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Quinto Marini Docente di Letteratura Italiana nella Facoltà di Lettere dell’Università di Genova “Viva Garibaldi!” “Non finì a favore del popolo il sogno di Garibaldi, non fu per il popolo l’unità d’Italia, ma per i potenti che seppero cambiar bandiera al momento giusto, seguire i nuovi tempi traducendo il trasformismo romano in una prassi politica locale basata su opportunistici e disinvolti adattamenti alle proprie convenienze”.

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Quinto MariniDocente di Letteratura Italiana

nella Facoltà di Lettere dell’Università di Genova

“Viva Garibaldi!”

“Non finì a favore del popolo il sogno di Garibaldi,non fu per il popolo l’unità d’Italia,

ma per i potenti che seppero cambiar bandiera al momento giusto, seguire i nuovi tempi traducendoil trasformismo romano in una prassi politica locale

basata su opportunistici e disinvolti adattamenti alle proprie convenienze”.

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“Viva Garibaldi!” Il mito tra letteratura e realtà*

Quinto Marini

1. Tra mito e leggendaIn una delle più belle poesie“garibaldine” di FrancescoDall’Ongaro, composta per l’impresadei Mille come una sacrarappresentazione in cui si alternanovoci popolari (Garibaldi in Sicilia,maggio 1860), le donne di Palermointerpretano così il mito del «celesteeroe», fiammeggiante, immortale,vittorioso sempre:

e vidi i lampi che gli uscian dagliocchi.Ei non è fatto di tempra mortale,e non c’è piombo che nel cor lotocchi[…]Quando si move e ti fiammeggiaavanti,sprona il cavallo e fa marciare ifanti:quando si ferma in mezzo all’ariaaperta,suona l’attacco e la vittoria è certa.1

Al coro delle donne segue quello deisoldati napoletani che implorano reFranceschiello di portarli a combatterecontro Turchi e Zuavi, e persino controi diavoli, ma non contro Garibaldi,«ch’ei non è fatto della nostra carne»(«Noi gli tiriamo, e il colpo indietrotorna; / noi cadiam morti, e lui ci fa lecorna»): è il figlio di San Gennaro,terribile e pietoso come «un santosotto forme umane: / prima ci vinse e

poi ci diè del pane». I lazzari, a lorovolta, lo dicono «nato d’un demonio ed’una santa, / in un momento che hansentito amore: / gli è tutto il padre,quando il ferro agguanta, / ma dellamadre ha la dolcezza in core», epensano che sia protetto da SantaRosalia e da San Gennaro. Ma sono ivolontari garibaldini a chiudere ilcanto precisando la vera e laica santitàdel loro generale:

lasciate star li santi e li demoni;ché Garibaldi de’ dimon non trema,e sa che i santi non son tutti buoni.La santa da cui nacque è Italiabella,la libertà d’Italia è la sua stella.La stella che lo guida è Libertade,chi per lei pugna vince anche secade!2

La composizione a più voci di questopopolarissimo poeta veneto (ex prete,fervente mazziniano, combattente aVenezia nel ’48 e con Garibaldi nellaRepubblica Romana, esule fino al ’59e poi sostenitore della soluzionesabauda) valga per l’infinita congeriedi canti patriottici fioriti in pienoOttocento a creare e diffondere il mitodi Garibaldi, a cominciare dall’Inno diLuigi Mercantini3. Al mito e alla leggenda di Garibaldi edelle sue camicie rosse contribuì lostesso Generale, che, fin dall’annodella sconfitta di Aspromonte (1862)cominciò a scrivere un Poemaautobiografico in ventinove canti edopo Mentana (1867) stese le sueMemorie per poi passare ai “romanzistorici”, non solo per nobili motivi di

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propaganda ideologica, ma anche «perritrarre un onesto lucro del suolavoro».4 Da Cantoni il volontario(1870) a Clelia (1870), ai Mille (1874),a Manlio (scritto nel 1876 e ineditofino al 1982), Garibaldi raccontò storied’amore e di passione patriotticavissute dentro i grandi avvenimentidella Repubblica Romana,dell’impresa dei Mille, di Mentana:trame romanzesche sulla linea diGuerrazzi e di Dumas continuamentedeviate a pamphlet politici e aproclami ideologici (il distacco daMazzini, la prospettiva monarchica, ilgoverno della nuova Italia, l’ossessioneanticlericale e anticattolica che siesprime con l’onnipresente figura delprete malvagio o del gesuita stupratoredi innocenti fanciulle e orditore difunesti intrighi politici), convulsaproduzione di un uomo di spada adisagio con la penna (di Garibaldiscrittore si salvano appena le Memorie,soprattutto nella prima parte che narrala giovinezza selvaggia tra le Pampas ela guerriglia sudamericana)5 e, dopoAspromonte e Mentana, in fortidifficoltà a capire i nuovi tempi ecomunque a disagio come osservavaGuglielminetti col linguaggio politicodella cultura democratica del secondoOttocento.6

Più che gli scritti dello stessoGaribaldi dobbiamo dunque leggere,per studiare il suo mito, le opere suGaribaldi e sulle sue imprese. E nelcampo della memorialistica abbiamouna varia e vasta tipologia sociale eintellettuale di autori, dai più umili,quasi illetterati, ai più famosi (su tuttiGiuseppe Cesare Abba col suo Da

Quarto al Volturno), anche stranieri(Alexandre Dumas).

2. Un prestigiatore ovadese tra i Mille

Tra gli umili che hanno raccontatol’impresa dei Mille, colpisce ad esempiola figura di un ovadese giramondo eprestigiatore, campione di biliardo colsoffio, Bartolomeo Marchelli dettoBazàra, che, forse anche per sfuggire aqualche guaio con la giustizia, si faarruolare per forza sostando notte egiorno davanti al cancello di VillaSpinola.7 Il diario del Marchelli, cheaveva fatto la seconda elementare, è unesempio di scrittura popolare genuina eimmediata (frequenti gli errori di tempi,le incertezze ortografiche, i salti disoggetto, le sgrammaticature, gli «io cidico»), che ci fa subito entrarenell’atmosfera trepidante e festosa, come«un campo di fiera», dei Mille sulPiemonte appena salpato agli ordini diGaribaldi:

Come era bello nel vedere adabracciarsi a vicenda! Uno diceva: Non ti ho più veduto dopo il

combattimento di San Fermo.L’altro: Tu sei dei nostri. Comestai? Ti rammenti alla difesa diRoma, là sul bastione di S.Pancrazio? […] In tutti i crocchisi parlava di fatti d’armi. Altri sipulivano i revolveri. In primaclasse sento che si suona ilpianoforte, discendo, vedo duestudenti pavesi che eranosuonando a due mani; altrocantava canzoni patriottiche; altrisi misero a ballare. Poi tornai

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sopra e vedo Garibaldi sul ponte dicomando che dirigeva il vaporesulla striscia che segnava ilLombardo comandato da Bixio. Lofissai bene; era colla sua calotta intesta spinta in dietro; quei occhitutto fuoco, dando ogni istantecolla tromba ordini almacchinista. A poppa riconosco uncerto Bianchi di Piacenza chesuonava col suo flauto; altro loaccompagnava con una stopendaarmonica. Per me, mi sembrava ditrovarmi in campo di fiera; tuttiallegri come se si andasse a unafesta da ballo8.

Efficacissima risulta poi la suasemplicità nel descrivere nuovi luoghie città, come quando scopre Palermodalle alture,

Palermo sembra che si tocchi collemani; sparsa la città in unapianura come un bigliardo; belle lesue chiese, i molti campanili deitanti monasteri, il Palazzo Reale,la Cattedrale, i legni da guerraimmensi fermi nel porto9,

o quando fa la cronaca di spostamentio manovre militari (siamo ancora sopraPalermo, la notte prima dell’attacco):

Si discese nei sentieri che nemenole capre avrebbero potuto passarci enel massimo silenzio, saltando daun fosso ad un altro con fatica epericolo, dandosi aiuto uno conl’altro. Si arrivò alla pianurasempre camminando fra i campi evigneti. Un silenzio regnava nella

nostre file e con ordine ci siamotrovati al Ponte dell’Ammiraglio,che un drapello dei nostri sorpreseil primo corpo di guardia avanzatodi soldati nemici vicini ad unmolino e ne venne preso d’assalto emesso in fuga10.

Ma accanto al fascino delle battaglie edelle armi («Il sole che compariva dallealture; scintillavano le spade deiufficiali che stavano alla testa dellecolonne che si avanzavano su dinoi…»),11 Marchelli è anche pronto aregistrare le sofferenze dei nemici («Inquei tre giorni [della battaglia diPalermo] certo quei poveri soldati nonavranno chiuso un occhio»)12 e glienormi disagi di un popolo, comequando si trova davanti alladisperazione di una madre di quattrofigli cui i borbonici hanno bruciato lacasa e ferito il marito:

La signora Marchioli era in unostato deplorevole, un piccolo bimbodi pochi mesi e altri tre di circa 8,9, 11 anni. Il mio cuore nonpoteva rimanere indiferente divedere questa famiglia gettata aterra in poco di paglia13.

Marchelli conduce la famiglia daGaribaldi e poi in un convento, dove,davanti alle reticenze di una monaca,deve metter mano alla pistola perottenere un ricovero.

3. Una folla di memorialisti garibaldini

Certo, Bartolomeo Marchelli è unnarratore minore e lo si è posto qui in

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apertura solo per testimoniare lavarietà socio-culturale dei garibaldini.Alle loro gloriose imprese nonmancarono memorialisti d’eccezione ele vecchie antologie di Giani Stuparicho di Gaetano Mariani,14 annoverano,dopo lo stesso Garibaldi (è lui adavviare nelle sue Memorie il romanticomito di Anita, la «martire dell’amore»,che altri continuerannoromanzescamente;15 ed è lui araccontarci in dettaglio le battaglie, maanche le amarezze: si vedano su tutte,le pagine di Aspromonte)16, autoricome Giuseppe Cesare Abba, ilmaggior cantore dell’impresa sicilianache vedremo tra poco, o comeGiuseppe Bandi (ufficiale d’ordinanzadel Generale, nei suoi Mille ce loritrae anche nei momenti intimi,quando dorme, quando s’inerpica suimonti di Genova per farsi un «bagno avapore», quando è di malumore,quando mangia lesso, fagioli e frittatadi cipolle in una povera osteria diTalamone, quando sospira sulle sortid’Italia e sui Savoia; sono sue lepagine più intense sulla partenza daQuarto)17, Giulio Adamoli (granatiere aSan Martino nel ’59 e poi conGaribaldi in Sicilia, sull’Aspromonte,in Trentino, a Mentana, per scrivereDa San Martino a Mentana ed entrareattivamente in politica), UlisseBarbieri (lo scapigliato drammaturgosociale e romanziere di Misteri eSotterranei, volontario sui monti delTirolo, soldataccio avventuroso etrascurato, eppure pronto a slanci delcuore), Anton Giulio Barrili(un’istituzione garibaldina nellaGenova di secondo Ottocento), Achille

Bizzoni (del nobile gruppo pavese deifratelli Cairoli, soldato regolare e dal’66 con Garibaldi, in Trentino, aMentana e poi nell’esercito dei Vosgi),il livornese Eugenio Checchi (le sueMemorie di un garibaldino, cheraccontano la guerra del ’66, piacqueroal Manzoni), il romano transteverinoNino Costa (pittore macchiaiolo antelitteram Telemaco Signorini gliattribuisce responsabilità di fondatore rivoluzionario del ’48 e combattenteper la Repubblica Romana e poiancora a Mentana e a Porta Pia, fino adiventare consigliere comunale diRoma liberata), Emilio Dandolo(varesino, cattolico, eroe delle CinqueGiornate di Milano e della difesa diRoma, dove perse il fratello Enrico),Giuseppe Guerzoni (mantovano,cacciatore delle Alpi, ferito a S.Fermo, uno dei garibaldini che aTalamone seguirono Zambianchi perdistrarre i papalini, ma che riuscì adarrivare a Milazzo e poi divise la vitatra impegni parlamentari, impresemilitari fu ad Aspromonte e aMentana e nel ’70 a Porta Pia escrittura: una monografia su Garibaldiin due volumi e una Vita di NinoBixio), Alberto Mario (giornalista ecospiratore, venuto a Genova dopo il’48 e vissuto tra Padova, Bologna eMilano, esule a Portsmouth, dovesposò Jessie White, e poi negli StatiUniti, per tornare a far parte dei Milleinsieme all’infaticabile moglie e aseguire Garibaldi anche in Francia),Ettore Socci (pisano, classe 1846,combattente a Mentana e poi inFrancia), Gioacchino Toma (salentinodi Galatina, fuggito a Napoli

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dall’orfanotrofio di Giovinazzo, che cidescrive Garibaldi nei suoi Ricordi diun orfano) e infine - ma la schierapotrebbe anche esser più ampia - ilmedico fiorentino Giovanni del Grecoche, sotto lo pseudonimo di Veritas,scrive Ricordi di un garibaldino conquadretti vivacizzati anche da insertidialettali (come quando le donnesiciliane, vedendolo ferito, gridano«Meschinu!», «Povero figghiu mio!», ocome quel soldato di terza categoriache ha lasciato a casa moglie e tre figlie che s’infuria con un volontariocontento di attaccar battaglia: «Sestucontent adess, plandron d’unvolontari?») e che non evitanostruggimenti, come quello del giovaneferito di Milazzo che a notte fondasospira: «Oh se la povera mammafosse davvero qui!»18.

4. Le “grand Dumas” in crociera garibaldina

Un testimone d’eccezione dell’impresadei Mille fu Alexandre Dumas, amicopersonale di Garibaldi che si erainfiammato col Conte di Montecristo e iTre moschettieri. A bordo di una suaelegante goletta, l’Emma, e insieme auna «poltroncella vestita da uomo, eprecisamente da ammiraglio […]piccina e leziosa e piena di gestri» come ci racconta il Bandi confastidio19 le grand Alexandre, facendoscalo a Genova a fine maggio, eravenuto a sapere della spedizione deiMille e immediatamente aveva fattorotta per la Sicilia. Il 9 giugnogiungeva a Palermo già conquistata ein festa, abbracciava affettuosamenteGaribaldi e si accasava

nell’appartamento del governatore aPalazzo Reale. Il resoconto della suanuova avventura in Sicilia (c’era giàstato nel ’34 e aveva conosciuto ilbanditismo e la corruzione), cheaccoglie anche la cronaca retrospettivadei fatti avvenuti dallo sbarco aCalatafimi alla presa di Palermo, ètutto imperniato sulla celebrazionedell’amico Generale, che egli esorta atener le distanze da Vittorio Emanuele,a fondare una repubblica e amantenersi povero come ha vissuto.20

È la costruzione di un eroe dafeuilleton, un vendicatore e giustizieredel popolo, come tanti protagonisti deisuoi romanzi o di quelli di Victor Hugocui spesso si richiama. Dumas segue laspedizione più con l’atteggiamentodell’inviato speciale d’alto bordo chedel soldato e non v’è traccia, nel suodiario, delle fatiche e dei pericoli dellaspedizione, delle marce forzate, dellafame, delle notti all’addiaccio, dellebattaglie, degli assalti alla baionetta.Col suo gruppetto di amiciaccompagna allegramente la colonnadei garibaldini su due calessi requisiti,dorme in castelli o masserie, tiene icontatti solo con gli uomini dello Statomaggiore, Turr, Bixio, Sirtori, Carini,La Masa (di cui fornisce un vivaceritratto: «un guascone […] Nel sanguesiciliano c’è rimasto più dell’arabo chedel normanno»);21 è affascinato dafigure sinistre come quella del banditoSanto Meli, che contribuisce a fararrestare e che segue durante ilprocesso, ricevendo anche la vecchiamadre che viene a implorare aiutoproprio a lui. Ma i grandi scontriarmati, come quello di Milazzo, Dumas

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li osserva dal mare, sulla sua goletta,dove ospita poi il Generale perfesteggiare la vittoria sorseggiandochampagne nei calici dorati che si èportato via da Palazzo Reale(Garibaldi, come suo solito, beveacqua). Sempre a bordo dell’Emmacosteggia la Sicilia avanti e indietro:ritorna a Palermo per chiedere sussidie organizzare l’acquisto di fucili inFrancia, poi si sposta davanti aMessina per assistere all’ultimaresistenza dei Borbonici del generaleBosco. Passato sul Posillipo,bastimento delle MessaggerieImperiali - l’Emma era stata speronatada un vapore napoletano -, navigaverso Marsilia per concludere l’affaredei fucili. Una sosta a Napoli gli fatoccare con mano la sua fama: dueagenti di polizia saliti a bordo, anzichéarrestarlo, lo venerano come un divo egli chiedono impazienti dell’arrivo diGaribaldi. La città è tutta in fermentoe lo sarà ancor di più il 13 agosto,quando, di ritorno dalla missionemarsigliese, riprende a costeggiare laCampania e la Calabria: si spargeaddirittura la voce che Garibaldi sia abordo della sua goletta o checomunque Dumas sappia dove si trovie quali siano i suoi piani. Sicchè,quando l’Emma getta l’ancora nelporto di Napoli, Liborio Romano(ritratto in modo lusinghiero in benquattro pagine)22 viene addirittura aconsultare Dumas, che si proponecome intermediario tra il nuovogoverno napoletano e Garibaldi e chedi lì a poco riceve la visitadell’accorato principe Luigi, finchè ilre in persona non gli ordina di lasciare

la rada. Dumas parte promettendo al reche tra pochi giorni egli stesso glinotificherà lo sfratto da Napoli. Perintanto fa rotta su Messina a caricarele armi giunte dalla Francia e quindiritorna a Napoli per celebrare lavittoria insieme a Garibaldi e a LiborioRomano: la nuova dimora di Dumas,nominato direttore degli scavi diPompei, sarà a Palazzo Chiatamonecon regolare contratto d’affitto firmatoda Giuseppe Garibaldi. Les garibaldiens è in fondo una sortadi romanzo autobiografico protagonista lo stesso Dumas che siattribuisce meriti senz’altro eccessivinella conquista del Sud - ma è altresìun documento di quello che ful’impresa dei Mille, dell’intreccio diaffari e politica, di nobili ideali einteressi privati, di sogni e volgarirealtà, di eroismi e guasconate (Dumasnon era affatto apprezzato dallamaggior parte dei garibaldini).

5. Giuseppe Cesare Abba e il “romanzo” dei Mille

Certo, rispetto a questo dandy che seguel’impresa dei Mille come se fosse incrociera sulle coste del Sud, ci ispiramaggior simpatia il nostro GiuseppeCesare Abba che costruisce col suo DaQuarto al Volturno un capolavoroindiscusso, il migliore in assoluto nelgenere memorialistico garibaldino (conbuona pace di Luigi Russo che, dopoaverlo appassionatamente commentatonel 1925, gli preferì in seguito I Milledel Bandi per «il gusto di cronacarealistica»)23.Il mito del Generale e delle suecamicie rosse è intatto e alto in queste

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Noterelle d’uno dei Mille, meditate ecesellate per vent’anni sugli appuntiestemporanei annotati in un taccuino,riesumato da Gino Bandini, e dopo unprimo enfatico poemetto in cinquecanti pubblicato a Pisa nel ’66.24

Quanto noi leggiamo è il frutto di unalunga e spesso amara meditazionecondotta, anche alla luce dellesuccessive disillusioni politiche, sugliavvenimenti vissuti in prima personacombattendo a Calatafimi, a Palermo,a Milazzo, al Volturno, da questogiovane di Cairo Montenotte rimastovolontario garibaldino per tutto iltempo delle guerre (avrà una medagliad’argento a Bezzecca) e poimodestamente deditoall’amministrazione del suo borgo,come consigliere comunale e sindaco,professore d’italiano nelle scuolesuperiori, senatore solo nel 1910, apochi mesi dalla morte, custode diquella preziosa eredità risorgimentaleche il Paese andava via viadisperdendo.Le Noterelle hanno la loro bellezzaproprio nell’intima tensione tra ideali erealtà, tra il sogno quasi folle di queimille giovani affascinati dal grandeGenerale e la crudeltà della guerra, imaneggi della politica, la fragileprecarietà delle conquiste umane. DaParma, quando finalmente «le ciancesono finite» e si passa all’azione, viaVoghera e Novi, su un treno che siriempie di strani viaggiatori allegri maraccolti, e poi a Genova, dove ci sisente quasi in famiglia pur tra tantiestranei che parlano tutti i vernacolid’Italia e in un’osteria ci si trova arecitare il ritornello della Spigolatrice

di Sapri sotto un quadro di CarloPisacane («Eran trecento, eran giovanie forti…»), fino alla partenza daQuarto, al viaggio in nave, dove sifraternizza coi nuovi compagni, siascoltano le storie dei veterani, siconoscono i comandanti (efficace ilritratto di Nino Bixio),25 al primoapprodo a Talamone. E poi la rotta avventurosa a Sud, verso«una terra che brucia in mezzo almare»26, e lo sbarco a Marsala sotto leprime cannonate dei nemici, senzacapire quasi nulla di quanto stasuccedendo, di quello che esattamentesi sta facendo. E lo stupore per quello«schioppo rugginoso» che gli hannodato e quel «cinturino che pare d’unbirro, una giberna, una baionetta eventi cartucce»27. 12, 13, 14, 15, 16 maggio: si marcia atappe forzate in questa regione stranae meravigliosa, dove «il sole piovevaaddosso liquefatto, per la interminabilelanda ondulata, dove l’erba nasce emuore come nei cimiteri. E mai unavena d’acqua, mai un rigagnolo, maiall’orizzonte un profilo di villaggio»;un vecchio pastore è quasi una figuramitologica: «vestiva pelli di capra, e lasua testa, fiera e quasi da selvaggio,era coperta da un enorme berretto dilana»28.Garibaldi appare e scompare - camiciarossa e calzoni grigi, un cappello difoggia ungherese e al collo unfazzoletto di seta - sul suo cavallo daGran Visir29. È una figura leggendariada re fiabesco («veduto da basso,grandeggiava sul suo cavallo nel cielo;in un cielo di gloria, da cui piovevauna luce calda, che insieme al

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profumo della vallata ci inebriava»)30,ma è anche un uomo come gli altriquando, in un momento di sosta, «alpiè di un olivo, mangia anche lui panee cacio, affettandone con un suocoltello, e discorrendo alla buona conquelli che ha intorno» («Io lo guardo commenta Abba - e ho il senso dellagrandezza antica»)31.Poi arrivano le grandi battaglie,Calatafimi, Palermo, Milazzo…, tra laconfusione, gli spari, gli ordini deicomandanti, gli assalti alla baionetta, ilamenti dei feriti, il sudore, la polvere,le siepi di fichi d’india che fanno dariparo, i campi di grano dove ci siabbandona esausti. Più avanti aimpressionare i garibaldini è ilpaesaggio notturno del Monte Pellegrinointorno a Palermo, con le sue rupimaestose punteggiate di fuochi, e sotto iboschi infiniti di mandorli. A tratti si vive come in un mondoirreale e prima delle battaglie ci siscopre diversi nei volti selvaggi espettrali («L’alba spuntava, tutti siaveva non so che di selvaggio nelvolto», «Stamane mi destai che tutti sialzavano, e in quella luce crepuscolarepareva la resurrezione dei morti»)32.Il fascino dell’avventura, l’entusiasmoper le vittorie, la gioia di essere nellastoria e di fare la storia, nonimpediscono però ad Abba di vederela nuda realtà e il suo occhio si posaspesso sugli orrori della guerra, sullagente spaventata e in fuga («Fuggivanoportando le masserizie, trascinando ivecchi e i fanciulli, un pianto»)33. suimorti, anche nemici: sul colle diCalatafimi, alla tristezza per queitrenta garibaldini caduti - giorni prima

erano «belli, confidenti, allegri» - siunisce la pietà per i morti dell’esercitoborbonico, per giunta violati dallaferocia dei villani:

I Napoletani morti, che pietà avederli! Morti di baionetta molti;quelli che giacevano sul ciglio delcolle quasi tutti erano stati coltinel capo. Là un mostriciattolo, cheai panni mi parve un villano diqueste parti, inferociva su d’uno diquei morti. «Uccidete l’infame!»urlò Bixio, e spronò su di lui collasciabola in alto34.

Camminando per Palermo in festaappena dopo la conquista si puòinciampare nel braccio di un morto malseppellito e scoprire l’orrore di una fossacomune («Oh si fa bene a coprirci lafaccia appena morti!»).35 E lasciando lacittà per nuove conquiste chissà perchéritorna in mente l’immagine di quelsoldato borbonico riverso davanti aPorta Sant’Antonino, sotto i due grandipioppi che ora «tremolano finoall’ultima foglia con un sussurro allegroquasi consapevole»:

Passandovi sotto, pensairaccapricciando a quel morto, aquella povera montanara dellaCalabria o dell’Abruzzo che si faràsulla soglia della capanna, conuna paura confusa della guerrache c’è pel mondo, dove forse credeancora di avere il suo figliuolosoldato. E pensai anche ai principidi Casa Borbone, che sino ad oranon se n’è visto uno a cavar laspada36.

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85Il Tempietto

nelle Pampas, lontano da quel trionfodi grandi»40. Il giorno dopo il Generale non va acolazione dal re, preferisce mangiarepane e cacio coi suoi: Abba ce lodescrive ancora «mesto, raccolto,rassegnato»41. La tristezza lo segnaanche nell’ultimo saluto alle suecamicie rosse, quando il re, atteso daigaribaldini schierati, non si presenta earriva invece lui, insieme al suo statomaggiore, col poncho e il cappelloungherese calcato sulle ciglia comequando è infuriato, sotto un cielo dinovembre che minaccia tempesta e unvento gelido che annuncia «discordietremende». È sotto questo gelido ventoche si chiudono le Noterelle diGiuseppe Cesare Abba, quasi sospesenell’ansia che, come le foglie, nonvadano disperse le parole che ciascungaribaldino porterà nella sua terra:

Questo vento ci piglierà tutti, cimulinerà un pezzo come foglie,andremo a cadere ciascuno sullaporta di casa nostra. Fossimocome foglie davvero, ma di quelledella Sibilla; portasse ciascunauna parola: potessimo ancoraraccoglierci a formar qualcosa cheavesse senso, un dì; poveracarta!… rimani pur bianca…Finiremo poi…42

6. Un garibaldino per la pelle: Ippolito Nievo

A Palermo, tra i Mille, c’era ancheIppolito Nievo (Abba ce ne fa unritratto romantico: «va solitariosempre, guardando innanzi, lontano,come volesse allargare a occhiate

I morti, anche nemici, turbano lacoscienza di questo garibaldino, che inun’«ora mesta», vigilia di una grandebattaglia, s’accende di dubbi parlandodi rivoluzione con un umile monaco: alsuo sogno di «unire l’Italia per farneun grande e solo popolo», padreCarmelo oppone «una guerra noncontro i Borboni, ma degli oppressicontro gli oppressori grandi e piccoli,che non sono soltanto a Corte, ma inogni città, in ogni villa»37. E quasi allafine dell’impresa, ormai da giorni nellacapitale partenopea, si chiede sebasterà Garibaldi, con quel suo cuore,quella sua testa, quella sua facciabarbuta che fa pensare a Mosè, a GesùCristo, a Carlomagno, basterà aliberare Napoli non solo dai Borboni,ma anche da quella grande, immensa,quasi fastosa miseria? Basterà allesperanze di un’intero popolo?38

L’Italia è ancora tutta da farsi, e correlungo il libro di Abba la nostalgia peril sogno vissuto e non avverato. Comeun amaro risveglio, peraltro giàpresagito («Ho inteso che sono giàarrivati certi armeggioni a guastare. Vene erano forse fin dai primi giornidella capitolazione», annotavalasciando Palermo)39, un’ombras’addensa sulla gloriosa impresa deiMille già da Teano, quando il red’Italia viene a prendersi il regnoconquistato da quei giovani e il freddovolto del potere raggela ogni ideale:Garibaldi appare «mesto» mentrecavalca alla sinistra di VittorioEmanuele e il suo cavallo «sentivaforse in groppa meno forte il leone, esbuffava e si lanciava di lato, comeavesse voluto portarlo nel deserto,

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e miserabile» (la lettera è del 28maggio 1860)45, l’incarico si fa semprepiù pesante e, oltre ai fastididell’Intendenza, Nievo devefronteggiare gli effetti delle lotte dipartito, della sostituzione delprodittatore Depretis (14 settembre),dell’annessione al Piemonte con unplebiscito-farsa (ottobre) e dellaliquidazione politica dell’impresa dopoil ritiro di Garibaldi a Caprera e loscioglimento dell’esercito garibaldino(9-11 novembre).La corrispondenza di Nievo confamiliari e amici dal 5 maggio 1860,cioè dal suo imbarco coi Mille aQuarto, fino al 23 febbraio 1861 (datadell’ultima lettera prima del fataleviaggio sull’Ercole la notte tra il 4 e 5marzo) registra questa progressivadepressione in cui gli affetti più carifanno da argine alla delusione politica(Nievo ci ha lasciato anche unGiornale della spedizione in Sicilia insupplemento al “Pungolo” del giugno1860, e un Resocontoamministrativo)46.Ci sono così lettere molto affettuose allamadre, Adele Marin. Le chiede perdonoper la partenza segreta, ma «è una grandisgrazia comune a tutti di guardar lecose traverso il prisma della passione!»(5 maggio)47; la informa del «miracoloche ci ha portati a Palermo» in unalettera del 28 maggio piena di baci e disospiri («Quante volte ti ho baciata colpensiero!», «Addio Mamma mia,amami, amami, amami»)48; le raccontadel nuovo incarico all’Intendenza e dellasua bella divisa garibaldina («duespanne di blouse rossa e settantacentimetri di scimitarra, ci fa gli uomini

l’orizzonte»)43, che, dopo aver scritto ilromanzo più bello del nostroRisorgimento, aveva voluto trasformarein azione il sogno di quella nuovaItalia racchiusa nella lunga storia diCarlo Altoviti (Le confessioni d’unitaliano, uscite postume nel 1867,hanno una loro parte “garibaldina”negli ultimi capitoli, col Giornale delfiglio Giulio che si è riscattato daltraviamento fuggendo coi volontarisulle Alpi e che nel giugno del ’49partecipa alla difesa di Roma sulGianicolo attaccato dai Francesi,guadagnandosi i gradi di capitano eaiutante di campo di Garibaldi)44. Da subito con Garibaldi e i suoiCacciatori delle Alpi, piuttosto chenell’esercito regolare come i fratelliCarlo e Alessandro, esule in patria conl’armistizio di Villafranca, nel maggiodel ’60 Ippolito non esita araggiungere Genova di nascosto daisuoi cari e ad imbarcarsi sul Lombardodi Bixio. Ma dopo le prime battaglie,Garibaldi gli chiede di fermarsi aPalermo per reggere l’Intendenzagenerale dell’esercito, e, mentre lecamicie rosse si coprono di gloria inSicilia e poi risalendo la penisola finoal Volturno, il maggiore e poicolonnello Nievo è inchiodato alla suascrivania a occuparsi di rifornimenti,di acquisti, di pagamenti e dipostulanti d’ogni risma (arrivano anchefalsi combattenti a chiedere sussidi,aiuti, un posto fisso, una pensione),mentre cominciano i primi maneggidel cavouriano La Farina perscreditare l’impresa dei Mille. Sicché,dopo l’iniziale entusiasmo persino peril «bel paese verde, spopolato, sereno

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partenza, ed è piena di nostalgia per lavacanza appena trascorsa («Quantovolentieri avrei prolungato il miosoggiorno con te! È proprio vero che lamamma è la migliore delle Società, equesta volta hai proprio ottenuto unpieno»)53. Il filo degli affetti tra madre efiglio resisterà a lungo anche dopo latragedia: fra le notizie incerte sulnaufragio, che sconvolgono il padre e ifratelli, Adele Marin coltiva la tenacesperanza che il figlio sia ancora unavolta partito senza informarla perqualche bella impresa, magari perl’Albania, come nel ’49 quando erafuggito in Toscana o nel ’60 con i Mille.Le Lettere garibaldine di Nievo hannoperò un altro forte nucleo psicologico-affettivo nelle venticinque lettere inviatealla cugina Bice Melzi Gobio, con cuicorre più di una confidenza parentale. Alei, ancor più che alla madre, Nievoconfessa i suoi sentimenti più profondi,le angosce e le delusioni. Anche iresoconti dell’impresa sono alquantorealistici e ben lontani dalla retoricapatriottica dei giornali del Nord.«Rivoluzione in Sicilia non ce n’è maistata», afferma perentorio, e a Palermola vittoria di quegli ottocento garibaldinimale armati e peggio vestiti,abbandonati dai picciotti, è solo frutto diun miracolo:

Che miracolo! - Ti giuro, Bice! -Noi l’abbiamo veduto e ancoraesitiamo quasi a credere! IPicciotti fuggivano d’ogni banda:dentro pareva una città di morti:non altra rivoluzione, che sul tardiqualche scampanìo. E noi soli,ottocento al più, sparsi in uno

più contenti della terra»)49; avanza lesue perplessità sui siciliani («sonoVeneziani più flosci, più falsi e senzauna gran dose di coraggio!), scherzasulla propria modestia («Sai che perrango potrei sottoscrivermi General diBrigata e che per modestia e per solamemoria di Calatafimi resto Capitano?Hanno scoperto in me di gran talentiamministrativi! Figurati!… Ma il nonrubare è una gran virtù in Sicilia oveprincipe e imbroglione è tutt’uno»)50; dànotizie del fratello Alessandro che sitrova nell’armata Cialdini; spera sempredi partire per il campo, ma poi sirassegna alla vita d’ufficio,pesantissima: «Vi son giornate nellequali la mia vita è una serie noninterrotta di gridate e di strapazzatedalla mattina alla sera. Lo Stato trovò inme un Cerbero adattissimo pel suoTesoro […] Qui mi chiamanol’Intendente antropofago» (14 ottobre)51.Da novembre in poi, nonostante lanomina a «Intendente di 1a Classe eperciò Colonnello», racconta concrescente amarezza l’andamento dellecose in Sicilia: registra con scetticismola stessa visita di Vittorio Emanuele aPalermo («Il Re è qui grandi fracassi non so cosa pensare del domani»),mentre sospira il suo ritorno a Fossato (5dicembre)52.Eppure, dopo il periodo di licenzapassato tra Milano e il Friuli, a gennaiotornerà ancora al Sud per difenderel’operato di Garibaldi dal fango diffusoda parte del Ministero della Guerraproprio sull’Amministrazione economicadell’impresa dei Mille. La sua ultimalettera alla madre è datata «Milano, 26gennaio 1861», poco prima della

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quindi l’impazienza aumenta, e lacalura estiva che continua ad ottobregli fa sognare le brume del Nord:

Ti confesso in verità che un po’d’aria di Lombardia, e le nebbie diFossato e la frescura autunnaledel lago di Como mi gioverebbeassai più del tepore balsamico diSicilia (9 ottobre 1860)57.

È un amore impossibile e lontanoquello per la cugina Bice, sposa emadre, che si esprime in lunghissimelettere e ben s’accorda alla situazionedi ondeggianti incertezze:

Qui si ondeggia in un mared’incertezze - le scrive il 2novembre e quello che è sicuro diondeggiare ancora per un pezzo,sono precisamente io. […] Seimesi, sei eterni mesi, chediventeranno sette e più assai! Opatria mia, sei pur crudele apunirmi dell’amarti in maniera sìacerba! La Sicilia è una specie diparadiso senza alberi, ove io mitrovo perfettamente fuori del miocentro terreno; non ho aria per imiei polmoni, non ho immaginipel mio spirito.58

Ma l’ansia di tornare non lo fa venirmeno al dovere di difendere Garibaldie quando a novembre la bella impresaha fine e i garibaldini sono sciolti, lapropaganda avversaria lo costringe adaumentare il lavoro per consegnare ilrendiconto dell’Intendenza in formaineccepibile. Un’amarissima lettera del2 dicembre descrive il precipitare

spazio grande quanto Milano,occupati senz’ordine, senzadirezione (come ordinare e dirigereil niente?) alla conquista d’unacittà contro venticinquemilauomini di truppa regolare, bella,ben montata, che farebbe la deliziadel Ministro La Marmora!Figurati che sorpresa per noistraccioni! Io era vestito comequando partii da Milano;mostrava fuori dei calzoni quelloche comunemente non si osamostrar mai al pubblico, e portavaaddosso uno schioppettone checonsumava quattro capsule pertirare un colpo per compensoaveva un pane infilato nellabaionetta, un bel fiore di aloè sulcappello, e una magnifica copertada letto sulle spalle allaPollione54.

L’ironia stempera continuamente ladrammaticità e nel suo ruolo di ViceIntendente generale gli sembra direcitare la farsa di Arlecchino fintoprincipe, mentre si pavoneggia con lasua «zimarra rossa che sembra unGenerale di Napoleone» e seduce lesuore che coccolano i garibaldini conle creme al fico d’India (lettera del 24giugno 1860)55. Poi, col passare del tempo, prevale lanostalgia dei luoghi ove Bicesoggiorna, di Bellagio e del lago, dovesi specchia una luna meno sfacciata diquella siciliana, mentre crescono lafatica e la noia dello scribacchino ecresce l’invidia per quei compagni chesi stanno preparando al «gran salto»sul continente (10 agosto 1860)56;

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stessi bersaglieri dell’esercito italiano,e sarà a Mentana, il 3 novembre 1867,quando i micidiali chassepots francesiabbatteranno centinaia di garibaldini elo stesso Garibaldi cercherà la morte62.Ce lo ha descritto in questo gestodisperato Anton Giulio Barrili, nellepagine in assoluto più belle di tuttasua produzione letteraria:

Lo vedo ancora, fiammeggiantecavaliere, nella luce sanguigna deltramonto; ritto in sella, battendo acolpi ripetuti il fianco del suocavallo alto e bianco, con unastriscia di cuoio, all’americana;risoluto di arrestare, ad ogni costo,un nemico che la fortuna avevafatto insolente. E percuotendo ilcavallo, scendeva dalla spianata,gridando con voce vibrata: Venite a morire con me! Venite a

morire con me! Avete paura divenire a morire con me?63

La scena è grandiosa e solenne(«L’uomo era solenne, e solenne ilmomento») con quei reduci sfiniti chesi stringono attorno a Garibaldi abaionette spianate per una «caricadella disperazione» e fanno arretrare ilnemico; ma poi subiscono di nuovo ilfuoco dei francesi nascosti dietro lesiepi. Altri garibaldini cadono; ilGenerale vorrebbe proseguire, ma quilo ferma uno dei più vecchi e fidatiufficiali, Stefano Canzio (ne ha sposatola figlia Teresa, è stato con lui aCaprera e sull’Aspromonte e lo seguiràa Digione), afferrando le redini del suocavallo con un grido che racchiudetutta la disperazione della nuova Italia:

della situazione proprio mentre il re èa Palermo («il solo galantuomo in unaturba di bricconi e di coccodrilli.Povero diavolo! Mi fa compassionequanto e più di noi. Se giungerà a farl’Italia, non sarà certo merito di coloroche gli stanno attorno»)59, e tra feste,parate e gran balli svanisce il sognodella nuova Italia di Garibaldi. Ilvoltafaccia di tanta gentaglia lostomaca, ma lui è orgoglioso della suacamicia rossa:

Qui si festeggia sempre. AlPretorio e al Palazzo Reale granlusso di polke e di seni scoperti. Ioson rimasto l’ultima camicia rossaa Palermo: sarò guardato come unselvaggio, ma non me la caverò atutti i costi. Ci dovrà metter lemani il conte Cavour o S. Ecc. ilministro Fanti60.

I toni si fanno drammatici: «Sonoaffranto come una bestia da somatroppo carica…», «Sono finito, sfinito,sfinitissimo! Ti confesso che, se avessicreduto d’imbarcarmi per questagalera a Genova il 5 maggio, mi sareiannegato»61. Una frase che suonaterribile se pensiamo alla morte diNievo e che si accorda all’amaro finaledelle Noterelle di Abba: entrambiavevano intuito in quella liquidazionedi novembre la fine di un sogno.

7. La più bella pagina di Anton Giulio Barilli

La riprova storica di questopresentimento sarà ad Aspromonte, il28 agosto 1862, dove il grido di «ORoma o morte» verrà soffocato dagli

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collaboratore di altre rivistefilogaribaldine come “L’ItaliaContemporanea” e “La Nuova Europa” pubblicò i romanzi storico-patriottici Icarbonari della montagna e Sullelagune (rimase inedito Amore e Patria,del ’57). A un ventennio di distanza,rivivendo nella novella “rusticana” itragici fatti accaduti a Bronte tra il 2 eil 5 agosto 1860, quando i sogni dilibertà s’incarnarono in massacriefferati di cui furono carnefici e poivittime dei poveri contadini, ladelusione e il pessimismo di Verga(delusione e pessimismo maturati anchein conseguenza dell’involuzione dellapolitica italiana: la novella è delfebbraio dell’82, in pieno trasformismo),producono tutt’altra visione delle paginecon cui il garibaldino Abba legittimal’azione repressiva di Nino Bixio68. Checosa risponde la storia ai morti diBronte? E che cosa risponde soprattuttoal carbonaio che domanda stupito aicarabinieri che lo ammanettano dopo ilprocesso:

Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccatoneppure un palmo di terra! Seavevano detto che c’era lalibertà!…69

Non finì a favore del popolo il sogno diGaribaldi, non fu per il popolo l’unitàd’Italia, ma per i potenti che sepperocambiar bandiera al momento giusto,seguire i nuovi tempi traducendo iltrasformismo romano in una prassipolitica locale basata su opportunisticie disinvolti adattamenti alle proprieconvenienze.

Per chi vuol farsi ammazzare,Generale? Per chi?64

Mentana, con «Garibaldi che andavaalla morte» e «Roma perduta… eperduto lui nelle file nemiche»,quando per molti «la camicia rossa siè stretta, appigliata alle carni»65, fu lafine politica e militare di Garibaldi,ma anche il momento culminante delsuo mito di eroe grande e sventurato.Un mito che ha avuto una duratalunghissima, entrando poi nelNovecento con segni politici diversi,addirittura opposti66, e che la nostranarrativa in particolare (non cioccuperemo qui del mito di Garibaldinei grandi poeti tra Otto e Novecento,Carducci, Pascoli e D’Annunzio)67 haavuto da subito il merito di nonaccogliere e coltivare passivamente,ma di confrontare con la realtà storicaper evidenziare il progressivo divariodagli ideali di quell’uomo. E non è uncaso che siano stati autori del Sud,ossia della terra che più d’ogni altra inItalia fu segnata dalla grande ventatagaribaldina, a produrre in proposito lepagine più interessanti.

8. Giovanni Verga e l’onda lunga del pessimismo politico meridionale

Viene subito in mente Libertà, una dellenovelle politicamente più impegnate diGiovanni Verga, che, ventenne all’arrivodei Mille, si arruolò nella GuardiaNazionale e vi prestò servizio per quasiquattro anni; proprio nel ’60 fondò ilsettimanale politico “Roma degliitaliani” con un programma unitario eantiregionalistico, e tra il ’61 e il ’63

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E ad uno ad uno - tranne la ziaFerdinanda, l’arcigna custode deglistemmi e dell’onore familiare - tutti gliUzeda si convertono al nuovo corso esono ben pronti a mescolare interessiprivati e politica: lo stesso don Blascoinveste in cartelle del governo e sidispone a speculare sulle terre delconvento messe all’asta (alla notiziadella presa di Roma scenderà inpiazza a festeggiare col popolo)75 e ilDuca d’Oragua, dal Parlamento diTorino, nell’agosto del 1862 si dà ungran da fare perché Garibaldi,ridisceso in Sicilia, venga arrestato ecomunque non passi lo Stretto e scrivea Benedetto Giulente che usi ognimezzo per soffocare i nuovi motiinsurrezionali76. Gli affari hannobisogno di pace e non è più tempo dirivoluzioni; l’intemperanza diGaribaldi, con la sua smania diarrivare a Roma, e le irrequietudinidel popolo non giovano agli appalti diopere pubbliche (ferrovia, porto,guardie forestali, ecc.), alle nuovebanche, alle speculazioni77. I crescenti successi del Duca d’Oraguae l’andamento delle cose d’Italia,convertono infine anche l’ultimo e ilpiù reazionario rampollo dei Vicerè, ilprincipino Consalvo, che viaggiandoper l’Italia unita negli anni Settanta,s’accorge di essere «don Consalvo deUzeda, VIII principe di Francalanza»a Catania, appena «eccellenza» aNapoli, ma soltanto «signore» aFirenze e a Milano78. A Roma poiscopre il nuovo potere dei parlamentari:sono loro i nuovi principi79. E allora, daconservatore e filoborbonico (era statoinesorabile delatore di “complotti”

9. Consalvo VIII de Uzeda, un “vicerè” trasformista

«Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo faregli affari nostri!», dice, deformandovolgarmente la nota frase delD’Azeglio, il Duca d’Oragua, il primo«liberalone» della famiglia degli Uzedanei Vicerè di Federico De Roberto(1894)70, e traccia la linea delcomportamento politico che permetteràa chi ha governato per secoli sotto gliSpagnoli e i Borboni di continuare agovernare sotto il tricolore dei Savoia.Al termine della Parte prima delromanzo, quella che ha sullo sfondo ifatti che da Villafranca («dove il granCavurre ha fatto fagotto»)71 vannoall’impresa dei Mille e al primoParlamento del nuovo Regno d’Italia(18 febbraio 1861), l’ostilitàpreconcetta verso il nuovo corso dellastoria esercitata da quasi tutto il clan(si pensi, in particolare, al perfido donBlasco, che di fronte all’entusiasmo deiconfratelli per lo sbarco di Garibaldi,grida: «Garibaldi? Chi è Garibaldi?Non lo conosco»)72, si tramuta inaperto favore e si fa una gran festa peril neoeletto deputato D’Oragua e per ilsuo protetto Benedetto Giulente, l’eroedel Volturno, finalmente ammesso alpalazzo degli Uzeda. Tutti gridano«Evviva Oracqua!», «Viva Garibaldi!»,«Viva Vittorio Emanuele», «Vival’unità italiana», «Viva il ferito delVolturno!»73, e il principe erede spiegaal suo riottoso figliuolo, Consalvo VIII,l’immutabile teorema del potere:

Quando c’erano i Vicerè, i nostrierano Vicerè; adesso che abbiamoil Parlamento, lo zio è deputato!73

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alcuni «studenti canzonatori»)82, c’èspazio anche per inventarsi uncommovente incontro con Garibaldidurante l’impresa dei Mille ai tempidella sua vita nel convento benedettinoe di descrivere «quel biondoArcangelo della libertà intento acoltivare le rose del nostro giardino».È la spudorata falsificazione di unincontro narrato nel cap. VIII dellaPrima parte tra il figlio del Generale,Menotti, accampato con altri ufficialinella foresteria del convento, eGiovannino Radalì, il cugino liberaledi Consalvo (il quale se ne stavainvece «in disparte, aggrottato come lozio don Blasco, con la coda tra legambe»); ma qui è interessante notarela strumentale mistificazione di «quelcuore vasto e generoso, dove la forzaleonina s’accoppiava alla gentilezzasoave… di quell’uomo che,conquistato un regno, doveva, comeCincinnato, ridursi a coltivare il sacroscoglio, dove oggi aleggia ilmagnanimo spirito di Lui, che fu aragione chiamato il Cavalieredell’umanità…»83.Ma certamente il discorso piùimportante è quello che Consalvo faalla zia Ferdinanda dopo la sua“scandalosa” vittoria elettorale,proprio in conclusione del romanzo:

La storia è una monotonaripetizione; gli uomini sono stati,sono e saranno sempre gli stessi. Lecondizioni esteriori mutano; certo,tra la Sicilia di prima delSessanta, ancora quasi feudale, equesta d’oggi pare ci sia un abisso;ma la differenza è tutta esteriore.

liberal-patriottici tra gli educandi deiBenedettini), si fa liberale edemocratico, sostiene che «l’idealedella democrazia è aristocratico»80,studia Smith e Spencer, legge Marx eProudhon, s’infarina di economiapolitica, diritto costituzionale, scienzadell’amministrazione, e diventa sindacoa ventotto anni, organizzando unamacchina clientelare efficientissima, unesercito di funzionari al suo servizio.Poi, quando va al governo Depretis,passa alla sinistra, inneggia a Mazzini ea Garibaldi, e nelle grandi elezioni del1882 si candida al Parlamento nelleliste dei socialisti. Il suo meetingelettorale nella palestra dell’ex-convento benedettino è un capolavorodi trasformismo, con la banda chesuona la marcia reale e l’inno diGaribaldi, con trofei e bandiere di ogniassociazione e con i ritratti di tutti igrandi che avevano fatto l’Italia,opportunamente mescolati:

Umberto e Garibaldi; poi Mazzini eVittorio Emanuele; poi Margheritae Cairoli; e così tutto in giroAmedeo, Bixio, Cavour, Crispi,Lamarmora, Rattazzi, Bertani,Cialdini, la famiglia sabauda e lagaribaldina, la monarchia e larepubblica, la Destra e laSinistra81.

Nel suo infinito discorso, che metteinsieme liberalismo e rivoluzione,conservazione e progresso, centralismoe democrazia, tradizioni e riforme, chedice tutto e il contrario di tutto(«Adesso che ha parlato, mi sapeteripetere che ha detto?», osservano

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facendo un piacere a «questi porcid’Italia» che il deluso Momino non hagettato nel fiume le medagliegaribaldine86; in Lontano (1902) donParanza s’accorge di esser stato unabestia ad aver combattuto «per questacara patria», ma la sua disgrazia erastata «quella d’aver avuto vent’anni alQuarantotto […] trentadue alSessanta» (allora, a Milazzo, non avevaneanche saputo approfittare di unapalla nel petto, «quel regalo di unsoldato borbonico misericordioso»)87;ancora di medaglie parla l’omonimanovella del 1904, le sette medaglie del’60 che il glorioso garibaldinoSciaramè porta in corteo dietro labandiera del sodalizio dei Reduci, econ la sua «camicia rossa scolorita, ilfazzoletto al collo, il cappello a conosprofondato fin sulla nuca […]sembrava un povero cane sperduto»88.E persino nel giovanile poemetto inquartine d’ottonari, Pier Gudrò (1894),Pirandello faceva rivivere l’infelicestoria tratta dal vero di un proscrittodel ’49, poi volontario tra i Mille ederoe del Volturno, Gaetano Navarra. Prove letterarie, queste, che sono allaradice del suo particolarissimoromanzo storico, I vecchi e i giovani,composto in piena crisi novecentesca(1910-1913), che «rappresenta al vivoil dramma doloroso dell’Italiameridionale, e segnatamente dellaSicilia dopo il 1870. Due generazioni,due ideali, due mondi vi si affrontano»e «son persone e fatti studiati dal vero,numerosissimi e svariatissimi,quantunque tutto il romanzo sia chiusonel volger d’un anno, nel fortunosoanno 1893, che con lo scandalo

Il primo eletto col suffragio quasiuniversale, non è né un popolano,né un borghese, né undemocratico: sono io, perché michiamo principe di Francalanza. Ilprestigio della nobiltà non è e nonpuò essere spento84.

10. Generazioni a confronto nel «fango della Nuova Italia» in un romanzo di Pirandello

Siamo alle origini di quell’onda lungadel pessimismo politico siciliano checondurrà al Gattopardo di GiuseppeTomasi di Lampedusa (e per stradediverse, cioè per l’ironia di Brancati,ad alcune opere di Sciascia). Ma,prima di arrivare a quell’importantelibro che a metà del ’900 costringeràancora a riflettere sul nostroRisorgimento e sulla storia non affattoconclusa dell’unità d’Italia,incontriamo un altro autore sicilianoche radica il proprio pessimismo nelladelusione storica per il Risorgimentomancato: Luigi Pirandello. Figlio di ungaribaldino che fu con i Mille nel ’60 ead Aspromonte nel ’62, e che avevasposato la sorella di un compagnod’armi, Caterina Ricci Gramitto, il cuipadre era stato esiliato a Malta comeantiborbonico e liberale dopo il ’48 quindi cresciuto in un ambientefamiliare fortemente patriottico Pirandello affidò a più di unprotagonista delle sue novelle la suarisentita polemica sull’Italiapostunitaria: in Sole e ombra (1896)l’ex garibaldino Ciunna vuole buttarsia mare con le medaglie del ’60 sulpetto85; in Notizie del mondo (1901) èsolo per non rischiare un malanno

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Anche il grande Crispi, qui nei panni diFrancesco D’Atri, il garibaldino chetanta parte aveva avuto nella liberazionedel Sud e che era stato chiamato agovernare l’Italia nel grave momento dicrisi, è colto nel suo dramma politico eumano, alle prese non solo con lavicenda della Banca Romana e con ladrastica decisione di mandare l’esercitoa reprimere la protesta dei solfaraisiciliani, ma anche col fallimento delsuo matrimonio, incapace di“governare” la troppo giovane e inquietaGiannetta.Ma «dai cieli d’Italia in quei giornipioveva fango, ecco, e a palle di fango sigiocava; e il fango s’appiastrava da pertutto», e «questi benedetti uomini dellaRivoluzione», che «nelle congiure, nellebattaglie erano stati come nel loroelemento; in pace, erano ora come pescifuor d’acqua»91. Il più vecchio e austerodi questi uomini della rivoluzione, giàcombattente nel ’48 e poi con Garibaldi,insieme a Stefano e Roberto Auriti, èMauro Mortara. Fedele al suo sogno diun’Italia forte e unita, eroe incorruttibilee fermo nel tempo, incapace di accettaresia il fango di Roma, sia la ribellionedei minatori contro lo Stato, riprende lesue armi gloriose e va a farsi ammazzaredagli stessi soldati di Crispi neltentativo paradossale e disperato diaiutarli a fermare i rivoltosi, a salvarel’Italia. Le quattro medaglie garibaldineche i soldati osservano stupiti sul suopetto insanguinato chiuderannoemblematicamente il romanzo92.

11. «Il Gattopardo» e il tramonto di un mito

Il romanzo più amaro e rappresentativo

enorme della Banca Romana e larivolta dei Fasci in Sicilia segnò nellastoria nostra contemporanea quasi lacrisi di crescenza dell’Italia nostra»89. Tra il vecchio mondo borbonico chetramonta, rappresentato dai fratelliLaurentano (don Ippolito, circondatoaddirittura da una schiera di soldataccicoi «calzoni rossi e cappotto turchino»dell’esercito di Franceschiello, donCosimo, assorto nella contemplazionefilosofica, donna Caterina, l’esclusa,fuggita con un rivoluzionario del ’48,Stefano Auriti, poi garibaldino) e ilnuovo mondo mafioso, ben intrecciatonei gangli del potere coi propri affari(Flaminio Salvo, il vecchio boss, eIgnazio Capolino, il politicoemergente), la spinta ideale di coloroche hanno fatto il Risorgimento è viavia annientata. Roberto Auriti, il figliodi Caterina Laurentano e dell’eroe diMilazzo, garibaldino dei Mille già adodici anni e poi ad Aspromonte e aBezzecca, è uno «sconfitto» dellanuova politica: laureato in legge conuna borsa di studio governativa, aRoma è trasformato in una sorta diavvocato della mafia parlamentaresiciliana, incapponito nella noia di unosquallido menage a tre (vive con unamaestra di canto e il marito, un ex-tenore) e compromesso nello scandalodella Banca Romana:

Si sentiva veramente sconfitto.L’animo troppo teso negli sforzidella prima gioventù, gli eravenuto meno a poco a poco, difronte alla nuova, laida guerra,guerra di lucro, guerra per laconquista indegna dei posti90.

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mette in fuga mezza nobiltà siciliana (ilcugino Màlvica invita don Fabrizio amettersi in salvo sulle navi degliinglesi), appare come un fantoccio nellemani del re Galantuomo:

Il nome di Garibaldi lo turbò unpoco. Quell’avventuriero tuttocapelli e barba era un mazzinianopuro. Avrebbe combinato dei guai.«Ma se il Galantuomo lo ha fattovenire quaggiù vuol dire che èsicuro di lui. Lo imbriglieranno»94.

E Tancredi tornerà col tricolore, comeha promesso, e con la sua gloriosaferita da combattimento; millanteràconfidenze di Garibaldi, di RosolinoPilo, di Crispi, racconterà eroichegesta e bravate garibaldine. Ma dopoTeano sarà ben pronto a gettare alleortiche la camicia rossa per ildoppiopetto blu dei lancieri, ancorchèdegradato da capitano a tenente, fierodi essere un ufficiale dell’esercitoregolare di «sua maestà il re diSardegna e d’Italia fra poco», e nonpiù un «rubagalline»95.Il mito di Garibaldi rimane sullosfondo del Gattopardo, ma è il“garibaldinismo” a tramontare, vistocome il frutto corrotto di unastrumentalizzazione politica di cui lostesso Garibaldi è vittima e vuoleliberarsi.È questa la lettura gattopardiana diAspromonte, il secondo importantefatto storico del romanzo e quello cheperentoriamente chiude l’equivocodella rivoluzione garibaldina. Nellafamosa serata del ballo a PalazzoPonteleone (Parte sesta, novembre

del Risorgimento tradito, che riprendee aggiorna i fili di questa narrativasiciliana - ma che, è benesottolinearlo, esce nel 1958, nella crisidel neorealismo e dei miti resistenzialigaribaldini - è Il Gattopardo diGiuseppe Tomasi di Lampedusa, che siapre proprio nei giorni dello sbarco deiMille. E stavolta il volontario chescappa sui monti con i picciotti perunirsi a Garibaldi è il rampollo di unafamiglia d’antica nobiltà sicilianaprossima al tracollo economico,Tancredi Falconeri, nipote del principedi Salina, don Fabrizio Corbera. Il suo gioco è dichiarato sin dall’inizioin una frase ormai abusata, ma forsepiù complessa e ambigua dello slogandi una prassi politica vulgata comegattopardismo. Garibaldi e le sue camicie rossepossono addirittura servire a garantire ilpotere e i beni di famiglia purchè larivoluzione sia tenuta sotto controllo eserva a un epocale quanto necessariocambio di guardia, sostituendodarwinianamente agli esangui Borboninapoletani i più vigorosi ed efficientiSavoia piemontesi, alla vecchiabandiera biancogigliata il vivacetricolore. «Se non ci siamo anche noi, dice Tancredi al suo zione quelli ticombinano la repubblica. Se vogliamoche tutto rimanga come è, bisogna chetutto cambi»93, e queste parole che atutta prima sconvolgono anche un uomodi mondo come il Gattopardo, ammiratoda tanta cinica disinvoltura, diventanopoi la più adeguata chiave di lettura ditutti quei grandi avvenimenti, mentre lostesso Garibaldi, che con la sua fama dirivoluzionario repubblicano spaventa e

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addosso, da tutti quegli individui tipoZambianchi che si servivano di lui perchissà quali fini», di lui che in fondonon era che «un bambino con barba erughe, ma un ragazzo lo stesso,avventato e ingenuo» che bisognavaproteggere98.Nel disilluso cinismo di quest’uomod’ordine, «umile servo» della nuovaItalia, anche il quadro della raggiuntaunità appare incrinato e si prospettaun futuro pieno d’angosce, dove lacontrorivoluzione dell’apparato stataledovrà sempre vigilare sull’insorgere dinuove camicie rosse o «di diversocolore», perchè non si sa come andrà afinire:

Mai siamo stati tanto divisi comeda quando siamo uniti. Torino nonvuol cessare di essere la capitale,Milano trova la nostraamministrazione inferiore a quellaaustriaca, Firenze ha paura che leportino via le opere d’arte, Napolipiange per le industrie che perde, equi, in Sicilia sta covando qualchegrosso, irrazionale guaio… Per ilmomento, per merito del vostroumile servo, delle camicie rossenon si parla più, ma se neriparlerà. Quando sarannoscomparse queste ne verranno altredi diverso colore; e poi di nuovorosse. E come andrà a finire?99

1862), entra in scena, «fra un tintinnìodi pendagli, catenelle, speroni edecorazioni, nella ben imbottita divisaa doppiopetto, cappello piumato sottoil braccio, sciabola ricurva poggiatasul polso sinistro», il colonnelloPallavicino, quello che coi suoibersaglieri aveva fermato Garibaldisull’altopiano calabrese il 29 agosto1862. Assediato da belle signore chevogliono sapere com’era il Generaleferito, e cosa fece e cosa realmentedisse sotto quel grande castagno, ilcolonnello lo descrive «bello e serenocome un Arcangelo» (il mito dell’eroetrionfa ancor più forte nellasconfitta)96. Ma, fuori di ognimistificazione retorica, Aspromonterappresenta la salvezza di quel«compromesso faticosamente raggiuntofra vecchio e nuovo stato di cose»97, eben altra spiegazione politica è data inseparata sede dal colonnello a donFabrizio che gli rimprovera appunto di«avere un po’ esagerato in baciamani,scappellate e complimenti». Se nonavesse ordinato di sparare sarebbesuccesso «un putiferio senzaprecedenti nel quale sarebbe crollatoquesto Regno d’Italia che si è formatoper miracolo, vale a dire non sicapisce come»; ma quella brevissimasparatoria «ha giovato soprattutto aGaribaldi, lo ha liberato da quellacongrega che gli si era attaccata

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G. Petronio (Torino, Utet, 1959, pp. 9-56),da C. Muscetta (Poesia dell’Ottocento, a c.di C. Muscetta e E. Sormani, Torino,Einaudi, 1968, vol. I, pp. VII-XXVI).

4 G. Garibaldi, Prefazione ai miei romanzistorici, in Id., Cantoni il volontario.Romanzo storico, Prefazione di G.Spadolini, Trento, Reverdito, 1988, p. 17.Sulle opere letterarie di Garibaldi,fondamentale il saggio di M.Guglielminetti, Giuseppe Garibaldi, in Laletteratura ligure. L’Ottocento, Genova,Costa & Nolan, 1990, pp. 215-231 (erelativa bibliografia sull’argomento alle pp.556-557).

5 Le Memorie di Garibaldi in una delleredazioni anteriori alla definitiva del 1872,a cura della Reale Commissione, Bologna,L. Cappelli Editore, 1932, pp. 5-150 (laprima scoperta della natura selvaggia dellePampas, con i suoi bellisisimi stalloni allostato brado, è nel cap. VII, pp. 16-17).

6 M. Guglielminetti, Giuseppe Garibaldi, cit.,p. 217.

7 Cfr. B. Marchelli, Da Quarto a Palermo.Memorie di uno dei Mille, a cura di E.Costa e L. Morabito, Savona, Sabatelli,1985, Nota biografica, pp. 15-27, e pp. 39-41. L’episodio è raccontato con vivacicolori anche da Giuseppe Bandi, che benconosceva quel «giocoliere di bussolotti»(cfr. G. Bandi, I Mille, introduzione storicae note di L. Russo, Messina-Firenze, G.D’Anna, 1960, pp. 140-142).

8 Ivi, p. 45.9 Ivi, p. 71.10 Ibidem.11 Ivi, p. 89.12 Ivi, p. 73.13 Ivi, p. 79.14 A queste classiche antologie (Scrittori

garibaldini, a cura di G. Stuparich, Milano,

Note* Rielaborazione della conferenza tenuta il

27 novembre 2007 nella Sala del MinorConsiglio di Palazzo Ducale di Genova,nell’ambito delle attività per il bicentenariodella nascita collaterali alla mostraGaribaldi. Il mito. Da Lega a Guttuso,Genova, Palazzo Ducale, 17 novembre2007-2 marzo 2008. La conferenza hatenuto conto del percorso cronologico dellamostra, dai capolavori ottocenteschi allaBattaglia di Ponte dell’Ammiraglio diGuttuso del 1955 (cfr. il catalogo a cura diF. Mazzocca e A. Villari, con lacollaborazione di S. Regonelli, Firenze,Giunti, 2007). Questo testo è statopubblicato nella «Rassegna dellaletteratura italiana», CXII, 208, 1, pp. 14-33 [si ringrazia la direzione per averneconcesso la ristampa].

1 Cfr. F. Dall’Ongaro, Garibaldi in Sicilia, inPoeti minori dell’Ottocento, a cura di L.Baldacci e G. Innamorati, Milano-Napoli,Ricciardi, 1963, to. II, pp. 1102-1104,spec. p. 1102..

2 Ivi, p. 1104.3 Per un quadro riassuntivo e relativa

bibliografia della poesia patriotticaottocentesca, mi permetto di rinviare a Q.Marini, I poeti della passione patria: A.Poerio, P. Giannone, G. Mameli, L.Mercantini, F. Dall’Ongaro e altri, in Storiadella Letteratura Italiana, diretta da E.Malato, VII, Il primo Ottocento, Roma,Salerno Editrice, 1998, pp. 860-867. Cfr.inoltre il più recente volumetto Poeti delRisorgimento, a cura di V. Marucci, Roma,Salerno Editrice, 2001. Sono ovviamenteancora utili le vecchie introduzioni allesezioni dei Poeti minori dell’Ottocentocurati da L. Baldacci, cit., pp. IX-XXV, daE. Janni (Milano, Rizzoli, 1955, to. II), da

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scrittori garibaldini di Gaetano Mariani,cit., da cui sono tratte le ultime battute diG. del Greco, Ricordi di un garibaldino, pp.343-349.

19 G. Bandi, I Mille, cit., p. 199.20 Il titolo originale del diario di Dumas era

Les garibaldiens. Rèvolution de Sicile et deNaples (1861). Qui si è usata la traduzionedi Antonello Trombadori: A. Dumas, Igaribaldini, a cura di A. Trombadori, Roma,Editori Riuniti, 19963. Lasciando Palermoper liberare il resto del regno, Garibaldiaveva chiesto a Dumas una dedica su unafotografia e il romanziere francese scriveva:«Mio caro generale, evitate i pugnalinapoletani, diventate capo d’unarepubblica, morite povero come avetevissuto, e sarete più grande di Washingtone di Cincinnato» (ivi, p. 116). Nel 1862Dumas raccolse i suoi resoconti suGaribaldi in un unico corpus, ora anche inediz. italiana col titolo di Viva Garibaldi.Un’odissea nel 1860, testo critico di C.Schopp, a cura di G. Pécout e M. Botto,Torino, Einaudi, 2004.

21 Ivi, p. 121.22 Ivi, pp. 229-233.23 Cfr. L. Russo, La letteratura garibaldina,

introduz. a G. Bandi, I Mille, cit., pp. 5-18,spec. p. 5. Il Russo, che critica quil’«attitudine poetica e mistica» di Abba,era tornato a scrivere su Abba e laletteratura garibaldina in Scrittori-poeti escrittori-letterati, Bari, Laterza, 1945, pp.203-341, anche in polemica con la severaposizione presa da Benedetto Croce in unsaggio sulla Letteratura garibaldina uscitosulla «Critica» del 1940 e poi nel vol. VIdella Letteratura della Nuova Italia, Bari,Laterza, 1940 (su cui cfr. l’equilibratogiudizio di S. Romagnoli, Le Noterelled’uno dei Mille, in Id., Manzoni e i suoi

Garzanti, 1948, Antologia di scrittorigaribaldini, a cura di G. Mariani, Bologna,Cappelli, 1960) ne vanno senz’altroaggiunte altre, come Pagine garibaldine, acura di S. Jacomuzzi, Torino, Einaudi,1960, Scrittori garibaldini dell’Ottocento, acura di G. Trombatore, Torino, Einaudi,1979 (già nei Memorialisti dell’Ottocentodella Ricciardi, 1953), Antologia discrittori garibaldini, a cura di P. Ruffilli,Milano, Mondadori, 1996.

15 Al profilo di Anita scritto nel 1850 epubblicato in appendice alle Memorie diGaribaldi in una delle redazioni anteriorialla definitiva del 1872, cit., pp. 362-378,vanno aggiunti i tanti passi in cui Anita èprotagonista e in particolare il raccontodell’avventurosa fuga da Roma e dellamorte alle Mandriole di Comacchio nel cap.IX del Secondo periodo (ivi, pp. 200-210 enelle Memorie di Garibaldi nella redazionedefinitiva del 1872, a cura della RealeCommissione, Bologna, L. Cappelli Editore,1932, pp. 297-312). Tra i profiliottocenteschi di Anita spiccano quello delGuerzoni, nel primo dei due volumidedicati a Garibaldi (Firenze, 1882) equello del Bandi in un libretto monografico(Livorno, 1889). Molto suggestiva la sezionedella mostra dedicata alla “Fuga e morte diAnita” con quadri noti, come quello diPietro Bouvier, ma anche meno noti, comequelli di Giuseppe Sciuti e di Fabio Fabbi(cfr. Garibaldi. Il mito. Da Lega a Guttuso,cit., pp. 66-69 e pp. 157-159).

16 Cfr. Campagna di Aspromonte e AppendiceI, Aspromonte, in Memorie di Garibaldinella redazione definitiva del 1872, cit., pp.491-499 e pp. 601-614.

17 G. Bandi, I Mille, cit., pp. 22-23, 47-53,62-63.

18 Si è seguito l’ordine dell’Antologia di

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colleghi, Firenze, Sansoni Editore, 1984,pp. 329-346).

24 G. Bandini, Come nacquero le ’Noterelle’dell’Abba, in G.C. Abba, Maggio 1860.Pagine di un ’Taccuino’ inedito, a cura di G.Bandini, Milano, Mondadori, 1933, pp. 63-150. Il poemetto Arrigo. Da Quarto alVolturno. Cinque canti (Pisa, Nistri, 1866) fupubblicato «a malincuore, prima di partireper la guerra del ’66 […] e soltanto perchérimanesse qualcosa di me se fossi mortonella vicina guerra». Su Abba, oltre allavecchia monografia di L. Cattanei, GiuseppeCesare Abba. Formazione di unmemorialista, Bologna, Cappelli, 1973, e ilprofilo di E. Villa nel cap. Narrativapostunitaria, in La letteratura ligure.L’Ottocento, cit., pp. 310-324 (bibliografia ap. 564), cfr. i volumi dell’EdizioneNazionale, in particolare gli Scrittigaribaldini, vol. I, Brescia, Morcelliana,1983, che contiene il Commentario sullarivoluzione di Sicilia (a cra di C. Scarpati), ilpoema Arrigo. Da Quarto al Volturno (a curadi L. Cattanei) e Da Quarto al Volturno.Noterelle d’uno dei Mille (a cura di E. Elli).Nel volume sono molto importanti leintroduzioni di L. Cattanei, Storiadell’«Arrigo», pp. 3-38, e di C. Scarpati,Storia delle «Noterelle», pp. 39-84.

25 G.C. Abba, Da Quarto al Volturno.Noterelle d’uno dei Mille, a cura di E. Elli,in Id., Scritti garibaldini, vol. I, cit., p. 311:«Mi si era fitto in mente che questocapitano del Lombardo fosse un francese.L’aria, gli atti, il tono suo di comandare, lomostrano uomo che in sé ne ha per dieci. Acapo scoperto, scamiciato, iracondo, sta sulcastello come schiacciasse un nemico.L’occhio fulmina per tutto. Si vede che safar tutto da sé. Fosse in mezzo all’oceano,abbandonato su questa nave, lui solo,

basterebbe a cavarsela. Il suo profilo tagliacome una sciabolata; se aggrotta le ciglia,ognuno cerca di farsi piccino; visto difronte non si regge il suo sguardo. Eppure,a tratti, gli si esprime in faccia una grandebontà. Che capriccio fu quello di chiamarloNino? Bixio! Ecco il nome che gli sta!Almeno rende qualcosa come un guizzo difolgore».

26 Ivi, p. 307.27 Ivi, p. 317.28 Ivi, p. 326-327.29 Ivi, p. 326.30 Ivi, p. 333.31 Ivi, p. 326.32 Ivi, pp. 355 e 365.33 Ivi, p. 333.34 Ivi, p. 337.35 Ivi, p. 384.36 Ivi, p. 392.37 Ivi, pp. 351-352.38 Ivi, p. 432: «Grande, immensa, varia da

perdervisi, e fastosa fin nello sfoggio dellamiseria. Non vidi mai sudiciume portato inmostra così! Ho dato una corsa pei quartieripoveri; c’è qualcosa che dà al cervellocome a traversare un palude. La gente vibrulica, bisogna farsi piccini per passare, esi vien via assordati. Ma su tutte quellefaccie si vede l’effusione di un’anima che siè destata e aspetta… Chi sa cosa vogliono,cosa sperano, chi sa?».

39 Ivi, p. 392.40 Ivi, p. 453.41 Ivi, p. 454.42 Ivi, p. 457.43 Ivi, p. 386. Il ritratto di Nievo apre la

giornata del 16 giugno, ma era già statoanticipato in una fugace notizia l’8 maggio(«ho inteso parlare d’un poeta gentile checanterà le nostre battaglie. Si chiamaIppolito Nievo», ivi, p. 314) e poi in una

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scena più ampia, su «una carrozza mezzosconquassata, che ci viene dietro menandol’Intendenza» (ivi, p. 345).

44 I. Nievo, Le confessioni d’un italiano, acura di S. Romagnoli, Venezia, Marsilio,2000, pp. 893-897. Com’è noto, ilmanoscritto del romanzo, finito nelle manidi Erminia Fuà Fusinato, per la stampa fuaffidato alle cure del letterato garibaldinoEugenio Checchi.

45 I. Nievo, Lettere garibaldine, a cura di A.Ciceri, Torino, Einaudi, 1961, p. 10.Queste lettere sono state recentementeintegrate da A. Nozzoli, Nievo 1860: sullelettere a Romeo Bozzetti, in Ippolito Nievotra letteratura e storia, Atti della Giornatadi Studi in memoria di S. Romagnoli,Firenze, 14 novembre 2002, a cura di S.Casini, E. Ghidetti e R. Turchi, Roma,Bulzoni, 2004, pp. 59-74.

46 Cfr. i due documenti in Appendice a I.Nievo, Lettere garibaldine, cit., pp. 147-182.

47 Ivi, p. 4.48 Ivi, p. 10.49 Ivi, p. 22.50 Ivi, p. 37.51 Ivi, p. 75.52 Ivi, p. 116.53 Ivi, pp. 126-127.54 Ivi, p. 18.55 Ivi, p. 20.56 Ivi, p. 50.57 Ivi, pp. 71-72. 58 Ivi, pp. 90- 91.59 Ivi, p. 114.60 Ivi, p. 115.61 Ivi, pp. 115 e 114.62 Le sconfitte di Aspromonte e di Mentana,

registrate nelle Memorie di Garibaldi nellaredazione definitiva del 1872, cit., pp. 491-499, 541-552, 601-614, hanno costituito

una delle più suggestive sezioni dellamostra, con quadri di potente drammaticitàdi Gerolamo Induno (La discesa diAspromonte, 1863), Giuseppe de Nigris(Les merveilles du chassepot, 1870),Onorato Carlandi (Ritorno da Mentana,1872) e Archimede Tanzi (Ritirata diMentana, 1884). Cfr. Le grandi sconfitte.Aspromonte e Mentana, in Garibaldi. Ilmito. Da Lega a Guttuso, cit., pp. 106-121e 207-212.

63 A. G. Barrili, Con Garibaldi alle porte diRoma (1895), in Romanzi e raccontidell’Ottocento italiano. Barrili, a cura di A.Varaldo, Milano, Garzanti, 1947, pp. 611-736, spec. p. 731. Il Barrili, che si potevagloriare di esser stato ferito a Mentana e diaver fatto scudo col suo corpo al Generale,aveva raccontato i fatti nel 1868 in ventunpuntate sul “Telegrafo del Mattino” con iltitolo Alla volta di Roma. Note di unvolontario, approntandone poi una ristampacol nuovo titolo per il XXV anniversario diRoma capitale (Milano, Treves, 1895). Alavoro già in stampa è uscita una modernaedizione a c. di F. De Nicola, note di V.Gueglio, Sestri Levante, Gammarò Editori,2007.

64 Ibidem.65 A.G. Barrili, Commemorazione di Garibaldi

(15 giugno 1882), in Romanzi e raccontidell’Ottocento italiano. Barrili, cit. pp. 753-754.

66 Si pensi soltanto all’insediamento dellaCommissione per l’Edizione Nazionaledegli scritti di Garibaldi voluta da BenitoMussolini nel 1932, che raccomandava di«dare degli scritti di Garibaldi, e non suGaribaldi» (Cfr. Prefazione alle Memorie diGaribaldi in una delle redazioni anteriorialla definitiva del 1872, cit., pp. IX-XX,spec. p. XX) e si pensi al mito di Garibaldi

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durante la Resistenza (le “BrigateGaribaldi” legate prevalentemente al P.C.I)e nel dopoguerra, per cui cfr. almeno ilclassico C. Pavone, Una guerra civile.Saggio storico sulla moralità dellaResistenza, Torino, Bollati Boringhieri,1991, con relativa bibliografia.

67 Cfr., anche per la bibliografia, le vociCarducci Giosue, Pascoli Giovanni eD’Annunzio Gabriele (la prima e la terza diMario Isnenghi, la seconda di chi scrive) incorso di stampa nel Dizionario delleinterpretazioni di Garibaldi, a cura di L.Rossi, Roma, Gangemi.

68 G.C. Abba, Da Quarto al Volturno, cit., pp.137-138.

69 G. Verga, Libertà, in Id., Tutte le novelle, acura di C. Riccardi, Milano, Mondadori,1981, vol. I, p. 325.

70 F. De Roberto, I Vicerè, in Id., Romanzi,novelle e saggi, a cura di C. A. Madrignani,Milano, Mondadori, 20042, p. 864.

71 Ivi, p. 649.72 Ivi, p. 655.73 Ivi, p. 696.74 Ivi, p. 697.75 Ivi, pp. 827-830 e pp. 888-891.76 Ivi, p. 756.77 Ivi, p. 849: «Questi [il Duca d’Oragua], che

ormai non andava più alla capitale,consacrava tutto il suo tempo ai propriiaffari, badava alle cose di campagna,migliorava le proprietà comperate dallamanomorta, speculava sugli appalti, sigiovava del suo credito presso leamministrazioni pubbliche per rifarsi diquel che gli costava la rivoluzione».

78 Ivi, p. 918.79 Ivi, pp. 920-921.80 Ivi, p. 999: «L’ideale della democrazia è

aristocratico… Che cosa vuole infatti lademocrazia? Che tutti gli uomini siano

eguali! Ma eguali in che cosa? Forse nellapovertà e nella soggezione? Eguali nelledovizie, nella forza, nella potenza…».

81 Ivi, p. 1078.82 Ivi, p. 1091.83 Ivi, p.1083.84 Ivi, p. 1100. Sul tema, oltre all’introduzione

di C. Madrignani (ivi, pp. ix-lxvii, spec. pp.xxviii-xliv), cfr. l’intervento di A. Stussi, Lastoria come monotona ripetizione nei«Vicerè», in «Le donne, i cavalier, l’arme,gli amori». Poema e romanzo: la narrativalunga in Italia, a cura di F. Bruni, Venezia,Marsilio, 2001, pp. 287-299.

85 L. Pirandello, Sole e ombra, in Id., Novelleper una anno, a cura di M. Costanzo,Milano, A. Mondadori, 1985, vol. I, t. I, pp.491-506.

86 Id., Notizie del mondo, ivi, pp. 784-815,spec. p. 786.

87 Id., Lontano, ivi, vol. I, t. II, pp. 921-973,spec. p. 923.

88 Id., Le medaglie, ivi, vol. I, t. II, pp. 865-839, spec. p. 886.

89 Da una lettera del 22 febbraio 1910riprodotta tra i documenti inediti della liteCarabba contro Pirandello nell’Appendice Idi L. Pirandello, Epistolario familiaregiovanile (1886-1898), a c. di E.Providenti, Firenze, Le Monnier, 1986, pp.81-82, spec. p. 81.

90 L. Pirandello, I vecchi e i giovani, a cura diA. Nozzoli, Milano, Mondadori, 1992, p.86.

91 Ivi, pp. 272-273.92 Ivi, p. 515: «Rimosso, quel cadavere

mostrò sul petto insanguinato quattromedaglie. I tre, allora, rimasero a guardarsinegli occhi, stupiti e sgomenti. Chi avevanoucciso?».

93 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, inId., Opere, a cura di G. Lanza Tomasi,Milano, Mondadori, 1995, p. 39.

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Page 28: 10P0021 - TEMPIETTO 10 · 2010-05-28 · ché Garibaldi de’ dimon non trema, e sa che i santi non son tutti buoni. La santa da cui nacque è Italia ... le capre avrebbero potuto

94 Ivi, p. 56.95 Ivi, pp. 144-145. L’epiteto diffamante dei

garibaldini è messo in bocca al conteCavriaghi, compagno d’armi di Tancredi,mentre giustifica a don Fabrizio ilpassaggio a un «esercito vero»: «Mammamia che gentaglia! Uomini da colpi dimano, buoni a sparacchiare, e basta!Adesso siamo fra persone come si deve,siamo ufficiali sul serio, insomma […] lagente non ha più paura che rubiamo legalline, ora».

96 Ivi, p. 204. 97 Ivi, pp. 202-203. È proprio dall’annuncio del

principe di Ponteleone sull’invitato d’onore«colonnello Pallavicino, quello che si ècondotto così bene ad Aspromonte», che siricava una sottile riflessione politica:«Questa frase del principe di Ponteleonesembrava semplice ma non lo era. Insuperficie era una constatazione priva disenso politico tendente solo ad elogiare iltatto, la delicatezza, la commozione, latenerezza quasi, con la quale una pallottola

era stata cacciata nel piede del Generale; edanche le scappellate, inginocchiamenti ebaciamani che la avevano accompagnata,rivolti al ferito Eroe giacente sotto uncastagno del monte calabrese e che sorridevaanche lui, di commozione e non già perironia come gli sarebbe stato lecito (perchéGaribaldi ahimè! era sprovvisto diumorismo). In uno strato intermedio dellapsiche principesca la frase aveva unsignificato tecnico e intendeva elogiare ilcolonnello per aver ben preso le propriedisposizioni, schierato opportunamente i suoibattaglioni ed aver potuto compiere, contro lostesso avversario ciò che a Calatafimi eratanto incomprensibilmente fallito a Landi. Infondo al cuore del Principe, poi, ilColonnello si era “condotto bene” perché erariuscito a fermare, sconfiggere, ferire ecatturare Garibaldi e ciò facendo avevasalvato il compromesso faticosamenteraggiunto fra vecchio e nuovo stato di cose».

98 Ivi, p. 219.99 Ivi, pp. 220-221.

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