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Lithos VISUALITÀ E SCRITTURA a cura di Mario Martino e Mauro Ponzi

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Lithos

VISUALITÀ E SCRITTURA

a cura diMario Martino e Mauro Ponzi

VISUALITÀ E SCRITTURA a cura di Mario M

artino e Mauro Ponzi

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INDICE

Introduzione 9

PARTE IExcursus storico-teorico

Alessandro Stavru: L’Ekphrasis antica tra visualità e scrittura. Genealogia di un concetto 19

Francesco Muzzioli: Immagine e discorso: i due tempi dell’allegoria 33

Paul Hamilton: L’approfondimento critico. Come Hazlitt giudica la pittura 61

PARTE IIArti sorelle

Mauro Ponzi: La “maledizione analogica” e “l’occhio pittorico”. Goethe tra arte e natura 85

Chiara Moriconi: Poeti pittori: John Keats e Dante Gabriel Rossetti 105

Rita Giuliani: Visione ottica e visione pittorica nell’opera di Nikolaj Gogol’ 147

Giuseppe Massara: Attraverso lo specchio. Poetiche della visualità tra Vittorianesimo e Modernismo 167

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Norbert von Prellwitz: La via della perfezione passa per la pittura. Lettura di Camino de perfección (1902) di Pío Baroja 183

Stefano Tedeschi: L’ekphrasis poetica e l’arte preispanica. Una relazione problematica 219

Ugo Rubeo: La carriola rossa. Modernismo e visualità nella letteratura americana del primo Novecento 237

Jolanda Nigro Covre: Ai margini del futurismo 265

PARTE IIINei media audivisivi

Silvano Peloso: Cinema, letteratura e società. Il Cinema Novo brasiliano 277

Monika Woźniak: Pan Tadeusz sullo schermo. Il mito polacco interpretato da Andrzej Wajda. 285

Mario Martino: Close-up. Forme della visualità in Boardwalk Empire 311

Abstract 339

Bibliografia 347

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Ugo Rubeo

LA CARRIOLA ROSSA Modernismo e visualità nella letteratura americana

del primo Novecento

December 1910

Vorrei partire da un breve riferimento a un romanziere americano trapiantato in Europa, come Henry James, tra i primi ad affrontare quel momento di passaggio tra tradizio-ne ottocentesca e innovazione moderna in modo consapevo-le, il quale, seppur senza mai operare rotture drammatiche, ha svolto un’importante funzione di cerniera tra vecchio e nuovo secolo, così come tra vecchio e nuovo mondo. Spesso indicato come un anticipatore del moderno, pur se tra i mag-giori esponenti della tradizione letteraria derivata dal reali-smo francese e dal romanzo vittoriano, James deve questa sua particolarità soprattutto a due elementi costitutivi della sua poetica: l’attenzione per la pittura e la sua preparazione in materia, grazie ai contatti con William M. Hunt e John La Farge prima, e a quello con John S. Sargent poi; la sua ricer-ca, incentrata sullo scavo psicologico dei personaggi, sull’e-vansecenza di una dimensione certo più astratta di quella al centro del programma realista, la quale emerge appieno, nei primissimi anni del ‘900, nei romanzi della sua major phase.

Nel primo caso, la dimestichezza col quadro – uno dei suoi romanzi più noti si intitola The Portrait of a Lady (1881) – lo porterà proprio a privilegiare la costruzione visi-va non solo di singole scene, ma dell’opera in quanto tale e a formulare un’articolata teoria del punto di vista circo-scrit-to, di quell’incrocio tra visuale e coscienza del narratore dal quale nasce quella particolare narrazione. E nella Prefazione al Portrait, del resto, James scrive:

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[…] la casa della narrativa – non ha una finestra sola, ma un milione – un numero quasi incalcolabile di possi-bili finestre, ognuna delle quali è stata aperta o è ancora apribile, sulla sua vasta fronte, dalla necessità della vi-sione e dalla pressione della volontà individuale […]1,

ponendo in tal modo al centro della sua idea di romanzo esattamente la questione della sua plausibilità visiva. Ed è proprio grazie all’insegnamento di James circa la necessaria coerenza con cui lo scrittore deve creare la voce narrante cui è affidato il racconto della sua storia, peraltro, che Fran-cis Scott Fitzgerald, il più jamesiano dei modernisti, negli anni Venti sarà in grado di raccontare la vicenda del suo Grande Gatsby in modo tanto efficace e convincente, attra-verso il punto di vista di uno dei narratori più riusciti del ’900, qual è Nick Carraway.

Ma il romanzo e la poesia americani dei primi anni del Novecento naturalmente partecipano di quel nuovo clima di euforia che si respira, soprattutto in Europa, nei primi anni del secolo e di cui, come si diceva, la nuova pittura impres-sionista e post-impressionista è uno dei maggiori vettori. Ed è dal clima europeo, e da Londra in particolare, che giunge un’altra voce non di semplice conferma, ma di netto raffor-zamento della tesi circa il legame inscindibile tra visuali-tà e scrittura: la voce, suggestiva e autorevole, è quella di Virginia Woolf, la quale, in sintonia con certa ineffabilità modernista, ricorda come attorno al mese di dicembre del 1910, “human character changed”:

Non sto dicendo che uno usciva, com’era possibile in giardino, e lì s’accorgeva che era fiorita una rosa, o che una gallina aveva depositato un uovo. Il cambiamento non fu così immediato e definito. Ciò non ostante, un

1 H. James, Le prefazioni, trad. e cura di A. Lombardo, Venezia, Neri Pozza Editore, 1956, p.48.

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cambiamento c’era; e, dato che si deve essere arbitrari, datiamolo intorno al 1910.2

Con quella data, in realtà, Woolf allude al fatto che a Londra, proprio nel dicembre 1910, fu inaugurata alle Graf-ton Galleries un’importantissima mostra, intitolata “Manet And The Post Impressionists”, nella quale veniva per la pri-ma volta esibito al pubblico inglese e internazionale uno straordinario gruppo di artisti, tra i quali Cézanne, Matisse, Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Gauguin, Redon, Seurat e Pi-casso: come dire, tutti coloro che sarebbero poi stati ricono-sciuti come i grandi maestri dell’arte moderna. Dopotutto, da questo punto di vista, non sembra proprio che Virginia Woolf stesse esagerando.

Gertrude Stein e i suoi amici pittori

Sempre in Europa, anche se questa volta sulla rive gauche della Senna, e sempre in quegli stessi anni d’inizio Novecento compare anche un altro nome importante rispetto a questo discorso sul rapporto tra pittura e scrittura che si sta seguen-do: il nome, in questo caso, è quello di Gertrude Stein, scrit-trice, poetessa, grande collezionista d’arte e ani-ma di quella migrazione di artisti e intellettuali americani in Europa – i cosiddetti espatriati – che nel corso degli anni venti frequen-tarono intensamente le maggiori capitali europee e i loro cen-tri culturali più in voga. Stein fu tra i primi scrittori a speri-mentare con l’idea di un linguaggio ad alto impatto visivo e il suo apporto alla causa moderna consiste soprattutto in una serie di stimolanti esperimenti per definire un proprio stile innovativo di scrittura. Impegnata nel tentativo di ripristinare

2 V. Woolf, “Mr. Bennett and Mrs. Brown ,ˮ London, Hogart Press, 1924, p.4. Quando non altrimenti specificato, le traduzioni in ita-liano sono mie.

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il valore originario della parola, di recuperarne il potenziale comunicativo e quindi di restituire alla lingua le sue quali-tà magiche, allontanandosi dalle forme di rappresentazione realista e privilegiando invece, in chiave di astrazione sim-bolica, sia l’impatto visuale sia quello fonetico, ella continuò a esplorare nuove combinazioni nel tentativo di rafforzare il potenziale suggestivo e immaginifico del linguaggio. A que-sto fine, Stein si servì sia di tecniche legate alla libera associa-zione e alla scrittura automatica, sia di una serie di violazioni sistematiche delle norme linguistiche standard, quanto a ripe-tizioni, punteggiatura, slittamenti semantici, avvicinandosi e in alcuni casi anticipando anche gli esperimenti di alcuni tra i maggiori esponenti del modernismo europeo, come Joyce e la stessa Woolf, in tema di narrazione “a basso grado di coscien-za” o anche di stream of counsciousness. Un breve esempio per tentare di chiarire i termini del discorso:3

Cow come out cow come out and out

Vacca vieni fuori vacca vieni fuori e

and smell a little. fuori e puzza un po’.Draw prettily. Disegna per bene.Next to a bloom. Accanto a una fioritura.Neat stretch. Un bel tratto.Place plenty. Metticene tanti.Cauliflower. Cavolfiore.Cauliflower. Cavolfiore.Curtain cousin. Cugino da sipario.Apron. Grembiule.Neither best set. Né l’uno né l’altro servizio

elegante.Do I make faces like that at you.

Ti faccio forse delle facce io.3

3 G. Stein, “Sacred Emily ,ˮ pubblicata originariamente in Geo-graphy and Plays (1922); in La sacra Emilia e altre poesie, trad. e cura di L. Ballerini, Venezia, Marsilio, 1998, pp.80-81.

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Si è spesso sottolineato come la tecnica compositiva di Gertrude Stein tragga diretta ispirazione dalla pittura d’a-vanguardia, in particolare dal post-impressionismo, e come questo suo sperimentalismo abbia a sua volta avuto una ri-caduta non indifferente su scrittori e poeti americani – tra gli altri T.S. Eliot, Ezra Pound, Amy Lowell, William Carlos Williams, H. D. – tutti pesantemente influenzati dal forte impatto visuale della sua scrittura. Del resto, proprio i suoi amici post-impressionisti e cubisti hanno contribuito al suo progressivo allontanamento dalle convenzioni della narra-tiva realista, nel caso di Cézanne, ad accentuare la portata psicologica dei suoi personaggi femminili nei confronti del-la centralità della trama, in quello di Matisse, o a privilegia-re l’uso di un linguaggio libero, fatto soprattutto di ripeti-zioni ossessive e spiraleggianti, in quello di Picasso. Il suo salotto, al 27 rue de Fleurus, appena fuori dei giardini del Louxembourg, ospitò a lungo questi artisti e le loro opere, che, insieme col fratello Leo, la Stein aveva frattanto acqui-stato, tanto da divenire riferimento obbligato per i giovani scrittori americani in visita a Parigi e centro propulsore del movimento, per i primi trent’anni del Novecento.

La risposta americana: l’Armory Show

Per concludere questa prima fase del discorso sulle re-ciprocità e le sovrapposizioni tra rappresentazione visiva e scrittura, relativamente alla realtà americana, è infine op-portuno un riferimento a un’altra mostra d’arte che va sotto il nome, ormai molto noto, di Armory Show e alla quale si fa usualmente risalire l’inizio riconoscibile del movimento modernista negli Stati Uniti, il suo esordio pubblico. Pri-ma grande mostra internazionale d’arte contemporanea a esser tenuta in America, nel 1913, essa deriva il suo nome dal padiglione dell’Armeria di un battaglione dell’Eserci-to americano, di stanza nella downtown di Manhattan. In

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questa cornice, per l’appunto “moderna” e inusuale per una mostra d’arte, furono presentati al pubblico e alla critica statunitensi gli esiti più avanzati delle avanguardie europee in ambito figurativo: tra questi, una numerosa rappresen-tanza di pittori e scultori, per lo più legati al post-impressio-nismo e al cubismo, i quali avevano già eletto Parigi come loro centro e che si trovavano a esporre per la prima volta in America. Altra particolarità non secondaria dell’Armo-ry Show fu che a fianco della produzione europea quella sede ospitava anche un’ampia rassegna delle esperienze più avanzate degli artisti statunitensi di quegli ultimi anni, riu-scendo così a proporre un confronto tra avanguardie euro-pee e americane che contribuì a mettere in evidenza alcune realtà autoctone le quali, fino ad allora, erano rimaste in ombra sul piano internazionale. Tra queste, il “Gruppo de-gli otto” (The Eight) – dal numero complessivo degli artisti che avevano già esposto contemporaneamente alla Macbeth Gallery di New York nel 1908 – e che sotto la spinta di Ro-bert Henri e di artisti come John Sloan, Maurice Pendergast e George Bellows avrebbero poi dato vita alla cosiddetta Ash Can School, o Scuola della pattumiera. Pur muoven-dosi prevalentemente in ambito pre-impressionista e na-turalista, infatti, gli artisti del gruppo rompevano con la tradizione figurativa romantica, mutuando per lo più i loro soggetti dagli aspetti più squallidi e conflittuali della realtà urbana. Accanto a questi “apostoli della bruttezza”, ancora piuttosto lontani dalla controparte europea, più visionaria e astratta, va anche ricordato il grande apporto che, sempre in termini di visualità, fu dato in quegli stessi anni dalla fo-tografia e, più da vicino, dagli esponenti della Galleria 291 di Alfred Stieglitz, grande interprete della realtà urbana di inizio secolo, il quale agì anche da ispiratore per un gruppo di artisti più giovani, tra i quali vanno ricordati Georgia O’Keeffe, più tardi divenuta sua moglie, oltre a Mardsen Hartley e Max Weber, anche loro tra i maggiori precursori dell’astrattismo americano.

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The Eight, The 291 Art Gallery e The Armory Show non sono che gli aspetti più eclatanti di una fase di trasformazio-ne dell’arte e della cultura statunitensi che, pur nelle diver-sità, individua un terreno comune con la sperimentazione europea sul piano del rinnovamento radicale del linguaggio artistico, aprendo uno scambio tra le due sponde dell’Atlan-tico: altro importante segnale dei nuovi modi del comunica-re che contrassegneranno l’era moderna, oltre che significa-tiva testimonianza di una sostanziale convergenza su alcuni importanti presupposti di natura estetica. Tra questi ultimi, l’idea di provvisorietà e quella che si potrebbe definire come una “poetica del frammento” in quanto cifra del caos della modernità; l’ibridazione tra linguaggi, tecniche e materiali eterogenei; l’essenzialità e l’icasticità di un linguaggio sim-bolico e astratto; e ancora, lʼuso innovativo di temi e tecni-che lowbrow, ispirati al prosastico e al quotidiano, oltre a un i̓ndagine nella nuova frontiera dell’interiorità, che privi-legia l’impulso e la naturale primordialità della percezione, piuttosto che non l’organizzazione della razionalità.

Il Collage come cifra modernista

Un’immagine significativa in cui condensare, appunto visi-vamente, queste nuove spinte, è quella del collage, genere che nasce appunto in questi anni del primo modernismo e in cui si fonde tutta una serie di tratti che di questo periodo e di questo movimento diventano caratteristici: un insieme di frammenti dell’esistente, costituiti di materiali diversi, i quali trovano una nuova semantizzazione e una nuova funzione proprio all’inter-no del nuovo contesto in cui essi vengono inseriti. Quest’opera di riorganizzazione del loro significato esprime una rinnovata progettualità, al pari di una capacità di significazione che deri-va loro da una nuova spinta comunicativa.

E proprio alla tecnica compositiva del collage si ispirano, in ambito artistico e letterario, alcune delle pratiche speri-

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mentali del modernismo statunitense e europeo, nate con l’intento precipuo di ridar senso ai frammenti della realtà contemporanea, che, soprattutto in Europa, non possono non risentire delle conseguenze rovinose d’una esperienza devastante come quella della I guerra mondiale. Se il senso di una realtà senza vie d’uscita, e in cui non c’è più spazio per l’idealismo, il sogno, l’innocenza, contagia apertamen-te anche la cosiddetta generazione perduta di Hemingway, Fitzgerald, Faulkner e Dos Passos, che l’Europa distrutta hanno conosciuto e che nei loro romanzi esprimeranno, di conseguenza, una radicata disillusione, la poesia, a tratti, sembra riuscire a muoversi su vie parzialmente diverse, an-che in virtù dʼuna sua più marcata propensione all i̓ronia. È troppo, forse, dire che in poesia si riesce ad attingere a una nuova speranza, e tuttavia il tentativo di ricostruire una visione organizzata partendo proprio dai frammenti sembra sottendere una maggiore fiducia, per altro verso sostenuta dalla vicinanza costante alle tecniche della rappresentazione pittorica, allʼuso della contrapposizione cromatica che trova origine in natura e più in generale, appunto, a un e̓vocazione di immagini e atmosfere eminentemente visiva.

Ezra Pound: il Metrò imagista

Pochi testi poetici riescono a dare il senso di un’epoca in modo così icastico e incisivo come un brevissimo componi-mento di Ezra Pound, apparso nel 1913 sulla rivista Poetry – fondata l’anno precedente da Harriet Monroe a Chicago – che si intitola “In a Station of the Metro :ˮ

The apparition of these faces in the crowd:Petals on a wet, black bough.4

4 E. Pound, “In a Station of the Metroˮ (1913); tr. it: “L’apparizione di quei volti nella folla / Petali su un ramo nero, bagnato .ˮ

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Un brano essenziale, divenuto il manifesto della poesia imagista in quanto, in modo simile a quanto accade anche alla famosa “rose” della Stein5, interpreta e condensa in sé in forma esemplare gli assunti di base della poetica del movi-mento che Pound contribuì a fondare. Tali principi possono esser riassunti, in forma schematica, come segue: “simulta-neità” tra la componente mentale ed emotiva dell’immagine; presentazione, o senso dell’esperienza, anziché descrizione; concentrazione, sul modello delle 17 sillabe dello haiku; scomparsa della “voce” a favore di un icastico insieme di immagini; centralità del colore come elemento di contrasto tra le immagini; stacco e legame metaforico tra i due versi; dinamismo dell’immagine, pur in assenza di indicatori tem-porali e di verbi.6

Il più influente tra i poeti americani di questa prima fase del modernismo opta anche lui per l’espatrio in Europa, ne-gli anni che precedono la prima Guerra mondiale: sbarca a Venezia nel 1908, animato da un’intima necessità di liberar-si, non solo metaforicamente, dalla presenza ingombrante di Walt Whitman e del suo monopolio sulla poesia americana del secondo Ottocento, raggiunto grazie alla sua versione originale, vigorosa e innovativa del romanticismo. Solo più tardi, in “A Pact ,ˮ un brano apparso nel 1916, Pound avrebbe poi offerto a Whitman una pace postuma.7

È a Londra che, tra il 1912 e il 1914, come corrispon-dente di Poetry, Pound getta le basi del movimento imagi-sta, e più in generale delle poetiche del moderno, coadiu-vato da un gruppo di poeti di cui fanno parte gli inglesi F.S. Flint, R. Aldington e T. E. Hulme e gli americani

5 La famosa frase di G. Stein “Rose is a rose is a rose is a rose ,ˮ poi riformulata più volte, appare per la prima volta nella sua poesia “Sacred Emilyˮ (1913), in Geography and Plays (1922).

6 Un breve elenco riassuntivo dei principi di base della poesia ima-gista secondo E. Pound.

7 E. Pound, “A Pactˮ (1913), in Lustra, 1916.

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J. Fletcher, Amy Lowell e H. Doolittle. Fu proprio sotto l’influsso delle idee e della poesia di Hulme, il quale poi avrebbe avuto anche un discreto influsso sul primo Eliot, che Pound tracciò la base teorica di un movimento che avrebbe dovuto accordare preminenza all’immagine poe-tica, ponendosi come “l’equivalente verbale” del linguag-gio figurativo. Chiarezza, immediatezza e appropriatezza costituiscono i principi fondanti cui il linguaggio imagista deve ispirarsi per arrivare a quella essenzialità che viene individuata come la base stessa di una comunicazione ar-tistica che di fatto abbandona ogni illusione romantica di “universalità” e ogni velleità mimetica. E già in “A Few Don’ts by an Imagiste”, il manifesto del movimento del 1913, egli proporrà una definizione esplicita del concetto di immagine:

An “Imageˮ is that which presents an intellectual and emotional complex in an instant of time […] It is the presentation of such a “complexˮ instantaneously which gives that sense of sudden liberation; that sense of free-dom from time limits and space limits; that sense of sudden growth, which we experience in the presence of the greatest works of art.8

È da quell’immagine – una nozione agli antipodi del na-turalismo – che si genera la scintilla di emozioni e il dina-mismo del testo imagista, statutariamente conciso e consa-pevole della propria limitatezza. Tuttavia, se per il Pound imagista “l’oggetto naturale è sempre il simbolo giusto ,ˮ per il Pound che nel 1914 aderisce al vorticismo di Wyndham Lewis e del gruppo che fa capo alla rivista Blast, occorre dare ancora maggior dinamismo al linguaggio poetico, ac-centuando il valore chiave dell’immagine:

8 Il Manifesto di E. Pound, “A Few Don’ts by an Imagiste ,ˮ uscì originariamente sula rivista Poetry (1913).

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The image is “a radiant node or cluster; it is what I can and must perforce, call VORTEX, from which, and through which, and into which ideas are constantly run-ning.”

Da questo vortice, che, come unità dinamica di senso non è troppo distante dal movimento futurista e dal militan-tismo di Marinetti (combattività dell’arte), Pound comincerà a muoversi anche verso altri sbocchi: verso le culture orien-tali e quella cinese che, nell’ideogramma, riesce a sintetiz-zare in un’unica unità visiva, il senso profondo e completo non solo di un’immagine, ma di un’esperienza da comuni-care. Con Lustra (1916), l’ideogramma diventa il modello ispiratore per una tecnica che nella concentrazione della parola-immagine tende a ricreare la complessità e la pre-gnanza semantica di un concetto, in virtù di un processo di “sintesi” e, al tempo stesso, di “proliferazione a vortice”, che dinamicamente trasferisce i significati lungo lo spettro della contiguità semantica, caricando il linguaggio.

Verso lo High Modernism

Questa tecnica di arricchimento del linguaggio poetico, che fa leva sulla suggestione visiva, è l’elemento che rende possibile la massima economia del linguaggio e, insieme all’accuratezza delle scelte linguistiche, all’epigrammatici-tà e al rifiuto dell’emotività è alla base della poetica della impersonalità, che Pound individua come compito del po-eta consapevole del suo ruolo sociale. Se gli artisti debbo-no captare e trasmettere conoscenza alla società, l’imper-sonalità consente una comunicazione oggettiva e catartica ad un tempo. Poeta “accademico” e “enciclopedico” qual è, il Pound dei Cantos – al pari dello Eliot del Waste Land e dei Four Quartets – pone tuttavia al centro del proprio pro-gramma la convinzione che compito del poeta sia quello di

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contribuire a estendere le potenzialità intellettuali, la sensi-bilità e la stessa emotività del proprio pubblico.

E in questo senso, il poemetto intitolato “Hugh Selwyn Mauberley”, pubblicato da Pound nel 1920, e al quale si è soliti far risalire la nascita di quello stile complesso, allusi-vo, sperimentale nella tecnica e di natura enciclopedica che va sotto il nome di “High Modernist Mode” rappresenta, in tutta la sua potenza suggestiva, un importante punto d’arri-vo di questa prima fase della poesia modernista. In questo poemetto, in cui la stessa figura del poeta è messa al centro dell’attenzione, l’oggettività del linguaggio poetico di Pound fa leva soprattutto sull’uso del distacco dell’ironia e sul prin-cipio dell’intertestualità: di una serie di echi, richiami e al-lusioni ad altri testi e topoi della tradizione, che rendono il testo una sorta di complessa “sintesi creativa” del passato e al tempo stesso una testimonianza del decadimento mo-rale del presente. Scritti in coincidenza col suo abbandono di Londra, nel 1920, i 400 versi di “Mauberley” sembrano costituire una diretta anticipazione del Waste Land, scritto proprio a Londra, che Eliot pubblicherà due anni più tardi.

T.S. Eliot e la città moderna

Così come per Pound, anche per Eliot ci si concentrerà sugli anni della formazione: quelli che vanno dal 1910 al 1922 e in cui, dall’originaria St. Louis e da Harvard, attra-verso un importante periodo parigino, egli si trasferisce a Londra, allo scoppio della I guerra mondiale, città nella qua-le rimarrà poi per gran parte della sua vita. Proprio Pound, in una lettera del 1914 a Harriet Monroe, scritta dopo aver letto l’opera chiave del primo periodo di Eliot, “The Love Song of J. Alfred Prufrock”, dirà di lui:

He is the only man I know of who actually […] trained himself and modernized himself on his own […] It is

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such a comfort to meet a man and not to have to tell him to […] remember the date on the calendar.

La modernità di Eliot, tuttavia, comincia ad affiorare anche prima, quando tra il 1909 e il 1911 – i primi anni di Harvard e di Parigi – egli compone i “Preludi”, “Portrait of a Lady”, “Rhapsody on a Windy Night” e “La figlia che pian-ge”, testi che confluiranno nel suo primo volume di versi, del 1917. Ed è proprio nei quattro movimenti dei “Preludiˮ e nelle sei strofe della “Rapsodia ,ˮ oltre che naturalmente in “Prufrock ,ˮ che la sua poesia comincia a costruire quel discorso sulla città contemporanea che poi troverà nelle im-magini di degrado del Waste Land una sua prima compiu-tezza. La forma frammentata del testo è tenuta insieme dalla scorrere del giorno e della notte richiamato in ciascuno dei movimenti e da una serie di immagini di tipo fortemente impressionistico – tutte ad alta caratura visiva – che rappre-sentano scorci diversi di un quotidiano squallido e devita-lizzato:

The winter evening settles downWith smell of steaks in passageways.Six o’ clock.The burn-out ends of smoky days.

…..

The morning comes to consciousnessOf faint stale smells of beerFrom the sawdust-trampled streetWith all its muddy feet that pressTo early coffee-stands.9

9 Composto tra il 1910 e il 1911, il brano intitolato “Preludesˮ fu pubblicato in Prufrock and Other Observations (1920); i versi ci-tati appartengono al I e al II movimento (tr. it.: R. Sanesi) “La sera

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Già in questa sua prima fase, quella di Eliot tende dunque a presentarsi come una città che fa da sfondo degradato di esi-stenze anonime, desolate, in massima parte animalesche: cibo, sporcizia, rifiuti, odori scandiscono la vita comune della strada, fatta di gesti meccanici, ripetitivi, privi di vitalità. In questo quadro, già precocemente alienato rispetto a quelli che saranno gli sviluppi successivi della città novecentesca, la voce sembra provenire dall’esterno, connotata com’è da un distacco ironico che in questa fase Eliot deriva soprattutto dalla poesia di Jules Laforgue, eclettica voce francese di fine ottocento e autore di una poesia sperimentale fortemente ispirata alla pittura impres-sionista. Questa influenza, insieme con quella esercitata da al-tri poeti simbolisti francesi, Rimbaud e Huysmans, Verlaine e Mallarmé, rimarrà uno dei tratti caratteristici del primo Eliot e i suoi effetti, ancora visibili nel Waste Land, peseranno in modo particolare sul testo più impegnativo di questa sua prima fase, “The Love Song of J. Alfred Prufrock”.

Ciò che rispetto alla linea fin qui seguita interessa di più di questo “dramma dell’inazione”, come è stato chiamato, sono le immagini, molto icastiche, attraverso le quali l’in-capacità moderna di agire viene resa nei suoi versi, a co-minciare dalla prima, che si incontra proprio in apertura del componimento:

Let us go then, you and I,When the evening is spread out against the skyLike a patient etherized upon the table;

Ma al tempo stesso, accanto a immagini che, come que-sta, vanno chiaramente delineando quel modello di hollow man, di morto in vita che sarà una delle immagini ricorrenti

d’inverno si posa / Con odore di bistecche nelle strade. / Le sei. / Lucignoli consunti di giorni fumosi. / . . . / Il mattino si svela alla coscienza / Con lievi odori acidi di birra / Dalla via ricoperta di segatura pestata / Con tutte le impronte fangose di piedi che s’af-frettano / Verso i caffè mattutini .ˮ

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della sua poesia matura, comincia a manifestarsi anche un’al-tra importante caratteristica: la propensione per una visualità straniata, per immagini che richiamano quella componente di astrusità, ma anche di forte suggestione che caratterizza la poesia metafisica inglese seicentesca, soprattutto quella di John Donne, come in questi versi, tratti da Prufrock, in cui la nebbia sembra trasformarsi nell’immagine d’un gatto:

The yellow fog that rubs its back upon the window-panes,The yellow smoke that rubs its muzzle on the window-panesLicked its tongue into the corners of the evening […]10

Il linguaggio: ordine al caos

Se Pound mescola generi diversi con l’intento di mettere in scena il caos proponendo una “literary medley” – che dovreb-be riproporre le sfasature tra arte e vita di cui l’artista rimane vittima – il metodo che Eliot elabora in questa sua prima fase si propone già di arrivare, non ostante l’uso frequente dell’i-ronia, a un riordino del caos attraverso un linguaggio capa-ce di “riorganizzare” i frammenti di senso del presente. E un passaggio obbligato in questo percorso, che porterà poi a una poetica fondata sull’impersonalità, è l’approdo alla definizione di correlativo oggettivo, ovvero l’individuazione di una parti-colare figura archetipica capace, da un lato, di dare “oggettivi-tà” – consistenza, spessore, riconoscibilità e peso storico – al proprio discorso e dall’altro di agire in termini di correttivo

10 T.S. Eliot, “The Love Song of J. Alfred Prufrock” (1920); (tr. it. R. Sanesi): “La nebbia gialla che strofina la schiena contro i vetri, / Il fumo giallo che strofina il suo muso contro i vetri / Lambì con la sua lingua gli angoli della sera .ˮ

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nei confronti dell’arbitrarietà statutaria del linguaggio poetico, proprio in virtù del suo forte richiamo alla tradizione. Questo percorso verso l’impersonalità è teorizzato da Eliot nel 1920 in “Tradition and the Individual Talent”, il suo saggio forse più conosciuto, in cui, tra l’altro, si leggono queste frasi risolutive:

Ciò su cui si deve insistere è che il poeta deve sviluppare o procurarsi una coscienza del passato, e che per tutta la sua carriera quella coscienza deve continuare a espan-dersi. Ciò che accade è un continuo arrendersi del sé, giacché egli al momento si confronta con qualcosa che ha maggior valore. Il percorso dell’artista è un continuo sacrificarsi, una continua estinzione della personalità.11

È proprio grazie alla concentrazione con cui il correlati-vo oggettivo riesce a comunicare anche attraverso modalità che esulano da quella che è la sua portata semantica e all’uso che Eliot riuscirà a farne, se, due anni più tardi – nel 1922 – la sua poesia riuscirà a operare quel salto di qualità che fa di The Waste Land una delle opere più influenti non solo del periodo modernista, ma di tutta la cultura del Novecento.

La carriola rossa di Williams Carlos Williams

Con W. C. Williams ci si allontana decisamente dall’Eu-ropa dello High Modernism, per radicarci nella realtà ame-ricana, dato che la sua nascita artistica avviene a New York, nei primi anni del secolo, in quell’atélier d’avanguardia che è la Galleria 291 di Alfred Stieglitz e, soprattutto, dato che quella di Williams rimarrà in gran parte un’esperienza for-temente contrassegnata da uno spirito riconoscibilmente americano. Spesso indicato come il poeta della concretez-

11 T.S. Eliot, “Tradition and the Individual Talent”, in The Sacred Wood (1920).

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za, Williams si accosta originariamente alla pittura proprio perché caratterizzata da un linguaggio che, più di quello let-terario, gli appare in grado di esprimersi in modo sintetico, riuscendo così a evitare le dispersioni di cui è spesso vitti-ma la parola. E anche la sua scelta definitiva in favore della poesia, stando a ciò che avrebbe scritto nella Prefazione ai suoi Selected Essays, sembra ispirarsi più a motivi di ordine pratico che non a criteri propriamente estetici:

Had it not been that it was easier to transport a manu-script than a wet canvas […] the balance may have been tilted the other way.12

E proprio la concretezza, in quanto parte costitutiva del linguaggio americano, è posta al centro della sua poetica in quanto elemento capace di opporsi all’intellettualismo, alla ricercatezza eccessiva, a quei cerebralismi che, con le loro costruzioni astratte, di fatto sembrano allontanare e rende-re problematica la trasmissione dell’esperienza attraverso il linguaggio poetico. Concretezza, nel suo programma, non coincide però con semplificazione: ché, anzi, lungi dall’es-sere un elemento preesistente del linguaggio artistico, essa deriva da un o̓pera di ricerca e può essere acquisita solo attraverso l’uso di un metodo e di un’attenta elaborazione. Questo linguaggio poetico non costruito, dunque, è frutto di costruzione, così come l’accessibilità della comunicazione è frutto di un lavoro di progressiva selezione; e se più o meno in quegli stessi anni per descrivere la sua scrittura Ernest Hemingway elaborerà la metafora dell’iceberg, nel parlare della poesia, Williams dal canto suo ricorrerà all’immagi-ne di una “small machine made out of words”: un piccolo congegno all’interno del quale ogni componente ha una sua funzione precisa e insostituibile, tal che il processo di sin-

12 W. C. Williams, Selected Essays , New York, Random House, 1954.

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tetizzazione visiva dell’immagine possa compiersi. Uno dei suoi componimenti più celebri, “La carriola rossa”, è appun-to un esempio paradigmatico di questo precetto:

so much tantodepends dipendeupon da a red wheel una carriola barrow rossa glazed with rain lustra d’acquawater piovanabedise the white chickens accanto ai polli bianchi

Tutto, come si vede, è finalizzato alla percezione visiva della scena fin nei suoi particolari apparentemente più scon-tati; l’osservazione diviene la base di un processo creativo nell’ambito del quale la scena perde progressivamente i suoi lineamenti oggettivi, trasformandosi in un paesaggio dell’a-nima, ridisegnato con l’ausilio insostituibile del colore dalla sensibilità individuale e partecipe dell’interprete, proprio perché, un po’ come accade anche nel primo imagismo, la concretezza che Williams si pone come obiettivo non coin-cide con la “copiatura” realistica della realtà. Occorre, certo, prendere le mosse dall’osservazione “of those things which lie under the direct scrutiny of the senses, close to the nose”, ma su quella prima scintilla del processo creativo sarà poi la sensibilità dell’artista a intervenire, organizzando quella osservazione in “visione”, in modo da dare, come lo stesso Williams amava ripetere, “valore all’esperienza”.

Dall’osservazione all’esperienza

Per tutta la prima parte della sua carriera, almeno fino alla pubblicazione di “Spring and All” (1923), Williams con-tinuerà a mettere a punto questo processo creativo di tra-

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sformazione dell’osservazione della realtà in “esperienza”, grazie all’attivazione di una convergenza organica di tutti gli elementi costitutivi del testo poetico. La voce del poeta deve quindi organizzare, in un complesso sinergico, colori e forme, trama e oggetti, cadenze e suoni – in una parola, tutte le componenti compositive, ciascuna nel suo nitore e nella sua riconoscibilità (di qui la concretezza) – all’interno di un organismo in cui questi elementi si trovino in rapporto dinamico tra loro. Ed è in questo senso che va interpretato quel concetto di “motion”, cui Williams allude: quell’insie-me capace di accendere l’immaginazione, e di comunicare così all’esterno il “valore” dell’esperienza, che ne costitui-sce l’essenza, ad un tempo impalpabile e concreta. Questa, infine, secondo l a̓utore, è la vera funzione della poesia, la sua “vocazione”, la sua intrinseca valenza sociale: come qualunque altro prodotto, infatti, anch’essa si inserisce dia-letticamente in una dinamica sociale, contribuendo così a indirizzarne il corso:

All along the road the reddishpurplish, forked, upstanding, twiggystuff of bushes and small treeswith dead, brown leaves under them leafless vines –lifeless in appearance, sluggishdazed spring approaches –

They enter the new world naked,cold, uncertain of allsave that they enter. All about themthe cold, familiar wind –13

13 W.C. Williams, “By the Road to the Contagious Hospital ,ˮ Spring and All (1923); (tr. it.: V. Sereni) “Lungo tutta la via rossastra / purpurea bifida irsuta / massa di cespugli e arbusti e sotto morte foglie brune / Senza vita palese l’accidiosa / stordita primavera si

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“Andando verso il padiglione ‘Malattie infettive’”, una delle poesie più note di Williams, è tutta costruita sul con-trasto, sempre reso attraverso immagini icastiche, tra una natura rigida, invernale, spenta e l’animarsi improvviso del-la seconda sezione, che riproduce e mette in scena la rina-scita primaverile; questa la tesi che Williams contrappone al “cruellest month” eliotiano: la primavera non solo trasforma la parola in poesia, suggerendo una analogia tra ciclo vitale e creazione della poesia stessa, ma la rende partecipe di una più ampia dinamica che dà senso alla realtà circostante.

Wallace Stevens: merli, pere e chitarre

Se la concretezza di Williams si esprime anche attraverso la sua professione di ginecologo, quella di Wallace Stevens, altro grande nome del modernismo americano di origine Midwestern, si esprimerà attraverso la sua professione di legale e dirigente di una grande compagnia di assicurazioni di Hartford, Connecticut. Accanto a quello di Williams, di cui sarebbe rimasto a lungo amico, Stevens rappresenta l’al-tro grande nome di quella tendenza della poesia modernista americana che più da vicino si identifica nell’esperienza del proprio paese, e la sua seconda raccolta di versi, Harmo-nium, pubblicata sempre nel 1923, ma ormai in età matura, lascia intendere nelle sue linee essenziali quello che sarebbe divenuto il modello della sua poesia anche in anni successi-vi, fino al Collected Poems, apparso nel 1955, un anno prima della sua morte. Da fervente modernista qual era, Stevens si dimostra fin dagli esordi conscio della radice sperimenta-le che accomuna tra loro i diversi linguaggi, qualificando-li come moderni in virtù di una comune vena trasgressiva che traduce in segno e in atto comunicativo la libera attività

avvicina− / Nel mondo entrano nudi, / freddi, incerti su tutto / se non di entrare. Li chiude / il freddo, noto vento − .ˮ

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dell’immaginazione; così, in un suo saggio del 1951, “The Relation Between Poetry and Painting”, egli compendia i fondamenti di quella sua visione:

L’affermazione di Picasso che un quadro è un’orda di di-struzione non può essere applicata anche a una poesia? Quando Braque dice “i sensi deformano, la mente forma”, si rivolge al poeta, al pittore, al musicista e allo scultore.14

Questo annettere alla mente e all’immaginazione un ruo-lo di assoluto predominio sulla percezione della realtà feno-menica costituisce lo snodo centrale del suo programma: il presupposto di quel procedimento, grazie al quale l’arte rie-sce a trasformare la realtà, passa attraverso la creazione di un linguaggio improntato a una grande libertà associativa. Per questo, la creatività del poeta si esprimerà soprattutto attra-verso un uso sistematico della metafora – figura retorica che “trasferisce” la letteralità linguistica in un’immagine “altra” dal forte impatto visuale – la quale, in virtù delle sollecita-zioni che è in grado di attivare, intensifica al tempo stesso la produzione di significato del testo, trasformando imma-ginativamente la realtà, tanto da metterla, come suggeriva l’autore, “tra parentesi”. Così come sulla tela impressionista (e post) si riesce a cogliere il momento in cui l’immagina-zione dell’artista comincia a trasformare la riconoscibilità del referenziale in cifratura e suggestione, avviando un pro-cesso di progressiva astrazione, nel linguaggio di Stevens è possibile individuare un’analoga tensione verso l’astratto, proprio nell’uso che egli fa della metafora, tanto da portar-lo a definire provocatoriamente la realtà come “… a cliché from which we escape through metaphor”. Per questo, “The Man with the Blue Guitar”, una tra le opere più apertamen-te autoriflessive di Stevens, ispirata da un noto quadro di

14 W. Stevens, The Necessary Angel. Essays on Reality and the Imag-ination, New York, A.A. Knopf, 1951.

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Picasso, viene spesso indicata come una sua dichiarazione di poetica che ha per oggetto modi e funzione della “rappre-sentazione” artistica:

The man bent over his guitarA shearsman of sorts. The day was green.

They said, “You have a blue guitar, You do not play things as they are.”

The man replied, “Things as they areAre changed upon the blue guitar.”

And they said then, “But play, you must,A tune beyond us, yet ourselves,

A tune upon the blue guitar Of things exactly as they are.”15

Questo poemetto, pubblicato da Stevens nel 1937, e tut-to costruito su un’opposizione cromatica tra il verde della realtà (“Things as they are”) e il blu della chitarra, simbolo dell’immaginazione e della creatività, mette in scena quello che l’autore percepisce come uno dei drammi contempora-nei, legati alla funzione della creatività in un’età tendenzial-mente laica. Come scriverà in “Adagia” (1957):

The relation of art to life is of the first importance in a skeptical age since, in the absence of a belief in God, the

15 W. Stevens, “The Man with the Blue Guitar” (1937). Tr. it.: L’uomo piegato sulla chitarra / Un sarto o quasi. La giornata era verde. / Gli dissero, “Con la tua chitarra blu, / Non suoni le cose come sono”. / L’uomo rispose, “Le cose come sono / Si trasformano sulla chitarra blu”. / E allora gli dissero, “Ma tu devi suonare / Un’aria oltre di noi, pure noi stessi, / Un’aria sulla chitarra blu / Di cose esattamente come sono”.

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mind turns to its own creations and examines them, not alone from the aesthetic point view, but for what they reveal, for what they validate, for the support they give.

Dotata di un’intrinseca carica conoscitiva, nelle parole di Williams la creatività diventa dunque la qualità umana più alta, la componente che, sostituendo alla logica speculativa la ricchezza dell’immaginazione, esprime quanto di meglio, sul piano estetico come su quello etico, l’uomo è in grado di dare. Come molti critici hanno notato, in particolare He-len Vendler16, la fede che Stevens esprime nei confronti della poesia si trasforma in un qualcosa di simile a una “religione”: un credo in base al quale l’immanenza degli elementi costitu-tivi della realtà – la stessa sostanziale semplicità del mondo naturale – viene vivificata dalla creatività dell’artista, capa-ce di trasformare, arricchire e in qualche modo “purificare” quegli elementi, infondendo in loro una carica trascendente.

Verso l’astrattismo

E a proposito di visualità, in un altro suo componimen-to molto noto, “Thirteen Ways of Looking at a Blackbird”, Stevens si confronta con le tecniche pittoriche orientali – in questo caso con la pittura a pannelli cinese detta makimo-no – mostrando quella che è la sua continua ricerca di nuovi modelli di rappresentazione e al tempo stesso di “riordino della realtà” su basi e principi diversi, sfruttando appunto quell’idea di simultaneità che è propria della rappresenta-zione per fasi staccate di un unico fenomeno. Il richiamo alla tecnica dello haiku e un’immagine visiva caratterizza-ta dal contrasto cromatico bianco/nero e da minimi movi-menti dell’oggetto sembrano segnalare un lento, progressivo

16 Cfr. H. Vendler, On Extended Wings, Cambridge, Harvard Univer-sity Press, 1969.

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spostamento verso quell’astrazione simbolica che proprio le culture orientali hanno da sempre praticato attraverso il di-namismo, celato, dell’ideogramma:

I Among twenty snowy mountains, The only moving thing Was the eye of the blackbird.

III was of three minds, Like a tree In which there are three blackbirds.

III The blackbird whirled in the autumn winds. It was a small part of the pantomime.

IVA man and a woman Are one. A man and a woman and a blackbird Are one.17

Langston Hughes e Harlem

Infine, vorrei concludere con un ultimo esempio, in qual-che modo diverso dagli altri, legato a quel fenomeno che va

17 W. Stevens, “Thirteen Ways of Looking at a Blackbird” (1917), in Harmonium, New York, A.A. Knopf, 1923; Tr. it.: “I In mezzo a venti montagne innevate / L’unica cosa che si muoveva / Era l’oc-chio del merlo. / II Avevo tre idee, / Come un albero / Sul quale ci sono tre merli. / III Il merlo volteggiava nei venti autunnali. / Era una comparsa della pantomima. / IV Un uomo e una donna / Sono tutt’uno. / Un uomo e una donna e un merlo / Sono tutt’uno.”

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sotto il nome di Rinascimento di Harlem e che, come non è difficile indovinare, è legato all’emergere, sempre nel pieno degli anni venti, di una cultura – e nel caso specifico di una poesia – afroamericana, fin lì rimasta di fatto nell’ombra. Il nome più rappresentativo di questo fenomeno è quello di Langston Hughes, scrittore, drammaturgo e poeta legato so-prattutto a modi espressivi popolari come il blues e, più in generale, al rapporto tra la musica afroamericana – in parti-colare il jazz e la ballata – e la poesia, nell’ambito della sua ricerca di unʼ identità culturale autonoma e moderna, capa-ce di esprimersi e rappresentarsi attraverso un linguaggio proprio, originale e incisivo. In un periodo caratterizzato da una serie di movimenti d’avanguardia, di dichiarazioni di poetica e di intenti, anche Hughes, nel 1926, pubblicò su The Nation un documento, esplosivo per l e̓poca, che non tardò a esser considerato come il Manifesto, appunto, dei giovani artisti neri della Harlem Renaissance:

Noi artisti neri più giovani che creiamo oggi intendia-mo esprimere il nostro io individuale e dalla pelle nera senza paura né vergogna. Se ai bianchi fa piacere, noi siamo contenti. Se non gli fa piacere, non fa niente. Sap-piamo di essere belli. E anche brutti. Il tam-tam piange e il tam-tam ride. Se ai neri fa piacere, ne siamo conten-ti. Se non gli fa piacere, anche del loro disappunto non ci importa. Noi costruiamo i nostri templi per il doma-ni, forti come sappiamo fare e restiamo eretti, sul picco della montagna, liberi dentro noi stessi.18

Hughes riuscì a rimanere sostanzialmente coerente a questi principi, nei circa quarant’anni che separano l’appa-rizione della sua prima raccolta di poesie, The Weary Blues (1926), dalla sua morte nel 1967, proprio perché la sua spe-

18 L. Hughes, “The Negro Artist and the Racial Mountain”, The Na-tion (1926).

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rimentazione modernista, al pari della sua poesia in genere, continuò a trarre ispirazione dalle caratteristiche fondanti del patrimonio culturale afroamericano: dal blues, come base espressiva di tutte le forme della musica nera che, pro-prio all’indomani della prima guerra mondiale, dettero vita al jazz e all’età che da quel genere derivò il suo nome, ma anche dalla cultura popolare del Sud degli Stati Uniti, che storicamente ha costituito la patria dei neri d’America: uno spazio sostitutivo, e non soltanto dal punto di vista simboli-co, della terra africana d’origine, come appare evidente nella sua “Danse Africaine :ˮ

The low beating of the tom-toms,The slow beating of the tom-toms, Low… slow Slow… low – Stirs your blood. Dance!A night-veiled girl Whirls softly into a Circle of light. Whirls softly… slowly,Like a wisp of smoke round the fire – And the tom-toms beat, And the tom-toms beat, And the low beating of the tom-toms Stirs your blood.19

19 L. Hughes, “Danse Africaine” (1922), The Weary Blues, New York, A.A. Knopf, 1926; (tr. it. S. Piccinato): Il battito cupo dei tam-tam, / Il battito lento dei tam-tam, / cupo… lento / lento… cupo: / ti accende il sangue. / Danza! / Una fanciulla vestita di notte / volteggia delicata entro un / cerchio di luce. / Volteggia delicata… lentamente, / come un filo di fumo intorno al fuoco: / e i tam-tam battono, / e i tam-tam battono, / e il battito cupo dei tam-tam / ti accende il sangue.

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Ho riportato questo testo per intero perché mi sembra che compendi bene in sé diversi aspetti dei discorsi che si sono seguiti fin qui, a cominciare dalla rilevanza della componente visiva, che in questo caso riesce a conciliare in modo molto efficace la matrice culturale africana, attraverso l’immagine e il ritmo del tam-tam, con quella americana, della ragazza che volteggia sotto il riflettore d’un cabaret di Harlem. Quanto alla sperimentazione modernista, mi pare importante sottolineare da un lato l’autoreferenzialità rispet-to al contemporaneo e alla modernità della scena proposta e dall’altra quel complesso di strutture sintattiche e foneti-che – ripetizioni, rime, desinenze assonanti – che cullano ritmicamente questa “danse africaine”, ricoprendo la scena di un velo di esotismo e di esplicita sensualità.

Blues: spontaneità del quotidiano

Quella spontaneità che molti critici indicano come la ci-fra dei versi di Hughes, fa spesso leva su un’identificazione con la gente comune, “the common folks”, come lui stesso la chiamerà, che gli fornisce di continuo materia diretta di ispirazione, oltre a una nuova audience cui rivolgersi e, so-prattutto, un modello linguistico – una lingua corrente, pal-pitante e quotidiana – che egli vivifica ulteriormente, come s’è visto, con l’apporto di elementi della tradizione musicale e in particolare del blues. Ma il blues è anche, se non so-prattutto, una riflessione sulla propria condizione disastra-ta e sulla propria solitudine, nonché sulle difficoltà di un quotidiano che per i neri è fatto in larga parte di privazio-ne, discriminazione, grandi e piccole vessazioni. La rispo-sta del blues a tutto ciò è una risata, amara e ironica ad un tempo: per questo, vorrei concludere con un ultimo testo in cui Hughes riprende in modo esplicito questa condizione, proponendola come paradigmatica dell’intera minoranza

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afroamericana, in un brano, famoso, che dà il titolo alla sua prima raccolta:

. . . . .

In a deep song voice with a melancholy toneI heard that Negro sing, that old piano moan – “Ainʼt got nobody in all this world, Ainʼt got nobody but ma self. Iʼs gwine to quit ma frowninʼ And put ma troubles on the shelf. ”

Thump, thump, thump, went his foot on the floor.He played a few chords then he sang some more – “I got the Weary Blues And I canʼt be satisfied. Got the Weary Blues And can’t be satisfied – I ainʼt happy no moʼ And I wish that I had died. ”20

20 L. Hughes, “The Weary Blues” (1924); (tr. it. S. Piccinato): Con voce profonda di canto e malinconico accento / ho udito il ne-gro cantare, gemere quel vecchio pianoforte / “Non ho nessuno al mondo, / nessuno tranne me. / Stenderò le rughe della fronte / e gli affanni poserò sul canterano”. / Tump tump tump faceva a terra il suo piede. / Suonò qualche accordo e cantò ancora: / “Malinconie di stanchezza: / non mi so rassegnare. / Malinconie di stanchez-za: / non mi so rassegnare. / Non sono più felice / e vorrei esser morto”.