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Herbert George Welles La macchina del tempo Traduzione di Fernando Ferrara

1996-Herbert G. Wells La Macchina Del Tempo

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Herbert George Welles

La macchina del tempo

Traduzione di Fernando Ferrara

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Nell’Inghilterra di fine Ottocento, un eccentrico scienziato ed inventore,

grande conoscitore di fisica e meccanica, racconta ai suoi più stretti a-

mici di aver trovato il modo di viaggiare nel tempo.

Egli racconta di aver costruito un mezzo in quarzo e avorio capace di

viaggiare avanti e indietro nel tempo, ma non nello spazio, e di aver na-

vigato lungo la corrente del tempo fino a raggiungere l’anno 802.701…

La macchina del tempo è un romanzo di fantascienza di Herbert George

Wells pubblicato per la prima volta nel 1895.

È una delle prime storie ad aver portato nella fantascienza il concetto di

viaggio nel tempo basato su un mezzo meccanico, inaugurando un inte-

ro filone narrativo che ha avuto particolare fortuna nel XX secolo.

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INTRODUZIONE 4

I LA MACCHINA 9

II IL VIAGGIATORE NEL TEMPO RITORNA 13

III IL VIAGGIO NEL TEMPO 19

IV NELL’ETÀ DELL’ORO 24

V IL TRAMONTO DELL’UMANITÀ 28

VI UNO «SHOCK» IMPROVVISO 34

VII SPIEGAZIONE 40

VIII MORLOCK 50

IX QUANDO VENNE LA NOTTE 55

X IL PALAZZO DI PORCELLANA VERDE 61

XI NELLE TENEBRE 67

XII LA TRAPPOLA DELLA BIANCA SFINGE 73

XIII ULTIMA VISIONE 76

XIV IL RITORNO DEL VIAGGIATORE NEL TEMPO 81

XV DOPO LA STORIA 83

EPILOGO 87

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INTRODUZIONE

Il Viaggiatore nel Tempo (così chiameremo il nostro protagonista), sta-

va spiegandoci un’astrusa teoria. I suoi occhi grigi luminosi brillavano e il

viso, abitualmente pallido, era rosso e animato. Il fuoco ardeva allegramen-

te e, dalle lampade a incandescenza in gigli d’argento, s’irradiava una te-

nue luce, riflettendosi nelle bolle che rapide apparivano e scomparivano

nei nostri bicchieri. Le poltrone, suo brevetto, parevano abbracciarci e ac-

carezzarci più che subirci, e vi era quella molle atmosfera del dopo pranzo,

durante la quale i pensieri vagano piacevolmente, liberi da ogni vincolo.

Ed egli ci parlava così, liberamente, sottolineando i punti salienti con gesti

del suo indice magro, mentre noi, pigramente seduti, ammiravamo l’ardore

con cui sosteneva un nuovo paradosso (così lo giudicavamo) e la sua elo-

quenza.

— Seguitemi attentamente: dovrò discutere alcune idee che sono quasi

universalmente accettate. Per esempio, la geometria come ve l’hanno inse-

gnata a scuola è basata su una concezione errata.

— Non è forse un po’ troppo pretendere che incominciamo con un ar-

gomento così importante? — interruppe Filby, un tipo dai capelli fulvi, cui

piaceva cavillare.

— Non intendo farvi accettare nulla di infondato; ammetterete ben pre-

sto anche voi quanto vi chiedo. Sapete certamente che una linea matemati-

ca, una linea di spessore zero, non ha reale esistenza. Ve l’hanno insegnato,

vero?

Lo stesso dicasi per il piano matematico: sono semplici astrazioni...

— Giusto, — disse lo Psicologo.

— Neppure un cubo, che abbia solo lunghezza, larghezza e spessore,

può avere reale esistenza.

— Non sono d’accordo, — disse Filby; — certo, un corpo solido può

esistere. Tutte le cose reali...

— Questa è credenza generale. Ma, attendete un momento. Può esistere

un cubo istantaneo?

— Non la seguo, — replicò Filby.

— Può un cubo che non duri neanche un secondo avere un’esistenza re-

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ale?

Filby si fece pensieroso.

— È dunque chiaro — continuò il Viaggiatore nel Tempo — che qual-

siasi corpo reale deve estendersi in quattro direzioni: lunghezza, larghezza,

spessore e... durata. Ma per un’imperfezione della nostra natura, come vi

spiegherò fra poco, noi tendiamo a trascurare questo quarto fattore. Vi so-

no, in realtà, quattro dimensioni: tre, che chiamiamo i tre piani dello Spa-

zio, e una quarta, il Tempo; tuttavia si ha la tendenza a stabilire una distin-

zione fittizia tra le prime tre dimensioni e l’ultima, poiché siamo coscienti

di procedere in modo discontinuo in una sola direzione: il Tempo, e nel

Tempo, dal principio alla fine della nostra vita.

— Questo, — disse l’Uomo molto giovane, tentando inutilmente di ri-

accendere il sigaro alla fiamma della lampada, — questo è chiarissimo...

veramente.

— Ora, è molto sorprendente che sia stato in genere trascurato, — con-

tinuò il Viaggiatore nei Tempo in un leggero tono scherzoso. — Ecco ciò

che realmente significa la quarta dimensione, benché alcuni ne discutano

senza sapere che è di essa che parlano. È solo un’altra maniera di conside-

rare il Tempo. Non esiste differenza fra il Tempo e una qualsiasi delle altre

tre dimensioni dello Spazio, eccettuato che siamo coscienti di procedere

nel Tempo. Alcuni sciocchi hanno invece completamente travisato questo

concetto. Avete sentito ciò che dicono a proposito della quarta dimensio-

ne?

— Io no, — disse il Sindaco Provinciale.

— Semplicemente questo: lo Spazio, come sostengono i matematici, ha

tre dimensioni, che usiamo chiamare: lunghezza, larghezza e spessore, ed è

sempre definibile in rapporto ai tre piani, ciascuno perpendicolare all’altro.

Ma alcuni filosofi si sono domandati perché vi siano esclusivamente tre

dimensioni e non vi sia una quarta direzione perpendicolare alle altre tre. E

hanno anche tentato di costruire una geometria quadrimensionale. Circa un

mese fa il professor Simon Newcomb spiegava tutto questo alla Società

Matematica di New York. Saprete certamente che su una superficie piana

avente solo due dimensioni possiamo disegnare la figura di un solido a tre

dimensioni; allo stesso modo pensano, usando modelli a tre dimensioni, di

poterne disegnare uno di quattro, se riescono a impadronirsi della prospet-

tiva. Chiaro?

— Credo di sì, — mormorò il Sindaco Provinciale e, aggrottando le so-

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pracciglia, s’immerse in profonde riflessioni muovendo le labbra come se

ripetesse qualche parola magica. — Certo, credo d’aver compreso ora, —

disse dopo un po’, illuminandosi in volto per un attimo.

— Ebbene, non vi nascondo che per un certo periodo mi sono occupato

della geometria delle quattro dimensioni e ho ottenuto risultati curiosi. Ec-

covi, per esempio, una serie di ritratti dello stesso individuo a otto, quindi-

ci, diciassette, ventitré anni, e così via. Sono evidentemente le sezioni, cioè

le rappresentazioni tridimensionali del suo essere quadrimensionale, che è

fisso e inalterabile.

— Gli scienziati — continuò il Viaggiatore nel Tempo dopo una pausa

necessaria affinché assimilassero bene le sue parole — sanno perfettamente

che il Tempo è soltanto una specie di Spazio. Eccovi un diagramma scien-

tifico ben noto, un grafico delle condizioni atmosferiche: la linea che seguo

con il dito indica il movimento del barometro. Ieri è salito fino a qui, que-

sta notte è ridisceso e stamattina è risalito di nuovo giungendo a poco a po-

co fino a qui. Il mercurio non ha certo tracciato questa linea in alcuna delle

dimensioni dello Spazio generalmente conosciute; è però certo che ha trac-

ciato tale linea e perciò dobbiamo concludere che l’ha tracciata nella di-

mensione del Tempo.

— Ma, — disse il Medico fissando un pezzo di legno che ardeva, — se

il Tempo è realmente solo la quarta dimensione dello Spazio, perché

l’abbiamo sempre considerato e lo consideriamo come qualcosa di diver-

so? E perché non possiamo muoverci nel Tempo, come ci muoviamo nelle

altre dimensioni dello Spazio?

Il Viaggiatore nel Tempo sorrise.

— È sicuro che ci muoviamo liberamente nello Spazio? Possiamo spo-

starci a destra e a sinistra, muoverci abbastanza liberamente avanti e indie-

tro: l’abbiamo sempre fatto. Riconosco che ci muoviamo liberamente in

due dimensioni; ma per quanto riguarda i movimenti dall’alto in basso e

viceversa, la forza di gravità ci pone dei limiti.

— Non esattamente; — disse il Medico. — Vi sono i palloni.

— Vero. Ma prima che esistessero i palloni, a parte qualche salto ecce-

zionale e i dislivelli del terreno, l’uomo non aveva la possibilità di compie-

re movimenti verticali.

— Ma un pochino poteva muoversi verso l’alto e verso il basso, — dis-

se il Medico.

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— Più facilmente, assai più facilmente verso il basso che verso l’alto.

— E, inoltre, non si può affatto muovere nel Tempo, non si può allonta-

nare dal momento presente.

— Caro signore, è appunto in questo che lei sbaglia, è appunto in questo

che l’umanità ha sbagliato. Noi ci allontaniamo sempre dal momento pre-

sente; la nostra vita mentale, che è immateriale e non ha dimensioni, pro-

cede nella dimensione del Tempo a velocità uniforme, dalla culla alla tom-

ba: proprio come ci dirigeremmo verso il basso, se incominciassimo la no-

stra esistenza a circa cento chilometri sopra la superficie terrestre.

— Ma la grande difficoltà è questa, — interruppe lo Psicologo. — Ci si

può muovere in tutte le direzioni dello Spazio, ma non nel Tempo.

— Ecco da dove ha avuto inizio la mia grande scoperta! Lei ha torto a

dire che non possiamo muoverci nel Tempo. Se, per esempio, mi ricordo in

modo molto vivo un incidente, ritorno al momento in cui esso avvenne. Mi

astraggo, come si suol dire; compio un salto indietro per un momento. Na-

turalmente non abbiamo la possibilità di rimanere nel passato quanto vo-

gliamo, così come i selvaggi o gli animali non possono rimanere sollevati a

più di un metro dal suolo. Ma l’uomo civilizzato è, a questo riguardo, più

fortunato di un selvaggio: può sollevarsi in un pallone, nonostante la forza

di gravità; e allora, perché non dovrebbe sperare di potere un giorno arre-

starsi o accelerare la sua velocità nella dimensione del Tempo, o addirittura

fare dietrofront e andare nella direzione opposta?

— Oh! questo — cominciò Filby — è tutto...

— Perché no? — domandò il Viaggiatore nel Tempo.

— È contro ragione, — affermò Filby.

— Quale ragione?

— Lei può con dotti ragionamenti dimostrare che il nero è bianco, —

disse Filby, — ma non mi convincerà mai.

— Può darsi di no, — replicò il Viaggiatore nel Tempo, — ma ora lei

incomincia a intuire l’oggetto delle mie ricerche nel campo della geometria

delle quattro dimensioni.

Molto tempo fa ebbi la vaga idea di costruire una macchina...

— Per viaggiare nel Tempo! — esclamò l’Uomo molto giovane.

— ... che sarà in grado di viaggiare indifferentemente in qualsiasi dire-

zione dello Spazio e del Tempo, a piacere di chi la guida.

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Filby si limitò a sorridere.

— Ma io ho fatto la prova, — disse il Viaggiatore nel Tempo.

— Sarebbe veramente comodo per uno storico, — osservò lo Psicologo.

— Si potrebbe tornare indietro e controllare, per esempio, il resoconto or-

mai accettato della battaglia di Hastings.

— Non pensa di volere attirare troppo l’attenzione? — chiese il Medico.

— I nostri antenati erano piuttosto intolleranti in fatto di anacronismi.

— Si potrebbe imparare il greco dalla viva voce d’Omero e di Platone,

— osservò l’Uomo molto giovane.

— In questo caso, la boccerebbero al primo esame. Gli scienziati tede-

schi hanno talmente perfezionato il greco!

— Poi vi è il futuro, — disse l’Uomo molto giovane. — Rifletta! Si po-

trebbe investire tutto il denaro, lasciare che si accumuli a interesse e lan-

ciarsi...

— ... a scoprire una società costituita su basi rigorosamente comuniste,

— dissi io.

— Di tutte le teorie più strane... — incominciò lo Psicologo.

— Sì, così sembrava pure a me e perciò non ne ho mai parlato fino...

— La prova! — gridai. — Ha intenzione di dimostrarlo con prove?

— L’esperimento! — esclamò Filby il quale incominciava a sentirsi il

cervello stanco.

— In ogni modo vediamo il suo esperimento, — disse lo Psicologo, —

sebbene sia, e lo sa anche lei, una farsa.

Il Viaggiatore nel Tempo ci guardò tutti sorridendo, poi, sempre con un

risolino sulle labbra e le mani affondate nelle tasche, usci lentamente dalla

stanza: lo udimmo strascinare le pantofole nel lungo corridoio che condu-

ceva al laboratorio.

Lo Psicologo ci guardò: — Vorrei sapere che cosa mai avrà combinato.

— Qualche gioco di prestigio, — disse il Medico. Poi Filby incominciò

a raccontarci di un prestigiatore che aveva visto a Burslem, ma prima di fi-

nire l’introduzione, il viaggiatore nel tempo ritornò e l’aneddoto rimase in-

terrotto.

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Capitolo I

LA MACCHINA

L’oggetto che il Viaggiatore nel Tempo teneva in mano consisteva in

una struttura metallica lucente, poco più grande d’un piccolo orologio a

pendolo, fatto con molta accuratezza: era in parte d’avorio, in parte di cri-

stallo trasparente. E ora devo essere chiaro, poiché quanto segue - a meno

che non si accetti la spiegazione del costruttore - è assolutamente incredibi-

le. Egli prese una delle piccole tavole ottagonali che erano nella stanza, la

pose di fronte al camino, con due gambe posate sulla pietra del focolare;

sulla tavola appoggiò il meccanismo, avvicinò una sedia e sedette; sulla ta-

vola vi era soltanto una piccola lampada velata la cui luce brillante si riflet-

teva in pieno sopra il congegno. Nella stanza ardevano anche circa una

dozzina di candele: due, nei candelieri di ottone posti sul camino, e parec-

chie nei candelieri a muro, cosicché l’ambiente risultava ben illuminato.

Mi sedetti in una bassa poltrona accanto al fuoco e la disposi in modo da

trovarmi fra il camino e il Viaggiatore nel Tempo; Filby s’era seduto dietro

di lui e guardava al di sopra delle sue spalle; il Medico e il Sindaco Provin-

ciale l’osservavano, di profilo, da destra e lo Psicologo da sinistra; l’Uomo

molto giovane stava in piedi dietro lo Psicologo. Tutti noi eravamo sul chi

vive, mi sembra quindi impossibile che, in queste condizioni, potesse ve-

nirci giocato un tiro di qualsiasi genere, anche se ideato ingegnosamente ed

eseguito con abilità.

Il Viaggiatore nel Tempo guardò noi, poi il meccanismo. — Ebbene? —

chiese lo Psicologo.

— Questo piccolo oggetto non è che un modello, — spiegò il Viaggia-

tore nel Tempo appoggiando i gomiti sulla tavola e unendo le mani sopra il

congegno. — È il modello d’una macchina per viaggiare nel Tempo. Note-

rete che appare particolarmente storto e che questa sbarra ha una strana lu-

centezza, come se fosse in un certo senso irreale. — Indicò con un dito la

sbarra. — Qui, poi, vi è una piccola leva bianca e là un’altra.

Il Medico si alzò dalla sedia ed esaminò con curiosità il congegno. — È

veramente ben fatto, — osservò.

— Ho impiegato due anni per costruirlo, — rispose il Viaggiatore nel

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Tempo, poi, quando noi tutti, come il Medico, avemmo osservato, conti-

nuò: — Ora ho bisogno che comprendiate chiaramente che, azionando

questa leva, la macchina s’avvierà verso il futuro e, azionando quest’altra,

compirà il movimento opposto. La sella servirà da sedile all’eventuale

viaggiatore nel Tempo. Fra poco premerò la leva, e la macchina si metterà

in moto; si dileguerà, si dirigerà nel futuro e non riapparirà più. Guardatela

bene; esaminate attentamente anche la tavola e vi renderete conto che non

v’è nessun trucco. Non voglio sprecare questo modello per poi sentirmi di-

re che sono un ciarlatano.

Vi fu un attimo di silenzio. Lo Psicologo sembrava volermi parlare, ma

cambiò idea. Il Viaggiatore nel Tempo spinse un dito verso la leva. — No,

— disse d’un tratto. — Mi dia la sua mano. — E rivolgendosi allo Psicolo-

go, gliela prese fra le sue e lo pregò di stèndere l’indice. E così fu proprio

lo Psicologo ad avviare verso il suo interminabile viaggio il modello della

Macchina del Tempo. Tutti noi vedemmo la leva spostarsi; sono assoluta-

mente certo che non vi fu trucco. Si sentì un colpo di vento e la fiamma

della lampada vacillò; una delle candele sul caminetto si spense e la picco-

la macchina a un tratto girò su se stessa, i suoi contorni si fecero indistinti,

sembrò per circa un secondo un fantasma, un vortice scintillante di ottone e

di avorio; poi disparve: svanita! Sulla tavola non restò che la lampada.

Tacquero tutti per un minuto. — Incredibile! — esclamò poi Filby.

Lo Psicologo si riebbe dallo stupore e guardò subito sotto la tavola; il

Viaggiatore nei Tempo, vedendolo, rise allegramente.

— Ebbene? — disse, ripetendo inconsciamente il gesto dello Psicologo.

Poi si alzò, si diresse verso il camino sul quale v’era la scatola del tabacco

e, voltandoci le spalle, incominciò a riempire la pipa.

Ci guardammo l’un l’altro stupiti. — Mi dica, — disse il Medico, — ne

è convinto? Crede sul serio che quella macchina stia viaggiando nel Tem-

po?

— Certamente, — disse il Viaggiatore nel Tempo curvandosi per ac-

cendere con il fuoco un rotolino di carta. Poi si voltò, mentre accendeva la

pipa, per guardare il volto dello Psicologo. (Questi, per mostrare che non

era affatto turbato, prese egli pure un sigaro e tentò di accenderlo senza a-

verlo prima spuntato). — Ma v’è dell’altro: ho quasi finito di costruire una

grossa macchina, — disse, indicandoci il laboratorio; — quando sarà com-

pletamente montata, ho intenzione di compiere un viaggio a mio rischio e

pericolo.

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— Intende dire che quella macchina viaggi nel futuro? — chiese Filby.

— Nel futuro o nel passato; non so con certezza in quale delle due dire-

zioni.

Dopo un attimo, lo Psicologo ebbe un’ispirazione.

— Deve essersi diretta nel passato se è andata da qualche parte, — dis-

se.

— Perché? — chiese il Viaggiatore nel Tempo.

— Perché presumo che la macchina non si sia mossa nello Spazio e se

viaggiasse nel futuro, sarebbe ancora qui in questo momento, poiché do-

vrebbe attraversare questo stesso momento.

— Ma — dissi — se viaggiasse nel passato, l’avremmo vista poco fa

quando entrammo in questa stanza e lo scorso giovedì quando eravamo

qui, e il giovedì precedente e così via.

— Giuste queste obiezioni, — osservò il Sindaco Provinciale in tono

imparziale, poi guardò il Viaggiatore nel Tempo.

— Nient’affatto, — rispose costui. Poi volgendosi allo Psicologo: —

Lei lo può spiegare, ci pensi: è una rappresentazione sotto la soglia della

coscienza, lo sa, una rappresentazione piuttosto debole.

— Certamente, — disse lo Psicologo, e questo ci tranquillizzò: — è un

punto semplicissimo della psicologia, avrei dovuto pensarci: è abbastanza

evidente e rende chiaro il paradosso. Noi non possiamo né vedere né ap-

prezzare questa macchina, come non possiamo rappresentare una ruota in

movimento o un proiettile che voli nell’aria. Se la macchina viaggia nel

Tempo cinquanta o cento volte più velocemente di noi, se percorre un mi-

nuto primo mentre noi percorriamo un secondo, produce un effetto cin-

quanta o cento volte inferiore a quello che produrrebbe se non viaggiasse

nel Tempo. È abbastanza evidente, — E agitò la mano nello spazio che la

macchina aveva percorso. — Vede? — disse ridendo.

Rimanemmo seduti e per circa un minuto fissammo lo sguardo sulla ta-

vola vuota. Poi il Viaggiatore nel Tempo ci domandò che cosa pensassimo

di tutto quanto.

— Questa sera mi sembra abbastanza plausibile, — disse il Medico, —

ma aspettiamo fino a domani, aspettiamo il buon senso del mattino.

— Vi piacerebbe vedere la vera Macchina del Tempo?

— ci chiese il Viaggiatore nel Tempo. Prese la lampada e ci invitò a se-

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guirlo nel corridoio pieno di correnti d’aria che conduceva al suo laborato-

rio. Ricordo esattamente la luce vacillante della lampada, il profilo della

sua strana, grossa testa, la danza delle ombre che si proiettavano sulle pare-

ti; ricordo pure che tutti lo seguimmo perplessi e increduli nel suo laborato-

rio: là, scorgemmo una copia più grande del piccolo meccanismo che ave-

vamo visto dileguarsi poco prima davanti ai nostri occhi. Alcune parti era-

no di nichelio, altre d’avorio, altre ancora erano state certamente segate o

limate nel cristallo di rocca. Nel complesso la macchina era completa, ma

le sbarre di cristallo piegate giacevano non ancora finite sul banco da lavo-

ro accanto ai fogli da disegno; ne presi una per esaminarla meglio e mi

sembrò di quarzo.

— Vediamo un po’, — disse il Medico. — Fa seriamente o è un trucco

come quel fantasma che ci ha mostrato il Natale scorso?

— Con questa macchina — disse il Viaggiatore nel Tempo, tenendo la

lampada sollevata, — intendo esplorare il Tempo: chiaro? Non ho mai par-

lato più seriamente di ora in vita mia.

Nessuno di noi sapeva che significato dare a un’affermazione del gene-

re.

incontrai lo sguardo di Filby sopra le spalle del medico: mi strizzò

l’occhio con aria grave.

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Capitolo II

IL VIAGGIATORE NEL TEMPO RITORNA

Penso che nessuno di noi credesse allora alla Macchina del Tempo. Infatti

il Viaggiatore nel Tempo era uno di quegli uomini troppo accorti perché gli

si potesse prestar fede; ciò che accadeva intorno a lui era imprevedibile; si

sospettava sempre che la sua chiarezza e la sua franchezza nascondessero

qualcosa di misterioso, qualche tiro mancino. Se Filby ci avesse mostrato

lo stesso modello spiegandocelo con le stesse parole del Viaggiatore nel

Tempo, saremmo stati a suo riguardo molto meno scettici; avremmo capito

meglio le sue ragioni: anche un salumiere avrebbe potuto comprendere

Filby. Ma il Viaggiatore nel Tempo era piuttosto strano e diffidavamo di

lui. Cose che avrebbero reso celebre un uomo meno abile, nelle sue mani

sembravano trucchi. È un errore riuscire in tutto troppo facilmente. Le per-

sone posate che lo prendevano sul serio, non si sentivano del tutto tranquil-

le del suo atteggiamento; in certo qual modo capivano che affidare la loro

reputazione al suo giudizio, era come arredare un asilo d’infanzia con fra-

gile porcellana. Così credo che nessuno di noi abbia parlato molto dei

viaggi nel Tempo fra quel giovedì e il seguente, sebbene quasi tutti pensas-

simo continuamente a quella strana possibilità, alla loro plausibilità, cioè

all’inverosimiglianza di una loro attuazione, e alle curiose possibilità di

anacronismo e di confusione che essi suggerivano. Da parte mia ero parti-

colarmente preoccupato della possibilità che nel modello vi fosse un truc-

co. Ricordo di averne discusso con il Medico che incontrai il venerdì al

Linnaean. Egli disse che aveva visto una cosa simile a Tübingen e dava

grande importanza al fatto di spegnere la candela. Ma non sapeva spiegarsi

come avvenisse il trucco.

Il giovedì seguente ritornai a Richmond - ero uno dei più assidui ospiti

del Viaggiatore nel Tempo - ed essendo arrivato tardi, trovai quattro o cin-

que persone già riunite nel salotto.

Il Medico stava in piedi vicino al caminetto con un foglio di carta in una

mano e l’orologio nell’altra. Mi guardai intorno in cerca del Viaggiatore

nel Tempo.

— Sono le sette e mezzo, — osservò il Medico, — penso che sarebbe

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meglio cenare.

— Dov’è...? — domandai pronunciando il nome del nostro ospite.

— Lei è appena giunto? È abbastanza strano. Dev’essere stato certa-

mente trattenuto. Ha lasciato un biglietto invitandoci a metterci a tavola

s’egli non è qui per le sette; dice che spiegherà ogni cosa al suo ritorno.

— Mi pare un peccato lasciare raffreddare la cena,

— disse il Redattore Capo di un ben noto quotidiano; in quel momento

il Medico suonò il campanello.

Lo Psicologo era la sola persona (con il Medico e me) che fosse inter-

venuta al pranzo precedente. Gli altri invitati erano: Blank, il Redattore

nominato sopra, un certo giornalista, e un altro - un quieto e timido signore

con la barba che non conoscevo, il quale, per quanto potei osservare, non

aprì bocca per tutta la serata.

A tavola si fecero delle congetture sull’assenza del Viaggiatore nel

Tempo e io, in tono semischerzoso, insinuai che stesse compiendo un vi-

aggio nel Tempo. Il Redattore voleva che gli si spiegasse la faccenda e lo

Psicologo si offrì di buon grado di fargli una rapida narrazione

dell’«ingegnoso e paradossale trucco» al quale noi avevamo assistito otto

giorni prima. Era a metà della sua esposizione, quando la porta del corrido-

io si aprì lentamente, senza rumore. Mi trovavo proprio di fronte ad essa e

me ne accorsi per primo. — Oh! — esclamai. — Finalmente! — La porta

si aprì completamente e il Viaggiatore nel Tempo comparve davanti a noi.

Uscii in un grido di sorpresa. — Bontà divina! Che cosa è successo? — e-

sclamò il Medico il quale lo vide dopo di me. E tutti i convitati si volsero

verso la porta.

Il nostro amico era in uno stato spaventoso. Aveva l’abito impolverato e

sporco, imbrattato di verde sulle maniche; i capelli scarmigliati mi sembra-

vano più grigi, forse a causa della polvere e dello sporco o forse perché si

erano effettivamente sbiancati. L’espressione del suo viso, pallidissimo,

era d’intensa sofferenza; sul mento aveva una ferita semirimarginata. Esitò

un istante sulla soglia, come abbagliato dalla luce, poi entrò nella stanza;

camminava con il passo zoppicante tipico dei vagabondi dai piedi doloran-

ti. Lo fissammo in silenzio attendendo che parlasse.

Non aprì bocca, ma avanzò penosamente fino alla tavola e fece un mo-

vimento per cercare del vino. Il Redattore riempi un bicchiere di champa-

gne e lo spinse verso di lui; lo vuotò d’un fiato e sembrò gli giovasse, poi-

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ché fece il giro della tavola con lo sguardo e l’ombra del suo vecchio sorri-

so gl’illuminò debolmente il volto.

— Che cosa diavolo ha fatto? — chiese il Medico. Il Viaggiatore nei

Tempo sembrava non udirlo.

— Non voglio che vi disturbiate per me, — balbettò parlando con diffi-

coltà. — Va tutto bene!

Tacque, tese il bicchiere perché glielo riempissero e lo vuotò di nuovo

d’un fiato. — È quello che ci vuole!

I suoi occhi diventarono più brillanti e un lieve rossore gli imporporò le

guance. Fissò i nostri visi con un’aria di triste approvazione, poi guardò la

stanza calda e accogliente; ricominciò quindi a parlare dando l’impressione

di cercare l’argomento nelle sue stesse parole.

— Vado a lavarmi e a vestirmi, poi scenderò a spiegarvi come stanno le

cose... Avanzatemi del montone. Ho una voglia matta di un po’ di carne.

Si accorse del Redattore, il quale era un ospite poco assiduo e gli diede

il benvenuto. Il Redattore cercò di fargli una domanda.

— Le risponderò fra poco, — disse il Viaggiatore nel Tempo. — Mi

sento un po’ strano! ma tutto andrà a posto in qualche minuto.

Posò il bicchiere e s’incamminò verso la porta che dava sulla scala. No-

tai di nuovo la sua andatura zoppicante e il sordo rumore dei suoi passi; mi

alzai e vidi i suoi piedi, mentre usciva, coperti di calze strappate e macchia-

te di sangue. La porta si richiuse dietro di lui. Mi balenò l’idea di seguirlo,

ma ricordai come detestasse ogni strepito intorno a lui; per circa un secon-

do rimasi con la mente distratta, poi sentii il Redattore che diceva: — Sin-

golare comportamento d’un «Eminente Scienziato», — pensando, come

d’abitudine, al titolo d’un articolo. Ciò riportò la mia attenzione alla tavola

da pranzo.

— Che storia è questa? — chiese il Giornalista. — Ha forse fatto il gi-

rovago dilettante? Non ci capisco nulla! — Incontrai lo sguardo dello Psi-

cologo e vi lessi il mio stesso pensiero; pensavo al nostro amico il quale si

trascinava penosamente sulla scala; credo che nessun altro avesse notato

che zoppicava.

Il primo a riaversi completamente dalla sorpresa fu il Medico, il quale

suonò il campanello (il Viaggiatore nel Tempo detestava avere la servitù a

tavola) per chiedere un piatto caldo; quindi il Redattore, brontolando, ri-

prese in mano forchetta e coltello, e l’Uomo silenzioso segui il suo esem-

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pio. La cena riprese e la conversazione continuò per un po’ fra esclamazio-

ni e pause di stupore; poi il Redattore non riuscì a frenare la sua curiosità:

— Il nostro amico aumenta forse le sue modeste rendite spazzando la stra-

da? O si trova in un periodo alla Nabucodonosor?

— Sono certo — dissi — che si tratta della faccenda della Macchina del

Tempo — e continuai il racconto della riunione precedente che lo Psicolo-

go aveva iniziato. I nuovi ospiti erano francamente increduli. Il Redattore

sollevò delle obiezioni. — Che cosa era questa storia dei viaggi nel Tem-

po? Un uomo non si copriva certo di polvere rotolandosi in un paradosso.

— Poi, a mano a mano che si familiarizzava con l’idea, diventava ironico.

— Non vi sono forse più spazzole per abiti nel futuro? — Anche il

Giornalista si rifiutava di credere e si unì al Redattore nella facile impresa

di coprire di ridicolo tutta la faccenda. Entrambi appartenevano alla nuova

specie di giornalisti, giovani allegri e irrispettosi.

— Il nostro Inviato Speciale nel Dopodomani ci annuncia... — stava di-

cendo, o meglio, urlando il Giornalista, quando il Viaggiatore nel Tempo

rientrò. Indossava un comune abito da sera e nulla, eccetto il suo sguardo

stravolto, rimaneva in lui del cambiamento che mi aveva spaventato.

— Senta un po’, — disse con ilarità il Redattore, — questi signori af-

fermano che lei ha viaggiato nella metà della prossima settimana! Ci dica

tutto sul piccolo Rosebery1. Vuole? Che compenso chiede per l’articolo?

Il Viaggiatore nel Tempo sedette al suo posto senza pronunciare parola;

sorrideva tranquillamente come al solito.

— Dov’è il montone? — chiese. — Com’è piacevole affondare ancora

la forchetta nella carne.

— Il racconto! — disse il Redattore.

— Al diavolo il racconto! — replicò il Viaggiatore nel Tempo. — Ho

bisogno di mangiare qualcosa, e non dirò una parola fino a che non avrò

rifornito di peptoni le mie arterie. Grazie. Il sale, prego.

— Solo una parola, — dissi. — Ha viaggiato nel Tempo?

— Sì, — rispose il Viaggiatore nel Tempo con la bocca piena e facendo

un cenno con il capo.

— Darei uno scellino alla riga per un resoconto in esteso, — intervenne

1 Rosebery, Archibald (1847-1929), uomo di stato e scrittore inglese. Fu capo del Fo-

reign Office, Ministro degli Esteri e Primo Ministro. (N.d.T.)

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il Redattore. Il Viaggiatore nel Tempo spinse il suo bicchiere verso l’Uomo

silenzioso e lo fece tintinnare con l’unghia di un dito; l’Uomo silenzioso, il

quale lo stava fissando, sobbalzò e gli versò del vino. Il resto del pranzo

trascorse in un’atmosfera di disagio. Quanto a me, mi salivano continua-

mente alle labbra improvvise domande e suppongo che agli altri capitasse

la stessa cosa. Il Giornalista cercò di diminuire la tensione raccontando de-

gli aneddoti di Hettie Polter. Il Viaggiatore nel Tempo concentrava la sua

attenzione sul piatto: doveva avere una fame da lupo. Il Medico fumava

una sigaretta e lo osservava attraverso le ciglia abbassate. L’Uomo silen-

zioso sembrava ancora più goffo del solito; beveva lo champagne a sorsi

regolari e con una risolutezza che tradiva un leggero nervosismo. Infine il

Viaggiatore nel Tempo allontanò il piatto e ci fissò. — Penso di dovermi

scusare, — disse. — Stavo letteralmente morendo di fame. Ho passato dei

momenti spaventosi. — Allungò la mano per prendere un sigaro e lo spun-

tò. — Ma, venite nella sala da fumo; è una storia troppo lunga da racconta-

re davanti ai piatti sporchi. — Si alzò, suonò il campanello e ci fece strada

nella stanza vicina.

— Ha messo al corrente della macchina Blank, Dash e Chose? — mi

chiese, mentre si sedeva nella sua comoda poltrona, alludendo ai tre nuovi

ospiti.

— Ma la faccenda è un puro paradosso, — disse il Redattore.

— Non posso discutere questa sera; sono disposto a raccontarvi la sto-

ria, ma non me la sento di discutere. Voglio raccontarvi — continuò — la

storia di ciò che mi accadde, se lo desiderate, ma non dovete interromper-

mi. Voglio raccontarvela assolutamente. Intesi? Quasi tutto vi sembrerà

menzogna. Non importa! È verità, ogni parola è vera, qualunque cosa pen-

siate. Ero nel mio laboratorio alle quattro e da quel momento... ho vissuto

otto giorni... dei giorni che nessun uomo ha mai vissuto prima d’ora. Sto

crollando dalla stanchezza, ma non voglio dormire prima di avervi raccon-

tato ogni cosa, da cima a fondo. Dopo, andrò a riposarmi: ma non inter-

rompetemi. D’accordo?

— D’accordo, — riprese il Redattore, e noi tutti facemmo eco: —

D’accordo.

Allora il Viaggiatore nel Tempo iniziò la sua storia così, come io ve la

riferisco. Si sprofondò in poltrona e parlò con il tono dell’uomo affaticato.

Poi a poco a poco si rianimò. Mentre scrivo la storia, sento profondamente

l’insufficienza della penna e dell’inchiostro, e sento soprattutto di non riu-

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scire a rendere completamente l’atmosfera e lo spirito del racconto. Voi

leggete - suppongo - abbastanza attentamente, ma non potete vedere nel

cerchio di luce della piccola lampada il volto pallido e schietto del narrato-

re né potete udire le inflessioni della sua voce. Non sapete come

l’espressione del suo viso accompagnasse le fasi del racconto! La maggior

parte di noi ascoltatori era nell’ombra perché nella sala da fumo non erano

state accese le candele: erano illuminati solo il volto del Giornalista e le

gambe dell’Uomo silenzioso, dal ginocchio in giù. Dapprima ci scambia-

vamo di tanto in tanto qualche occhiata; poi smettemmo e fissammo sol-

tanto il viso del Viaggiatore nel Tempo.

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Capitolo III

IL VIAGGIO NEL TEMPO

— Giovedì scorso spiegai a qualcuno di voi, i principi su cui si basa la

Macchina del Tempo e mostrai la vera macchina stessa, incompleta, nel la-

boratorio. È ancora là, a dire il vero, un po’ stanca per il viaggio; una delle

sbarre d’avorio si è spaccata, una traversa di ottone si è curvata; ma il resto

è ancora abbastanza in ordine. Contavo di finirla venerdì, ma quando ave-

vo quasi terminato di montarla, mi accorsi che una delle sbarre di nichelio

era troppo corta esattamente di due centimetri e cinquantaquattro millime-

tri e dovetti quindi farne un’altra: per ciò la macchina non è stata comple-

tamente pronta fino a stamattina. E così, alle dieci di oggi, la prima di tutte

le Macchine del Tempo ha incominciato a funzionare.

Le diedi un ultimo colpetto, provai ancora tutte le viti, aggiunsi un’altra

goccia d’olio al regolo di quarzo e montai sul sedile. Suppongo che il sui-

cida mentre appoggia alla tempia la canna della pistola provi per ciò che

succederà l’attimo seguente quello che in quel momento provai io: un sen-

timento di curiosità. Misi una mano sulla leva della messa in moto e l’altra

su quella del freno, abbassai la prima e quasi subito la seconda. Mi sentii

vacillare, poi ebbi la terribile sensazione di cadere; ma, guardandomi intor-

no, vidi che il laboratorio era esattamente come prima. Era accaduto qual-

cosa? Per un momento sospettai che il mio intelletto m’avesse giocato

qualche brutto tiro; osservai l’orologio a pendolo: un attimo prima mi sem-

brava che segnasse le dieci e qualche minuto, ora segnava circa le tre e

mezzo!

Respirai, strinsi i denti, impugnai con le mani la leva della messa in mo-

to e partii con un rumore sordo. Il laboratorio divenne indistinto, poi buio.

La signora Watchett entrò dirigendosi, evidentemente senza vedermi, verso

la porta del giardino. Suppongo le siano occorsi un minuto o due per attra-

versare la stanza, ma mi sembrò che l’attraversasse con la velocità di un

razzo. Premetti la leva fino in fondo. Venne la notte, come se si fosse spen-

ta una lampada, e dopo un attimo era già giorno. Il laboratorio si fece con-

fuso, nebbioso e sempre più indistinto; scese, nera, la notte seguente, poi fu

di nuovo giorno; quindi notte e giorno si succedettero, velocemente, sem-

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pre più velocemente. Ero assordato da un ronzio vertiginoso e provavo uno

strano senso di vuoto e di confusione.

Temo di non riuscire a descrivervi le singolari sensazioni che si hanno

viaggiando nel Tempo: sono eccessivamente spiacevoli. Ci si sente esatta-

mente come quando ci si trova sulle montagne russe nelle fiere: si ha cioè

la sensazione di precipitare inevitabilmente con il capo all’ingiù. Provavo

anche l’orribile sensazione di uno scontro imminente. Durante quella corsa

la notte succedeva al giorno come il battito di un’ala nera. La debole ombra

del laboratorio parve svanire quasi subito e vidi il sole saltellare veloce-

mente nel cielo e attraversarlo con un balzo ogni minuto, segnando, ogni

minuto, un giorno nuovo. Pensavo che il laboratorio fosse stato distrutto e

che io mi trovassi all’aperto. Avevo la vaga impressione di essere su dei

ponteggi, ma procedevo ormai a una velocità troppo alta per accorgermi di

qualsiasi movimento. Anche la più lenta lumaca sarebbe strisciata troppo

velocemente perché la vedessi. Il rapidissimo succedersi di oscurità e di lu-

ce era eccessivamente penoso ai miei occhi. In un intervallo di oscurità, vi-

di la luna passare rapidamente attraverso le sue fasi, dal primo all’ultimo

quarto, ed ebbi una visione fugace dei movimenti stellari. Poi, con

l’aumentare della velocità, notte e giorno si fusero in un grigiore ininterrot-

to; il cielo si tinse di un meraviglioso azzurro scuro, splendido e luminoso

colore simile a quello del primo crepuscolo; il sole balzellante diventò una

striscia di fuoco, un arco brillante nello spazio e la luna una fascia ondeg-

giante appena percettibile; quanto alle stelle non riuscivo a vedere nulla,

tranne, di tanto in tanto, un cerchio brillante, che tremolava nell’azzurro.

Il paesaggio era nebbioso e vago. Mi trovavo sul lato della collina su cui

ora è costruita questa casa e la sua spalla mi sovrastava grigia e indistinta.

Vedevo alberi crescere e mutare come colonne di vapore, ora marroni, ora

verdi: spuntavano, si estendevano, cadevano schiantati, sparivano. Vedevo

sorgere e svanire come nei sogni immensi e splendidi edifici dai contorni

non ben delineati. Tutta la superficie della terra sembrava cambiata: flut-

tuava e spariva sotto il mio sguardo. Le lancette dei quadranti, che regi-

stravano la velocità, giravano sempre più in fretta. Poco dopo osservai che

il disco solare oscillava in su e in giù, passando di solstizio in solstizio in

un minuto o forse meno, quindi la mia velocità era maggiore di un anno al

minuto primo; di minuto in minuto la bianca neve cadeva sul mondo e si

scioglieva, seguita dalla brevissima lussureggiante vegetazione della pri-

mavera.

Le sgradevoli sensazioni della partenza diminuirono e si trasformarono

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ben presto in una specie di ilarità isterica. Notavo, per la verità, una goffa

oscillazione della macchina, che non sapevo spiegarmi, ma la mia mente

era troppo confusa per badarvi e, con follia crescente, mi lanciai nel futuro.

Dapprima, non pensavo neppure a fermarmi, non pensavo a nient’altro che

a queste nuove sensazioni, ben presto seguite da altre (una certa curiosità

accompagnata da paura) che finirono con l’impadronirsi completamente di

me. Quale strana evoluzione dell’umanità, quale meraviglioso progresso

sulla nostra rudimentale civiltà, pensavo, mi sarebbero apparsi quando mi

fosse riuscito di osservare da vicino quel mondo vago e inafferrabile che

fluttuava e spariva davanti ai miei occhi! Vedevo sorgere intorno a me

grandi e splendide costruzioni più solide di qualsiasi edificio dell’epoca

nostra e che tuttavia sembravano fatte di bruma e di fioca luce. Un verde

più intenso ricopriva il pendio e vi restava senza alcun intervallo invernale.

Persino in mezzo a quella confusione di impressioni la terra sembrava bel-

lissima. E così mi balenò l’idea di fermarmi.

Lo strano rischio che correvo consisteva nella possibilità di trovare

qualche sostanza nello spazio che io o la macchina occupavamo. Finché

viaggiavo a grande velocità nel Tempo, importava poco: ero per così dire

assottigliato, scivolavo come un gas attraverso gli interstizi delle sostanze

che mi si frapponevano. Ma fermarmi voleva dire schiacciarmi, molecola

per molecola, contro tutto ciò che si trovava sul mio cammino; significava

portare in contatto così intimo i miei atomi con quelli di un eventuale osta-

colo, da provocare una violenta reazione chimica - forse un’esplosione

formidabile - che avrebbe lanciato la macchina e me fuori di ogni possibile

dimensione... nell’Ignoto. Questa possibilità mi era venuta in mente spesse

volte mentre costruivo la macchina; ma l’avevo allora accettata serenamen-

te come un rischio inevitabile, uno di quei rischi che si devono affrontare!

Ora che era veramente inevitabile, non lo prendevo più così allegramente.

Infatti l’assoluta stranezza di ogni cosa, la nauseante vibrazione e oscilla-

zione della macchina, e soprattutto la sensazione di una caduta prolungata,

avevano, senza che me ne accorgessi, completamente scosso i miei nervi.

Dicevo a me stesso che non avrei mai potuto fermarmi, poi, in un momento

di irritazione, decisi di arrestarmi subito. Da folle impaziente, tirai la leva:

immediatamente la macchina si capovolse e io venni lanciato con la testa

in avanti, nel vuoto.

Sentii nelle orecchie il fragore di un tuono e probabilmente persi i sensi

per un momento. Una grandine implacabile turbinava intorno a me e io ero

seduto su un soffice tappeto erboso davanti alla macchina capovolta. Ogni

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cosa mi sembrava ancora grigia, ma notai subito che il confuso frastuono

che avevo nelle orecchie era scomparso. Mi guardai intorno: mi trovavo su

qualcosa che sembrava una piccola distesa verde di un giardino, circondata

da cespugli di rododendri e vidi che i fiori color malva, e porpora cadevano

come pioggia sotto i chicchi di grandine. Questa, rimbalzando come se

danzasse, stava sospesa in una piccola nuvola sopra la macchina e cadeva

al suolo come fumo. In un istante mi bagnai fino alle ossa.

“Bell’accoglienza” dissi “a un uomo che ha viaggiato innumerevoli anni

per venirvi a trovare”!

Pensai subito che era stupido stare a bagnarsi. Mi alzai e mi guardai in-

torno: in lontananza, oltre i rododendri, attraverso la foschia della pioggia

torrenziale, una figura colossale scolpita, così mi sembrava, in pietra bian-

ca apparve indistintamente. Tutto il resto del mondo era invisibile.

È difficile descrivervi ciò che provai. Quando la cortina di grandine si

fece meno fitta, vidi la bianca figura più distintamente: era immensa perché

un’argentea betulla le arrivava alle spalle; scolpita nel marmo bianco, ri-

cordava per la sua forma una sfinge alata, ma le ali invece di essere vertica-

li ai fianchi, erano spiegate dando l’impressione che si librasse nell’aria. Il

piedestallo, era di bronzo, così almeno mi sembrava, ricoperto di una spes-

sa crosta di verderame. Per caso aveva il volto rivolto dalla mia parte, e gli

occhi, che non vedevano, parevano spiarmi; le labbra erano atteggiate a un

vago sorriso; era molto rovinata dalle intemperie e dava una disgustosa

sensazione di malattia. Rimasi a osservarla per un po’, mezzo minuto o,

forse, mezz’ora: sembrava avanzare e indietreggiare a seconda che la gran-

dine cadesse più o meno fitta. Alla fine distolsi lo sguardo per un attimo e

m’accorsi che la cortina di grandine si diradava e il cielo, rischiarandosi,

prometteva sole.

Guardai di nuovo la forma bianca accoccolata e improvvisamente capii

tutta la temerarietà del mio viaggio. Che cosa avrei visto quando il fitto ve-

lo formato dalla grandine fosse completamente scomparso? Che cosa mai

poteva essere capitato agli uomini? E se la crudeltà fosse diventata una

passione comune? Se in questo intervallo di tempo la nostra specie avesse

perduto ogni caratteristica umana e si fosse trasformata in qualcosa di inu-

mano, incapace di comprensione ed enormemente possente? Avrei potuto

sembrare un animale selvaggio del vecchio mondo, ma assai più orribile e

disgustoso per la nostra comune rassomiglianza, una spaventosa creatura

da sopprimere immediatamente.

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Incominciavo a distinguere, a mano a mano che la tempesta diminuiva,

altre forme enormi: erano immensi edifici dai complicati parapetti e dalle

alte colonne, costruiti su un dolce pendio ricoperto di alberi. Fui colto da

timor panico: corsi come un pazzo alla Macchina del Tempo e feci ogni

sforzo per raddrizzarla. Intanto i raggi solari ebbero la meglio sulla tempe-

sta; la deprimente pioggia torrenziale si allontanò, svanendo come la veste

a strascico di un fantasma. In alto, nell’azzurro intenso del cielo estivo vol-

teggiavano e si dileguavano alcuni scuri lembi di nuvole appena percettibi-

li. I grandi edifici vicino a me, ora chiari, distinti e lucidi di pioggia, spic-

cavano nel bianco dei chicchi di grandine non ancora sciolta che si erano

ammucchiati sui mattoni, Mi sentivo indifeso in un mondo strano. Provavo

ciò che provano forse gli uccelli nell’aria limpida quando si accorgono che

l’avvoltoio si prepara a piombare su di loro.

La mia paura diventò frenesia: respirai profondamente, strinsi i denti e

feci forza con i pugni e con le ginocchia contro la macchina, che cedette al

mio attacco disperato, si raddrizzò, e mi colpi violentemente al mento; poi

mi aggrappai con una mano al sedile, con l’altra alla leva, ansimando pe-

santemente, pronto a risalire.

Ma con la possibilità di una veloce ritirata, mi ritornò il coraggio. Guar-

dai con più curiosità e meno timore quel mondo del lontano futuro. In

un’apertura rotonda assai alta nel muro dell’edificio più vicino, scorsi un

gruppo di figure che indossavano ricche e soffici vesti. Anch’esse

m’avevano scorto e si erano voltate verso di me.

Udii un suono di voci che si avvicinavano. Attraverso i cespugli, vicino

alla Bianca Sfinge, vidi la testa e le spalle di esseri che correvano. Uno di

essi sbucò sul sentiero che conduceva al piccolo prato sul quale mi trovavo

con la macchina: era esile, alto circa un metro e venti, vestiva una tunica di

porpora stretta in vita da una cintura di cuoio e calzava sandali o coturni -

non riuscivo a distinguere bene -, le gambe erano nude fino alle ginocchia

ed era a capo scoperto. Mentre osservavo queste cose, notai per la prima

volta che l’aria era molto tiepida.

L’aspetto di quella creatura bellissima, aggraziata, ma incredibilmente

fragile mi colpi: il suo viso roseo, ricordava la bellezza dei tubercolotici;

quella bellezza febbricitante di cui si sente tanto parlare. Come la vidi, ri-

presi fiducia e staccai le mani dalla macchina.

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Capitolo IV

NELL’ETÀ DELL’ORO

Un istante dopo eravamo l’uno di fronte all’altro, io e quella fragile cre-

atura del futuro. Si avvicinò a me e mi rise in faccia. L’assenza di qualsiasi

segno di timore nel suo contegno mi colpi subito. Poi essa si volse verso le

altre due che la seguivano e parlò loro in una lingua strana, armoniosa e

dolce.

Ne arrivarono altre e, in breve, mi trovai circondato da un piccolo grup-

po di forse otto o dieci di quelle squisite creature. Una di loro mi rivolse la

parola. Mi venne in mente, pensiero abbastanza strano, che la mia voce

fosse troppo aspra e profonda per loro. Così scossi il capo, indicai le orec-

chie e scossi di nuovo il capo. Essa fece un passo verso di me, esitò, poi mi

toccò una mano. Sentii altri piccoli e leggeri tentacoli sulla schiena e sulle

spalle: volevano forse assicurarsi che ero di carne e ossa. Non v’era nulla

di allarmante in tutto questo. Per la verità quei piccoli esseri avevano qual-

cosa che ispirava fiducia, una delicata gentilezza, una certa naturalezza in-

fantile; inoltre avevano un aspetto così fragile che mi pareva di poterli but-

tare per terra tutti quanti come tanti birilli. Feci un movimento brusco per

metterli in guardia quando vidi che toccavano la Macchina del Tempo con

le loro piccole mani rosee. Fortunatamente - non era ancora troppo tardi -

m’accorsi di un pericolo che fino ad allora avevo dimenticato; mi avvicinai

alle sbarre della macchina, svitai le piccole leve della messa in moto e le

misi in tasca.

Poi mi rivolsi di nuovo a quegli esseri, pensando a come avrei potuto

comunicare con loro.

Esaminandone più da vicino i lineamenti, osservai nuovi particolari nel

loro genere di bellezza che ricordava quella della porcellana di Sassonia. I

capelli, inanellati, terminavano in modo netto al collo e alle guance; il viso

non aveva la minima peluria e le orecchie erano singolarmente minuscole;

la bocca era piccola, le labbra di un rosso vivo, ma piuttosto strette e il

mento a punta. Gli occhi erano grandi e dolci; in quel momento pensai - e

ciò può sembrare presuntuoso da parte mia - che non suscitavano in me

quell’interesse che mi sarei aspettato da loro da principio.

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Poiché non facevano alcuno sforzo per comunicare con me, ma mi cir-

condavano semplicemente, sorridendo e parlando fra di loro con un tono di

voce carezzevole che ricordava il tubare delle tortore, fui io a iniziare la

conversazione; indicai la Macchina del Tempo e me stesso, poi, dopo avere

esitato un attimo per cercare di esprimere l’idea del Tempo, indicai il sole.

Subito una graziosa e strana figurina con una veste a scacchi bianchi e ros-

si ripeté il mio gesto e, con mia grande meraviglia, imitò il boato del tuono.

Per un momento rimasi sconcertato, sebbene il significato del gesto fos-

se abbastanza chiaro. Una domanda mi si affacciò all’improvviso alla men-

te: quegli esseri erano forse deficienti? Difficilmente potrete capire come

mi venne quell’idea. Vedete, è stata sempre mia convinzione che l’umanità

dell’anno 802.000 e oltre, ci avrebbe di gran lunga superato nella scienza,

nelle arti: in tutto insomma. Ed ecco che uno di quegli esseri mi poneva

improvvisamente una domanda degna del livello mentale di un bambino di

cinque anni: mi chiedeva infatti se fossi venuto dal sole con l’uragano. Ciò

confermava il giudizio che mi ero fatto su di loro osservandone

l’abbigliamento, le membra fragili e sottili e i lineamenti delicati. Provai

una grande delusione e per un momento pensai di avere costruito inutil-

mente la Macchina del Tempo.

Annuii, indicai il sole, e riuscii a imitare così bene il boato del tuono che

ne trasalirono. Indietreggiarono tutti di alcuni passi e s’inchinarono; poi

uno di loro s’avanzò verso di me ridendo: teneva in mano una ghirlanda di

bellissimi fiori del tutto nuovi per me e me la pose intorno al collo. Il gesto

fu accolto dagli altri con un melodioso applauso e subito tutti si misero a

correre qua e là in cerca di fiori che mi lanciavano ridendo, fino a che ne

fui quasi del tutto ricoperto. Voi che non li avete visti non potete nemmeno

lontanamente immaginare quali meravigliosi e delicati fiori innumerevoli

anni di coltivazione abbiano prodotto. Qualcuno propose di mostrarmi il

gioco nell’abitazione più vicina; così mi condussero verso un grande edifi-

cio in pietra grigia lavorata, oltre la Sfinge di marmo bianco che sembrava

m’avesse osservato per tutto quel tempo sorridendo della mia meraviglia.

Mentre m’incamminavo con loro, mi ritornarono alla mente, suscitando in

me una grande allegria, le mie previsioni ottimistiche su una futura umani-

tà profondamente austera e intelligente.

L’edificio, di dimensioni imponenti, aveva un’ampia entrata. Ero natu-

ralmente indaffaratissimo per la folla crescente di piccoli esseri e per le

grandi porte che mi si spalancavano dinanzi, scure e misteriose.

L’impressione generale di quel mondo, che scorgevo al di sopra delle loro

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teste, era quella di una distesa selvaggia di bellissimi fiori e di cespugli, di

un giardino da lungo tempo trascurato e tuttavia privo di erbacce. Vidi

molte alte spighe dai fiori bianchi che non conoscevo, i cui petali cerei era-

no larghi circa trenta centimetri; crescevano qua e là, selvatiche fra gli altri

arbusti multicolori, ma, come dicevo, in quel momento non le esaminai at-

tentamente. La Macchina del Tempo intanto era stata abbandonata sul pra-

to in mezzo ai rododendri.

L’arco del portone era riccamente scolpito, ma naturalmente non esami-

nai le sculture molto da vicino sebbene, passando, mi sembrasse di vedere

tracce di antiche decorazioni fenicie e mi colpisse il fatto che fossero molto

rovinate e mutilate. Mi vennero incontro sulla soglia parecchi esseri vestiti

a colori vivaci e così entrammo; io indossavo squallidi abiti del dicianno-

vesimo secolo e avevo un aspetto abbastanza grottesco, con la ghirlanda di

fiori, in mezzo a quella massa turbinante di vesti dai caldi e brillanti colori,

di membra bianche e luminose, tra melodiose risate ed esclamazioni di gio-

ia.

Il grande portone si apriva su una sala altrettanto vasta, tappezzata di

scuro. Il soffitto era in ombra e dalle finestre, in parte a vetri colorati e in

parte senza vetri, filtrava una luce smorzata. Il pavimento, formato di gran-

di blocchi di un metallo bianco e durissimo (non si trattava di lamine o di

piastre, ma di blocchi) era così logorato dal passaggio, suppongo, di anti-

che generazioni, che i tratti, più battuti erano profondamente scavati. Per-

pendicolarmente alla lunghezza v’erano innumerevoli tavole fatte con la-

stre di pietra levigata, alte forse circa trenta centimetri dal pavimento e sul-

le quali erano ammassati mucchi di frutta; ne riconobbi alcune, simili a

fragole e ad arance ipertrofizzate, ma la maggior parte mi era sconosciuta.

Fra le tavole erano sparsi moltissimi cuscini sui quali sedettero i miei

accompagnatori invitandomi a fare altrettanto. Con una simpatica mancan-

za di cerimonie, essi incominciarono a mangiare la frutta con le mani, but-

tando buccia, piccioli e il resto in aperture rotonde praticate ai lati delle ta-

vole. Seguii il loro esempio molto volentieri; avevo fame e sete; mentre

mangiavo, potei esaminare con mio agio la sala.

La cosa che forse mi colpì di più fu il suo aspetto di abbandono: le ve-

trate colorate, a disegni geometrici, erano rotte in parecchi punti e i ten-

daggi che ne ricoprivano la parte inferiore, erano pieni di polvere; notai pu-

re che un angolo della tavola di marmo vicino a me era scheggiato. Tutta-

via l’effetto nell’insieme era pittoresco e sontuoso. Nella sala pranzavano

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forse circa duecento di quegli strani esseri e moltissimi, seduti il più possi-

bile vicino a me, mi guardavano con interesse e i loro occhietti brillavano

al di sopra della frutta che stavano mangiando. Tutti indossavano la stessa

tunica di seta morbida e nello stesso tempo resistente.

La frutta, a proposito, era il loro solo alimento. Quegli esseri del lontano

futuro erano rigorosamente vegetariani, e finché rimasi fra loro, nonostante

il mio desiderio di mangiare la carne, dovetti essere frugivoro. A dire il ve-

ro, in seguito scoprii che non esistevano più cavalli, armenti, greggi e cani.

La loro specie si era estinta come quella degli ittiosauri. La frutta però era

veramente deliziosa: un tipo in particolare, che sembrava essere di stagione

per tutto il periodo che rimasi là (aveva la polpa farinosa e l’involucro tri-

angolare) era assai gustoso e diventò il mio cibo principale. Rimasi dap-

prima imbarazzato fra tutta quella frutta e quei fiori strani e sconosciuti,

ma più tardi imparai ad apprezzarli.

Comunque vi stavo raccontando del mio pranzo a base di frutta in quel

futuro lontano. Dopo che il mio appetito si fu un po’ calmato, decisi di ten-

tare a ogni costo di imparare il linguaggio dei miei nuovi compagni: era

certamente la prima cosa da fare. I frutti mi sembravano il pretesto adatto

per incominciare e, prendendone in mano uno, feci una serie di gesti e di

suoni interrogativi; fu piuttosto difficile riuscire a far comprendere loro le

mie intenzioni: dapprima i miei tentativi suscitarono scoppi di risa e sor-

presa, ma una piccola creatura dai capelli biondi sembrò indovinare ciò che

volevo dire e ripeté un nome. Dovettero chiacchierare e spiegarsi lunga-

mente fra di loro; i miei primi tentativi di articolare i brevi e melodiosi

suoni della loro lingua furono, per loro, motivo di sincera, anche se non

molto educata, allegria. Mi pareva di essere un maestro di scuola fra gli al-

lievi, ma persistetti e in breve divenni padrone di almeno una dozzina di

sostantivi; poi arrivai ai pronomi dimostrativi e persino al verbo “mangia-

re”. Fu un lavoro lento; ben presto quei piccoli esseri si stancarono e sfug-

girono ad ogni mia ulteriore domanda; decisi quindi, per forza di cose di

farmi dare lezioni a piccole dosi quando ne avessero voglia: mi accorsi

quasi subito che le lezioni dovevano essere oltremodo brevi, perché non ho

mai visto gente più indolente e più facile a stancarsi.

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Capitolo V

IL TRAMONTO DELL’UMANITÀ

Una cosa strana che scoprii ben presto sul conto dei miei piccoli ospiti

era la loro mancanza di qualsiasi interesse. Come fanciulli si avvicinavano

a me con impazienti grida di sorpresa e, come i fanciulli, si stancavano su-

bito di guardarmi e si allontanavano in cerca di altri svaghi. Dopo la cena e

i miei tentativi di conversazione, notai per la prima volta che quasi tutti

quelli che mi avevano circondato all’inizio si erano dileguati. È ugualmen-

te strano che ben presto io mi disinteressassi di quelle creature. Appena

ebbi soddisfatto l’appetito, uscii dal portone, alla luce del sole. Continuavo

a incontrare parecchi di quegli esseri i quali mi seguivano a una certa di-

stanza, chiacchierando e ridendo di me, e, dopo sorrisi e gesti amichevoli,

mi lasciavano alle mie riflessioni.

Scendeva sul mondo la pace della sera quando uscii dalla grande sala e

la scena era illuminata dai tiepidi raggi del sole cadente. Dapprima le cose

mi parvero assai confuse: tutto era completamente differente dal mondo

che conoscevo, persino i fiori. Il grande edificio che avevo lasciato era si-

tuato sul declivio di un’ampia vallata di fiume, ma il Tamigi era spostato di

circa un chilometro e mezzo dalla sua attuale posizione. Decisi di salire in

cima a una collina, lontana probabilmente poco più di due chilometri, dalla

quale avrei potuto godermi un ampio panorama del nostro pianeta

nell’anno Domini 802.701. Infatti, avrei già dovuto dirlo, era questa la data

che registravano i quadranti della macchina.

Camminando, stavo attento a tutte le impressioni che avrebbero potuto

in qualche modo aiutarmi a spiegare la condizione di decadente splendore

nella quale trovai il mondo, poiché in rovina lo era. Un po’ più in là, sulla

strada che portava alla collina, per esempio, vidi un enorme mucchio di

granito tenuto insieme da blocchi di alluminio, e un vasto labirinto di mura

scoscese e di cumuli di rovine, fra le quali crescevano bellissimi e folti ce-

spugli di piante a forma di pagoda - probabilmente ortiche - ma con le fo-

glie dalle meravigliose sfumature scure che non irritavano la pelle. Si trat-

tava evidentemente dei resti abbandonati di qualche vasto edificio destina-

to a uno scopo che non riuscivo a indovinare. Proprio là avrei fatto in se-

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guito una stranissima esperienza, primo indizio di una scoperta ancora più

strana, della quale vi parlerò al momento opportuno.

Guardandomi intorno da una terrazza sulla quale mi ero fermato per un

momento, mi accorsi, per un improvviso pensiero, che non vi erano piccole

abitazioni. Evidentemente le case per le singole famiglie e forse anche il

nucleo familiare non esistevano più. Qua e là fra il verde si elevavano delle

specie di palazzi, ma la casa e il cottage, caratteristici del paesaggio ingle-

se, erano scomparsi.

“È il comunismo”, dissi fra me.

E subito mi s’affacciò alla mente un altro pensiero; osservai la mezza

dozzina di piccoli esseri che mi seguivano: mi accorsi immediatamente che

tutti vestivano allo stesso modo, avevano lo stesso viso delicato e imberbe,

la stessa rotondità di membra da adolescenti. Vi sembrerà strano, forse, che

non l’avessi notato prima, ma tutto era così assurdo! Ora, però, mi pareva

abbastanza chiaro. Nel modo di vestire, nella struttura, nel portamento, che

ora distinguono fra di loro i sessi, quegli esseri del futuro erano identici.

I figli non mi sembravano altro che miniature dei loro genitori. Giudicai

i bambini di quel tempo estremamente precoci, almeno fisicamente, e più

tardi trovai ampia conferma alla mia opinione. Osservando la vita tranquil-

la e sicura di quelle creature, capii che la rassomiglianza dei sessi era, dopo

tutto, cosa che ognuno avrebbe dovuto aspettarsi: la forza dell’uomo e la

gentilezza della donna, l’istituzione della famiglia e la differenziazione del-

le occupazioni, sono solo necessità transitorie di un’età in cui predomina la

forza fisica. Ma dove la popolazione è in giusto equilibrio e numerosa,

molte nascite sono per lo stato un inconveniente, piuttosto che un bene;

dove la violenza è rara e la discendenza è sicura, vi sono minori necessità

(veramente non ve ne sono affatto) di una famiglia effettiva e la differen-

ziazione dei sessi, in rapporto alle esigenze dei figli, scompare. Nella no-

stra epoca s’incomincia a vedere l’inizio di questo stato di cose e, in

quell’età futura, era un fatto compiuto. Questa, devo ricordarvelo, era una

mia supposizione di allora; più tardi dovevo rendermi conto di quanto fos-

se lontana dalla realtà.

Mentre riflettevo su queste cose, la mia attenzione fu attratta da una pic-

cola e graziosa costruzione che assomigliava a un pozzo sovrastato da una

cupola. Per un attimo pensai che fosse strano che esistessero ancora dei

pozzi, poi seguii di nuovo il filo dei miei ragionamenti. Non vi erano gran-

di edifici verso la sommità della collina e, poiché come camminatore avevo

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evidentemente una resistenza straordinaria, ben presto mi ritrovai per la

prima volta solo; con una strana sensazione di libertà e di spirito di avven-

tura, mi spinsi fino alla cresta.

E Là trovai un sedile di un metallo giallo che non conoscevo, corroso in

alcune parti da una specie di ruggine rossastra e semiaffondato nel soffice

muschio; i braccioli levigati erano lavorati a forma di teste di grifone. Mi

sedetti a contemplare l’ampio panorama del nostro vecchio mondo al tra-

monto di quella lunga giornata. Uno spettacolo così bello e piacevole non

l’avevo mai visto: il sole era già calato all’orizzonte, l’occidente era color

oro, interrotto qua e là da strisce orizzontali violacee e rosse. In basso v’era

la valle del Tamigi nella quale il fiume si stendeva come un nastro

d’acciaio fuso. Vi ho già parlato dei grandi edifici, alcuni in rovina, altri

ancora abitati, che sorgevano sparsi in mezzo al verde dalle tonalità diver-

se. In quel vasto giardino si elevavano qua e là delle statue bianche o ar-

gentee, e appariva qua e là la netta linea verticale di una cupola o di un o-

belisco. Non vi erano siepi né segni del diritto di proprietà né tracce di a-

gricoltura: tutta la terra era diventata un giardino.

Mentre osservavo, cercavo di penetrare il significato delle cose viste:

ora vi dirò press’a poco la conclusione cui arrivai quella sera. (Più tardi mi

accorsi di non avere scoperto che parte della verità o, meglio, di averne in-

travisto solo un aspetto).

Mi sembrava d’essere capitato fra un’umanità in declino. Il rosso crepu-

scolo mi faceva pensare al crepuscolo del genere umano. Per la prima volta

incominciai a capire le strane conseguenze degli sforzi sociali nei quali

siamo ora impegnati; eppure, se ci pensiamo, sono conseguenze abbastanza

logiche: la forza deriva dalla necessità; la sicurezza porta alla debolezza.

L’opera di miglioramento delle condizioni di vita - il vero processo di civi-

lizzazione che rende la vita sempre più sicura - era giunto gradatamente al

vertice; i trionfi dell’umanità unita sulla natura si erano susseguiti; cose

che oggigiorno sono soltanto dei sogni erano diventate progetti deliberata-

mente posti in esecuzione e realizzati. E il risultato era ciò che vedevo!

Dopo tutto, le condizioni sanitarie e agricole del giorno d’oggi sono an-

cora a uno stadio rudimentale. La scienza del nostro tempo ha debellato so-

lo una piccola parte delle malattie umane; tuttavia continua, con costanza e

fermezza, ad allargare il suo campo d’operazioni. Gli agricoltori e gli orti-

coltori di oggi distruggono soltanto qualche erbaccia e coltivano circa una

ventina di piante sane, lasciando che quasi tutte le altre crescano per conto

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loro. A poco a poco, attraverso l’allevamento selettivo, noi miglioriamo le

piante e gli animali che preferiamo (e sono assai pochi!), producendo ora

una nuova qualità di pesche migliori o di uva senza semi, ora fiori più pro-

fumati e più grandi, ora razze di bestiame più convenienti. Li miglioriamo

a gradi: prima di tutto le nostre idee sono vaghe, in fase sperimentale e le

nostre cognizioni assai limitate; poi anche la natura diventa timorosa e len-

ta nelle nostre mani poco abili. Un giorno tutto sarà meglio organizzato e

procederà meglio: la corrente segue il suo corso nonostante i vortici. Tutto

il mondo diventerà intelligente, istruito e cooperante; sempre più rapida-

mente si arriverà a sottomettere la natura. Infine con il senno e con la pru-

denza si sistemerà l’equilibrio della vita animale e vegetale, in modo da

adattarla alle necessità dell’uomo.

Questo adattamento, per la verità, deve essere stato realizzato, e bene, in

modo definitivo, nell’intervallo di tempo che la mia macchina aveva per-

corso a grande velocità. Non vi erano zanzare nell’aria, né erbacce o funghi

sulla terra; ovunque crescevano frutti dolci, fiori deliziosi, e qua e là svo-

lazzavano farfalle dai colori vivaci. La medicina preventiva era diventata

una realtà: le malattie erano state sconfitte; non trovai traccia di alcun male

contagioso durante la mia permanenza nel futuro. Vi racconterò più tardi

come questi cambiamenti avessero modificato persino i processi di putre-

fazione e di decomposizione.

Si erano ottenuti anche dei trionfi sociali: l’umanità del futuro abitava in

splendidi alloggi, era sontuosamente vestita e non trovai un solo essere oc-

cupato in un lavoro faticoso di qualsiasi genere. Non vi erano segni di lot-

ta, né sociale né economica. Negozi, pubblicità, traffico, tutte quelle attivi-

tà commerciali che costituiscono la parte vitale del nostro mondo, erano

scomparse. Era naturale che osservando quel tramonto dorato pensassi con

entusiasmo a un paradiso sociale. Il problema dell’aumento di popolazione

era stato risolto e la popolazione aveva smesso di aumentare.

Ma il cambiamento delle condizioni di vita comportava inevitabilmente

il cambiamento delle abitudini: da che cosa infatti traggono impulso (a

meno che la scienza biologica non sia un ammasso di errori) l’intelligenza

e il vigore dell’uomo? Dalle difficoltà e dalla libertà: condizioni nelle quali

gli individui attivi, forti e astuti sopravvivono e i deboli soccombono; nelle

quali ricevono la giusta ricompensa l’unione leale di persone capaci,

l’autocontrollo, la pazienza e la decisione. Anche l’istituzione della fami-

glia e i sentimenti che nascono in seno ad essa, come la violenta gelosia, la

tenerezza per i figli, la devozione per i genitori, trovano la propria giustifi-

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cazione e la propria ragione d’essere nei pericoli che sovrastano i giovani.

Dove sono oggigiorno questi imminenti pericoli? S’incominciano ad avere

(e aumenteranno sempre più) opinioni contrarie alla gelosia coniugale, alla

maternità crudele, alle passioni di qualsiasi genere, non necessarie oggi:

fanno di noi degli scontenti, dei barbari sopravvissuti e sono fuori luogo in

una vita piacevole e raffinata.

Pensando alla debolezza fisica e alla mancanza di intelligenza di quelle

creature, a quelle numerose ed enormi rovine, mi convinsi ancora di più di

una perfetta conquista della natura. Dopo la battaglia viene infatti la pace.

L’umanità era stata forte, energica, intelligente e aveva speso tutta la sua

abbondante vitalità per trasformare le condizioni di vita nelle quali viveva.

Ora vi era la reazione a queste mutate condizioni di vita.

Nel nuovo stato di benessere e di sicurezza perfetti, l’instancabile ener-

gia che è la nostra forza, diventava debolezza.

Persino nel nostro tempo certe tendenze e certi desideri, una volta ne-

cessari per la sopravvivenza, sono fonte di decadenza. Il coraggio fisico e

l’amore per la lotta, per esempio, non sono di grande aiuto, e anzi, proba-

bilmente, sono di ostacolo all’uomo civilizzato. In uno stato di sicurezza e

di equilibrio fisico la forza, sia intellettuale sia materiale, sarebbe inutile.

Ne conclusi che per innumerevoli anni non vi era stato nessun pericolo di

guerra o di violenza individuale, nessun pericolo di belve feroci, nessuna

malattia che mina l’organismo che richiedesse una costituzione robusta,

nessuna necessità di fatica. A una vita del genere, quelli che noi chiame-

remmo i deboli sono adatti quanto i forti: per la verità non sono più deboli;

essi sono anzi più adatti perché i forti sarebbero tormentati da un’energia

per la quale non vi è alcuno sfogo. Senza dubbio la squisita bellezza degli

edifici che vedevo era il risultato degli ultimi sprazzi dell’energia umana,

ora senza scopo, prima di languire e di giungere a un’armonia perfetta con

le condizioni di vita attuali: era l’espressione di quel trionfo con il quale

iniziò l’ultima grande pace. Questo è sempre stato il destino dell’energia

nei periodi di pace: avvicinarsi all’arte e all’erotismo per poi languire e

spegnersi.

Persino l’impulso dell’arte sarebbe scomparso - era infatti quasi del tut-

to scomparso - nel Tempo che io visitai. Ornarsi di fiori, danzare, cantare

al sole: ecco ciò che restava dello spirito artistico; nient’altro. Anch’esso si

sarebbe illanguidito in un’inattività soddisfatta. La mola del dolore e della

necessità ci mantiene forti; e finalmente, così mi sembrava, quella mola o-

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diosa era stata spezzata!

Mentre me ne stavo nell’oscurità crescente, pensavo d’avere risolto con

questa semplice spiegazione, il problema del mondo, di avere capito il se-

greto di quegli esseri deliziosi. Probabilmente i mezzi che avevano escogi-

tato per frenare l’aumento della popolazione erano risultati troppo perfetti e

il loro numero, invece di rimanere stazionario, andava piuttosto diminuen-

do. Ecco la ragione delle rovine abbandonate. La mia teoria era semplicis-

sima, abbastanza plausibile, come la maggior parte delle teorie sbagliate!

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Capitolo VI

«UNO SHOCK» IMPROVVISO

Mentre meditavo su questo trionfo troppo perfetto dell’uomo, la luna

piena, gialla e gibbosa, spuntò a nord-est in uno splendore di luce argentea.

In basso, i piccoli esseri vivaci smisero di muoversi; un gufo volteggiò si-

lenzioso, e io rabbrividii per l’aria fresca della notte. Decisi di discendere

per trovare un luogo per dormire.

Cercai con lo sguardo l’edificio che conoscevo. Poi mi volsi verso la fi-

gura della Bianca Sfinge sul piedestallo di bronzo, che si faceva sempre

più distinta, a mano a mano che la luna diventava più luminosa. Riuscivo a

distinguere l’argentea betulla dirimpetto alla statua, la siepe di rododendri,

neri alla pallida luce, e il piccolo prato. Guardai ancora il prato e uno stra-

no dubbio raffreddò la mia contentezza. “No”, mi dissi risolutamente, “non

è quello il prato”.

Ma lo era, perché il bianco volto butterato della Sfinge volgeva da quel

lato. Immaginate ciò che provai quando ne fui perfettamente convinto?

Non credo: la Macchina del Tempo era scomparsa!

Immediatamente, come una staffilata in viso, mi si affacciò alla mente

la possibilità di smarrire la mia propria epoca, d’essere abbandonato impo-

tente in quello strano nuovo mondo. Questo solo pensiero mi procurò una

vera sensazione fisica: sentii stringermi alla gola e mancarmi il respiro. Un

istante dopo ero in preda alla paura e corsi balzelloni giù dalla collina;

caddi con la testa in avanti e mi tagliai in viso. Non persi tempo ad arresta-

re l’uscita del sangue, ma mi rialzai e mi rimisi a correre mentre un tiepido

rivoletto di sangue mi scendeva lungo le gote e il mento. Durante la corsa,

continuavo a ripetermi: “L’hanno spostata leggermente, l’hanno spinta sot-

to i cespugli, fuori della strada”. Tuttavia correvo con tutte le mie forze, ma

con la certezza che segue alle volte un terrore eccessivo, sapevo che la mia

sicurezza era follia: l’istinto mi diceva che la macchina era stata trasportata

dove non avrei potuto raggiungerla. Sentivo male a respirare; credo di ave-

re percorso tutta la distanza, dalla cresta della collina al piccolo prato - tre

chilometri circa - in dieci minuti, e non sono un giovanotto. Correndo, ma-

ledicevo a voce alta la pazza fiducia che mi aveva fatto abbandonare la

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macchina; così sprecavo fiato prezioso. Urlai: nessuno rispose, neppure

una creatura sembrava muoversi in quel mondo illuminato dalla luna.

Quando raggiunsi il prato, mi resi conto che i miei peggiori timori non

erano infondati: della macchina nessuna traccia. Mi sentii mancare e rab-

brividii quando vidi lo spazio vuoto davanti a me fra il nero groviglio dei

cespugli; come un pazzo corsi intorno, quasi che la macchina potesse esse-

re nascosta in qualche angolo, poi mi fermai bruscamente e mi misi le mani

nei capelli. Sul suo bronzeo piedestallo, bianca, butterata, splendente, alla

luce della luna che sorgeva, la Sfinge dominava dall’alto e sembrava sorri-

dere ironicamente della mia costernazione.

Avrei potuto consolarmi immaginando che quelle piccole creature aves-

sero sistemato il congegno in qualche luogo riparato, se non fossi stato

convinto della loro incapacità fisica e intellettuale a far ciò. Mi atterriva

l’idea che qualche forza fino allora insospettata, con il suo intervento, a-

vesse fatto sparire la mia invenzione. Tuttavia di una cosa mi sentivo sicu-

ro: a meno che qualche altra età ne avesse prodotta l’esatta copia, la mac-

china non poteva essersi mossa nel Tempo. Gli attacchi delle leve, vi mo-

strerò fra poco il sistema, erano fatti in modo che, una volta disinnestate le

leve, nessuno in nessun modo poteva manomettere la macchina. Si era

mossa o era stata nascosta soltanto nello Spazio. Ma allora dov’era? Credo

di essere stato colto da una specie di frenesia. Ricordo di essermi messo a

correre come un pazzo fra i cespugli illuminati dalla luna che circondavano

la Sfinge e di aver spaventato un animaletto bianco, che alla luce incerta

avevo scambiato per un piccolo daino. Rammento anche - era notte inoltra-

ta - di avere colpito i cespugli con i pugni chiusi fino a ferirmi e farmi san-

guinare le nocche delle dita. Poi, singhiozzando e delirando nella mia an-

goscia, mi avviai verso il grande edificio di pietra. La vasta sala era buia,

silenziosa e deserta. Scivolai sul pavimento disuguale e caddi sopra una ta-

vola di malachite rompendomi quasi una tibia. Accesi un fiammifero e pas-

sai oltre i polverosi tendaggi di cui già vi ho parlato.

Entrai in una seconda grande sala dal pavimento ricoperto di cuscini sui

quali dormivano circa una ventina di quei piccoli esseri. Certamente trova-

rono questa mia seconda apparizione assai strana, poiché ero uscito im-

provvisamente dalla quieta oscurità facendo dei rumori confusi: avevo in-

fatti acceso un fiammifero strofinandolo sulla scatola, ed essi non sapevano

più che cosa fossero i fiammiferi.

“Dov’è la Macchina del Tempo”? urlai come un fanciullo in collera, af-

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ferrandoli e scrollandoli: la cosa dovette sembrare loro assai strana; qual-

cuno rise, ma la maggior parte pareva molto spaventata. Quando li vidi in

piedi intorno a me, mi venne in mente che, cercando di far rinascere in loro

la sensazione di paura, stavo facendo la cosa più sciocca che potevo fare,

date le circostanze: ripensando al loro comportamento durante la giornata,

credevo infatti che la paura dovesse essere stata dimenticata.

Bruscamente gettai via il fiammifero e riattraversai, correndo goffamen-

te, la grande sala da pranzo, feci cadere uno nella corsa, e uscii alla luce

della luna. Udii grida di terrore e il rumore di piccoli piedi che correvano

incespicando qua e là. Non ricordo precisamente tutto ciò che feci mentre

la luna saliva lentamente nel cielo. Credo che la perdita imprevista della

macchina mi avesse reso pazzo. Mi sentivo irrimediabilmente tagliato fuori

dai miei simili, strano animale in un mondo sconosciuto. Devo avere vaga-

to qua e là come in delirio urlando e imprecando contro Dio e il destino.

Ricordo la terribile stanchezza durante quella lunga, lenta notte di dispera-

zione. Ricordo di aver cercato nei posti più strani, di essere andato a tastoni

fra le rovine illuminate dalla luna e di aver urtato contro strane creature

nell’oscurità sinistra; alla fine mi stesi per terra vicino alla Sfinge e piansi

disperatamente; anche la collera per la follia di avere abbandonato la mac-

china se ne era andata insieme con le forze: non mi restava che la mia infe-

licità. Poi mi addormentai; quando mi svegliai era già pieno giorno e una

coppia di passeri mi saltellava intorno vicinissima, sull’erba folta.

L’aria del mattino era fresca: mi sedetti tentando di ricordare in che mo-

do fossi arrivato là e perché mi sentissi così profondamente abbandonato e

disperato. Poi tutto mi ritornò chiaramente alla memoria. Alla calma luce

del giorno, riuscii a esaminare imparzialmente la situazione. Capii quanto

era stato imprudente il mio pazzo comportamento durante la notte e presi a

ragionare con me stesso. “Supponendo il peggio, supponendo che la mac-

china sia definitivamente perduta, distrutta forse”, mi dicevo, “mi conviene

essere calmo e paziente, imparare gli usi di questi esseri, farmi un’idea

chiara su come sia avvenuta la perdita e su come procurarmi materiali e u-

tensili per potere eventualmente alla fine ricostruire un’altra macchina”.

Era questa la mia sola speranza, una ben misera speranza forse, ma miglio-

re della disperazione; dopo tutto quel mondo era bellissimo e originale.

Probabilmente la macchina era stata solo portata lontano: dovevo man-

tenermi ancora calmo e paziente, scoprire dove era stata nascosta e ricupe-

rarla con la forza o con l’astuzia. Mi rizzai a fatica e mi guardai intorno

pensando a dove avrei potuto lavarmi: mi sentivo stanco, indolenzito e su-

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dicio per il viaggio. La freschezza del mattino mi fece desiderare di rinfre-

scarmi. Avevo esaurito la mia carica emotiva: per la verità mentre cammi-

navo e pensavo a ciò che dovevo fare, mi meravigliavo io stesso

dell’agitazione della notte. Esaminai con cura il terreno vicino al praticello,

persi tempo a rivolgere nel miglior modo possibile futili domande ai picco-

li esseri che incontravo. Nessuno comprendeva i miei gesti: alcuni rimase-

ro imperturbabili, altri credettero che scherzassi e mi risero in faccia. Feci

uno sforzo enorme per trattenermi dallo schiaffeggiare i loro volti graziosi

e sorridenti. Era un impulso assurdo, ma il demone del timore e della sorda

collera non era del tutto domato e tentava ancora di approfittare della mia

confusione. Il terreno erboso mi suggerì un’idea migliore: a circa metà

strada fra il piedestallo della Sfinge e le impronte dei miei passi, proprio

nel posto dove al mio arrivo avevo faticato a raddrizzare la macchina, notai

un avvallamento: intorno vi erano altri segni di spostamenti e strane orme

simili a quelle che potrebbe lasciare un bradipo. Ciò attirò maggiormente la

mia attenzione sul piedestallo. Era di bronzo, come credo di avervi già det-

to, e non un blocco unico; era riccamente decorato sui due lati con pannelli

profondamente incassati. Mi avvicinai e diedi un colpo leggero: il piede-

stallo era cavo. Nell’esaminare con cura i pannelli, notai che avevano delle

incorniciature, ma non avevano né maniglie né serrature; quindi se erano

porte, come supponevo, si aprivano dall’interno. Una cosa mi era abba-

stanza chiara: non ci volle un grande sforzo per intuire che la Macchina del

Tempo si trovava nel piedestallo, ma il problema consisteva nello stabilire

come fosse entrata. Fra i cespugli, sotto i meli in fiore, scorsi le teste di due

piccoli esseri vestiti in color arancio che avanzavano verso di me. Mi rivol-

si loro sorridendo e feci segno d’avvicinarsi. Vennero: indicai il piedestallo

di bronzo e mi sforzai di far comprendere loro il mio desiderio di aprirlo,

ma come feci il gesto di aprirlo, essi assunsero uno strano contegno. Non

so come spiegarvi la loro espressione: immaginate di fare a una signora

dall’animo sensibile un gesto scorretto e volgare: essi si comportarono e-

sattamente come avrebbe fatto lei; si allontanarono come se li avessi pro-

fondamente offesi. Poi tentai con un fanciullo dall’aria gentile, vestito di

bianco: il risultato fu identico; in un certo senso il suo atteggiamento mi

fece vergognare di me stesso, ma, come sapete, volevo riavere la Macchina

del Tempo, quindi ritentai. Quando s’allontanò come gli altri, mi lasciai

prendere dalla collera: in tre passi lo raggiunsi, l’afferrai per l’ampio collo

della veste e incominciai a trascinarlo verso la Sfinge, ma vidi la sua e-

spressione d’orrore e di disgusto e lo lasciai andare subito.

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Tuttavia non volevo darmi per vinto: percossi con i pugni i pannelli di

bronzo. Mi parve di udire muoversi all’interno, o più esattamente, mi parve

di udire delle risa soffocate, ma dovevo essermi sbagliato. Presi nel fiume

un grosso sasso e ricominciai a martellare un pannello fino a che ebbi ap-

piattito un fregio a spirale di una decorazione e il verderame si staccò in

placche polverose. I fragili piccoli esseri dovettero sentire i miei colpi fu-

riosi a più di un chilometro e mezzo di distanza, ma non se ne preoccupa-

rono. Ne vidi un gruppo sul pendio della collina che mi guardava furtiva-

mente. Infine sudato e stanco, sedetti aspettando, ma ero troppo agitato per

restarvi a lungo; sono troppo occidentale per le lunghe attese. Potevo stu-

diare un problema per degli anni, ma rimanere inattivo per ventiquattro ore

è un’altra faccenda.

Dopo un po’ mi alzai e mi misi a camminare senza una meta precisa fra

i cespugli e di nuovo verso la collina. “Pazienza”, mi dicevo, “se vuoi ria-

vere la tua macchina devi lasciar perdere la Sfinge. Se hanno intenzione di

portartela via, è inutile che tu rovini i pannelli di bronzo; se vogliono ren-

dertela, l’avrai appena la chiederai. Non serve a niente startene qui seduto

fra queste creature sconosciute davanti a un enigma del genere e porta alla

monomania. Affronta questo mondo; imparane i costumi, osservalo, e bada

a non fare congetture troppo affrettate. Alla fine troverai la soluzione di

tutto”. Allora, improvvisamente, scoprii il lato umoristico della situazione:

pensavo agli anni spesi in studi e fatica per giungere alle età future e allo

struggente desiderio che avevo ora di uscirne. Mi ero preparato con le mie

stesse mani la trappola più complicata e più inutile che mai fosse stata e-

scogitata; sebbene fosse scattata a mio danno, non potei fare a meno di

scoppiare a ridere.

Attraversando il grande palazzo mi sembrò che i piccoli esseri mi evi-

tassero. Forse era soltanto una mia idea o forse era da mettere in relazione

con le sassate con cui avevo colpito i pannelli di bronzo. Comunque ero

quasi sicuro che mi sfuggivano; badai tuttavia a non farlo capire e mi a-

stenni dall’inseguirli; dopo due o tre giorni i nostri rapporti ridiventarono

normali. Feci tutti i progressi possibili nella loro lingua e inoltre continuai

le mie esplorazioni. A meno che mi sfuggisse qualche sfumatura, la lingua

di quelle creature era semplicissima, composta quasi esclusivamente di so-

stantivi concreti e di verbi; i nomi astratti, se pure ve ne erano, dovevano

essere pochissimi, e il linguaggio figurato non era quasi mai usato. Le frasi

erano di solito semplici, composte di due parole e io non riuscivo a far ca-

pire, né a capire, che le più semplici proposizioni. Decisi di pensare il me-

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no possibile alla Macchina del Tempo e al mistero delle porte di bronzo

sotto la Sfinge, fino a che, arricchendo le mie cognizioni, non ci fossi arri-

vato in modo naturale. Eppure qualcosa, come potete capire, mi tratteneva

nel raggio di alcuni chilometri dal luogo del mio arrivo.

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Capitolo VII

SPIEGAZIONE

Per quanto mi riuscì di vedere, quel mondo ostentava la stessa esuberan-

te ricchezza della valle del Tamigi. Dalla cima di ogni collina su cui salivo,

vedevo le stesse numerose, splendide costruzioni infinitamente varie per

materiale e per stile, gli stessi folti cespugli di sempreverdi, gli stessi alberi

carichi di fiori e le stesse felci giganti. Qua e là l’acqua scintillava come

fosse d’argento e in lontananza il terreno si sollevava in ondulate colline

azzurre e si perdeva nel cielo sereno. Un particolare che quasi subito attras-

se la mia attenzione, fu la presenza di alcuni pozzi circolari, parecchi dei

quali sembravano profondissimi. Uno di essi era situato vicino al sentiero

che portava alla collina, sentiero che avevo seguito durante la mia prima

passeggiata. Come gli altri pozzi, aveva la sponda di bronzo lavorato in

modo strano e una cupola che lo riparava dalla pioggia. Se mi sedevo vici-

no a questi pozzi e ne scrutavo l’oscurità profonda, non riuscivo a scorgere

nessuno scintillio d’acqua, e neppure la fiamma di un fiammifero suscitava

alcun riflesso. In tutti, però udivo un rumore sordo come il pulsare di qual-

che grossa macchina; scoprii, con la fiamma dei miei fiammiferi, che si era

stabilita sul fondo una costante corrente d’aria. Inoltre gettai nella gola di

uno di essi un pezzo di carta, che, invece di discendere lentamente, volteg-

giando, venne immediatamente aspirato e scomparve.

Dopo un po’ misi in relazione i pozzi con le alte torri che si elevavano

qua e là sui pendii, perché sopra di esse vi era spesso quello stesso tremolio

d’aria che si nota, in una giornata calda, sopra una spiaggia bruciata dal so-

le. Collegando queste osservazioni, arrivai a pensare che vi fosse un esteso

sistema di ventilazione sotterranea di cui mi era difficile immaginare il ve-

ro significato. Dapprima ero propenso a metterlo in relazione con

l’organizzazione sanitaria di quelle creature: conclusione ovvia ma com-

pletamente errata.

A questo punto devo ammettere di avere appreso ben poco sui canali di

scarico, sugli orologi, sui mezzi di comunicazione e su altre comodità del

genere durante la mia permanenza nel vero futuro. In alcune visioni di U-

topie e di tempi futuri che ho letto, vi sono numerosissimi particolari sulle

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costruzioni, sugli ordinamenti sociali, e cose del genere. Ma se è facile ve-

nire in possesso di questi particolari quando tutto il mondo è contenuto nel-

la nostra immaginazione, essi sono assolutamente inaccessibili a un vero

viaggiatore il quale si trovi in mezzo a tali realtà come mi sono trovato io.

Immaginatevi quale descrizione farebbe di Londra un negro appena giunto

dall’Africa Centrale quando ritorna alla sua tribù! Che cosa potrebbe mai

sapere di compagnie ferroviarie, di movimenti sociali, di fili del telefono,

del telegrafo, della consegna pacchi, dei vaglia postali e d’altre cose del

genere? E noi almeno saremmo abbastanza disposti a spiegargliele! E

quanto di ciò che sa riuscirebbe a far imparare o a far credere all’amico che

non ha viaggiato? Pensate a quanto breve è il passo fra un negro e un bian-

co della nostra epoca e a quanto immenso è l’intervallo di tempo fra me e

l’Età dell’Oro. Avevo la sensazione che esistessero molte cose che non ve-

devo e che contribuivano a rendermi confortante la vita, ma, a parte

l’impressione di organizzazione automatica, temo di riuscire a darvi solo

un’idea approssimativa della diversità di quel mondo.

Per quanto riguarda la sepoltura, per esempio, non vidi né tracce di forni

crematori né alcunché che potesse far pensare a delle tombe; ma mi venne

l’idea che probabilmente vi erano dei cimiteri (o dei forni crematori) da

qualche parte fuori del raggio delle mie esplorazioni. Anche questo era un

problema che m’ero posto ma la mia curiosità in proposito rimase dappri-

ma completamente inappagata. La cosa mi rendeva perplesso, poi osservai

un particolare che mi rese ancora più perplesso: fra quegli esseri non v’era

né un vecchio né un infermo.

Confesso che la soddisfazione per la mia prima teoria di una civiltà au-

tomatica e di un’umanità in decadenza non durò a lungo; ma non riuscivo a

trovarne un’altra. Vi spiegherò ora le mie difficoltà: i numerosi e grandi

palazzi che avevo visitato erano delle semplici abitazioni con grandi sale

da pranzo, e sale adibite a dormitorio; non trovai né macchinari né conge-

gni di nessuna specie. Eppure quegli esseri indossavano vestiti di bellissimi

tessuti che di tanto in tanto bisognava rinnovare e calzavano sandali che,

sebbene senza ornamenti, erano saggi abbastanza elaborati di lavorazione

metallica: in un modo o nell’altro queste cose bisognava pur farle, e le pic-

cole creature non davano prova alcuna di tendenze creative; non v’erano

negozi o laboratori né tracce d’importazione. Passavano il tempo in diver-

timenti gentili, bagnandosi nel fiume, amoreggiando in maniera semischer-

zosa, mangiando frutta e dormendo. Non riuscivo a capire come tutto ciò

funzionasse.

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Ma ritorniamo alla Macchina del Tempo: qualcuno, non sapevo chi,

l’aveva trasportata nel cavo piedestallo della Bianca Sfinge. Perché? Non

sarei mai e poi mai riuscito a immaginarlo. E i pozzi senz’acqua e le co-

lonne di aria tremolante? Sentivo che mi mancava il filo conduttore, senti-

vo... come spiegarvelo? Supponete di trovare un’iscrizione con frasi in un

inglese perfetto e chiaro frammiste a lettere e persino a parole a voi scono-

sciute! Ebbene, così mi si presentava a tre giorni dal mio arrivo, il mondo

dell’anno 802.701!

Quel giorno, feci anche una specie di amicizia: mentre osservavo alcuni

piccoli esseri che si bagnavano in un’ansa del fiume, uno di loro fu colto

da crampi e incominciò a essere trascinato dalla corrente: la corrente prin-

cipale era abbastanza veloce, ma non certo troppo forte, anche per un mo-

desto nuotatore. Vi farete perciò un’idea della strana indifferenza di quelle

creature, quando vi dirò che non tentarono minimamente di salvare quel

povero essere il quale, gettando deboli grida, annegava sotto i loro occhi.

Quando me ne resi conto, mi tolsi in un baleno gli abiti e, attraversando a

guado il fiume in un punto più basso, afferrai la povera creaturina e la por-

tai salva a riva. Un po’ di massaggi leggeri la rianimarono ben presto, e io

ebbi la soddisfazione di vederla completamente rimessa prima di andarme-

ne. Avevo, allora, un’opinione così poco lusinghiera degli esseri della sua

specie, da non aspettarmi alcuna gratitudine: comunque in questo mi sba-

gliavo.

L’incidente accadde il mattino; nel pomeriggio, mentre ritornavo

all’interno, reduce da un’esplorazione, incontrai la piccola donna, tale al-

meno mi sembrava, la quale mi accolse con grida di gioia e si presentò con

un’enorme ghirlanda di fiori, evidentemente fatta per me e solo per me. Il

fatto mi commosse; molto probabilmente mi ero fino allora sentito solo.

Feci del mio meglio per mostrarle quanto gradivo il dono; ci sedemmo

quasi subito in un piccolo riparo di roccia e iniziammo una conversazione

quasi tutta di sorrisi. L’atteggiamento amichevole della piccola creatura mi

commuoveva come quello di un bimbo; ci offrimmo fiori scambievolmen-

te, ella mi baciò le mani e io baciai le sue. Poi tentai di parlare e scoprii che

si chiamava Weena; sebbene non sapessi il significato di quel nome, tutta-

via mi sembrò in un certo senso abbastanza appropriato. Iniziò così una

strana amicizia che durò una settimana e finì... come vi dirò più tardi.

Weena era proprio come una bambina; voleva stare sempre con me; si

sforzava di seguirmi ovunque; alla prima esplorazione che feci all’esterno

e nei dintorni mi si strinse il cuore a vederla affaticarsi tanto e a doverla

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abbandonare esausta, mentre m’invocava in tono lamentoso. Ma dovevo

approfondire i problemi di quel mondo: non ero venuto nel futuro, mi di-

cevo, per imbarcarmi in un flirt in miniatura. Eppure la sua desolazione,

quando la lasciai, era immensa; le sue lagnanze diventavano talvolta frene-

tiche e penso, d’altronde, che la sua devozione mi procurasse non solo con-

solazione, ma fastidi. Tuttavia, in un certo senso, mi fu di grande conforto.

Pensavo che si attaccasse a me per una semplice infatuazione puerile. Solo

troppo tardi capii chiaramente il dolore che le avevo arrecato lasciandola e

solo troppo tardi capii che cosa ella fosse per me. Infatti con il suo sempli-

ce affetto e il suo modo infantile di dimostrarmi che le stavo a cuore, quel-

la bambolina di creatura dava al mio ritorno presso la Bianca Sfinge quasi

il sentimento del ritorno a casa e, dalla sommità della collina, cercavo

sempre con lo sguardo la sua delicata, bionda e bianca figura.

Proprio da lei appresi che il timore non era scomparso dalla terra. Wee-

na era abbastanza tranquilla durante il giorno e aveva in me la più singola-

re fiducia: una volta, che le feci per scherzo delle smorfie minacciose, ella

si mise semplicemente a ridere. Ma temeva il buio, le ombre, tutto ciò che

era nero; l’oscurità era per lei una cosa spaventosa, un’emozione partico-

larmente violenta; ciò mi fece riflettere e incominciai a osservare: scoprii

allora, fra l’altro, che quei piccoli esseri si riunivano, dopo il calare della

notte, nei grandi edifici e dormivano a gruppi. Penetrare fra loro senza un

lume voleva dire metterli in agitazione e terrorizzarli. Dopo il calare della

notte infatti non ho mai trovato nessuno all’aperto e nessuno che,

all’interno, dormisse isolato: eppure fui così stupido da non comprendere il

significato di quella paura e, nonostante la disperazione di Weena,

m’ostinavo a passare la notte lontano da quelle moltitudini addormentate.

Ciò la preoccupava molto ma infine il suo singolare affetto per me ebbe

il sopravvento e durante le cinque notti della nostra amicizia, compresa

l’ultima, ella dormi con la testa appoggiata al mio braccio. Ma parlandovi

di lei, perdo il filo del racconto. Una notte, forse quella precedente il suo

salvataggio, mi svegliai quasi all’alba. Ero agitato, avevo sognato che sta-

vo annegando e che degli anemoni di mare mi sfioravano il viso con i loro

molli palpi. Mi svegliai di soprassalto con la strana impressione che qual-

che animale grigiastro fosse appena fuggito dalla stanza; tentai di riaddor-

mentarmi, ma mi sentivo inquieto e non a mio agio. Era quell’ora confusa

e grigia in cui le cose escono lentamente dalle tenebre, l’aria è incolore e i

contorni già precisi sembrano irreali. Mi alzai, scesi nella grande sala, poi

uscii sul lastricato di pietra davanti al palazzo; pensavo di fare di necessità

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virtù, e di vedere il levare del sole.

La luna stava tramontando e la sua debole luce si confondeva con i pri-

mi albori del giorno in una semioscurità spettrale. I cespugli erano color

nero inchiostro, il terreno grigio scuro, il cielo incolore e tetro. Sulla colli-

na mi sembrò di scorgere dei fantasmi; per ben tre volte mentre scrutavo il

pendio, scorsi delle figure bianche. Due volte mi parve di vedere una crea-

tura solitaria e bianca simile a una scimmia, risalire rapidamente la collina

e una volta, presso le rovine, ne scorsi tre che trasportavano un corpo nera-

stro. Si muovevano in fretta e non riuscii a vedere dove andassero a finire;

mi sembrò che sparissero fra i cespugli. La luce dell’alba, dovete sapere,

era ancora incerta e io avevo quella sensazione di freddo e di insicurezza

che (forse la conoscete anche voi) si prova di primo mattino: dubitavo dei

miei occhi.

Verso oriente il cielo si rischiarò; apparve la luce del giorno illuminan-

do ancora una volta il mondo con i suoi vividi colori; scrutai ansiosamente

il panorama, ma non vidi traccia di figure bianche: erano solo creazioni

delle mezze luci dell’alba. “Devono essere stati degli spiriti”, mi dicevo,

“ma a che epoca risaliranno”? Mi ricordai, infatti, di una strana teoria di

Grant Allen2 che mi divertì. Se ogni generazione muore, così sosteneva, e

lascia degli spiriti, il mondo ne sarà alla fine superaffollato. Secondo que-

sta teoria, il loro numero, da qui a ottocentomila anni circa, sarebbe incal-

colabile e non v’era quindi da meravigliarsi molto di vederne quattro alla

volta. Ma l’arguzia non mi soddisfaceva; pensai a quelle figure per tutto il

mattino, fino a quando il salvataggio di Weena me le tolse di mente. Le as-

sociai senza una ragione precisa all’animale bianco che avevo fatto spaven-

tare durante la mia prima ansiosa ricerca della Macchina del Tempo. Ma

Weena era un piacevole sostituto; tuttavia quelle figure dovevano ben pre-

sto occupare interamente la mia mente.

Credo di avervi detto che la temperatura nell’Età dell’Oro era più eleva-

ta della nostra, non so per quale motivo: può darsi che il sole fosse più cal-

do, o che la terra fosse più vicina al sole. Di solito si pensa che il sole nel

futuro si andrà raffreddando in modo costante, ma la gente che non è molto

al corrente di teorie come quelle di Darwin il giovane, dimentica che i pia-

neti dovranno alla fine essere riassorbiti dall’astro genitore da cui trassero

2 Allen, Charles Grant Blairfindie (1848-1899), romanziere e naturalista americano; fu

autore di opere di divulgazione scientifica. (N.d.T.)

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origine. Quando avverrano queste catastrofi, il sole arderà con rinnovata

energia; può darsi che qualche pianeta più interno abbia già subito tale sor-

te. Qualunque ne sia la ragione, resta il fatto che il sole era molto più caldo

di quanto lo sia attualmente.

Bene, in un caldissimo mattino (il quarto, credo), mentre cercavo riparo

dal calore e dalla luce accecante in una colossale rovina vicino al grande

edificio dove mangiavo e dormivo, mi capitò questo fatto strano: arrampi-

candomi fra i mucchi di macerie, scoprii una stretta galleria con lo sbocco

e le aperture laterali ostruiti da massi caduti. Per il contrasto con la luce e-

sterna così violenta, mi parve dapprima impenetrabilmente buia. Vi entrai a

tastoni, perché il passaggio dalla luce all’oscurità mi faceva ballare davanti

agli occhi delle macchie di colore. Improvvisamente m’arrestai stupefatto:

due occhi, luminosi per il riflesso della luce esterna, mi fissavano dalle te-

nebre.

Mi ritornò il vecchio terrore istintivo delle bestie selvagge; strinsi i pu-

gni e guardai fisso quegli occhi brillanti. Avevo paura a voltarmi, poi pen-

sai allo stato di assoluta sicurezza nella quale la nuova umanità sembrava

vivere, e mi ricordai anche del suo strano terrore del buio. Cercando di

vincere la mia paura, feci un passo avanti e parlai: la mia voce, lo ricono-

sco, era stridula e malferma; allungai la mano e toccai qualcosa di molle.

Immediatamente i due occhi si volsero da un lato e una forma bianca fuggì

via, passandomi accanto. Mi voltai con il cuore in gola, e vidi una piccola e

strana figura simile a una scimmia, con la testa piegata in modo curioso,

attraversare di corsa lo spazio alle mie spalle illuminato dal sole. Urtò con-

tro un blocco di granito, si piegò da un lato barcollando, e in un attimo di-

sparve nell’ombra scura, sotto un altro mucchio di macerie di un muro in

rovina.

La mia impressione è naturalmente approssimativa; sono certo però che

era di un color bianco sporco, che aveva dei grandi occhi strani d’un grigio

rossastro e una lunga capigliatura bionda che le ricadeva sulle spalle e sulla

schiena. Ma, come dico, fuggì troppo in fretta perché potessi vederla di-

stintamente. Non posso neppure dirvi se corresse a quattro zampe o se si

aiutasse con gli avambracci piegandoli molto. Dopo un attimo d’esitazione

la seguii verso il secondo mucchio di rovine. Dapprima non riuscii a tro-

varla; poi mi abituai all’oscurità profonda e scoprii, semiostruita da una co-

lonna caduta, una di quelle bocche rotonde simili a pozzi, di cui vi ho già

parlato. Mi venne un pensiero improvviso: quella specie di animale era for-

se scomparso in fondo al pozzo? Accesi un fiammifero e guardando giù,

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vidi una piccola forma bianca muoversi e fissarmi con i suoi grandi occhi

brillanti mentre si ritirava verso il fondo. Mi fece rabbrividire: pareva un

ragno umano! Si lasciava calare aggrappandosi alla parete e notai allora,

per la prima volta, una serie di sbarre e di maniglie di metallo formanti una

specie di scala che scendeva nel pozzo. In quel momento il fiammifero mi

bruciò le dita, mi scivolò di mano e cadendo si spense; quando ne accesi un

altro, il piccolo mostro era scomparso.

Non so per quanto tempo rimasi a guardare nel pozzo; me ne occorse un

po’ per riuscire a persuadermi che la forma da me vista, era un essere uma-

no. Ma a poco a poco intuii la verità: non vi era più un’unica specie umana,

ma si era differenziata in due tipi distinti; le graziose creature del mondo in

superficie non erano gli unici discendenti della nostra razza, ma quel repel-

lente, scolorito essere notturno che mi era passato accanto correndo, era

pure un erede delle epoche precedenti.

Ripensai alle colonne d’aria tremolante, alla mia teoria di una ventila-

zione sotterranea e incominciai a scoprirne il vero significato. Che cosa

mai faceva questo lemure, mi chiedevo, nel mio schema di

un’organizzazione perfettamente equilibrata? Che relazione aveva con

l’indolente serenità delle bellissime creature del mondo in superficie? E

perché stava nascosto laggiù in fondo al pozzo? Mi sedetti sulla sponda del

pozzo: pensavo che in ogni caso non v’era nulla da temere e che era neces-

sario scendere per risolvere le mie difficoltà; nello stesso tempo, avevo una

paura terribile a calarmi. Mentre esitavo, due splendide creature del mondo

in superficie, correndo, nel loro gioco amoroso, si allontanarono dalla luce

e raggiunsero l’ombra; il maschio inseguiva la femmina, lanciandole, men-

tre correva, dei fiori.

Sembrarono contrariati di trovarmi appoggiato al pilastro rovesciato, in-

tento a guardare nel pozzo: evidentemente era scorretto osservare quelle

aperture, perché quando indicai quella dov’ero io, e cercai, esprimendomi

nella loro lingua, di sapere qualcosa in proposito, furono ancor più palese-

mente contrariati e se ne andarono. Ma siccome i miei fiammiferi li attira-

vano, ne accesi alcuni per divertirli. Tentai di nuovo di sapere qualcosa sul

pozzo, ma di nuovo senza risultato. Allora li lasciai: intendevo ritornare da

Weena per vedere che cosa avrei ricavato da lei. Ma avevo una gran confu-

sione in testa; supposizioni e impressioni si accavallavano, senza riuscire a

fissarsi e a giungere a una conclusione. Avevo ora il filo conduttore per

scoprire il significato dei pozzi, delle torri di ventilazione e del mistero dei

fantasmi; intuivo inoltre, se pur confusamente, il significato delle porte di

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bronzo e della sorte della Macchina del Tempo. Mi venne una vaga idea

per la soluzione del problema economico, che mi aveva reso perplesso.

Ed eccovi la mia nuova ipotesi. Questa seconda specie umana eviden-

temente era sotterranea; tre particolari soprattutto mi facevano pensare che

le rare apparizioni di quegli esseri in superficie fossero la conseguenza del-

la loro lunga abitudine alla vita nel sottosuolo: prima di tutto l’aspetto pal-

lido, comune alla maggior parte degli animali che vivono quasi sempre

nell’oscurità (per esempio i pesci bianchi delle grotte del Kentucky); poi

gli occhi enormi, in grado di riflettere la luce, caratteristica comune alle

creature notturne (ne sono un esempio il gufo e il gatto); infine l’evidente

scombussolamento alla luce del sole, la fuga precipitosa, e tuttavia goffa e

maldestra, verso l’oscurità tenebrosa, la posizione particolare della testa

quando si trovavano in piena luce: tutto ciò confermava la teoria d’una e-

strema sensibilità della retina.

Sotto i miei piedi, quindi, la terra doveva essere percorsa da numerosis-

sime gallerie, che erano la dimora della nuova razza. I condotti di ventila-

zione e i pozzi lungo i pendii - ve n’erano ovunque, tranne lungo la valle

del fiume - indicavano quanto immense fossero le ramificazioni delle gal-

lerie. Era naturale, quindi, supporre che venisse compiuto in quel mondo

sotterraneo artificiale tutto il lavoro necessario al benessere della razza che

viveva in superficie. L’argomento era così plausibile, che l’accettai subito,

giungendo persino a spiegarmi il perché di quella divisione della specie

umana. Credo che voi immaginiate press’a poco la mia teoria benché, per

quanto mi riguarda, compresi ben presto che era molto lontana dalla realtà.

Dapprima, basandomi sui problemi dell’epoca attuale, mi parve chiaro

come la luce del giorno che la chiave di tutto era il graduale estendersi del-

le differenze fra capitalista e operaio, differenze oggigiorno di carattere pu-

ramente sociale e temporaneo. Senza dubbio ciò vi sembrerà abbastanza

assurdo e completamente incredibile, ma esistono già oggi dei fatti che

confermano questa ipotesi. Oggi si tende infatti a utilizzare lo spazio del

sottosuolo per gli scopi meno estetici della civiltà: per esempio, a Londra,

vi è la ferrovia metropolitana, si sviluppano e si moltiplicano nel sottosuolo

nuove ferrovie elettriche, tunnel, ristoranti e laboratori. Evidentemente,

pensavo, questa tendenza era continuata fino a che l’industria aveva perso

a poco a poco il diritto di “primogenitura” alla luce del giorno. Si era, cioè,

sviluppata sempre più in profondità: si erano costruite fabbriche sotterra-

nee sempre più vaste e si trascorrevano nel sottosuolo periodi di tempo

sempre più lunghi finché alla fine!... Anche oggigiorno non è forse vero

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che un operaio del quartiere orientale3 vive in condizioni talmente artificia-

li da essere praticamente tagliato fuori dalla superficie della terra? Inoltre,

la tendenza all’esclusivismo degli abbienti - dovuta senza dubbio a

un’educazione sempre più raffinata - e il profondo abisso che li separa dai

poveri, rozzi e violenti, porta già ora a escludere i poveri, nell’interesse dei

ricchi, da vaste zone della superficie del paese. Nei dintorni di Londra, per

esempio, almeno metà della campagna più ridente è cintata per evitare in-

trusioni. Questo stesso crescente abisso, dovuto a un sistema di educazione

più elevato, costoso e lungo, alle accresciute possibilità e alla tendenza ad

abitudini raffinate da parte dei ricchi, renderà sempre meno frequente lo

scambio di classe, e l’elevazione, per mezzo di matrimoni fra individui di

diversa condizione che, al giorno d’oggi, ritarda la divisione della nostra

specie nelle varie classi sociali. In tal modo, alla fine, in superficie vi sa-

ranno i ricchi, che continueranno a vivere fra i piaceri, il benessere e la bel-

lezza, e nel sottosuolo i poveri, gli operai, che si adatteranno, per abitudine,

alle condizioni del loro lavoro. Una volta laggiù essi dovranno senza dub-

bio pagare, e non poco, la ventilazione delle caverne, e se rifiuteranno, mo-

riranno di fame o di asfissia a causa degli arretrati. Quelli fra loro che per

natura saranno dei meschini e dei ribelli, moriranno; alla fine, grazie a un

equilibrio stabile, i sopravvissuti si adatteranno bene alle condizioni della

vita sotterranea e saranno felici del loro stato, quanto quelli che vivono in

superficie. Quindi, secondo me, la bellezza raffinata degli uni e il pallore

triste degli altri erano una conseguenza abbastanza naturale di questo stato

di cose.

Il grande trionfo dell’umanità, che tanto avevo sognato, mi appariva ora

completamente diverso. Cioè non era stato, come avevo immaginato, il tri-

onfo dell’educazione morale e della cooperazione generale: al contrario,

vedevo una vera aristocrazia la quale, con l’aiuto di una scienza perfetta,

avviava alla sua logica conclusione il sistema industriale di oggigiorno.

Non era stato semplicemente il trionfo sulla natura, ma il trionfo sulla natu-

ra e sull’uomo: era questa, vi dirò, l’opinione che mi ero fatto allora. Non

avevo un cicerone adatto nei libri di Utopie. La mia spiegazione è forse

completamente sbagliata, ma credo sia ancora la più plausibile. Anche

ammettendo queste ipotesi, la civiltà equilibrata che si era infine raggiunta,

doveva avere da lungo tempo oltrepassato il suo Zenit e ora stava avvian-

3 The East-End, o quartiere orientale, è la zona povera della città di Londra, dove vi-

vono soprattutto gli operai di condizione più misera. (N.d.T.)

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dosi al completo declino. Lo stato di sicurezza troppo perfetto in cui vive-

vano gli esseri del mondo in superficie li aveva condotti lentamente alla

degenerazione: la loro statura era diminuita, la loro forza e intelligenza si

erano ridotte. E ne avevo già delle prove abbastanza chiare: non sospettavo

però ancora che cosa fosse capitato agli abitanti del mondo sotterraneo; da

ciò che avevo visto dei Morlock (a proposito, così si chiamavano quegli

esseri) potevo immaginare che, nel loro caso, le modificazioni del tipo u-

mano erano ancora più profonde di quelle degli Eloi, le meravigliose crea-

ture che già conoscevo.

A questo punto mi vennero dei dubbi angosciosi. Perché i Morlock ave-

vano preso la Macchina del Tempo? Infatti, ne ero sicuro, erano stati loro a

prenderla! E perché, se gli Eloi erano padroni, non potevano rendermela?

Perché avevano una paura così terribile delle tenebre? Continuavo, come vi

ho già detto, a interrogare Weena su quel mondo sotterraneo, ma ne rimasi

ancora deluso. Dapprima non comprendeva le mie domande, poi si rifiutò

di rispondere. Tremava, come se l’argomento le fosse insopportabile.

Quando insistetti, forse un po’ rudemente, ella si mise a piangere: furono le

sole lacrime, eccettuate le mie, che vidi nell’Età dell’Oro. Poiché piangeva,

smisi di angustiarla con domande sui Morlock e mi preoccupai solamente

di toglierle dagli occhi quei segni d’eredità umana. Ben presto sorrise e

batté le mani, e io accesi un fiammifero con aria solenne.

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Capitolo VIII

I MORLOCK

Vi sembrerà strano che abbia lasciato passare due giorni prima di segui-

re il nuovo filo conduttore che mi metteva sulla strada giusta, ma provavo

un’avversione particolare per quei pallidi esseri sotterranei: avevano quel

colore biancastro dei vermi e dei preparati istologici conservati nell’alcool

dei musei zoologici ed erano, al tatto, di un freddo ripugnante. Probabil-

mente la mia avversione per loro era in gran parte dovuta alla simpatia che

m’ispiravano gli Eloi, dei quali incominciavo allora ad apprezzare la ripu-

gnanza che provavano per i Morlock.

La notte seguente dormii male, probabilmente a causa di una leggera in-

disposizione e dei dubbi che mi angosciavano. Una volta o due provai

un’intensa paura senza una ragione ben definita. Ricordo di essere penetra-

to senza fare rumore nella grande sala dove i piccoli esseri dormivano il-

luminati dalla luce della luna (quella notte Weena era con loro) e d’essermi

sentito rassicurato dalla loro presenza. D’improvviso mi venne in mente

che entro pochi giorni la luna avrebbe compiuto l’ultimo quarto, le notti sa-

rebbero diventate nere, e quindi più numerose sarebbero state le apparizio-

ni di quelle sgradevoli creature sotterranee, pallidi lemuri, nuovi pericolosi

animali che avevano preso il posto dei vecchi. In quei due giorni, mi senti-

vo continuamente come uno che si sottrae a un inevitabile dovere. Ero si-

curo di poter ricuperare la Macchina del Tempo solo scoprendo coraggio-

samente il misterioso mondo sotterraneo, ma non mi riusciva di affrontarlo.

Se avessi avuto almeno un compagno, sarebbe stato differente; ma ero così

terribilmente solo, che persino l’idea di scendere in quei pozzi bui mi spa-

ventava. Non so se comprenderete il mio stato d’animo, ma non mi sentivo

mai del tutto sicuro alle spalle.

L’inquietudine e la mancanza di sicurezza mi spingevano sempre più

lontano nelle mie perlustrazioni. Andando a sud-est, verso la località colli-

nosa che ora si chiama Combe Wood, notai in lontananza, in direzione

dell’attuale Banstead, un vasto edificio verde, differente nello stile da qual-

siasi altro fino allora visto. Era più grande del più grande palazzo o rovina

che avessi visitato; la facciata sembrava orientale: aveva quella lucentezza

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e quella sfumatura verde pallido - una specie di verde bluastro - caratteri-

stica di un certo tipo di porcellana cinese. La diversità nell’aspetto, che

suggeriva una diversità nell’uso, m’invogliò a proseguire e a esplorare. Ma

era già tardo pomeriggio ed ero giunto in vista di quel luogo dopo un lungo

e faticoso giro: decisi quindi di rimandare la mia avventura al giorno suc-

cessivo e ritornai dalla piccola Weena, che mi accolse con carezze ed e-

spressioni di affetto. Il mattino seguente m’accorsi chiaramente che la mia

curiosità circa il Palazzo di Porcellana Verde era un pretesto bello e buono

con cui cercavo di sottrarmi per un giorno ancora all’esperienza che teme-

vo. Risolsi di tentare la discesa senza più perdere tempo e, di buon’ora, mi

misi in cammino verso un pozzo situato presso alcune rovine di granito e

di alluminio.

La piccola Weena m’accompagnò fino al pozzo; correva e danzava al

mio fianco ma, quando vide che mi affacciavo alla bocca, sembrò strana-

mente sconcertata. “Arrivederci mia piccola Weena”, dissi baciandola; poi,

posandola per terra, incominciai a cercare, tastando all’interno del pozzo, i

pioli: lo feci piuttosto in fretta, lo confesso, perché temevo che mi venisse

meno il coraggio. Dapprima Weena mi osservò con meraviglia; poi lanciò

un grido degno di compassione, corse verso di me e incominciò a tirarmi

con le piccole mani. Credo che la sua opposizione mi abbia dato la spinta

necessaria a continuare. Mi liberai di lei forse un po’ duramente, e un atti-

mo dopo ero nella gola del pozzo. Vidi il suo volto angosciato appoggiato

sulla sponda e sorrisi per rassicurarla; poi abbassai lo sguardo sui pioli in-

stabili e mi appesi.

Dovetti calarmi in un pozzo di circa duecento metri; effettuai la discesa

per mezzo di sbarre metalliche sporgenti dalle pareti e adattate alle esigen-

ze di esseri molto più piccoli e più leggeri di me. Mi sentii quasi subito in-

torpidito e stanco: e non solo stanco! Una delle sbarre si piegò improvvi-

samente sotto il mio peso, facendomi quasi precipitare nell’oscurità. Per un

momento rimasi sospeso con una mano e, dopo quell’esperienza, non osai

più riposarmi. Sebbene braccia e schiena mi dolessero molto al momento,

continuai la ripida discesa alla maggior velocità possibile. Guardando in

su, vedevo l’apertura, piccolo disco azzurro, in cui si scorgeva una stella,

mentre il capo della piccola Weena sembrava una proiezione rotonda e scu-

ra. Il sordo rumore di una macchina saliva dal fondo, sempre più forte e più

opprimente. Ogni cosa, eccettuato quel piccolo disco in alto, era di un nero

intenso e, quando alzai gli occhi di nuovo, Weena era scomparsa.

Ero angosciato e disperato. Pensavo quasi di risalire, di lasciare perdere

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il mondo sotterraneo, ma, anche mentre rimuginavo quest’idea, continuavo

a calarmi. Infine, con immenso sollievo, intravidi alla mia destra, a poco

più di trenta centimetri da me, una feritoia nel muro; mi lasciai scivolare

dentro, e scoprii che era l’imbocco di una stretta galleria orizzontale nella

quale potevo stendermi e riposare. Ne avevo veramente bisogno: avevo le

braccia doloranti, la schiena indolenzita e tremavo per la continua paura di

cadere; oltre a ciò, la continua oscurità mi aveva provocato una sensazione

dolorosa agli occhi; l’aria era piena delle vibrazioni e dei ronzii delle mac-

chine che pompavano l’aria in fondo al pozzo.

Non so per quanto tempo rimasi sdraiato. Venni destato da una mano

molle che mi toccava il viso; trasalii nell’oscurità, cercai i fiammiferi, ne

accesi precipitosamente uno e vidi, curvi su di me, tre esseri lividi, simili a

quello visto in superficie presso le rovine, e che era velocemente fuggito

davanti alla luce. Vivendo come facevano, in quell’oscurità impenetrabile,

i loro occhi erano anormalmente grandi e sensibili, proprio come i globi

oculari dei pesci abissali, e riflettevano la luce nello stesso modo. Senza

dubbio essi potevano vedermi in quella profonda oscurità e, a parte la luce,

non sembravano aver paura di me. Appena accendevo un fiammifero per

riuscire a vederli, sparivano immediatamente nei neri condotti e nelle gal-

lerie da dove mi fissavano in una maniera stranissima.

Tentai di chiamarli, ma il loro linguaggio era evidentemente diverso da

quello degli esseri del mondo in superficie: perciò fui completamente ab-

bandonato ai miei soli sforzi, e, anche allora, pensai di fuggire senza conti-

nuare l’esplorazione. “Ma” mi dissi “tu sei qui proprio a questo scopo”;

cercai quindi a tastoni di farmi strada nella galleria, e scoprii che il rumore

della macchine aumentava. Poco dopo la parete terminò, arrivai a un gran-

de spazio aperto e, accendendo un altro fiammifero, mi accorsi d’essere en-

trato in una vasta caverna a volta che si estendeva nelle tenebre profonde,

fuori del raggio di luce del fiammifero. Vidi quel tanto che si può vedere

nel breve istante che impiega un fiammifero a bruciare.

Logicamente i miei ricordi sono vaghi: grandi forme, come di grosse

macchine, uscirono dalle tenebre proiettando grottesche ombre nere, nelle

quali i Morlock, come dei foschi spettri, si riparavano dalla luce abbaglian-

te. Il posto, comunque, era molto afoso e opprimente e vi era nell’aria un

vago odore di sangue fresco. Un po’ più in basso, al centro, vidi una picco-

la tavola di metallo bianco, apparecchiata come per un pasto: i Morlock,

evidentemente, erano carnivori! Proprio in quel momento ricordo di esser-

mi domandato con stupore quale grosso animale potesse essere sopravvis-

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suto, per fornire quel pezzo di carne sanguinante che vedevo. Tutto era

confuso: l’odore soffocante, le grandi forme senza significato, le orrende

figure in agguato nell’ombra, che solo aspettavano il buio per piombarmi

addosso! Il fiammifero, consumandosi, mi bruciò le dita e cadde, lasciando

una piccola macchia rossa nelle tenebre.

Da allora penso a quanto mi fossi male attrezzato per una simile espe-

rienza. Quando ero partito con la Macchina del Tempo, mi ero basato

sull’assurda supposizione che l’umanità del futuro fosse infinitamente più

progredita di quella di oggi in tutte le sue manifestazioni. Non avevo porta-

to con me né armi, né medicine, né tabacco (di cui a volte sentivo terribil-

mente la mancanza) e non avevo neppure sufficienti fiammiferi. Se avessi

almeno pensato a una Kodak, avrei potuto in un attimo fotografare la mo-

mentanea visione di quel mondo sotterraneo che più tardi avrei esaminato a

mio agio. Ma, invece, mi trovavo là con le sole armi e le sole risorse che

Madre Natura m’aveva dato: mani, piedi e denti, e i quattro fiammiferi

svedesi che ancora mi restavano.

Temevo di avventurarmi nelle tenebre fra tutte quelle macchine, e

all’ultima, breve fiammata del fiammifero, m’accorsi pure di avere quasi

terminato la scorta. Fino a quel momento non mi era mai venuto in mente

che fosse necessario economizzarli; avevo sciupato quasi metà della scato-

la per stupire le creature del mondo in superficie, per le quali il fuoco era

una novità, e ora, come dicevo, avevo solo quattro fiammiferi. Mentre ero

immobile nell’oscurità, una mano toccò la mia, mi sentii sul viso delle dita

molli e avvertii un odore particolarmente disgustoso. Mi parve di udire vi-

cino a me il respiro di una moltitudine di quei piccoli esseri spaventosi.

Sentii delle mani che cercavano di impadronirsi senza far rumore della mia

scatola di fiammiferi; altre, dietro di me, che mi tiravano il vestito.

L’impressione di essere esaminato da quei mostri che non vedevo era terri-

bilmente spiacevole; in mezzo alle tenebre, mi resi conto improvvisamente

della mia ignoranza circa il loro modo di pensare e di agire. Incominciai a

urlare quanto potei; essi si ritirarono spaventati; poi li intesi avvicinarsi an-

cora. Mi toccarono con più sfacciataggine, bisbigliando fra di loro in modo

incomprensibile. Tremavo violentemente e di nuovo lanciai degli urli stri-

duli e acuti. Questa volta essi si allarmarono assai meno e mi si avvicina-

rono di nuovo con una strana risata. Confesso di essermi terribilmente spa-

ventato; mi decisi ad accendere un altro fiammifero e a fuggire protetto

dalla sua luce; supplii all’insufficienza della fiamma dando fuoco a un pez-

zo di carta che avevo in tasca, poi mi ritirai in buon ordine verso la stretta

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galleria. Ma, appena entrato, la fiamma si spense e nell’oscurità potei udire

i Morlock fare dei rumori simili al fruscio del vento tra foglie, e al ticchet-

tio della pioggia, e precipitarsi a rincorrermi.

In un attimo venni afferrato da più mani: senza dubbio era loro inten-

zione trascinarmi indietro. Accesi un altro fiammifero facendolo oscillare

davanti ai loro volti abbagliati. Difficilmente potete immaginare il loro a-

spetto inumano e nauseabondo; avevano il volto pallido senza mento, gli

occhi grigio-rossastri senza ciglia, e mi fissavano spaventati e accecati.

Non mi fermai a osservarli, ve lo giuro; continuai a indietreggiare e, quan-

do il secondo fiammifero si spense, ne accesi un terzo. Si era quasi com-

pletamente consumato, quando raggiunsi l’apertura che immetteva nel

pozzo. Mi stesi sulla sponda, perché il pulsare della grande pompa sul fon-

do mi stordiva; mentre cercavo sulle pareti le sbarre sporgenti, venni affer-

rato per i piedi e trascinato indietro con violenza. Accesi l’ultimo fiammi-

fero... che si spense subito; ma mi ero attaccato con una mano ai pioli e,

scalciando con forza, mi liberai dalla stretta dei Morlock, mi arrampicai in

fretta sulle pareti del pozzo, mentre essi, dal fondo, mi fissavano strizzando

gli occhi; soltanto un piccolo miserabile mi segui per un po’, impadronen-

dosi quasi della mia scarpa come di un trofeo.

Quella scalata mi sembrò interminabile. Verso gli ultimi otto metri mi

venne una nausea spaventosa e dovetti compiere degli sforzi enormi per

reggermi. Agli ultimissimi metri la lotta contro la sensazione di svenire fu

terribile; parecchie volte mi presero dei capogiri e mi parve di cadere.

Alla fine, comunque, raggiunsi in qualche modo la bocca del pozzo e

barcollando uscii dalle rovine al sole accecante. Caddi faccia a terra. Persi-

no il suolo mi sembrò dolce e pulito. Ricordo Weena che mi baciava le

mani e le orecchie, e le voci di altri Eloi, poi per qualche tempo persi i sen-

si.

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Capitolo IX

QUANDO VENNE LA NOTTE

Per la verità, mi trovavo in una situazione peggiore di prima. Fino allo-

ra, a parte la notte d’angoscia per la perdita della Macchina del Tempo, a-

vevo avuto la confortante speranza di una fuga finale; speranza che crollò

dopo quelle nuove scoperte. Fino allora avevo pensato di trovare un osta-

colo soltanto nella puerile semplicità di quei piccoli esseri e in alcune forze

sconosciute, che dovevo capire per potere vincere; ma vi era un elemento

interamente nuovo, nella natura disgustosa dei Morlock, qualcosa di inu-

mano e di maligno che suscitava in me una ripugnanza istintiva. Dapprima

mi ero sentito come potrebbe sentirsi uno che è caduto in un fosso; pensa-

vo solo al fosso e al modo d’uscirne. Ora mi sentivo come una bestia in

trappola, con il nemico pronto a piombarle addosso da un momento

all’altro.

Il nemico che temevo vi sorprenderà: era l’oscurità nel periodo della lu-

na nuova. Weena me l’aveva messo in mente facendo qualche osservazio-

ne, che dapprima non capivo, a proposito delle “notti nere”. Che cosa si-

gnificasse l’avvicinarsi delle “notti nere” non era più, ora, un problema

molto difficile da risolvere. La luna era in fase calante e ogni notte

l’oscurità durava più a lungo. Ora comprendevo, fino a un certo punto al-

meno, il timore che le piccole creature del mondo in superficie avevano

delle tenebre. Immaginavo vagamente le follie e le atrocità che i Morlock

avrebbero potuto compiere durante la luna nuova. Avevo la certezza, ora,

che la mia seconda ipotesi era del tutto sbagliata.

Gli abitanti del mondo in superficie probabilmente, una volta, erano sta-

ti un’aristocrazia privilegiata e i Morlock i loro servitori meccanici; ma tut-

to questo era da lungo tempo superato. Le due specie, risultate

dall’evoluzione umana, stavano avviandosi o erano già giunte a rapporti

completamente nuovi. Gli Eloi, come i re carolingi, erano decaduti a uno

stato di bella e semplice futilità. Possedevano ancora la terra per tacito ac-

cordo, poiché i Morlock, i quali da molte generazioni vivevano nel sotto-

suolo, alla fine trovarono intollerabile la superficie illuminata dal sole. Ne

conclusi che i Morlock confezionavano gli abiti degli Eloi e provvedevano

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alle loro quotidiane necessità, forse per una vecchia abitudine a servire; lo

facevano come un cavallo fermo che scalpita, o come un uomo che ama

uccidere gli animali per divertimento: antiche e scomparse necessità ave-

vano fissato in loro quegli istinti. Era chiaro che il vecchio ordine di cose

era già stato capovolto. La nemesi dei delicati Eloi avanzava a grandi passi.

In epoche passate, per migliaia di generazioni, l’uomo aveva allontanato il

fratello dal benessere e dal sole: e ora il fratello ritornava... cambiato! Gli

Eloi avevano già incominciato a imparare la vecchia lezione: facevano di

nuovo conoscenza con la paura. D’improvviso mi ricordai della carne che

avevo visto nel mondo sotterraneo. Stranamente mi ritornava alla mente,

non sollevata dalle mie meditazioni, ma quasi come una domanda prove-

niente dal di fuori. Mi sforzai di rammentare la forma della carne; avevo la

vaga impressione che fosse qualcosa di familiare, ma in quel momento non

riuscivo a capire che cosa.

Ma, anche se i piccoli esseri erano impotenti di fronte alla loro misterio-

sa paura, io ero fatto in modo diverso. Venivo da questa nostra epoca, da

questa fiorente primavera della razza umana, dove la paura non paralizza e

il mistero non atterrisce: almeno mi sarei difeso. Senza ulteriori indugi, de-

cisi di costruirmi delle armi e di trovare un luogo sicuro per dormire. A-

vendo il rifugio come base, potevo affrontare quel mondo strano con un

po’ della fiducia che avevo perduto quando mi ero reso conto in balia di

quali esseri mi trovavo ogni notte. Sentivo di non poter più dormire se il

letto non fosse stato al sicuro; fremevo d’orrore pensando a come doveva-

no avermi già esaminato.

Vagai per tutto il pomeriggio lungo la valle del Tamigi, ma non trovai

nulla che mi sembrasse inaccessibile. Tutti gli alberi e tutte le costruzioni

parevano facilmente praticabili da arrampicatori agili quali dovevano esse-

re i Morlock, a giudicare dai loro pozzi. Mi ritornò allora alla mente il Pa-

lazzo di Porcellana Verde con i suoi alti pinnacoli e i muri splendenti e le-

vigati e, verso sera, portando Weena sulle spalle come un bimbo, salii sulle

colline in direzione sud-ovest. Avevo calcolato che fosse lontano circa die-

ci chilometri, ma doveva esserne quasi ventisette; avevo visto per la prima

volta il palazzo in un pomeriggio piovoso, quando ci s’inganna sulle di-

stanze ritenendole inferiori. Inoltre mi si era staccato il tacco di una scarpa,

un chiodo aveva bucato la suola (erano delle vecchie e comode scarpe da

casa) e zoppicavo. Il sole era già tramontato da un pezzo quando arrivai in

vista del palazzo, che si stagliava nero contro il color oro pallido del cielo.

Weena aveva provato una gioia immensa quando incominciai a portarla

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sulle spalle, ma dopo un po’ volle che la facessi scendere, e si mise a corre-

re al mio fianco, chinandosi ogni tanto a destra e a sinistra per cogliere fio-

ri con i quali mi riempiva le tasche. Queste l’avevano sempre imbarazzata;

Weena doveva avere concluso, alla fine, che fossero degli strani vasi per

decorazioni floreali o, per lo meno, le usava a questo scopo. E ciò mi ri-

corda!... nel cambiare la giacca, ho trovato...

Il Viaggiatore nel Tempo tacque, mise una mano in tasca e silenziosa-

mente posò sulla tavola due fiori appassiti, molto simili a delle grandi mal-

ve bianche; poi riprese il racconto.

Quando scese sul mondo la calma della sera e noi stavamo proseguendo

sopra la cresta della collina verso Wimbledon, Weena si sentì stanca e vol-

le tornare all’edificio di pietra grigia, ma le additai i lontani pinnacoli del

Palazzo di Porcellana Verde e tentai di farle comprendere che stavamo cer-

cando là un rifugio contro la paura. Conoscete il grande silenzio che scen-

de sulle cose prima del crepuscolo? Persino la brezza si arresta fra gli albe-

ri. Nell’immobilità della sera vi è sempre, per me, come un’aria di attesa. Il

cielo era chiaro, lontano e limpido, a parte qualche striatura orizzontale in

basso, verso ovest. Quella sera l’attesa si colorò dei miei timori; in quella

calma tenebrosa, i miei sensi parvero aver acquistato un’acutezza sopran-

naturale: mi sembrava di sentire persino la cavità del terreno sotto i miei

piedi, e di poter quasi vedere i Morlock, nel loro formicaio, aggirarsi qua e

là in attesa delle tenebre. Nella mia esaltazione, immaginavo che essi aves-

sero interpretato la mia invasione nel loro covo come una dichiarazione di

guerra. Perché mi avevano preso la Macchina del Tempo?

Proseguimmo nella quiete della sera finché al crepuscolo segui la notte.

L’azzurro chiaro del cielo lontano svanì e una dopo l’altra apparvero le

stelle; il suolo diventò scuro e gli alberi neri. Weena si sentiva sempre più

stanca; la presi fra le braccia parlandole e accarezzandola, poi, quando

l’oscurità si fece più profonda, ella mi mise le braccia intorno al collo,

chiuse gli occhi e nascose con forza il viso contro la mia spalla. Scendem-

mo così, un lungo pendio, in una valle e, al buio, per poco non caddi in un

ruscello: lo passai a guado, risalii il versante opposto della valle, e oltre-

passai qualche edificio addormentato, e una statua (un fauno o qualcosa di

simile ma senza la testa). Anche lì vi erano delle acacie. Fino allora non

avevo visto alcun Morlock, ma non era ancora notte fonda e le ore più

buie, che precedono il sorgere della vecchia luna, dovevano ancora venire.

Dall’alto della collina successiva vidi una fitta foresta che si stendeva

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vasta e nera davanti a me. Esitai; non riuscivo a vederne la fine né a destra

né a sinistra; sentendomi stanco - i piedi soprattutto mi dolevano molto -

mi fermai, deposi a terra Weena con tutte le precauzioni e sedetti sopra una

zolla erbosa. Non vedevo più il Palazzo di Porcellana Verde e non ero sicu-

ro della direzione da seguire. Scrutai la folta foresta pensando a ciò che po-

teva nascondere; sotto quel fitto groviglio di rami non si sarebbero più vi-

ste le stelle. Anche se non vi fosse stato nessun altro pericolo nascosto (pe-

ricolo sul quale non desideravo abbandonare la mia immaginazione), vi e-

rano pur sempre le radici, contro le quali avrei incespicato e i tronchi degli

alberi, contro i quali avrei urtato. Inoltre ero molto stanco per le emozioni

della giornata: così decisi di non affrontare quel pericolo sconosciuto e di

passare la notte sulla collina, all’aperto.

Fui contento di vedere che Weena dormiva profondamente; l’avvolsi

con cura nella mia giacca e le sedetti vicino, aspettando il sorgere della lu-

na. Il pendio era tranquillo e deserto, ma dalla cupa foresta giungeva di

tanto in tanto un fruscio, che sembrava quasi prodotto da esseri viventi. La

notte era molto chiara; infatti le stelle brillavano e mi sentivo amichevol-

mente confortato dal loro scintillio. Tutte le vecchie costellazioni erano pe-

rò scomparse; il loro lento movimento, che è impercettibile durante centi-

naia di generazioni, le aveva, da molto tempo, riordinate in gruppi a me

sconosciuti; ma la via Lattea mi sembrava sempre la stessa striscia discon-

tinua di polvere di stelle. A sud, così almeno mi parve, vidi una stella rossa

molto luminosa, che non conoscevo, ancora più splendida della giovane Si-

rio. Fra tutti quei punti di luce scintillanti, un pianeta lucente splendeva di

una luce regolare e benevola, come il volto d’un vecchio amico.

Contemplavo le stelle, e, improvvisamente, le mie preoccupazioni per-

sonali e tutti i fardelli della vita terrestre diminuirono. Pensavo alla loro in-

commensurabile distanza, al lento e inevitabile corso dei loro movimenti,

dal passato sconosciuto al futuro sconosciuto; pensavo al grande ciclo pre-

cessionale che compie l’asse della terra. Quaranta volte solamente era av-

venuta quella silenziosa rivoluzione in tutti gli anni che avevo attraversato:

durante quelle rare rivoluzioni tutte le attività, tutte le tradizioni, le com-

plesse organizzazioni, le nazioni, le lingue, le letterature, le aspirazioni,

persino il puro ricordo dell’uomo, com’io lo conoscevo, erano stati spazza-

ti via: non esistevano più. Al loro posto vi erano quegli esseri fragili che

avevano dimenticato la loro alta origine e quelle figure biancastre che mi

atterrivano. Poi pensai alla grande paura che separava le due specie e per la

prima volta compresi chiaramente (ed ebbi un brivido improvviso) da dove

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proveniva la carne che avevo visto: era troppo orribile! Guardai la piccola

Weena che dormiva accanto a me, il suo bianco volto, simile a una stella,

illuminato dalla luce delle stelle, e respinsi immediatamente tale pensiero.

Durante quella lunga notte cercai di allontanare dalla mia mente, come

meglio potei, il pensiero dei Morlock e trascorsi il tempo immaginando di

ritrovare, in quella nuova confusione, le tracce delle antiche costellazioni.

Il cielo, a parte qualche vaga nuvola, si manteneva molto chiaro. Senza

dubbio di tanto in tanto mi assopii. Poi, quando la mia veglia stava finendo,

verso est apparve un debole chiarore, simile al riflesso di qualche fuoco in-

colore, e la vecchia luna spuntò, sottile, affilata e pallida. Subito dopo la

raggiunse, inondandola di luce, l’alba, tenue dapprima, poi di un rosa più

caldo. Nessun Morlock si era avvicinato a noi. Per la verità, quella notte,

non ne avevo visti sulla collina. Con la fiducia che il nuovo giorno mi ri-

dava, mi sembrò quasi che la mia paura fosse stata assurda. M’alzai e

m’accorsi che il piede che calzava la scarpa con il tacco staccato si era

gonfiato alla caviglia e mi doleva sotto il calcagno: così mi risedetti, levai

le scarpe e le lanciai lontano.

Svegliai Weena e scendemmo verso la foresta non più nera e minaccio-

sa, ma verde e piacevole. Trovammo, sul cammino, qualche frutto con cui

rompere il digiuno. Ben presto incontrammo un gruppo di fragili esseri che

ridevano e danzavano al sole, come se nella natura non esistesse la notte.

Ripensai ancora alla carne che avevo visto; ora sapevo di che cosa era e dal

profondo del cuore provai pietà per quell’ultimo, debole ruscello del gran-

de fiume dell’umanità. Evidentemente in qualche periodo del lungo passato

della decadenza umana il cibo dei Morlock era scarseggiato. Probabilmente

si nutrivano di topi e di altri animali nocivi del genere. Anche al giorno

d’oggi l’uomo è assai meno difficile e raffinato per quanto riguarda il suo

nutrimento di una volta; lo è assai meno di qualsiasi scimmia; il suo pre-

giudizio contro la carne umana non è un istinto profondamente radicato. E

così quegli inumani figli di uomini!... Mi sforzavo di considerare la cosa da

un punto di vista scientifico. Dopo tutto essi erano meno umani e più lon-

tani da noi dei nostri antenati cannibali di tre o quattromila anni fa.

L’intelligenza, che avrebbe reso questo stato di cose un tormento, era

scomparsa: ma perché angustiarmi? Gli Eloi erano semplicemente bestie

da ingrasso che i Morlock, simili a formiche, conservavano e divoravano (e

forse ne curavano la riproduzione). E Weena danzava al mio fianco!

Cercai di allontanare dalla mia mente quel senso di orrore, considerando

il fatto come una severa punizione per l’egoismo umano. L’uomo si era li-

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mitato a vivere negli agi e nei piaceri a spese del duro lavoro dei suoi simi-

li; “necessità” era diventata la sua parola d’ordine e la sua scusa, ma al

momento opportuno la “necessità” gli si era rivoltata contro. Cercai anche

di considerare con un disprezzo alla Carlyle4 quella miserabile aristocrazia

in decadenza, ma mi fu impossibile. Per quanto grande fosse il loro abbru-

timento, gli Eloi avevano conservato troppo dell’aspetto umano per non

aver diritto alla mia comprensione e per non ispirarmi un senso di pietà per

il loro avvilimento e per la loro paura.

Avevo delle idee assai vaghe in quel momento sulla via da seguire. A-

vevo prima di tutto bisogno di un rifugio sicuro e di fabbricarmi armi di

metallo o di pietra, a seconda di quello che avessi trovato. Si trattava di una

necessità immediata. In seguito speravo di procurarmi i mezzi per fare del

fuoco, in modo d’avere una torcia in mano come arma, perché nulla, lo sa-

pevo, sarebbe stato più efficace contro i Morlock. Poi mi occorreva trovare

qualche espediente per forzare le porte di bronzo del piedestallo della

Bianca Sfinge e pensavo a una specie di ariete. Ero persuaso che se avessi

potuto penetrare attraverso quelle porte, tenendo davanti a me una fiamma

viva, avrei scoperto la Macchina del Tempo e il modo di fuggire. Non po-

tevo immaginare che i Morlock fossero tanto forti da trasportarla molto

lontano. Avevo deciso di condurre Weena nel nostro tempo. Rimuginando

questi progetti, continuai il cammino verso l’edificio che la mia fantasia

aveva scelto come dimora.

4 Carlyle, Thomas (1795-1881), saggista, storico e filosofo inglese nato a Ecclefechan

(Scozia); è noto soprattutto per la sua particolare interpretazione individualistica della sto-

ria e per il suo caustico umorismo. (N.d.T.)

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Capitolo X

IL PALAZZO DI PORCELLANA VERDE

Quando arrivammo verso mezzogiorno al Palazzo di Porcellana Verde,

lo trovammo deserto e in rovina; non restavano alle finestre che frammenti

di vetri, e grandi placche del rivestimento verde della facciata si erano

staccate dalle strutture metalliche corrose. Il palazzo era situato molto in

alto, su una collina ricoperta da zolle erbose; guardando, prima d’entrare,

verso nord-est, fui sorpreso di vedere un largo estuario, o forse un braccio

di mare, là dove credevo che un tempo vi fossero Wandsworth e Battersea.

Pensai allora, senza giungere a nessuna conclusione, a che cosa era accadu-

to o stava accadendo agli esseri che vivevano nel mare.

Il materiale del palazzo, che esaminai attentamente, era proprio porcel-

lana. Sulla facciata vidi un’iscrizione in caratteri sconosciuti; credetti, piut-

tosto stupidamente, che Weena potesse aiutarmi a interpretarla, ma

m’accorsi che neanche l’idea della scrittura era mai entrata nel suo cervel-

lo. Weena mi era sempre sembrata, credo, più umana di quanto lo fosse re-

almente, forse perché il suo affetto per me era così umano.

Oltre i grandi battenti del portone, che erano aperti e rotti, trovai, al po-

sto della solita grande sala, una lunga galleria illuminata da numerose fine-

stre laterali. A prima vista mi fece venire in mente un museo. Il pavimento

a mattonelle era ricoperto da un fitto strato di polvere, e una notevole col-

lezione di oggetti disparati era avvolta nella stessa grigia coltre. Poi notai

la parte inferiore di un enorme scheletro, strano e scarno, in mezzo alla sa-

la: riconobbi dai piedi obliqui, che era un essere scomparso simile ai mega-

teri; il cranio e le ossa del tronco giacevano per terra nella polvere spessa e,

in un punto dove la pioggia era penetrata attraverso una fessura del tetto, lo

scheletro si era corroso. Più avanti nella galleria trovai lo scheletro enorme

di un brontosauro. La mia ipotesi di museo veniva riconfermata. Su una pa-

rete trovai delle specie di scaffali inclinati e, toltane la fitta polvere, scoprii

le familiari bacheche del nostro tempo: dovevano essere impenetrabili

all’aria, a giudicare dalla buona conservazione di parte del contenuto.

Ci trovavamo proprio in mezzo alle rovine di qualche recente South

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Kensington5. Quella era evidentemente la sezione paleontologica che do-

veva avere contenuto una splendida raccolta di fossili: l’inevitabile proces-

so di decomposizione, che era stato ritardato per un certo tempo e che a

causa dell’estinzione dei batteri e delle muffe aveva perduto il novantanove

per cento della sua forza, aveva ricominciato implacabilmente, anche se

lentamente, a distruggere tutti quei tesori. Qua e là trovai tracce dei piccoli

esseri sotto forma di fossili rari, a pezzi o infilati su fibre di giunco. In

qualche posto le bacheche erano state interamente spostate, credo dai Mor-

lock. Regnava un grande silenzio nella sala; la stessa fitta polvere attutiva

il rumore dei nostri passi. Weena, intenta a far rotolare un riccio di mare

sul vetro inclinalo di una bacheca, ritornò verso di me, che mi guardavo in-

torno stupito, mi prese tranquillamente la mano e mi restò vicina.

Al primo momento fui talmente sorpreso da quell’antico monumento d

un’età in cui esistevano ancora i valori dell’intelletto, da non pensare alle

possibilità che mi offriva. Riuscii persino ad allontanare per un istante dal-

la mente la preoccupazione della Macchina del Tempo.

A giudicare dalle dimensioni del luogo, il Palazzo di Porcellana Verde

conteneva molto di più di una galleria di paleontologia; forse vi erano delle

gallerie di storia e forse persino una biblioteca! Date le circostanze in cui

mi trovavo, mi avrebbero interessato molto di più dello spettacolo delle ere

geologiche in decadimento. Continuando la mia esplorazione, trovai

un’altra breve galleria, traversale alla prima. Pareva riservata ai minerali; la

vista d’un blocco di zolfo mi richiamò alla mente l’idea della polvere da

sparo, ma non riuscii a trovare salnitro né nitrato di nessun genere. Senza

dubbio si erano liquefatti in epoche passate. Tuttavia continuavo a pensare

a quel pezzo di zolfo che suscitò in me tutta una serie di idee. Quanto al re-

sto del contenuto della galleria, benché in complesso fosse il meglio con-

servato di tutte quelle che vidi, mi interessava poco. Non essendo uno stu-

dioso di mineralogia, passai oltre e mi diressi verso un corridoio molto in

rovina, parallelo alla prima grande sala in cui ero entrato. Evidentemente si

trattava della sezione riservata alla storia naturale, ma tutto ciò che vi era

raccolto, era diventato da lungo tempo irriconoscibile. Alcuni resti rattrap-

piti e anneriti di ciò che erano stati un tempo animali imbalsamati, mum-

mie disseccate in vasi, una volta pieni di alcool, e polvere scura di piante

scomparse: era tutto! Mi rincresceva perché sarei stato felice di scoprire le

5 South Kensington, sulla riva sinistra del Tamigi, era noto come centro di musei, tra i

quali il British Museum of Natural History. (N.d.T.)

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pazienti ricostruzioni attraverso le quali era stata compiuta la conquista

della natura animata. Giungemmo a una galleria di dimensioni veramente

colossali, ma particolarmente mal illuminata, il cui pavimento inclinato

formava un piccolo angolo dalla parte opposta a quella da cui ero entrato6.

Pendevano a intervalli, dal soffitto, dei globi bianchi molti dei quali rotti o

incrinati; probabilmente in origine il posto era stato illuminato artificial-

mente. Ero ora più nel mio elemento, perché alla mia destra e alla mia sini-

stra, vidi degli enormi ammassi di gigantesche macchine, tutte assai corro-

se e molte a pezzi, ma alcune abbastanza complete. Come sapete, ho un

debole per la meccanica: perciò desideravo fermarmi un po’ in mezzo alle

macchine, tanto più che quasi tutte erano dei veri enigmi per me e potevo

fare solo le più vaghe congetture circa lo scopo per cui erano state costrui-

te. Immaginavo che, se fossi riuscito a risolvere quegli enigmi, mi sarei

trovato in possesso di forze probabilmente utili contro i Morlock.

A un tratto Weena si avvicinò a me, e in modo così improvviso, che ne

trasalii. Se non fosse stato per lei, non credo che avrei affatto notato

l’inclinazione del pavimento della galleria. L’estremità da cui ero entrato

era completamente sopraelevata e riceveva luce da insolite finestre molte

strette; percorrendola nel senso della lunghezza, il pavimento saliva verso

le finestre per terminare in una fossa simile all’area che hanno davanti le

case di Londra, illuminata soltanto da una stretta apertura in alto. Avanza-

vo lentamente, cercando di capire lo scopo delle macchine ed ero troppo

assorto per accorgermi della graduale diminuzione della luce, finché la cre-

scente apprensione di Weena non attirò la mia attenzione. Vidi allora che la

galleria terminava nella fitta oscurità: esitai, poi, guardandomi intorno, no-

tai che la coltre di polvere era meno abbondante e lo strato superficiale

meno uniforme. Un po’ più lontano, verso la zona buia, sembrava solcata

da un certo numero di impronte di piedi piccoli e stretti. Si rinnovò in me

la sensazione dell’improvvisa presenza dei Morlock. Sentii che stavo per-

dendo tempo con quell’esame accademico delle macchine. Mi ricordai che

il pomeriggio era già molto avanzato e che non avevo ancora né armi, né

rifugio, né mezzi per fare del fuoco. Poi, dalla profonda oscurità, udii il ca-

ratteristico succedersi di piccoli colpi e gli stessi strani rumori che avevo

udito in fondo al pozzo.

6 Potrebbe darsi che il suolo non avesse alcuna pendenza, ma che il museo fosse co-

struito sul fianco stesso della collina.

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Presi la mano di Weena. Poi, colpito da un’idea improvvisa, la lasciai e

mi avvicinai a una macchina da cui sporgeva una leva simile a quelle delle

cabine di segnalazione. Mi arrampicai sulla piattaforma, impugnai la leva e

con tutto il mio peso cercai di piegarla da un lato. Improvvisamente Wee-

na, abbandonata nella navata centrale della galleria, si mise a gemere. A-

vevo calcolato abbastanza esattamente la forza di resistenza della leva, per-

ché, dopo un attimo di sforzi, si spezzò e raggiunsi Weena con in mano una

sbarra più che sufficiente, secondo me, per qualsiasi cranio di Morlock che

avessi affrontato. Desideravo veramente ucciderne qualcuno. Molto inu-

mano, penserete, il desiderio di uccidere i propri discendenti! Ma non era

assolutamente possibile provare sentimenti umani per quegli esseri. Soltan-

to la mia riluttanza a lasciare Weena e la convinzione che se avessi inco-

minciato a calmare la mia sete di assassinio la Macchina del Tempo poteva

andarci di mezzo, mi trattennero dal raggiungere subito il fondo della gal-

leria per uccidere quei bruti che udivo muoversi.

Dunque, con la sbarra in una mano e con la mano di Weena nell’altra,

uscii da quella galleria ed entrai in un’altra più grande ancora che, a prima

vista, mi ricordava una cappella militare adorna di bandiere a brandelli. Ri-

conobbi subito negli stracci scuri e carbonizzati che pendevano dalle pare-

ti, i resti di libri. Da lungo tempo erano ridotti a pezzi e ogni traccia di

stampa era scomparsa; ma qua e là vi erano degli assiti curvati e dei ganci

di metallo rotti molto significativi, Se fossi stato un letterato, avrei potuto,

forse, moralizzare sulla futilità delle ambizioni umane. La cosa che mi col-

pi di più, tuttavia, fu l’enorme spreco di fatica che testimoniava quella tri-

ste distesa desolata di carta marcita. Devo confessare che in quel momento

pensavo soprattutto alle Transazioni Filosofiche e ai miei diciassette saggi

sull’ottica fisica.

Salendo poi una larga scalinata, arrivammo a quella che un tempo dove-

va essere stata una galleria di chimica tecnica; e lì non speravo molto in u-

tili scoperte. Salvo a un’estremità, dove il tetto era sprofondato, quella gal-

leria era ben conservata. Mi avvicinai impaziente a tutte le bacheche intat-

te; alla fine, in una, veramente a tenuta d’aria, trovai una scatola di fiammi-

feri. Mi precipitai a provarne uno: erano perfettamente conservati, non era-

no neppure umidi. Mi rivolsi a Weena. “Danza”! le gridai nella sua lingua.

Ora possedevo veramente un’arma formidabile contro le orribili creature

che noi temevamo. Così, in quel museo abbandonato, sullo spesso e soffice

tappeto di polvere, con gran gioia di Weena, eseguii solennemente una

specie di danza composita, zufolando il più gaiamente possibile l’aria de

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“Il paese degli onesti”: era insieme un modesto can can, una danza figura-

ta, una danza scozzese (quanto lo permettevano le falde della mia giacca),

e una danza originale. Infatti ho per natura uno spirito creativo, come ben

sapete.

Penso ancor oggi che l’essere sfuggita al logorio del tempo per innume-

revoli anni, sia stata per quella scatola di fiammiferi la cosa più insolita,

come per me la più fortunata. Inoltre, fatto piuttosto strano, scoprii una so-

stanza ancora più inverosimile: della canfora. La trovai in un vaso sigillato

che per caso, suppongo, era stato chiuso ermeticamente Credetti dapprima

che fosse paraffina e perciò ruppi il vaso, ma l’odore di canfora è incon-

fondibile. Quella sostanza volatile era, per caso, sopravvissuta alla rovina

universale nel corso, forse, di molte migliaia di secoli. Ciò mi ricordò una

pittura a nero di seppia che avevo visto eseguire, una volta, con il nero ri-

cavato da un belemnite fossile, probabilmente morto e fossilizzato da mi-

lioni d’anni. Stavo per gettare via la canfora, quando mi verme in mente

che era infiammabile e che bruciava con una bella fiamma brillante (era in-

fatti un’eccellente candela), e me la misi in tasca. Non trovai però né e-

splosivi né alcun mezzo per abbattere le porte di bronzo. La mia sbarra di

ferro rimaneva ancora l’unica cosa utile che avessi trovato. Nondimeno u-

scii da quella galleria molto sollevato.

Non vi posso fare il resoconto particolareggiato di quel lungo pomerig-

gio: richiederebbe uno sforzo di memoria troppo grande richiamare alla

mente nel loro ordine tutte le mie esplorazioni. Ricordo una lunga galleria

piena di armi arrugginite e ricordo di essere stato indeciso tra la mia sbarra

e un’accetta o una spada. Tuttavia non potevo prenderle tutte; inoltre la

sbarra di ferro mi sembrava molto più indicata per abbattere le porte di

bronzo. V’erano numerosi fucili, pistole, carabine: la maggior parte non

erano che ammassi di ruggine, ma molti, di qualche nuovo tipo di metallo,

erano ancora abbastanza in buono stato; invece cartucce e polvere da sparo

di qualsiasi tipo, che probabilmente facevano parte della collezione, erano

marcite e ridotte in polvere. Un angolo di quella galleria era carbonizzato e

distrutto forse, pensavo, per lo scoppio di uno di quegli esplosivi. In

un’altra sala si trovava una vasta collezione di idoli polinesiani, messicani,

greci, fenici: direi di tutti i paesi del mondo. Lì, cedendo a un irresistibile

impulso, scrissi il mio nome sul naso di una steatite dell’America del Sud,

che colpi particolarmente la mia fantasia.

A mano a mano che s’avvicinava la sera, il mio interesse diminuiva. At-

traversai una galleria dopo l’altra, tutte polverose, silenziose e spesso in

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rovina: gli oggetti esposti erano talvolta solo mucchi di ruggine e di lignite,

talaltra più conservati. In una sala, mi trovai all’improvviso vicino a un

modello di una mina di stagno, poi per purissimo caso scoprii, in una vetri-

na ermeticamente chiusa, due cartucce di dinamite! “Eureka”! esclamai e

ruppi il vetro con gioia. Poi mi venne un dubbio. Esitai. Quindi, scegliendo

una piccola galleria laterale, feci un tentativo. Non ho mai provato una de-

lusione come quella che provai aspettando per cinque, dieci, quindici mi-

nuti un’esplosione che non arrivò mai. Naturalmente erano cartucce finte,

come avrei dovuto immaginare dal loro aspetto. Se non lo fossero state,

credo che mi sarei precipitato subito a distruggere tutto: Sfinge, porte di

bronzo (come accadde più tardi) e con esse le mie speranze di trovare la

Macchina del Tempo.

Fu, credo, dopo quel tentativo, che giungemmo in un piccolo cortile a-

perto, nell’interno del palazzo. Era coperto di zolle erbose e vi erano tre al-

beri da frutta. Ci riposammo e ci ristorammo. Verso il tramonto, incomin-

ciai a considerare la nostra situazione: la notte scendeva lentamente su di

noi e io non avevo ancora trovato il nostro inaccessibile rifugio; ma ciò

ormai mi preoccupava molto poco: avevo in mano qualcosa che era forse la

migliore difesa contro i Morlock: i fiammiferi! Avevo anche della canfora

in tasca, se vi fosse stato bisogno di una fiamma prolungata. Mi sembrava

che la miglior cosa fosse di passare la notte all’aperto, protetti da un fuoco.

Al mattino avrei ricuperato la Macchina del Tempo. Per questo scopo, fino

allora, avevo a disposizione solo la sbarra di ferro: ora, con le mie aumen-

tate cognizioni, avevo delle idee diverse circa le porte di bronzo. Fino a

quel momento mi ero astenuto dal forzarle, in gran parte a causa del miste-

ro che esse racchiudevano; ma non mi avevano mai dato l’impressione

d’essere molto resistenti e speravo di trovare la sbarra di ferro non del tutto

inadeguata a quel compito.

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Capitolo XI

NELLE TENEBRE

Uscimmo dal palazzo mentre il sole era ancora, in parte, sopra

l’orizzonte. Ero deciso a raggiungere la Bianca Sfinge il mattino dopo di

buon’ora, e mi proponevo di attraversare la foresta che mi aveva arrestato

all’andata prima dell’imbrunire. Il mio piano era di spingermi il più lonta-

no possibile quella notte, quindi di accendere un fuoco e di dormire protet-

to dalla sua luce: perciò lungo il cammino raccoglievo qualsiasi legnetto o

erba secca che trovassi e ben presto ebbi le braccia piene di rifiuti del gene-

re. Carico com’ero, avanzammo più lentamente del previsto: inoltre Weena

era affaticata. Anch’io incominciavo a sentire sonno, cosicché raggiun-

gemmo la foresta solo a notte inoltrata. Weena, temendo l’oscurità, avreb-

be voluto fermarsi sulla collina ricoperta d’arbusti, ai margini della foresta;

ma una singolare sensazione di pericolo imminente (che avrebbe dovuto,

invero, servirmi da avvertimento) mi spingeva a proseguire. Non avevo

dormito per una notte e due giorni, ed ero febbricitante e irritabile. Sentivo

venire il sonno e con il sonno i Morlock.

Mentre esitavamo, fra i neri cespugli dietro di noi, scorsi, indistinte

nell’oscurità, tre figure accovacciate. Eravamo circondati da boscaglia ed

erba alta, e temevo il loro insidioso avvicinarsi.

Calcolavo che la foresta si estendesse per circa un chilometro e mezzo:

se riuscivamo ad attraversarla e a raggiungere il pendio senza alberi, a-

vremmo trovato, così ritenevo, un luogo per riposare assolutamente sicuro.

Pensavo che con i fiammiferi e con la canfora sarei riuscito a illuminare il

sentiero attraverso la foresta. Tuttavia era evidente che se avessi dovuto te-

nere accesi i fiammiferi con una mano, avrei dovuto abbandonare la mia

legna da ardere: così la posai per terra, piuttosto a malincuore. Mi venne

allora in mente di stupire gli amici alle nostre spalle, bruciandola. Ben pre-

sto avrei scoperto la terribile follia di quest’azione: ma l’avevo ritenuta una

tattica ingegnosa per coprire la nostra ritirata.

Non so se abbiate mai pensato a che cosa rara deve essere una fiamma

in un luogo deserto e in un clima temperato. Il calore solare non è mai ab-

bastanza forte da produrre il fuoco, anche quando viene concentrato attra-

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verso gocce di rugiada, come talvolta accade in molte regioni tropicali. Il

fulmine può fare inaridire e carbonizzare, ma raramente provoca incendi

considerevoli. La vegetazione in decomposizione può talvolta dar luogo a

una combustione a causa del calore della fermentazione, ma quasi mai si

risolve in una fiammata. In quell’epoca di decadenza, anche l’arte di pro-

durre il fuoco era stata dimenticata sulla terra. Le lingue rosse che si solle-

vavano, lambendo il mucchio di legna, erano per Weena una cosa strana e

completamente nuova.

Ella desiderava avvicinarsi al fuoco e giocare con le fiamme. Sono sicu-

ro che vi si sarebbe gettata dentro se non l’avessi trattenuta, ma la presi in

braccio e, nonostante le sue resistenze, mi spinsi audacemente con lei nella

foresta. Per un piccolo tratto, il riverbero del fuoco illuminò il sentiero: po-

co dopo, guardando indietro, vidi attraverso la moltitudine dei tronchi che,

dal mio mucchio di legnetti, la fiamma si era estesa a qualche cespuglio a-

diacente e che una striscia ricurva di fuoco saliva lentamente dall’erba del-

la collina. Risi del fatto, poi mi voltai ancora verso i neri alberi davanti a

me. Era molto buio, e Weena si stringeva fortemente a me, ma i miei occhi

si abituarono all’oscurità, e vi era ancora abbastanza luce perché evitassi di

urtare contro i tronchi. Sopra di noi tutto era nero, eccetto, qua e là, qual-

che squarcio lontano di cielo azzurro. Non accendevo fiammiferi perché

non avevo le mani libere; con il braccio sinistro reggevo la mia piccola a-

mica e nella mano destra tenevo la sbarra di ferro.

Per un certo tempo non udii altro che il crepitio dei ramoscelli sotto i

piedi, l’incerto mormorio della brezza sopra di me, il mio respiro e le pul-

sazioni del sangue nelle orecchie; poi mi sembrò di riconoscere un rumore

di piccoli passi intorno a me. Proseguii con espressione accigliata; il rumo-

re si fece più distinto, poi colsi gli stessi strani rumori e voci che avevo già

udito nel mondo sotterraneo. Vi erano evidentemente parecchi Morlock e a

poco a poco mi stavano attorniando: infatti un minuto dopo mi sentii tirare

la giacca, poi un braccio. Weena tremò violentemente e diventò completa-

mente immobile.

Era il momento di accendere un fiammifero, ma per prenderne uno do-

vetti posare Weena per terra. Mentre frugavo in tasca, iniziò una lotta nelle

tenebre intorno alle mie ginocchia, in perfetto silenzio da parte di Weena e

con gli stessi caratteristici rumori che ricordavano il tubare delle tortore da

parte dei Morlock. Delle piccole mani molli scivolarono sulla mia giacca e

sulla schiena, toccandomi persino il collo. Accesi il fiammifero che

s’infiammò crepitando. Lo tenni sollevato e vidi i dorsi lividi dei Morlock

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fuggire fra gli alberi. Presi in fretta dalla tasca un pezzo di canfora, pronto

a dargli fuoco quando il fiammifero si fosse spento. Poi guardai Weena:

giaceva immobile con il viso contro il suolo, aggrappata ai miei piedi. Pre-

so da improvviso terrore, mi chinai su di lei; pareva respirare a fatica. Die-

di fuoco al pezzo di canfora e lo gettai per terra; mentre spezzandosi

s’infiammava, allontanando i Morlock e le tenebre, m’inginocchiai e solle-

vai Weena. Pareva ci fosse nella foresta l’agitazione e il mormorio di una

gran folla.

Weena sembrava svenuta; la misi con cura sulle spalle, mi rialzai per

proseguire il cammino e mi accorsi di una cosa orribile: occupandomi dei

fiammiferi e di Weena, mi ero girato parecchie volte su me stesso e ora

non avevo la più pallida idea della direzione del mio sentiero. Per quello

che ne sapevo, era possibile che stessi ritornando verso il Palazzo di Por-

cellana Verde. Mi vennero i sudori freddi: occorreva prendere rapidamente

una decisione. Pensai di accendere un fuoco e di accamparci dove erava-

mo. Misi Weena, ancora immobile, su un tronco d’albero coperto di mu-

schio e, in tutta fretta, mentre il mio pezzo di canfora si consumava, inco-

minciai a raccogliere ramoscelli e foglie secche. Nell’oscurità gli occhi dei

Morlock brillavano come granati.

La fiamma della canfora vacillò e si spense. Accesi un fiammifero e su-

bito due forme biancastre, che si erano avvicinate a Weena, fuggirono ve-

locemente. Una di esse fu talmente accecata dalla luce, che venne diritta

contro di me, e sentii scricchiolare le sue ossa sotto il colpo del mio pugno;

lanciò un grido di sgomento, barcollò un poco e cadde. Diedi fuoco a un

altro pezzo di canfora e continuai a raccogliere legna per il mio falò. Notai

subito che parte del fogliame in alto, era secco perché dal mio arrivo sulla

Macchina del Tempo, una settimana prima, non era caduta una goccia

d’acqua. Così, invece di cercare fra gli alberi i ramoscelli caduti, incomin-

ciai, saltando, a strappare dei rami: ottenni ben presto un fuoco di legna

verde e di rami secchi che faceva un fumo soffocante, e potei economizza-

re la canfora. Poi ritornai dov’era stesa Weena, vicino alla mia sbarra di

ferro. Feci tutto il possibile per rianimarla, ma era come morta. Non riuscii

neppure a rendermi conto se respirasse o no.

Ora il fumo del fuoco veniva spinto verso di me e probabilmente mi

stordì di colpo; inoltre vi erano nell’aria esalazioni di canfora. Il fuoco non

avrebbe avuto bisogno di altra legna per ancora circa un’ora. Mi sentivo

molto stanco dopo gli sforzi e mi sedetti. Anche la foresta era piena di un

mormorio soporifero che non capivo; mi sembrava di assopirmi e di riapri-

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re gli occhi. Ma era buio pesto e su di me avevo le mani dei Morlock. Libe-

randomi dalla stretta delle loro dita, cercai in fretta nella tasca la scatola dei

fiammiferi... era sparita! Poi quei pallidi esseri mi afferrarono ancora. In un

attimo compresi ciò che era accaduto: mi ero addormentato e il fuoco si era

spento. Mi sentii invadere da un’amarezza mortale.

La foresta sembrava piena dell’odore di legna bruciata. Venni afferrato

per il collo, per i capelli, per le braccia e buttato per terra. Era veramente

orribile sentire nell’oscurità tutte quelle creature molli ammucchiate su di

me. Avevo la sensazione di essere preso in un’enorme ragnatela. Ero so-

praffatto e caddi. Mi sentii mordere al collo da piccoli denti appuntiti. Mi

rivoltai e per caso la mia mano urtò contro la sbarra di ferro: ciò mi ridonò

coraggio. Mi rialzai con difficoltà, scuotendomi di dosso quei topi umani e,

tenendo corta la sbarra, colpii dove giudicavo potessero esserci i loro volti.

Sentii la loro carne e le loro ossa cedere sotto i miei colpi e, per un istante,

fui libero.

Mi colse quella strana esultanza che così spesso accompagna la dura lot-

ta. Sapevo che Weena e io eravamo perduti, ma decisi di far pagare ai Mor-

lock la loro carne! Mi appoggiai con la schiena a un albero, brandendo la

mia sbarra di ferro: la foresta intera era piena delle loro grida e del loro tu-

multo. Trascorse un minuto. Le loro voci sembravano levarsi al massimo

grado dell’eccitazione e i loro movimenti diventarono più rapidi: eppure

nessuno si avvicinava. Rimasi a fissare le tenebre; poi, a un tratto, mi tornò

la speranza: e se i Morlock avessero avuto paura? Accadde subito una cosa

strana: sembrò che le tenebre diventassero luminose. Molto confusamente

incominciai a scorgere intorno a me i Morlock - tre massacrati ai miei piedi

- poi vidi, con incredula sorpresa, che gli altri fuggivano con flusso inces-

sante, così mi sembrava, verso il folto della foresta. I loro dorsi non pare-

vano più bianchi, ma rossastri. Mentre me ne stavo a bocca aperta, vidi una

piccola scintilla rossa volteggiare fra i rami, in uno squarcio di cielo stella-

to, e sparire. Compresi allora il significato dell’odore di bosco bruciato, del

mormorio soporifero, che stava diventando un boato fragoroso, del baglio-

re rossastro e della fuga dei Morlock.

Allontanandomi dall’albero e guardando indietro, scorsi, attraverso i ne-

ri tronchi degli alberi più vicini, le fiamme della foresta che bruciava: il

primo fuoco che avevo acceso mi seguiva. Subito cercai Weena, ma non

c’era più. Il sibilo e lo scoppiettio dietro di me, il rumore d’esplosione per

ogni tronco verde che prendeva fuoco, lasciavano poco tempo per riflette-

re. Con la sbarra di ferro ancora stretta in pugno, seguii le tracce dei Mor-

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lock; fu una corsa pazza. A un certo punto le fiamme avanzarono così rapi-

damente alla mia destra, mentre correvo, che ne fui circondato e dovetti ta-

gliare a sinistra. Alla fine giunsi a un piccolo spiazzo aperto e nello stesso

istante, un Morlock corse barcollando verso di me, mi superò e finì diritto

nel fuoco!

Vidi allora la cosa più straordinaria e terribile, credo, fra tutte quelle che

mi fu dato di vedere nell’età futura. Il riflesso dell’incendio rendeva chiaro

come di giorno tutto il luogo. Al centro v’era un monticello o tumulo, co-

perto da un cespuglio di biancospino bruciacchiato. Più in là bruciava un

altro tratto di foresta; gialle lingue di fuoco già salivano contorte formando

tutt’intorno una barriera di’fiamme. Sul pendio circa trenta o quaranta

Morlock, accecati dalla luce e dal calore, correvano alla rinfusa, urtandosi,

in preda allo smarrimento. Dapprima non mi accorsi della loro cecità e,

pazzo di paura, come si avvicinavano, li colpivo furiosamente con la mia

sbarra; ne uccisi uno e ne mutilai parecchi. Ma quand’ebbi osservato i gesti

d’uno di loro, che brancolava sotto il biancospino, contro il cielo rosso, ed

ebbi udito i loro gemiti, mi convinsi della loro assoluta impotenza e del lo-

ro tormento in mezzo alla luce accecante, perciò smisi di colpirli.

Di tanto in tanto, tuttavia, qualcuno correva diritto in mia direzione, su-

scitando in me un fremito d’orrore che mi spingeva a sfuggirlo. A un dato

momento le fiamme si abbassarono alquanto e temetti che quegli esseri re-

pellenti mi vedessero subito. Pensai persino di riprendere la lotta e di ucci-

derne qualcuno prima che ciò potesse accadere, ma il fuoco si ravvivò e io

attesi. Vagavo intorno alla collina in mezzo a loro, evitandoli; cercavo

qualche traccia di Weena. Ma Weena era sparita.

Infine mi sedetti sulla cima del monticello, osservando quello strano, in-

credibile gruppo di esseri ciechi che andavano qua e là a tastoni, lancian-

dosi l’un l’altro orribili grida quando il bagliore del fuoco li investiva.

Spesse volute di fumo fluttuavano nel cielo e, attraverso i rari squarci di

quell’immensa volta rossa, lontane, quasi appartenessero a un altro univer-

so, brillavano le piccole stelle. Due o tre Morlock, barcollando, urtarono

contro di me; li respinsi, tremando, a colpi di pugno.

Per la maggior parte della notte ebbi la certezza d’essere in preda a un

incubo. Mi morsi, urlai, desiderando con tutte le mie forze di svegliarmi.

Battevo il suolo con le mani, mi alzavo, mi risedevo, vagavo senza meta e

mi risedevo ancora. Giunsi persino a stropicciarmi gli occhi e a implorare

Dio di farmi svegliare. Tre volte vidi dei Morlock abbassare la testa in una

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specie d’agonia e lanciarsi nelle fiamme. Ma alla fine, al di sopra degli ul-

timi bagliori dell’incendio, al di sopra delle ultime masse fluttuanti di fumo

nero, dei tronchi d’albero semianneriti, al di sopra di quelle livide creature

diminuite di numero, si levò la bianca luce del giorno.

Cercai di nuovo tracce di Weena, ma non ne trovai: era chiaro che i

Morlock avevano abbandonato il suo povero corpicino nella foresta. Non

posso dire quanto mi sentissi sollevato all’idea che ella fosse scampata

all’orribile destino che sembrava esserle riservato. Pensando a ciò fui quasi

sul punto d’iniziare il massacro di quegli impotenti, abominevoli esseri che

ancora mi stavano intorno, ma mi seppi frenare. Quel monticello, come di-

cevo, era una specie d’isolotto nella foresta; dalla sua cima potevo ora di-

stinguere, attraverso il denso fumo, il Palazzo di Porcellana Verde e ciò mi

permise di ritrovare il sentiero verso la Bianca Sfinge. Abbandonai allora

le altre anime dannate che ancora si trascinavano qua e là, gemendo, men-

tre il giorno si faceva sempre più chiaro, mi fasciai i piedi con qualche

ciuffo d’erba, passai zoppicando fra le ceneri che facevano fumo, fra i

tronchi neri che ancora ardevano internamente e mi diressi al nascondiglio

della Macchina del Tempo. Camminavo lentamente perché ero quasi esau-

sto oltreché zoppicante; inoltre mi sentivo profondamente infelice per

l’orribile morte di Weena che mi sembrava un’insopportabile calamità. O-

ra, in questa vecchia stanza familiare, mi sembra più il dolore di un sogno

che una perdita vera. Ma quel mattino la sua scomparsa mi lasciò nuova-

mente e terribilmente solo. Incominciai a pensare a questa casa, a questo

focolare e a qualcuno di voi; ebbi desiderio di tutte queste cose, un deside-

rio che era sofferenza.

Mentre camminavo fra le ceneri che facevano fumo sotto il cielo lumi-

noso del mattino, feci una scoperta: nella tasca dei miei calzoni vi erano

ancora dei fiammiferi sciolti. Probabilmente la scatola si era rotta prima

che la perdessi.

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Capitolo XII

LA TRAPPOLA DELLA BIANCA SFINGE

Verso le otto o le nove del mattino, arrivai a quello stesso sedile di me-

tallo giallo, da dove, la sera del mio arrivo, avevo osservato quel mondo.

Pensai alle mie affrettate conclusioni di quella sera e non potei trattenermi

dal ridere amaramente di tanto ottimismo. Vidi ancora lo stesso magnifico

paesaggio, lo stesso abbondante fogliame, gli stessi splendidi palazzi, le

stesse imponenti rovine, lo stesso fiume argenteo che scorreva fra fertili

sponde. Le belle creature dalle vesti vivaci si muovevano qua e là fra gli

alberi. Qualcuna faceva il bagno proprio nel posto dove avevo salvato We-

ena: ciò fu per me una pugnalata improvvisa. Come macchie sul paesaggio,

si elevavano le cupole al di sopra dei passaggi che conducevano al mondo

sotterraneo. Ora comprendevo che cosa coprisse la bellezza delle creature

del mondo in superficie. La giornata trascorreva piacevolmente per loro,

come per il bestiame nei campi: come il bestiame non conoscevano nemici

e non si preoccupavano delle necessità della vita. La loro fine era la stessa.

Mi rattristai pensando a com’era stato breve il sogno dell’intelletto u-

mano: si era effettivamente ucciso. Con tenacia si era avviato verso il be-

nessere e le comodità, verso una società equilibrata, le cui parole d’ordine

erano “sicurezza” e “stabilità”; aveva realizzato le sue speranze per poi ar-

rivare a questo. Un tempo, la vita e la proprietà dovevano avere raggiunto

una tranquillità quasi assoluta. Il ricco era sicuro della sua ricchezza e del

suo benessere, il lavoratore della sua vita e del suo lavoro. Senza dubbio, in

quel mondo perfetto, non v’erano problemi di disoccupazione o questioni

sociali insolute. Ne era seguita una grande tranquillità.

Per una legge naturale che trascuriamo, la versatilità dell’intelletto è il

compenso ai mutamenti, ai pericoli e alle difficoltà. Un animale in armonia

perfetta con il suo ambiente è un perfetto meccanismo; la natura non fa mai

appello all’intelligenza fino a quando l’abitudine e l’istinto non diventano

insufficienti. Non v’è intelligenza là dove non vi sono mutamenti o neces-

sità di mutamenti; hanno intelligenza solo quegli animali che devono af-

frontare necessità di diverso genere e pericoli.

Così, secondo il mio punto di vista, gli abitanti del mondo in superficie

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erano giunti gradatamente a uno stato di bellezza e di impotenza, e quelli

del mondo sotterraneo si erano ridotti ad esercitare una pura funzione mec-

canica. Ma a questo stato perfetto mancava una cosa per raggiungere la

perfezione meccanica: la stabilità assoluta. Evidentemente, con l’andare

del tempo, la nutrizione del mondo sotterraneo, comunque fosse effettuata,

era diventata irregolare. Madre “necessità”, ch’era stata allontanata per al-

cune migliaia d’anni, ritornò e riprese la sua opera nel sottosuolo. Il mondo

sotterraneo, essendo a contatto con le macchine che, per quanto perfette,

richiedono ancora qualche piccolo sforzo di pensiero al di fuori del lavoro

abituale, aveva probabilmente conservato, per forza di cose, un po’ più

d’iniziativa e meno delle altre qualità umane, del mondo in superficie. E

quando venne a mancare carne di altro genere, ritornò a ciò che un’antica

abitudine aveva fino allora vietato. Questa, vi dico, è l’idea che mi feci

quando vidi per l’ultima volta il mondo dell’802.701. Può darsi che sia

l’interpretazione più falsa che possa dare l’ingegno umano, ma così mi so-

no apparse le cose e così le espongo a voi.

Dopo le fatiche, le emozioni, le paure dei giorni precedenti e nonostante

il mio dolore, il posto dov’ero seduto, il tranquillo paesaggio e il sole caldo

erano molto piacevoli. Ero stanchissimo, avevo molto sonno e ben presto

passai dalle meditazioni all’assopimento. Accorgendomene, mi decisi a

stendermi sul tappeto erboso e a fare un lungo sonno ristoratore.

Mi risvegliai un po’ prima del tramonto. Ora non temevo più d’essere

sorpreso dai Morlock nel sonno; mi stirai, discesi la collina, dirigendomi

alla Bianca Sfinge. Avevo in una mano la sbarra e con l’altra giocherellavo

con i fiammiferi che avevo in tasca.

Accadde allora la cosa più imprevista. Avvicinandomi al piedestallo

della Sfinge, trovai i battenti di bronzo aperti: li avevano fatti scorrere nelle

guide.

Vedendo ciò, mi fermai di colpo, incerto se entrare o no. Nell’interno

v’era una piccola stanza e, sollevata da terra, nell’angolo, vidi la Macchina

del Tempo. Avevo in tasca le piccole leve. Così, dopo tutti i miei minuziosi

preparativi per stringere d’assedio la Bianca Sfinge, mi trovavo di fronte a

un’umile capitolazione. Gettai via la sbarra di ferro, quasi dispiaciuto di

non doverla usare.

Mi venne un pensiero improvviso mentre mi chinavo verso la porta. Per

lo meno una volta avevo capito il ragionamento dei Morlock. Dominando

il forte desiderio di ridere, oltrepassai la soglia e avanzai fino alla macchi-

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na. Mi stupii di trovarla oliata e pulita con cura. Sospetto, da allora, che i

Morlock l’avessero anche in parte fatta a pezzi per tentare di capirne, se-

condo il loro modo confuso, lo scopo.

Mentre la esaminavo e provavo piacere solo a toccare la mia invenzio-

ne, accadde ciò che mi aspettavo. I battenti di bronzo risalirono colpendo il

telaio con un rumore metallico. Ero in trappola: così credevano i Morlock,

e io ne risi sommessamente e di cuore.

Potevo già sentire le loro risa soffocate mentre si avvicinavano. Con

molta calma cercai di accendere un fiammifero; dovevo solo fissare le leve

e sparire come un fantasma. Ma avevo trascurato un particolare: i fiammi-

feri erano di quell’odioso tipo che si accendono soltanto se strofinati sulla

loro scatola.

Potete immaginare come la mia calma svanisse; i piccoli bruti mi erano

vicinissimi. Uno mi toccò. Con le leve sferrai un rapido colpo, al buio, e

incominciai ad arrampicarmi sul sedile della macchina. Una mano, poi

un’altra si posarono su di me. Dovevo dunque difendere dalle loro dita o-

stinate le leve e, nello stesso tempo, cercare a tastoni i perni su cui appli-

carle; per la verità quasi me ne strapparono una: come mi scivolò di mano,

dovetti dare un colpo di testa nel buio (sentii risuonare il cranio di un Mor-

lock) per riprenderla. Quest’ultima lotta fu, credo, più serrata di quella nel-

la foresta.

Ma alla fine riuscii a fissare la leva e a metterla in posizione di marcia.

Le mani che mi stringevano si staccarono. L’oscurità diminuì e io mi ritro-

vai nella stessa luce grigia e nello stesso tumulto che vi ho già descritto.

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Capitolo XIII

ULTIMA VISIONE

Vi ho già detto quali sensazioni di nausea e di confusione dia il viaggia-

re nel Tempo. Questa volta non ero seduto bene sul sedile, ma spostato da

un lato e in posizione instabile. Per un tempo indefinito mi aggrappai alla

macchina che oscillava e vibrava, completamente incurante della velocità

alla quale andavo e, quando mi decisi a osservare i quadranti, rimasi stupi-

to di vedere dov’ero arrivato. Un quadrante indicava i giorni; un altro le

migliaia di giorni, un terzo i milioni e l’ultimo le migliaia di milioni di

giorni. Invece di innestare la retromarcia, avevo innestato la marcia avanti

e, quando guardai gli indicatori, vidi che la lancetta delle migliaia girava

verso il futuro con la velocità della lancetta dei secondi di un orologio.

Mentre procedevo, l’aspetto delle cose a poco a poco mutò stranamente.

Il grigiore tremolante si fece più scuro, poi, sebbene viaggiassi ancora a ve-

locità prodigiosa, il balenante succedersi del giorno e della notte, che di so-

lito indicava un rallentamento di velocità, riprese diventando sempre più

marcato. Dapprima ciò mi rese molto perplesso. Il susseguirsi del giorno e

della notte si fece più lento come pure il passaggio del sole nel cielo, fin-

ché essi sembrarono allungarsi nei secoli. Alla fine un crepuscolo continuo

avvolse la terra, interrotto solo di tanto in tanto, quando una cometa attra-

versava luminosa il cielo cupo. La fascia di luce, che una volta indicava il

sole, era da lungo tempo scomparsa perché il sole non tramontava più: si

sollevava e si abbassava per qualche istante all’ovest ed era diventato più

grande e più rosso; della luna nessuna traccia; il movimento delle stelle era

sempre più lento, e gli astri ormai erano solo dei punti luminosi che avan-

zavano quasi impercettibilmente. Infine, poco prima che mi fermassi, il so-

le, rosso, enorme, si arrestò immobile sulla linea dell’orizzonte, simile a

una vasta cupola infuocata per il calore soffocante, e di tanto in tanto subi-

va qualche passeggera estinzione. Una volta sola, per un po’, brillò di nuo-

vo più luminoso, ma riprese ben presto il suo colore rosso lugubre. Dal ral-

lentarsi del suo sorgere e del suo calare mi resi conto che non vi era più il

flusso e il riflusso della marea. La terra ormai riposava con una faccia ri-

volta al sole, proprio nella stessa posizione in cui oggigiorno si trova la lu-

na rispetto alla terra. Con molta prudenza, ricordando la mia prima caduta

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a testa in giù, incominciai a invertire la direzione. Le lancette girarono

sempre più lentamente, finché quella delle migliaia parve immobile e quel-

la dei giorni smise di essere solo una nebbia confusa sul quadrante; giraro-

no ancora più lentamente finché diventarono visibili i contorni indistinti

d’una spiaggia desolata.

Mi fermai dolcemente e, seduto sulla Macchina del Tempo, mi guardai

intorno. Il cielo non era più azzurro: verso nord-est era color nero inchio-

stro e, in quell’oscurità, splendevano luminose e ferme le pallide, bianche

stelle; sopra di me invece era senza stelle e d’un color rosso cupo; verso

sud-est diventava più chiaro, mutandosi in color rosso fuoco là dove, ta-

gliato dalla linea dell’orizzonte, vi era l’enorme disco del sole, rosso e im-

mobile. Le rocce intorno a me erano di un crudo colore rossastro e l’unica

traccia di vita che potei a prima vista scorgere, fu la vegetazione d’un ver-

de intenso che ricopriva ogni punto sporgente delle rocce dal lato sudest.

Era lo stesso verde intenso dei muschi delle foreste e dei licheni delle grot-

te: piante che, come quelle, crescono in un perpetuo crepuscolo.

La macchina era ferma su una spiaggia in discesa. Il mare si stendeva

lontano verso sud-ovest, sollevandosi fino alla linea dell’orizzonte netta e

brillante, contro il pallido cielo. Non v’erano onde né frangenti perché non

spirava neppure un alito di vento; solo una leggera e oleosa ondulazione

s’alzava e s’abbassava come un respiro gentile, quasi a mostrare che il ma-

re eterno si muoveva ancora ed era vivo. Lungo la riva, dove l’acqua alcu-

ne volte si frangeva, v’era una spessa crosta di sale, rosa sotto il cielo livi-

do. Avvertivo un senso di pesantezza al capo e notai che il mio respiro era

molto frequente. Tale sensazione mi ricordò la mia unica esperienza

d’alpinismo, e da ciò dedussi che l’aria doveva essere molto più rarefatta di

oggigiorno.

Lontanissimo, sul desolato pendio, udii un grido aspro e acuto e scorsi

una cosa simile a un’immensa farfalla bianca volare obliqua nel cielo bat-

tendo le ah, e sparire volteggiando dietro alcune basse collinette. Quel gri-

do era così lugubre che tremai e mi sedetti più saldamente sul sedile. Guar-

dandomi ancora intorno, vidi che ciò che avevo scambiato per un masso

rossastro di roccia, s’avanzava lentamente verso di me. Notai allora che si

trattava veramente di una mostruosa creatura che assomigliava a un gran-

chio. Immaginate un granchio largo come questa tavola, con le numerose

zampe che si muovevano lente e incerte agitando le enormi chele, con le

lunghe antenne, simili a fruste di carrettieri, ondeggianti e sensibili, e con

gli occhi sporgenti che vi fissavano da entrambi i lati della fronte metallica.

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La corazza era rugosa, coperta di protuberanze sgraziate e punteggiata qua

e là da incrostazioni verdastre. I numerosi palpi della sua bocca complicata

vibravano, brancicando, mentre si muoveva.

Stavo fissando la sinistra apparizione che strisciava verso di me, quando

sentii un solletico sulla guancia, come se vi si fosse posata una mosca.

Tentai di allontanarla con la mano, ma essa ritornò dopo un attimo e, quasi

subito, un’altra si posò vicino al mio orecchio. La colpii e afferrai una spe-

cie di filamento che mi scivolò rapidamente di mano. Con un senso di nau-

sea e di paura, mi voltai e vidi che avevo afferrato l’antenna di un altro

granchio mostruoso che stava dietro di me. Gli occhi cattivi oscillavano sui

loro tentacoli, la bocca sembrava animata da un grande appetito e le larghe

e goffe chele imbrattate di melma d’alga, stavano scendendo su di me. In

un istante misi la mano sulla leva, e in breve posi un mese di distanza fra

me e quei mostri. Ma ero ancora sulla medesima spiaggia e, appena

m’arrestai, li potei vedere distintamente. Sembrava che strisciassero a doz-

zine da ogni parte nell’incerta luce fra la vegetazione di un verde intenso.

Non mi è possibile descrivervi la sensazione di disgusto e di desolazio-

ne che incombeva sul mondo. Il cielo rosso a oriente, le tenebre verso nord,

quel salato “mar morto”, la spiaggia rocciosa brulicante di quegli immondi

mostri che si muovevano lentamente, il verde uniforme e l’aspetto veleno-

so dei licheni, l’aria sottile che feriva i polmoni: tutto contribuiva a produr-

re un effetto terrificante. Avanzai ancora di un secolo e trovai sempre lo

stesso sole rosso, un po’ più grande, un po’ più offuscato, lo stesso mare

senza vita, la stessa aria glaciale, la stessa moltitudine di crostacei terrestri

che strisciavano qua e là fra le erbacce verdi e le rocce rossastre. Nel cielo,

verso ovest, vidi una pallida linea ricurva che assomigliava a un’immensa

luna nuova.

Così viaggiai, fermandomi di tanto in tanto, avanzando migliaia d’anni e

forse più alla volta, attratto dal mistero del destino della terra; osservavo

con strana meraviglia il sole, che diventava più grande e più offuscato nel

cielo verso ponente, e la vita della vecchia terra che si andava spegnendo.

Infine, a più di trenta milioni d’anni da oggi, l’immensa cupola infuocata

del sole era arrivata a nascondere quasi la decima parte dei cieli tenebrosi.

Mi fermai una volta ancora: la strisciante moltitudine dei granchi era

scomparsa, e la spiaggia rossastra (a parte le epatiche e i licheni d’un verde

livido) sembrava senza vita ed era ora ricoperta di un leggero strato bianco;

sentii un freddo intenso; rari fiocchi bianchi cadevano di tanto in tanto,

turbinando. Verso nord-est vedevo il riverbero della neve sotto le stelle che

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brillavano in un cielo color sabbia e scorgevo le creste ondulate delle colli-

nette bianco-rosato. Le rive del mare erano bordate di ghiaccio, ed enormi

massi di ghiaccio galleggiavano più lontano, ma quasi tutta la distesa

dell’oceano salato, color sangue sotto l’eterno tramonto, non era ancora ge-

lata.

Mi guardai intorno per vedere se restava qualche traccia di vita animale:

un certo indefinibile timore mi trattenne sul sedile della macchina; ma non

vidi muoversi nulla, né sulla terra, né in cielo, né in mare. Solo il limo ver-

de sulle rocce testimoniava che la vita non era ancora scomparsa. Un basso

banco di sabbia era emerso dal mare e l’acqua si era ritirata dalla spiaggia.

Mi sembrò di scorgere qualcosa di nero muoversi sul banco, ma, come

l’osservai, diventò immobile; credetti che i miei occhi si fossero ingannati

e che la cosa nera fosse soltanto una roccia. Le stelle in cielo erano molto

luminose e mi sembrava che tremolassero pochissimo.

A un tratto notai che il contorno circolare del sole, verso ovest, era

cambiato e che era apparsa sulla curva una cavità, una baia; la vidi ingran-

dirsi: per un minuto, forse, fissai atterrito quelle tenebre che coprivano len-

tamente la luce del giorno, poi compresi che incominciava un’eclissi. La

luna o il pianeta Mercurio stavano passando davanti al disco del sole; dap-

prima naturalmente pensai che fosse la luna, ma molti elementi mi induco-

no a credere che ciò che vidi era in realtà un pianeta più interno che stava

passando molto vicino alla terra.

L’oscurità cresceva rapidamente, un vento gelido incominciò a soffiare

da est con fredde raffiche e, i fiocchi bianchi nell’aria s’erano fatti più fitti.

Dalla riva giungevano il gorgoglio e il mormorio del mare: a parte questi

suoni inanimati il mondo era avvolto nel silenzio. Nel silenzio? Sarebbe

difficile descrivervi quella calma. Erano spariti tutti i rumori del nostro

mondo, il belare dei greggi, il canto degli uccelli, il ronzio degli insetti, e

tutti i rumori che fanno da sfondo alla nostra vita. Mentre l’oscurità diven-

tava più profonda, i fiocchi turbinosi, danzando davanti ai miei occhi, ca-

devano più abbondanti e il freddo dell’aria si faceva più intenso. Alla fine,

una dopo l’altra, in brevissimo tempo, le cime bianche delle colline lontane

svanirono nelle tenebre; la brezza si mutò in un vento gemente. Vidi la ne-

ra ombra centrale dell’eclissi muoversi rapidamente verso di me. Un attimo

dopo erano visibili solo le pallide stelle; tutto il resto era triste oscurità. Il

cielo divenne completamente nero.

Fui preso da un senso di orrore per quelle tenebre immense. Il freddo

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che mi penetrava nelle ossa e il dolore che sentivo a respirare mi sopraffe-

cero. Tremai e mi venne una nausea insopportabile. Poi, come un grande

arco infuocato, apparve nel cielo il contorno del sole. Scesi dalla macchina

per riprendermi: mi sentivo stordito e incapace d’affrontare il viaggio di

ritorno. Mentr’ero in piedi, sofferente e disorientato, vidi nuovamente la

cosa, che si muoveva sul banco di sabbia (non v’era dubbio ora che fosse

qualcosa che si muoveva) contro l’acqua rossa del mare. Era una cosa ro-

tonda della grossezza d’un pallone da football forse, o anche di più, dalla

quale uscivano dei tentacoli; sembrava nera di fronte al color rosso sangue

dell’acqua e saltellava qua e là a balzi irregolari. Mi sentii quasi svenire,

ma la paura terribile di rimanere indifeso in quel lontano, spaventoso cre-

puscolo mi sostenne mentre risalivo in macchina.

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Capitolo XIV

IL RITORNO DEL VIAGGIATORE NEL TEMPO

Così ritornai. Devo essere rimasto a lungo svenuto sulla macchina. Il

rapido succedersi dei giorni e delle notti riprese; di nuovo il sole ridiventò

dorato e il cielo azzurro. Respirai più facilmente. I contorni fluttuanti della

terra si abbassarono e sparirono. Le lancette dei quadranti girarono in senso

contrario. Infine rividi i profili confusi delle case, le testimonianze della

decadenza dell’umanità. Anche queste visioni mutarono, passarono e altre

ne seguirono. Poco dopo, quando il quadrante dei milioni segnò zero, di-

minuii la velocità. Incominciai a riconoscere la nostra modesta architettura

familiare; la lancetta della migliaia ritornò al punto di partenza; i giorni e le

notti si alternarono sempre più lentamente. Poi mi vidi intorno i vecchi mu-

ri del laboratorio: allora, molto dolcemente, rallentai la macchina.

Osservai un particolare che mi sembrò strano. Credo di avervi detto che

quando partii, prima che la mia velocità diventasse molto alta, mi sembrò

che la signora Watchett attraversasse la stanza come un razzo. Al mio ri-

torno passai di nuovo nel minuto in cui ella aveva attraversato il laborato-

rio. Ma questa volta ogni suo movimento parve esattamente l’opposto di

quelli precedenti. La porta in fondo si aprì, ella scivolò tranquillamente nel

laboratorio, ma in senso contrario, e disparve dietro la porta da cui era en-

trata la volta precedente. Un istante prima mi era sembrato di vedere Hil-

lver per un attimo; ma passò come un lampo.

Fermai la macchina e mi trovai di nuovo nel vecchio e familiare labora-

torio, fra i miei strumenti e i miei apparecchi, proprio come li avevo lascia-

ti. Scesi barcollando e mi lasciai cadere sul banco; per parecchi minuti fui

scosso da un tremito violento, poi mi calmai. Intorno a me il vecchio labo-

ratorio era esattamente come prima. Forse mi ero addormentato là e tutto

era un sogno.

Eppure no! La macchina era partita dall’angolo sudest del laboratorio e

ora si era venuta a fermare a nord-ovest, contro il muro, dove l’avete vista

voi; ed è questa la distanza esatta che separava il prato dal piedestallo della

Bianca Sfinge nell’interno del quale i Morlock avevano trasportato la mac-

china.

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Per un po’ il mio cervello rimase intorpidito; poi mi alzai, attraversai il

corridoio e venni qui zoppicando, perché il calcagno mi faceva ancora ma-

le e mi sentivo assai sporco. Sulla tavola, vicino alla porta, vidi la Pall

Mall Gazette. La data è proprio quella di oggi. Guardando l’orologio a

pendolo, mi accorsi che segnava quasi le otto; udii le vostre voci e il rumo-

re dei piatti; esitai: mi sentivo così debole e sofferente. Poi sentii un buono

e sano odore di carne, e aprii la porta. Il resto lo sapete: mi lavai, pranzai, e

ora sto raccontandovi la mia storia.

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Capitolo XV

DOPO LA STORIA

— So — disse dopo una pausa — che tutto sarà per voi assolutamente

incredibile; ma per me l’unica cosa incredibile è d’essere qui, questa sera,

in questa vecchia stanza familiare, di guardare i vostri volti amici e di rac-

contarvi queste strane avventure. — Guardò il Medico. — No, non posso

aspettarmi che lei mi creda. La prenda come una menzogna o una profezia.

Dica che ho fatto un sogno nel laboratorio. Pensi che ho meditato sul desti-

no della nostra razza fino ad elaborare questa finzione. Tutto è verità, ma

consideri la mia affermazione come un semplice tocco geniale per aumen-

tare l’interesse del racconto. E come storia, che cosa ne pensa?

Prese la pipa e incominciò, secondo la sua vecchia abitudine, a dare dei

piccoli colpi nervosi sulla grata del caminetto. Vi fu un momento di silen-

zio, poi le sedie incominciarono a scricchiolare e i piedi a strisciare sul

tappeto. Distolsi lo sguardo dal volto del Viaggiatore nel Tempo ed esami-

nai i suoi ascoltatori: erano tutti nell’ombra e piccole macchie di colore

ondeggiavano davanti a loro; il Medico sembrava assorto nella contempla-

zione del nostro ospite; il Redattore Capo fissava la punta del suo sigaro, il

sesto; il Giornalista cercava a tastoni l’orologio e gli altri, se ben mi ricor-

do, erano immobili.

Il Redattore Capo si alzò sospirando. — Che peccato che non sia un no-

velliere, — disse, posando una mano sulla spalla del Viaggiatore nel Tem-

po.

— Non ci crede?

— Ma...

— Lo sapevo che non ci avrebbe creduto. — Il Viaggiatore nel Tempo

si volse verso di noi. — Dove sono i fiammiferi? — chiese. Ne accese uno

e parlò al di sopra della sua pipa, tirando boccate di fumo. — Per la veri-

tà... stento a credervi io stesso... Tuttavia...

Fissò lo sguardo con aria di muta domanda sui fiori bianchi e appassiti

posati sulla piccola tavola; poi si guardò la mano che teneva la pipa, e notai

che esaminava qualche cicatrice, quasi guarita, sulle nocche.

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Il Medico si alzò, si diresse verso la lampada ed esaminò i fiori. — Il pi-

stillo è strano, — disse. Lo Psicologo si sporse a guardare, allungando la

mano per prendere l’altro esemplare.

— Diavolo! È già la una meno un quarto, — disse il Giornalista. —

Come faremo a ritornare a casa?

— Vi sono molte vetture alla stazione, — rispose lo Psicologo.

— È curioso, — disse il Medico, — ma sono sicuro di non sapere a che

famiglia appartengano questi fiori. Posso tenermeli?

Il Viaggiatore nel Tempo esitò. Poi improvvisamente:

— No, certo!

— Dove li ha realmente presi? — domandò il Medico.

Il Viaggiatore nel Tempo portò la mano alla fronte e parlò come uno

che cerca di seguire un’idea che gli sfugge.

— Weena me li mise in tasca, durante il mio viaggio nel Tempo. — E

girò lo sguardo intorno alla stanza.

— Al diavolo! se capisco ancora qualcosa. Questa stanza e voi, e

l’atmosfera di tutti i giorni: è troppo per la mia memoria. Ho mai costruito

una Macchina del Tempo, o il modello di una Macchina del Tempo? Op-

pure è tutto solamente un sogno? Si dice che la vita sia un sogno, un pove-

ro sogno troppo caro, a volte, ma non posso concepirne uno diverso. È fol-

lia. E da dov’è sorto questo sogno?... Devo andare a vedere la macchina...

Se ve n’è una.

Afferrò di colpo la lampada, usci dalla porta e andò nel corridoio che

s’illuminò di una debole luce rossa. Lo seguimmo e, sotto la luce tremolan-

te della lampada, vi era, sono sicuro, la macchina: tozza, brutta e storta, in

ottone, ebano, avorio e quarzo traslucido scintillante. Dura al tatto (allun-

gai infatti la mano e toccai la parte metallica), aveva chiazze scure e mac-

chie sull’avorio, fili d’erba e di muschio in basso, e una sbarra contorta.

Il Viaggiatore nel Tempo posò la lampada sul banco e passò la mano

sulla sbarra danneggiata. — Ora va tutto bene, — disse. — La storia che vi

ho raccontato era vera. Mi spiace di avervi condotto qui, al freddo. — Ri-

prese la lampada e, in assoluto silenzio, ritornammo tutti nella sala da fu-

mo.

Egli ci accompagnò nell’atrio e aiutò il Redattore Capo a infilarsi il so-

prabito. Il Medico gli esaminò a fondo il volto e, con una certa esitazione,

gli disse che risentiva delle conseguenze dell’eccessiva fatica, ed egli rise

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di tutto cuore. Lo ricordo, in piedi sulla soglia, mentre ci augurava la buona

notte.

Presi una vettura con il Redattore Capo; egli considerava la storia una

«brillante bugia». Da parte mia non riuscivo a giungere a una conclusione:

la storia era così fantastica e inverosimile, e il modo con cui era raccontata,

così verosimile e misurato. Rimasi sveglio quasi tutta notte a pensarvi e

decisi di andare a trovare di nuovo il Viaggiatore nel Tempo il giorno se-

guente. Mi fu detto che si trovava nel laboratorio e, poiché ero di casa, an-

dai direttamente da lui. Ma il laboratorio era deserto. Esaminai un momen-

to la Macchina del Tempo, allungai la mano e toccai delicatamente la leva.

Immediatamente quella massa tozza e dall’aspetto solido oscillò come un

ramo scosso dal vento. La sua instabilità mi spaventò moltissimo; mi ricor-

dai stranamente la mia infanzia, quando mi si proibiva di toccare tutto. Ri-

tornai indietro attraverso il corridoio. Il Viaggiatore nel Tempo mi venne

incontro nella sala da fumo. Veniva dalla casa. Aveva sotto un braccio una

macchina fotografica e sotto l’altro uno zaino Sorrise, vedendomi, e mi te-

se il gomito per salutarmi. — Sono — mi disse — estremamente occupato

con quell’arnese là dentro.

— Ma non si tratta di qualche scherzo? — domandai. — Realmente

viaggia nel Tempo?

— Sì, realmente.

Mi fissò con franchezza negli occhi. Esitò. Il suo sguardo vagò nella

stanza.

— Ho bisogno solo di mezz’ora, — disse. — So per che cosa è venuto,

ed è da parte sua molto gentile. Eccole qualche rivista. Se rimarrà a cola-

zione, le dimostrerò che in questo tempo ho viaggiato, portandole prove,

esemplari e tutto il resto. Mi scusa se ora la lascio?

Acconsentii, non comprendendo tutto il significato delle sue parole, ed

egli con un cenno del capo prosegui lungo il corridoio. Sentii sbattere la

porta del laboratorio, mi sedetti in poltrona e presi un quotidiano. Che cosa

avrebbe fatto prima dell’ora di colazione? Poi, a un tratto, mi ricordai,

guardando un’inserzione, che avevo promesso di trovarmi alle due con Ri-

chardson, il Redattore Capo. Guardai l’orologio e vidi che difficilmente a-

vrei potuto mantenere l’impegno. Mi alzai, andai nel corridoio per avvisare

il Viaggiatore nel Tempo.

Nel momento in cui mettevo la mano sulla maniglia della porta, udii

un’esclamazione stranamente interrotta, un suono metallico e un colpo sor-

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do; una folata d’aria mi turbinò intorno quando aprii la porta, e dall’interno

giunse un rumore di vetri rotti che cadevano sul pavimento. Il Viaggiatore

nel Tempo non c’era. Per un momento mi sembrò di scorgere una figura

spettrale e indistinta, seduta su una massa nera e gialla che girava vortico-

samente, una figura così trasparente che dietro di essa si vedeva distinta-

mente il banco con i fogli da disegno. Ma quel fantasma svanì come mi

stropicciai gli occhi. La Macchina del Tempo era sparita; a parte una nuvo-

letta di polvere provocata dal movimento, la parete più lontana del labora-

torio era vuota. Evidentemente doveva essersi appena frantumato un vetro

del lucernario.

Fui preso da un irragionevole sgomento. Capivo che qualcosa di strano

era accaduto e per il momento non riuscivo a intuire che cosa fosse. Mentre

me ne stavo in piedi, con lo sguardo fisso, la porta del giardino s’aprì e il

domestico apparve.

Ci guardammo. Poi mi ritornarono le idee.

— È uscito da questa parte il signor ...? — chiesi.

— No, signore, nessuno è uscito di là. Credevo di trovare qui il signore.

Allora compresi. Richardson poteva impazientirsi. Io rimanevo ad a-

spettare il Viaggiatore nel Tempo: ad aspettare il secondo racconto, forse

ancora più strano, le fotografie, gli esemplari che avrebbe portato. Ma in-

comincio ora a temere di doverlo attendere tutta la vita. Il Viaggiatore nel

Tempo scomparve tre anni fa, come tutti sanno, e non è più ritornato.

Page 87: 1996-Herbert G. Wells La Macchina Del Tempo

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EPILOGO

Non rimane che chiederci se un giorno ritornerà. Può darsi che si sia di-

retto nel passato e sia capitato fra gli irsuti selvaggi bevitori di sangue

dell’età della pietra; o negli abissi del mare cretaceo; oppure fra i grotteschi

sauri, gli enormi rettili dell’epoca giurassica. Può darsi anche che ora (se

posso usare l’espressione) stia vagando su qualche scoglio oolitico di co-

rallo, popolato di plesiosauri, o sulle rive dei solitari mari salati dell’età

triassica. Oppure si è diretto forse verso il futuro, in una delle età più vicine

alla nostra, in cui gli uomini sono ancora uomini, ma gli enigmi della no-

stra epoca e i suoi penosi problemi sono risolti? Nella maturità della razza

voglio dire: da parte mia, infatti, non posso credere che questi ultimi tempi,

di timidi esperimenti, di teorie frammentarie e di mutua discordia, siano

veramente il massimo cui può giungere l’uomo. Dico, da parte mia. Egli, lo

so - la questione era stata lungamente discussa fra noi molto tempo prima

che costruisse la macchina - pensava solo con tristezza al progresso

dell’umanità e non vedeva nella crescente ricchezza della civiltà, che un

assurdo accumulare inevitabilmente destinato, alla fine, a ricadere sui suoi

creatori e a distruggerli. Se è così, non ci resta che vivere come se così non

fosse. Ma per me il futuro è ancora nero e vuoto; è un’immensa ignoranza,

illuminata, per caso, in qualche punto dal ricordo del suo racconto. Con-

servo a mia consolazione due strani fiori bianchi - ora avvizziti, scuri, sen-

za più spessore e fragili - a testimoniare che anche quando l’intelligenza e

la forza saranno scomparse, la gratitudine e il reciproco affetto vivranno

ancora nel cuore dell’uomo.