventure,
dalla fuga da Troia in fiamme all'arrivo sulla costa dell'Africa: Enea sta per abbandonare Troia e
la moglie Creusa, appena morta, gli profetizza «lunghi esili»; più avanti si allude a «esili diversi».
Alla peregrinazione di Enea si intreccia quella di Didone, che ha dovuto abbandonare la patria,
minacciata dalle trame di potere: l'esilio della regina fenicia, non indirizzato dagli dei a una
funzione solenne come quella di Enea, fondatore di Roma, si risolve nella tragedia del suicidio,
mentre Enea, guidato dal volere divino, prosegue nella sua missione eroica. L'esilio è dunque un
tema legato all'epos classico (l'avventura, il viaggio, la ricerca, secondo un'antichissima
tradizione letteraria di cui troviamo traccia fin dal romanzo egiziano del II millennio a.C.Le
avventure di Sinuhe), ma ha anche un significato sacrale, in quanto costituisce una prova
necessaria all'acquisizione di un'identità eroica del protagonista, che dalla distruzione di Troia,
attraverso le varie tappe del viaggio, persegue il suo scopo di creare una nuova civiltà, la cui
identità storico-culturale veniva solennemente celebrata nel poema.
Esule illustre, più volte condannato ad allontanarsi da Roma, Cicerone considerava l'esilio come
un'occasione di riscossa per l'intellettuale sottomesso a restrizioni e censure politiche, che poteva,
nell'isolamento, liberare lo spirito e dedicarsi alla riflessione filosofico-morale. Nelle
Conversazioni tuscolane scritte nel 45 a.C. sotto la dittatura di Cesare, questa valutazione
positiva dell'esilio è affermata sulla base di una riflessione filosofica di impronta stoica e
epicurea: da un lato il saggio stoico è indifferente alle condizioni materiali di vita e mantiene il
suo equilibrio interiore indipendentemente dalle circostanze esteriori; dall'altro la felicità
esistenziale e spirituale si trova ovunque, anche lontano dalla patria e dipende esclusivamente
dall'individuo. Seneca riprende il modello di Cicerone, che sarà poi teorizzato anche da Plutarco,
nel De exilio, dell'esilio come occasione di fortificazione e crescita spirituale: nella Consolazione
alla madre Elvia, scritta per confortare la madre affranta per la condanna del figlio al confino in
Corsica nel 41 d.C., Seneca afferma che l'esilio riguarda il corpo, ma non lo spirito, che rimane
libero di pensare; il distacco dal mondo si tramuta quindi, secondo la filosofia stoica, in
un'opportunità positiva per l'individuo.
Con Ovidio il tema perde ogni connotazione epico-avventurosa e anche morale-intellettuale e
diventa, grazie anche alla lezione dei potae novi, un tema intimo; i Tristia e le Epistulae ex
Ponto costituiscono un modello letterario ripreso da vari poeti di tutti i tempi, fino al Novecento;
la tristezza del poeta esule assume un valore emblematico, trascende l'esperienza contingente e
diventa uno sguardo doloroso rivolto al mondo. La poesia ha quindi una funzione consolatoria
per il poeta affranto per la lontananza dalla patria, ma è anche, ed è stato uno dei motivi della
grande fortuna della poesia dell'esilio di Ovidio, apertura verso nuovi universali orizzonti
spirituali, occasione di meditazione e di scoperta dell'io e riflessione disincantata sulla morte,
sulla memoria e sull'infelicità.
5. In ambito romanzo, il tema sfugge a definizioni univoche, tra i condizionamenti dovuti,
soprattutto nella realtà comunale italiana, alla diffusione dell'istituzione dell'esilio politico e
l'elaborazione, nella poesia provenzale e toscana, della metafora letteraria dell'esilio come
condizione di sofferenza e infelicità.
Nelle chansons de geste prevale ancora però il tema dell'esilio-avventura; nel Cantare del mio
Cid, un poema epico castigliano scritto attorno alla metà del XII secolo, il motivo dell'esilio è
un'occasione per celebrare i valori cavallereschi: la virtù, il coraggio, l'audacia, la fedeltà alla
patria. Cacciato dalla corte del re Alfonso di Castiglia-Leon perché sospettato di aver sottratto dei
tributi che era stato incaricato di riscuotere, il Cid passa da una condizione di disfavore nei
confronti del re a una riscossa prestigiosa che conduce alla fine alla riabilitazione del protagonista
che rientra nelle grazie del sovrano. L'esilio è un'epopea ascensionale in cui lo scopo è
combattere il disfavore con il coraggio e l'azione in modo da trasformare l'esperienza negativa
della fuga in una celebrazione del patriottismo e del valore guerriero.
In Italia l'esilio politico diventa motivo letterario con modalità differenti: se gli accenni all'esilio
di Brunetto Latini nel Tesoretto e nella Rettorica si riducono a rapidi cenni autobiografici a
scopo informativo, Dante, nella Commedia, conferisce all'esilio una funzione sacrale,
coniugando la tradizione di origine biblica e classicista con la propria vicenda reale di esule
politico; il viaggiatore-personaggio, exul inmeritus, compie, nell'itinerario verso Dio, un percorso
di purificazione che carica l'evento reale di una fortissima valenza allegorica. Preannunciato con
enfasi crescente da diversi personaggi (Ciacco, Farinata degli Uberti, Brunetto Latini), l'esilio di
Dante si configura infatti, nell'episodio rivelatore di Cacciaguida (Par. XVII) come un'investitura
morale dell'autore, garante di una giustizia superiore, avvalorata dal sacrificio della propria
vicenda terrena; l'allontanamento di Dante dalla corruzione di Firenze assume quindi un rilievo
sacrale, che viene sottolineato anche dall'uso, soprattutto nell'incontro con Brunetto e in quello
con Cacciaguida, di espressioni attinte al linguaggio biblico. Il tema viene così mitizzato; sul
significato reale, in primo piano soprattutto nei canti politici dell'Inferno, prevale, in particolare
nel Paradiso, quello simbolico.
Esule fu anche Guido Cavalcanti, anche se la lontananza dalla patria evocata nel gruppo di
poesie che hanno come parola chiave «disaventura» più che a una dimensione biografica
corrisponde (come ha ribadito, sulla scorta di una tradizione critica già notevole, Gianfranco
Contini) a un topos letterario (la condizione di lontananza dall'amata, il timore di morire senza
rivedere la patria), che appartiene, come ha sostenuto anche Corrado Calenda, «a un sottogenere
lirico legato alla provenzale canzone di eloignement», o dell'amor de lohn; siamo di fronte quindi
a un caso in cui il contesto biografico (l'effettivo esilio di Cavalcanti da Firenze per motivi
politici) ha indotto a un'errata interpretazione dei versi dell'autore, in particolare la celebre ballata
Perch'io non spero di tornar giammai, esempio di tematizzazione letteraria del motivo dell'esilio,
estranea però a qualsiasi coinvolgimento autobiografico.
Anche nel Canzoniere di Petrarca la sofferenza dovuta all'assenza e alla lontananza dall'amata è
paragonata a un esilio, più volte definito «duro», «misero»; la metaforizzazione del tema,
emblema dell'infelicità amorosa, assume caratteristiche quasi canoniche per la poesia successiva,
che si ritrovano anche nei versi di molti poeti petrarchisti dell'epoca rinascimentale, come
Philippe Desportes e Agrippe D'Aubigné.
Un esilio dissacrato è invece quello cantato da François Villon, che alterna nelle sue poesie
riferimenti autobiografici sull'infelice condizione di esiliato (si veda ad esempio la Lettera agli
amici(1461), nella quale l'autore si lamenta per la condanna subita e per le tristi condizioni di vita
e chiede agli amici di intercedere per ottenere il permesso di tornare a Parigi) a parodie del topos
letterario dell'esilio come metafora dell'assenza amorosa, come nel Lais del 1456, in cui il poeta
finge di essere stato respinto da una donna crudele e decide quindi di esiliarsi.
6. In epoca umanistico-rinascimentale i due filoni dell'esilio reale, legato a circostanze
autobiografiche e politiche e dell'esilio metaforico, tematizzato in chiave letteraria, come
emblema di tristezza amorosa o come insofferenza nei confronti della società e recupero di una
dimensione di innocenza e solitudine, sono entrambi molto vitali. Per il primo caso i testi sono
numerossimi, legati alle guerre politiche in Italia (cfr. le Lettere di Bartolomeo Cavalcanti, i
Medices legatus. De exilio libri II di Pietro Alcionio), o alle guerre religiose in Francia, delle
quali fu vittima Clement Marot, autore di una raccolta di versi, Il trionfo dell'agnello di
ispirazione biblica.
Tuttavia nella società europea dell'antico regime, delle guerre di religione e dell'offensiva
controriformista, il tema letterario dell'esilio costituisce soprattutto un modo per esprimere il
disagio nei confronti di un mondo dominato da rigide e inautentiche regole di comportamento.
A Ovidio si ispira Joachim Du Bellay nei suoi Rimpianti (1553) composti in occasione di un
soggiorno a Roma, dove il poeta si era recato al seguito del cugino incaricato di una missione
presso il papa. Riprendendo il tono elegiaco dei Tristia, Du Bellay rimpiange la patria lontana e
disprezza il mondo romano, la corruzione e la malvagità che dominano l'ambiente ecclesiastico;
nonostante le circostanze esteriori (la lontananza dalla patria, il sentimento di estraneità al mondo
romano) quello di Du Bellay è un esilio interiore, che deriva dalla disparità tra i sentimenti
dell'autore e il mondo circostante.
Il tema dell'esilio come purificazione, distacco da un mondo politico e sociale corrotto è al centro
anche di un dramma di Shakespeare, Come vi pare (1599) in cui la costrizione a vivere in
campagna, lontano dalla città conduce i protagonisti alla riscoperta di un mondo di purezza e
libertà che si oppone alla rete di convenzioni e di costrizioni imposte, in città, dalla vita di
società. E' una sorta, come scrive Mario Praz, di risposta alla «civil conversazione» della civiltà
cortese e implica la riscoperta di rapporti veri e autentici, possibili solo in una condizione di
isolamento e di deviazione dalla norma. Nell Tempesta (1623) la situazione dell'esilio è connessa
a un rito di espiazione e di purificazione; nell'isola dove si svolge l'azione, un luogo emblematico
per la letteratura d'esilio, è la malvagità, domata inizialmente dai prodigi, ad essere allontanata e i
protagonisti possono ritornare alla vita sociale solo dopo aver toccato l'abisso della disperazione e
della aberrazione umana.
7. Nel Settecento elemento rilevante per il tema è lo sviluppo della memorialistica (politica, di
costume, letteraria, artistica) e della scrittura di sé. L'esilio si configura, nella Vita di Pietro
Giannone, come una prova traumatica e distruttiva, ingiustamente subita dall'autore che intende
dimostrare la propria innocenza e denunciare la congiura orchestrata contro di lui da parte delle
autorità ecclesiastiche e politiche. Nella Vita di Alfieri, la «spiemontizzazione» è invece una
scelta volontaria, indotta dal desiderio di ricercare una patria ideale che lo scrittore riconosce
nella Toscana, culla di civiltà linguistico-letteraria.
Tuttavia, al di là delle singole esperienze, un secolo come il Settecento, percorso da fervori
utopistici, da istanze di rinnovamento e da furori polemici, non poteva non elaborare un mito
positivo dell'esilio del quale il massimo rappresentante fu Jean-Jacques Rousseau. Se in fondo
anche il Candide dell'omonimo romanzo di Voltaire è un esule viandante, uno sradicato alla
ricerca del «miglior mondo possibile», è soprattutto negli scritti privati di Rousseau (Confessioni,
Fantasticherie del passeggiatore solitario, Epistolario) che l'allontanamento dalla società,
imposto o deliberatamente scelto, si configura nei termini di un'esperienza proficua per
l'individuo, che nella solitudine può riacquistare la propria libertà interiore, in funzione di una
vita più autentica, lontana dalle falsità di una società considerata impositiva nei confronti
dell'uomo. Nell'isola di Saint-Pierre, all'interno del lago di Bienne, dove si rifugia nel 1765, lo
scrittore scopre l'estasi della solitudine e enfatizza la sua condizione di sradicato, che ritrova
all'interno della propria anima le risorse necessarie a uno stato di quiete e felicità.
L'intensa prospettiva rousseauiana di un isolamento positivo, risolto in chiave di arricchimento e
crescita personale, sarà rivalutata, anche se in circostanze diverse, in piena modernità, tra Otto e
Novecento; alla fine del Settecento invece il tema dell'esilio, prima di diventare, con gli eventi
rivoluzionari, un tema centrale della memorialistica politica ottocentesca, conosce ancora una
nuova veste: il desiderio di evasione e di fuga dalla società possono anche coincidere con una
ricerca che, in anni di crisi dei lumi e di perdita di riferimenti culturali, non conduce a
un'intensificazione della conoscenza interiore, ma a un appagamento disincantato dell'individuo
nella bellezza e nell'arte, in una dimensione fantastica e irreale. Nel romanzo Ardinghello e le
isole felici (1787) Wilhelm Heinse racconta la storia di Prospero Frescobaldi, esiliato a Venezia
per le lotte politiche fiorentine nel tardo '500, sotto il finto nome di Ardinghello; dopo varie
peripezie che lo portano a Roma, dove si innamora dell'umanista pagana Fiordimona e in un
eremo isolato, il protagonista approda finalmente, in compagnia della sua amante, alle Isole
beate, ricche di bellezze naturali, dove vive appagato, nel culto della bellezza e dell'edonismo.
L'esilio reale, dovuto alla situazione politica prelude quindi a un esilio in un mondo fantastico,
proiezione semplificata e risolta in chiave artistico-estetica delle mitiche «età dell'oro» che
percorrono tutto il secolo.
8. In epoca rivoluzionaria si sviluppa, soprattutto ad opera dei francesi costretti a lasciare il loro
paese, una ricca letteratura legata all'esilio politico che comprende opere narrative e scritture
memorialistico-autobiografiche, come i Dieci anni d'esilio (1818) di Madame de Staël, o le
Memorie da Sant'Elena di Napoleone.
Nel romanzo di Gabriel Senac de Meilhan, L'emigrato (1797), prevale invece, sull'aspetto
documentario tipico dei documenti autobiografici, l'elemento avventuroso; eroismo e sacrificio si
mescolano in un libro in cui l'amore è il tema dominante, strettamente legato al motivo della
gloria e l'esilio serve a dare un maggior impulso romanzesco all'intreccio. Il protagonista, un
esule francese, diventa ufficiale dell'esercito prussiano; catturato dai suoi compatrioti, si uccide
davanti al tribunale rivoluzionario, seguito dall'amata che impazzisce di dolore e muore.
In Italia si sviluppa una letteratura d'esilio negli anni delle Repubbliche giacobine (1797-1799) e
soprattutto alla fine del triennio. Il libro più famoso legato a questa esperienza, scritto dopo la
pace di Campoformio con la quale Napoleone restituiva Venezia agli Austriaci costringendo i
patrioti veneti alla fuga, sonoLe ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, romanzo
epistolare fondante per il tema dell'esilio nel Risorgimento italiano. Per Foscolo l'esilio
metaforico, vissuto come proiezione letteraria, emblema di una condizione di disagio esistenziale
e di una dimensione continua di ricerca artistica e intellettuale, si sovrappone e si interseca con
l'esilio reale, con le fughe e gli spostamenti continui dell'autore tra i vari stati italiani e europei.
Nelle lettere, nel romanzo, nei sonetti (in particolare In morte del fratello Giovanni, dove
l'impossibilità del ritorno in patria svela l'identità non contingente ma assoluta della lontananza)
l'esilio diventa il simbolo di una ricerca artistico-esistenziale in perenne evoluzione, che si
alimenta della sua stessa essenza, mentre ogni possibile realizzazione rimane sempre illusoria.
L'esilio romantico, che si sviluppa nella prima metà dell'Ottocento, riflette proprio questa
strettissima, irrinunciabile relazione tra la vita e l'opera d'arte; artisti e scrittori ricercano una
patria ideale e vivono la condizione di sradicamento come uno stato di elezione; la scrittura è essa
stessa ricerca e proiezione verso un mondo ideale, e allo stesso tempo un atto di consapevolezza
dell'illusorietà di questa ricerca assoluta. Per Wordsworth, Byron e Shelley la scelta di esiliarsi
in Francia, Italia o Grecia, ha uno scopo liberatorio, rientra in quel processo di ricerca di una
dimensione incontaminata ideale, anche se il viaggio conduce in realtà anche all'acquisizione
della consapevolezza dell'illusione. Attraverso le loro opere (cfr. Ode a Venezia, La profezia di
Dante di Byron) e soprattutto la loro esperienza biografica essi contribuirono a una mitizzazione
dell'esilio che troverà riscontro in tanti scritti ottocenteschi.
Un indissolubile intreccio tra biografia e dimensione letteraria è contenuto anche nelle Memorie
d'oltretomba (1848-50) di Chateaubriand, che coniugano il mito dell'esilio romantico con il
motivo dell'esilio politico. L'autore enfatizza l'esperienza vissuta e la ripercorre in chiave
letteraria, caricandola di un valore emblematico. All'inizio, ad esempio, egli definisce il suo
trasferimento, da neonato, dalla casa dei genitori alla casa più salubre della nonna, come il suo
«primo esilio»; l'autore intende quindi presentare, fin dall'inizio, la sua vita come quella di un
predestinato in cui sradicamento, inquietudine, ricerca continua sono non solo condizione
esteriore, determinata dalle circostanze storiche, ma anche tensione interiore, segno di una
eccezionale personalità artistica e intellettuale. Nei capitoli dedicati agli anni del soggiorno
inglese (1793-1800), caratterizzato, soprattutto nel primo periodo, da povertà e privazioni, non
mancano descrizioni realistiche e a tratti cronachistiche della vicenda. Tuttavia l'esilio viene
decisamente enfatizzato in senso letterario; Chateubriand insiste sul nesso esilio-scrittura, sul
legame tra la lontananza forzata dalla patria e l'insorgere della volontà di scrivere, di dedicarsi
alla letteratura come spazio di ricerca personale e serbatoio di ricchezza interiore.
In pieno Risorgimento italiano l'esilio oltre a essere un momento centrale dei racconti
autobiografici di numerosi intellettuali impegnati nelle lotte per l'unità (si vedano le Memorie
autografe di un ribelle di Giuseppe Ricciardi, le Reminiscenze dall'esilio di Carlo Beolchi, il
Diario intimo di Tommaseo, le Note autobiografiche di Mazzini) è al centro di alcune opere
narrative.
Giovanni Berchet, in I profughi di Parga esalta la capacità di resistenza di ogni popolo, che
afferma la propria dignità anche nell'esilio. Giovita Scalvini, in Il fuoriuscito (1825) lamenta
l'infelice condizione dell'esule, privato dei più elementari diritti umani e civili. Nel poemaL'esule
Pietro Giannone rappresenta la figura romantica dell'eroe che vendica i soprusi e le ingiustizie in
nome di un ideale nazionale che domina tutto il libro, in un'atmosfera di esaltazione dei valori
patriottici. Stessa atmosfera di redenzione e di purificazione, risolta però prevalentemente in
chiave letteraria, troviamo nel romanzo di Tommaseo, Fede e Bellezza, il cui protagonista
Giovanni è spinto alla fuga dall'Italia più da motivazioni esistenziali che politiche e trova
nell'isolamento e nella lontanza un ambiguo acquietamento delle proprie turbolente passioni.
Nell'esilio londinese che quasi conclude il lungo intreccio delle Confessioni di un italiano di
Ippolito Nievo, è invece la figura di Pisana, che qui muore martire immolata sull'altare di un
effimero e sfuggente ordine finale, a risultare purificata dalla prova durissima della lontananza
dalla patria; tutta la vicenda di Carlino e Pisana, iscritta all'interno di una storia agitata da
passioni contrastanti, trova un sua più nitida e chiara configurazione proprio attraverso il filtro di
una lontananza che libera gli individui dalle colpe e li riconsegna a loro stessi e al loro destino.
I lunghi anni d'esilio politico (dal 1852 al 1870) lasciarono un segno indelebile anche in Victor
Hugo, che riflette, nei suoi scritti, una dissociazione tra l'esilio reale e l'esilio come tema
letterario; in relazione a una situazione reale, il soggiorno nell'isola di Jersey, che, come risulta da
alcune testimonianze, appare tutto sommato soddisfacente, quasi idillica, nella scrittura epistolare
e soprattutto nei versi delleContemplazioni (1830-1855), l'esilio viene invece evocato, attraverso
il filtro del discorso letterario, come un'esperienza distruttiva, traumatizzante, avvilente, secondo
la tradizione ovidiana, ripresa da Du Bellay e da altri.
Il tema dell'esilio divenne comunque talmente comune nella società del tempo che, mentre il
pittore Delacroix dipingeva Ovidio al bando sul Mar Nero, Balzac raffigurava anche il tipo
dell'emigrato nella sua Commedia umana, che aspirava ad essere un affresco della società
contemporanea nel suo complesso; nel racconto I proscritti (1831), l'autore finge che Dante, nel
1308, si sia recato anche a Parigi nel corso delle sue peregrinazioni; la dolorosa vicenda dell'esule
fiorentino rinvia in realtà alla situazione contemporanea e diventa l'emblema del difficile rapporto
tra intellettuale e società e tra intellettuale e potere politico.
Va infine ricordata una ripresa ottocentesca del tema elegiaco ovidiano da parte del drammaturgo
austriaco Franz Grillparzer, che scrisse i Tristia ex Ponto (1826-33), caratterizzati da una forte
tendenza al compianto e all'infelicità. Toni elegiaci e autobiografici hanno anche i versi di
Púskin Prigioniero del Caucaso (1820-1), scritti durante l'esilio in Russia meridionale, cui il
poeta fu condannato dal 1820 al 1824 per aver composto dei versi politici; tema principale della
raccolta è il desiderio di fuga da ogni legame e dalle metaforiche prigioni della patria.
9. Nella cultura decadente otto-novecentesca, l'esilio diventa l'emblema di una condizione
esistenziale di isolamento e autoemarginazione dalla società, vista come realtà inautentica dalla
quale fuggire alla ricerca di esperienze più intense sul piano artistico e intellettuale. Baudelaire
riconduce l'esilio a una condizione esistenziale, non contingente; chiunque si sottrae alle
costrizioni della società contemporanea è in fondo un esule, rappresentato dall'immagine
emblematica e struggente del cigno (Le cygne, 1857), al quale è negata la possibilità del volo e
che può solo sbattere tristemente le ali nella polvere.
Nella raccoltaGli esuli (1867) Théodore de Banville riprende invece l'ideale romantico
dell'isolamento assoluto dell'artista, per il quale la solitudine e l'incomprensione della comunità
degli uomini sono il segno di un forte sentire, prerogativa solo delle anime elette che trovano
esclusivamente nella bellezza della natura e nello spettacolo dell'arte una dimensione ideale e
consolatoria. Corbière in Il poeta assente (1873) si paragona a un eremita, che si autoesilia
dall'opaca e chiusa comunità degli uomini, invitando la donna amata a raggiungerlo nel suo
volontario isolamento. Autoesule per ritrovare una dignità umana e un'identità eroica sempre più
irraggiungibili, è anche Jim, protagonista del romanzo di Conrad, Lord Jim (1900), perso in
tortuose investigazioni del proprio io che solo in un artificioso microcosmo può trovare un
effimero equilibrio, pronto a infrangersi di fronte all'evidenza della realtà. In Nostromo (1904),
dello stesso autore, sullo sfondo delle lotte politiche europee e del Sud-America, si incrociano e si
sovrappongono i destini di individui ai quali è negata per vari motivi (politici, personali, ideali) la
possibilità di uno scambio proficuo con la collettività. In Sotto gli occhi dell'Occidente (1911) è
la comunità di esuli russi in Svizzera al centro del racconto; l'oppressione e l'inautenticità
prevalgono nei rapporti tra le persone e l'esilio è solo una fuga illusoria che non restituisce agli
individui la loro libertà morale.
Isolamento e autoemarginazione possono però anche risolversi in una dimensione di ricerca
intellettuale che trae dalla condizione dell'esilio una nuova linfa vitale. Nel dramma Esuli (1910),
Joyce distingue tra l'esilio economico, dovuto alla necessità di guadagnare, e l'esilio spirituale,
concepito come una ricerca e un arricchimento intellettuale non solo per il singolo, ma anche per
la stessa vita culturale delle nazioni. La storia di Riccardo, fuggito dall'Irlanda per sottrarsi a
censure sulla sua vita privata e poi tornato e reintegrato in un ruolo di prestigio nella vita pubblica
di Dublino, indica proprio questa necessità di cercare al di fuori dei confini nazionali la linfa per
il nutrimento spirituale dell'uomo moderno. In modo ancora più esplicito il romanzo Ritratto
dell'artista giovane (1916), sempre di Joyce, riconosce nella scelta dell'autoesilio un passaggio
necessario alla costruzione di un'identità estetica e filosofica dell'intellettuale moderno. E anche
Nietzsche attribuiva all'esilio, all'isolamento, la facoltà di purificare e arricchire l'individuo: «Ho
scelto l'esilio per poter dire la verità».
Sulla stessa linea si situa anche l'opera di due autori provenienti dagli Stati Uniti, un paese in cui
l'esilio reale è sconosciuto, Ezra Pound e Thomas Eliot, per i quali la lontananza voluta dalla
patria naturale si configura come una ricerca artistica che deve avvenire sulla base di un
confronto con orizzonti più aperti, lontano dal provincialismo della cultura americana. I
contemporanei definirono i due autori con disprezzo degli «espatriati» e rimproverarono loro di
non aver voluto rivalutare l'eredità della cultura americana. Pound in Patria mia teorizza la
necessità artistica di sentirsi un esiliato; nella poesia In prigione egli descrive la sua insofferenza
nei confronti delle costrizioni formali e territoriali, al centro della sua opera più famosa, i Cantos.
Per Eliot, autore di La terra desolata (1922), lo sradicamento diventa una condizione esistenziale,
indipendente dall'identità anagrafica: pur avendo preso la cittadinanza inglese, egli riconosceva
infatti di sentirsi straniero ovunque.
10. Nel Novecento i sommovimenti politici hanno creato diverse ondate di esili e alimentato una
folta letteratura, in cui prevale la componente autobiografica: a partire dal 1917 cominciò la fuga
dei russi dalla rivoluzione; seguirono italiani, spagnoli e tedeschi che lasciarono i loro paesi in
seguito all'avvento di fascismo e nazismo; dopo la seconda guerra mondiale l'esodo interessa gli
stati del blocco comunista e negli anni '70 i paesi dell'America latina retti da dittature.
In Germania con Exilliteratur si indica la letteratura degli anni dell'emigrazione tedesca anti-
nazista, dal 1933 al 1945, contraddistinta da una rappresentazione drammatica dell'esilio, ridotto
a cruda e spietata cronaca, raffigurato in tutta la sua dilaniante verità e privato di ogni retorica
letteraria e di ogni possibile lettura in chiave eroica. Molte delle opere scritte in questo periodo
contengono situazioni autobiografiche. Esilio (1940) si intitola un romanzo di Lion
Feuchtwanger, che fa parte di una trilogia dedicata alla vita politica e sociale della Baviera negli
anni del nazismo, ricco di particolari che sottolineano le difficoltà della vita dell'esule, al quale è
negata qualsiasi possibilità di resistenza eroica. Di ispirazione autobiografica anche i romanzi di
Anna Seghers, caratterizzati da un'attitudine cronachistica; in Visto di transito (1943) viene
descritto lo smarrimento degli esuli che aspettano ansiosamente il visto per imbarcarsi a
Marsiglia per l'America. Anche Bertold Brecht dedicò i Dialoghi tra i profughi, (1940-1) alla
descrizione dello stato d'animo dei fuggiaschi. Klaus Mann, figlio di Thomas che in esilio
scrisse alcuni dei suoi capolavori, nel romanzo Vulcano (1939) descrive l'ambiente degradato
degli esuli affollato di spie, delinquenti, figure ambigue. Stesso tono nel romanzoI privi di diritto
di Walter Hasenclever, pubblicato postumo del 1963. Nel dopo-guerra Frank Thiess utilizzò il
termine di inneren Emigration ('emigrazione interna') per difendere l'operato degli scrittori
tedeschi che durante il terzo Reich non emigrarono all'estero, ma non si impegnarono con il
nazionalsocialismo e opposero una resistenza passiva all'ideologia nazista.
Per Saint-John Perse, esule politico negli Stati Uniti per aver preso posizione contro il governo
di Vichy nel 1941, autore della raccolta Esilio il tema dell'esilio va invece oltre il riferimento
storico immediato, si mescola al tema del vuoto dell'esistenza e finisce per coincidere con la nuda
adesione dell'uomo agli elementi cosmici e alla forza insondabile del mare.
Le lotte intestine che hanno interessato numerosi paesi con conseguenti ondate di migrazioni,
hanno fatto sì che negli ultimi decenni del secolo esule diventasse sinonimo, soprattutto in alcune
aree geografiche, di rifugiato politico; in Francia ad esempio, in seguito all'arrivo, dal 1970 in
poi, di numerosissimi sud-americani fuggiti dal loro paese per le dittature militari si è sviluppata
un'abbondante letteratura su conflitti politici, prigionia, sradicamento.
La realtà autobiografica è spesso però un punto di partenza per una considerazione globale
dell'esperienza dell'esilio che si libera dal dato contingente e si confronta, ancora una volta, con la
tradizione letteraria.
Vintila Horia, scrittore rumeno espatriato dopo il 1945 scrisse Dio è nato in esilio svolto come
un finto diario di Ovidio durante il confino nel Ponto, l'odierna Romania. La sofferenza causata
dall'esilio spinge Ovidio a interrogarsi sul senso dell'esistenza, a mettere in discussione valori e
certezze; ne risulta un'esaltazione dell'esperienza dello scavo interiore indotta dall'esilio, preludio
al riconoscimento di una forza spirituale religiosa legata al cristianesimo. L'esilio può essere
dunque un'occasione di ricerca spirituale, ma può trasformarsi anche in un'esperienza intellettuale
e morale estrema, all'origine di una letteratura intesa, alle soglie del nuovo millennio, come
assoluta esperienza conoscitiva. Rovesciando la concezione espressa in Minima moralia (1951)
dal filosofo tedesco Adorno, che vedeva nell'esilio una duplice condanna, in quanto privazione
della patria ma anche della parola e della possibilità di comunicare e quindi della memoria, lo
scrittore sovietico Josef Brodski, in un discorso del 1987La condizione dell'esilio, afferma che
per uno scrittore l'esilio è un evento linguistico, in quanto lo sradicamento conduce a una
condizione in cui tutto ciò che rimane all'uomo è se stesso e la propria lingua. L'esilio conferisce
quindi un'intensità assoluta alla parola, che assolve in modo più completo al compito, necessario
perché una letteratura si possa davvero definire tale, di «acceleratore della comprensione
dell'universo».
Altri testi
Lamartine, A. de, L'esilio della vita (L'exil de la vie, in Premières meditations, 1820)
Genlis, Madame de, Memorie (Mémoires), Parigi 1825
Balzac, H. de, Il colonnello Chabert, (Le colonel Chabert, 1830)
Mazzini, G., L'esule , in «Indicatore livornese», 1830
Pepe, G., Memorie del generale Guglielmo Pepe intorno alla sua vita e ai recenti casi d'Italia,
Lugano 1847
Daudet, A., Les rois en exil, 1879
Tolher, E., Eine jugend in Deutschland, 1933
Mann, K., Der Wendepunkt, 1944
Zweig, S., Die Welt von gestern, 1944
Seghers, A., Das siebte Krenz, 1946
Mendoza, P., Años de fuga, 1975
Mircea Eliade, Le promesse dell'equinozio. Memorie I; Le messi del solstizio. Memorie II
(Memorii (1907-1960) 1991), Milano 1995.
Bibliografica critica
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Seidel, M., Exile et the narrative imagination, New Haven London 1986.
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Heers, J., Bec, C.(a cura di),Exil et civilisation en Italie (XII-XVI siècles), Nancy 1990.
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Ulysse, G. (a cura di), L'exil et l'exclusion dans la culture italienne, Actes du colloque franco-
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Berthold, W. (a cura di), Exilliteratur und Exilforschung: ausgewahlte Aufsatze, Vortrage una
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Niderst, A. (a cura di), L'exil, Actes du colloque CERHIS, Paris 1996.
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Testi citati
Antico testamento
Ipponatte, Versi
Senofonte, Anabasi
Tucidide, La guerra del Peloponneso
Sofocle, Edipo re (430 a.C. ca), Edipo a Colono (prima rappresentazione postuma 401 a.C.),
Filottete (409 a.C.)
Virgilio, Eneide
Cicerone,Tusculanae Disputationes (45 a.C.)
Ovidio, Tristia, Epistulae ex Ponto
Seneca, Consolatio ad matrem Helviam
El cantar del mio Cid
Brunetto Latini, Rettorica, Tesoretto
Dante Alighieri, Commedia
Cavalcanti, G., Perch'io no spero di tornar giammai
Petrarca, F., Canzoniere
Desportes, Ph., Gli amori di Diana (Les amours de Diane )
D'Aubigné, A., La primavera, (Le printemps , L'Hécatombe à Diane.)
Villon, F., Lettera ai suoi amici, (Epitre à ses amis), Le Lais (1456)
Filelfo, F.,Commentationes de exilio
Cavalcanti, B., Lettere
Alcionio, P., Medices legatus. De exilio libri II (1522)
Marot, C., Il trionfo dell'agnello, (Le triomphe de l'Agneau., 1534)
Du Bellay, J., Rimpianti, (Les regrets , 1558-9)
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idem, La tempesta, (The tempest, 1623)
Voltaire, Candido (Candide,
Rousseau, J.J., Confessioni, (Confessions, 1765-70), Fantasticherie di un passeggiatore solitario
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Senac de Meilhan, G., L'emigrato, (L'Emigré, 1797)
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Young Man)
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Seghers, A.,Transit (1943)
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Hasenclever, W., I privi di diritto (Die Rechtlosen , 1963)
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Saint-John Perse, Esilio (Exil 1942), Milano 1985
Horia, V., Dio è nato in esilio (Dieu est né en exil),Torino 1979
Brodskij, I., La condizione che chiamiamo esilio (The condition we call Exile , 1987), Milano
1988
Dante Frascati La forza della poesia 7-11 maggio 2012
Esilio
All’inizio del Convivio, nel secondo capitolo del primo trattato, Dante si giustifica per il fatto di
affrontare questioni che lo coinvolgono in prima persona; parlare di sé è lecito solo quando
bisogna difendersi da «grande infamia o pericolo» come aveva fatto Boezio nel De consolatione
philosophiae «per escusare – scrive Dante - la perpetuale infamia del suo essilio».
Anche per Dante è l’esilio a giustificare la superbia di parlare di se stessi. E tuttavia
all’argomentazione filosofica così retoricamente controllata dei paragrafi in cui egli espone e
spiega la sua ritrosia a parlare di sé (Cv, I, II, 12-14), succede un impeto emotivo e Dante
continua, nel capitolo successivo (ivi, I III 3-5), in questi termini:
Ahi, piaciuto fosse al dispensatore dell'universo che la cagione della mia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d'essilio e di povertate.
Poi che fu piacere delli cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo della vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo core di riposare l'animo stancato e terminare lo tempo che m'è dato -, per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata.
Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito alli occhi a molti che forse che per alcuna fama in altra forma m'aveano imaginato: nel conspetto de' quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta come quella che fosse a fare1.
In questo brano scritto a ridosso degli eventi nei primi anni della partenza da Firenze, l’esilio è
esperienza tragica, perdita di riferimenti affettivi, rinuncia forzata e ingiusta alla condizione di
cittadino: Dante è il fiorentino sconfitto politicamente e posto al bando dalle istituzioni comunali.
1 Si cita dall'edizione del Convivio, a cura di F. BRAMBILLA AGENO, Firenze, Casa editrice Le Lettere, 1995 [Le opere di Dante Alighieri, Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana].
Pesano come un macigno gli eventi storici, la dinamica della lotta politica: le due condanne del
27 gennaio e del 10 marzo 1302, con le accuse di baratteria e illeciti guadagni, ma anche di
opposizione al papa e a Carlo di Valois e di turbamento della pace a Firenze. La prima sentenza si
risolve in una condanna pecuniaria, nel confino e nell’interdizione dai pubblici uffici; la seconda
sentenza – è noto - punisce Dante con la morte2.
Per comprendere le dimensioni di questo evento e il suo impatto sulla coscienza di Dante e dei
contemporanei, bisogna ricordare che nel diritto germanico, ripreso dalla legislazione comunale,
colui che è bandito dalla comunità è assimilato allo scomunicato e al dannato; è definito wargus,
lupo, perché condannato a vagare nei boschi ed è privato di ogni diritto3. Molto più che nel diritto
romano, la condizione dell’esule è assimilata a quella dell’escluso e del reietto4. La parola ha
tutto il peso della sua etimologia: essilio, ex-solum, fuori dal territorio, dal suolo natio, non solo
in termini geografici e territoriali, ma come esclusione radicale da una comunità; per Dante, chi
lo esclude è la comunità fiorentina, alla quale egli ha dedicato impegno intellettuale, morale e
politico. E più che il peso affettivo di una estraneità definitiva, è il rischio della condanna morale
e politica che pesa sullo scrittore.
In questi termini ci raccontano l’esilio le cronache, prima fra tutte quella di Giovanni Villani,
vicino di casa degli Alighieri, che anni dopo avrebbe scritto che Dante era stato ingiustamente
condannato5 e sottoposto a un confino politico, per cui – scrive Villani – «Bene si dilettò in quella
commedia di garrire e sclamare a guisa di poeta forse in parte più che non si convenia ma forse il
suo esilio glielo fece».6
Di fronte a questo momento tragico dell’esistenza pubblica e privata, la scrittura - e Villani
sembra averlo intuito – diventa, come sempre nell’esilio, in tutti i tempi, il luogo 2 Per la ricostruzione biografica cfr. V. RUSSO, Dante "exul inmeritus". Variazioni compositive sul/dal tema, in «Esperienze letterarie» 1992, 2, XVII, pp. 3-16; poi in ID., Il romanzo teologico, seconda serie, Napoli, Liguori, 2002, pp. 31-44; M. SANTAGATA, L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante, Bologna, il Mulino, 2011, in particolare pp. 337-339. 3 Cfr. G. DE MARCO, L’esperienza di Dante exul immeritus quale autobiografia universale, in «Annali d’italianistica», 2002, XX, Exile Literature, pp. 21-54.4 Cfr. anche A. BATTISTINI, in Dante e le città dell’esilio, Atti del Convegno internazionale di studi, (Ravenna, 11-13 settembre 1987), a cura di G. DI PINO, Ravenna, Longo, 1989, p. 158, in cui l’autore parla della necessità di «risemantizzare l’esilio restituendolo alla sua tragicità medievale».5 «e ‘l suo esilio di Firenze fu per cagione, che quando Messer Carlo di Valois de la casa di Francia venne in Firenze l’anno MCCCI, e caccionne la parte bianca, come adietro ne’ tempi è fatta menzione, il detto Dante era de’ maggiori governatori de la nostra città e di quella parte, bene che fosse Guelfo; e però sanz’altra colpa co la detta parte bianca fue cacciato e sbandito di Firenze», G. VILLANI, Cronica, tomo II, libro X, CXXXVI, Torino, Einaudi, pp. 795-796.6 Ivi, p. 796.
dell’elaborazione dell’esperienza; e per Dante questo non può non avvenire attraverso la messa in
gioco di molteplici implicazioni culturali e filosofiche.
Già nel Convivio, esilio e scrittura, non solo scrittura di sé, ma scrittura filosofica e scrittura
sacra, sono strettamente legati, appartengono a una stessa esperienza di vita e di elaborazione
morale e intellettuale. L’esule si identifica totalmente con lo scrittore e con il poeta: la scrittura
conferisce un’identità rinnovata al reietto e suggerisce anche ai destinatari un percorso di rilettura
degli eventi.
Ma non c’è solo questo. Per sopravvivere all’umiliazione dell’esilio e per convertirlo in
un’esperienza conoscitiva e fondante della sua scrittura, Dante lo rovescia di segno, lo sottrae a
considerazioni sentimentali e personali e ne fa un asse portante della sua esperienza di scrittore
sacro, legittimato a dire la verità, a svolgere la funzione di poeta vate.
Lo sguardo dell’esule è uno sguardo che assume una maggiore lucidità dalla lontananza e
coincide con lo sguardo dell’uomo di lettere, che coltiva, nella solitudine ed estraneità alla patria,
nella sofferenza e nell’anelito al riscatto, la possibilità di un’esperienza critica e conoscitiva più
integra, penetrante e intensa.
Già nel De vulgari eloquentia Dante avvia una riflessione su esilio e lingua che lo candida a
essere, anche in questo campo, un iniziatore, uno sperimentatore in grado di cogliere lo stretto
rapporto tra lingua e appartenenza, lingua e identità, un problema fondamentale dell’esilio, che
sarà poi esplorato con tragica intensità da altri esuli illustri a noi più vicini come Theodor
Adorno, Joseph Brodski, Primo Levi e tanti altri.
La lingua crea un legame fondamentale, la cui intensità si avverte nella privazione, nonostante la
scelta di un riscatto della ragione, preludio a un’interpretazione in chiave autopromozionale
dell’esperienza dell’esilio. Ecco cosa scrive Dante nel De vulgari eloquentia:
Nam, quicunque tam obscene rationis est ut locum sue nationis delitiosissimum credat esse sub sole, hic etiam pre cunctis proprium vulgare licetur, idest maternam locutionem, et per consequens credit ipsum fuisse illud quod fuit Ade. Nos autem, cui mundus est patria velut piscibus equor, quanquam Sarnum biberimus ante dentes et Florentiam adeo diligamus ut quia dileximus exilium patiamur iniuste, rationi magis quam sensui spatulas nostri iudicii podiamus. Et quamvis ad voluptatem nostram, sive nostre sensualitatis quietem, in terris amenior locus quam Florentia non existat, revolventes et poetarum et aliorum scriptorum volumina, quibus mundus universaliter et membratim describitur, ratiocinantesque in nobis situationes varias mundi locorum et eorum habitudinem ad utrunque polum et circulum equatorem, multas esse perpendimus firmiterque censemus et magis nobiles et magis delitiosas et regiones et urbes quam
Tusciam et Florentiam, unde sumus oriundus et civis, et plerasque nationes et gentes delectabiliori atque utiliori sermone uti quam Latinos.7
Dante trovava in autori a lui vicini ed essenziali nella sua formazione esempi di una
rielaborazione nobilitante dell’esilio, che si innerva nella scrittura stessa. L’identificazione tra
esule e letterato o meglio tra l’esule che riscatta un’identità integra e una legittimità di
cittadinanza attraverso la scrittura, è debitrice nei confronti di una lunga tradizione che attraversa
tutta la letteratura occidentale, da Sofocle e il ciclo edipico in cui Edipo, esule a Colono assume
una valenza quasi sacrale proprio grazie all’isolamento che ne purifica le colpe, a Virgilio,
Cicerone, Ovidio, Seneca, Boezio, citato espressamente, a questo proposito, all’inizio del
Convivio.
Se la cultura greca aveva proposto, anche attraverso Tucidide e Senofonte, un modello positivo e
eroico di esule politico e suggerito il motivo, di grande fortuna, di una valenza purificatrice insita
nell'esperienza dello straniamento8, è soprattutto agli autori latini che Dante guarda come a
modelli letterari e filosofici per l’esperienza dell’esilio.
Virgilio, innanzitutto: nell’Eneide, Enea è definito più volte un esule, exsul («feror exsul in altum
cum sociis natoque Penatibus et magnis dis», Aeneis, 3, 11); l’esilio di Enea, la sua
peregrinazione attraverso tappe strategiche che lo portano ad assumere coscienza del suo ruolo,
ha un significato sacrale; dalla distruzione di Troia, attraverso i vari momenti del viaggio, l’eroe
deve raggiungere lo scopo di creare una nuova civiltà e fondare Roma. Già nell’Eneide dunque,
7 «Perché chiunque ragiona in modo così spregevole da credere che il posto dove è nato sia il più gradevole che esiste sotto il sole, costui stima anche il proprio volgare, cioè la lingua materna, al di sopra di tutti gli altri, e di conseguenza crede che sia proprio lo stesso che appartenne ad Adamo. Ma noi, la cui patria è il mondo come per i pesci il mare, benché abbiamo bevuto nel Sarno prima di mettere i denti e amiamo Firenze a tal punto da patire ingiustamente - proprio perché l'abbiamo amata - l'esilio, noi appoggeremo la bilancia del nostro giudizio alla ragione piuttosto che al sentimento. Certo ai fini di una vita piacevole e insomma dell'appagamento dei nostri sensi non c'è sulla terra luogo più amabile di Firenze; tuttavia a leggere e rileggere i volumi dei poeti e degli altri scrittori che descrivono il mondo nell'assieme e nelle sue parti, e a riflettere dentro di noi alle varie posizioni delle località del mondo e al loro rapporto con l'uno e l'altro polo e col circolo equatoriale, abbiamo tratto questa convinzione, e la sosteniamo con fermezza: che esistono molte regioni e città più nobili e più gradevoli della Toscana e di Firenze, di cui sono nativo e cittadino, e che ci sono svariati popoli e genti che hanno una lingua più piacevole e più utile di quella degli italiani.» Dve I VI 2-3; si cita dall’edizione di DANTE ALIGHIERI, Opere minori, vol. III, t. I, De vulgari eloquentia, Monarchia, a cura di P.V. MENGALDO e B. NARDI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1996.8 Per una ricognizione sul tema dell’esilio in letteratura rinvio alla voce da me curata per il Dizionario dei temi letterari, a cura di R. CESERANI, M. DOMENICHELLI, P. FASANO, Torino, Utet, 2007.
fonte essenziale – è noto – per Dante, l’esilio ha un significato iniziatico, è un’esperienza
fondante e conoscitiva che fa emergere la dimensione sacrale del protagonista. Ed è noto che
quando Dante (If. II 32) sottolinea la sua estraneità da Enea e san Paolo che lo avevano preceduto
nel viaggio nell’oltretomba («Io non Enëa, io non Paulo sono»), ribadisce in realtà l’eccezionalità
della sua esperienza, che si iscrive all’interno di un percorso eletto.
Altra fonte fondamentale per il tema dell’esilio è Cicerone, per Dante essenzialmente un filosofo
più che un oratore e un politico, inserito nel Limbo tra la «filosofica famiglia» che accompagna
Aristotele (If., IV 141). Nel Convivio, Cicerone figura come l’autore che, assieme a Boezio, ha
spinto l'autore a studiare la filosofia, attraverso la lettura del De amicitia9. Per Cicerone, ispirato
dagli stoici, il saggio è colui che è inattaccabile dalle avversità e quindi anche dall’esilio, che
raggiunge la felicità e la saggezza attraverso la forza della ragione, anche se sottomesso a
restrizioni e censure politiche, e che può anzi trarre vantaggio dall'isolamento, liberare lo spirito e
dedicarsi alla riflessione filosofico-morale. Tale interpretazione dell’esilio come riscatto arrivava
a Dante da diverse letture ciceroniane, dirette o mediate, forse anche le Tusculanae disputationes,
note a Petrarca e scritte da Cicerone mentre si trovava in esilio; sicuramente Dante conosce il De
Officiis che definisce un ideale di virtù come essenza propria dell’uomo, del vir, del cittadino, che
coincide con giustizia e amore di patria.
Un verso delle Metamorfosi di Ovidio, relativo al racconto di Ippolito divenuto la divinità latina
Virbio che dice di essere stato ingiustamente cacciato in esilio dal padre per la menzogna di
Fedra che lo aveva accusato di adulterio, è indicato come fonte per il motivo dell’esilio senza
colpa. Il verso è il seguente (Metamorphoses XV 504): «damnavit, meritumque nihil pater eicit
urbe». Paratore10 però precisa che la lezione che Dante evidentemente segue, presente nei codici
perduti sui quali si era basato il filologo olandese Daniel Heinsius, è «arguit immeritumque pater
proiecit ab urbe» 11; una lezione che insiste sull’assenza di colpa dell’esule12. Ma non è solo
l’Ovidio autentico, storico, a esercitare un influsso sulla poesia medievale dell’esilio; c’è anche lo 9 Cv II XII 3: «E udendo ancora che Tulio scritto avea un altro libro, nel quale, trattando dell'Amistade, avea toccate parole della consolazione di Lelio, uomo eccellentissimo, nella morte di Scipione amico suo, misimi a leggere quello». 10 E. PARATORE, voce Ovidio, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, 1970. 11 M. PICONE, L'Ovidio di Dante, in Dante e la «bella scola» della poesia. Autorità e sfida poetica, a cura di A.A. IANNUCCI, Ravenna, Longo, 1993 pp. 107-144.12 Sul tema cfr. anche M. PICONE, Ovid and the "Exul inmeritus", in «Dante for the new millennium» (2003), pp. 389-407, poi in «Dante in Oxford» (2011), pp. 24-38, con il titolo Dante, Ovid, and the poetry of exile; ID., Dante Ovidio e la poesia dell’esilio, in «Rassegna europea di letteratura italiana», XIV, 1999, 7, pp. 7-23.
pseudo Ovidio, al quale si attribuì De vetula, un poema scritto nella prima metà del Duecento, in
duemila esametri, che descrive la conversione al cristianesimo di Ovidio ormai privo della
speranza di tornare in patria e che fu determinante per suggerire la valenza metastorica e
universale dell’esilio13. Picone evidenzia l’importanza dell’influsso esercitato dai Tristia, meno
citati dalla critica rispetto alle Metamorfosi, nei quali si può riconoscere (eccetto che per la
conclusione) lo stesso schema narrativo della Genesi, che parte da una colpa iniziale, cui segue
una punizione, cioè la cacciata dalla patria/paradiso terrestre, un viaggio e il ritorno nella patria
originaria. Picone rintraccia dei debiti testuali di Dante, che nel delineare il Cocito e il lago
ghiacciato della fine dell'Inferno, prende spunto dalla descrizione che fa Ovidio, nei Tristia, di
Temi, città dove è confinato alle foci del Danubio, fredda e gelata14, inospitale e ostile rispetto
alla sospirata Roma, in cui il poeta latino non farà più ritorno.
Un altro scrittore esule che ha influito sul tema dell’esilio nella Commedia è Seneca, per il quale
l'esilio è occasione di fortificazione e crescita spirituale: se è certo che Dante conosceva le
Naturales Quaestiones, è molto probabile (Pasquini la cita come fonte per l’Epistola XII15) che
conoscesse anche la Consolatio ad Helviam matrem scritta, è noto, per confortare la madre
affranta per la condanna del figlio al confino in Corsica nel 41 d.C. per motivi politici; qui Seneca
afferma che l'esilio riguarda il corpo, ma non lo spirito, che rimane libero di pensare; il distacco
dal mondo si tramuta quindi, secondo la filosofia stoica, in un fattore positivo per l'individuo, che
trasforma la lontananza in un’opportunità speculativa. Inoltre appartiene alla natura dell’uomo il
cambiamento di stato e di luogo; da ogni angolo della terra anche il più inospitale, scrive Seneca
nel § VIII, l’uomo può guardare il cielo e contemplare la divinità; cosa importa quindi la terra che
calpesta?: «dum animum ad cognatarum rerum conspectum tendentem in sublimi semper
habeam, quantum refert mea quid calcem?»16.
Infine, un altro esule illustre molto vicino a Dante, Boezio, invitava lo scrittore a sminuire i
disastri della fortuna confidando nella divina ragione. Il Convivio si apre con l’esempio del De
consolatione philosophiae come giustificazione per la scelta apparentemente sconveniente di
parlare di sé, ma la riflessione di Boezio sulla precarietà della fortuna, sull’essenza della vera
felicità, sulla costanza del saggio anche contro avversità come l’esilio sono elementi determinati 13 Ivi, p. 8.14 Ivi, pp. 16-19.15 E. PASQUINI, Seneca in Dante, in Seneca nella coscienza dell’Europa, a cura di I. DIONIGI, Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 111-136.16 L. Annaei Senecae dialogorum liber XII. Ad Helviam matrem de Consolatione, VIII, 6.
che si intrecciano con l’esperienza personale di Dante. Fortificato dalla tensione morale della
solitudine, l’esule è nelle condizioni migliori per raggiungere, attraverso una serie di prove e di
esperienze, la virtù.
La rielaborazione di queste fonti permette allo scrittore di costruire l’immagine di sé come exul
inmeritus, come Dante, a conferma di un rovesciamento di segno, si firma ripetutamente,
nell’inscriptio delle Epistolae III, V, VI, VII e come si autodefinisce nell’Epistola II, rivolta a
Oberto e Guido conti di Romena, dopo la morte del loro zio Alessandro:
Doleat ergo, doleat progenies maxima Tuscanorum, que tanto viro fulgebat, et doleant omnes amici eius et subditi, quorum spem mors crudeliter verberavit; inter quos ultimos me miserum dolere oportet, qui a patria pulsus et exul inmeritus infortunia mea rependens continuo cara spe memet consolabar in illo17.
Ma non c’è solo questo. Se le suddette fonti letterarie suggeriscono l’identificazione tra l’esule e
il saggio, l’ Antico Testamento suggeriva l’altra fondamentale identificazione che agisce
profondamente in Dante tra l’esule e il cristiano, la cui condizione nella vita terrena è assimilata
a quella della lontananza da Dio. Dal peccato originale l’uomo vive in una condizione di esilio,
che si risolve solo quando il cristiano, dopo una serie di prove di purificazione, è riammesso nella
grazia di Dio. Secondo Iannucci infatti il tema dell’esilio nella Commedia non trova una
soluzione sul piano storico ma su quello anagogico, attraverso Beatrice salvifica che riscatta
Dante dall’esilio sia politico che spirituale18.
Nell'Antico Testamento, nei tanti episodi legati alla storia del popolo ebraico, l’esilio si configura
come un segno del disfavore e della collera divina per i peccati commessi dagli uomini e solo il
riconoscimento, da parte dei singoli, delle proprie responsabilità e la purificazione dai peccati,
guidata da Dio, possono porre fine alla condanna. Nell'esilio è quindi implicito, e in questa
direzione insisteranno i padri della Chiesa, il significato di una prova particolarmente dura che ha
però un esito positivo: la riammissione nelle grazie del Signore. Nei testi sacri è l’intera esistenza
17 «Si dolga, dunque, si dolga la più grande stirpe dei Toscani, che brillava per tanto uomo; e si dolgano tutti gli amici suoi e i sudditi, la cui speranza la morte ha crudelmente percosso; tra i quali ultimi bisogna ch'io misero mi dolga, io che cacciato dalla patria e esule senza colpa, la mia sventura considerando di continuo me stesso in lui consolavo con cara speranza.», D. ALIGHIERI, Opere minori, vol. III, t. II, Epistolae Egloge Questio de aqua et terra, a cura di A. FRUGONI, G. BRUGNOLI, E. CECCHINI, F. MAZZONI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1996.18 A. A. IANNUCCI, L'esilio di Dante: "per colpa di tempo e fortuna", in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, Firenze, Olschki, 1983, I, pp. 215-232.
terrena del cristiano a essere vista come un percorso di allontanamento da Dio che si risolve nella
riammissione nella città divina. Si veda ad esempio san Paolo Lettera ai Corinzi, 2, 6-9: «Così,
dunque, siamo sempre pieni di fiducia e sapendo che finché abitiamo nel corpo siamo in esilio
lontano dal Signore, camminiamo nella fede e non ancora in visione. Siamo pieni di fiducia e
preferiamo andare in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore. Perciò ci sforziamo, sia
dimorando nel corpo sia esulando da esso, di essere a lui graditi». Le parole di san Paolo sono
illuminanti perché la dialettica anima/corpo è alla base del viaggio di Dante, che compie il
viaggio ultraterreno con il suo corpo, e trasfigura l’esperienza dell’esilio terreno in esperienza
spirituale che riflette il suo stesso viaggio.
La Bibbia contiene inoltre già molti topoi narrativi ricorrenti legati all'esilio, che influenzeranno
la tradizione letteraria successiva a partire da Dante: tristezza e malinconia, rimpianto e desiderio
di vendetta sono espressi nei Salmi; si vedano in particolare il Salmo 41 - «Dirò a Dio: “Mia
roccia! / Perché mi hai dimenticato? / Perché triste me ne vado, /oppresso dal nemico?» e il
Salmo 137 - «Sui fiumi di Babilonia, /là sedevamo piangendo/ al ricordo di Sion. /Ai salici di
quella terra/ appendemmo le nostre / cetre. /Là ci chiedevano parole di /cantocoloro che ci
avevano / deportato, /canzoni di gioia, i nostri / oppressori: / “Cantateci i canti di / Sion!”. Come
cantare i canti / del Signore/ in terra straniera?».
Il Libro del profeta Ezechiele, uno dei più narrativi della Bibbia, contiene l'immagine, divenuta
poi canonica, del deportato che parte per l'esilio in modo avventuroso, di notte, al buio, solo e con
pochi bagagli; nella Bibbia egli assume la funzione di un simbolo per il popolo di Israele in una
direzione di significato traslato dell’esilio che sarà ricca di risonanze. Così parla Dio a Ezechiele:
Prepara di giorno il tuo bagaglio, come il bagaglio d'un esiliato, davanti ai loro occhi; uscirai però al tramonto, davanti a loro, come partirebbe un esiliato. Fa' alla loro presenza un'apertura nel muro ed esci di lì. Mettiti alla loro presenza il bagaglio sulle spalle ed esci nell'oscurità: ti coprirai la faccia in modo da non vedere il paese, perché io ho fatto di te un simbolo per gli Israeliti19
La gioia per l'intervento liberatore di Dio che conclude il periodo di deportazione viene espressa
in più momenti, soprattutto nei Salmi e nel Libro di Isaia: «Non trattenere; fa’ tornare i miei figli
da lontano e le mie figlie dall’estremità della terra, quelli che portano il mio nome e che per la
mia gloria ho creato e plasmato e anche formato»20 (Libro di Isaia, 43).19 Ez. 12.20 Is. 43.
Secondo Singleton21, il motivo dell’esodo e del ritorno alla salvezza divina attraverso una discesa
e una redenzione è l’asse portante dell’intera Commedia, svelato all’inizio del Purgatorio e nel
Paradiso terrestre, al momento dell’incontro con Beatrice. Il versetto iniziale del Salmo 113 In
exitu Israel de Egypto (Pg. II 46) che cantano le anime dei penitenti trasportati sul vasello
dell’angelo nocchiere dalla foce del Tevere alla spiaggia del Purgatorio, suggerisce che l’esodo è
lo schema attraverso il quale interpretare la seconda cantica, che inaugura il processo ascendente
verso Dio, una conversione e un’ascesa riuscite, diversamente da quello che accade nell’Inferno,
quando invece l’ascesa al colle risulta fallimentare.
Questo è dunque il materiale filosofico, letterario e storico con cui si confronta Dante quando
scrive la Commedia: un’esperienza di vita tragica, di esclusione e sconfitta, che deve essere
riscattata da una spinta utopica sostenuta da un’accezione nobilitante dell’esilio; la necessità di
fare i conti con la sconfitta politica e con il degrado della società contemporanea; una tradizione
di scrittura letteraria e filosofica che rovescia di segno l’esilio rendendolo un’esperienza
formativa e morale; la dimensione cristiana che suggerisce molteplici significati metaforici tesi a
configurare l’esilio come un percorso sacro, universale e non personale, di redenzione verso Dio.
Dante è così l’esule politicamente sconfitto nelle vicende storiche contemporanee sotto il segno
della tragedia, della corruzione e della colpa, che si purifica nella sua rinnovata identità di
scrittore sacro, ma è anche l’esule cristiano per il quale la vicenda individuale assume un valore
universale, di riscatto della salvezza eterna.
La Commedia dispiega dunque tutta questa gamma di tematiche dell’esilio, da quelle consolidate
appartenenti al significato proprio del termine riferito all’esperienza storica, a quelle rielaborate
grazie alle stratificazioni di senso della tradizione letteraria e cristiana: amore e nostalgia della
patria e timore per le sue sorti (è il tema più diffuso, si veda ad esempio If X e XIV 1, Pg VIII 1-
3, Pd XVII), disprezzo per la corruzione presente, peregrinazione dei penitenti nel Purgatorio,
percorso di purificazione, prova spirituale di fronte a Dio.
La Commedia è quindi il luogo di una vera e propria polifonia dell’esilio. C’è innanzitutto,
nell’Inferno, una suspence che lo attraversa tutto, dal canto X dell’incontro con Farinata degli
Uberti, nel quale per la prima volta in modo esplicito si allude all’esilio, all’incontro struggente
con Brunetto Latini nel canto XV, all’invettiva di Vanni Fucci che impreca contro Dante nella
bolgia dei ladri nel canto XXIV; qui il significato di esilio oscilla tra quello proprio di esclusione 21 Cfr. CH. S. SINGLETON, La poesia della Divina Commedia, Bologna, il Mulino, 1978, in particolare il cap. «In exitu Israel de Aegypto», pp. 495-520.
politica, ma anche degrado umano e oscura minaccia (e d’altronde i dannati scontano per prima
cosa la condanna a un «essilio perpetuo» da Dio), e, invece, recupero del senso morale, etico
della politica, invito alla riscossa, per cui il sacrificio del singolo deve servire al bene pubblico (è
il tema soprattutto del canto di Brunetto Latini). Fin dall’inizio d’altronde il tema assume il
duplice significato di un bando politico e di un bando dalla vita vera; e infatti così Dante si
rivolge a Brunetto, dannato ma magnanimo, in grado quindi di mantenere una dignità morale, pur
nella certezza della condanna divina: «Se fosse tutto pieno il mio dimando, / rispuos'io lui, voi
non sareste ancora / de l'umana natura posto in bando» (If, XV 79-81)
C’è un continuo controcanto tra lo sguardo dei dannati che attribuiscono al termine il suo
significato etimologico (lo stesso Farinata, Vanni Fucci) e insistono sull’esclusione di Dante dalla
comunità e, dall’altra parte, il significato traslato, di purificazione che l’esperienza è destinata ad
assumere nel percorso dantesco.
Il canto di Farinata è il canto della crudezza dell’esilio politico con quel collegamento di Farinata
alla storia del suo tempo fatto immediatamente attraverso il ricordo dell’esilio degli Alighieri:
«Fieramente furo avversi / a me e a miei primi e a mia parte, / sì che per due fïate li dispersi» (If
X 46-48); a lui Dante risponde insistendo sulla tragedia dell’esclusione nella dinamica ancora
cocente quando scrive delle lotte intestine: «S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte, / rispuos'io
lui, l'una e l'altra fïata;/ ma i vostri non appreser ben quell'arte» (If X 49-51).
Il canto di Brunetto è invece fondamentale per la trasfigurazione del tema dell’esilio e per
l’intreccio di origine biblica tra immagini popolari e rinvii metaforici e per l’uso di immagini che
indirettamente iscrivono l’esperienza reale in un percorso traslato di purificazione:
Ma quello ingrato popolo malignoche discese di Fiesole ab antico,e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farà, per tuo ben far, nimico;ed è ragion, ché tra li lazzi sorbisi disconvien fruttare al dolce fico.
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;gent' è avara, invidiosa e superba:dai lor costumi fa che tu ti forbi.
La tua fortuna tanto onor ti serba,che l'una parte e l'altra avranno famedi te; ma lungi fia dal becco l'erba.
Faccian le bestie fiesolane stramedi lor medesme, e non tocchin la pianta,
s'alcuna surge ancora in lor letame, cui riviva la sementa santa
di que' Roman che vi rimaser quandofu fatto il nido di malizia tanta.22
D’altro canto una luce oscura si riflette su tutto l’Inferno in cui (canto XXIII) è usato il sintagma
«etterno essilio» riferito alla condizione dei dannati, un sintagma che ritorna nel Purgatorio,
sempre in riferimento ai dannati, quando Virgilio, nel XXI, incontra Stazio e di fronte al poeta
latino si autodefinisce anche lui, proprio rivolgendosi a un’anima che sta per raggiungere la
beatitudine, condannato invece all’«etterno essilio»: «Nel beato concilio / ti ponga in pace la
verace corte / che me rilega ne l'etterno essilio» (Pg XXII 16-18).
La polifonia dell’esilio si amplifica però e si arricchisce nel tracciato autobiografico-emotivo del
Purgatorio, che è il regno per definizione degli esiliati, con quell’incipit indimenticabile del
canto VIII (1-3) a indicare l’ora della sera, della meditazione e della nostalgia: «Era già l'ora che
volge il disio / ai navicanti e 'ntenerisce il core / lo dì c' han detto ai dolci amici addio».
L’intensità emotiva di questi versi si spiega con la loro componente autobiografica, rilevabile, nel
Purgatorio, anche nell’incontro con Oderisi da Gubbio (Pg XI 139-41) e nella sua oscura
profezia sul fatto che Dante sarà costretto a chiedere l’elemosina come aveva fatto Provenzan
Salvati, guadagnandosi in questo modo il Purgatorio. Assieme al breve cenno all’esilio compreso
nei versi che descrivono l’incontro con Corrado Malaspina (Pg VIII 133) e che contengono un
accenno all’ospitalità di cui Dante godrà presso i Malaspina, questi sono gli unici luoghi del
Purgatorio in cui si fa riferimento all’esilio reale. Il Purgatorio è però la cantica per eccellenza
degli esiliati (in senso traslato) perché i penitenti, i peregrini sono lontani dalla beatitudine,
ancora legati alle cose terrene poiché hanno peccato, ma anche pronti a riscattarsi e a essere
riabilitati, verso un percorso di espiazione. E proprio perché presente come sottofondo in chiave
traslata, come condizione del penitente che compie il suo viaggio verso Dio, una condizione che è
quella dello stesso Dante emblema dell’umanità, il tema risulta compresso come occorrenze
esplicite, nei riferimenti alla vita reale.
Infine, questa polifonia dell’esilio della Commedia si apre in un canto dispiegato nel Paradiso,
nell’incontro con l’antenato Cacciaguida, colui al quale spetta il compito di ripercorrere la
vicenda di Dante e di darle un senso nello scenario del Paradiso e all’interno dell’ordine divino.
Per Giuseppe Mazzotta, l’episodio di Cacciaguida ha una funzione strategica nella Commedia, 22 If XV 61-78.
che va molto al di là del compito di rivelazione delle profezie che Dante ha raccolto nel corso del
suo viaggio: l’esilio non è qui solo esperienza contingente, ma apre una comprensione diversa del
tempo che altera sia i contorni della memoria del passato che quelli del presente; rovesciando
l’ordine convenzionale del tempo, diventa la prospettiva adottata dal poeta per la sua ricerca del
senso più profondo della storia e della tradizione23.
Ecco i famosi versi del canto XVII che racchiudono la descrizione dell’esilio, al futuro nella
finzione poetica, ma Dante - è noto - ha già sperimentato sulla sua pelle cosa significhi esilio:
Tu lascerai ogne cosa dilettapiù caramente; e questo è quello straleche l'arco de lo essilio pria saetta
Tu proverai sì come sa di salelo pane altrui, e come è duro callelo scendere e 'l salir per l'altrui scale.
E quel che più ti graverà le spalle,sarà la compagnia malvagia e scempiacon la qual tu cadrai in questa valle;
che tutta ingrata, tutta matta ed empiasi farà contr' a te; ma, poco appresso,ella, non tu, n'avrà rossa la tempia.
Di sua bestialitate il suo processofarà la prova; sì ch'a te fia belloaverti fatta parte per te stesso.24
È questa l’unica volta, nella Commedia, in cui «essilio» è esplicitamente pronunciato con
riferimento alla vicenda di Dante stesso. Nelle Epistolae invece, come già detto, Dante si
definisce un «exul inmeritus», cambiando quindi di segno un termine ricco di risonanze negative.
Nel Paradiso la parola ricorre invece proprio per indicare la condizione di esclusione dalla
beatitudine: in Pd X 129, ad esempio, indica l’anima santa di Boezio presentato da san Tommaso
che «da martirio / e da essilio venne a questa pace»; a pronunciare la parola «essilio» (Pd XXVI
116) è poi Adamo che la riferisce al peccato originale: «non il gustare del legno / fu per sé la
cagion di tanto essilio / ma solamente il trapassar del segno»; infine nel canto XXIII il concilio
dei beati e il trionfo di Maria sono riservati a coloro che hanno guadagnato la beatitudine mentre
vivevano nell’«essilio di Babillòn», cioè nella vita terrena: «Quivi si vive e gode del tesoro / che
23 G. MAZZOTTA, Musica e storia nel Paradiso 15-17, in Dante, oggi / 2, «Critica del testo», a cura di R. ANTONELLI, A. LANDOLFI, A. PUNZI, Roma, Viella, Università Sapienza, 2011, pp. 333-348. 24 Pd XVII 55-69.
s'acquistò piangendo ne lo essilio / di Babillòn, ove si lasciò l'oro.» (Pd XXIII 133-135). È
evidente che anche l’essilio di Dante spiegato da Cacciaguida non si riferisce solo alla vicenda
storica, ma, come confermano anche le altre occorrenze lessicali del Paradiso, alla vicenda
spirituale di Dante simbolo dell’intera umanità.
L’esilio dantesco è così assimilato, attraverso questo percorso di riappropriazione di fonti
bibliche e letterarie, a un’esperienza di acquisizione di sapienza e di purificazione e diventa una
prova esistenziale funzionale al conseguimento della salvezza eterna; lasciandosi alle spalle
l’«etterno essilio» dei dannati, la condizione di peccato dell’umanità che assorbe a questo punto
anche la patria Firenze, corrotta e divisa, Dante nobilita la sua esperienza personale, la sua storia
di reietto che si è salvato proprio grazie al bando, legittimando e sacralizzando così la sua
condizione di «exul inmeritus».
Esuli e letterati. Per una storia culturale dell'esilio risorgimentale, in L'officina letteraria e
culturale dell'età mazziniana (1815-1870). Giornate di studio, a cura di Q. Marini, G. Sertoli, S.
Verdino, L. Cavaglieri, Novi Ligure, Città del Silenzio, 2013, pp. 89-100
L’esilio di diverse generazioni di patrioti italiani nel periodo preunitario si configura, grazie alla
propaganda mazziniana prima e a quella postunitaria poi, come un elemento costitutivo del mito
della nazione e come un attributo quasi necessario per connotare il vero patriota che sacrifica la
sua esistenza al comune progetto nazionale; esuli furono infatti i massimi esponenti della lotta
risorgimentale, da Foscolo a Santorre di Santarosa, da Berchet a Mazzini e via via fino a
Cattaneo, Guerrazzi, Tommaseo, Mamiani, Garibaldi, Gioberti. Nelle lettere, nelle memorie,
negli interventi pubblici l’esilio è presentato come un momento tragico dal punto di vista
personale, per il costo umano dell’esperienza di sradicamento e di perdita di riferimenti e affetti;
e tuttavia sono gli stessi protagonisti che, nei loro scritti e nelle testimonianze, lo trasformano in
un’esperienza collettiva ed eroica, aggregante e nobilitante, dotata di una forte valenza identitaria.
Nella letteratura risorgimentale e postunitaria (penso ai versi di Berchet, ai romanzi di Ruffini, ai
versi e romanzi di Tommaseo) l’esule ha un’enorme fortuna e diventa una figura paradigmatica,
ricca di richiami simbolici, una sorta di proto-italiano, modello ideale di cittadino integerrimo,
intriso di amor patrio, disposto al sacrificio. A partire dagli anni quaranta, quando si sviluppa il
genere del martirologio per celebrare i patrioti sconfitti, l’esule ne diventa figura centrale,
emblema dell’italiano eroico che sacrifica la sua esistenza al bene pubblico. Dante è, per questi
italiani fuori d’Italia, un padre riconosciuto, un mito diffuso e celebrato con enfasi, il poeta della
nazione e il cittadino virtuoso, ma costretto a vivere lontano dalla patria, con il quale gli esuli si
identificano doppiamente, proiettando sul presente risorgimentale la sua vicenda che assume un
valore esemplare.
A fianco di questa chiave di lettura basata sulla costruzione di una rete simbolica di significati,
che, in anni in cui bisognava rielaborare la sconfitta oppure celebrare la nazione appena
costituitasi, dava un senso alla vicenda spesso tragica di tanti patrioti, più recentemente l’esilio è
stato oggetto di studi che ne hanno approfondito la storia politica interna, e ne hanno evidenziato
il valore di esperienza militante attiva, partecipe del pensiero liberale europeo, in grado di
condizionare gli sviluppi della politica dei patrioti non solo italiani. Su questa linea si colloca il
recente volume Risorgimento in esilio, di Maurizio Isabella25 che, pur trattando del periodo 1815-
1830 e solo di alcuni luoghi di destinazione degli esuli, affronta problematiche generali. Nel libro
di Isabella, l’esilio risorgimentaIe risulta un’esperienza centrale nell’elaborazione dei progetti
politici preunitari; la permanenza all’estero, seppure forzata, ha messo gli italiani in condizione di
frequentare stranieri di tutte le nazionalità e di elaborare strategie politiche a livello europeo.
Inoltre lo studio delle dinamiche politiche dell’esilio ne evidenzia anche l’articolazione interna,
determinata dal fatto che, nel tempo lungo del Risorgimento, si alternano più generazioni di esuli
che hanno attivato diverse strategie politiche e modalità di rapporto con l’esterno, tra di loro e
con gli stranieri. La generazione di coloro che erano nati nell’Ottocento, con i mazziniani in
prima fila, e la generazione precedente, coinvolta nel triennio giacobino e nel periodo
napoleonico, hanno un approccio molto diverso nei confronti della politica europea. I patrioti più
legati alla cultura dei lumi e all’epoca napoleonica privilegiano la lotta per l’indipendenza,
rispetto a progetti unitari, e propendono per una considerazione transnazionale, cosmopolita del
nazionalismo; gli esuli delle generazioni successive, del pieno Ottocento, oscillano tra un
atteggiamento di chiusura verso le identità separate ma equivalenti degli altri paesi, e un
atteggiamento invece di apertura, caratterizzato soprattutto dal pensiero mazziniano. La
generazione del pieno Ottocento guarda inoltre con una certa diffidenza anche alla generazione
degli esuli dei moti del 1820-21, di estrazione prevalentemente aristocratica, diversi dalla
generazione precedente e anche da quella successiva. Il piemontese Giacomo Durando, nato nel
1807, pubblica a Parigi nel 1846 il volume Della nazionalità italiana, in cui scrive che gli esuli
degli anni venti avevano formato per la prima volta «una patria errante», ma che la loro era una
generazione fallita. E uno dei motivi del fallimento per Durando era dovuto al fatto di guardare
sempre dietro di sé, «all’antico», un ostacolo alla crescita dell’Italia come nazione, alla creazione
di una «personalità nazionale»26, un termine alternativo a quello, di più recente fortuna, di
identità. Nel giudizio di Durando, attribuito proprio ai patrioti che nel «Conciliatore» si
proponevano, sul piano letterario e politico, di svecchiare l’Italia, si evidenzia l’intensità dello
25 MAURIZIO ISABELLA, Risorgimento in Exile. Italian Émigrés and the Liberale International in the Post-Napoleonic-Era, 2009, trad. it. Risorgimento in esilio. L’internazionale liberale e l’età delle rivoluzioni, Bari, Laterza, 201126 GIACOMO DURANDO, Della nazionalità italiana, Losanna, S. Bonamici e compagni, 1846: «Comunque sia noi siamo diseredati come società politica. Noi principali fondatori di tanti progressi sociali non abbiamo conseguito quello che vantano le più barbare genti, una personalità nazionale».
stacco generazionale responsabile di modalità profondamente diverse di affrontare e giudicare gli
eventi storici.
La proposta di valorizzare l’esilio come esperienza militante attiva di portata europea e come
visuale dalla quale cogliere le diverse fasi del processo risorgimentale fornisce un quadro di
riferimento utile a inquadrare anche la cultura dell’esilio risorgimentale, l’insieme cioè di testi
letterari, edizioni di classici, pubblicazioni, giornali, articoli, lezioni universitarie prodotti dagli
italiani fuori d’Italia; dal momento che è evidente, di fronte a un quadro come quello, seppur
velocemente, delineato, che la cultura degli esuli e i risultati letterari della loro esperienza non
possono né essere valutati come esito esclusivamente personale, interno alla carriera dei singoli e
riconducibile solo a un percorso individuale, né possono essere classificati come momento di
ripiego o di compensazione rispetto all’impossibilità di svolgere fuori dagli stati italiani
un’azione politica.
Esiste invece una strategia culturale dell’esilio che ha ripercussioni politiche, sulla quale è
opportuno svolgere una ricognizione che tenga conto del dato generazionale, dell’incidenza della
provenienza geografica, dei legami con i gruppi di intellettuali europei, oltre che dell’esperienza
personale. La cultura e la tradizione sono state indubbiamente un fattore identitario unitario
fondamentale e questo è un dato sul quale esiste un consenso diffuso nonostante le diverse
posizioni che hanno anche recentemente animato il dibattito in occasione delle celebrazioni per i
150 anni dell’Unità, tra letture che insistono maggiormente sulla centralità della prospettiva
culturale e letture che propendono invece per una maggiore fedeltà a una storia soprattutto
politica del Risorgimento27; e tuttavia, se è un dato confermato che la letteratura e la lingua
letterarie hanno avuto una funzione aggregante e fornito un piano di confronto comune, sulle
modalità con cui questo processo si è svolto ci sono ancora molte indagini da compiere e
certamente lo studio della cultura dell’esilio apre in questa direzione prospettive di ricerca
importanti, per la diffusione del fenomeno e per la qualità dei personaggi coinvolti.
L’esilio ha in effetti la funzione di attivare, nell’alterazione di tutti i consueti riferimenti, dei
processi di accelerazione delle dinamiche culturali, della pratiche di organizzazione della cultura,
a livello di editoria e giornalismo e di scelte culturali; porta inoltre alla ribalta della scena
culturale ottocentesca non solo italiana una tipologia interregionale di letterato patriota rivolto
senza censure a un progetto comune, alla costruzione di una comunità coesa aggregata attorno a
27 Rinvio, per una visione d’assieme, da aggiornare relativamente alle numerosissime pubblicazioni del 2011, al libro di LUCY RIALL, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni, Roma, Donzelli, 2007.
un progetto unitario (e a questo scopo sono rivolte tante pubblicazioni come biografie necrologi,
pubblicazioni che insistono sul ritratto dell’italiano ideale), che si riscatta inoltre dagli stereotipi
negativi sull’Italia e sull’italiano diffusi in Europa.
La scelta di dedicarsi a edizioni di classici, traduzioni, lavori eruditi o pedagogici risponde in
certi casi (si veda ad esempio il caso di Foscolo) alla necessità di trovare una collocazione
professionale nei paesi stranieri. Ma è indubbio che il letterato esule guardi alla tradizione come a
una risorsa da spendere in chiave politica, per l’affermazione di un’idea di Italia, la cui
riconoscibilità più evidente, soprattutto all’estero, va ritrovata proprio nella tradizione culturale.
Ma anche qui bisogna distinguere tra momenti diversi.
Secondo Isabella, che riprende una tradizione consolidata, dopo il triennio la scelta di dedicarsi a
studi culturali compensò la perdita di prospettive indipendentiste, dovuta alla politica
napoleonica. Ed è indubbio che in questa opzione ci sia stato un momento compensativo, che
agisce sicuramente molto a livello individuale (le lettere come alternativa all’impegno politico
concreto e come risposta all’esautorazione da incarichi pubblici), ma penso anche che il recupero
strumentale della tradizione come espressione della nazione abbia, in un’ottica di ampio respiro e
nel tempo lungo del Risorgimento, nel succedersi di generazioni diverse, un’intenzionalità che
corrisponde a un progetto politico e che l’insieme dei progetti editoriali, collane, testate
giornalistiche culturali mostra come ci sia un intento comune di costruzione identitaria attraverso
le lettere. Nell’esilio è enfatizzata la dimensione culturale perché è proprio quello culturale il
piano di confronto più consueto con i paesi europei, basti pensare alla non mai sopita questione
del primato; eppure le strategie culturali non sono dissociabili da un’intenzionalità politica. Nel
primo Settecento dalla polemica franco-italiana tra il marchese Orsi e Dominique Bouhours era
nato un moto di riscossa antifrancese che aveva unito i letterati italiani della repubblica delle
lettere; Muratori aveva posto la questione del primato italiano anche in termini politico-
amministrativi proponendo una sorta di federazione di stati italiani, sotto la guida del papato. Il
legame lettere-politica in chiave unitaria non è quindi nuovo; nuovo è ovviamente lo spirito
indipendentista, il movimento sociale legato al problema unitario, le questioni relative ai
problemi di comunicazione, di apertura a un pubblico più ampio rivolti alle lettere, la costruzione
di un’identità nazionale partendo da presupposti non esclusivamente letterari. Ma sono questioni
note e complesse sulle quali non posso soffermarmi. All’interno di queste problematiche però
l’esilio ha svolto sicuramente una funzione. Innanzitutto ha reso esplicito il significato politico
dei testi letterari; si pensi ad esempio alla carriera di Berchet che fuori d’Italia può pubblicare i
Profughi di Parga composti in precedenza in Italia28, e che scrive e pubblica le Fantasie e le
Romanze tra Francia e Inghilterra29. Inoltre è indubbio che la rete di relazioni che si stabilisce fra
gli esuli tra loro e con altri esuli e le stesse circostanze relative al tipo di collocazione culturale e
sociale all’estero rinnovino il significato dello studio della tradizione; basta leggere anche solo le
prefazioni alle pubblicazioni che illustrano la condizione speciale dei curatori e che spesso
propongono una lettura attualizzante dei testi letterari (penso ad esempio alla Prefazione di
Gabriele Rossetti all’edizione della Commedia dantesca, tesa a sottolineare una lettura antipapale
del testo in chiave attualizzante30).
Esistono poi delle variabili che bisogna considerare. Da un lato certamente il contatto con l’estero
favorisce la sprovincializzazione della cultura italiana, attraverso il confronto con le letterature e
le prospettive critiche europee; la stessa qualità degli incontri degli esuli che attraverso i legami
italiani entrano in contatto con gli intellettuali più significativi dell’epoca mostra la rilevanza
dell’esperienza del radicamento all’estero per la cultura italiana. Dall’altro il contatto con
l’esterno, da sempre, sollecita invece la rivendicazione di una superiorità italiana31, che comporta
una decisa chiusura verso le influenze esterne e un atteggiamento difensivo della tradizione
italiana, che diventa un elemento costitutivo fondamentale dell’identità nazionale italiana. Queste
oscillazioni si ritrovano nel corso di tutto il periodo risorgimentale: dalle chiusure alfieriane
misogalliche si passa alla posizione dei giornalisti del «Conciliatore» aperti alle letterature
nordiche e al dialogo con la critica europea (basti pensare al lavoro di traduttore di Berchet anche
in esilio, alle riflessioni sul Faust di Scalvini32), alla posizione complessa di Mazzini, alle
chiusure di figure come Tommaseo, Gioberti che ritornano su posizioni di difesa del primato, di
contrapposizione della tradizione italiana alle suggestioni straniere.
A fianco di questo ambivalente ritorno alla tradizione, considerata necessaria per la costruzione
della nazione, ma sentita nello stesso tempo come eccessivamente vincolante di fronte all’Europa
28 Scritto negli anni 1819-1820, il poema poté essere pubblicato solo a Parigi nel 1823, grazie all’intercessione di Charles Fauriel: GIOVANNI BERCHET, I profughi di Parga, Romanza, Parigi, Nella Stamperia di Firmin Didot, 1823.29 Id., Le Fantasie, Parigi, Delaforet, 1829; G. Berchet, Poesie, Londra, 1824 e Londra, Taylor, 1826.30 La Divina Commedia di Dante Alighieri con comento analitico di Gabriele Rossetti , Londra, John, Murray, 1826. L’incipit della Prefazione è il seguente: «La Divina Commedia non è stata finor ben capita»31 Cfr. MAURIZIO ISABELLA, cit., p. 298 e AURELIO MACCHIORO, La raccolta Custodi. «Scrittori italiani di economia», in Pietro Custodi tra rivoluzione e restaurazione, a cura di Daniele Rota, 2 voll., Lecco, 1989, vol. II, pp. 139-164.32 WOLFGANG GOETHE, Fausto, Traduzione di Giovita Scalvini, Milano, Giovanni Silvestri, 1835.
romantica, un altro fenomeno rilevante complessivo per l’esilio è lo sviluppo notevole del
pensiero critico. Foscolo ad esempio approfondisce il lavoro di critico soprattutto in esilio e
questo aspetto riguarda la sua storia personale e la sua necessità di trovare una collocazione
professionale, ma la scelta di dedicarsi a un lavoro critico è dato comune ad altri esuli per i quali
la lontananza dalla patria e dalla politica attiva è stimolo per svolgere una riflessione sulla
tradizione e sul presente. Salfi, Scalvini, Ugoni, Mazzini, Gioberti, Tommaseo diventano tutti in
esilio, se già non lo erano, critici e storici della letteratura; l’indagine sulla propria storia ha lo
scopo militante di definire la cultura della nazione in chiave unitaria, cercando le radici della
nazione, interrogandosi insistentemente sul rapporto tra letteratura e politica nel passato e nel
presente.
Ho individuato tre generazioni di esuli, che non sono rigidamente divise e si possono anche
intersecare, ma che costituiscono tre momenti dell’esilio attorno a cui riflettere. Premetto che mi
sono occupata soprattutto dell’esilio italiano in Francia e che quindi la mia riflessione parte
soprattutto dalla realtà francese, ma penso che alcuni aspetti possano essere generalizzati almeno
all’Inghilterra dove spesso si trovano ad operare gli stessi letterati che si spostano per motivi
politici o perché spinti da maggiori opportunità professionali. D’altronde è indubbio che Parigi
sia il centro più importante dell’esilio italiano almeno fino a tutti gli anni trenta; a fianco di
Parigi, probabilmente pari per importanza per i progetti culturali e editoriali, c’è Londra che negli
anni quaranta per la presenza di Mazzini è un centro fondamentale di elaborazione politica e
culturale; altri luoghi rilevanti sono il castello di Gaesbeck in Belgio, residenza dei coniugi
Arconati e meta di molti letterati italiani e stranieri, e la Svizzera, strategica per la vicinanza
all’Italia e sede della tipografia di Capolago che pubblicò e diffuse in Italia molti libri di
fuoriusciti italiani.
La prima generazione è quella che definirei degli esuli editori, promotori di un classicismo
dinamico, che comprende i letterati prevalentemente filonapoleonici che vivono in Francia nei
primi decenni dell’Ottocento, anche oltre il 1815; si fermano a vivere soprattutto a Parigi, e si
dedicano ad opere di diffusione della cultura italiana, collaborando con alcuni editori come
Baudry e Lefebvre che sono attivi nella pubblicazione di opere italiane. E’ una generazione sulla
quale mi sono soffermata in altri studi33, i cui risultati possono ora essere utili all’interno di una 33 MARIASILVIA TATTI, Bohème letteraria italiana a Parigi nell'Ottocento, in Italia e Italie. Immagini tra Rivoluzione e Restaurazione, Atti del convegno di Roma 7-9 novembre 1996, a cura di Mariasilvia Tatti, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 139-160 e Ead., Le tempeste della vita. La letteratura degli esuli taliani in Francia nel 1799 , Parigi, Champion, 1999.
prospettiva generazionale. Gli esponenti più importanti sono Francesco Salfi, Antonio Buttura,
Nicolò Biagioli, Carlo Botta. Sono personaggi molto diversi, accomunati da un gusto classicista,
in genere da un’avversione verso il romanticismo considerato una deriva rispetto alla tradizione
italiana; e sono accomunati anche dal fatto che svolgono un’attività continuativa sui giornali e
nell’editoria di diffusione della lingua e della letteratura italiane in Francia. Promuovono la
conoscenza di Dante, di cui esiste un’edizione commentata da Biagioli e una da Buttura34. La
straordinaria diffusione di Dante fuori d’Italia deve molto anche all’opera degli esuli che curano
numerose edizioni: oltre alle edizioni già citate si ricordano i lavori danteschi di Ugo Foscolo in
Inghilterra e l’edizione commentata da Gabriele Rossetti, sempre a Londra. Ci sono, tra l’altro,
degli intrecci curiosi tra le vicende degli italiani all’estero. Nicolò Biagioli35 pubblica la prima
edizione del suo commento alla Commedia di Dante a Parigi negli anni 1818-19, un’edizione che
sarà poi subito ripresa a Milano da Silvestri negli anni 1820-21. Nella prefazione Biagioli scrive
di basarsi su un manoscritto lasciato a Parigi da Alfieri, l’Estratto delle bellezze del Poeta, redatto
fino al XIX del Paradiso e conservato alla Bibliothèque de l’Institut di Parigi, dove si trova parte
della biblioteca alfieriana lasciata a Parigi.
Buttura pubblica presso l’editore Baudry la «Biblioteca poetica italiana» in 30 volumi e la
«Biblioteca di prose italiane» in 10 volumi; la stessa biblioteca è ripresa negli anni quaranta da un
esule politico del 1831, Antonio Ronna, che introduce un canone più moderno, comprensivo di
autori contemporanei come Pellico, Manzoni, Niccolini e che sistematicamente scrive delle
prefazioni dove riconduce il lavoro degli esuli editori a un progetto patriottico.36
La questione del primato della tradizione e la costruzione di una identità nazionale unitaria
attorno alla lingua e alla cultura italiana qui hanno un ruolo innegabile che unisce letterati
provenienti da diverse regioni come il piemontese Carlo Botta, il lombardo Antonio Buttura, il
calabrese Francesco Saverio Salfi.
Non si può parlare per queste iniziative e molte altre (ad esempio l’attività giornalistica di Salfi
sulla «Revue encyclopédique»), solo di un ripiego rispetto all’inattività politica, ma di un 34 Divina Commedia di Dante Alighieri con commento di G. Biagioli, Parigi, Dondey-Dupré, 1818-1819, 3 vv.; La Divina commedia pubblicata da Buttura, Parigi, Lefevre, 1820; l’edizione ebbe poi altre ristampe nel 1829 presso Aimé André, e nel 1838 presso Baudry, sempre a Parigi35 FILIPPO TIMO, Itinerari alfieriani nella critica dantesca del primo Ottocento: il caso di Niccolò Giosafatte Biagioli e del suo Commento alla Divina Commedia (Parigi 1818-1819), in «Atti del congresso nazionale del’ADI del 2009», in corso di pubblicazione.36 Si veda ad esempio (ma le citazioni potrebbero essere numerose) la prefazione al Teatro scelto italiano. Commedie, drammi, tragedie, da Antonio Ronna, Parigi, Baudry, 1837, dove si deplora la divisione politica dell’Italia.
progetto di diffusione in Francia di testi della tradizione e della lingua italiane come processo
identitario; certo la questione dell’affermazione della nazione unitaria sulla base della tradizione
rimane circoscritta all’interno del mondo delle lettere e appaiono solo indiretti i legami con le
dinamiche politiche che caratterizzano invece il periodo successivo, ma tale strategia culturale di
potenziamento dell’immagine dell’Italia innesta comunque un processo di aggregazione e di
sensibilizzazione sul problema unitario e indipendentista. Inoltre la figura del letterato assume
una maggiore legittimità nel paese ospitante attraverso questo lavoro culturale, che gli fornisce
una certa autonomia; nello stesso tempo l’esule attivo culturalmente continua a confrontarsi
attivamente con il problema del ruolo pubblico del letterato. Infine, la difesa della tradizione, in
questa veste militante e dinamica, ha anche un altro scopo, che è quello di avversare le immagini
romantiche dei viaggiatori stranieri che offrivano un’immagine pittoresca, romanzesca e
decadente dell’Italia, come aveva fatto Lady Morgan ad esempio suscitando le reazioni di tanti o
come in Francia aveva osato Lamartine definendo l’Italia la terre des morts che per questo fu
sfidato a duello da uno dei tanti poeti soldati del Risorgimento, Gabriele Pepe. La ripresa di un
classicismo eroico e identitario, dei grandi autori del passato tra cui in primo luogo Dante, è
anche un modo per confutare gli stereotipi e per riprendere in chiave polemica la lezione dei
lumi, fatta riemergere anche attraverso la difesa del gusto classicheggiante.
Su questa prima generazione di esuli si innesta la generazione degli esuli del 1815-1821, che
definirei della letteratura militante aperta all’Europa: la questione del primato diventa secondaria
di fronte al dialogo con le culture europee instaurato dagli esponenti del «Conciliatore» già in
Italia. La rete dei milanesi-piemontesi soprattutto, di coloro che gravitavano attorno alla rivista e
quindi al conte Confalonieri e ad Arrivabene comprende i fratelli Camillo e Filippo Ugoni,
Giovita Scalvini, Giovanni Berchet, Giuseppe Pecchio; quasi tutti continuano a frequentarsi in
esilio, gravitano attorno al castello di Gaasbeek degli Arconati in Belgio che diventa una sede
fondamentale per la cultura italiana dell’esilio. Con esiti molto diversi, questi nomi rappresentano
una generazione di giovani intellettuali che viene dispersa dalla repressione: Pietro Borsieri dopo
aver passato tredici anni allo Spielberg assieme a Pellico, viene deportato in America e torna in
Italia solo nel 1838; Giuseppe Pecchio muore precocemente nel 1835 dopo aver passato anni
intensi in Inghilterra, dedito all’insegnamento e agli studi economici e di costume; Giovanni
Arrivabene trascorre molti anni in Belgio, impegnato in attività filantropiche e pedagogiche;
Giovanni Berchet torna in Italia solo nel 1845 (vivendo tra Nizza, Genova e Firenze), e a Milano
solo nel 1848; Camillo Ugoni vive soprattutto in Francia e torna a Brescia solo nel 1838. Gli
autori citati sono tra le figure più significative di quest’ondata di patrioti grazie ai quali l’esilio,
nonostante la dispersione, comincia a diventare un laboratorio determinante di pensiero critico
che elabora, lontano dalla censura, le problematiche emergenti di questa fase della cultura
italiana: il problema della comunicazione innanzitutto di fronte a una diversa composizione
sociale del pubblico di possibili lettori; la riflessione sulla storia italiana e sulla tradizione
stimolata in esilio anche dalla frequentazione, durante il passaggio in Svizzera, di Simonde de
Sismondi, l’autore dell’ Histoire des Républiques italiennes, testo che aveva fatto tanto discutere
al momento della sua pubblicazione; il confronto dialettico, amplificato e modificato dal quadro
europeo, tra tradizione e modernità. La vocazione europea di questi esuli è innegabile e trapela
anche dalle scelte di lavoro culturale, in cui trovano spazio, a fianco di poesie e scritti vari, anche
traduzioni, saggi critici sulle letterature straniere; Scalvini ad esempio scrive su Goethe37 e
traduce il Faust; Camillo Ugoni collabora con vari giornali e contribuisce alla definizione di un
genere fondamentale per gli esuli delle generazioni successive, la biografia, l’elogio che si
trasforma poi in martirologio. Ugoni svolge infatti all’estero delle ricerche, per delle voci
biografiche, sulla vita degli italiani (come Alfieri, Casti, Lagrange) che avevano vissuto in
Francia; pubblica inoltre la biografia di Pecchio, un anno dopo la sua morte38.
La figura più emblematica di questa generazione, anche per la risonanza che ebbero le sue opere,
è quella di Giovanni Berchet, vissuto pochi mesi a Parigi e poi soprattutto a Londra e in
Germania. Figura chiave per l’attività letteraria di Berchet esule è quella di Charles Fauriel, che
svolse un ruolo fondamentale nei rapporti tra Italia e Francia nei primi decenni dell’Ottocento,
non solo come confidente e guida di Manzoni, ma anche come punto di riferimento per tutti gli
italiani che transitavano per Parigi. Fu lui che aiutò Berchet a pubblicare a Parigi sia i Profughi di
Parga39 che le Fantasie40.
L’appello Agli amici miei in Italia che funge da prefazione all’edizione delle Fantasie edite a
Parigi nel 1829 è un testo noto, che va però riletto tenendo conto del contesto, e in particolare
della cultura dell’esilio. E’ firmato Piccadilly 5 gennaio 1829; Berchet fa l’impiegato presso un
commerciante italiano; dopo pochi mesi diventerà il precettore di Carlo Arconati, figlio di
37 GIOVITA SCALVINI, Foscolo, Manzoni, Goethe. Scritti editi e inediti, a cura di Mario Marcazzan, Torino, Einaudi, 1948.38 CAMILLO UGONI, Vita e scritti di Giuseppe Pecchio, Parigi, Baudry, 1836.39 GIOVANNI BERCHET, I profughi di Parga, Paris, Didot, 1823.40 Id., Le fantasie, Paris, Delaforet, 1829.
Costanza e Giovanni e con lui viaggerà tra Belgio, Germania, Francia approfondendo la
conoscenza delle culture europee.
La prefazione affronta alcune problematiche indicative e in parte anche peculiari della letteratura
d’esilio. Il problema del pubblico innanzitutto che Berchet aveva affrontato nella Lettera
semiseria di Grisostomo a suo figlio e che viene ora ripreso con più espliciti riferimenti anche
alla situazione politica; i destinatari ideali sono gli amici italiani, i sodali, i complici, i patrioti.
Non il pubblico straniero, escluso in modo esplicito, non i dotti, bensì gli amici che partecipano a
uno stesso progetto, che condividono le stesse aspettative: «Per poco ch’io ve l’asserisca, lo
crederete ben subito, o dilettissimi, che nel comporre i versi che oggi vi dedico, voi, voi soli, io
sempre aveva dinanzi alla mente, come lettori a cui soddisfare, s’io lo potessi. Ora che gli ho
ricopiati, li rileggo pensando a voi; né parmi che per voi abbiano bisogno di schiarimenti. Se mi
tocca di pubblicarli in terra straniera, non è per questo ch’io mi figuri che stranieri li vogliano
leggere […]. Ma io non ho in mira che l’Italia»41.
La prefazione affronta poi il problema della storia e dell’eroismo italiani partendo dalla
riflessione avviata da Sismondi; Berchet si confronta con il problema che avrà in seguito uno
sviluppo notevole, dell’eroismo italiano, del recupero di una storia gloriosa che affianchi il
primato culturale, tema che si presenta inizialmente anche in Foscolo editore delle Opere di
Raimondo Montecuccoli come recupero di un periodo glorioso della storia italiana, un retaggio
del Settecento, che recupera questioni che aveva posto già Muratori; e tema che diventa poi
soprattutto in Mazzini il problema di costruire un eroismo militare in Italia.
Alcuni temi risorgimentali sono qui affrontati per la prima volta da Berchet in termini espliciti,
lontano dalla censura: il problema della diffusione della conoscenza storica e della
interpretazione della storia in chiave attualizzante e antiaustriaca; l’utilità della storia per gli
obiettivi patriottici.
Pubblico, storia nazionale, poesia. La soluzione di Berchet è ancora, secondo Cadioli42, interna a
un orizzonte umanistico tradizionale, per la rivendicazione di una certa autonomia del poeta che
deve rivolgersi a un pubblico più ampio, ma deve mantenere un linguaggio ricercato, letterario.
E’ il nodo problematico attorno al quale poi negli anni trenta si confronteranno i patrioti delle
generazioni successive, fino al 1848 e oltre.
41 Id., Agli amici miei in Italia, in Lettera semiseria. Poesie, cit., pp. 304-305.42 Cfr. ALBERTO CADIOLI, Introduzione a GIOVANNI BERCHET, Lettera semiseria. Poesie, Milano, Rizzoli, 1992.
Questa seconda generazione di letterati militanti ha costituito quindi una presenza europea
significativa che ha valorizzato l’attività degli esuli della generazione precedente, introducendo in
modo decisivo nell’esilio tematiche di attualità, strettamente legate al contesto storico-politico.
Fino a questo momento ci siamo mossi all’interno di problematiche che possiamo così
riassumere: la dialettica tradizione, cultura italiana / culture europee; lo spostamento da un
proposito di diffusione della letteratura italiana fuori dall’Italia, eredità settecentesca seppure
rivista alla luce dell’attualità politica, a un proposito di confronto attivo, che riformula anche il
problema del primato attorno a questioni diverse come la comunicazione, l’allegoria politica, la
storia nazionale. Quello che è chiaro è che le pratiche culturali degli esuli hanno sempre una
valenza politica o di intervento nella società civile, anche quando ci troviamo di fronte a
questioni apparentemente neutrali come la pubblicazione di classici.
La terza generazione di esuli potrebbe essere definita quella della critica nazionale (siamo
soprattutto negli anni trenta, inizio quaranta) che ha come rappresentanti più significativi
Mazzini, Tommaseo, Mamiani, Gioberti, Cattaneo e come obiettivo, nonostante le posizioni
politiche non omogenee, la costruzione deliberata, consapevole della nazione unitaria attraverso
la cultura e la lingua.
Gli interventi (ad esempio quelli raccolti nel 1836 di Tommaseo e di Mazzini sul giornale
«L’Italiano» pubblicato a Parigi, oppure la prefazione di Mamiani a Parnaso italiano. Poeti
italiani dell’età media datata Genova 1848 ma pubblicata a Parigi nel 184843; gli scritti di
Gioberti44) spostano l’attenzione su problemi che diventano particolarmente urgenti in questi
anni: la ricerca di moralità, utilità, verità e l’insistenza sul valore formativo della letteratura, ma
soprattutto un interrogativo su cosa sia una letteratura nazionale, che accompagni i processi
fondativi della patria. Per Mazzini, autore di diversi contributi sulla letteratura nazionale, la
cultura italiana è a una svolta dopo il superamento e il fallimento della letteratura eroica alfieriana
foscoliana e della rottura non costruttiva e non edificante della generazione romantica. Mamiani
insiste sul valore civile e politico della poesia ed esalta, riprendendo la linea già foscoliana,
Dante, Gravina e Muratori.
Da un lato quindi la critica diventa centrale e punta l’attenzione sul problema di una letteratura
che sappia infondere una virtù civile. Dall’altro, dalla prospettiva del rapporto esilio e letteratura,
43 Parnaso italiano. Poeti italiani dell’età media ossia scelta e saggi di poesie dai tempi del Boccaccio al cadere del secolo XVIII, per cura di Terenzio Mamiani aggiuntavi una sua prefazione, Parigi, Baudry, 1848. 44 VINCENZO GIOBERTI, Del Primato morale e civile degli Italiani, Brusselle, Meline, Cans e Compagnia, 1843.
gli anni trenta – quaranta sono quelli davvero fondativi dell’esilio come istituzione e quelli nei
quali la letteratura diventa funzionale al progetto di mitizzazione dell’esilio. Elemento principale
di questo processo è la costruzione di una genealogia eroica, attraverso la creazione di miti che
coinvolgono l’esilio stesso. La memoria collettiva creata dagli esuli serve a trasformare il
Risorgimento in una causa popolare e moderata. Gli autori dei martirologi più importanti del
Risorgimento (Giuseppe Ricciardi, Atto Vannucci45) sono tutti esuli e scrivono o almeno
cominciano a scrivere in esilio, anche se spesso pubblicano poi in Italia i loro scritti quando,
come nel 1848, le circostanze lo permettono.
La genealogia dell’esilio si avvale di una ritualità simbolica in cui hanno un ruolo importante,
celebrativo e identitario, riti come i funerali, i necrologi, le biografie, le commemorazioni; tutto
concorre a creare il mito dell’esule. I funerali ad esempio uniscono in un rito commemorativo
esuli di tutte le generazioni; si veda ad esempio i funerale di Carlo Botta nel 1837 cui partecipano
Rossini, Mamiani, e molti altri italiani. Anche le numerosissime memorie (o i romanzi di
ispirazione autobiografica come le Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo) scritte
soprattutto dopo il 1848, nel momento in cui bisognava rielaborare la sconfitta, contribuiscono a
sacralizzare la figura e l’opera degli italiani all’estero.
All’interno di questo contesto si comprende anche il recupero, da parte di Mazzini, del
personaggio di Ugo Foscolo, nonostante le profonde divergenze ideologiche e di pensiero; un
recupero che avviene sul piano mitico-letterario e che è funzionale alla creazione di una tipologia
di patriota italiano, disposto a spendersi per un progetto politico.
D’altronde il piano mitico dei riti dell’esilio è agevolato dal fatto che l’esule letterato, rispetto al
letterato non-esule, infonde alle pratiche letterarie una componente emotiva passionale dovuta
all’eccezionalità dell’esperienza, alla perdita di riferimenti consueti e alle numerose e diverse
sollecitazioni; l’esule perde qualsiasi connotazione accademica e di riferimento erudito e
inserisce nel lavoro letterario-culturale un fattore esistenziale che determina di fatto un confronto
continuo con la storia contemporanea.
Penso che la configurazione dell’esilio come istituzione, sancita da Cattaneo che come è noto
pensava a Foscolo all’alba dell’Unità, nel 1860 a Napoli46, sia stata possibile anche grazie alla
45 ATTO VANNUCCI, I martiri della libertà italiana nel secolo decimonono, Firenze, Società editrice fiorentina, 1848; GIUSEPPE RICCIARDI, Martirologio italiano dal 1792 al 1847, Firenze, Le Monnier, 1860. 46 CARLO CATTANEO, Ugo Foscolo e l’Italia, in Scritti letterari, a cura di Piero Treves, Firenze, Le Monnier, 1981, vol. I, p. 555.
sinergia di queste diverse esperienze e al lavoro di valorizzazione della dimensione culturale
italiana anche slegata da un progetto politico unitario nettamente configurato (nell’età
napoleonica e fino al 1821); a partire da questo consolidamento è stato possibile, in una fase
ulteriore, ad opera di Berchet, Scalvini, e gli intellettuali del 1821, delineare un’identità aperta
alle letterature straniere che ha svolto un’indubbia funzione di stimolo e di confronto, e di
superamento di un certo modo troppo interno al mondo umanistico di considerare la cultura
italiana; infine l’esilio ha certamente favorito, sia per i rapporti con l’esterno sia per la ricerca
accelerata di una nuova identità del letterato esule, la svolta verso una letteratura civile e morale,
determinante per quanto riguarda la configurazione della «personalità» nazionale.
Silvia Tatti
Esilio e identità nazionale nell’esperienza francese di Niccolò Tommaseo in Patrie e nazioni
nell’Europa mediterranea: Italiani, Corsi, Greci, Illirici, Convegno internazionale di studi nel
bicentenario della nascita di Niccolò Tommaseo, Atti del convegno di Venezia, 23-25 gennaio
2003, a cura di F. Bruni, Roma, Antenore, 2004, pp. 97-114.
Esilio risorgimentale e prospettive novecentesche
Vorrei premettere a queste riflessioni su Tommaseo e l’esilio alcune considerazioni di ordine
generale sull’esilio risorgimentale e sulla scrittura letteraria degli esuli, utili a inquadrare meglio
il significato di un’esperienza come quella dell’esilio, centrale per Tommaseo, ma fondante e
determinante per la nazione italiana e per un’intera generazione di patrioti.
Una prima considerazione riguarda la fortuna storiografica della letteratura d’esilio che viene
solitamente considerata per il valore di testimonianza autobiografica e per i contenuti militanti,
celebrativi e eroici, funzionali alla lotta per l’indipendenza e l’unità. La riflessione che si è
avviata negli ultimi anni sul problema dell’identità italiana nell’Ottocento ha però sviluppato
ulteriori prospettive e ha offerto spunti utili a riconsiderare anche un’esperienza come quella
dell’esilio e della letteratura ad esso legata che non è solo testimonianza autobiografica di
un’esperienza politica, serbatoio memoriale di eroismo patriottico, ma che fa anche parte, più in
generale, del canone letterario risorgimentale47, tappa fondamentale per la costruzione di
un’identità nazionale. La produzione degli esuli alimenta un immaginario letterario (al quale
contribuisce in modo consistente anche il melodramma) fatto di eroismo, sacrificio, virtù, lotta; si
crea un sistema di valori e di riferimenti, di esperienze e di sensibilità, si propongono tipologie
umane di eroi e di paladini, di potenziali nuovi italiani: e l’esperienza autobiografica
necessariamente amplifica e rende più veri tali motivi. Berchet pubblica Le Fantasie in esilio a
Parigi nel 1829; i testi offrono un ventaglio di situazioni di ribellione, riscatto, eroismo; esuli e
eroi si oppongono, in virtù di spirito di sacrificio, lealtà, abnegazione al dovere e alla patria, a
oppressione e prevaricazione; le circostanze autobiografiche richiamate nella premessa alla
pubblicazione (la dedica Ai miei amici in Italia) imprimono una nota di verità e di patetismo ai
componimenti che sono, d’altro canto, fortemente propositivi e pensati per un potenziale 47 Cfr. per questo aspetto A.M.BANTI, La nazione del Risorgimento. parentele, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2000.
pubblico italiano pronto a far proprie le suggestioni letterarie e a trasformarle in azione politica.
Se l’Italia nasce quindi, effettivamente, come scriveva già Venturi, come «sforzo di volontà» 48, si
può approfondire quale sia l’apporto dei testi scritti durante l’esilio, in presenza quindi di
condizionamenti e limiti importanti, e nel complesso dell’attività letteraria degli esuli (edizioni,
traduzioni, pubblicazioni, giornalismo) a questo impeto volontaristico e costruttivo, all’origine
del processo unitario.
Ma c’è un ulteriore elemento da considerare nell’affrontare il nodo dell’esilio risorgimentale. Per
noi lettori del terzo millennio guardare a quell’esilio significa anche ripercorrere esperienze
successive che hanno segnato profondamente la nostra cultura; e confrontarci con testi letterari
che dell’esilio hanno fatto non solo un motivo centrale in epoche di disastri politici ma anche una
metafora di una tragica esclusione dalla vita e dalla società, un’esclusione che è fisica, materiale
ma che è anche, soprattutto per uno scrittore, linguistica e culturale.
L’evento dell’esilio scatena un totale annullamento dei riferimenti; a livello linguistico e
letterario questo significa abbandonare forzatamente il livello della comunicazione consueta,
quotidiana ma anche culturale, per recuperare una sorta di grado zero della lingua e attivare
un’esperienza linguistica e letteraria conoscitiva e consapevole. E’ come se, negata la possibilità
di una comunicazione quotidiana, si scoprissero nuove potenzialità della lingua e della scrittura,
scavando nel passato, attivando la propria memoria personale e quella storica, nazionale. L’esilio
costringe a uno straniamento coatto, che obbliga a una ridefinizione della propria identità;
proiettarsi nell’alterità, per quanto in virtù di una scelta obbligata e che non perde di vista la
situazione di partenza, costringe comunque a una visione critica e estrema, a una presa di
coscienza di limiti e potenzialità. Lo sguardo alienato è uno sguardo più lucido, che penetra in
profondità, che sradica ogni cosa dalle fondamenta; è come un lampo che, come scrive
Debenedetti, «illumina il temporale e risetta l’aria»49, permettendo di vedere con maggiore
chiarezza tutte le cose. L’esilio risorgimentale italiano non è quindi soltanto una tappa, per
quanto estremamente dolorosa e tragica, del processo storico unitario; è anche un’occasione per
48 F. VENTURI, L’Italia fuori d’Italia, [Storia d’Italia, vol. 3, Dal primo Settecento all’Unità], Torino, Einaudi, 1973.49 Cfr. G. DEBENEDETTI, Tommaseo. Quaderni inediti, Milano, Garzanti, 1973: riporto per intero la bellissima citazione che si trova a p. 200: «Il trauma dell’esilio, come sempre succede nelle situazioni traumatiche, di choc, denuda, profila nella loro fisionomia più pura, elementare, in una specie di evidenza scenica e spettacolosa, quelle forze interne e opposte, che nella vita quotidiana diluiscono il loro drammatico antagonismo in un malessere cronico, nel più minuto susseguirsi degli errori, delle scontentezze, d’ogni ora e d’ogni giorno. Il trauma è come il temporale che risetta l’aria per un momento, e lava gli aspetti, li illimpidisce; o meglio è, come nel fitto del temporale, lo scoccare del lampo; il quale, diceva Proust, fotografa; dà, in una luce che sembra sovrannaturale, la visione momentanea ma nettissima delle cose; in una chiarezza irrefutabile come non mai».
un’intera generazione di ridefinire il proprio statuto, di riflettere da una prospettiva nuova sulla
propria esistenza, sulla propria militanza di scrittori, sulla carriera professionale.
Il Novecento è segnato da molti esili senza ritorno, senza nessun progetto se non quello della
sopravvivenza; esili molto diversi quindi da quello risorgimentale, caratterizzato da una
progettualità politica e culturale di grande forza; penso alla tragica vicenda di Benjamin e a tutti
gli esili del nazismo e delle dittature da Brecht agli esuli argentini; penso a fughe da totalitarismi,
all’abbandono delle proprie radici e di una patria. Ma penso anche a esili come quello del
protagonista del dramma di Joyce, Exiles, per i quali lo straniamento significa il recupero di
un’integrità morale, di una prospettiva etica e intellettuale depurata da tutti i compromessi e gli
sviamenti che comporta necessariamente il rapporto con la propria realtà.
Tutte esperienze che, rielaborate, nella scrittura, alla luce della memoria di esili della tradizione
letteraria, passata al vaglio della sensibilità novecentesca, hanno dato origine a testi di grande
spessore gnomico, conoscitivo che hanno messo in relazione in modo nuovo l’esilio con il
problema della comunicazione linguistica e letteraria.
Cito per spiegare questo approccio alla scrittura dell’esilio, fra tanti che si potrebbero citare,
Joseph Brodski che ricorda nel suo discorso The condition we call Exile,50 che per uno scrittore
l'esilio è un evento linguistico, in quanto lo sradicamento conduce a una condizione in cui tutto
ciò che rimane all'uomo è se stesso e la propria lingua; l’esule è come proiettato nello spazio
all’interno di una capsula, dove la capsula è la lingua stessa, l’unica mediazione e difesa
dall’esterno. L'esilio priva l’uomo di tutti gli strumenti della comunicazione e di ogni
referenzialità, ma, nell’isolamento, conferisce un'intensità assoluta alla parola. L’esilio, il dolore
sembrano allora quasi intensificare la lucidità intellettuale dello scrittore che perde sì il suo
pubblico, la referenzialità del suo lavoro, ma acquista nuove potenzialità speculative. L’esule può
anche scegliere il silenzio, un silenzio eloquente come quello prospettato da Adorno nei Minima
moralia quando scrive che «non c’è più nemmeno il passato che possa sentirsi sicuro dal
presente, che torna a votarlo all’oblio nell’atto in cui lo rammenta»51: la lingua reificata e umiliata
nell’esilio annulla cioè la comunicazione anziché stabilirla.
Per gli esuli ottocenteschi invece, tesi alla realizzazione di un progetto ideale, la reazione sarà,
50 J. BRODSKI, The condition we call Exile, 1987, trad. it. Dell’esilio, a cura di G. Forti, Milano, Adelphi, 1988.51 T. W. ADORNO, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, 1951, trad. italiana, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Torino, Einaudi, 1954.
come vedremo, prevalentemente di segno diverso; sulla tentazione del silenzio prevale la volontà
di dire, l’orgoglio del dire, che significa il recupero della memoria linguistica e letteraria, ma che
è anche testimonianza di un’identità presente che si costruisce attraverso il confronto con un’idea
di nazione che affonda le sue radici nel passato, ma assume un significato militante, diventa
fonte viva e primaria di identità nazionale.
Le suggestioni novecentesche e l’approccio al problema della scrittura d’esilio considerata non
solo come testimonianza autobiografica o istanza di denuncia quale si è andata affermando nella
critica soprattutto di ambito anglosassone, mostrano quindi le potenzialità gnomiche e speculative
della scrittura d’esilio e permettono di indagare da una prospettiva diversa da quella più consueta
legata alla storiografia patriottica risorgimentale l’esperienza complessa e contraddittoria
dell’esilio ottocentesco, fondante per la cultura italiana e con la quale è utile confrontarsi proprio
per riflettere sul nodo cruciale, sul quale ci si interroga ancora oggi, della costruzione di
un’identità nazionale.
L’esilio risorgimentale è innanzitutto a ben vedere un’esperienza paradossale; nasce infatti
dall’abbandono di una patria che esiste solo come progetto e ideale, di una lingua (l’italiano) che
non viene parlata52 e di un dialetto che è esperienza personale, familiare, prevalentemente
affettiva; gli esuli diventano inoltre subito stranieri per la patria appena partiti perché non
conoscono le generazioni che sono cresciute dopo la loro partenza53 e sono stranieri anche al loro
ritorno (Straniero in patria è ad esempio il titolo di un saggio di Guglielminetti su Scalvini54)
perché si riconoscono maggiormente nell’esperienza professionale e umana vissuta all’estero
piuttosto che nella realtà del luogo di origine. Essi vengono riconosciuti come un gruppo unitario
sulla base di un’identità comune che è priva in realtà di riscontri concreti, se non quello
52 Si veda questa lettera di Scalvini a Tommaseo datata Gaesbeck, 2 settembre 1836, pubblicata in Scritti di Giovita Scalvini, ordinati per cura di Niccolò Tommaseo, Firenze, Le Monnier, 1860, p. 234: «Ho passato la prima giovinezza in Brescia, in Milano, in Bologna; e sapete che dialetti si parlino in quelle città; e non fui che pochi giorni in Toscana. Ed ora da quindici anni son fuori d’Italia. Voi, che tanti anni siete dimorato in Toscana, facilmente non perderete mai la purezza della lingua: ma chi non ebbe la vostra ventura, in paese straniero a poco a poco perde il retto intendimento di essa; non la può più accattare fuorché ne’ libri; ignora a poco a poco ciò che sia vivo e ciò che sia morto, e diviene o pedante o licenzioso. E questo è pure uno degli strali che saetta l’arco dell’esilio, checché ne dicano coloro che voi giustamente chiamate Cosacchi.»53 «Una nuova generazione è cresciuta che lui esule non conosce; una nuova generazione se non più o meno ardente di lui, educata di necessità a sentire e parlare e operare altrimenti....L’esule è già uno straniero», N. TOMMASEO, Della famiglia e della vita di Giovita Scalvini, in Scritti di Giovita Scalvini, cit., p. 222.54 Straniero in patria è appunto il titolo del saggio dedicata da M. GUGLIELMINETTI a Scalvini, in Lo straniero, a cura di M. Domenichelli e P. Fasano, Bulzoni, Roma, 1997, pp. 623-631.
linguistico e letterario o un progetto politico in corso di definizione. Questi aspetti particolari
mostrano come nel caso dell’esilio ottocentesco la memoria culturale (anticipo alcuni aspetti
approfonditi oltre) giochi un ruolo fondamentale, agisca più di ogni altra cosa come elemento di
raccordo e di riconoscimento; e questo spiega anche alcune caratteristiche dell’esilio
risorgimentale e della letteratura ad esso legata, spesso modulata su toni celebrativi e retorici, sul
recupero del passato e della storia. Ma questo spiega anche molte ambiguità e peculiarità
dell’esilio ottocentesco che si confronta con un’idea di Italia che si trascina in retaggi oscuri, che
si relaziona a esperienze complesse; il rapporto tra patria ideale e situazione reale, tra passato e
presente, il confronto tra diverse lingue e culture regionali, la relazione con immagini elaborate
dagli stranieri, spesso frutto di proiezioni letterarie del paese o di prospettive distorte.
Da questo punto di vista l’esperienza di Tommaseo è particolarmente interessante per
comprendere la natura problematica dell’esilio risorgimentale. Per Tommaseo si potrebbe anzi
utilizzare più che il termine esilio, polisemantico e variamente connotato in base a una tradizione
letteraria assai complessa, che comprende la prospettiva intimistica ovidiana, l’uso metaforico di
Petrarca, l’allegorismo cristiano e dantesco, il neologismo «dispatrio»55, più adatto a significare
l’appartenenza dello scrittore a più patrie, tra Oriente e Occidente. La condizione di Tommaseo
esule sui generis - «esule in casa mia, ma concittadino di più nazioni» come si ebbe a definire lui
stesso56 -, votato per la storia personale e per il contesto in cui visse al dispatrio, permette allo
scrittore di considerare, con uno sguardo estraniato e quindi più lucido, la stessa condizione di
esule, una condizione che si prospetta nella sua esperienza estremamente sfaccettata e della quale
ho considerato alcuni aspetti: l’ “esilio introvertito”, cioè il momento intimistico della scrittura
d’esilio che però in Tommaseo, come vedremo, interessa anche l’aspetto sociale e politico
dell’individuo-cittadino, nel quale si riflette un disegno provvidenzialistico cristiano; quindi, altro
aspetto, il rapporto tra esilio e memoria linguistica e letteraria in funzione della costruzione di
un’identità nazionale in un processo condiviso anche se con sfumature diverse con molti altri
esuli e infine, ultimo momento considerato, l’ “esilio pensato”, cioè il bilancio sull’esilio. Il
periodo preso in considerazione è il cosiddetto primo esilio francese57, dal momento che
55 Rinvio per l’uso di questo termine al contributo a due voci di F. SINOPOLI, M. TATTI, Migrazione ed esilio: dispatri reali e metaforici nelle letterature europee, in corso di stampa negli atti del convegno ADI Letteratura italiana e Letterature europee, tenutosi a Padova nel settembre 2002.56 Cfr. Mio testamento letterario, in N. TOMMASEO, Opere, a cura di M. Puppo, Firenze, Sansoni, 1968, t. II, p. 374.57 Su Tommaseo in Francia cfr. M. GASPARINI, Tommaseo e la Francia, Firenze, La Nuova Italia, 1940 e R.
all’interno di un’esperienza come quella di Tommaseo votata come abbiamo detto al dispatrio,
l’esilio degli anni ’34-’39 risponde (nonostante sia volontario), per luoghi, tipologia,
frequentazioni a una vera e propria esperienza di lontananza forzata dall’Italia.
«Esilio introvertito» e metafora biblica
Il primo componimento scritto da Tommaseo appena giunto in Francia dalla Toscana, Esilio
volontario ha suggerito a Giacomo Debenedetti l’espressione «esilio introvertito»58:
un’esperienza morale e intima che purifica l’uomo e gli conferisce una più alta dignità interiore.
Secondo Debenedetti la poesia dell’esilio di Tommaseo non è infatti indugio sul dolore della
lontananza dalla patria ma lamento per la propria fragilità personale, per una condizione
esistenziale tormentata; l’inno patriottico si trasforma così in una «elegia autobiografica»,
all’interno della quale l’Italia, identificata con una figura femminile, è qualcosa di arcano,
misterioso e sacro e l’esilio, in questo contesto, è una prova che permette allo scrittore di espiare i
suoi errori. L’incipit di Esilio volontario è infatti una parola fortemente connotata in senso
religioso come «risorgi»: «Risorgi, rinfranca / la possa smarrita / o anima stanca / conosci la
vita»59.
L’idea dell’esilio come purificazione («La vita sia monda, / la speme sia pura» sono altri versi del
componimento), declinata in senso morale, appartiene in primo luogo a una tradizione letteraria
importante, a partire ovviamente da Dante, un autore che significativamente Tommaseo studia
con passione e continuità proprio in questi anni (nel ’37 esce a Venezia il Commento a Dante),
fino a, per arrivare a esempi più vicini a Tommaseo, Victor Hugo, che esule nell’isola di Jersey
rivendica la facoltà di dire la verità come risarcimento perché il destino avverso conferisce
all’individuo la possibilità di esprimere una parola che proprio perché risuona in uno spazio
vuoto («ignudo» dice anche Tommaseo60), lontano da ogni finzione, coincide con la verità. Anche
CIAMPINI, Vita di Niccolò Tommaseo, Firenze, Sansoni, 1945. Sul cosiddetto «primo esilio» cfr. il recente saggio di M. CINI, L’esperienza dell’esilio in Niccolò Tommaseo, in Niccolò Tommaseo e Firenze, Atti del Convegno di studi, Firenze, 12-13 febbraio 1999, a cura di R. Turchi e A. Volpi, Firenze, Olschki, 2000, pp. 287-306. Fonti importanti per questo periodo sono, oltre al Diario intimo dello scrittore, i carteggi con gli amici soprattutto fiorentini: N. TOMMASEO e G. CAPPONI, Carteggio inedito dal 1833 al 1874, a cura di I. Del Lungo e P. Prunas, Bologna, Zanichelli, 1911; N. TOMMASEO e G.P. VIEUSSEUX, Carteggio inedito, a cura di R. Ciampini e P. Ciareanu, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1956; Il primo esilio di Niccolò Tommaseo, 1834-1839, lettere di lui a Cesare Cantù, Milano, Cogliati, 1904; N. TOMMASEO, Lettere inedite a Emilio de Tipaldo (1834-1835), a cura di R. Ciampini, Brescia, Morcelliana, 1953.58 Cfr. G.DEBENEDETTI, Tommaseo. Quaderni inediti, cit., in particolare le pp. 198-205.59 N. TOMMASEO, Poesie, in Opere, cit., vol. I, pp. 10-12.
in un’altra poesia scritta da Tommaseo durante l’esilio All’oriuolo della mia stanza (1836)61, tutta
condotta sulla metafora della vita come navigazione tempestosa dove l’unica ancora di salvezza è
la fede, l’approdo a Dio, l’esilio è condizione esistenziale di ricerca della verità e della salvezza e
le traversie sono una prova che l’esule «errante» deve affrontare, librandosi in questo modo al di
sopra della banalità e dei compromessi dell’esistenza, in una dimensione che le circostanze
tragiche rendono superiore e aliena da condizionamenti: «Noi sul mar delle cose alziam le vele, /
nàutili erranti per l’onda fedele»62. E si noti che i termini «erranti», «erranza» ritornano spesso in
Tommaseo e sono una sorta di corollario dell’esilio, declinato sia in senso letterario attraverso la
memoria bifronte di Petrarca e di Tasso, sia in senso esplicitamente religioso come metafora della
condizione del credente che percorre il suo cammino, sempre sottoposto alle tentazioni del
peccato e dello sviamento. Il significato del termine «esilio» sul quale quindi Tommaseo si
sofferma con maggior insistenza è quello biblico e provvidenziale, che nei versi finisce per
sovrapporsi al significato storico-biografico; non solo esilio è usato frequentemente con il
significato di vita terrena contrapposta a quella vera, eterna, ma viene stabilita una
corrispondenza tra la dura prova della lontananza da casa, della solitudine e dell’abbandono, tra
l’esilio storicamente determinato e l’esilio come condizione esistenziale, prova che il credente
sconta per purificarsi ed essere degno di avvicinarsi a Dio. Nella poesia Libertà a un fuoriuscito,
si contrappone «l’inglorioso esiglio», inteso come esperienza quotidiana, reale, storica, connotata
in senso negativo, alle «tempeste» che «rifan più puro» lo spirito, che alimentano la fede; e
anche in Esilio volontario è presente un’ambiguità ricercata tra il significato reale di esule e
quello invece metaforico-biblico; l’esule è un «pellegrino», il pensiero della patria ha connotati
sacrali, tutto il discorso assume un rilievo più esistenziale-meditativo-religioso che storico-
cronachistico. E nell’ultima strofa si ammonisce il cieco che «travia dal suo corso» a ravvedersi
nel dolore: l’esule, il reietto, il «cieco» non deve abbandonare, nonostante e anzi proprio grazie
alle sventure, la retta via, la strada della redenzione e della salvezza cristiana.
L’esule puro può così ambire a una conoscenza più autentica, priva di compromessi. «Conosci la
vita» scrive Tommaseo in Esilio volontario ed è un motto programmatico che si può interpretare
sicuramente con Debenedetti in chiave psicologica, intimistica (Debenedetti distingue tra la 60 «E voi che le chiavi / del tempo tenete, / memorie soavi / di gioie segrete, / di taciti studi, / di quete virtudi, / di pianto e d’amor, // con l’ali librate / copritemi, e scudo / e verga deh siate / al povero ignudo, / che va pellegrino, / e il proprio destino, / andando, non sa», ivi, p. 12. 61 Poesie, in Opere, vol. 1, pp. 80-81.62 Ivi, p. 80.
letteratura «militante» dell’esilio risorgimentale tesa a «fomentare la rivolta»63 contro l’Austria e i
governi responsabili dell’asservimento della nazione e la poesia dell’esilio di Tommaseo che
rielabora in chiave intimistica, morale e soprattutto religiosa l’esperienza di sradicamento più
ricercata che subita), ma che rinvia anche a una considerazione dell’esperienza dell’esilio per le
sue potenzialità speculative, potenzialità che riguardano, e non potrebbe essere altrimenti visto il
contesto, non solo l’individuo ma l’esule in quanto cittadino che investe nel progetto politico la
propria integrità morale (e vanno d’altronde in questa stessa direzione i versi scritti in questo
stesso periodo all’inizio del soggiorno in Francia dedicati a tematiche esistenziali L’uomo,
L’umanità, Il tempo: nell’ultima si ribadisce la natura formativa dell’esperienza dell’esilio, del
dolore e dello straniamento «Nell’ira villana, nel vile periglio, / nell’esule patria, nel libero
esiglio, / ne’ dubbi, nel sangue, s’impara ad amar»). Tommaseo rielabora l’esperienza dell’esilio
in chiave biblico-letteraria, ma spende tale integrità così acquisita in chiave etico-politica; l’esule-
Tommaseo è insomma un uomo che grazie a esperienze e prove acquisisce una forte dignità
morale ed è nello stesso tempo un cittadino più degno, che può ambire a intervenire nel disegno
storico della costruzione dell’Italia; da una lontananza che purifica e forte di un’esperienza che
annulla la natura eterodossa della sua identità italiana, l’autore dei libri Dell’Italia poteva
presentarsi così al suo pubblico con la maschera del profeta, reso sacro dalla recente esperienza
volontaria e riscattato in questo modo dal contraddittorio tormento esistenziale.
L’integrità sacrale dell’esule, così faticosamente costruita tra indugi intimistici e istanze militanti,
è spesa da Tommaseo nel periodo del soggiorno francese nella febbrile attività letteraria e
giornalistica per riempire di contenuti il progetto ideale e, come abbiamo visto, animato da una
spinta volontaristica (tutto anzi sembra avvenire sotto il segno della volontà, anche lo stesso esilio
«volontario») di costruzione di un’identità nazionale italiana, un progetto che appare tuttavia nel
contrasto tra la forza della proiezione ideale, l’intensa spiritualità religiosa, le difficoltà del
presente, qualcosa di indefinito e misterioso che lo stesso Tommaseo, appena giunto in Francia,
definisce un «tremendo mistero»: «D’Italia il pensiero – tremendo mistero – tien sempre nel
cuor». Questo «tremendo mistero» del pensiero dell’Italia, anche se espressione non priva di un
certo compiacimento letterario, rinvia a un significato oscuro, evoca una forza arcana e mistica,
richiama la prospettiva tutta romantica di una frattura, di qualcosa di inconoscibile e doloroso; si
distanzia nettamente da rievocazioni celebrative e retoriche e si ricollega a un significato di
63 G.DEBENEDETTI, Tommaseo. Quaderni inediti, cit., p. 200
patria che è nello stesso tempo politico e religioso.
Ma cerchiamo di sviscerare alcuni motivi di questo «mistero», che è indubbiamente il
riconoscimento di una “italianità” che emerge dal trauma dell’esilio, da una situazione quindi di
privazione e dolore che però attiva, come tutte le esperienze di straniamento, una conoscenza più
intensa e profonda, ma che è anche un’indagine sulla propria identità di scrittore e uomo di
cultura, di poeta e letterato, e di esule, sottoposto a una prova che prima di essere politica è
soprattutto morale.
L’Italia dell’esule Tommaseo: identità linguistica e memoria letteraria
Il primo tassello di questo mosaico composito tra italianità e esilio riguarda la lingua: per uno
scrittore essere sradicato dal proprio contesto linguistico significa perdere ogni identità.
In Tommaseo la reazione a questa sottrazione come è noto è molto accesa sia per quanto riguarda
la riflessione teorica sulla lingua e sui rapporti tra lingua e scrittura in una situazione di
lontananza forzata dalla patria, (e ci sono molte testimonianze sulla consapevolezza della gravità
di questa sottrazione) sia per quanto riguarda la difesa dell’italiano di fronte al francese. La
posizione dello scrittore è tanto più significativa in quanto la sua identità italiana è prima di tutto
e in modo più esclusivo rispetto ad altri esuli che hanno riferimenti anche affettivi e familiari,
un’identità linguistico-letteraria .
La reazione di Tommaseo è per questo particolarmente aggressiva: nella prefazione alle Relations
des ambassadeurs vénitiens sur les affaires de France au XVI siècle , scritte in francese su
richiesta dell’editore per motivi commerciali64, Tommaseo drammatizza in toni enfatici la scelta
obbligata di abbandonare l’italiano: «Sous le poids d’une langue qui n’est pas la langue de mes
pensées je sens mon esprit chanceler et ma volonté défaillir». Di fronte a questa scelta obbligata
Tommaseo organizza una resistenza, che è tanto più agguerrita quanto più mette in gioco la sua
stessa identità di scrittore, intellettuale e cittadino. Sono notissimi gli appunti del Diario intimo
relativi alla cronaca delle giornate francesi: «Parlo italiano con dodici italiani e un francese» o
«Parlo italiano con otto italiani e tre portoghesi»65, che sottolineano con caparbietà la volontà
dello scrittore di mantenere assoluta fedeltà alla lingua. In alcune bellissime lettere a Cristina di
64 Relations des ambassadeurs vénitiens recueillies et traduites parM. Niccolò Tommaseo, Paris, Imprimerie Royale, 1838, 2 voll. 65 N. TOMMASEO, Diario intimo, in Opere, cit., vol. 2, p. 731.
Belgiojoso Tommaseo invitava la principessa a non trascurare la lingua materna, proprio come
difesa della propria identità, come ricchezza individuale; la rimproverava perché la Cristina
sceglieva per questioni di opportunità, di comodità e di uso, il francese; e questo per Tommaseo
era inaccettabile perché implicava una perdita di identità, un’omologazione pericolosa66. Ma sono
solo alcuni esempi tra tanti che si potrebbero riportare.
Se Tommaseo reagisce con tale intensità è perché egli comprende (e in questo la sua osservazione
concorda con quella di tanti esuli soprattutto novecenteschi) come la mancanza della lingua
comporti una diminuzione dell’integrità dell’individuo, che obbligato a tradurre le proprie idee
diventa «minor di se stesso»67. Egli non si limita quindi a sostenere gli argomenti tipici
dell’annosa querelle tra la cultura italiana e la cultura francese, ma utilizza le proprie competenze
filologiche, erudite, la propria passione per gli studi e per i libri, per una polemica capillare e
insidiosa che si differenzia dalla consuetudine giornalistico-pamphlettistica ben radicata
nell’ambiente degli esuli; inoltre nella polemica contro la Francia68 interviene anche un forte
presupposto morale, teso a sconfessare la tradizione laica-rivoluzionaria della recente storia
francese, a fronte di una linea forte cattolica Dante-Manzoni attorno alla quale viene invece
ricostruita la tradizione dell’Italia.
L’astio per il francese, un mito negativo in parte poi ritrattato nel Testamento letterario69, se
esaminato nel complesso della riflessione di Tommaseo si configura non come gretta e sterile
66 Sul carteggio di Cristina di Belgiojoso con vari letterati italiani (tra cui Tommaseo) e francesi rinvio al mio lavoro M. TATTI, La scrittura epistolare di Cristina di Belgiojoso e le lettere inedite a Jules Mohl (1835-1868 ), in «Franco-italica», 1998, XIII, pp. 63-157. 67 «E quando m’ apparvero gl’ignudi massi della terra francese, irradiati ancora da un sole italiano; e quando l’accento francese mi spirò intorno all’anima quasi nuovo ambiente, e sentii la tediosa necessità di tradurre le mie idee, conobbi allora quanto sia facile ad un uomo che vive in terra straniera diventare minore di se stesso», N. TOMMASEO, Memorie poetiche, in Opere, cit., p. 316.68. Cfr. anche N. TOMMASEO, Considerazioni storiche sulla Francia, a cura di P. Misciarelli, in «Nuova Antologia», 1936, CCCV, pp. 276-284 (si tratta di alcuni aforismi che dovevano essere pubblicati come prefazione all'edizione delle Relations des ambassadeurs vénitiens, ma che furono censurati dallo storico Mignet); ID., Pensieri sulla Rivoluzione francese, a cura di R. Ciampini, in «Convivium», 1939, XI, pp. 121-132. Riflessioni generali sulla Francia si trovano anche in ID., Colloqui col Manzoni, in Opere, cit., vol. 2, pp. 511-640.69 «Dell’Italia in assai luoghi già dissi come gli amici di libertà le preparassero servitù nuove, e additai quelle che a me parevano di vera libertà le vie vere. Allorché quasi dappertutto seguivansi i modi e i pensari e il linguaggio di Francia, io, per isvogliarne gl’Italiani, dissi parole severe di quella gente, troppo severe; ma non le dettava né odio né astio; perché io da’ Francesi non ebbi se non favori, e le poche mie qualità furono con più indulgenza giudicate da loro che dagl’Italiani», N. TOMMASEO, Mio testamento letterario, in Opere, cit., vol. 2, p. 372.
difesa di un’idea astratta di primato ma come rifiuto della «cieca imitazione»70 in nome di un’idea
di cultura che non può essere scissa da un progetto morale e religioso che affonda le radici nella
storia e nella memoria. Sono la superficialità e l’uso strumentale dell’imitazione, l’omologazione
coatta che sconcertano Tommaseo, unite ovviamente alla volontà di difendere attraverso gli
strumenti in suo possesso l’identità italiana.
Ma cosa è Italia per lo scrittore in questo momento?
Il sentimento di italianità, tutto sommato recente per Tommaseo nel 183471, nasce in primo luogo
dal riconoscimento della tradizione linguistico-letteraria ed artistica e si riveste solo in un
secondo tempo, con la frequentazione degli amici fiorentini dell’«Antologia», di istanze anche
civili e politiche. In questo contesto l’esilio accelera la scelta di militanza patriottica, che ha il
primo significativo tassello nelle vibranti parole del Dell’Italia, e nello stesso tempo radicalizza
la coscienza di un’identità “italiana” che assume, tra proiezioni ideali e spirituali e confronto con
la situazione reale, significati aperti, per nulla lineari.
Alla fine dell’esilio, dopo la frequentazione dell’ambiente degli esuli italiani in Francia,
l’impegno per la difesa della cultura italiana e la militanza giornalistica, l’Italia, recuperata dalla
memoria e fatta propria attraverso la recente esperienza, si configura per Tommaseo come
un’entità più definita e reale, è una “sorella” che si identifica con una prospettiva spirituale
religiosa e con la tradizione artistico-letteraria: «Italia mia vedrò, l’amata e pianta / del pensier
mio sorella: i templi antichi / vedrò, dov’io pregai soletto a sera; / vedrò le tele e i marmi, onde la
prima / mi spirò intorno al core aura del bello»72.
Ma all’inizio dell’esilio l’Italia è un’entità da costruire, è ancora un «tremendo mistero», oppure,
con espressione più letteraria, «un sogno malinconico»: «Lasciai l’Italia. Il vapore che mi portava
lontano da Genova risospingeva il mio pensiero all’Italia fuggente: e le persone e i luoghi sacri a
me ch’io lasciavo forse per sempre, mi tornavano innanzi non come acuto tormento ma come
sogno malinconico»73. L’Italia, ed è un topos dell’immagine letteraria dell’Italia, è pensata come
qualcosa di lontano nel tempo, recuperato da un passato mitico, è un «sogno malinconico»
ammantato da un’aura sacrale74. E’ un mistero che arriva dal passato, da una lunga storia di attese
e rimpianti (da quel grido «Italiam Italiam» che gli esuli troiani, nell’Eneide, pronunciano alla 70 Ivi, p. 373.71 Cfr. F. BRUNI, Postfazione a N. TOMMASEO, Dell’Italia, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2003.72 A Stefano Conti di Ajaccio, in N. TOMMASEO, Opere, cit., vol. 1, pp. 20-22.73 ID., Memorie poetiche, in Opere, cit., vol. 2, p. 316.
vista delle coste della penisola alla base di tante rievocazioni del paese, alla celebre invettiva
dantesca del VI del Purgatorio - «Ahi serva Italia» -, alla canzone All’Italia di Petrarca fino ai
componimenti dei patrioti ottocenteschi); e un mistero che per Tommaseo implica anche il
confronto con identità diverse (dalmata, veneziana , italiana) e con un proprio personale percorso
di acquisizione di un’identità linguistico-letteraria, civile, politica e solo in parte affettiva.
Per dare corpo a questo sogno, per conciliare rievocazione letteraria e impegno morale e uscire
dai confini di un’introversione che potrebbe trasformarsi in malattia morale, Tommaseo si
impegna, come la maggior parte degli esuli, in un lavoro di diffusione della cultura italiana. E’
questo il primo passo utile a definire in modo non astratto l’idea di Italia, la prima tappa
dell’esilio verso l’elaborazione di un’identità italiana.
Sull’intenso lavoro editoriale di divulgazione di testi della cultura italiana, scrittura di
grammatiche e dizionari, insegnamento, molte ricerche sono ancora da compiere e molti ambiti,
dal giornalismo letterario alla pubblicistica di ambito teatrale, dalla produzione di romanzi e
libretti d’opera alle traduzioni, sono ancora da esplorare75. Alla base di questi lavori esiste
sicuramente la necessità di guadagno, favorita dallo sviluppo del mercato editoriale nei paesi
europei nei quali gli esuli vivono. Tuttavia questo non basta a spiegare l’intensità e soprattutto la
natura, i contenuti di questa produzione, compresa quella giornalistica, sempre oscillante tra
politica e letteratura.
Alla base di molte iniziative culturali e editoriali degli esuli c’è la volontà di memoria, funzionale
alla tutela di una identità italiana per la quale la memoria è ovviamente fondamentale. Tommaseo
ad esempio ribadisce più volte nei suoi scritti l’importanza del genere letterario della biografia e
l’importanza della storia76, riprendendo quasi l’invito di Foscolo della Prolusione pavese
(«Italiani, io vi esorto alle storie») e scrive nei libri del Dell’Italia, in un capitolo intitolato
74 Non a caso i primi mesi dell’esilio sono dedicati al commento a Dante, nella lode del quale (il «poeta sommo», «l’uomo che...dopo i profeti, fu innanzi a tutti poeta») si chiudono le contemporanee Memorie poetiche, cit., p. 364.75 Per alcune indicazioni su questo ambito di ricerca rinvio ai miei lavori M. TATTI, Le tempeste della vita. La letteratura degli esuli italiani in Francia nel 1799, Paris, Champion, 1999 e Bohème letteraria italiana a Parigi all’inizio dell’Ottocento, in Italia e Italie. Immagini tra Rivoluzione e Restaurazione, a cura di M. Tatti, «Studi (e testi) italiani», 1999, III, pp. 139-160.76 «Nella storia veggendo fonte inesauribile di poema (perché la storia è indivisa dalla religione, così come il passato contiene in sé l’avvenire)...»; «La storia, come per istinto, io cercavo e trovavo per tutto; e quella mi pareva più schietta e fedele che è riposta ne’ libri i quali non sono di proposito storici, come opere letterarie, lettere familiari, commedie, e ogni scritto che parla di tutt’altra cosa», N. TOMMASEO, Mio testamento letterario, cit., p. 349 e 375.
Letteratura: «Dire ai letterati italiani: scrivete per il popolo; commentate la storia in romanzo, in
dramma, in dialogo; conditela in mille modi, poi ministratela così com’è, perché nulla potreste
voi mai crear di migliore, e la storia contiene tutte le verità più efficaci e le meno vietate in
governo di despoti»77. Non è un caso che il genere della biografia sia stato ampiamente praticato
dagli esuli: si pensi a Giuseppe Pecchio che scrive la Vita di Ugo Foscolo, a Camillo Ugoni che,
oltre a scrivere a sua volta la vita di Pecchio78, raccoglie testimonianze per la vita di Alfieri, di
Casti e di tutti gli italiani che erano in Francia e scrive la vita di Francesco Milizia 79, fino allo
stesso Tommaseo che negli anni successivi scriverà la vita di Scalvini pubblicando i suoi scritti.
Ma non c’è solo un desiderio di memoria, di recupero di eventi storici e di rivendicazione di un
primato artistico e letterario, secondo un percorso tutto sommato consueto nella cultura
risorgimentale; esiste, da parte di Tommaseo sicuramente, ma anche di altri esuli, un progetto
preciso, militante, di costruzione di un’identità che si alimenta certamente di memoria
linguistico-letteraria ma anche di uno sforzo volontaristico per rendere vitali questi tasselli, per
inserirli in una disegno non solo politico ma morale. Nel trattato Dell’Italia, pubblicato non a
caso sotto il segno moralistico del Savonarola, c’è un paragrafo, compreso nel libro quinto
Rimedii, dedicato ai letterati, nel quale Tommaseo invita questi ultimi proprio a considerare
l’importanza della volontà e della ragione per ricondurre la letteratura a un nuovo ordine80.
In questo senso va intesa la polemica di Tommaseo contro la Francia, che non è la consueta
rivendicazione di un primato, ma è un’altra tappa per la definizione, questa volta per via
oppositiva, di un’identità italiana, di una linea italiana che si oppone a quella francese dominante
nel quadro europeo. Una linea che è linguistico-letteraria sicuramente, ma soprattutto morale; su
questa contrapposizione tra un’Italia cristiana e animata da uno spirito etico e una Francia laica
rivoluzionaria e immorale, insistono infatti tutti gli scritti di Tommaseo, non solo articoli di
giornali, lettere, scritture autobiografiche, ma anche l’anti-romanzo intimistico e lirico Fede e 77 ID., Dell’Italia, cit., Parte II, p. 134.78 C. UGONI, Vita e scritti di Giuseppe Pecchio, Parigi, Baudry, 1836.79 Lettere di Francesco Milizia al conte Francesco di Sangiovanni ora per la prima volta pubblicate, Parigi, presso Giulio Renouard, 1827 (contengono delle Notizie intorno alla vita e agli scritti di Francesco Milizia).80 «Ne’ tempi quando l’ispirazione predomina, quest’opera (un nuovo ordine del sapere umano n.d.r.) si fa da ciascuno uomo per istinto; e i lavori dello scrittore e dell’artista cospirano, senz’avvedersene, al fine a cui tutta la generazione cammina. Ne’ tempi quando il sentimento è occupato dal raziocinio, e talvolta soggiogato da quello, non è danno cercare razionalmente siffatta verità; e per tutte le vie ricondurre ad essa gl’ingegni traviati o esitanti», N. TOMMASEO, Dell’Italia, cit., Parte II, p. 135.
bellezza, nel quale moralità, etica, integrità stanno tutti dalla parte italiana mentre la civiltà
francese è sinonimo di corruzione e degrado.
Nei Pensieri sulla Rivoluzione di Francia, tutta la storia francese viene vista come un progressivo
percorso verso la decadenza e la rovina; nell'epoca contemporanea, figlia della Rivoluzione,
proiettata verso un percorso di rovina e disfacimento, si possono vedere tutti i fermenti e le idee
distruttive «sordamente accolte per via sotterranea, scoppiare in Francia, quasi per aperto cratere,
e su tutta Europa versarsi od in fumo tetro o in minacciosa favilla»81. Ben lontana dall'essere un
faro di civiltà, la Francia, laica e rivoluzionaria, rappresenta per Tommaseo il culmine della
decadenza: «Dagli uomini, dalle idee, dalle istituzioni di Francia nulla è da sperare di bene:
credetelo»82; «La Francia va a rotoli e guai a chi s'appoggia a questa canna spezzata»83 scriveva a
Cesare Cantù, dopo averlo più volte dissuaso dal proposito di recarsi a Parigi e in una lettera a
Gino Capponi, quasi a corollario di tanti giudizi sulla Francia, Tommaseo ripeteva che a Parigi
gli piaceva chiudersi in camera ed «esiliarsi di Francia»84.
L’identità italiana si costruisce quindi per Tommaseo,attraverso la memoria linguistico-letteraria,
nella contrappozione culturale e etica alla Francia, e infine come entità autonoma ma inscindibile
dalla nazione europea. Il confronto con l’Europa è infatti un momento fondamentale per la
definizione di un’identità italiana.
All’Europa significativamente è dedicato il primo capitolo del trattato Dell’Italia85 che inizia con
queste parole: «Senza la libertà, senza la pace d’Italia, non avranno i popoli che la circondano
libertà piena né pace onorata»86. Italia e Europa hanno una storia comune e si definiscono nel loro
rapporto reciproco; «l’eredità della memoria» è fondamentale per uno sviluppo etico e sensato,
81. ID., Dell'Italia, cit., Parte I, p. 4.82. Il primo esilio di Nicolò Tommaseo, cit., p. 6.83. Ivi, p. 115.84. Lettera a Gino Capponi, in N. TOMMASEO E G. CAPPONI, Carteggio inedito dal 1833 al 1874, cit., vol. I, p. 113. Sempre in una lettera a Capponi, Tommaseo ironizzava sull'ospitalità francese, costruendo un curioso gioco di parole. Per un'iscrizione su una moneta con l'effige di Dante offerta dal direttore Pescantini ai lettori dell'Esule, Tommaseo propone l'iscrizione ambigua «Ai francesi ospitabili» invece di «ospitali», giocando sull'uso ambiguo di «ospitabili» sostantivo o aggettivo e concludeva ironicamente: «Insomma: esule, lotto, Francia, quattrini, Pescantini, Dante: bellissima associazione di idee»: N. TOMMASEO e G. CAPPONI, Carteggio inedito, cit. vol. I, p. 213-4.85 La prima edizione di Dell'Italia uscì a Parigi nel 1835 col titolo Opuscoli di Girolamo Savonarola; sulle circostanze della stesura del trattato si veda ora la postfazione di F. Bruni alla recente ristampa anastatica dell’edizione del 1920-1921, cit., pp. 3-28.86 Ivi, p. 3.
che si oppone al degrado e all’anarchia che minacciano l’Europa stessa e quando Tommaseo
nelle Memorie poetiche87 trascrive il manifesto programmatico di una raccolta poi non realizzata
di opere della letteratura italiana, definisce tale raccolta come «un frammento della istoria
generale dell’europea civiltà». Italia e Europa sono quindi associate in virtù di una memoria
comune, di una comune eredità culturale che si definisce all’interno di un umanesimo cristiano
per il quale storia, religione e cultura sono inscindibili.
Da qui l’importanza dell’educazione per superare il degrado politico che è prima di tutto
religioso, filosofico e morale; l’educazione permette di salvare la memoria culturale senza la
quale è impossibile la costruzione di alcun progetto unitario e di alcuna convivenza pacifica.
Tommaseo mostra quindi, anche nelle riflessioni del Dell’Italia spesso polemiche e
tendenzialmente enciclopediche nel loro tentativo di definire a tutto campo le condizioni del
futuro stato italiano, una vocazione unitaria umanistica di grande respiro, una considerazione del
problema nazionale articolata e mai scissa da un più ampio contesto europeo e mediterraneo che
per Tommaseo è non solo riferimento storico ma anche vicenda personale. L’esilio costituisce
quindi in questo contesto un osservatorio di grande modernità sulla storia contemporanea e sui
significati da attribuire a patria, nazione, Italia, Europa.
L’ «esilio pensato»
Ma c’è un’appendice a questo discorso sul dispatrio, un’ulteriore riflessione sull’esilio che si
conferma una condizione sacrale e di purezza, grazie alla quale l’uomo, e in particolare il
cittadino, può dire la verità e può assumersi delle responsabilità civili.
Nel componimento che Tommaseo scrive in Corsica, prima di tornare in Italia, l’esilio è
confermato occasione di crescita intellettuale e morale: «La terra d’esilio avrà gran parte / de’
miei pensier; che nell’esilio crebbe / l’anima pellegrina: e sa d’amaro, / ma nutre forte il pan della
sventura»88. Nella stessa poesia (v. 79) egli definisce se stesso un «poeta errante», dove è chiaro il
riferimento a un’erranza, fortemente connotata dal punto di vista letterario, che non è solo
geografica ma essenzialmente metaforica e morale ed è quindi un elemento positivo che
sottintende una dimensione continua di ricerca, di dubbio, e quindi di crescita, attraverso quello
che con linguaggio biblico viene definito «il pane della sventura».
Ma sull’esilio, oltre alle testimonianze analizzate, esiste anche un documento interessante che è il 87 N. TOMMASEO, Memorie poetiche, cit. p. 296.88 A Stefano Conti d’Ajaccio, vv. 33-36, in Opere, vol. 1, p. 20.
commento agli Scritti di Giovita Scalvini raccolti da Tommaseo nel 186089. Scalvini aveva
affidato a Tommaseo i suoi scritti, tra cui dei quaderni di appunti non datati scritti dal 1808 alla
morte, che Tommaseo pubblica dividendoli per ambiti tematici; uno di questi è dedicato
all’esilio. L’edizione è corredata da una biografia dettagliata di Scalvini e da osservazioni scritte
da Tommaseo che riguardano l’esperienza politica e soprattutto esistenziale dell’amico; si
trattava di un omaggio a una memoria postuma che rientra nella consuetudine risorgimentale di
celebrare la memoria dei patrioti, di recuperare la storia dei singoli, spesso segnata dal sacrificio
personale e dalla dedizione, anche tragica, alla causa italiana. Lo scrittore parla in questa
occasione dell’esilio in generale e lo considera dal punto di vista del «rimpatrio», del ritorno a
casa, un ritorno che è stato tragico per Scalvini così come per molti altri perché contrariamente
alle aspettative inaugura una nuova fase di esclusione, ancora più drammatica perché avviene in
patria. L’esule che torna dopo tanti anni di lontananza non ritrova ciò che ha lasciato non solo da
un punto di vista familiare e affettivo, ma anche da un punto di vista politico e sociale; egli
diventa presto un escluso perché la sua esperienza è dimenticata e non è riconosciuta dalle nuove
generazioni90; la lingua in particolare è un segno esplicito di sconfitta e esclusione, doppiamente
sottratta all’esule, al momento dell’esilio e al momento del ritorno quando egli si accorge che
nella sua assenza «certe idee e parole, già fresche di giovanezza, invecchiarono; altre, già segreto
di pochi, diventarono trite e triviali o per ripetizione stolida o per peggior abuso»91.
Nella mente dell’esule si affollano oscurità, confusione di giudizio; la fine dell’esilio «può essere
cominciamento di prova più amara»92; non esiste insomma alcun risarcimento per l’esule che
dopo essersi sacrificato per la patria vive una nuova stagione di esclusione e isolamento, ancora
più tragica perché avviene in patria. Tommaseo scrive esplicitamente di voler presentare
l’esperienza di Scalvini accompagnata da meditazioni sull’esilio a vantaggio di «coloro stessi che
si trovano esuli tuttavia dall’Italia nel bel mezzo d’Italia, e che, per onorata e consolata che
abbiano la vita, non riposano sopra un letto di fiori, né possono guarentire a sé stessi che la patria
riacquistata non faccia ad essi un giorno desiderare amaramente l’esilio»93. E’ insomma una sorta 89Scritti di Giovita Scalvini ordinati per cura di Niccolò Tommaseo, cit.90 «Altra sventura a lui toccò, e non a lui solo; e anco questa è una delle moralità del presente libro, propria a non molti, ma forse più dolorosa a chi tocca: che nell’esiglio lungo tra genti di sentire e di abiti troppo diversi, gli si indebolì per quasi invincibile necessità il sentimento di quelle cose tra le quali egli era stato allevato», ivi, p. XV.91 Ivi, p. 225.92 Ivi, p. 221.93 Ivi, p. 219.
di monito al disincanto, una desacralizzazione dell’esilio come esperienza storica e politica,
legata, nonostante l’enfasi e la retorica patriottica, a una brevissima stagione presto cancellata
dalla storia.
Tommaseo insiste quindi ancora a distanza di anni sulla natura non eroica e drammatica
dell’esilio, che va considerato quindi senza alcuna retorica patriottica; l’esilio va considerata
un’esperienza soprattutto morale e intellettuale; quella dell’esule è essenzialmente una maschera
di integrità e purezza che lo scrittore indossa e costruisce per poter dire la verità e diventare il
portavoce riconosciuto dei patrioti italiani.
Direi anzi che Tommaseo compie una contaminazione tra significati e esperienze diverse: da un
lato nella sua scrittura egli utilizza il significato letterale di esilio, cioè di lontananza dalla patria
per motivi di libertà politica, che lo riguarda in prima persona e che è all’origine di tanta
produzione anche poetica redatta su toni patetico-nostalgici o di denuncia; dall’altro però su
questo dato biografico si inseriscono altri significati metaforici, sicuramente desunti in parte dalla
tradizione letteraria (da Cicerone a Seneca al già ricordato Dante), che rinviano ad identità
diverse: l’esule puro, sacro, profeta (nei libri di Dell’Italia), assorto nell’orgoglio per la sua
integrità etica e morale, assume maschere che lo liberano da ogni contingenza, sono anche
paradossali (il paradosso è espatriarsi per poter parlare rettamente della patria) ma diventano
necessarie nell’opera dell’autore che alla fine della sua carriera letteraria e politica può definirsi,
nel Testamento letterario, con un uso spregiudicato del termine, «esule in casa mia»94, dove
l’espressione è intesa come sinonimo di «concittadino di più nazioni», a sottolineare le
potenzialità dello sguardo deviato che si arricchisce proprio nella pluralità di prospettive.
94 N. TOMMASEO, Mio testamento letterario, in Opere, cit., vol. II, p. 374.