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•IL ROBOT INDUSTRIALE - caratteristiche tecniche ed applicazioni operative• Dott. Lotti Nevio www.lvproject.com 1 1. ORIGINI E SVILUPPI DELLA ROBOTICA INDUSTRIALE. Il termine robot deriva dal cecoslovacco robotnik, che letteralmente significa lavoratore forzato o schiavo o servo, e possiede un’origine letteraria e fantastica: esso fu introdotto e usato per la prima volta nel 1921, dallo scrittore e drammaturgo cecoslovacco Karel Capek nel suo dramma fantascientifico R.U.R. – Rossum’s Universal Robots (I Robot Universali della Rossum). Nell’opera di Capek, la società Rossum produce uomini e donne artificiali da utilizzare come lavoratori. Ciò comporta l’esclusione di attributi umani inutili come sentimenti ed emozioni; tutto ciò che rimane loro è la capacità di lavorare. I robot sono venduti dalla Rossum come lavoratori versatili, e a tempo debito sono usati come soldati in guerra. Poi un associato della Rossum trova il modo di introdurre nei robot dolore ed emozioni, finendo col porre le basi per una ribellione da parte degli androidi con conseguente distruzione del genere umano. Ma è tra la fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’60 che inizia la vera storia dei robot, e che questo termine abbandona una accezione letteraria e fantascientifica per assumerne una tecnica ed industriale. Il primo robot industriale fu prodotto dalla società statunitense Unimation Inc.: questa azienda realizzò nel 1959 un prototipo funzionante, e installò nel 1961 il primo robot presso gli impianti della General Motors per il trattamento di parti realizzate in pressofusione al fine di sostituire l’uomo in questo pericoloso ed insalubre lavoro (esposizione ad elevate temperature, rischio di essere colpiti da spruzzi bollenti di metallo fuso, inalazione di fumi nocivi). Il compito di questo robot, denominato Unimate, era appunto quello di assistere una macchina per la pressofusione, estrarne i getti di metallo ad altissima temperatura ed immergerli in un bagno d’acqua per farli raffreddare. Pochi anni dopo la stessa Unimation realizzò un robot capace di eseguire saldature a punti nelle carrozzerie delle automobili. Nel 1966 la Trallfa, azienda norvegese produttrice di apparati per la meccanizzazione in agricoltura, non riuscendo a reperire manodopera per la verniciatura a spruzzo delle proprie macchine, sviluppò un manipolatore in grado di eseguire automaticamente tale operazione, che venne poi prodotto in molti esemplari e commercializzato con successo. Il primo robot italiano fu invece realizzato nel 1969 dalla DEA: si trattava di una macchina per la saldatura a punti. Nel 1973 la Olivetti costruì, per uso interno, un sistema di montaggio a più bracci, nel quale vennero utilizzati per la prima volta dei sensori tattili. Era il prototipo del modello che sarebbe stato commercializzato a partire dal 1976 con il nome di SIGMA. Il SIGMA rappresenta una delle prime applicazioni della robotica nelle operazioni di assemblaggio. Nel 1974 la svedese Asea iniziò a commercializzare il robot IRb6 ad attuazione elettrica. Sempre nel 1974 la produzione dei robot si estese al Giappone, inizialmente ad opera della Kawasaki Heavy Industries -su licenza della Unimation- , che installò nei propri impianti macchine per la saldatura ad arco di telai di motociclette. A metà degli anni ’70 entrarono nell’industria robotica grandi aziende, come le statunitensi Cincinnati Milacron, Adept, IBM, AMF, la francese ACMA- Renault, l’italiana COMAU-Fiat, le tedesche Kuka e Volkswagen, le nipponiche Fanuc, Yaskawa, Seiko. Nel 1974 la Cincinnati Milacron produsse il T-3 (The Tomorrow Tool, cioè La Macchina del Domani), un robot molto sofisticato, capace

1. ORIGINI E SVILUPPI DELLA ROBOTICA … · Nel 1982 la statunitense IBM realizzò il robot cartesiano RS-1 per l’assemblaggio di parti. Per tutti gli anni ’80 si assiste alla

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1. ORIGINI E SVILUPPI DELLA ROBOTICA INDUSTRIALE. Il termine robot deriva dal cecoslovacco robotnik, che letteralmente significa lavoratore forzato o schiavo o servo, e possiede un’origine letteraria e fantastica: esso fu introdotto e usato per la prima volta nel 1921, dallo scrittore e drammaturgo cecoslovacco Karel Capek nel suo dramma fantascientifico R.U.R. – Rossum’s Universal Robots (I Robot Universali della Rossum). Nell’opera di Capek, la società Rossum produce uomini e donne artificiali da utilizzare come lavoratori. Ciò comporta l’esclusione di attributi umani inutili come sentimenti ed emozioni; tutto ciò che rimane loro è la capacità di lavorare. I robot sono venduti dalla Rossum come lavoratori versatili, e a tempo debito sono usati come soldati in guerra. Poi un associato della Rossum trova il modo di introdurre nei robot dolore ed emozioni, finendo col porre le basi per una ribellione da parte degli androidi con conseguente distruzione del genere umano. Ma è tra la fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’60 che inizia la vera storia dei robot, e che questo termine abbandona una accezione letteraria e fantascientifica per assumerne una tecnica ed industriale. Il primo robot industriale fu prodotto dalla società statunitense Unimation Inc.: questa azienda realizzò nel 1959 un prototipo funzionante, e installò nel 1961 il primo robot presso gli impianti della General Motors per il trattamento di parti realizzate in pressofusione al fine di sostituire l’uomo in questo pericoloso ed insalubre lavoro (esposizione ad elevate temperature, rischio di essere colpiti da spruzzi bollenti di metallo fuso, inalazione di fumi nocivi). Il compito di questo robot, denominato Unimate, era appunto quello di assistere una macchina per la pressofusione, estrarne i getti di metallo ad altissima temperatura ed immergerli in un bagno d’acqua per farli raffreddare. Pochi anni dopo la stessa Unimation realizzò un robot capace di eseguire saldature a punti nelle carrozzerie delle automobili. Nel 1966 la Trallfa, azienda norvegese produttrice di apparati per la meccanizzazione in agricoltura, non riuscendo a reperire manodopera per la verniciatura a spruzzo delle proprie macchine, sviluppò un manipolatore in grado di eseguire automaticamente tale operazione, che venne poi prodotto in molti esemplari e commercializzato con successo. Il primo robot italiano fu invece realizzato nel 1969 dalla DEA: si trattava di una macchina per la saldatura a punti. Nel 1973 la Olivetti costruì, per uso interno, un sistema di montaggio a più bracci, nel quale vennero utilizzati per la prima volta dei sensori tattili. Era il prototipo del modello che sarebbe stato commercializzato a partire dal 1976 con il nome di SIGMA. Il SIGMA rappresenta una delle prime applicazioni della robotica nelle operazioni di assemblaggio. Nel 1974 la svedese Asea iniziò a commercializzare il robot IRb6 ad attuazione elettrica. Sempre nel 1974 la produzione dei robot si estese al Giappone, inizialmente ad opera della Kawasaki Heavy Industries -su licenza della Unimation-, che installò nei propri impianti macchine per la saldatura ad arco di telai di motociclette. A metà degli anni ’70 entrarono nell’industria robotica grandi aziende, come le statunitensi Cincinnati Milacron, Adept, IBM, AMF, la francese ACMA-Renault, l’italiana COMAU-Fiat, le tedesche Kuka e Volkswagen, le nipponiche Fanuc, Yaskawa, Seiko. Nel 1974 la Cincinnati Milacron produsse il T-3 (The Tomorrow Tool, cioè La Macchina del Domani), un robot molto sofisticato, capace

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di scegliere punte da trapano da uno scaffale portautensili, praticare una serie di fori con tolleranza di 0,13 mm e rifinire ad una macchina utensile il contorno di 250 tipi di parti. Tale robot produceva parti con una velocità fino a cinque volte maggiore di quella di lavoratori umani, senza scarti. Nel 1978 gli ingeneri della Unimation realizzarono un robot più piccolo rispetto all’originario Unimate, chiamato PUMA (Programmable Universal Machine for Assembly, cioè Macchina Universale Programmabile per l’Assemblaggio), destinato al montaggio di piccoli pezzi nei motori delle automobili. Sempre nel 1978 il robot T-3 della Cincinnati Milacron venne adattato per eseguire operazioni di trapanatura ed altre operazioni su pezzi di aerei, col supporto del progetto ICAM (Integrated Computer Aided Manufacturing, cioè Produzione Integrata Assistita da Calcolatore) della Aviazione Militare USA. Nel 1981 i giapponesi commercializzarono il robot cilindrico SCARA, addetto all’assemblaggio. Nel 1982 la statunitense IBM realizzò il robot cartesiano RS-1 per l’assemblaggio di parti. Per tutti gli anni ’80 si assiste alla costruzione di robot sempre più sofisticati, in grado di svolgere, oltre all’assemblaggio, altre operazioni complesse quali: la saldatura ad arco adattiva, che permette una correzione in tempo reale durante lo svolgimento dell’operazione, non richiede di posizionare i pezzi da giuntare con alta precisione, accetta diversi tipi di giunto; le ispezioni sui prodotti, per rilevare eventuali difetti di fabbricazione, nell’ambito del controllo di qualità; la sbavatura, una lavorazione che presenta, pur nella sua semplicità concettuale, un’alta difficoltà intrinseca per l’estrema variabilità delle forme dei pezzi e delle caratteristiche dei materiali; ecc. Attualmente lo sforzo maggiore, nel campo della robotica industriale (e non solo industriale), è diretto a realizzare un robot in grado di auto-istruirsi per l’esecuzione di un compito assegnato (cd. intelligenza artificiale). Il robot ha avuto la sua piena diffusione in ambito industriale a partire dagli anni ’70: le grandi case automobilistiche statunitensi (General Motors, Ford, Chrysler) furono le prime a servirsi dei robot per la produzione; essi erano addetti alla saldatura e verniciatura delle scocche, ed alla movimentazione di pezzi. L’altra industria statunitense leader nell’adozione dei robot all’interno del processo produttivo fu quella elettromeccanica. Ma è tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80, che i robot vennero ad essere apprezzati anche fuori dell’industria automobilistica ed elettromeccanica e che furono introdotti in modo massiccio in tutti gli altri processi industriali. I robot industriali possono essere classificati in tre stadi temporali evolutivi, ossia in tre fasi storiche, a seconda del grado di tecnologia che utilizzano per operare. Si parla in tal senso di tre cd. generazioni di robot. ● I robot della prima generazione sono quelli introdotti all’inizio degli anni ’60. Essi erano in grado di compiere operazioni di carico/scarico di macchine utensili o semplici operazioni di manipolazione di pezzi e materiali. Tali robot erano progettati per ripetere una successione di operazioni predeterminate, indipendentemente dai cambiamenti dell’ambiente circostante: si trattava infatti di robot ciechi, sordi e muti, che non disponevano di apparecchiature per relazionarsi ed entrare in contatto col mondo esterno, per cui l’ambiente nel quale lavoravano doveva essere strutturato in modo tale da facilitare le loro azioni, e gli oggetti che

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maneggiavano dovevano essere disposti in modo predefinito. I robot della prima generazione erano esclusivamente meccanici a funzionamento pneumatico: i loro regolatori erano costituiti da tamburi a dividere seguiti da camme o da relè che controllavano delle valvole pneumatiche. Tali robot non operavano sotto servocontrollo, per cui il loro braccio, dopo aver ricevuto un comando, lo eseguiva fino a quando non veniva arrestato da un fine corsa, per poi ripartire non appena riceveva un altro comando: per questo motivo venivano comunemente soprannominati robot fracassoni, a causa del rumore prodotto dal braccio che urtava contro i fermi meccanici usati per limitarne i movimenti. ● I robot della seconda generazione sono stati introdotti negli anni ’70. Essi erano in grado di svolgere compiti più complessi quali saldature a punto, verniciatura, taglio, foratura, ecc. Avevano elementari capacità di comunicare con l’ambiente circostante: erano infatti dotati di capacità sensoria, grazie a sensori che trasmettevano informazioni relative alla presenza, alla posizione e all’orientazione di oggetti circostanti. Queste macchine, dunque, rispetto alle precedenti avevano in tal senso una maggiore intelligenza dell’ambiente. Si trattava di sistemi meccanici ed elettronici insieme, dotati di servocontrollo: tali robot erano equipaggiati con motori, che venivano regolati in velocità ed accelerazione dal sistema di controllo per mezzo di trasduttori. Il sistema di controllo era costituito da un PLC (programmatore logico combinatorio) o da una teach-box. Questi robot potevano essere programmati per spostamenti da punto a punto o lungo un percorso continuo; la programmazione avveniva, on-line, manualmente o per mezzo di un telecomando. Inoltre i robot della seconda generazione disponevano di capacità diagnostiche di basso livello, che generalmente si limitavano a segnalare le avarie all’operatore tramite spie luminose; spettava quindi all’operatore risalire alle effettive cause dell’avaria. ● I robot della terza generazione sono stati introdotti negli anni ’80. Sono in grado di svolgere operazioni altamente sofisticate come le operazioni di assemblaggio, la saldatura ad arco adattiva, le ispezioni tattili, la prova di componenti e prodotti, lavorazioni complesse di trasformazione di pezzi, ecc. Dispongono di un’alta capacità sensoria: sono, infatti, in grado di regolare adattivamente i propri movimenti e di compensare i cambiamenti di posizione ed orientamento dei pezzi, cioè sono robot capaci di accorgersi di eventuali cambiamenti esterni potendo così modificare le loro azioni in modo corretto (per es., come nella saldatura ad arco adattiva, nel corso della quale il robot utilizza la visione o la percezione attraverso l’arco per localizzare il giunto di saldatura ed ottenere informazioni di guida del movimento). Si tratta di sistemi meccanici ed elettronici insieme, che operano sotto servocontrollo. Il sistema di controllo è costituito da un calcolatore. Possono essere programmati per spostamenti da punto a punto o lungo percorsi continui; la programmazione viene effettuata, off-line (ma può, comunque, avvenire anche on-line), con linguaggi informatici ad alto livello per mezzo di un terminale (tastiera e video). Infine i robot della terza generazione hanno un’alta capacità diagnostica: in tal senso possono interagire con l’operatore in modo complesso inviandogli messaggi, per descrivere la natura e l’ubicazione delle eventuali avarie.

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● E’ possibile individuare anche una quarta generazione di robot, che sono quelli attualmente in fase di sviluppo. Lo scopo dei ricercatori è quello di sviluppare robot in grado di prendere decisioni in modo totalmente indipendente sulla base di eventi e regole (la cd. intelligenza artificiale), al fine di eseguire compiti più complessi. In questi robot si cerca di realizzare anche una raffinata facoltà sensoriale, in modo tale da raggiungere la vera coordinazione occhio-mano propria dell’uomo. E’ inoltre probabile che i robot della quarta generazione saranno delle apparecchiature non metalliche: infatti, dal momento che i prezzi dei materiali ad alto contenuto tecnologico sono in costante diminuzione, tali robot saranno presumibilmente costruiti con materiali in fibra o con composti di grafite; si tratterà dunque di macchine più leggere rispetto alle attuali unità. Ma questo, almeno per il momento, è ancora futuro … 2. DEFINIZIONE DI ROBOT INDUSTRIALE. Nonostante i robot industriali abbiano fatto la loro comparsa più di quarant’anni fa e nonostante la massa di studi e di convegni scientifici sull’argomento, non esiste ancora oggi una definizione consolidata di robot industriale. Nel corso degli anni sono state elaborate varie definizioni formali, sia da parte dell’Istituto Statunitense di Robotica (RIA, Robotics Institute of America), sia dall’Associazione Robotica Giapponese (JIRA, Japan Industrial Robot Association), sia dalla International Standards Organization (ISO), ecc., ma nessuna di queste può essere riconosciuta come universalmente valida. Volendo dare una definizione sintetica, ma comunque efficace, è possibile dire che un robot industriale è: - un sistema meccanico-elettronico (o meccatronico) - manipolatore - a più gradi di libertà - programmabile ed automatico - che opera sotto il comando di una unità di controllo, dotata di un dispositivo di memoria. ● Un robot è un sistema meccanico-elettronico nel senso che: è formato sia da elementi meccanici sia da componenti elettronici. E’ comunque da ricordare -come già detto in precedenza- che i primi robot, cioè quelli di prima generazione, erano sistemi esclusivamente meccanici. In seguito l’avvento della micro-elettronica, con il transistore (transistor) ed il circuito integrato miniaturizzato (micro-chip), ha reso possibile la realizzazione di robot come sistemi meccano-elettronici (robot di seconda e terza generazione), dotati di sensori, che permettono alla macchina di interfacciarsi con l’ambiente di lavoro circostante, e di una elettronica di controllo (calcolatore), che governa il sistema. ● Un robot è un manipolatore nel senso che: è orientato alla movimentazione di parti, materiali o utensili nelle attività produttive di tipo discreto (nelle quali cioè vengono trattati oggetti individuali e numerabili). L’espressione a più gradi di libertà significa che: coi robot si cerca di riprodurre la funzionalità degli arti umani superiori; un robot difatti ha sovente l’aspetto di un braccio (o più bracci) che

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termina con un polso ed un organo di presa, tutti più o meno articolati ed estendibili. ● Il termine programmabile significa che: un robot è in grado di apprendere un ciclo di lavoro. ● Il termine automatico significa che: un robot, una volta che è stato programmato, può effettuare autonomamente (cioè senza l’intervento diretto dell’uomo) la medesima funzione in modo ripetitivo. ● Un robot opera sotto il comando di una unità di controllo, dotata di un dispositivo di memoria: l’unità di controllo è il cervello elettronico del robot (che riproduce in un certo qual modo il cervello umano) ed è responsabile della gestione del movimento del robot; tale unità di controllo è dotata di una memoria dove viene inserito ed immagazzinato il programma di istruzioni relativo alla specifica lavorazione. 3. PARTI COMPONENTI UN ROBOT INDUSTRIALE. Un robot industriale è fisicamente composto da due unità: a) una unità meccanica addetta materialmente alla lavorazione b) una unità elettronica di programmazione e controllo. ● L’unità meccanica sub a) è detta manipolatore. Tale manipolatore ha una forma tipicamente antropomorfa (cioè rassomigliante agli arti superiori dell’uomo), tanto è vero che per descriverlo si ricorre a termini anatomici. Esso è costituito nella sua struttura: 1) dal piede (o base), che è il supporto fisso, ancorato al terreno, intorno al quale si muove il robot (robot fisso); in alcuni casi il piede può essere montato su una rotaia (disposta al suolo o in posizione aerea), lungo la quale si muove il robot (robot mobile) 2) dal braccio, che è il meccanismo composto da una catena (catena cinematica) di elementi rigidi (membri) collegati in serie da snodi a traslazione o a rotazione (giunti ; vi sono due tipi di giunti: quelli prismatici il cui moto è una traslazione T, e quelli rotativi o anche detti rotoidali il cui moto è una rotazione R; vi sono anche giunti sferici ed elicoidali che possono essere considerati come opportune combinazioni di giunti prismatici e rotativi) 3) dalla spalla, che è la prima articolazione del braccio 4) dal gomito, che è la seconda articolazione del braccio 5) dal polso, che è l’articolazione finale del braccio e che serve ad orientare il sotto indicato terminale 6) il terminale, che è il generico dispositivo fissato all’estremità del polso e che serve per effettuare il lavoro cui il robot è deputato; il terminale può essere costituito da un organo di presa (cioè di un dispositivo specializzato per afferrare e trattenere oggetti: una mano dotata di due o più dita meccaniche, una pinza, delle ventose, degli organi elettromagnetici, ecc.) o da un utensile (una sega circolare, un trapano, ecc.) o da uno strumento di misura (della temperatura, della pressione, ecc.; come, per es., un termometro), in funzione delle mansioni cui il robot è adibito. L’unità meccanica è dotata di:

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- organi sensori, che permettono al robot di entrare in contatto con l’ambiente circostante e di raccogliere informazioni esterne (dunque i sensori svolgono la funzione di unità di entrata dati) - organi attuatori , che trasmettono la forza e il movimento al manipolatore, in relazione ai dati esterni raccolti dai sensori (dunque gli attuatori svolgono la funzione di unità di uscita dati). I sensori e gli attuatori completano l’unità meccanica e rappresentano la periferia del robot. ● L’unità elettronica di programmazione e controllo sub b) è composta da un calcolatore, che rappresenta il cervello elettronico del robot e che assolve alle seguenti funzioni fondamentali: - memorizza il programma di istruzioni relativo al lavoro che il robot deve svolgere - comanda i movimenti del manipolatore -in base al programma di istruzioni contenuto in memoria- - riceve i dati dal mondo esterno tramite i sensori, li analizza e prende le conseguenti decisioni inviando gli ordini operativi agli attuatori. L’unità elettronica di programmazione e controllo è dotata: 1) di una unità di memoria (costituita da un supporto mnemonico hardware; un disco di memoria), dove viene memorizzato il programma di istruzioni 2) di un terminale di interfacciamento -o consolle di programmazione analogamente- (composto da una tastiera alfanumerica e da un video), per mezzo del quale l’operatore umano può programmare il robot ed interagire con esso; infatti tramite la tastiera è possibile inserire il programma di istruzioni relativo alla lavorazione nella suddetta unità di memoria; sempre tramite la tastiera l’operatore può bloccare il robot in caso di anomalie, difformità di lavorazione, ecc.; infine per mezzo del videoterminale l’unità di controllo può comunicare con l’operatore inviandogli messaggi, per riferire circa la natura e l’ubicazione di eventuali avarie o malfunzionamenti 3) di una unità di elaborazione aritmetico-logica (costituita da un componente hardware; un micro-processore), che traduce e codifica in linguaggio numerico (digitale) i dati in entrata (le istruzioni del programma e le informazioni esterne raccolte dai sensori) e trasmette i dati in uscita agli attuatori intervenendo opportunamente su di essi, permettendo così il movimento del manipolatore; inoltre l’unità di elaborazione controlla che ogni movimento trasmesso al braccio, tramite gli attuatori, sia compiuto correttamente secondo le istruzioni del programma, chiudendo in questo modo l’anello di controllo; questa attività, appena descritta, di codifica, di interfacciamento e di controllo ad opera dell’unità di elaborazione rispetto ai sensori e agli attuatori è propriamente detta retroazione (feedback). L’unità di programmazione e controllo è fisicamente rappresentata da un contenitore metallico di forma rettangolare, detto armadio, contenente tutta la componentistica hardware che costituisce tale unità. 4. CLASSIFICAZIONE DEI ROBOT INDUSTRIALI.

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I robot possono essere classificati considerando aspetti diversi della loro operatività. Le principali classificazioni si basano su: a) geometria e movimenti (classificazione cinematica) b) applicazioni (classificazione funzionale) come di seguito analizzate. ● La classificazione cinematica si basa sui gradi di libertà del braccio (fino all’altezza del polso, escluso), per cui vi sono robot: 1) a geometria cartesiana; questi si muovono lungo tre assi lineari ortogonali, secondo le coordinate cartesiane x, y, z (tre giunti prismatici, in successione TTT); si tratta di robot che presentano elevata precisione, forte capacità di carico e facilità di programmazione, ma che comportano un costo elevato ed un notevole ingombro 2) a geometria cilindrica ; questi si muovono all’interno di un volume di lavoro cilindrico, secondo due assi di traslazione ed uno di rotazione (due giunti prismatici ed uno rotativo, così alternati TRT); offrono i vantaggi di un’elevata velocità, di una forte capacità di carico e di un basso ingombro, ma sono affetti da scarsa precisione e da una programmazione complessa 3) a geometria polare (o sferica anche detta); questi si muovono all’interno di un volume di lavoro sferico, secondo due assi di rotazione ed uno di traslazione (un giunto prismatico e due rotativi, in successione RRT); hanno i pregi di una buona velocità di lavoro, di un basso ingombro e di una programmazione semplice, ma presentano lo svantaggio di una scarsa precisione 4) a geometria articolata; questi si muovono secondo tre assi di rotazione (tre giunti rotativi, in successione RRR ); sono robot dotati di alta velocità di lavoro e di grande precisione, hanno ingombro ridotto, sono economici, ma la loro programmazione è complessa. Tali geometrie suddette sono quelle generalmente più utilizzate in robotica. Fra queste geometrie, ovviamente, come si è appena visto, esistono precisi trade-off di ordine tecnico in termini di velocità, precisione, portata, caratteristiche queste che definiscono la performance del robot: in ogni determinata geometria, ciascuna di queste caratteristiche viene raggiunta ed incrementata solo a detrimento di qualche altra. In particolare, però, l’architettura articolata sembra essere la più efficiente, dato che: consente un ampio volume di lavoro; è adatta, in via generale, per quasi tutte le lavorazioni (architettura polivalente e versatile); presenta una buona capacità di evitare ostacoli interposti. La struttura cartesiana risulta particolarmente adatta per la saldatura ad arco e l’assemblaggio. I robot cilindrici, invece, possono effettuare solo operazioni di manipolazione e assemblaggio; mentre quelli polari sono in grado di svolgere solo la saldatura per punti e la manipolazione. In tutte le sopra citate categorie di robot, il braccio è sempre formato da tre membri, che è il numero minimo di membri necessario per accedere a tutti i punti di uno spazio di lavoro. Non è escluso però che, per assolvere a compiti particolari -come, per es., evitare ostacoli fissi-, possa essere utile impiegare robot composti da un numero maggiore di membri. Esistono comunque anche bracci con due soli membri, che si usano quando è sufficiente lavorare su un piano.

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● La classificazione funzionale si basa sulle operazioni che il robot è in grado di compiere. La tendenza iniziale (anni ’60) di costruire un robot universale è stata ormai sostituita dalla realizzazione di robot dedicati, cioè atti a svolgere solo una determinata applicazione. Generalmente si distingue tra robot: 1) di movimentazione (o di manipolazione analogamente); questi robot sono addetti semplicemente allo spostamento di pezzi, e non eseguono quindi alcun tipo di lavorazione; le applicazioni più frequenti sono quelle di carico/scarico di pezzi alle macchine utensili (per lo stampaggio, il trattamento termico, …), trasferimento di semilavorati da una stazione di lavoro all’altra, trasferimento di pezzi da un nastro trasportatore all’altro, sistemazione e prelevamento di imballaggi e merci in magazzino, manipolazione di utensili per riattrezzare le macchine operatrici, manipolazione di materiali pericolosi (materiali esplosivi, radioattivi, …), ecc.; spesso, per quanto riguarda il trasferimento di semilavorati da una stazione di lavoro all’altra, uno stesso robot viene impiegato per assistere più macchine operatrici (tornio, trapano, fresa, ecc.): il robot viene collocato centralmente rispetto ad esse, disposte a cerchio, e ha essenzialmente il compito di trasferire il semilavorato da una macchina all’altra (cd. cellula o isola di fabbricazione con robot servente) 2) di lavorazione (o di processo analogamente); si tratta di robot che eseguono lavorazioni vere e proprie, tramite utensili portatili collegati al polso; le applicazioni più comuni riguardano la saldatura (per punti e ad arco), la verniciatura, le operazioni di foratura, trapanatura, molatura, taglio, sbavatura, incollaggio, sigillatura, lucidatura, smerigliatura 3) di assemblaggio (o di montaggio analogamente); si tratta di robot in grado di assemblare pezzi, parti, componenti di vario tipo (meccanico, elettronico, elettrico; es., montaggio di componenti elettronici su un circuito stampato, assemblaggio di parti di una pompa dell’acqua per automobile); questa operazione è in genere assai complessa e delicata, e richiede pertanto robot con buone capacità sensoriali (per il riconoscimento del pezzo e del suo orientamento) e molto precisi (per il rispetto delle tolleranze) 4) di ispezione e controllo; questi robot vengono utilizzati per il controllo dimensionale dei pezzi, ossia per rilevare eventuali difetti dimensionali del prodotto: sono capaci di controllare i valori dimensionali di un pezzo fabbricato, per poi confrontarli con i valori teorici al fine di verificarne il rispetto. 5. SOLUZIONI COSTRUTTIVE DEL BRACCIO. a) Materiali. I materiali più utilizzati per costruire i membri del robot sono: 1) acciaio 2) duralluminio 3) titanio 4) magnesio 5) compositi. Tuttavia la tendenza attuale è quella di utilizzare membri in alluminio, dato che questo materiale è leggero e nello stesso tempo rigido (la rigidezza dei membri è

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importante, perché riduce le vibrazioni e gli attriti), e ha un costo assai competitivo. I materiali compositi sono più leggeri dell’alluminio, ma hanno un costo elevato. b) Cuscinetti. Nei giunti si utilizzano, in generale, cuscinetti a rotolamento, poiché quelli a strisciamento presentano un attrito elevato e notevoli problemi inerenti ai giochi (i giochi devono essere evitati, perché introducono variabili aleatorie nel comportamento cinematico del robot). c) Equilibramento. Alla estremità del braccio, opposta al terminale, viene montata una massa equilibrante al fine di garantire la stabilità del braccio. Tale massa equilibrante, infatti, riduce le vibrazioni del braccio ed assicura la compensazione dei carichi destabilizzanti. Spesso la massa equilibrante è costituita dai motori stessi. E’ comunque ovvio che l’equilibramento risulta sempre approssimativo, perché il carico non è costante è la configurazione che il robot può assumere è molto variabile. d) Gradi di libertà (GDL). I GDL (anche detti assi) sono il numero dei giunti di un manipolatore; ad un manipolatore a n giunti si attribuiscono n GDL (per es., se n = 6 giunti, allora esistono 6 GDL). I GDL determinano la capacità del manipolatore di articolarsi in posizioni e orientazioni diverse. Il braccio di un robot (escluso il polso), per raggiungere ogni punto all’interno del suo volume di lavoro, possiede generalmente almeno tre GDL (realizzati grazie all’impiego di tre giunti): 1) la rotazione del braccio rispetto al piede 2) l’estensione della spalla 3) l’estensione del gomito. Spesso, però, il braccio di un robot deve non solo raggiungere ogni punto nell’ambito del suo volume di lavoro ma anche poter muovere il suo terminale per compiere l’orientazione richiesta. Per es., per eseguire un foro nel pezzo da lavorare, il braccio deve non solo raggiungere con la punta del trapano il punto voluto, ma anche orientare il trapano nel modo desiderato (perpendicolarmente alla superficie da forare). Le tre coordinate sopra dette non possono descrivere anche l’ orientazione dell’utensile (o della mano). Pertanto anche il polso deve essere dotato di GDL: generalmente i GDL del polso sono tre (realizzati con l’impiego di altri tre giunti); diversi tipi di polsi sono reperibili sul mercato, differenziati per numero di GDL. E’ quindi necessaria un’altra terna di coordinate, che definiscono i tre GDL del polso. In genere si ricorre a coordinate angolari, che sono le seguenti (con terminologia derivata dall’aerodinamica): 4) angolo di rollio 5) angolo di imbardata 6) angolo di beccheggio. Per comprendere il significato di questi termini, si può distendere un braccio in avanti, col polso e le dita tesi ed il palmo della mano rivolto verso il basso. Ruotando il palmo verso l’alto, tenendo le dita distese in avanti, si ottiene un movimento di rollio (prono-supinazione). Se, con l’avambraccio teso e senza effettuare alcun rollio, si piega il polso verso il basso e poi verso l’alto, si ottiene un movimento di beccheggio. Infine, se si piega il polso a sinistra e poi a destra, senza effettuare alcun rollio o beccheggio, si ottiene un movimento di imbardata. Dunque,

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considerando la prima terna di coordinate e la seconda appena descritta, si ottiene un assetto definito da sei coordinate ossia da sei GDL complessivi nello spazio: i primi tre relativi al movimento del braccio ed i secondi tre relativi al movimento del polso (per l’orientazione del terminale). Il braccio umano ha sette GDL (escluse le articolazioni della mano): due nella spalla, due nel gomito e tre nel polso. Infatti, anche senza spostare il busto, un uomo può puntare le dita in quasi tutte le direzioni intorno a lui. Tuttavia, come quelle del braccio umano, anche le articolazioni dei robot (cioè i giunti) hanno delle limitazioni di escursione, per cui i robot non possono raggiungere certe combinazioni di posizione ed orientazione. Quindi, un robot industriale generalmente ha sei GDL, che è il numero minimo teorico affinché il suo braccio possa raggiungere ogni punto all’interno dello spazio di lavoro ed il suo terminale sia in grado di assumere qualunque orientazione all’interno di detto spazio (i robot industriali a sei GDL sono diventati uno standard alla fine degli anni ’70, con il PUMA della Unimation). Tuttavia esistono anche robot dotati di un minor numero di GDL (< 6): tali robot non possono eseguire tutti i compiti nello spazio di lavoro, ma solo compiti in un certo sotto-insieme. In casi particolari può essere necessario disporre di un braccio e di un terminale dotati di maggiore manovrabilità (per es., per evitare ostacoli intermedi), per cui si utilizzano robot aventi un maggior numero di GDL (> 6): questi robot possono eseguire un dato compito in infiniti modi. Ovviamente, aumentano anche i problemi relativi all’azionamento ed al controllo degli assi, per cui tale opzione con GDL > 6 è adottata solo quando è strettamente necessario. I robot che senz’altro devono essere dotati di almeno sei GDL, affinché il braccio possa avere una buona elongazione ed articolazione, sono in particolare i robot: di verniciatura, che sono per lo più destinati ad operare su pezzi voluminosi (tipiche le scocche delle automobili) e necessitano per questo di campi di azione molto ampi; di saldatura a punti utilizzati nell’industria automobilistica, dato che devono raggiungere aree interne alla scocca dell’autovettura difficilmente accessibili; di assemblaggio, che effettuano il montaggio di una vasta gamma di prodotti e necessitano pertanto di un potere manipolativo completo. 6. ATTUATORI. Gli attuatori sono i meccanismi atti a realizzare il movimento del braccio robotico secondo i suoi gradi di libertà, attraverso l’azionamento e il controllo dei giunti. Gli attuatori si trovano in prossimità dei giunti: vi è un attuatore per ogni giunto ossia per ogni grado di libertà. Ogni attuatore è formato da due parti: a) un dispositivo di azionamento, che trasforma l’energia disponibile in energia meccanica (solitamente posizionato all’esterno del braccio) b) un dispositivo di regolazione, che controlla le variabili del moto ossia la velocità, la accelerazione, la forza e la posizione dell’articolazione (solitamente posizionato all’interno del braccio).

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● L’energia d’uscita di un attuatore è sempre meccanica, mentre l’energia d’ingresso può essere di natura diversa. In base al tipo di energia in ingresso, gli attuatori possono essere classificati in tre gruppi: 1) attuatori pneumatici, che usano l’energia pneumatica fornita da un compressore ad aria 2) attuatori idraulici , che sfruttano l’energia idraulica sviluppata da un compressore oleodinamico 3) attuatori elettrici , che utilizzano l’energia elettrica fornita dalla rete. Gli attuatori pneumatici trasformano l’energia pneumatica in energia meccanica. Questi attuatori sono stati ampiamente utilizzati nelle prime esperienze. Ad oggi sono quasi completamente sostituiti, come azionamenti principali, dagli attuatori elettrici. Attualmente rimangono molto diffusi soltanto negli organi di presa: infatti sono ideali per gli organi di presa dei robot manipolatori, nei quali la forza sviluppata dal compressore chiude la pinza. Le caratteristiche di questi attuatori sono: alta velocità di esecuzione, media potenza, basso costo, pulizia del sistema (assenza di perdite d’olio, ecc.). A fronte di tali vantaggi, vi sono però i seguenti svantaggi: limitata precisione, rumorosità, perdite d’aria, necessità di filtri per l’aria, esigenze di manutenzione. Tali attuatori vengono impiegati nel 10% dei casi circa. Gli attuatori idraulici trasformano l’energia idraulica in energia meccanica. Questi attuatori presentano una elevata potenza (sono ideali per la movimentazione di grossi carichi, oltre i 100 kg), una elevata velocità, una discreta precisione. Hanno però i seguenti svantaggi: scomodità di alloggiamento delle tubazioni (tubazioni ingombranti), scarsa pulizia del sistema e rischio d’incendio (perdite d’olio), dissipazione dell’energia (il movimento delle particelle d’olio genera attriti e riscaldamento dell’olio) e quindi costo energetico elevato, costo costruttivo elevato, alta rumorosità. Spesso la soluzione idraulica è combinata a soluzioni di tipo elettrico, nel caso di grossi carichi ma inferiori a 100 kg. Tali attuatori vengono impiegati nel 20% dei casi circa. Gli attuatori elettrici trasformano l’energia elettrica in energia meccanica mediante motori elettrici (a corrente continua o alternata). Sono gli attuatori prevalentemente utilizzati (70% dei casi circa). La loro larga diffusione è motivata da due ragioni: - l’alta precisione - le masse in moto; in tutti i tipi di macchinari si tende oggi a ridurre al minimo le parti in movimento, per ridurre l’energia dissipata (negli attuatori elettrici vi è il movimento degli elettroni, per cui l’energia dissipata è bassa, e ciò implica economia energetica) e per ridurre la manutenzione. Ma gli attuatori elettrici hanno anche altri vantaggi: sono relativamente poco costosi, hanno ridotte dimensioni, presentano semplicità d’impiego. Tuttavia hanno i seguenti svantaggi: sono abbastanza pigri (gli attuatori pneumatici ed idraulici sono più veloci), erogano una potenza a volte non sufficiente, presentano la necessità dell’impiego di un riduttore (con conseguente aggravio di costi; inoltre il gioco degli ingranaggi del riduttore può limitare la precisione ottenibile). I motori elettrici prevalentemente utilizzati sono: quelli a magneti permanenti (corrente

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continua), quelli senza spazzole (brushless; corrente alternata), quelli passo a passo (step motor). ● Il dispositivo di regolazione è formato dai seguenti trasduttori elettromeccanici: 1) le dinamo tachimetriche (alimentate a corrente continua), che sono generalmente usate per controllare la velocità e la accelerazione dell’articolazione 2) gli estensimetri (a semi-conduttore), che vengono solitamente utilizzati per controllare la forza dell’articolazione 3) gli encoder o i resolver o i synchro o i potenziometri (questi ultimi, lineari e rotativi), che in genere sono usati per controllare la posizione dell’articolazione. In altre parole, tali trasduttori svolgono per il robot le stesse funzioni cui è deputato il sistema nervoso nel corpo umano: essi permettono al robot di controllare il proprio funzionamento interno, ossia gli consentono una percezione interna del proprio sistema. 7. ORGANI DI TRASMISSIONE. Gli organi di trasmissione consentono di trasferire la forza motrice dagli attuatori ai giunti, producendo così lo spostamento dei membri del robot. D’altra parte, gli organi di trasmissione introducono dei problemi inerenti alla deformabilità, agli attriti, alle vibrazioni, ai giochi, molto variabili in funzione dell’organo utilizzato. Tali problemi sono risolti con la scelta dell’organo più opportuno in relazione all’applicazione prevista. Nella robotica industriale sono utilizzati prevalentemente i seguenti organi di trasmissione: a) ruote dentate b) cinghie dentate c) catene d) sistemi vite-madrevite e) leveraggi. ● Le ruote dentate sono organi che agiscono sul moto rotatorio proveniente dagli attuatori: possono deviarne l’asse di rotazione o di traslazione nella direzione che necessita. Si tratta dunque di sistemi molto versatili, e pertanto sono impiegate un po’ su tutti i tipi di robot. ● Le cinghie dentate sono organi di trasmissione per moti di rotazione. Si tratta di cinghie flessibili in materiale elastico. Esse sono relativamente deformabili, per cui vengono spesso utilizzate nel campo delle alte velocità e dove gli sforzi sono bassi. ● Le catene, come le cinghie dentate, sono organi di trasmissione per moti di rotazione. Esse sono molto rigide e robuste, per cui vengono utilizzate per supportare carichi pesanti e nel campo delle basse velocità; non sono adatte per le alte velocità, perché la loro notevole massa può generare forti vibrazioni. ● I sistemi vite-madrevite permettono di convertire il moto di rotazione proveniente dai motori in un moto di traslazione. Si tratta di un elemento snello, soggetto a deformazioni, per cui viene utilizzato nel campo delle alte velocità e dove gli sforzi sono bassi.

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● I leveraggi sono organi di trasmissione composti da segmenti rigidi, che spesso hanno una funzione portante nella struttura del braccio. Servono perciò a conferire un’elevata rigidezza globale al braccio. Sono quindi utilizzati per aiutare il braccio a sopportare carichi pesanti. 8. SENSORI. I sensori sono i congegni che permettono al robot di interpretare e di entrare in rapporto con l’ambiente esterno: essi trasmettono al robot informazioni sullo stato dell’ambiente di lavoro e del ciclo di lavorazione (informazioni riguardanti: la presenza, l’identità, la forma, la posizione, l’orientazione, la superficie, l’interno del pezzo da lavorare o movimentare; la presenza di attrezzature o altre macchine che si trovano ad operare nel suo campo d’azione; ecc.). In altre parole, i sensori svolgono per il robot le stesse funzioni cui sono deputati i cinque sensi nel corpo umano, consentendo alla macchina una percezione esterna e permettendogli di avere una certa intelligenza dello scenario ambientale circostante. Mentre l’architettura meccanica ha dominato le scelte progettuali dei robot di prima generazione, i sistemi di senso hanno iniziato ad avere la loro centralità ed importanza a partire dai robot di seconda generazione (inizio anni ’70). E’ comunque da precisare che non tutti i robot sono dotati di sensori: generalmente i robot provvisti di capacità sensorie sono quelli adibiti alle operazioni più complesse (assemblaggio, saldatura ad arco, ispezione per la verifica di difetti di fabbricazione del prodotto, sbavatura, ecc.), la cui esecuzione richiede necessariamente la percezione dello scenario ambientale. Infatti equipaggiare un robot con un sistema sensoriale implica un aggravio di costi, per cui i dispositivi sensoriali risultano essere economicamente inopportuni (oltre che operativamente inutili) su un robot che deve svolgere compiti relativamente semplici (movimentazione di pezzi, saldatura a punti, ecc.) e che pertanto non ha la necessità di interagire con l’ambiente di lavoro. E’ possibile classificare i sensori per robot in due categorie (secondo la usuale distinzione): a) sensori di contatto, che rilevano la presenza dell’oggetto mediante un certo tipo di contatto fisico b) sensori di non-contatto, che rilevano la presenza dell’oggetto mediante un certo tipo di radiazione (luminosa, magnetica, sonora, …). Rientrano nella categoria sub a) i sensori di tatto e di forza, mentre alla categoria sub b) appartengono quelli di prossimità e di visione. ● I sensori di tatto permettono al robot di riconoscere il pezzo con un’esplorazione tattile . Vengono solitamente montati sulla faccia interna degli organi di presa del braccio del robot: tali sensori rilevano la presenza (o l’assenza) di un oggetto tra le articolazioni che effettuano la presa. Si tratta generalmente di micro-interruttori : se l’organo di presa esercita sull’oggetto da afferrare una forza superiore ad un certo livello (detto livello soglia), il micro-interruttore chiude un circuito elettrico, fornendo così al sistema l’informazione tattile. L’informazione che può essere ottenuta da sensori di questo tipo è limitata se è necessario acquisire indicazioni sulla forma, sulla posizione e sull’orientamento dell’oggetto. In questo caso bisogna

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utilizzare dispositivi più complessi, come per es. un dispositivo a conduttori elettrici : questo sensore è composto da una basetta sulla quale sono disposti dei conduttori elettrici in rame e in grafite. Una pressione sul sensore determina una variazione (proporzionale) della resistenza elettrica di tali conduttori, per cui è possibile risalire alle condizioni di contatto. Questo sensore, la cui area è dell’ordine di un centimetro quadrato, ha un potere tattile molto vicino a quello dei polpastrelli delle dita, realizzando così una sorta di pelle artificiale. Un altro sensore di tatto che offre informazioni sulla forma e sull’identità dell’oggetto è un sensore a bottoni: la superficie di contatto dell’organo di presa viene sagomata a bottoni; un bottone, a contatto con un oggetto, rientra ed interrompe (parzialmente o totalmente) il flusso luminoso tra due fotocellule; la misura del flusso luminoso consente di risalire alle deformazioni superficiali, quindi alla forma dell’oggetto. Oggi si tende a dotare i sensori di tatto di un micro-processore locale per elaborare sul posto i dati da essi percepiti: questa soluzione permette una analisi più tempestiva dei segnali sensoriali, dato che il computer tecnicamente superiore viene esonerato dall’elaborazione di tali informazioni e quindi alleggerito di una parte di operazioni da svolgere. Il micro-processore locale, infatti, rispetto all’elaboratore centrale, è in grado di elaborare le informazioni sensoriali più velocemente, poiché è deputato a svolgere solo quella funzione. ● I sensori di forza sono particolarmente importanti quando è necessario un accurato dosaggio della forza da parte della mano del robot, ossia quando la mano deve eseguire compiti delicati quali: la presa di oggetti fragili (es., vetro, ceramica), l’introduzione di parti entro alloggiamenti prestabiliti con tolleranze limitate (es., l’avvitamento di una vite nel suo alloggiamento senza spanare la filettatura), ecc. La misura della forza, di solito, viene ottenuta disponendo degli estensimetri a semi-conduttore sui giunti del polso: se il polso è sottoposto a sforzi allora i suoi giunti si deformano; tale deformazione (che è proporzionale alla forza trasmessa) genera una variazione (proporzionale) della resistenza elettrica del materiale conduttore presente negli estensimetri, essendo così possibile risalire alla misura della forza. Come nel caso dei sensori di tatto, anche per i sensori di forza la tendenza attuale è quella di impiegare micro-processori locali per l’elaborazione in loco delle informazioni raccolte, al fine di rendere più tempestiva la codificazione di tali informazioni. ● Un sensore di prossimità permette di rilevare la distanza esistente tra un oggetto (che si trova in prossimità del sensore) e il sensore stesso. Sensori di prossimità comunemente utilizzati in robotica sono i sensori ad ultrasuoni (radiazioni sonore). Tale sistema sensoriale è composto da un fischietto, che emette in continuazione degli ultrasuoni, e da una cellula sonora ricevente, che rileva gli echi di ritorno che tali ultrasuoni producono colpendo gli oggetti circostanti; il tempo intercorrente tra l’istante di emissione e quello di ricezione è proporzionale alla distanza che si vuole conoscere. Questo tipo di sistema sensoriale riproduce il meccanismo di percezione delle distanze riscontrabile in talune specie animali: il caso più noto è, per es., quello del pipistrello e del delfino, che sono in grado di rilevare, con buona approssimazione, i valori relativi alla distanza grazie ad una

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percezione attiva della distanza stessa, emettendo appunto onde sonore. I sensori ad ultrasuoni vengono generalmente impiegati nei robot semoventi, allo scopo di rilevare la presenza più che altro di ostacoli, o comunque di oggetti di disturbo con cui si deve evitare una collisione (dunque, sostanzialmente, per motivi di sicurezza). Esistono, poi, anche sensori al laser (radiazioni al laser): essi sono composti da un analizzatore laser, che emette un sottile raggio laser, e da una fotocellula ricevente, che rileva il raggio laser riflesso dagli oggetti da esso colpiti. Per individuare la presenza di un oggetto e la relativa distanza si procede, come prima, alla misura del tempo intercorrente tra istante di emissione del raggio luminoso ed istante di ricezione del raggio riflesso (calcolo del tempo di volo della luce). Sono utilizzati anche sensori magnetici (radiazioni magnetiche), che vengono tipicamente impiegati per rilevare la presenza di oggetti metallici. Tali sensori generano un campo magnetico, e contengono al loro interno un dispositivo che misura le alterazioni prodotte in detto campo da corpi ferromagnetici estranei. Dalle misure così effettuate si può risalire alla distanza del sensore dall’oggetto rilevato. Una tipica applicazione di questa tipologia di sensori è quella dell’individuazione di buchi e fori nelle superfici lisce, in certe operazioni di assemblaggio. Inoltre, sono comunemente utilizzati sensori ad intercettazione di getto luminoso (radiazioni luminose). In questi dispositivi, la presenza di un oggetto intercetta un getto luminoso passante, emesso da un diodo emettitore di luce (LED). Così il getto luminoso si interrompe provocando un segnale elettrico, che indica al robot la presenza dell’oggetto. Si tratta di sensori molto semplici e versatili. Sono spesso utilizzati per individuare il passaggio di oggetti. Infine, sono da ricordare i sensori a triangolazione ottica (radiazioni luminose), tipicamente utilizzati sui robot di ispezione e controllo, per individuare eventuali difetti dimensionali e di superficie dell’oggetto: una sorgente di luce illumina l’oggetto sottoposto a controllo; la luce riflessa dalla superficie di questo viene captata da una fotocellula ricevente; tale riflessione della luce viene poi misurata mediante tecniche di triangolazione ottica, basate su relazioni trigonometriche. In base al calcolo della triangolazione della luce è possibile verificare se l’oggetto presenta dei difetti. ● I dispositivi di acquisizione di immagini generalmente utilizzati nella robotica sono le telecamere. Quelle più diffuse sono: 1) la telecamera vidicon (che funziona su principi abbastanza simili a quelli delle telecamere per le normali riprese televisive) 2) la telecamera a stato solido. La telecamera di tipo vidicon deriva il suo nome da vid-eo e da sil-icon (= silicio): il suo schermo è infatti composto da materiale contenente silicio. Tale schermo è carico di elettricità statica. L’oggetto d’interesse viene irradiato con energia luminosa (proveniente da una sorgente di luce), e la luce riflessa dalla superficie dell’oggetto va a colpire lo schermo della telecamera. L’illuminazione dello schermo provoca una diminuzione della carica elettrica in ogni punto dello stesso. Ciò realizza sullo schermo un primo equivalente elettronico dell’immagine (in termini di valori di carica elettrica per ogni punto sullo schermo). L’immagine elettrostatica così ottenuta viene sottoposta ad elaborazioni successive, finché il suo equivalente elettronico viene trasformato in equivalente numerico (procedimento di

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digitalizzazione dell’immagine), di modo che il micro-processore possa elaborarlo per risalire alla forma dell’oggetto osservato. Nelle telecamere allo stato solido l’elemento sensibile è costituito da fotodiodi, che si trovano sullo schermo su cui viene focalizzata l’immagine e che si caricano elettricamente se colpiti da radiazioni luminose. Questi diodi fotosensibili fanno parte di un circuito integrato semiconduttore, in cui è svolto il procedimento di digitalizzazione. Il circuito integrato, anziché fotodiodi, può contenere, come elemento sensibile, anche particolari sensori chiamati dispositivi ad accoppiamento di carica (CCD, Charge Coupled Device). Il vantaggio dei CCD è quello di essere estremamente veloci. Le telecamere a stato solido di tipo CCD, rispetto a quelle vidicon, sono più affidabili (ma più costose) in quanto: sono insensibili ai campi elettromagnetici (che possono generare interferenze di disturbo), sono resistenti ad urti e vibrazioni, hanno una lunga durata. I sistemi di visione appena descritti forniscono un’immagine spaziale bidimensionale; la soluzione più interessante al problema della visione tridimensionale è quella basata sull’impiego di due telecamere (anch’esse con schermi sensibili), in analogia a quanto avviene nella visione umana (ottenuta coi due occhi). Un sistema visivo che impiega una coppia di telecamere viene detto di stereovisione. Tale sistema dev’essere supportato da una adeguata illuminazione, per favorire al meglio l’acquisizione dell’immagine. Un approccio di questo tipo è più complicato rispetto ai dispositivi di visione a due dimensioni, ma è certamente quello in grado di fornire informazioni più complete. E’ da ricordare, infine, che sono state realizzate anche telecamere piroelettriche, capaci di percepire immagini della temperatura: tale prestazione è utile qualora si richieda la rilevazione della temperatura, specialmente in ambienti in cui la presenza dell’uomo risulti indesiderata causa le temperature troppo elevate. Bisogna sottolineare che i robot dotati di telecamere per la visione devono disporre, per poter duplicare in forma numerica le immagini rilevate, di una capacità di calcolo molto elevata, cioè devono essere provvisti: - di una memoria molto capiente (perché la quantità delle informazioni da recepire è notevole: lunghezza, larghezza, altezza, luminosità, direzione dell’oggetto osservato) - e di un processore molto veloce (perché le informazioni devono essere elaborate in modo tempestivo, in tempo reale; si deve infatti considerare che una telecamera riprende almeno 60 immagini al secondo e che questi dati arrivano all’unità di controllo con una frequenza di circa 4 milioni di pixel al secondo). Tra l’altro, la tendenza attuale è quella di equipaggiare i robot forniti di telecamere con software dedicati per la visione, al fine di supportare il processore in una elaborazione più rapida delle immagini. I sistemi di visione vengono particolarmente utilizzati sui robot addetti alle operazioni di assemblaggio, i quali devono essere in grado di riconoscere più oggetti componenti estremamente diversi tra loro per forma e dimensioni. Tra tutti i dispositivi sensoriali, quelli di visione sono i più complessi e costosi; la loro utilità è tuttavia innegabile (tra i cinque sensi, la vista è quello che offre una maggiore densità e vastità di informazioni). 9. ORGANI DI PRESA.

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Gli organi di presa (gripper) di un robot cercano di riprodurre la capacità prensile della mano umana, per cui sono anche detti mani artificiali. Esistono diversi tipi di mano artificiale, in relazione alle mansioni che il robot deve svolgere: non è mai stata sviluppata, infatti, una mano universale, valida per tutte le applicazioni. Questo perché riprodurre la mano dell’uomo, dotata di venti gradi di libertà, è complesso, costoso e inutile. La complessità ed il costo di questa soluzione risultano ovvi. Per quanto riguarda l’inutilità è da osservare che per effettuare la maggior parte delle operazioni non sono necessari tutti i venti gradi di libertà: molte operazioni, infatti, possono essere eseguite utilizzando semplicemente il pollice e l’indice. Dunque, ecco perché, abbandonando la soluzione di una mano con venti gradi di libertà, i robot industriali utilizzano organi di presa semplificati con caratteristiche specifiche per ogni tipo di applicazione. Gli organi di presa più diffusi in commercio, infatti, hanno solo pochi gradi di libertà. Inizialmente (anni ’60) non erano richieste alte performance agli organi di presa, dato che questi dovevano essere in grado di effettuare semplici spostamenti di oggetti di forma invariata. Successivamente (anni ’70) vi fu la necessità di disporre di organi di presa capaci di afferrare e manovrare utensili per lavorare i pezzi, spesso cambiandone significativamente la forma. Infine (anni ’80) le esigenze crebbero ulteriormente: le problematiche in tal senso vennero esasperate coi robot di assemblaggio, i quali dovevano essere in grado di afferrare e montare oggetti di forma e dimensioni quanto mai diverse. A questo proposito, per conferire al robot un alto grado di versatilità e renderlo capace di afferrare oggetti variabili per forma e dimensioni, sono stati sviluppati diversi sistemi di presa, che vengono analizzati in dettaglio qui di seguito. a) Pinze intercambiabili. E’ il sistema più semplice per afferrare oggetti diversi: il robot trasla il braccio ad una apposita stazione fuori dalla zona di lavoro, dove viene abbandonata la pinza appena utilizzata e ne viene prelevata una adatta alla nuova esigenza. Terminata l’operazione di sostituzione, la pinza viene riportata nell’area di lavoro per proseguire il ciclo. Questo sistema obbliga ad interrompere il ciclo operativo con soste aventi l’unico scopo di adeguare la pinza alle esigenze di presa; per cui si ha una perdita di produttività. b) Torretta rotante con più pinze diverse. Si tratta di un sistema a pinze multiple, tutte disposte su una torretta rotante applicata al polso del robot; con un semplice movimento rotatorio della torretta mobile, è possibile portare le varie pinze, di volta in volta, in posizione di lavoro. Questa soluzione non implica interruzioni del ciclo operativo, dato che elimina le soste tanto dannose alla produttività; presenta però un inconveniente di carattere dinamico, in quanto le varie pinze appesantiscono la struttura del braccio, per cui si riduce la velocità e la precisione delle manovre. c) Pinza a presa multipla. Questo congegno consiste in una pinza dotata di tre dita; la figura di presa può essere modificata all’istante con la semplice rotazione di due delle tre dita. Per effettuare tale rotazione vengono impiegati solitamente dei piccoli motori passo a passo (step motor), che permettono quindi di ottenere numerose posizioni intermedie corrispondenti ad altrettante figura di presa; per ottenere la contrazione vengono generalmente utilizzati degli attuatori pneumatici,

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per le loro caratteristiche di velocità e compattezza. Questo sistema permette, quindi, di afferrare oggetti diversi per forma e dimensione, grazie alla capacità di auto-adattarsi alla forma stessa del particolare oggetto. Si tratta della soluzione più vantaggiosa fra tutte, in quanto non richiede soste per la sostituzione, non implica l’aggravio dinamico del braccio, presenta un alto grado di versatilità. Gli organi di presa sono generalmente classificati in base al principio di afferraggio, per cui si distingue tra organi di presa: 1) meccanici 2) elettromagnetici 3) pneumatici. ● Gli organi di presa meccanici sono solitamente costituiti da pinze, azionate da motori elettrici o da attuatori pneumatici. L’azionamento pneumatico è preferito, poiché fornisce una buona forza di serraggio ed una elevata velocità di serraggio/rilascio. Gli organi meccanici sono i più generici e versatili; inoltre sono quelli che meglio riproducono, anche se in modo semplificato, la capacità prensile della mano. ● Gli organi di presa elettromagnetici utilizzano elettrocalamite (alimentate a corrente continua) o magneti permanenti. Per il rilascio dell’oggetto: nelle elettrocalamite, si utilizza un interruttore che controlla l’energia fornita alla elettrocalamita (all’atto del rilascio, l’interruttore inverte la polarità, il pezzo cade così immediatamente); nei magneti permanenti, si ricorre ad estrattori meccanici. Tali organi di presa servono ovviamente per manipolare pezzi ferrosi; presentano un’elevata flessibilità nell’afferrare pezzi di dimensioni e forme diverse. In particolare: le elettrocalamite garantiscono elevate velocità di presa/rilascio; i magneti permanenti sono adatti per l’uso in ambienti pericolosi, in cui una scintilla potrebbe provocare un’esplosione. Sia le elettrocalamite che i magneti permanenti possono, con particolari accorgimenti, operare anche a temperature elevate (fino a 150 °C le prime, fino a 480 °C i secondi). ● Gli organi di presa pneumatici sono costituiti da ventose, costruite con materiali aventi buone caratteristiche di elasticità (neoprene o uretene) e unite per vulcanizzazione ad un supporto metallico sagomato a coppa. Attraverso dei canali, viene aspirata ed immessa aria, rispettivamente per la presa ed il rilascio dell’oggetto. Per la presa viene creata una depressione aspirando l’aria con una pompa a vuoto o con un tubo di Venturi; per il rilascio è sufficiente annullare la depressione immettendo aria in pressione per mezzo di una valvola. La forza di presa delle ventose è proporzionale alla grandezza dell’area di contatto della ventosa e alla differenza di pressione. In genere è preferibile lavorare con larghe aree di contatto e basse pressioni, in modo che la superficie della ventosa non si deformi, causando perdite d’aria. Il sistema a ventose ha caratteristiche analoghe ai sistemi magnetici, ma con minori possibilità di scivolamento laterale del pezzo in fase di sollevamento. Le ventose permettono di afferrare efficacemente oggetti con superficie liscia e delle dimensioni più disparate; ma permettono di afferrare anche oggetti di forma complessa e con superficie irregolare (in questo caso si utilizzano particolari ventose totalmente flessibili, che sono in grado di adattarsi con minimi

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sforzi a qualunque tipo di sagoma). Le ventose vengono tipicamente utilizzate per afferrare pannelli di vetro, di plastica o ferrosi. 10. UTENSILI. Gli utensili utilizzati dai robot sono in generale adattamenti speciali di utensili comuni, come trapani, frese, seghe circolari, pistole per saldare a punti, torce per saldare ad arco in gas inerte, pistole a spruzzo per la verniciatura, chiavi pneumatiche per dadi, mole, siviere per accogliere il metallo fuso dall’altoforno e trasportarlo e versarlo nelle forme, ecc. Gli utensili utilizzati da un robot possono essere: a) permanenti b) intercambiabili . ● Nel caso sub a), l’utensile è collegato al polso del robot in modo permanente quando il robot utilizza sempre lo stesso utensile nella sua attività operativa. ● Nel caso sub b), invece, l’utensile è collegato al polso del robot in modo intercambiabile quando il robot deve utilizzare più utensili diversi durante la sua attività di lavorazione. In tal caso, il robot deve provvedere autonomamente a cambiare l’utensile, quando necessario. Il robot è allora equipaggiato con uno speciale adattatore, applicato al polso, per il cambio degli utensili; quando il braccio del robot si avvicina ad un magazzino attrezzi appositamente allestito, l’adattatore deposita quello appena utilizzato e preleva quello necessario alla successiva lavorazione agganciandolo automaticamente. 11. PROGRAMMAZIONE. Affinché un robot possa svolgere la mansione cui è adibito, è necessario programmarlo cioè è necessario insegnargli a compiere le operazioni che sarà chiamato ad effettuare. E’ possibile distinguere due modi di programmazione (o di apprendimento analogamente) di un robot: a) programmazione diretta b) programmazione indiretta . ● Programmazione diretta. Nel modo di apprendimento sub a), il movimento del robot è comandato direttamente dall’operatore, che guida il braccio nei suoi spostamenti (traiettoria del braccio; posizione e orientazione del terminale; operazione dell’organo di presa; velocità; tempo di attesa per la presenza del pezzo). Il principio è molto semplice: si prepara innanzitutto la stazione di lavoro, sistemando nella loro esatta posizione i pezzi che il robot dovrà manipolare; successivamente si fanno eseguire al robot -con i sistemi descritti qui di seguito- gli spostamenti necessari, in modo che possano essere memorizzati dall’unità di controllo; una volta programmata, la macchina eseguirà istintivamente la procedura appresa riproducendo i movimenti registrati. Nel modo di programmazione diretto, esistono due metodi per trasmettere le istruzioni al robot: 1) l’insegnamento manuale

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2) l’insegnamento con telecomando, cui il robot è asservito (cd. modo master-slave). Nel caso dell’insegnamento manuale, il braccio del robot è guidato fisicamente a mano dall’operatore, in modo tale da compiere il movimento desiderato; lo sforzo esercitato dall’operatore è minimo grazie ad un dispositivo integrato di assistenza muscolare. In pratica, nell’insegnamento manuale, l’operatore prende per mano il robot e lo porta a passeggio. Nel caso dell’insegnamento con telecomando, il braccio del robot è invece guidato per mezzo di un telecomando portatile, leggero e maneggevole, che l’operatore porta con sé potendosi spostare liberamente attorno al robot (durante la fase di apprendimento) e potendo osservare le evoluzioni del braccio dall’angolazione visuale migliore e più opportuna per definire al meglio i movimenti ed i punti di arresto, eventualmente potendosi anche avvicinare al robot o al pezzo da lavorare per controllare con maggiore precisione le posizioni e gli allineamenti. Dunque, l’operatore manipola l’unità telecomando ed il robot, asservito a tale unità, riproduce simultaneamente tutti i movimenti definiti dall’operatore. Tale telecomando prensile originariamente era costituito da una pistola (cd. pistola di programmazione), collegata con un cavo all’armadio dell’unità di controllo, e contenente una serie di leve e pulsanti agenti direttamente sugli attuatori. Successivamente sono stati realizzati dispositivi di programmazione più potenti e sofisticati (anch’essi collegati via cavo all’armadio dell’unità di controllo), tra cui molto utilizzate sono oggi le cd. teach-box (o unità di insegnamento): la teach-box è, in pratica, un terminale semplificato con potenti funzioni operative, formato da una tastiera alfanumerica corredata da un display a cristalli liquidi. Come telecomando viene impiegato anche un joystick, come quello tipicamente usato per il controllo dei videogiochi; spesso il joystick va ad integrare la teach-box. L’insegnamento manuale è molto semplice e pertanto risulta essere di grande comodità e praticità, tuttavia in condizioni di limitata accessibilità o di pericolosità dell’ambiente di lavoro (per es., nella manipolazione di sostanze radioattive o esplosive o altamente corrosive) muovere fisicamente il braccio diventa difficile o può presentare degli inconvenienti. L’insegnamento con telecomando permette di ovviare a queste difficoltà, dato che consente di governare a distanza il braccio. Vi sono due tipologie di programmazione diretta: 1) punto a punto 2) continua. Nell’apprendimento punto per punto, l’operatore definisce solo i vari punti di arresto -che vengono memorizzati dal robot-, e non anche il tipo di tracciato che unisce questi punti; è il robot che, in base alle sue caratteristiche intrinseche e alla qualità del software di supporto progettato dal costruttore, decide il tragitto più conveniente tra i vari punti per ottimizzare il suo percorso. Questo metodo è utilizzato per lavorazioni dove il percorso seguito non è essenziale (saldatura per punti; spostamento dei pezzi da una stazione di lavoro all’altra). Nell’apprendimento continuo, l’operatore definisce tutto il percorso -che viene memorizzato dal robot-, e non solo i vari punti di arresto. Quindi, con tale metodo,

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il robot successivamente è in grado di riprodurre l’intera traiettoria stabilita dall’operatore. Questa tipologia di apprendimento risulta ottimale per lavorazioni dove il percorso seguito è essenziale (verniciatura; saldatura ad arco; incollaggio; sigillatura). Questo metodo richiede una quantità di memoria maggiore rispetto all’apprendimento punto a punto, perché l’unità di controllo, durante lo spostamento del braccio, deve immagazzinare non solo i punti di arresto ma anche l’intera traiettoria selezionata. I metodi di programmazione diretta sono stati i primi ad essere introdotti nel campo della robotica e sono molto semplici da attuare: secondo la concezione originaria, infatti, i robot dovevano essere utilizzabili anche da operatori non qualificati, per cui le metodologie di programmazione dovevano essere facili da eseguire. Si tratta quindi di metodi rudimentali, tuttavia ancora utilizzati quando la lavorazione richiesta è semplice e ripetitiva. L’apprendimento diretto comporta però i seguenti svantaggi: - la precisione del robot dipende in larga parte dalla precisione con cui l’operatore posiziona il braccio e il terminale in sede di apprendimento - la programmazione è on-line (cioè direttamente in linea col processo produttivo); in altre parole, per programmare il robot, è necessario disconnetterlo, sottraendolo quindi alla produzione. ● Programmazione indiretta. I limiti dei sistemi di insegnamento diretto possono essere superati per mezzo di una programmazione più complessa, che fa uso dei cd. linguaggi evoluti. Infatti, uno degli sviluppi più recenti della robotica riguarda proprio i linguaggi di programmazione disponibili: ai metodi manuali, prima utilizzati correntemente, si sono affiancati (seconda metà degli anni ’70) questi nuovi e potenti metodi di programmazione. Con l’apprendimento indiretto il movimento del robot può essere definito senza che sia necessario spostare materialmente il braccio da parte dell’operatore. In questo caso, per dare istruzioni al robot in generale si utilizzano: 1) un terminale remoto collegato via cavo all’unità di controllo, composto da una tastiera alfanumerica e da un video (ma sono possibili anche sistemi con interfaccia mista, formati da terminale remoto collegato a teach-box; è tuttavia da notare che la complessità d’impiego di un terminale remoto è maggiore rispetto a quella della teach-box, essendo quest’ultima un terminale semplificato e quindi che implica un uso intuitivo per così dire) 2) un linguaggio di programmazione ad hoc, cioè dedicato esclusivamente alla programmazione di robot industriali (ossia con istruzioni specifiche per la robotica). Nell’insegnamento indiretto l’operatore redige un programma dove vengono specificati i punti di arresto, la traiettoria, la velocità, l’accelerazione, la posizione, l’orientazione, i tempi di salita, i tempi di sosta, … del braccio. Un programma di questo tipo viene scritto in linguaggio accessibile all’utente (linguaggio a sintassi mista: numerica e con parole) e poi decodificato dall’unità di elaborazione (linguaggio macchina, cioè solo numerico), che provvede poi a generare i segnali di comando da inviare agli attuatori al fine di garantire il movimento del braccio. I vantaggi dell’apprendimento tramite linguaggi evoluti sono i seguenti:

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- la programmazione è off-line (cioè fuori linea dal processo produttivo); in altri termini, non è necessario disconnettere il robot per programmarlo, per cui si evita di sottrarlo alla produzione durante la fase di programmazione; quindi il robot può continuare ad effettuare un certo lavoro mentre si predispone il programma relativo al lavoro successivo (è da dire che la programmazione off-line non è di grande interesse ed utilità nelle produzioni di massa, quando un medesimo tipo di lavoro deve essere ripetuto molte volte -come nella saldature di scocche di automobili-, ma diviene rilevante nel caso di produzione di lotti limitati -medio-piccoli- quando il robot deve essere frequentemente riprogrammato) - il robot è più preciso nel suo lavoro, e quindi la sua efficienza produttiva è più elevata (la programmazione con linguaggi evoluti, infatti, permette al robot di controllare accuratamente molte variabili: velocità e accelerazione dei motori dei giunti, comportamento dei giunti, comportamento degli attuatori e dei sensori, comportamento del terminale, ecc.) - il robot può essere interfacciato con una banca dati elettronica per il carico/scarico di programmi oggetto per le lavorazioni - l’operatore può dialogare in chiaro col robot nello stesso modo in cui si può dialogare con un computer; per es., il robot può inviare all’operatore informazioni, tramite il videoterminale, di tipo diagnostico (auto-diagnosi) per descrivere la natura e l’ubicazione di eventuali avarie o per informarlo sullo stato di manutenzione del sistema; ed ancora l’operatore può, per es., gestire sottoprogrammi di errore, di modo che il robot possa reagire opportunamente ad avvenimenti imprevisti (caduta del pezzo da lavorare, presenza di oggetti estranei, ecc.) senza interrompere la lavorazione - la possibilità di collegare in rete il robot con altre unità produttive (macchine utensili a controllo numerico computerizzato, sistemi automatici di movimentazione e magazzinaggio, altri robot, ecc.), in modo da creare un sistema flessibile di produzione (FMS, Fexible Manufacturing System) - la possibilità di programmare il robot da postazione remota, qualora l’attività di programmazione diretta comporti dei rischi per l’operatore. E’ da notare che nel caso delle applicazioni robotiche più semplici non si verifica l’esigenza di una programmazione con linguaggi evoluti, il cui uso d’altra parte non sarebbe giustificato in tal senso, dato che l’impiego di un linguaggio di programmazione è comunque complesso (è infatti richiesta la conoscenza tecnica di tale linguaggio; anche se la tendenza attuale è comunque quella di sviluppare linguaggi di programmazione aventi una sintassi semplice ed immediata, di modo che il loro impiego non richieda conoscenze approfondite da parte di chi programma) e la sua definizione richiede tempo: infatti, come già detto in precedenza, la programmazione diretta è quella solitamente utilizzata quando la lavorazione richiesta è semplice e ripetitiva. Tuttavia la programmazione indiretta si rivela particolarmente utile o addirittura indispensabile in lavorazioni robotiche complesse (operazioni di assemblaggio; operazioni di ispezione e controllo del prodotto per la ricerca di eventuali difetti).

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12. SISTEMI DI CONTROLLO. Gli attuali sistemi di controllo per robot si basano su tecnologia elettronica. Tuttavia è opportuno ricordare che gli originari (anni ’60) sistemi di controllo robotici erano realizzati senza fare riferimento a componenti elettronici. In questo senso è possibile distinguere i sistemi di controllo in: a) sistemi a sequenziatori (elettromeccanici a relè o pneumatici) b) sistemi programmabili . ● Non è il caso di occuparsi dei sistemi della categoria sub a), dato che il loro impiego è stato abbandonato. ● Fanno parte della categoria sub b) i sistemi di controllo elettronici, e cioè i calcolatori (computer) e i PLC (programmatore logico combinatorio). Grazie a questi sistemi elettronici è possibile riprogrammare facilmente e velocemente il robot (cosa che non era possibile con i sistemi a sequenziatori, se non con modifiche fisiche, tra l’altro non sempre possibili per limiti meccanici): la possibilità di una semplice riprogrammazione per compiti diversi è d’altra parte diventata un requisito essenziale di flessibilità nei robot di terza generazione. Un calcolatore è tipicamente costituito dalla seguente componentistica hardware: 1) un micro-processore centrale (CPU, Central Processing Unit), che costituisce l’unità di governo del robot (è paragonabile al cervello del robot); tale processore -come già visto- codifica il programma di istruzioni per la lavorazione, elabora i segnali dei sensori, invia i comandi agli attuatori, compie i calcoli matematici relativi al braccio e al terminale; in tal senso si preferisce adottare una soluzione multiprocessore, cioè la tendenza attuale è quella di utilizzare più micro-processori locali interconnessi che fanno riferimento al micro-processore centrale di ordine superiore, per cui in generale esiste una CPU per ogni attuatore e per ogni sensore collegata alla CPU centrale; ogni CPU periferica dispone di programmi e routine specifici per svolgere i compiti a cui è destinata; le CPU periferiche sono collegate tra loro, alla CPU centrale, agli attuatori, ai sensori tramite interfacce; questa soluzione multiprocessore garantisce una elaborazione dei dati più tempestiva (come già detto in precedenza) 2) una memoria principale, che risiede nella CPU centrale e a cui la CPU centrale può accedere; in tale memoria è contenuto in forma residente il sistema operativo (ossia l’insieme dei programmi e delle routine che consentono al sistema di controllo di dialogare con l’utente e di far funzionare le periferiche come la tastiera, il video, ecc.) 3) una o più memorie di massa (hard-disk, floppy-disk, compact-disk, …), variabili in funzione della capacità e della velocità richieste; nella memoria di massa è contenuto il programma (o i programmi) relativo al ciclo di lavoro. Il PLC è uno strumento elettronico di controllo e programmazione potente e di facile uso: grazie alla circuiteria elettronica digitale di cui è composto, è in grado di manipolare grandi quantità di informazioni ad elevate velocità. Per questo motivo esso trova ampio impiego nell’ambito dell’automazione industriale. Un PLC è poco più grande di un telecomando e ha forma rettangolare; la programmazione viene effettuata tramite una tastiera alfanumerica collegata al PLC oppure tramite un

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pannello di programmazione integrato con il PLC. Il linguaggio di programmazione può essere: informatico (sintassi mista), macchina (numerico), booleano (secondo gli operatori logici: NOT, OR, AND, …), o anche di altro tipo. Un PLC dispone del seguente hardware fisico: 1) una unità centrale, che è il cervello del PLC; essa è collegata ai circuiti di ingresso/uscita e alla memoria; l’unità centrale legge ciclicamente lo stato degli ingressi (programma di lavoro) in modo da generare le uscite, al fine di movimentare l’automatismo 2) una unità di memoria; la memoria dei PLC è di tipo binario, ossia distingue soltanto le due cifre “0” e “1” 3) una serie di ingressi/uscite ( I / O, input/output), con funzione di interfaccia. 13. APPLICAZIONI OPERATIVE. La concezione originaria del robot era quella di una macchina che potesse, come l’uomo, adattarsi ad ogni tipo di situazione operativa, per cui tale concezione orientò i primi costruttori alla realizzazione di robot di tipo universale, ossia capaci di svolgere ogni caratteristica lavorazione industriale: saldatura, verniciatura, assemblaggio, ecc. L’esperienza ha tuttavia dimostrato che, almeno allo stato attuale della tecnologia, il robot universale è molto meno efficiente dei cd. robot dedicati, ossia progettati per uno specifico compito. Ogni tipo di robot, in base alla particolare mansione per cui è stato progettato, presenta non solo una diversa struttura, come è intuibile, ma anche un differente sistema di controllo (hardware e software). Tipicamente è possibile distinguere i seguenti robot dedicati per specifiche modalità d’impiego. a) Robot di saldatura a punti. La saldatura a punti è l’applicazione più diffusa al mondo per robot industriali. Tale operazione viene di solito effettuata nella carrozzeria delle automobili: tradizionalmente l’industria automobilistica è il maggiore utente di robot per la saldatura a punti. La diffusione dei robot in questo tipo di applicazione è avvenuta a partire dai primi anni ’70, inizialmente proprio nell’industria automobilistica, ed è stata molto rapida. In questa lavorazione il robot impugna una saldatrice -avente un peso variabile tra i 5 ed i 30 kg-, che manovra attorno alla carrozzeria dell’autovettura, saldando la struttura delle portiere, le aperture dei cristalli, i batticalcagni, ecc. al ritmo medio di un chiodo di saldatura ogni secondo e mezzo. In questo senso, non sono insolite linee di produzione comprendenti anche 60 robot. I robot possono essere montati in modo fisso su entrambi i lati di una linea di montaggio o possono essere scorrevoli su rotaia (posta sul pavimento o in posizione aerea). In questo tipo di applicazione, il percorso seguito non è essenziale: il robot deve solo spostarsi da un punto ad un altro e in questi effettuare la saldatura, quindi non ha bisogno di mantenere un controllo rigoroso sul percorso dell’utensile. Pertanto i robot addetti a questa mansione hanno: minima precisione dinamica (lungo il percorso) e media precisione statica (sul punto da saldare), nessuna capacità sensoriale, capacità di memoria medio-piccola, capacità di calcolo limitata. In genere sono equipaggiati con attuatori elettrici.

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b) Robot di saldatura ad arco. Si tratta di un altro tipo di saldatura correntemente usato nell’industria -effettuata per mezzo di una torcia saldante-, che consente di effettuare saldature continue lungo traiettorie prestabilite. Il robot che compie l’arcosaldatura dev’essere più sofisticato rispetto a quello che esegue la saldatura per punti, dato che dev’essere in grado di spostare la saldatrice lungo un percorso continuo prestabilito con velocità costante, mantenendo un controllo rigoroso sull’orientazione della torcia di saldatura rispetto al pezzo da saldare. Pertanto i robot addetti all’arcosaldatura hanno: notevole precisione (di traiettoria e di velocità), sensori tattili o visivi (per ben adattarsi al pezzo da lavorare, a causa del complesso problema di ricerca e di inseguimento del giunto, che non è sempre perfetto o che si deforma durante la lavorazione), capacità di memoria medio-grande (per la necessità di memorizzare l’intera traiettoria), capacità di calcolo molto elevata (uso di funzioni trigonometriche, radici quadrate, ecc. ). Dato che la saldatura ad arco è un’operazione complessa, spesso vengono utilizzati sensori sia tattili sia visivi tra loro integrati e micro-processori locali, per guidare al meglio la torcia saldante. Generalmente i robot di arcosaldatura montano attuatori elettrici. c) Robot di verniciatura a spruzzo. I robot di verniciatura sono fra i più utilizzati al mondo. Anche questo tipo di applicazione è notevolmente diffuso nell’industria automobilistica per la verniciatura delle scocche: i robot possono essere montati in modo fisso su ambo i lati di una linea di verniciatura (la scocca è mobile, trasportata su dei binari) ed ognuno di essi è addetto alla verniciatura di una parte della scocca (portiere, cofano, ecc.), oppure possono essere scorrevoli su rotaia (posta sul pavimento o in posizione aerea) mentre la scocca è ferma. Il modo di operare del robot in questa lavorazione è forse quello che imita maggiormente l’azione svolta dall’uomo. Il braccio sostiene e comanda una pistola verniciatrice a spruzzo alimentata in pressione e la muove lungo un percorso continuo prefissato, con durate molto variabili (da alcuni minuti a qualche ora), mantenendo la direzione dello spruzzo perpendicolarmente rispetto alla superficie da verniciare. Dunque, un robot di questo tipo deve essere in grado di eseguire il tipico movimento di verniciatura in modo uniforme e con velocità costante (per distribuire la vernice in modo omogeneo e per non variare gli spessori di verniciatura) e di memorizzare un numero elevato di traiettorie. Pertanto un robot dedicato per questa mansione ha: notevole precisione di velocità (affinché le passate di vernice siano uniformi) e modesta precisione di posizionamento, notevole capacità di memoria (per archiviare le numerose traiettorie, anche quelle più lunghe e complesse), media capacità di calcolo (per la ricostruzione delle traiettorie), capacità sensoriale (per il riconoscimento ottico dei particolari da verniciare; non necessita una capacità sensoriale sofisticata, in genere ottenibile con una serie di fotocellule; vengono comunque utilizzate anche telecamere). Gli attuatori sono generalmente elettrici. d) Robot di sbavatura/smerigliatura/lucidatura/taglio e di incollaggio/sigillatura. I robot addetti alla sbavatura, alla smerigliatura, alla lucidatura, al taglio e quelli addetti all’applicazione di collanti e sigillanti presentano le stesse caratteristiche dei robot di arcosaldatura, dato che devono essere capaci di spostarsi lungo un percorso continuo prestabilito a velocità costante

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e con grande capacità di adattamento al pezzo da lavorare, mantenendo un controllo rigoroso sull’orientazione dell’utensile. e) Robot di pressofusione. L’impiego nei reparti di pressofusione è stato il primissimo esempio di applicazione di robot industriali. Si trattò di una scelta ovvia, dato che tale lavoro è particolarmente ostile per l’uomo. Originariamente il compito del robot consisteva nell’estrarre dalla macchina di fusione i getti di metallo ad altissima temperatura, per poi immergerli in un bagno d’acqua per farli raffreddare. Successivamente tale applicazione divenne più evoluta: il robot, dopo aver immerso il getto metallico caldo nel bagno di raffreddamento, lo trasferiva a una pressa, poi ad una macchina utensile per la sbavatura ed infine lo deponeva su un nastro trasportatore. La raccolta dei getti dalla macchina di fusione e il loro successivo trasferimento alle macchine utensili e al nastro trasportatore avvengono in posizioni fisse, per cui la mansione del robot in questo ambito è relativamente semplice. Pertanto ai robot di pressofusione non sono richieste particolari dotazioni: minima precisione dinamica e media precisione statica, nessuna capacità sensoriale (o comunque molto semplice), capacità di memoria medio-piccola, capacità di calcolo limitata (si tratta sostanzialmente delle stesse caratteristiche dei robot di saldatura a punti). Tuttavia l’impiego dei robot di pressofusione è impegnativo da un altro punto di vista: il braccio, ovviamente, è sottoposto a sbalzi termici, che, oltre a costituire un motivo di particolare sollecitazione per la struttura metallica del manipolatore, provocano anche disturbi al sistema degli attuatori (che sono pneumatici; non idraulici e non elettrici, per il pericolo d’incendio). E’, dunque, necessario raffreddare periodicamente gli organi di presa, per es. mediante immersione degli stessi in un bagno d’acqua. f) Robot siderurgici di fucinatura. Un robot impiegato in fonderia provvede a deporre le billette nell’altoforno; una volta riscaldate, le billette roventi vengono estratte dal forno da parte dello stesso robot. Anche ad un robot di fucinatura non sono richieste particolari dotazioni. E’ necessario però che abbia una buona capacità sensoriale, perché quando le billette arrivano in uscita da un forno in modo disordinato o quando aderiscono agli stampi o quando non sono a temperature ottimali, un robot cieco si trova in grave difficoltà. Anche in questa applicazione, il robot è sottoposto a stress perché deve sopportare temperature molto alte (ancor più alte di quelle del processo di pressofusione), per cui il braccio e gli attuatori (anche qui pneumatici) sono soggetti a sbalzi termici: questo lavoro, a causa del forte calore, è spesso impegnativo anche per un robot. In applicazioni più evolute, il robot di fonderia può preparare il metallo fuso, può effettuare la colata negli stampi, può sostituirli, può eseguire la loro pulizia a spruzzo e la loro lubrificazione. g) Robot di movimentazione. Si tratta di robot che spostano nello spazio oggetti più o meno ingombranti e pesanti, senza eseguire operazioni di lavorazione o di assemblaggio. Specificatamente in questo ambito vi sono robot di: carico/scarico di macchine utensili (una delle prime applicazioni in tal senso e tutt’ora una delle più diffuse in tutto il mondo è lo scarico di macchine pressocolatrici per materie plastiche e leghe leggere), robot che servono più macchine operatrici (la cd. isola di fabbricazione; le macchine sono disposte in cerchio o su un arco di cerchio intorno

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al robot, oppure il robot è mobile su rotaia e serve una linea di macchine), robot che trasferiscono i pezzi da un nastro trasportatore all’altro, robot di presa e deposito di merci presso magazzini, robot che collocano in modo ordinato pezzi finiti su un pallet (scaffale), ecc. Vi sono anche applicazioni più evolute che prevedono robot che inscatolano prodotti vari o che confezionano prodotti alimentari/farmaceutici. La movimentazione di materiali è l’applicazione robotica più elementare (meno intelligente); pertanto ai robot di questa categoria si richiede: minima precisione dinamica (lungo il percorso) e media precisione statica (di posizionamento), alta velocità di spostamento, nessuna capacità sensoriale, capacità di memoria medio-piccola, capacità di calcolo limitata (sostanzialmente come per i robot di saldatura a punti). I robot di movimentazione sono equipaggiati con attuatori elettrici o pneumatici o idraulici (con questi ultimi, in particolare, se gli oggetti da movimentare sono molto pesanti, oltre i 100 kg). h) Robot di assemblaggio. Tali robot sono impiegati nelle operazioni di montaggio di apparati meccanici (scatole di ingranaggi, pompe dell’acqua per automobili, ecc.), elettromeccanici (motori elettrici, elettrodomestici, ecc.), elettronici (circuiti stampati, apparecchi radio e TV, video-registratori, ecc.) di piccole e grandi dimensioni. Oggi, in tal ambito, è possibile acquistare sul mercato robot completamente attrezzati e programmati per una vasta gamma di operazioni settoriali, capaci di eseguire in brevissimo tempo il montaggio di gruppi composti di circa 6-12 pezzi diversi: tipicamente il montaggio di apparati formati da una decina di parti richiede tempi dell’ordine di un minuto. E’ da dire che i robot di assemblaggio sono i più costosi fra tutti, dato che devono essere dotati di sufficienti capacità sensorie, che ne fanno lievitare il prezzo. Generalmente una stazione robotica di assemblaggio comprende dei trasportatori rotativi, su cui sono disposti i componenti, e tre robot, sincronizzati tra loro nei movimenti per un coordinamento/una coincidenza temporale delle fasi di montaggio: i robot 1 e 2 sono adibiti alla movimentazione e al posizionamento delle diverse parti, il robot 3 è specializzato nelle operazioni di avvitamento; i robot 1 e 2 si alternano nel montaggio in modo da rendere più veloce l’intera operazione, mentre la diversa disposizione dei trasportatori su cui si trovano i componenti è studiata per evitare interferenze fra i bracci. Le caratteristiche di questa tipologia di robot sono molto simili a quelle dei robot di saldatura ad arco: precisione molto elevata (per l’introduzione di parti entro alloggiamenti prestabiliti con tolleranze limitate), integrazione di sensori di forza (per il rispetto delle tolleranze; es., l’avvitamento di una vite nel suo alloggiamento senza spanare la filettatura) e visivi (per il riconoscimento dei vari pezzi componenti, diversi per forma e dimensioni, e della loro posizione ed orientazione di montaggio), capacità di memoria medio-grande e di calcolo molto elevata (per l’elaborazione in tempo reale dei dati provenienti dai sensori; spesso si utilizzano micro-processori locali). Generalmente si utilizzano attuatori elettrici. i) Robot di rilevamento metrologico. I robot di misura vengono impiegati per rilevare eventuali difetti dimensionali del prodotto. Per compiere le misurazioni d’interesse, essi generalmente in luogo dell’organo di presa o dell’utensile di lavoro

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montano una sonda a raggi laser (o a ultrasuoni) che misura con grande precisione le dimensioni dell’oggetto sottoposto a controllo. Sulla base delle misure così ottenute, il calcolatore di controllo verifica il corretto dimensionamento del pezzo, confrontando le misure reali rilevate con le misure teoriche del progetto. I sistemi di misura robotizzati possono essere inter-operazionali (per cui permettono di controllare i pezzi mentre vengono lavorati) oppure di fine lavorazione (questi consentono di controllare i pezzi subito dopo che sono stati fabbricati). I robot di ispezione vengono impiegati, per es., nell’industria automobilistica per accertare che le varie aperture nella carrozzeria di un’autovettura (apertura delle portiere, del cofano, ecc.) rispettino le tolleranze stabilite in fase progettuale. Vengono anche utilizzati nell’industria aeronautica, per controllare se i pannelli che costituiscono la scocca dell’aereo superano o meno un certo valore dimensionale di soglia ammesso. Si tratta di robot con elevata precisione di posizione, alta velocità, capacità di memoria medio-piccola, capacità di calcolo media. I loro attuatori sono in genere elettrici. 14. CONCLUSIONI E TENDENZE DELLA ROBOTICA INDUSTRIA LE. Il robot è dunque una macchina estremamente sofisticata, che conserva, almeno in una certa misura, la versatilità propria dell’uomo senza peraltro essere affetta dai limiti di quest’ultimo quali l’affaticamento fisico e psichico. Esso quindi è in grado, in prima istanza, di sostituire l’uomo in tutti i casi nei quali sono normali o possibili condizioni di lavoro particolarmente insalubri, intollerabili, onerose. Tuttavia la versatilità del braccio, del polso, della mano dell’uomo, la capacità della sua corteccia cerebrale di organizzare, attraverso la visione, una immagine dettagliata, tridimensionale e a colori del mondo esterno, nonché di elaborare e trasmettere segnali e di rispondere in modo coordinato e rapido a variazioni dell’ambiente circostante costituiscono facoltà la cui riproduzione in una macchina rimane ancora difficile. Ma, come si dice: il futuro è veloce ad arrivare … D’altra parte, ad oggi le ricerche e le linee di sviluppo della robotica industriale sono molteplici; qui di seguito vengono citate le più importanti. a) Struttura. Un’interessante futura prestazione sarà la mobilità del robot, cioè la possibilità di muoversi liberamente al suolo (e non solo su rotaia, com’è già possibile), unita ad un minor peso e ad un minor ingombro. b) Sistema di controllo. Ricerche in corso sono orientate a realizzare un robot fornito di un completo sistema di auto-diagnostica, con indicazioni sommarie per la riparazione dei guasti. c) Organi di presa. Si cerca, in tal senso, di realizzare due mani prensili multiuso, sincronizzate tra loro che lavorano sullo stesso robot. d) Sensori. Vi sono studi orientati a sviluppare dei sensori acustici, di modo che l’operatore possa comunicare a viva voce i comandi e le istruzioni al robot, come si farebbe con una persona, senza la necessità di usare la consolle di programmazione: un adeguato software riconoscerà le parole e le tradurrà in istruzioni operative. Sempre in questo senso vi sono ricerche dirette a dotare il robot di capacità di parola, di modo che possa comunicare verbalmente con l’operatore informandolo di

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eventuali avarie, guasti, malfunzionamenti, necessità di manutenzione tecnica, ecc. e) Intelligenza artificiale. In questo ambito, tra l’altro, si tenta di creare un robot in grado di definire la propria strategia operativa, attraverso una verifica per prova-ed-errore di azioni e di traiettorie differenti; una tale evoluzione nei meccanismi di apprendimento permetterà di superare quello che è attualmente il maggior limite della tecnologia robotica, ossia la necessità di prespecificare ogni azione in dettaglio completo. Ordini vaghi possono essere dati all’uomo, ma non alla macchina. Almeno per ora …

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BIBLIOGRAFIA

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• Camagni R., Il robot italiano - produzione e mercato della robotica

industriale, Edizioni del Sole 24 Ore, 1984

• Isidori A., Il mondo dei robot - i protagonisti dell’automazione industriale, Giunti Barbèra editore, 1986

• Melchiorri C., Elementi di robotica, Università di Bologna - Dipartimento di

elettronica industriale, 2002

• Minsky M., La robotica - il primo autorevole rapporto dalle frontiere dell’alta tecnologia, Longanesi & C. editore, 1987