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Anno XII, n. 2 - 2010 Periodico di Ateneo Tae e kai L’Ara Pacis di Augusto L’importanza di chiamarsi zinco eriodico di P Ateneo eriodico di Anno XII, n. 2 - 2010 Anno XII, n. 2 - 2010

2 &, *8$5'$host.uniroma3.it/riviste/romatrenews/download/DEF per WEBroma3news_2_20102.pdfnostra ambrosia di omerica memoria. È un cibo spiritua-le, un elisir di lunga vita, una medicina

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Anno XII, n. 2 - 2010Periodico di Ateneo

Tae e kai

L’Ara Pacis di Augusto

L’importanza di chiamarsi zinco

eriodico diP Ateneoeriodico di Anno XII, n. 2 - 2010 Anno XII, n. 2 - 2010

SommarioEditoriale 3

Primo pianoTae e kai 5Siamo complicati consumatori di cibodi Paolo Apolito Dalla fattoria alla tavola 8Il sistema giuridico europeo della filiera agroalimentare di Giandonato Caggiano 2800 kilocalorie pro capite! 10Se la sicurezza alimentare non è più solo una questionedi disponibilità di cibodi Pasquale De Muro La cena di Trimalcione 12Cibo e parola in Petroniodi Mario De NonnoL’etichetta a tavola: dai romani al Galateo di Giovanni Della Casa 15di Maria Vittoria Marraffa L’Ara Pacis di Augusto 17Comunicare attraverso le immagini della naturadi Giulia Caneva

L’importanza di chiamarsi zinco 21L’insospettabile ruolo di un metallo nell’alimentazionedi Marco Colasanti e Daniela VonaSei davvero sicura di non volere un’altra fetta di torta? 24Sulle implicazioni sociali del mettersi a dietadi Laura Terragni Il menù dello studente 26Come si mangia nelle mense universitariedi Gianpiero GamaleriCorpo e cibo 27Quell’insostenibile pesantezza dell’Esseredi Gessica CuscunàCampi energetici 30I biocarburanti: un altro frutto della terradi Ylenia CurciLa logica del biologico 33Alla ricerca (disperata) della qualitàdi Valentina CavallettiMisticanza 35Le storie, le parole, i riti e i ricordi che fanno da ingredienti ai menù di famigliadi Federica MartelliniIl cibo è ciò che siamo 38Dieta mediterranea: croce e deliziadi Giacomo Caracciolo «Il cinema è un pezzo di torta» 39Un secolo di storie tra la tavola e lo schermodi Ugo AttisaniIl cibo nei film di animazione 41...una questione di catena alimentaredi Michela Monferrini Quando la tecnologia esalta i sapori 43Dalle piastre di sale ai crudi nordici, dal sottovuoto alla riscoperta dei prodotti selvaggidi Indra Galbo Non solo Cina 44Mappa delle cucine straniere a Romadi Michela Monferrini Le nuove frontiere del pet food 46Ma ancora una volta la qualità è più importante della quantitàdi Irene D’Intino

ReportageNatura protetta e cibi 48I parchi custodi della biodiversità alimentare e ruraledi Filippo Belisario

La Faggeta: un nuovo Centro studi e ricerche di Ateneo ad Allumiere 52di Giacomo Caracciolo

IncontriDon Pasta. Tom Waits beve Caffè Quarta! 53di Alessandra CiarlettiMaurizio Ranzi. La cucina che risveglia le nostre memorie 56di Irene D’Intino

Orientamento«A family affair» 58Merito e orientamento nel sistema formativo italianodi Massimo Margottini

Progetto UNICA 60Roma Tre e le università delle capitali europeedi Roberto PujiaInnovation Lab 61Formazione integrata e scambi con le impresedi Carlo Alberto Pratesi

RubrichePopscene 62Ultim’ora da Laziodisu 64Non tutti sanno che… 65

RecensioniLa vita della natura morta 66Da Caravaggio alla Pop Art, un percorso sulle tracce della natura morta di genere alimentaredi Michela MonferriniFOOD, inc. 68La verità su quello che abbiamo nel piattodi Marzia PitirraSettimana della biodiversità 69Il cibo incontra la macchina da presa di Martina MicilloRoma wine festival 70Tanti produttori e tante iniziative per l'appuntamentopiù importante della capitale sul vinodi Indra Galbo

Periodico dell’Università degli Studi Roma TreAnno XII, numero 2/2010

Direttore responsabileAnna Lisa Tota(professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi)

Coordinamento di redazioneAlessandra Ciarletti (Resp. Ufficio orientamento)Federica Martellini (Ufficio orientamento)Divisione politiche per gli [email protected]

RedazioneUgo Attisani (Ufficio Job Placement), Giacomo Caracciolo (laureato del C.d.L. inGiurisprudenza e giornalista pubblicista), Valentina Cavalletti (Ufficio orientamento),Gessica Cuscunà (Ufficio orientamento), Irene D’Intino (studentessa del C.d.L. inCompetenze linguistiche e testuali per l’editoria e il giornalismo), Indra Galbo (lau-reato del C.d.L. in Scienze politiche), Maria Vittoria Marraffa (studentessa del C.d.L.in Storia e conservazione del patrimonio artistico), Elisabetta Garuccio Norrito(Resp. Divisione politiche per gli studenti), Michela Monferrini (laureata del C.d.L. inLettere), Monica Pepe (Resp.Ufficio stampa), Camilla Spinelli (studentessa delC.d.L. in Comunicazione nella società della globalizzazione), Fulvia Vitale (studen-tessa del C.d.L. in Giurisprudenza)

Hanno collaborato a questo numeroPaolo Apolito (docente di Antropologia culturale), Filippo Belisario (Regione Lazio -Agenzia regionale parchi), Salvatore Buccola (direttore amministrativo Adisu RomaTre), Giulia Caneva (docente di Botanica e di Etnobotanica ed etnozoologia), Gian-donato Caggiano (docente di Diritto dell’unione europea), Marco Colasanti (profes-sore ordinario di Biologia cellulare e responsabile unità operativa Roma Tre proget-to ZINCAGE), Ylenia Curci (dottoranda in Economia e metodi quantitativi), PasqualeDe Muro (docente di Economia dello sviluppo umano e direttore del Master in Hu-man Development and Food Security), Mario De Nonno (docente di Letteratura lati-na e direttore del Dipartimento di Studi sul mondo antico), Gianpiero Gamaleri (pro-fessore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e PresidenteAdisu Roma Tre), Massimo Margottini (docente di Didattica generale e delegato delRettore per le politiche di orientamento), Martina Micillo (studentessa del C.d.L. inItalianistica), Marzia Pitirra (studentessa del C.d.L. in Lettere), Carlo Alberto Pratesi(docente di Marketing e di Comunicazione d’impresa), Roberto Pujia (docente di Fi-losofia del linguaggio e della comunicazione e delegato del Rettore per il coordina-mento e l’attuazione del processo di Bologna), Laura Terragni (Professore Associa-to presso la Facoltà di Health, Nutrition and Management dell’Akershus UniversityCollege, Norvegia), Daniela Vona (biologa nutrizionista, specialista in Scienze dell’a-limentazione)

Immagini e fotoAp©, Filippo Belisario, Pasquale De Muro, Indra Galbo, Maurizio Ranzi,Andrea Severi ©, www.circolosardegna.brianzaest.it/le__foto.htm

Progetto graficoMagda PaolilloConmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma06 64561102 - www.conmedia.itIl progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico.

Impaginazione e stampaTipografia Gimax di Medei MassimilianoVia Valdambrini, 22 - 00058 Santa Marinella (RM) - Tel. 0766 511644

In CopertinaGuaranà, gli occhi degli dei

Finito di stamparesettembre 2010

Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998

In questo numeroabbiamo scelto dioccuparci di cibo:come mangiamo?Cosa facciamoquando ci alimen-tiamo? Cosa rap-presenta i l cibonella società con-temporanea? Ipiani da interseca-re sono apparsi dasubito molteplicie complessi e al-lora abbiamo vo-

luto iniziare da un cibo un po’ speciale: gli occhi deglidei, ovvero il guaranà. Forse in molti conosciamo que-sta bevanda o queste pastiglie naturali che ci sostengo-no quando dobbiamo potenziare la nostra capacità diconcentrazione, ma avevate mai visto prima d’ora que-sti frutti un po’ speciali? Avevate mai avuto la netta sen-sazione che il cibo vi guardasse, anzi vi interrogasse? Il

guaranà è nella cultura degli indios l’equivalente dellanostra ambrosia di omerica memoria. È un cibo spiritua-le, un elisir di lunga vita, una medicina capace di far ve-dere meglio ciò che ci circonda, proprio perché la piantastessa è dotata di occhi per vedere. Vi sono moltissimeleggende nella cultura indios legate a questa pianta, co-me quella di Cereaporanga che decide di morire insiemeall’amato. In tutte queste leggende ricorre la dimensionesacra di questi “frutti che possono vedere” ed è quindiproprio dalla sacralità del cibo che partiremo in questoexcursus sul cibo come cultura. Come sottolineano so-ciologi e antropologi, il cibo è un potente ordinatoreculturale, cioè attorno all’alimentazione si strutturanouna serie di prescrizioni sociali forti (su come, quando,cosa, con chi mangiare) che sono successivamente ingrado di costruire e legittimare appartenenze sociali o difondare processi di esclusione. Una sorta di «dimmi co-me mangi e ti dirò chi sei»… Il cibo, in questa sua po-tentissima dimensione, ricorre in molte religioni: la spi-ritualità e il sacro richiedono spesso prescrizioni rispet-

to ai tipi di cibo e rispetto ai tempi e ai luoghi del suoconsumo (si pensi al digiuno come forma di purificazio-ne spirituale ricorrente in molte tradizioni religiose, adesempio nella Quaresima). Tuttavia le culture del cibonon solo prescrivono, ma anche interdicono. Come nellasessualità anche nell’alimentazione il principio di inter-dizione è molto forte: nella sua versione più antica lacultura del cibo interdice il cannibalismo («io non man-gio quelli uguali a me»), in quella contemporanea puògiungere ad interdire l’assunzione di ogni derivato dalmondo animale («io non mangio i miei amici»). La fi-gura mitologica che incarna nei miti greci la negazionepiù assoluta dell’interdizione a cibarsi di carne umana èCrono, il padre predatore che divora tutti i suoi figlipartoriti da Rea, per timore di essere detronizzato. Toc-cherà a Zeus, terzo figlio maschio di Rea, avvelenare ilpadre Crono e ridare vita a tutti i suoi fratelli. Crono in-carna nell’inconscio collettivo la figura del padre chepuò essere ucciso conservando l’integrità morale, cioèsenza diventare “assassini”. In generale possiamo direche le dimensioni etiche messe in gioco dall’atto delmangiare sono molteplici e profondissime: si pensi aivegetariani, ai vegani, a coloro che prediligono un’ali-mentazione a base di cibo proveniente dal commercioequo-solidale oppure di cibi prodotti localmente (a chi-lometro zero). Queste sono soltanto alcune delle alter-native culturali che caratterizzano gli stili di vita dellacontemporaneità e sulla base delle quali si strutturano leidentità dei gruppi sociali. Come ci ricordano molti stu-di antropologici, la rilevanza profondissima del cibonella nostra cultura è documentata dalla centralità del“mangiare” in quasi tutti i riti di passaggio: quando fe-steggiamo una laurea, un fidanzamento, un matrimonio,un avanzamento di carriera, mangiamo insieme. In alcu-ne culture, persino quando commemoriamo la morte diun nostro caro, il mangiare insieme diventa un aspettorituale molto importante. E il modo in cui lo facciamoesclude ed include anche rispetto allo status sociale: il

cibo è legato al gusto e in un celeberrimo libro, PierreBourdieu ci ha spiegato come funzionano i meccanismidella distinzione sociale. La mediazione dei quattro di-versi tipi di calici e dei tre diversi tipi di posate con cuidobbiamo cimentarci a un banchetto di gala includono

Il cibo degli deidi Anna Lisa Tota

“Il cibo è un potente ordinatoreculturale. Attorno all’alimentazione sistrutturano una serie di prescrizionisociali forti (su come, quando, cosa,

con chi mangiare) che sonosuccessivamente in grado di costruire e

legittimare appartenenze sociali o difondare processi di esclusione”

“La rilevanza profondissima del cibonella nostra cultura è documentata

dalla centralità del mangiare in quasitutti i riti di passaggio: quando

festeggiamo una laurea, unfidanzamento, un matrimonio, un

avanzamento di carriera, mangiamoinsieme”

chi sa come fare ed escludono e intimoriscono chi ognigiorno è abituato a mangiare primo e secondo su unpiatto solo. Tutti quei bicchieri, oltre a potenziare il de-licato sapore delle bevande che sono destinati a conte-nere, servono a dichiarare, pubblicamente lo status dichi sta bevendo. Ma rispetto al cibo ci sono altri piani,più politici, ancora da considerare: l’accesso al cibo, co-me fonte di energia per la specie umana, è una risorsa

allocata in modo fortemente diseguale. Una delle con-traddizioni più violente del mondo globale scaturiscedal contrasto lacerante tra il pancino gonfio per denutri-zione di un bimbo dei paesi in via di sviluppo e quelloobeso di un bimbo europeo o americano, allevato nellacultura del fast food. Il cibo e l’alimentazione in genera-le ci introducono a una riflessione più ampia nei terminidella giustizia distributiva e dell’economia delle risorseglobali. Peraltro l’obesità dell’infanzia rimanda anche aun ulteriore livello di analisi che concerne il rapportotra cibo e salute. Indipendentemente dal fatto che il cibosia disponibile o meno, una questione centrale riguardacome lo assumiamo. I disturbi dell’alimentazione – noticome obesità, bulimia e anoressia – coinvolgono unapercentuale elevata della popolazione mondiale. Di ciboquindi non solo si guarisce, ma ci si può ammalare. In-fine, last but not least, ci possiamo interrogare sui pro-cessi economici legati alla produzione, alla distribuzio-ne e al consumo del cibo. Come sottolinea Vandana Shi-va, l’industria dell’alimentazione è riuscita a imporci al-cune regole stravaganti come, ad esempio, quella secon-do cui il cibo prodotto in casa – cioè da noi, dalle nostremani di madri e padri pieni d’amore – sarebbe “impuro”e quindi inadeguato, anzi vietato. Meglio il cibo davve-ro “puro”, cioè asettico, prodotto dalle industrie alimen-tari. Questa stravagante convinzione ha avuto esiti talo-ra non prevedibili: la commercializzazione del latte inpolvere concepito come “latte di più elevata qualità ri-spetto a quello materno” ha comportato un incrementosignificativo del rischio di mortalità infantile nei paesi

in via di sviluppo, dove l’acqua in cui sciogliere il lattein polvere spesso non è potabile… Alcuni anni fa vi fu-rono boicottaggi in tutto il mondo contro le multinazio-nali coinvolte in questa commercializzazione. Ma senzaandare troppo lontano: provate a festeggiare il com-pleanno di vostro figlio alla scuola materna con una bel-la crostata fatta nella cucina di casa, non ci riuscirete dicerto. La torta deve essere rigorosamente fatta “fuoricasa”, in quanto le nostre mani di mamma sono certa-mente sporche e i nostri fornelli domestici sono un peri-coloso ricettacolo di batteri. Non ci deve sfuggire lagravità di episodi come questo: la cultura industriale delcibo sembra aver imposto a tal punto le proprie regoleorganizzative, da potersi permettere di intaccare il tes-suto sociale del nostro quotidiano. Intacca in questo ca-so la fiducia reciproca delle famiglie nella cucina degli

uni e degli altri e la fiducia è un capitale sociale fonda-mentale. Provate a immaginare: potreste invitare a cenaqualcuno a casa vostra che, prima di mangiare, vi chie-desse di ispezionare la vostra cucina? Non si tratta dide-valorizzare, o ancora peggio demonizzare, la culturaindustriale del cibo che ha certamente molti pregi, sitratta semplicemente di prendere le distanze dai suoi ec-cessi, come quando una nuova direttiva della ComunitàEuropea, al posto di produrre innovazione culturale ri-spetto al cibo, mette a rischio i processi di stagionaturadella fontina valdostana, con buona pace delle mucchenostrane. Insomma, parlare di cibo significa interrogarsi su unadelle questioni centrali della nostra esistenza e in questonumero lo facciamo grazie al contributo dell’antropolo-gia, della sociologia, della filosofia, delle scienze am-bientali, degli studi sul mondo antico e di quelli sulla si-curezza alimentare, interroghiamo artisti come Don Pa-sta per capire loro con il cibo che cosa fanno. E alla fi-ne dovremo ricordarcene: il cibo ci guarda, ci interroga,ci interpella con urgenza, perché noi siamo anche ciòche mangiamo.

“Il cibo e l’alimentazione ciintroducono a una riflessione piùampia nei termini della giustiziadistributiva e dell’economia delle

risorse globali”

“La cultura industriale del cibosembra aver imposto a tal punto le

proprie regole organizzative, da potersipermettere di intaccare il tessuto

sociale del nostro quotidiano”

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prim

o pi

ano

Tutte le volte che ci met-tiamo a tavola ci raccon-tiamo la nostra storia. Cidiciamo chi siamo, da do-ve veniamo, in cosa cre-diamo, cosa vogliamo es-sere. E la raccontiamoagli altri. Lo facciamo an-che tutte le volte cheascoltiamo la storia deglialtri, mangiando insieme,e verificando se è la no-stra stessa storia o se èun’altra, e allora ci dicia-

mo se ne siamo interessati o rigorosamente estranei.Nel pulviscolo delle azioni quotidiane che compiamomeccanicamente o quasi, nella corsa senza direzione trale cose della routine quotidiana, quella del mangiare èforse la più complessa, piena di sottofondi e doppifondi.Sembra la più lineare e immediata, un panino e via, unsurgelato e via, un fastfood e via, e invece è contorta, si-nuosa, penetra nella nostra storia personale, di gruppo, dicultura, di specie.Ma più che raccontarla sobriamente, questa storia, noi ladrammatizziamo, la rappresentiamo su una scena che ècontemporaneamente parecchie scene, insieme palco, re-tropalco, proscenio e platea.Nel retropalco fisiologico del mangiare e del bere, se-guiamo gli impulsi naturali, gli “ordini” di una regia delgusto tutta interna al corpo ereditato dall’evoluzione. Neiprimissimi momenti di vita un neonato reagisce positiva-mente allo stimolo di una soluzione dolce sulla lingua,negativamente a una soluzione amara. Il nostro gusto èl’orientatore biologico delle risorse energetiche che pos-siamo trarre dall’ambiente. Anche se potremmo esserealimentati attraverso un catetere, e la sopravvivenza sa-rebbe garantita perché le sostanze energetiche affluireb-bero nel nostro corpo, queste non avrebbero la stessa for-za nutritiva che hanno quando sono mediate dal sensodel gusto, quando passano cioè per la bocca. La vista,l’olfatto rendono appetibile il cibo, non appena lo si im-para a riconoscere visivamente e olfattivamente, ma è ilgusto a chiudere felicemente la sinestesia del mangiare.Il gusto non è un lusso che potrebbe essere abolito in unasocietà biomeccanica del futuro, è un prodotto sofistica-tissimo dell’evoluzione, dà disciplina all’alimentazione eal tempo stesso la rende piacevole.Ma quando il neonato cresce, si fa bambino e si avvia afarsi adulto, eccolo spostarsi dal retropalco dove era ri-masto fermo nei primi momenti di vita, eccolo darsi adun andirivieni frenetico in tutti gli altri luoghi della scenadel mangiare. E più maturerà nel mondo in cui gli è statodato di vivere, più acquisterà un dinamismo circolare e

retroattivo su tutta la scena. E diventerà ciò che tutti sia-mo quando mangiamo, complessi raccontatori e dram-matizzatori della nostra storia e ascoltatori più o menopartecipi di quella degli altri.Perché se tutto si concentrasse nel retropalco fisiologico,come avviene per gran parte degli organismi viventi suf-ficientemente evoluti per avere la sensazione del gustoma non tanto da avere una scena complessa a disposizio-ne come la nostra, allora non capiremmo com’è possibileche l’olfatto e la vista e infine il gusto del retropalco fi-siologico, una volta spostatisi sul palco cosmologicohanno effetti diversi o contrari a quelli che avevano pri-ma. Il cane di casa che vede, sente, gusta la carne, non vaper il sottile quanto alla provenienza della sua succosa

bistecca. Ditelo ad un indù, ditelo a un musulmano, dite-lo a un ebreo. Ditelo a un salutista. E ditelo a voi stessi,se vi trovate davanti all’alternativa della fame o di unabistecca di carne di cane (o peggio, umana). Tutti insie-me rifiutiamo un cibo che l’intero retropalco congiura adichiarare ottimo per la sopravvivenza, ma che nel palco,la nuova regia cosmologica dichiara immangiabile. Tae,cioè escrementi, chiamano i Tikopia del Pacifico occi-dentale studiati da Raimond Firth, gli alimenti non com-mestibili. Dappertutto, in giro per il mondo, cambiano leetichette, impurità, tabù, cibo del diavolo, ma rimane lapresenza di cibo interdetto, proibito. Il bambino che per

Paolo Apolito

Tae e kaiSiamo complicati consumatori di cibo

di Paolo Apolito

“Tae, cioè escrementi, chiamano iTikopia del Pacifico occidentale

studiati da Raimond Firth, gli alimentinon commestibili. Dappertutto, in giro

per il mondo, cambiano le etichette,impurità, tabù, cibo del diavolo, ma

rimane la presenza di cibo interdetto,proibito”

6 effetto della sua maturazione esistenziale si è spostatodal retropalco al palco, trova dunque interdetti e proibi-zioni alla sua fame. Ed è bene che si abitui ad essi, al piùpresto. E lo farà, perché non ha alternative per la sua so-pravvivenza culturale, sociale e dunque esistenziale.Nessuno può crescere fuori dal contesto in cui vive. Eperò la rappresentazione che la sua vita è, gli consentiràspesso di non sentire la proibizione come tale, poichében presto la regia culturale del palco retroagirà sulla re-gia naturale del retropalco, imponendo nuove regole almeccanismo automatico del gusto (e della vista e dell’ol-fatto). Regole cosmologiche alla regia fisiologica. Alloraegli non desidererà più il cibo proibito, che infatti il suogusto troverebbe rivoltante. Tae, escrementi. Disgusto.La carne del cane di casa. La carne umana.Sarebbe il caso di non considerare più come mondi sepa-rati la natura e la cultura, il corpo e lo spirito, il retropal-co e il palco, perché la vita vissuta è un insieme di in-trecci retroagenti tra le varie dimensioni dell’esistereumano e solo una logica di ordinamento ideologico puòvedere separazioni nette là dove queste non esistono.Con buona pace di Cartesio. Ma anche con buona pace ditutti noi umani, dappertutto, in tutte le culture, quando inmodi diversi ci raccontiamo qual è per noi la realtà dellecose, cioè che c’è un ordine in esse e dunque cosa dob-biamo fare per corrispondere a quest’ordine, che è indi-pendente da noi e viene da prima di noi, da Qualcuno,Alcuni, Qualcosa che ci precede, ci sovrasta, ci condizio-na. Quando mangiamo, anche quando mangiamo, confer-miamo quest’ordine, attraverso esclusioni e inclusioni.Tae e kai, escrementi e alimenti, dicono i Tikopia, quiscelti a esemplare dell’umanità. Per noi oggi, nel raccon-to contemporaneo, l’ordine è quello della prevenzione,della salute, della dieta. Scientificamente fondato, ci con-sente di preservare o danneggiare la nostra salute, ma è ilcaso di dirlo, è un ordine come gli altri. Che crea intera-zione tra palco e retropalco, più o meno come ad altri peraltre ragioni. E poiché siamo su una scena potenzialmen-te estensibile e interagente, con quinte e contro quinte,possiamo al tempo stesso partecipare a più racconti diordini diversi e venirne influenzati simultaneamente: re-ligione, scienza, abitudini di gruppo, memoria, ricerca di

identità. Mangiamo e raccontiamo, mangiamo e recitia-mo, mangiamo e ascoltiamo gli altri.E poi ognuno di noi, su questa scena immaginaria delmangiare, si sposta verso il proscenio personale - ognu-no ne ha uno suo, individuale - e là incorporiamo le no-stre elaborazioni delle eredità del retropalco e dei pas-saggi nel palco, attraverso i dinamismi biografici indivi-duali. Io non mangio più carne, tu non mangi più pesce,io mangio solo carne di animali al pascolo, tu solo vege-

tali di coltivazioni biologiche. E se mangiamo altro stia-mo male, attacco alla salute. O disgusto, peccato, colpa,tae. Così, mangiando, in fitti andirivieni e corti circuiticon il retropalco fisiologico, raccontiamo il dinamismodella nostra storia, tra palco cosmologico e prosceniopersonale, rappresentiamo la costituzione del Sé, del Noie dell’alterità. Lévi-Strauss ha scritto opere ponderose einsuperate intorno al tema che le cose buone da mangiaredipendono dalle cose buone da pensare. C’è una logicain ciò che mangiamo, prima che una biologia. Una bio-logica di opposizioni e mediazioni: crudo/cotto,bollito/arrostito, salato/dolce, l iquido/asciutto,blando/speziato. Nella storia umana i lavorii delle media-zioni delle più diverse origini hanno agito profondamen-te. Le opposizioni diventano triangoli, che risolvono nel-

“Il gusto non è un lusso che potrebbeessere abolito in una società

biomeccanica del futuro, è un prodottosofisticatissimo dell’evoluzione, dà

disciplina all’alimentazione e al tempostesso la rende piacevole”

In una moschea a Lahore, alcuni musulmani pakistani preparanoi piatti con frutta e altre pietanze per un momento di pausa delRamadan

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la logica almeno ciò che nella vita non si può risolvere.L’affumicato, per esempio si mette in mezzo tra bollito earrostito. Il putrido, tra il crudo e il cotto. Un piatto nata-lizio gallese, come l’oca arrosto con lingua di manzo les-sa rivestita con battuto di carne e impasto è un capolavo-ro di riassunto del cosmo delimitato tra crudo, cotto eputrido.E non è finita.Perché se passiamo dalle cose buone da pensare, che sononel nostro piatto, alle cose buone da fare, dentro e intornoal nostro piatto, scopriamo che questa rappresentazione sisposta ora in una platea sociologica, e là assistiamo, guar-diamo, osserviamo e apprezziamo o disapproviamo. Per-ché mangiare è anche una pratica sociale.

Non potremmo neppure immaginare che un momento im-portante della nostra vita sociale, una cerimonia, un rito,un evento importante, sia privo di una fase dedicata al ci-bo, spesso specifico dell’occasione. In questi casi il ciboelabora le nostre relazioni sociali, dà loro valore, ruolo.Quando elaboriamo le nostre relazioni sociali, inevita-bilmente selezioniamo, inevitabilmente separiamo. E aquesto lavoro il cibo si presta meravigliosamente. La ce-na di gala, il pranzo di nozze, l’aperitivo di lavoro, ilcoffee break del meeting, la sagra della polpetta di qual-che cosa in qualche posto sono tutte occasioni in cui cisi dice chi può e chi non può, si proclama chi si metta diqua e chi di là, chi è come Noi e chi è diverso. E allora,se leggiamo che a Dobu moglie e marito una volta man-giavano con le rispettive famiglie per paura delle fattureche l’uno e l’altra potevano reciprocamente farsi, soloper miopia potremmo pensare che questo esotico costu-me è totalmente estraneo alla nostra mentalità laica emoderna che vede l’atto del consumare cibo fondamen-talmente come mera funzione biologica. Perché quella èsolo una variante di una rappresentazione universalenella platea del teatro del cibo, di cui noi stessi siamoprotagonisti con altre varianti. Nella platea sociologica,noi raccontiamo chi siamo e con chi vogliamo stare, chinon vogliamo essere e chi non vogliamo avere per com-pagno. I tavolini del fast food sono diversi da quelli del-la mensa aziendale ed entrambi dal tavolo di casa o dalseparé del ristorante. Il cibo è un selettore/separatoredelle nostre relazioni sociali.E poiché siamo complicati davvero, non ci limitiamo aincludere/escludere. Perché una volta messici con qual-cuno, diciamo anche come starci con questi. Accanto, difronte, vicino ma quanto, o quanto lontano. Calcoliamo emisuriamo distanze, avvicinamenti, preferenze, priorità.E definiamo formalità e informalità, che corrispondonoall’intensità della convivialità, che si rappresenta con il

tipo di contiguità fisica nel consumarlo insieme, il cibo.Storie diverse di sé in rapporto agli altri e degli altri inrapporto a sé. E già che ci troviamo, commentiamo conil cibo anche l’occasione che abbiamo, questa specifica,in cui lo consumiamo insieme. La cena di gala con ilcapo non è la grigliata tra vicini di tenda al campeggioestivo. Anche se le stesse persone possono essere dauna parte e poi dall’altra. Cambiano le occasioni. E cidiciamo tutto questo anche con il tipo di cibo che con-sumiamo, o di bevanda. Perché se invece che cibo soli-do e cotto, e da seduti, consumiamo in piedi una bevan-da e uno stuzzichino ci stiamo raccontando storie diver-se. Tipo di cibo o bevande rappresentano i tipi di rela-zioni e di occasioni sociali. Complicati consumatori dicibo, siamo.

E il dinamismo non s’arresta, nuove dinamiche, questavolta nelle sequenze tra cibi, secondo ordini diacronici esincronici. In Italia un tradizionale ordine di successioneregola il ritmo tra un primo e un secondo piatto, con va-rianti e complicazioni varie, tra aperitivo, frutta, dessert,caffè, bevande. C’era e c’è, ma ormai insidiato da altriordini: tutto il cibo simultaneamente su un carrello, daprendere secondo ordini vari. O tutto insieme in un piattounico. Il Giappone è all’opposto dell’Italia, quanto a dia-cronie e sincronie del cibo. Ma tra queste diversità, lemediazioni sono innumerevoli.Ecco tutto: la specie umana si racconta una storia com-plessa su un teatro complesso tutte le volte che consumacibo. Tutti allo stesso modo. Anche se le storie sono di-verse. Ora che ho finito vado a mangiare. Senza pensarci trop-po su.

In molti paesi orientali gli insetti vengono comunemente consu-mati come street food

“C’è una logica in ciò che mangiamo,prima che una biologia. Una bio-logica

di opposizioni e mediazioni:crudo/cotto, bollito/arrostito,salato/dolce, liquido/asciutto,

blando/speziato”

“Sarebbe il caso di non considerare piùcome mondi separati la natura e la

cultura, il corpo e lo spirito, ilretropalco e il palco, perché la vita

vissuta è un insieme di intrecciretroagenti tra le varie dimensioni

dell’esistere umano”

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Il diritto europeo dell’ali-mentazione è oggi un siste-ma integrato di regole perl’agro-alimentare, che pro-tegge “dalla fattoria allatavola” la nostra salute, checostituisce un obiettivo darealizzare in tutte le politichedell’Unione Europea (art.168 TFUE ex art. 152 delTCE). La sicurezza alimen-tare implica una politica euna legislazione europeasulla qualità e sui rischi in

un processo di valutazione, basato sulle prove scientifiche dis-ponibili allo stato dell’arte, tramite la partecipazione di tuttii protagonisti (autorità pubbliche e private, organizzazioni rap-presentative, produttori e consumatori).Un approccio integrato a beneficio del consumatore richie-de norme europee sull’intera catena alimentare (produzione,trasformazione, trasporto, distribuzione). La necessità di ef-ficaci misure di regolamentazione e di controllo dell’ali-mentazione ha portato, nell’ultimo decennio, alla conver-genza delle azioni dell’Unione Europea per la politica agricolacomune e per il mercato unico dei prodotti alimentari. Un ruo-lo importante e complementare è attribuito agli stati membrie agli operatori. Da un lato, gli stati membri controllanol’applicazione delle norme, verificandone il rispetto da partedegli operatori anche con la previsione di misure e sanzioni ap-plicabili in caso di violazione; in caso di rischio, le autoritàpubbliche ne informano la popolazione e mettono in attomisure provvisorie cautelari. Dall’altro, gli operatori adotta-no sistemi e procedure che consentono la tracciabilità dei pro-dotti alimentari, degli alimenti per animali e di qualsiasi altrasostanza introdotta nei prodotti alimentari; l’operatore prov-vede al ritiro dal mercato dei prodotti alimentari e degli ali-menti per animali (importati, prodotti, trasformati, fabbrica-ti o distribuiti) quando ritenga che siano nocivi alla salute uma-na o animale, oltre alla relativa notificazione alle autorità com-

petenti; nel caso in cui il prodotto sia già stato malaugurata-mente acquistato dai consumatori, deve informarli sui ri-schi. La prima fase dello sviluppo europeo della sicurezza ali-mentare è stata caratterizzata dall’applicazione dei principi del-la circolazione delle merci e del ravvicinamento delle legis-lazioni nazionali per il mercato comune. Il funzionamento delmercato interno sarebbe certamente ostacolato senza l’ar-monizzazione europea delle misure nazionali in materia. Ba-sta ricordare a riguardo la direttiva 89/397 del Consiglio sulcontrollo ufficiale dei prodotti alimentari con la finalità del-la protezione della sanità pubblica e la tutela dei consumatori(adottata sulla base giuridica dell’art. 100A AUE per l’o-biettivo del mercato unico del ‘92). La fase successiva, a seguito della crisi dell’epidemia diBSE (mucca pazza), ha portato a un nuovo approccio diprotezione dell’intera catena agro-alimentare, che comportala saldatura della politica agricola comune e della politica dimercato per la rimozione degli ostacoli alla libera circolazionedei prodotti agricoli. In questo senso, sono da ricordare iprincipi generali della legislazione alimentare nell’Unione eu-ropea, contenuti nei Libri Verde e Bianco della Commissio-ne (1997 e 2000), e il Regolamento sulla tracciabilità e l’eti-

chettatura della carne bovina, adottato dal Consiglio esclusi-vamente sulla base giuridica dell’organizzazione dei merca-ti agricoli. L’attuale prospettiva di regolazione integrata del-l’attività dei soggetti della filiera produttiva per la protezionedei consumatori si consolida, subito dopo, per via giurispru-denziale. La svolta nell’approccio europeo alla sicurezzaalimentare costituiva l’oggetto di due fondamentali sentenzedella Corte di Giustizia. Il primo principio riguardava il rilievoper la politica agricola delle esigenze di interesse generale, qua-li la tutela dei consumatori, della salute e della vita dellepersone e degli animali (sentenze 5 maggio 1998, RegnoUnito/Commissione). Il secondo riguarda la legittimità dellabase giuridica esclusiva dell’organizzazione dei mercati, re-lativi alla produzione e alla messa in commercio dei prodot-ti agricoli (sentenza 4 aprile 2000, in causa C-269/9, Com-missione/Consiglio), in quanto la politica agricola comune puòrappresentare l’ambito di protezione ottimale della sicurezzaalimentare. Si è aperta così la terza fase del definitivo decollodel diritto europeo dell’alimentazione, tramite la codificazionedei principi della sicurezza dei prodotti alimentari (ivi com-presi quelli per animali) contenuta nel Regolamento 178/2002del Parlamento europeo e del Consiglio. Il carattere unitariodel quadro giuridico vigente, che riguarda sia la legislazione

Dalla fattoria alla tavolaIl sistema giuridico europero della filiera agroalimentare

di Giandonato Caggiano

Giandonato Caggiano

La sede del Parlamento europeo a Strasburgo

“Un approccio integrato a beneficio delconsumatore richiede norme europee

sull’intera catena alimentare(produzione, trasformazione,

trasporto, distribuzione)”

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alimentare che le procedure di controllo, si poggia sullacomplementarietà delle basi giuridiche per l’azione dell’U-nione in materia: l’organizzazione comune dei mercati agri-coli (art. 37 CE ora art. 43 TFUE), il ravvicinamento delle le-gislazioni in materia di sanità pubblica ed ambiente (art. 95CE, ora art. 114 TFUE), la politica commerciale comune(art. 133 CE ora art. 207 TFUE), misure nei settori veterina-rio e fitosanitario (art. 152, para. 4, lett. b) ora art. 168, para4, lett. b). Il medesimo regolamento ha creato l’Autoritàeuropea per la sicurezza alimentare, che opera a Parma,quale riferimento scientifico per il controllo e per la valuta-zione degli alimenti. La codificazione dei principi è stata, in-fine, completata in relazione all’accreditamento degli enti dicertificazione dei prodotti agricoli dal regolamento del Par-lamento e del Consiglio del 9 luglio 2008 che, peraltro, ge-neralizza a tutto il mercato interno l’esperienza acquisita nelsettore alimentare sui sistemi di sorveglianza e il controllo deiprodotti importati da Paesi terzi. Un ulteriore profilo inte-ressante della materia è costituito dal principio del controllosul rischio della responsabilità dell’impresa. La direttiva43/93/CEE del 14 giugno 1993 ha introdotto: il principio del-la responsabilità dell’impresa per fatti di organizzazione e nonsolo per concreti esiti di danno; la valorizzazione della col-locazione relazionale nel mercato; la comunicazione come og-getto di garanzia e di caratterizzazione dell’offerta. Il princi-pio dell’autocontrollo e autocertificazione del produttorepromuovono la cultura del rispetto della salute e della ge-nuinità, piuttosto che misure di rigida prescrizione esterna diautorizzazione preventiva e normalizzatrice dei locali e di con-trollo successivo sul prodotto. È in funzione un sistema eu-ropeo di “allarme rapido” che consente l’individuazione del-le misure di emergenza e di gestione delle crisi in atto (Co-mitato permanente della catena alimentare e della salute ani-male). La direttiva 2001/95/CE relativa alla sicurezza gene-rale dei prodotti prevede un sistema comunitario d’informa-zione rapida (RAPEX) e la relativa procedura di notifica da at-tuare secondo le linee guida emanate dalla Commissione(Decisione del 16 dicembre 2009). Per quanto riguarda l’in-terpretazione del principio di precauzione, il Tribunale diprimo grado (sentenza 10 marzo 2004, causa T-177/02, Ma-lagutti-Vezinhet) ha ritenuto legittimo un intervento dellaCommissione di attivazione del “sistema rapido di allerta” acausa dell’alto livello di pesticidi presenti in alcune impor-tazioni di mele. Respingendo la richiesta di danni dell’im-

portatore interessato, il Tribunale ha chiarito che l’applicazionedel principio può comportare misure appropriate per preveniretaluni rischi potenziali, senza bisogno di attenderne la pre-ventiva ed esauriente dimostrazione della effettività e della gra-vità del rischio per la salute. In caso contrario, il principio diprecauzione sarebbe privato del suo effetto utile. In sostanza,alla “protezione della sanità pubblica deve vedersi accordareun’importanza preponderante rispetto alle considerazionieconomiche” .In materia di integratori alimentari, la Corte di giustizia (sen-tenza 12 luglio 2005, cause riunite C-154/04 e C-155/04,Alliance for Natural Health c. Secretary of State for Health),ha confermato che la direttiva del 2002 consente un correttosvolgimento della procedura (di modifica degli elenchi deicomponenti consentiti) entro termini ragionevoli, anche in as-senza di una completa garanzia di trasparenza e dei termini del-la fase di consultazione dell’Autorità europea per la sicurez-za alimentare. Per quanto riguarda gli elenchi di vitamine e mi-nerali che possono essere aggiunti agli alimenti, la Corte (sen-tenza Solgar Vitamin’s France C-446/08 del 29 aprile 2010)ha chiarito che gli Stati membri restano competenti ad adot-tare una disciplina relativa ai quantitativi massimi di questecomponenti nella fabbricazione degli integratori alimentari sela Commissione non ne ha stabilito i quantitativi. La fissazionedi quantitativi massimi non è indispensabile, a meno che, inforza del principio di precauzione, non vi sia un pericoloprobabile per la salute delle persone. Per il risarcimento dei danni causati dagli organi della Co-munità, il Tribunale di primo grado (sentenza 14 dicembre2005, cause riunite T-69/00 ed altre), può essere riconosciutoanche in assenza di comportamenti illeciti. La sentenza ri-guardava le misure di blocco assunte dalle autorità statunitensiper ritorsione contro misure europee relative all’importazionedi prodotti alimentari. Per evitare una tale situazione negati-va, le istituzioni europee (in primis, la Commissione) devonoponderare “a monte” le decisioni da adottare in considerazionedei diversi interessi in gioco (bilanciamento degli interessi). Inconcreto, il Tribunale, non ha ritenuto adeguata la prova deldanno lamentato. In questo contesto è impossibile entrarenel dettaglio della disciplina europea in vigore che contiene mi-sure improntate sia a motivi di ordine igienico-sanitario che aiprofili di mercato. Ricordo soltanto la disciplina in tema di DOPe IGP e, più di recente, la direttiva sugli allergeni, la normativain materia di OGM, le discipline sui novel foods. Per l’attualità, qualche considerazione merita, però, la propostadi regolamento europeo sulle etichette sugli alimenti al fine diuna migliore informazione per i consumatori, adottato il 16giugno scorso. dal Parlamento europeo e di prossima defini-tiva approvazione da parte del Consiglio dei ministri del-l’Unione. I produttori avranno l’obbligo di indicare nellaparte anteriore della confezione alimentare il contenuto di ener-gia, sale, zucchero, grassi, grassi saturi e dolcificanti delprodotto, nonché l’origine della carne, pollame, pesce e lat-ticini. È stata però bocciata dai parlamentari la proposta, so-stenuta dai verdi e dalle associazioni dei consumatori, del co-siddetto «sistema a semaforo» che avrebbe aiutato a ricono-scere facilmente i fattori di rischio dei diversi prodotti ali-mentari. L’industria alimentare ha sostenuto a riguardo unagrande azione di lobby, forse la più grande dopo quella che furealizzata contro l’approvazione del Regolamento Reach suiprodotti chimici.

In seguito alla crisi dell’epidemia di BSE (mucca pazza) si è svi-luppato un nuovo approccio di protezione dell’intera catenaagro-alimentare, che comporta la saldatura della politica agricolacomune e della politica di mercato

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Nel dibattito internazio-nale sulla fame il concet-to di sicurezza alimentareha subito nel corso degliultimi decenni alcuni im-portanti cambiamenti. In-fatti, mentre fino agli an-ni Settanta il significatoattribuito alla sicurezzaalimentare (food security)coincideva largamentecon l’idea di disponibilitàdi alimenti – e dunque diprodotti agricoli – suc-

cessivamente si sono susseguite varie elaborazioni chehanno condotto ad un concetto più ampio e multidimen-sionale. Oltre alla disponibilità, si parla oggi anche dialmeno altre tre fondamentali dimensioni, che sono l’ac-cesso, l’utilizzazione e la stabilità.La questione della disponibilità di cibo ha da secoli rap-presentato una preoccupazione per economisti e politici.Se consideriamo in particolare la disponibilità pro capi-te, il reverendo Malthus alla fine del 1700 ha reso cele-bre lo spettro della scarsità di cibo dovuta alla prospetti-va di uno squilibrio crescente tra l’offerta alimentare ela popolazione. Questo noto paradigma, benché si sia di-mostrato scientificamente infondato e politicamente rea-zionario, non ha mai perso vigore fino ai giorni nostri:la maggior parte dei discorsi che si fanno oggi sulla fa-me – nei media, nelle organizzazioni internazionali e alivello scientifico e politico – ancora richiamano, di fat-to, lo spettro della scarsità di cibo, spesso accompagnatoda preoccupazioni demografiche. Questa bandiera negliultimi anni è stata raccolta da certe posizioni ecologiste:a ben vedere, infatti,alcuni concetti comequelli di improntaecologica o di carry-ing capacity non so-no altro che rifor-mulazioni ambienta-liste del paradigmamalthusiano, in cuiil problema centraleè quello del rapportofra risorse naturali eproduzione.Il merito principaledi aver superatol’approccio dellascarsità e introdottola questione dell’ac-cesso delle persone

agli alimenti è certamente da attribuire all’economistaindiano Amartya Sen, premio Nobel nel 1998. Alla finedegli anni Settanta, Sen ha condotto una serie di studi(raccolti nel volume Poverty and Famines) in cui hamostrato in maniera rigorosa che la principale causa del-le carestie non è la mancanza di cibo (cioè l’insufficien-te disponibilità), ma piuttosto la circostanza per cui lepersone affamate non hanno la possibilità di accedere alcibo che è disponibile. Il mancato accesso è dovuto ad

una varietà di fattori economici e sociali, riconducibilisostanzialmente alla condizione di povertà di queste per-sone e alle carenze dell’azione pubblica. Il contributo diSen, sviluppato in ricerche successive, non riguarda sol-tanto le carestie, ma più in generale tutte le situazioni difame, e ha cambiato radicalmente l’idea di sicurezza ali-mentare. Infatti, dato che a livello globale la disponibili-tà di cibo, nonostante le crisi che si sono succedute, èormai da molto tempo sufficiente a garantire una quanti-tà di calorie pro capite superiore ai bisogni (oggi abbia-mo sul pianeta circa 2800 kilocalorie pro capite), è evi-dente che nell’epoca contemporanea il mancato accessoal cibo è la causa principale della fame ed è la dimensio-

ne più critica dellasicurezza alimenta-re. È su tale dimen-sione, dunque, cheandrebbe concentra-ta l’attenzione e lerisorse della comu-nità internazionale,dei governi e di tuttigli altri attori coin-volti.Anche la terza di-mensione, l’utilizza-zione, ha guadagna-to negli ultimi de-cenni una certa im-portanza, grazie an-che al contributo deinutrizionisti. Questa

2800 kilocalorie pro capite!Se la sicurezza alimentare non è più solo un problema di disponibilità di cibo

di Pasquale De Muro

Pasquale De Muro

“A ben vedere alcuni concetti comequelli di impronta ecologica o di

carrying capacity non sono altro cheriformulazioni ambientaliste delparadigma malthusiano, in cui ilproblema centrale è quello delrapporto fra risorse naturali e

produzione”

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dimensione riguarda il modoin cui le persone e le comunitàutilizzano il cibo, ossia lo tra-sformano in nutrimento. Ciòdipende sia dalla qualità e sa-lubrità del cibo (food safety,da non confondersi con foodsecurity) sia dalle pratiche ali-mentari, ossia dai modi in cuiil cibo viene trattato e consu-mato. Anche in questo caso,ciò che conta non è dunquesoltanto la disponibilità di ci-bo salubre ma anche il modoin cui le persone usano il cibodisponibile. A sua volta, ciòdipende sostanzialmente dauna varietà di fattori sociali,culturali ed economici. Fraquesti, un’importanza fonda-mentale è rivestita dalle cono-scenze nutrizionali delle per-sone (e dunque anche dal lorolivello di istruzione), in parti-colare di quelle persone chesono preposte alla scelta e alla preparazione del cibo,che in molti paesi del mondo sono ancora soprattutto ledonne. Da questo punto di vista, il ruolo dell’istruzioneprimaria delle donne riveste un ruolo fondamentale perla sicurezza alimentare famigliare, così come conferma-to da alcune ricerche svolte presso il Dipartimento diEconomia dell’Università degli Studi Roma Tre.La quarta ed ultima dimensione, la stabilità, ha un carat-tere trasversale perché riguarda sia la disponibilità sial’accesso. Infatti, le persone devono avere nel tempouna disponibilità e un accesso costante al cibo affinchénon soffrano la fame. Ciò vuol dire che bisogna evitareil più possibile due tipi di instabilità che colpiscono imercati alimentari. La prima è una instabilità “naturale”,dovuta al fatto che la produzione di alimenti, per quantofortemente industrializzata, si basa in larga parte sullaproduzione agricola, la quale subisce non solo i ciclistagionali ma anche le avversità climatiche e atmosferi-che (siccità, inondazioni etc.) che provocano una oscil-lazione della produzione, che è stata soltanto in parte at-tenuata dalle moderne tecnologie. Questo è uno degliaspetti in cui il cambiamento climatico in corso incidenegativamente, aggravando l’instabilità e l’incertezzadella produzione agricola e dunque della sicurezza ali-mentare, così come sta avvenendo in alcune aree dell’A-frica subsahariana. Il secondo tipo di instabilità, che è inparte collegato alla prima, è l’instabilità dei mercati, do-vuta sia al ciclo economico sia al carattere stesso dell’e-conomia capitalista (speculazioni, finanziarizzazioneetc.). Questa instabilità si manifesta soprattutto attraver-so la volatilità dei prezzi agricoli e alimentari che puòmettere gravemente a repentaglio l’accesso. La recenteimpennata dei prezzi agricoli ne è un chiaro esempio,che conferma ancora una volta la necessità di una gover-nance mondiale di questi mercati.La dimensione della stabilità, inoltre, è particolarmente

rilevante per i gruppi socioe-conomici più vulnerabili, co-me ad esempio coloro – inmaggioranza localizzati nellearee rurali dei paesi a bassoreddito – che hanno comeunica o principale fonte disostentamento (in termini direddito e/o di consumo ali-mentare) la propria produ-zione agricola o zootecnica:una disponibilità o un acces-so instabile per questi grup-pi, in assenza di una appro-priata azione pubblica, puòsignificare per loro la fame.Da questo punto di vista, ladiversificazione delle fontidi sostentamento nelle areerurali , piuttosto che unamaggiore specializzazioneagricola, può contribuire allariduzione della vulnerabilitàe dell’insicurezza alimentare.Le quattro dimensioni della

sicurezza alimentare sono strettamente interdipendenti:ad esempio, è evidente che senza disponibilità e stabi-lità non vi è accesso costante, e che l’accesso non im-plica necessariamente una adeguata utilizzazione. Per-tanto, è evidente che le politiche di lotta alla fame deb-bano agire su tutte le quattro dimensioni, combinandoappropriatamente gli interventi a seconda delle circo-stanze. Tuttavia, se consideriamo le iniziative, peraltroancora insufficienti, intraprese dalla comunità interna-zionale e dai governi si osserva ancora di fatto il pre-valere di approcci e politiche che, sotto la pressionedell’agribusiness e delle lobbies dei grandi produttoriagricoli, tendono a privilegiare la dimensione della dis-

ponibilità e a dare minore attenzione alle altre dimen-sioni, e dunque alle cause principali che non consento-no oggi a più di un miliardo di persone nel mondo dipoter accedere al cibo che è già disponibile e sufficien-te per tutti. Se non cambiamo al più presto questo at-teggiamento, il numero di persone affamate, che sonosoprattutto donne e bambini, è destinato tristemente adaumentare ancora, così come accade ormai dalla metàdegli anni Novanta.

“A livello globale la disponibilità dicibo, nonostante le crisi che si sonosuccedute, è ormai da molto tempo

sufficiente a garantire una quantità dicalorie pro capite superiore ai bisogni

ed è quindi evidente che il mancatoaccesso al cibo è la causa principaledella fame ed è la dimensione più

critica della sicurezza alimentare.”

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La costruzione dell’interoSatyricon, per quel che sipuò ricavare da ciò che cene rimane (forse un librointero, più due gravemen-te lacunosi, degli almenosedici originari), sembraessere stata architettata daPetronio secondo ritmiche privilegiano lo sche-ma della “composizione

ad anello” e della ricorsività ciclica di situazioni e modulinarrativi. Ma nell’ambito dell’unica sequenza veramenteampia del romanzo conservataci per intero, la grandiosacena di Trimalcione, la “regia dell’evento” escogitata dal-l’impareggiabile padrone di casa deve inevitabilmente ar-ticolarsi, come nelle scene di un dramma antico, secondola progressione lineare del susseguirsi delle spettacolariportate. Nel “labirinto di nuovo tipo” costituito dalla casadello straricco liberto, dunque, la teoria delle pietanze for-ma un vero e proprio percorso obbligato per l’esibizionedelle competenze e delle qualità di volta in volta di astro-logo, di fisiologo, di critico e filosofo, di mitologo, e infi-ne di filantropo, dell’onnipotente e onnipresente padronedi casa. Solo dopo che la serie delle portate si è conclusa,il ferreo controllo del regista sul suo spettacolo si allenta eil suo atteggiamento, secondo una felice formulazione diVincenzo Ciaffi, «da estroverso, e alla ricerca degli altri,(…) si fa introverso», mentre emerge prepotente il sempresotteso tema autobiografico, intrecciato con quella perso-nalissima meditazione sulla morte che condurrà alla fineTrimalcione alla tragicomica messa in scena del propriofunerale.Se però nell’orgogliosa rivendicazione trimalcionica nihilnovi mihi potest afferri («a me non si può mettere sotto gliocchi nulla di nuovo») sembra addirittura risuonare l’ecodella regale raccomandazione che, secondo la Ciropedia diSenofonte, Ciro il Grande impartiva ai suoi dignitari («Sicurò anche che essi non apparissero volgersi a osservarealcunché, come se non si meravigliassero di nulla»), in qual-che modo fusa con il sempre attuale precetto nil admirari(«non ti stupire di nulla») del filosofeggiante Orazio delleEpistole, l’«inesauribile (…) sfilata delle portate» della cena– com’è stato detto con efficace sintesi da Mario Citroni –ha come «principale caratteristica», più che l’esibizione diuna specifica “cultura gastronomica”, proprio «la spettaco-larità e l’effetto “a sorpresa”: tutte sono costruite con arti-fici meravigliosi, e tutte contengono qualcosa di inatteso, osono fatte di una materia diversa da ciò che si penserebbe».Ma d’altra parte – riprendo ora parole di Gian Biagio Conte– «il cibo servito ai commensali prima che un’esibizione dilautitiae», oggi diremmo di “luxury”, «è per Trimalchione ilmedium di una comunicazione “intellettuale”». In partico-

lare egli costruisce tutta la sua esibizionistica cena «in fun-zione degli ospiti colti», in una continua e drammatica ten-sione fra disprezzo e venerazione dei ceti acculturati, trion-fante autarchia materiale e brama di riconoscimento socio-culturale da parte del professore di retorica Agamennone edegli intellettuali (più o meno velleitari) che lo accompa-gnano. Proprio per questo Trimalcione non intende che ilsuo ostentato dominio sul mondo del reale si manifestisenza una corrispondente e speculare manifestazione dipotere sui nomina, che delle res sono il segno e – confor-memente a un’idea forte della nominazione, sulla qualeanche l’autore Petronio fonda un importante aspetto dellasua poetica (nomen omen) – delle cose (e degli uomini)custodiscono il segreto. Del resto, si sa, solo come NessunoOdisseo sfuggirà al Ciclope, solo diventando Pietro Simonefiglio di Giona sarà il fondamento della Chiesa.In questa ben definita prospettiva esegetica si colloca lavalorizzazione del carattere tematico e strutturante

dell’“erudizione” di Trimalcione («anche a tavola bisognafare un po’ di cultura»: etiam inter cenandum oportet phi-lologiam nosse, egli proclama), e in questo contesto unrilievo particolare va riconosciuto al ricercato parallelismofra le singole portate del banchetto e quei “giochi di parole”che nelle convergenti (ma tutt’altro che coincidenti) inten-zioni dei due registi della cena (quello nascosto Petronio equello palese Trimalcione) ambiscono di fatto a configurarsicome vere e proprie onomaturgie e “imposizioni di nomi”.E così, dopo l’antipasto a base di olive bianche e nere, ghirial miele e sesamo e salsicciotti disposti su una graticolad’argento in un letto di prugne e grani di melograno (a simu-lare le braci incandescenti), servito in assenza di Trimal-cione e integrato dopo il suo ingresso da finte uova di pastadi farina con ripieno di beccafichi in tuorlo pepato, davantiagli occhi dello studente-narratore Encolpio, che progressi-vamente passa da una stupita ammirazione alla summa nau-sea, si dipana un doppio binario di portate e “calembours”la cui sorprendente regolarità corrisponde a una evidentestrategia di rappresentazione del reale.

La cena di TrimalcioneCibo e parola in Petronio

di Mario De Nonno

Mario De Nonno

“Trimalcione costruisce tutta la suaesibizionistica cena in funzione di unacontinua e drammatica tensione fra

disprezzo e venerazione dei cetiacculturati, trionfante autarchia

materiale e brama di riconoscimentosocioculturale da parte del professore

di retorica Agamennone e degliintellettuali (più o meno velleitari) che

lo accompagnano”

La prima portata della cena vera e propria è costituita da un“piatto a sorpresa”, che sotto un coperchio su cui sono dis-posti, in apparente modestia, cibi simboleggianti i dodicisegni zodiacali disvela, a un sornione invito di Trimalcione,un succulento e scenografico misto di pollame e pancette,con in mezzo una lepre travestita da Pegaso, il tutto accom-pagnato da pesci annaffiati da fontane di salsa pepata. Lapresentazione del piatto è accompagnata dalla compiaciutadimostrazione di controllo dell’“ambiguità del significante”offerta dal “pun” del padrone di casa sul nome del trincia-tore Carpus (il cui vocativo Carpe è omofono dell’impera-tivo del verbo carpere ‘trinciare’, per cui «con la stessaparola Trimalcione lo chiama e gli comanda»)Viene poi portato in tavola, fra l’irrompere di cani da cac-cia e in una scenografia venatoria rapidamente allestita, uncinghiale dalle cui zanne pendono cestini di datteri freschi esecchi, contornato da porcellini di pasta biscottata; dallapancia del cinghiale, a un colpo di coltello, si leva un volodi tordi, ma la più singolare caratteristica dell’animale, ilfatto cioè di recare in capo il berretto tipico degli schiaviliberati, il pilleus, è strettamente collegata con la dinamicadella (ri)nominazione sinonimica dello schiavetto Dionysos,che in veste bacchica serve ai commensali grappoli d’uva.Costui viene d’imperio ribattezzato da Trimalcione colnome di ‘Libero’ (divinità romana equivalente appunto algreco Dioniso), e nel momento in cui diventa ‘libero’ anchedi fatto, oltre che di nome, «lo schiavo tolse il cappello alcinghiale», ci fa rilevare Encolpio, «e se lo mise in testa

lui». In questo caso, poi, il gioco di parole è ulteriormentecomplicato dalla sua applicazione allo stesso Trimalcione(un liberto, lo si ricordi, e non un ingenuus, cioè un figlio dipadre di condizione libera), che infatti non si trattiene dalrivolgersi al suo pubblico con l’ulteriore e ammiccante bat-tuta: «non negherete ora che ho un “padre libero”» (il nomedel già ricordato dio Liber compariva infatti di solitoaccompagnato dalla specificazione rituale di ‘padre’: Liberpater, come ad esempio Ianus pater, e lo stesso Iuppiter,forma derivata, come si sa, da Iovis pater).La terza portata è costituita da uno spettacolare porco “au-tomatico”. Questo, dopo uno studiato sketch fra Trimal-cione e un suo cuoco, duramente ripreso per non aver a

quel che sembra sviscerato il grosso animale, rivela, al ti-mido taglio del ventre, di essere ripieno non di visceri, madi salsicce e sanguinacci. A tale portata tiene dietro orga-nicamente (attraverso la premeditata offerta di una bevutaal cuoco, degna spalla del mattatore Trimalcione) la fred-duristica etimologia legata al nome del bronzista Corin-

“Si dipana un doppio binario diportate e “calembours” la cui

sorprendente regolarità corrisponde auna evidente strategia di

rappresentazione del reale”

13Affresco di triclinio, Pompei

14 thus (Trimalcione èl’unico che possavantarsi di possede-re esemplari auten-tici dei ricercatissi-mi bronzi “Corin-zii”… perché il suobronzista si chiamaCorinto).Il piatto ancora suc-cessivo segue a unesilarante saggio,da parte del padro-ne di casa, di “mi-tologia cialtrone-sca”, concluso dauno stralunato rife-rimento a un inedi-to Aiace impazzito per gelosia. Esso consiste in un inte-ro vitellino lesso, portato in tavola con tanto di elmo.Non ci si stupisce ormai più di tanto che al virtuosisticoscalco della bestia venga espressamente chiamato daTrimalcione un servitore in armatura da lui presentato (edesignato) come un “Aiace”, ancora una volta di nome edi fatto.

Anche quando più oltre viene esibito alla venerazione deicommensali un Priapo di pasticceria, accompagnato dafocacce e da pomi intrisi di zafferano, questo piatto di appa-renza sacrale è accompagnato, in un contesto purtroppolacunoso, da una coerente prova del “naming power” di Tri-malcione: l’ostensione, affidata a tre servi, delle statuettedei suoi numi tutelari, di cui il padrone di casa ci tiene a sve-lare ai commensali, come a degli iniziati, i “materialisticnames” (ancora una volta, evidentemente, di suo conio) diAffarone, Fortunatone e Guadagnone.Dopo un intermezzo di racconti del terrore a base di lupimannari e streghe, l’ormai disgustato narratore Encolpio,descrive l’ingresso in tavola degli “stuzzichini”, consi-stenti in uova d’anatra incappucciate: anche questa por-tata è ovviamente predisposta per offrire a Trimalcioneun’occasione per esibire il suo “potere designativo”, chesi esplica questa volta nella forma dell’indovinello (“gal-line disossate”: cosa sono? le uova!); per tale popolaris-sima forma di lettura del mondo già la serie dei bigliettinidi accompagnamento dei “regalini da asporto”, descrittain una scena precedente, aveva del resto documentato il

plebeo gradimentodei convitati. Dulcis in fundo,inf ine, propriol’ultima portata,l’articolatissimodessert compostoda tordi di pasta dipane farciti di uvapassa e noci, fintiricci fatti di coto-gne infilzate dispini, e… mon-strum finale, un’o-ca da ingrasso ac-compagnata dapesci e uccellid’ogni tipo, tutti

fatti con carne di porco artisticamente contraffatta, offre– si può ben dire – su un piatto d’argento a Trimalcionel’occasione per la più esplicitata rivendicazione (anchenell’uso di una terminologia ormai dichiaratamente tec-nica, con la quale Petronio e il suo narratore, lo studenteEncolpio, strizzano l’occhio al lettore non digiuno dellalinguistica di Varrone) del proprio geniaccio di onoma-turgo: è stato proprio lui – il padrone di casa lo sottolineagongolante – a “ribattezzare” il cuoco bravissimo mani-polatore della realtà col nome del più famoso artista delmito: «e perciò a mio genio gli ho imposto un nome bel-lissimo (impositum est illi nomen bellissimum): infatti sichiama Dedalo».Proprio la più insistita e lussureggiante rappresentazione delcibo nella letteratura latina (tante altre se ne potrebberoricordare naturalmente, ma nessuna così massiccia) nerivela così, in fin dei conti, soprattutto l’insopprimibilevalenza di simbolo culturale e di messaggio ideologico.

Cibo e parola: luoghi entrambi della manipolazione e diconseguenza dell’affermazione di potere. Riconoscere lastrutturante regolarità della parallela autorappresentazione,da parte di Trimalcione, del proprio dominio sul suo cibo,sui suoi uomini e sul suo discorso (almeno finché ci sonopietanze da servire) conferma nel lettore l’impressione cheil nihil sine ratione facio («nulla faccio senza un motivo»)proclamato dal padrone di casa al termine della sua esegesidell’inaugurale “piatto zodiacale” dev’essere inteso comeun programma e un destino.

“Viene poi portato in tavola,fra l’irrompere di cani da cacciae in una scenografia venatoria

rapidamente allestita, un cinghialedalle cui zanne pendono cestini di

datteri freschi e secchi, contornato daporcellini di pasta biscottata; dallapancia del cinghiale, a un colpo dicoltello, si leva un volo di tordi”

“Proprio la più insistita elussureggiante rappresentazione

del cibo nella letteratura latina nerivela l’insopprimibile valenza disimbolo culturale e di messaggioideologico. Cibo e parola: luoghi

entrambi della manipolazionee di conseguenza dell’affermazione

di potere”

Morte coppiera Il Trimalcione del Fellini Satyricon(1969)

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In questo breve ex-cursus sull’evolu-zione dei comporta-menti a tavola ver-ranno evidenziatenon solo le modifi-che apportate all’e-tichetta nel corsodei secoli, ma anchela nascita di tuttiquegli utensili cheoggi troviamo sullenostre tavole e checol tempo sono di-

ventati indispensabili. Il nostro sguardo si poserà suquei meravigliosi banchetti che ancora oggi possia-mo ammirare negli affreschi pompeiani o nei qua-dri del Ghirlandaio, di Paolo Veronese o di Brue-gel.Le notizie sui banchetti romani sono numerose: cene parlano gli storici latini, scrittori e poeti e ognu-no di noi avrà presente quelle scene memorabili dibanchetti viste nei film, con i partecipanti sdraiatisul triclinio con il gomito sinistro appoggiato ad un

cuscino, intenti a mangiare davanti ad una tavolaimbandita. In effetti la grande differenza che c’è trail modo di mangiare di oggi e quello dell’antichitàconsiste proprio nella posizione tenuta durante ilbanchetto perché non si stava seduti, eccetto ledonne, i bambini e gli ospiti “in sovrannumero”.La posizione sdraiata, che a noi sembra molto sco-moda, per un romano non lo era affatto ed era se-gno di eleganza e superiorità. In realtà dovremmoprecisare che il banchetto era una serata maschile enon prevedeva un’etichetta particolarmente rigida erigorosa. Il banchetto si svolgeva nella sala del tri-clinium, lunga di norma il doppio della sua larghez-za, che prendeva il nome dai letti a tre posti (tricli-nia). Di solito i letti erano tre con al centro una ta-vola quadrata o circolare. I commensali lasciavanoa casa la toga per indossare una veste più comodadi cotone o seta, ci si toglievano i sandali e ci si la-vava le mani. Gli ospiti si servivano da soli e ancheper questo le pietanze erano tagliate in pezzi di di-mensioni adatte a essere portati alla bocca, le posa-te erano sconosciute e ci si poteva aiutare solo condei cucchiai per salse e farinate. Curioso è l’uso deitovaglioli usati non solo per pulirsi le mani ma an-

Maria Vittoria Marraffa

Pieter Bruegel (detto il Vecchio o dei Contadini), Banchetto nuziale, 1568

L’etichetta a tavola: dai romani al Galateo di Giovanni Della Casadi Maria Vittoria Marraffa

16che per avvolger-ci i cibi che si in-tendeva portare acasa. Servirsi concautela di porzio-ni piccole adope-rando solo la pun-ta delle dita eraconsiderato segnodi buone maniere,soprattutto peruna donna: «As-sumi i cibi con lapunta delle dita enon sporcarti lafaccia con le manibisunte» consigliaOvidio nella suaArs Amandi. Lapreghiera inizialeera di rigore anche nelle mense più umili e lo stessodicasi per il Sacrificio ai Lari prima del dessert, colquale si offrivano granelli di sale agli dèi della casa.Il numero di ospiti che prendevano parte a un convi-vio romano, come ci informa Varrone, erano tre onove quanti le Grazie e non più delle Muse. Per iGreci invece il numero ideale era dieci, perché nu-mero rotondo, ma anche sette in onore di Atena, deadella saggezza. Numerose testimonianze pittoriche eletterarie fanno ritenere che furono proprio i Greci aportare a Roma l’uso di mangiare distesi.L’uso di mangiare seduti si affermò in epoca me-dioevale: su alti scranni i signori e su sgabelli gliospiti. Nasce in questi secoli l’idea del “capotavola”collocato al centro del lato lungo o su uno dei duelati corti e del posto a tavola, determinato dall’im-portanza delle persone e dai loro rispettivi rapporti. Anche la società monastica, che pure non prevedegerarchie (almeno formali) fra i suoi membri, asse-gna i posti a tavola in base all’autorità dei singoli,come sappiamo dalla Regola di Benedetto e da altrianaloghi testi normativi. L’abate poi ha la sua men-sa distinta da quella dei confratelli. Dal Rinascimento in poi assistiamo a un’evoluzio-ne dell’etichetta a tavola che si farà sempre più si-mile a quella contemporanea. Questo è il periododei grandi apparati e delle messinscena; gli addettial servizio della tavola sono dei professionisti cheper gli allestimenti dei banchetti si avvalgono dellacollaborazione di artisti e artigiani tra i più noti del-l’epoca. Esistevano poi una serie di figure di servi-tori. C’era lo scalco, il termine deriva dal gotico“skalke” (servo) ed entrò nell’uso intorno al Tre-cento per indicare l’arte dello scalcare, cioè di ta-gliare e dividere le carni. Il coppiere che dovevaporgere la coppa, coperta da una salvietta, scoprir-la, versare il vino, allungato con l’acqua, come usa-va a quei tempi, e sistemare sotto la coppa un piatto

concavo e anco-ra lo spenditore,ovvero l’addettoalle provvigioni.Momento spet-tacolare del ban-chetto era l’in-gresso delle por-tate: una vera epropria azionescenica ispirataa soggetti alle-gorici e mitolo-gici sul temadella festa. Lacaratteristica deibanchetti rina-scimentali è illusso con cui es-si vengono alle-

stiti allo scopo di sorprendere e divertire i parteci-panti. Il Galateo dell’Arcivescovo Giovanni DellaCasa, pubblicato nel 1558, codificava il correttocomportamento da rispettare quando si mangia. Ela lettura del Galateo ci dice molto sui comporta-menti a tavola allora diffusi: ad esempio si vietadi pulirsi le dita con la tovaglia. Il Galateo consi-dera maleducazione rimettere nel vassoio di porta-ta un osso spolpato, che invece deve essere buttatoper terra; è per questo motivo che intorno alla ta-vola ci sono spesso gatti e cani che partecipano alpasto e in più “puliscono” il pavimento dai resti dicibo.Nel Cinquecento vennero elaborati degli esemplaripreziosissimi di stuzzicadenti in oro che venivanoportati al collo come normali pendenti ornamentali.Nel Seicento si incominciò a mangiare con coltello,forchetta e cucchiaio, il tovagliolo faceva parte diogni tavolata e comparve per la prima volta il bic-chiere individuale. Dal Settecento il tovagliolo as-sunse la sola funzione di preservare l’abito delcommensale, collocandosi esclusivamente sulle sueginocchia. Tra tanti cambiamenti ci sono abitudini che si sonoperpetuate nel tempo come l’uso di accompagnare ibanchetti con la musica che risale ai tempi degliEgizi, per essere ripreso da Greci, Etruschi e Roma-ni. La tradizione che perdurò nel corso del medioe-vo, si rinvigorì a partire dal Quattrocento ed è so-prattutto nel Seicento e nel Settecento che la musicada tavola conquistò l’interesse dei compositori. La gastronomia, il cibo e le tavole imbandite a festahanno ispirato dalle origini ad oggi i più grandi ar-tisti e pittori. Le loro opere sono le testimonianzepiù dirette che abbiamo di un momento fondamen-tale della vita di un uomo, quello del pasto, essen-ziale per la sopravvivenza, ma sono anche fonteimportante per lo studio della cultura di un popolo.

Paolo Veronese, Nozze di Cana, 1562-63 (particolare)

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Il contesto storicoQuando, dopo un periododi sanguinose guerre civiliche seguirono l’assassiniodi Cesare e dopo i pattisanciti con le ultime popo-lazioni ribelli della Gallia edella Spagna, finalmente siprospettava l’avvio di unanuova era di pace, il Sena-to Romano decretò «che sidovesse consacrare un’Araalla pace augustea nelCampo Marzio e ordinò

che in essa i magistrati, i sacerdoti e le vergini vestali cele-brassero ogni anno un sacrificio». Era il 4 luglio del 13 a.c.Dopo pochi anni, il 30 gennaio del 9 a.c. (giorno natale del-la moglie di Augusto, Livia) ci fu l’inaugurazione. L’altarefu collocato a lato della via Flaminia (attuale via del Corso),in una posizione simbolica nella parte settentrionale delCampo Marzio, ovvero del vasto pianoro dove i Romaniavevano l’usanza di svolgere le esercitazioni militari. Lì an-cora si estendevano aree verdeggianti con portici, circhi epalestre, bordeggiate da boschi sacri e lì Ottaviano Augustoaveva voluto edificare il suo Mausoleo e si apprestava a co-struire la più grande meridiana mai esistita, che da luiavrebbe preso il nome di Horologium Augusti. Dopo l’interramento e l’oblio del monumento che si è pro-tratto fino alla fine dell’Ottocento, nonostante dall’area pro-venissero importanti elementi scultorei che erano confluitiin collezioni archeologiche, grazie alle intuizioni del giova-ne archeologo tedesco Friedrich von Duhn e alle preciseipotesi ricostruttive di Eugen Petersen, si è dato il via alloscavo e alla ricomposizione del monumento. La sua ricostruzione fu completata sotto la guida del Moret-ti verso la fine degli anni Trenta (senza che si potesse otte-nere peraltro il riassemblaggio di tutti gli originali, alcunidei quali ormai appartenenti a collezioni straniere) quandoper volere di Mussolini ne fu decisa la ricollocazione inprossimità del Mausoleo al margine del Tevere, a completa-mento del progetto di una nuova piazza dedicata ad Augu-sto, che aveva comportato ingenti operazioni di demolizionie scavo.La costruzione del paramento esternoDando uno sguardo d’insieme al paramento esterno si notauna partizione dello spazio con precise regole di simmetria,ordine e modularità. La struttura generale appare sostanzial-mente omologa, con una parte basale organizzata in sei pan-nelli e costituita da rappresentazioni vegetali assai similinella struttura, ma non assolutamente identiche e una partesovrastante, composta anch’essa da sei pannelli, che dà spa-zio ad episodi mitici o evocativi. Nel lato occidentale di ac-

cesso all’Ara, essi ripercorrono la mitologia delle origini diRoma e nel lato orientale descrivono il potere e la prosperi-tà da essa raggiunta; nei lati meridionale e settentrionale rie-vocano, dai due punti di osservazione laterale, il corteo pro-cessionale che rende omaggio ad Augusto al suo ritorno do-po la pacificazione delle ultime province ribelli. La cesura fra il tema vegetale, che occupa più della metàdello spazio scultoreo costituendo per l’osservatore anchel’elemento di principale impatto visivo, e le scene sovra-stanti è costituita da un sistema geometrico di meandri (osvastiche) correnti lungo l’intero perimetro. Lo schemastrutturale del “tema” centrale è costituito da una vigorosapianta d’acanto che assume il ruolo di centro generatore,originando verso l’alto un elemento fitomorfico colonnare esimmetricamente, lungo le bisettrici e le linee laterali, tralcifrondosi che si snodano con modularità circolari fino ad oc-cupare l’intero spazio.

Il linguaggio e la modalità di comunicazioneNella mentalità e nelle credenze dell’uomo antico nulla eracasuale e la logica associativa veniva costantemente utiliz-zata per capire il perché profondo dei fenomeni. L’affacciar-si di uno stormo di uccelli da una certa direttrice, il loro nu-mero, il loro volteggiare nel cielo e posarsi sulla terra, ildisporsi delle stelle nel cielo nelle varie costellazioni, il na-scere e calare della luna, così come il fiorire o fruttificare diun albero o qualsiasi altro fenomeno della Natura, erano ilrisultato dell’espressione divina e come tali avevano in-fluenza sulla vita umana. Le modalità con cui il divino sipoteva manifestare erano quindi molteplici e tutto era unasorta di messaggio che l’uomo avrebbe dovuto decodifica-re e rispettare. A questo punto come capire il messaggio di-vino?Erano le forme, i colori, le posizioni, le geometrie, i movi-menti, i ritmi e le somiglianze percepite le regole di baseper interpretare il senso delle cose. Credo quindi che, nelloschema di comunicazione caro agli antichi, che affidavano

L’Ara Pacis di AugustoComunicare attraverso le immagini della natura

di Giulia Caneva

Giulia Caneva

“Nelle credenze dell’uomo antico nullaera casuale e la logica associativa

veniva costantemente utilizzata percapire il perché profondo dei fenomeni.

L’affacciarsi di uno stormo di uccellida una certa direttrice, il disporsi dellestelle nel cielo nelle varie costellazioni,

il fiorire o fruttificare di un alberoerano il risultato dell’espressione

divina e come tali avevano influenzasulla vita umana”

18 alle allegorie l’espressione più efficace degli stati d’animodell’uomo e delle vicende della sua vita, il grande fregio ve-getale vada interpretato come una rappresentazione allego-rica che trasmette un messaggio simbolico. Per dare corposcientifico all’ipotesi di un messaggio affidato a questesculture, mi è sembrato quindi fondamentale ricostruire lamodalità di costruzione del “linguaggio”, a partire dal suo“alfabeto”, identificando le singole tessere di questo “mo-saico”, ovvero le diverse specie vegetali che ne costituisco-no la “flora”.

Al fine di cogliere il senso della composizione è necessarioguardarla a diverse distanze; avvicinandosi alle singole por-zioni del pannello è possibile apprezzare la struttura dei sin-goli elementi che lo compongono, come se fossero le singo-le “tessere del mosaico”; guardandolo ad una certa distanzaè possibile percepire con uno sguardo di insieme la strutturalogica del sistema, così come in un “grande affresco”.Composizioni fantastiche di elementi veri Accettata l’idea della necessità di procedere ad una progres-siva “scomposizione” dell’immagine, emergono così dal pa-ramento esterno del monumento centinaia e centinaia di sin-goli elementi sovrapposti l’un l’altro con cesure spesso indi-viduabili sul piano grafico e probabilmente un tempo perce-pibili anche sul piano cromatico (vd. immagine a p.19). Piante vere da composizioni fantasticheIn alcune porzioni del paramento è possibile anche il proce-dimento opposto e cioè altre immagini si generano guardan-do invece il monumento da lontano, cioè non più scompo-nendo, ma “riaggregando” visivamente diversi elementi ti-pologici. Le tessere del mosaicoDall’attenta analisi della struttura della composizione scul-torea emerge un’attenta conoscenza e una straordinaria ca-pacità di osservazione della realtà biologica nella sua diver-sità e nei suoi meccanismi di funzionamento. L’elencazionedelle diverse tessere permette di riconoscere circa novantaspecie diverse, la maggior parte delle quali è limitata ad unao poche rappresentazioni e quindi l’aver perso ampie por-zioni del paramento suggerisce anche una grande perditadella “biodiversità” inizialmente concepita (vd. immagini ap. 20). Tanta diversità è però riconducibile a “famiglie ditessere omologhe” sulla base di una similitudine nella va-lenza simbolica. Gli ambienti ispiratoriA livello ecologico le specie scelte si ispirano sostanzial-mente a quelle di ambienti di prati, pascoli e garighe tipichedi ambienti mediterranei. È infatti netta la dominanza insenso quantitativo di elementi tipici degli ambienti pastora-li, ruderali e sinantropici. A questi si sommano una discretaquantità di elementi delle macchie, delle foreste e dei ce-spuglieti degli ambienti mediterranei e in minor misura an-che di ambienti umidi e ripariali dell’area mediterranea e

medio-orientale. Emerge un’incredibile quantità di fiori (so-prattutto bulbose quali liliaceae, amarillidacee ed iridacee),che si dipartono dalla struttura dei tralci fondamentali e cheemergono dalla terra quando nuova vita è possibile. Il sistema gerarchico di composizione dell’immagineEsiste inoltre nel sistema di composizione dell’immagineuno schema molto ordinato e preciso degli elementi fito-morfici, che appaiono scelti in modo non casuale a secondadella collocazione e del significato che dovevano assumere.È infatti possibile raggruppare i diversi elementi dell’insie-me in funzione del loro impiego nello spazio visivo, otte-nendo così un sistema gerarchico di composizione dell’im-magine, ricavato dalla struttura architettonica dell’insieme.È quindi possibile evidenziare un elemento utilizzato comegeneratore, altri per formare i tralci, altri ancora per gli ele-menti colonnari, per quelli terminali o per le spirali, o infi-ne per quelli “emergenti”.Il messaggio augusteo La Rinascita di Roma e del mondo intero e l’avvio di unanuova era: il ritorno all’Età dell’OroProcedendo secondo una gerarchia di importanza sul pianodella comunicazione visiva, si deve cercare di dare una ri-sposta al quesito di base di questa scelta progettuale. Perchéle piante, nelle loro forme, esternate da tralci, foglie, fiori ein subordine anche da frutti, rappresentano l’elemento do-minante, sia in assoluto che nel contesto naturalistico? A ciòsi può rispondere osservando che l’elemento vegetale inquanto tale rappresenta quello che, macroscopicamente esecondo le conoscenze degli antichi, meglio esprime il pro-cesso primordiale di organizzazione della vita a partire dalla

“Dall’analisi della composizionescultorea emerge un’attenta

conoscenza e una straordinariacapacità di osservazione della realtà

biologica nella sua diversità e nei suoimeccanismi di funzionamento”

Paramento esterno dell’Ara Pacis

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materia informe. Perché poi così grande rilievo all’acanto?È stato già sottolineato come l’acanto sia il nucleo centraledella rappresentazione e come nel mondo antico il suo usonelle sculture, nei capitelli e nelle varie forme di rappresen-tazione artistica non avesse solo una funzione decorativa.Esso va visto non come una semplice pianta ornamentaledal bel fogliame, ma nella sua valenza simbolica di elemen-to che esprime la rinascita e quindi anche l’immortalità.

La nuova Roma si ricollega all’antica Troia facendo rie-mergere i valori del passatoLa connessione di Roma con Troia è stabilita in più elemen-ti a partire dal riferimento esplicito ad Enea. È qui però in-teressante osservare come le specie rappresentate derivinoda una scelta selettiva molto evidente di specie che, avendobulbi e tuberi sotterranei (geofite), meglio di tutte si presta-no a una idea di “rinascita di ciò che appare sepolto” quan-do cessa un fattore ecologicamente limitante (ad esempiodopo il passaggio dell’incendio oppure nel periodo di aridi-tà estiva). Ma il “rinascere dalla terra” significa anche “re-staurare il preesistente” e in questa ipotesi il messaggio po-litico sarebbe stato molto forte: non semplicemente unanuova era, ma un’era che non annulla i valori del passato,ma li fa riemergere.

La rinascita si propagherà nel mondo Tale risveglio non è collegato esclusivamente all’elementogeneratore, ma appare diffuso in ogni parte delle voluteacantiformi. Il risveglio della natura e la sua propagazionein tutto lo spazio visivo sono chiaramente percepibili e laforza comunicativa di questo processo appare nettamenteincisiva.

La rinascita sarà il preludio di un’Era felice, ovvero un ri-torno all’Età dell’OroLa rinascita, con il suo passaggio da ambienti aridi e inospi-tali, dove prevalgono cardi e piante spinose, a prati fioriti, siesprime in tutta la sua prospettiva di era felice attraverso“un’esplosione di fiori” e questa enorme fioritura rappre-senta chiaramente l’augurio di un’epoca felice, cioè il prelu-dio di un periodo di prosperità, che qui viene preannunciatoe che nell’interno dell’Ara, grazie ai festoni augurali ricchidi frutti carnosi e dai molti semi, verrà ulteriormente sottoli-neato. Analizzando i fregi lunghi dei lati meridionale e set-tentrionale, sottostanti alla raffigurazione processionale, sideve però osservare che i rami basali dell’acanto sembranodar vita ad ulteriori elementi generatori che ripetono, in ma-niera simile ma semplificata, lo schema della pianta di ori-gine, determinando la replicazione modulare del modellofondamentale. Tale elemento generatore sembrerebbe rap-presentare Roma e la sua capacità di replicare il suo model-lo di sviluppo ed ordine nelle colonie del costituendo impe-ro, partecipi tutte con la “città madre”, delle omologhe leggidi organizzazione e struttura. Da osservare che la replica-

Composizioni fantastiche di elementi veri

“È netta la dominanza in sensoquantitativo di elementi tipici degli

ambienti pastorali, ruderali esinantropici”

“Perché le piante, nelle loro forme,esternate da tralci, foglie, fiori e in

subordine anche da frutti,rappresentano l’elemento dominante,

sia in assoluto che nel contestonaturalistico?”

20 zione modulare di sestesso si osserva fre-quentemente nel mon-do vegetale, come for-ma di riproduzione ve-getativa. In questo mo-do le piante conquista-no lo spazio circostantegrazie a fusti striscianti(stoloni), che tramitegemme producono poiun individuo del tuttosimile a quello che l’hagenerato. Piante stolo-nifere e coloniali, qualila felce aquilina cheemerge come “super-modello” riaggregandoinvece le immagini,non potevano passareinosservate all’osservazione naturalistica dell’uomo anticoe tale specie è stata probabilmente un modello ispiratorenon solo per affinità formali, ma anche per strategia di so-pravvivenza e modalità di conquista dello spazio.

Ordine ed armonia e proiezione verso l’eternitàPerché poi tanta ricerca di ordine e di regole numeriche preci-se? È bene infatti ricordare che lo schema mostra un ben pre-ciso ordine che si basa su una simmetria bilaterale, ma non ri-gidamente riprodotta. Tale simmetria è fra le regole fonda-mentali di organizzazione armonica nel mondo naturale e se-condo gli antichi (vedasi in particolare Pitagora e Platone)l’armonia sarebbe strettamente legata alla simmetria, alla pro-porzione e per questo rappresenta uno dei canoni fondamen-tali della bellezza. Non ci deve troppo stupire la presenza quidi rapporti aurei e di una struttura frattale dell’immagine. Ilprocesso dinamico del fluire della natura nelle sue molteplici

forme sembra quindisottolineare il succe-dersi secondo un conti-nuum che presenta infi-nite potenzialità maprecise regole. La proiezione verso lavittoria e l’eternità sipercepiscono da varielementi. A parte la po-sizione apicale di fo-glie di palma che allu-dono alla vittoria, mache sono anche rappre-sentative della vita cherisorge da se stessa (sipensi al nome stesso diPhoenix, ovvero feni-ce), va ricordato chegli elementi terminali

in realtà non sono mai tali, in quanto producono sempre nuo-vi elementi. Ciò appare indicare l’assenza della fine, cioè lanegazione di un termine ultimo. Il fiore che al suo centro pro-duce una nuova gemma o un nuovo elemento generativo al-lude alla vita che contiene in sé altra vita in fase embrionale oun preludio ad una nuova vita e ciò genera contestualmentel’idea della negazione di una fine, cioè di una potenziale eter-nità. Naturalmente tutto ciò va interpretato come la celebra-zione del messaggio politico augusteo di avvio della nuovaEtà dell’Oro che coincide con un nuovo processo di espan-sione di Roma nel mondo, che avviene con ordine ed armo-nia e che si proietta verso l’eternità. Ritengo che il linguaggio utilizzato dovesse risultare percerti aspetti molto semplice ed immediato e per altri assaipiù complesso, potendo così raggiungere i diversi strati so-ciali della popolazione; in funzione del proprio livello cul-turale, il messaggio sarebbe infatti stato percepito in manie-ra più o meno globale e profonda. Il popolo, seppure incol-to, avrebbe saputo cogliere alcuni aspetti fondamentali, le-gati ad un rapporto atavico e quotidiano con la natura: colo-ri, forme, analogie, avrebbero guidato l’interpretazione diuno schema la cui forza sarebbe stata percettibile anche apersone totalmente analfabete, ma ben abituate a leggere isegni del cielo, della terra e del mare; il Senato e gli stratipiù istruiti della popolazione sarebbero stati in grado di leg-gere le allegorie più nascoste, percependo in ogni passag-gio, ulteriori messaggi solo apparentemente criptici.

La ricchezza degli elementi vegetali scelti in un monumento di così grande rilievo storicoe la loro ben precisa disposizione evidenziano non solo come essi abbiano un effetto deco-rativo, ma come siano lo strumento di un ben preciso intento simbolico-allegorico, colle-gato al manifesto politico del costituendo impero. Nel volume vengono illustrati gli ele-menti costitutivi di questo alfabeto botanico, le regole di organizzazione del linguaggioiconografico e infine si propone la lettura del messaggio augusteo di nuova prosperità, inun processo di rinascita possibile grazie alla pace, attraverso una continua trasformazione,che si proietta verso l’eternità.Giulia Caneva, Il codice botanico di Augusto. Ara Pacis: parlare al popolo attraverso leimmagini della natura, Roma, Gangemi, 2010.

L’elencazione delle diverse tessere permette di riconoscere circa novanta speciebiologiche diverse

“L’elemento vegetale in quanto talerappresenta quello che,

macroscopicamente e secondo leconoscenze degli antichi, meglio

esprime il processo primordiale diorganizzazione della vita a partire

dalla materia informe”

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Cos’è lo zinco?Lo zinco è un elemento tal-mente importante nella sa-lute dell’uomo che ancheuna piccola carenza puòprovocare enormi danni. Lozinco è richiesto per l’atti-vità metabolica di oltre 300proteine presenti nell’orga-nismo, con funzioni struttu-rali, di regolazione e catali-tiche. Partecipa attivamenteal metabolismo delle pro-teine, degli acidi nucleici,

dei carboidrati, dei grassi e dell’alcool. Tra i sistemi piùimportanti, vanno ricordate le amminoacil-tRNA sintetasi,la DNA e la RNA polimerasi, la fosfatasi alcalina, la latti-co deidrogenasi, la superossido dismutasi, nonché tutti ifattori di trascrizione contenenti il motivo strutturale dello“zinc finger”. Lo zinco è considerato essenziale per la di-visione cellulare e la sintesi del DNA per la crescita deitessuti, la guarigione delle ferite, per il senso del gusto,per la crescita e manutenzione del tessuto connettivo, perla funzione del sistema immunitario e della tiroide, per laproduzione delle prostaglandine, per la mineralizzazionedelle ossa, per un’adeguata coagulazione del sangue, perle funzioni cognitive, per la crescita fetale e per la produ-zione dello sperma.L’organismo umano contiene circa 2 gr di zinco, con loca-lizzazione ubiquitaria ma concentrazione particolarmenteelevata nella muscolatura striata (60%), nelle ossa (30%) enella pelle (4-6%). Poiché non esiste una riserva specificadi questo metallo, è necessario assumerlo regolarmentecon l’alimentazione, sebbene lo zinco epatico possa esserein parte mobilizzato in caso di deficit limitato nel tempo.Una frazione variabile tra il 10% e il 40% dello zinco in-trodotto con l’alimentazione viene assorbito a livello del-l’intestino prossimale. Vari fattori regolano la quota cheviene assorbita; in particolare il fabbisogno dell’elemento(rilevato dalla sua concentrazione ematica), la forma chi-mica e la presenza nel lume intestinale di microelementi incompetizione per il trasporto e/o di agenti chelanti. Di par-ticolare rilevanza è anche la concentrazione nelle cellulemucosali di metallotioneina, una proteina in grado di lega-re con elevata affinità lo zinco (oltre ad altri metalli comeil cadmio). Lo zinco assorbito viene trasportato in circolodall’albumina e dalla alfa-macroglobulina e la sua omeo-stasi viene mantenuta principalmente attraverso la regola-zione dell’assorbimento e, in parte minore, dell’escrezioneche avviene sia con le feci sia con le urine. Lo zinco nell’alimentazione in ItaliaNella dieta tipica del nostro Paese, le fonti alimentari prin-

cipali di zinco sono costitui-te da carni, uova, pesce, lat-te e derivati, cereali (tabellaa p. 22). Alimenti di origineanimale sembrano avereuna maggiore biodisponibi-lità di zinco rispetto a quellidi origine vegetale. È pro-babile che tale differenzasia dovuta alla presenza, neiprodotti di origine vegetale,di molecole interferenti conl’assorbimento dello zinco,in particolare l’acido fitico ela fibra alimentare. È opportuno ricordare che i fitati (i salidell’acido fitico) interferiscono negativamente anche conl’assorbimento del ferro, e che il loro effetto è amplificatoda alti livelli di calcio. Va tuttavia sottolineato che il con-tenuto in fitato rilevato in media nella dieta italiana (circa300 mg/die) non è sufficiente a ridurre in modo significa-tivo la biodisponibilità dello zinco.L’assunzione totale di zinco con la dieta media italiana ri-sulta essere di circa 13 mg/die. Più del 40% dello zincoassunto con la dieta italiana (5 mg/die) deriva dal consu-mo di carne, interiora e pesce. Altre fonti importanti dizinco sono il latte ed i cereali che, nella dieta media italia-na, contribuiscono all’assunzione totale giornaliera en-trambi per circa il 20% (3 mg/die); le verdure fornisconoinvece circa il 12% (1,5 mg/die). Uno studio condotto sutre comunità rurali ha evidenziato un’assunzione mediagiornaliera di 8 -11 mg.

Livelli di assunzione raccomandatiLa Commission of the European Communities (1993)usa il metodo fattoriale per stimare il fabbisogno di zin-co nel bambino. Secondo questa metodica di calcolo, so-no sufficienti 2-3 mg di zinco/die per mantenere le nor-mali funzioni metaboliche. È probabile che in presenzadi disponibilità più basse intervengano meccanismi

Marco Colasanti Daniela Vona

“Lo zinco è considerato essenziale perla divisione cellulare e la sintesi delDNA, per la crescita dei tessuti, la

guarigione delle ferite, per il senso delgusto, per la funzione del sistemaimmunitario e della tiroide, per lamineralizzazione delle ossa, per lefunzioni cognitive, per la crescita

fetale”

L’importanza di chiamarsi zincoL’insospettabile ruolo di un metallo nell’alimentazione

di Marco Colasanti e Daniela Vona

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compensatori che mantengono (entro certi limiti) inalte-rata l’omeostasi del metallo attraverso la ritenzione del-lo zinco endogeno. Lo stesso calcolo applicato agli adul-ti indica il fabbisogno giornaliero di zinco in 7,5 mg neimaschi e in 5,5 mg nelle femmine. Studi effettuati sudonne incinte suggeriscono che non sia necessario au-mentare l’apporto di zinco in gravidanza. Sebbene cisiano evidenze che in corso di allattamento l’assorbi-mento dello zinco alimentare aumenti, viene comunqueconsigliata una maggiorazione dell’assunzione di 5mg/die, per reintegrare la quota secreta nel latte.In ogni caso, la Commission of the European Communi-ties (1993) raccomanda di non superare 30 mg/die di as-sunzione di zinco nell’adulto.

Carenza o eccesso di zincoSecondo uno studio effettuato nella Tufts University, lacarenza di zinco rappresenta uno dei principali deficit nu-trizionali nei bambini degli Stati Uniti. Più del 50% deibambini poveri e il 30% dei bambini più agiati, di etàcompresa tra 1 e 5 anni, ottengono meno del 70% del fab-bisogno alimentare giornaliero raccomandato di zinco. La carenza di zinco può essere causata da malassorbi-mento e può portare a quadri clinici caratterizzati dadiarrea cronica, dimagrimento, alopecia, lesioni cutaneee caduta delle difese immunitarie. Quadri clinici similipossono essere acquisiti da pazienti trattati a lungo connutrizione parenterale totale mediante soluzioni chenon contengono zinco, o in portatori di by-pass intesti-nale. In tutti questi casi, la sintomatologia regrediscerapidamente con opportuna supplementazione parente-rale od orale di zinco. In ogni caso, una carenza di zin-

co è stata implicata come fattore determinante in unaserie di patologie, tra cui difetti alla nascita, ritardo del-la crescita, sviluppo sessuale ritardato, impotenza, mi-neralizzazione difettosa dell’osso e problemi artritici,difetti della pelle (acne e dermatiti), riduzione dellaguarigione di ferite, problemi oculari (miopia, separa-zione retinica, cataratte, neurite ottica), perdita dell’o-dorato e del gusto, anoressia, depressione, funzione im-mune alterata. Una carenza di zinco con sintomi menocaratteristici è riscontrabile anche in altre patologiecorrelate ai processi di assorbimento (morbo di Crohn,celiachia), nonché nelle infezioni ricorrenti, nel tratta-mento cronico con diuretici o con con D-penicillaminae nell’anemia falciforme. Al contrario, l’assorbimento eccessivo di zinco può in-terferire con la normale omeostasi di altri elementi, inparticolare con il metabolismo del rame. Si è osservatatossicità acuta, ad esempio, in soggetti sottoposti a dia-lisi, a causa di cessione dello zinco dai contenitori del-l’acqua di dialisi. La tossicità acuta si manifesta connausea, vomito e febbre. L’interferenza dello zinco sulmetabolismo del rame porta a riduzione del numero deileucociti e alla comparsa di anemia microcitica. Anchel’assorbimento di altri elementi viene alterato, in parti-colare quello del magnesio e del calcio, con conseguen-

ze importanti sullo stato dell’osso.La ricerca scientifica sullo zincoNegli ultimi anni, la ricerca scientifica ha focalizzatol’attenzione sull’importanza dello zinco per il correttofunzionamento del sistema immunitario e della risposta

“Nella dieta tipica del nostro Paese, lefonti alimentari principali di zinco

sono costituite da carni, uova, pesce,latte e derivati, cereali”

“Secondo uno studio effettuatonella Tufts University, la carenza dizinco rappresenta uno dei principali

deficit nutrizionali nei bambinidegli Stati Uniti”

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antiossidante dell’organismo. L’omeostasi dello zincoaiuta a mantenere l’integrità e la stabilità genomica, in-fluenza lo sviluppo e la funzione delle cellule immuni-tarie oltre che l’attività di molte proteine coinvolte nel-la protezione dell’organismo contro i radicali liberi.Durante l’invecchiamento, l’assorbimento dello zincodiminuisce a causa o di una dieta insufficiente e/o dimalassorbimento intestinale, contribuendo alla debolez-za, all’inabilità generale e ad una aumentata incidenzadi malattie associate all’età (cancro, infezioni ed atero-

sclerosi). Recentemente, è stato osservato che alcunipolimorfismi (variazione genetica) di proteine ed enzi-mi coinvolti nella regolazione dell’omeostasi dello zin-co sono associati a patologie ricorrenti durante l’invec-chiamento. Sebbene siano stati identificati molti fattoriche contribuiscono alla carenza dello zinco, la possibi-lità di migliorare la salute attraverso la supplementazio-ne di questo metallo negli anziani è ancora oggetto distudi intensi.Progetto ZINCAGEZincage (www.zincage.org), un progetto di ricerca mira-to e specifico (STREP) finanziato dall’Unione Europeanell’ambito del sesto programma quadro (FP6), area te-matica “Food quality and safety”, ha affrontato negli ul-timi anni il ruolo dello zinco nell’invecchiamento, for-nendo informazioni dettagliate sugli effetti della supple-mentazione di zinco negli anziani. Questo progetto daltitolo Nutritional zinc, oxidative stress and immunosene-scence: biochemical, genetic and lifestyle implications

for healthy ageing, è statocoordinato dal dr. EugenioMocchegiani del Centro diricerca italiano sull’invec-chiamento con sede ad An-cona (INRCA - Italian Na-tional Research Centres onAging) e ha coinvolto dicias-sette unità operative distri-buite in diverse universitàeuropee (tra cui l’UniversitàRoma Tre) di otto nazionidifferenti (Italia, Spagna, In-ghilterra, Francia, Germania,Polonia, Ungheria e Grecia). Da questi studi emerge chela somministrazione di zinconegli anziani sembra miglio-rare la risposta immunitariae ridurre lo stress ossidativo,anche se esistono differenzenelle risposte individuali do-

vute a molti fattori, quali le abitudini alimentari, il ge-notipo, il genere, l’uso dei farmaci. Uno di questi fattoriè il diverso profilo genetico dei soggetti arruolati perquesto studio. Infatti, un ruolo fondamentale è giocatoda alcune proteine coinvolte nella regolazione dell’o-meostasi dello zinco che possono presentarsi con poli-morfismi genetici. Una classe importante di tali proteineè rappresentata dalle metallotioneine che legano lo zincocon alta affinità (vedi immagine sopra) ma che lo libera-no, in risposta a stress ossidativo, modulando l’espres-sione dei geni zinco-dipendenti ed attivando gli enzimiantiossidanti. ConclusioniLa carenza di zinco, la disfunzione immunitaria e l’au-mentato stress ossidativo sono eventi comuni nei sog-getti anziani ed è chiaro che lo stile di vita e le abitudi-ni alimentari, compreso il consumo di zinco, hanno ungrande impatto su questi fattori.Nonostante si siano fatti enormi passi avanti riguardo lasensibilità e specificità dei vari metodi per valutare lostato dello zinco nell’organismo, la ricerca sul ruolodello zinco nell’invecchiamento è ancora in una faseiniziale. Molto incoraggianti sono i risultati ottenutisulla funzione delle metallotioneine e dei trasportatoridello zinco nell’invecchiamento e, in particolare, sulla

supplementazione dello zinco nei soggetti anziani, maesistono ancora forti limitazioni per quanto riguarda lariproducibilità e la generalizzazione dei dati scientificie la conseguente applicabilità nelle pratiche mediche ealimentari.

“Negli ultimi anni, la ricerca scientificaha focalizzato l’attenzione

sull’importanza dello zinco per ilcorretto funzionamento del sistema

immunitario e della rispostaantiossidante dell’organismo”

“Zincage, un progetto di ricerca miratoe specifico finanziato dall’Unione

Europea, ha affrontato il ruolo dellozinco nell’invecchiamento”

Rappresentazione schematica della metallotioneina, una proteina che lega atomi metallici (sfere cele-sti), come ad esempio lo zinco

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Il numero delle persone insovrappeso aumenta inmodo allarmante. Per farfronte a questa “pande-mia” vengono messe incampo un numero cre-scente di iniziative volte aconvincere le persone aprestare più attenzione allapropria dieta e a cambiareil proprio stile di vita. Ot-

tenere dei risulati duraturi è tuttavia difficile: dopo un po’di tempo il peso aumenta di nuovo, l’esercizio fisico di-minuisce, le vecchie abitudini riprendono il sopravvento.Che cosa è che non funziona?Da più parti si richiede un riesame degli approcci usati fi-no ad ora ed un cambiamento di prospettiva. Ad esseremessi sotto critica sono gli approcci che fanno riferimen-to al mangiare come una scelta basata su attitudini e moti-vazioni individuali, come ad esempio i modelli della psi-cologia comportamentale quali la teoria del comporta-mento pianificato di Azjer o il modello transteoretico sul-la motivazione al cambiamento di Prochaska. Un manife-sto di questa critica è l’intervento della sociologa dell’ali-mentazione Anne Murcott al simposio sulle Psycho-so-cial influences on food choice: implications for dietarychange del 1995. Qui, potremmo dire “senza peli sullalingua”, Anne Murcott contestò il fatto che le abitudinialimentari vengano considerate come “scelte” condizio-nate da fattori sociali. Scelte alimentari e fattori socialinon sono due entità separabili, sostiene Murcott: il man-giare è un fatto sociale che va compreso nella sua interez-za. Solo comprendendo questo nesso si può gettare nuovaluce – e un po’ di speranza – sui problemi alimentari checi circondano.

Il considerare le pratiche alimentari come un fatto socialeha diverse implicazioni. In primo luogo significa conside-

rare le persone che mangiano non come individui astratti,asessuati e senza età che semplicemente “scelgono” quel-lo che hanno nel piatto. Chi mangia è una persona con ungenere, un corpo e una storia che dividono il cibo insiemead altri in contesti specifici: da quello familare, a quellolavorativo, al tempo libero. Chi mangia o chi prepara ilcibo è una padrona di casa o un ospite, una madre, una fi-glia, un marito, un amico o un conoscente. Tra i sociologidel consumo – come Alan Warde e Roberta Sassatelli – sisottolinea inoltre che il mangiare non va visto come unapratica isolata ma come una pratica dentro altre pratiche.Quando siamo invitati ad un compleanno non “sceglia-mo” di mangiare una torta: la pratica “festeggiare il com-pleanno” implica che ad un certo punto arriverà una tortacon le candeline e che questa ci verrà servita su un piatto(e che è buona educazione mangiarla!). L’essere sociale delle pratiche alimentari appare in modoevidente quando consideriamo il mettersi a dieta. Mettersia dieta è un’azione che mette in discussione pratiche so-ciali tacite e condivise. Proviamo a chiederci: che cosasuccede attorno ad un tavolo quando uno vuole sostituirela pasta con un’insalata, un bicchiere di vino con dell’ac-qua naturale?

Nella parte che segue cercherò di rispondere a questa do-manda basandomi su delle riflessioni compiute studiandodonne e uomini che si sono iscritti ad un corso per ridurreil loro peso. Mettersi a tavolaMettersi a tavola e dividere il cibo con altri è un espe-rienza comune alla stragrande maggioranza di noi.Nonostante ripetutamente si senta dire che i pranzi e lecene siano istituzioni in via di estinzione, numerose ri-cerche – di volta in volta – ribadiscono che si continua amangiare con gli altri in forme e in tempi organizzati eche si dà a questo molta importanza. Le persone che so-no a dieta non fanno eccezione a questa regola: nessuna,tra quelle intervistate, ha detto di preparare del cibo di-verso per sé o di mangiare da solo (se si vive in fami-

“Il numero delle persone in sovrappesoaumenta in modo allarmante. Per far

fronte a questa pandemia vengonomesse in campo un numero crescente

di iniziative volte a convincere lepersone a prestare più attenzione allapropria dieta e a cambiare il proprio

stile di vita”

“Il considerare le pratiche alimentaricome un fatto sociale ha diverse

implicazioni. In primo luogo significaconsiderare le persone che mangiano

non come individui astratti, asessuati esenza età, ma come persone con un

genere, un corpo e una storia”

Sei davvero sicura di non volereun’altra fetta di torta?Sulle implicazioni sociali del mettersi a dieta

di Laura Terragni

Laura Terragni

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glia). Consuma-re il cibo insie-me ha però ilsuo prezzo: intermini di com-promessi, ecce-zioni o piccolisotterfugi. Se le cose in ge-nere funzionanoquando è chi staa dieta che fa laspesa e preparala cena, alcuniproblemi emer-gono quandosono altri a far-lo. Mariti, mo-gli o amici dis-tratti possono“dimenticarsi”che l’altro è adieta e prepara-no piatti che poco si addicono alle nuove esigenze ali-mentari. Tuttavia, piuttosto che venire meno a questo ri-tuale quotidiano si fa comunque buon viso a cattivo gio-co: si cerca di mangiare meno e di tirare via le salse, lecreme, i condimenti. Le situazioni più difficili sono co-munque quelle in cui si è invitati a cena a casa d’altri.Occhi indagatori osservano quello che hai nel piatto. Ese è cattiva educazione abbuffarsi, anche mangiare trop-po poco o rifiutare il cibo può creare imbarazzi. Allora sicerca di mangiare e di bere piano – senza darlo troppo anotare – perché è più improbabile che ti venga offertauna seconda porzione se hai del mangiare ancora nelpiatto o che ti venga versato di nuovo del vino se il bic-chiere è ancora mezzo pieno. Il cibo come pratica dentro altre praticheUscire con gli amici a mangiare una pizza. Bersi una birradopo essere stati allo stadio. Comperare i popcorn quandosi va al cinema. In molti casi il mangiare è una componen-te quasi inscindibile di altre attività, specialmente quellelegate al tempo libero. Mettersi a dieta implica una deco-struzione di queste attività dove l’elemento del cibo (o delbere) viene scisso dal resto. Se è vero che è del tutto legit-timo e possible compiere questa operazione, provate adimmaginarvi un tifoso di calcio che finita la partita se neva al bar con gli amici ed ordina un bicchiere di acqua mi-nerale o una coca cola light! Mettersi a dieta implica unariconsiderazione dei propri rapporti sociali e delle proprieamicizie. Uscire può divenire una fonte di ansie. Gli amici“veri” divengono quelli che che non ti prendono in giro sebevi l’acqua, che non ti tentano con un piatto di fettuccinealla panna o che non ti mettono davanti al naso un sac-chetto di patatine. Ancora meglio se l’acqua gassata e l’in-salata la ordinano pure loro.Il posto delle cose«Non puoi farmi questo!» Mettersi a dieta implica anchedei cambiamenti nella disposizione dei cibi. Dove si trova-no nella dispensa e nel frigorifero. Aprire la credenza etrovarla piena di cibi “proibiti” non è un’esperienza positi-

va per chi sisforza di starealla larga dalletentazioni. Me-glio metterli inposti separati,lontani dagli oc-chi, non sapereneanche che sitrovano in casa.Mentre alcunioggetti esconodai posti piùconsueti altri di-vengono partedi un uso quoti-diano: pentoleper cuocere avapore o ai ferri,bilance, lava in-salata, bollitoriper le tisane. Alposto dell’olio,

le spezie. Il mettersi a dieta implica una riassegnazionedegli spazi della cucina, delle zone accessibili e di quelleche invece è meglio evitare. Implica l’acquisizione di nuo-ve competenze del cucinare, del conoscere i cibi, del saperleggere le etichette.

Per concludere. Mettersi a dieta, come ho cercato sinte-ticamente di descrivere, implica ripensare al modo di fa-re la spesa, di cucinare, di pensare al tempo libero; creanuove coesioni e alleanze tra i componenti della fami-glia e gli amici; implica la messa in atto di strategie ecompromessi. Lo studio del mettersi a dieta ci rimandaal nodo essenziale affrontato dai classici della sociolo-gia (da Durkheim a Weber, da Goffmann a Giddens) delrapporto tra individuo e società, tra spazi dell’agire indi-viduale e valenza delle norme sociali. Mettersi a dieta èmolto più che un problema di motivazione è soprattuttouna questione di conseguenze. Per le persone obese que-ste conseguenze non sono limitate nel tempo. Non sitratta di perdere i tre chili per mettersi in bichini, ma diperderne trenta, quaranta a volte anche molti di più.Spesso le persone obese hanno intorno a sé un ambiente“ostile” ai cambiamenti, un ambiente al quale si è legatiper affetti, consuetudini, mancanza di altre opportunità.Le implicazioni del mettersi a dieta andrebbero tenutemaggiormente in conto quando si progettano interventiper arginare l’ondata crescente di obesità.

“Se le cose in genere funzionanoquando è chi sta a dieta che fa la spesa

e prepara la cena, alcuni problemiemergono quando sono altri a farlo.

(…) E se è cattiva educazioneabbuffarsi, anche mangiare troppopoco o rifiutare il cibo può creare

imbarazzi”

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Una delle ragioni della popola-rità di Michelle Obama sta nel-la campagna da lei promossacontro l’obesità giovaniledrammaticamente diffusa negliStati Uniti. Una campagna – lasua – fatta non di prediche, madi performance collettive all’a-perto in cui la first lady svolgeil ruolo di leader, con esercizifisici e prestazioni gastronomi-che ispirate al criterio di un sa-no equilibrio.

Da noi in Italia, fortunatamente, le malattie da cattiva ali-mentazione non hanno investito i giovani con altrettanta vi-rulenza, anche se tendenze bulimiche e anoressiche, combi-nate con fattori psicologici diffusi, sono in crescita.Ciò che comunque caratterizza la situazione dei ragazzi, spe-cie nel periodo universitario, è la scarsa consapevolezza del-le conseguenze dei comportamenti alimentari. La presenzanelle università di mense e bar non obbedisce quindi soltantoall’esigenza primaria di avere a portata di mano luoghi di ri-storazione, ma anche a quella tutt’altro che secondaria dicorreggere tendenze alimentari poco equilibrate. Se prendia-mo le mense gestite dall’Adisu Roma Tre, ad esempio, cosìcome quelle di Laziodisu nelle altre università pubblichedella Regione, la prima cosa che ci colpisce è l’impostazionedel menù. L’avvicendarsi settimanale dei diversi piatti, la se-lezione dei cibi e la loro preparazione è precisa conseguenzadi scelte operate da nutrizionisti di livello, gli stessi che so-vraintendono e controllano le grandi catene alberghiere. Val-ga un nome per tutti: quello del prof. Carlo Cannella, profes-sore ordinario di Scienza dell’alimentazione nella Facoltà diMedicina e Chirurgia alla Sapienza, noto anche al pubblicotelevisivo per le sue numerose partecipazioni a Superquark.Il prof. Cannella ha collaborato con l’Adisu Roma Tre perun lungo periodo, impostando i criteri base su cui fondare ilservizio di ristorazione per gli studenti. Attualmente Laziodi-

su si avvale della collaborazione della sua allieva, dott. Ma-ria Pia Muli, la quale ha l’incarico di sorvegliare sulla sicu-rezza degli alimenti e sulla corretta prassi di lavorazione de-gli stessi, nonché di tenere corsi di formazione per il perso-nale addetto alle mense. Ma vediamo più da vicino comefunzionano le mense di Roma Tre. Come gli studenti sanno,allo stato attuale abbiamo la struttura di Via della Vasca Na-vale, 79 e quella, in regime di convenzione, scelta a seguitodi indagine di mercato e sentiti i rappresentanti degli studen-ti, di via Libetta 19. L’accesso è aperto a tutti gli studentiuniversitari e il costo del pasto è variabile in relazione allafascia reddituale cui si appartiene.Entrambe operano sulla base di un preciso capitolato di in-carico che stabilisce caratteristiche dei menù, modalità diespletamento del servizio nonché i vari oneri a carico delfornitore. Ma ci sono menu particolarmente adatti agli stu-denti? «L’alimentazione in effetti può aiutare l’apprendi-mento – sostiene Oliviero Sculati, direttore dell’Unità dinutrizione di una Asl – ma solo nel senso che una situazio-ne generale di equilibrio nutrizionale permette al cervellodi lavorare meglio. Senza aspettarsi miracoli. Anche se èvero che i fosfolipidi contenuti nel pesce o nelle uova fan-no bene ai neuroni (le cellule cerebrali), non ne occorreuna quantità industriale: basta mangiarli due o tre volte al-la settimana. Le bevande energetiche a base di tuorli sbat-tuti e marsala, tanto raccomandate dalle nonne, erano unutile supplemento proteico nel passato, quando l’alimenta-zione era carente: oggi non servono». A parere di AugustaAlbertini, docente di Educazione alimentare all’Universitàdi Pavia. non ha senso creare delle inutili forzature o alte-razioni di gusto, soprattutto in un momento stressante co-me la preparazione dell’esame.La struttura di ristorazione dell’Adisu operano in questo sen-so. Che cosa manca? Una più incisiva e diffusa azione infor-mativa, che consenta a studenti e studentesse di conosceremeglio le opportunità che vengono offerte nel nostro Ateneoe, più in generale, i canoni di alimentazione cui comunqueattenersi.

Gianpiero Gamaleri

Il menù dello studenteCome si mangia nelle mense universitarie

di Gianpiero Gamaleri

Immagini della mensa di via della Vasca Navale

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«colazione: 1 vasetto da125 g, 63 calorie. pranzo:200 g di pomodori, 34 ca-lorie e un piccolo pompel-mo, 52 calorie. cena: aria,0 calorie. tot: 149. se ridu-co le calorie e sto attentaal conteggio potrò esserepiù magra. non ho ancoraraggiunto il mio obiettivo.quella cacchio di bilanciasembra ferma sempre sul-lo stesso punto. a volte migira la testa, i capelli sono

secchi e spenti e ho i brividi ... ho fame ma per fortuna hoil mio braccialetto. lo tendo, tiro ed è fatta».Messaggi come questo se ne possono leggere a decine suspecifici blog che prolificano, nonostante l’intensa attivitàdi censura, e che vengono utilizzati da molte ragazze perconfrontarsi sui successi raggiunti e per sostenersi a vicen-da; in questi spazi è possibile trovare indicazioni per ade-rire a quella che ormai è considerata una filosofia del vi-vere che, come una religione, è declinata in 10 regole fon-damentali: 1. se non sei magra non sei attraente, 2. esseremagri è più importante che essere sani, 3. comprati dei ve-stiti, taglia i capelli, prendi i lassativi, muori di fame, fai ditutto per sembrare più magra, 4. non puoi mangiare senzasentirti colpevole, 5. non puoi mangiare cibo senza punirtidopo, 6. devi contare le calorie e ridurne l’assunzione diconseguenza, 7. quello che dice la bilancia è la cosa piùimportante, 8. perdere peso è bene, guadagnare peso è ma-le, 9. non sarai mai troppo magra, 10. essere magri e nonmangiare è il simbolo della vera forza di volontà e dell’au-tocontrollo. A queste regole si aggiungono degli elementi che hanno ilpotere di rendere la comunità – inizialmente virtuale –unica, coesa e riconoscibile; tra questi, dei braccialetti – inalcuni casi elastici – di colore rosso per definire l’anores-sia e blu per definire labulimia, entrambi com-posti da una farfallina –non a caso forse – ed en-trambi da portare sulbraccio sinistro. Basti consultare uno diquesti siti, inoltre, pervedere quanto ciò cheappare è in netto contra-sto con ciò che è. I colorisono vivaci e allegri e leimmagini molto grandi;il tutto è reso bello e at-traente da brillantini, pu-

pazzetti e foto, come a voler indurre chi guarda a disto-gliere lo sguardo.Da cosa? Dal fatto che ciò che leggiamo nei comporta-menti di queste ragazze si chiama anoressia e bulimia.Due patologie alimentari le cui cause di insorgenza, gli ef-fetti a breve, medio e lungo termine sul corpo, la correla-zione con altre patologie, le terapie da adottare sono bendefinite nel Manuale diagnostico dei disordini mentali.Sempre più spesso sentiamo parlare di questi disturbi, del-le azioni preventive da mettere in atto, di quanto il feno-meno si stia espandendo e diversificando, di quali campa-gne di sensibilizzazione siano più efficaci, di quale meto-dologia terapeutica sia quella risolutiva; sentiamo questo oquell’esperto che indica come responsabile dell’insorgen-za della malattia, alternativamente, la famiglia, i modelliculturali, la moda, la scuola, la società. In effetti, ognunadi queste potrebbe essere la causa di un rapporto proble-matico con il cibo ma non è possibile sapere con certezza,vista la singolarità di ogni storia di vita, che cosa rendal’atto del nutrirsi un momento tanto temuto. Quello chefuor di ogni dubbio si può affermare è il rapporto inscindi-bile che esiste tra il cibo e il corpo.

Un terapeuta, infatti, quando lavora con una pazienteanoressica o bulimica non si domanda perché non man-gia ma perché vuole eliminare quel corpo. Ed è proprio

questa una delle chiavidi lettura – Essere, cor-po, cibo – attraverso cuii disordini alimentari as-sumono un significato.Franco Basaglia affer-mava che «non si puòparlare di un uomo sen-za rimandare alla suacorporeità... il nostro in-gresso nel mondo si at-tua infatti nel momentodel nostro apparire comecorpo... è proprio il cor-po che mi dà la possibi-

Gessica Cuscunà

“Anoressia e bulimia. Due patologiealimentari le cui cause di insorgenza,

gli effetti a breve, medio e lungotermine sul corpo, la correlazione conaltre patologie, le terapie da adottare

sono ben definite nel Manualediagnostico dei disordini mentali”

Corpo e ciboQuell’insostenibile pesantezza dell’Essere

di Gessica Cuscunà

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lità di agire, di tendere verso la realizzazione del miopossibile».È evidente quindi che il corpo è l’esposizione al mondodel nostro Io; è attraverso questo nostro corpo che si rea-lizza il sé, che transita il senso dell’autonomia, della for-za, della libertà, della volontà ma allo stesso tempo del-l’ossessività, della paura, della sensazione di perdere ilcontrollo; sensazioni molto spesso riportate nei raccontidi pazienti con disturbi alimentari. Ma se convivere conquesto mio Io-corpo è davvero così insopportabile – per-ché è difficile essere presenti nel mondo concedendosi illusso di occupare uno spazio adeguato – allora potrebbeessere coerente l’idea di agire su questo corpo un talecontrollo da risultare ossessivo e invadente. Se si è in questo mondo per il tramite di un corpo alloraun corpo meno evidente potrebbe essere la via per non es-sere, con tutto ciò che questo comporta. «Siamo ciò chemangiamo», scrive Feuerbach, allora se non mangio... «di fronte allo specchio conto le ossa del torace, vedospuntare le ossa del bacino e se metto la mano davanti al-la lampadina dello specchio vedo in trasparenza ogni ve-na ....ogni cosa è così sottile che potrebbe sbriciolarsi...».Un aspetto caratterizzante le patologie alimentari è la ne-cessità di controllo su ogni aspetto della vita; comporta-mento che si esaspera di fronte alle condotte alimentari.Questo controllo però non è sinonimo di tranquillità madi costante allerta; infatti, nonostante le azioni messe inatto per rendere questo corpo meno accentuato, per limi-tare il più possibile la propria presenza nel mondo sembrache esso non riesca a liberarsi di quel senso di vuoto, di

angoscia così vicino – secondo quanto espresso da moltepazienti con disturbi alimentari – a un reale senso di mor-te.Altro elemento che ci può aiutare a comprendere i disor-dini da condotte alimentari è il significato relazionale cheha il cibo, in tutto l’arco della vita, e la sua valenza sim-bolica quale strumento attraverso cui viene veicolata la

cura, l’accettazione e la condivisione; elementi che ren-dono l’atto del mangiare un momento formativo e struttu-rante della personalità umana. L’atto del nutrimento è un gesto unico in cui corpo e ciboconcorrono per determinare quella struttura che fa diognuno di noi un essere irripetibile; basti pensare che seuno dei due elementi venisse a mancare non esisterebbe lavita. E basti pensare al momento centrale, più significativoe conosciuto del rito biblico – «prendete e mangiatene tut-

“Franco Basaglia affermava che «nonsi può parlare di un uomo senza

rimandare alla sua corporeità... ilnostro ingresso nel mondo si attua

infatti nel momento del nostro apparirecome corpo... è proprio il corpo che mi

dà la possibilità di agire, di tendereverso la realizzazione del mio

possibile»”

Una natura morta di cocomeri è l’ultimo quadro dipinto da Frida Khalo, Viva la vida (1954)

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ti, questo è il mio corpo» – per cogliere l’indissolubilità ela sacralità – anche in senso laico – di questo binomio.Detto questo, appare evidente lo stretto legame tra il ciboe le emozioni; è piuttosto frequente infatti ricorrere al ciboper alleviare uno stato di frustrazione, per superare un mo-mento di tristezza o per dare rilievo a un evento significa-tivo della vita, pensiamo ai sontuosi banchetti di feste dicompleanno, matrimoni etc.

Nelle pazienti con disturbi alimentari è proprio questo le-game che risulta problematico e talmente tanto che è plau-sibile che si possa venire a creare con il cibo un rapportoambivalente di attrazione/repulsione; questo, in genere,determina l’instau-rarsi di un circolovizioso per cui allaricerca affannosa dicibo segue un enor-me senso di colpa edi vergogna, il pro-posito di non rica-derci più e la sensa-zione che nemmenol’ennesima pizzettaè riuscita a colmarequell’enorme sensodi niente che si sen-te dentro.«un’altra volta ...penso sempre che laprecedente era statal’ultima... ma poi...quasi in trance escoe faccio il mio tourdei bar, la mia viacrucis, non vedonessuno intorno ame, non riesco aguardare nessuno infaccia, mi vergogno,mi fermo, entro, or-dino e... sudo. midico che non succe-derà più e so già chenon sarà così... chepena che mi fac-cio...».Ma è fame questa?No. È l’estremo ten-tativo di placarel’angoscia, la paura

di perdere il controllo pur perdendolo. Assumere cibo inquantità e senza uno schema è la risposta che le pazientibulimiche hanno trovato al loro bisogno di calore, di rassi-curazione e di vicinanza. Ciò che caratterizza l’atto delmangiare compulsivo è la mancanza di concentrazione os-sia nel momento in cui la persona è «in preda a un attac-co» non è centrata su di sé; la mente è completamente of-fuscata da un vortice di sensazioni, perlopiù negative, chenon permettono alla persona di soffermarsi, di riflettere, didomandarsi «è questo quello che voglio davvero?».

Le conseguenze di questo comportamento sono altrettantodevastanti: un esasperato senso di colpa e un giudizio im-placabilmente negativo verso se stesse. È una fame emoti-va che gravita intorno al rimuginare di pensieri, sensazioni

ed emozioni e chenon permette di nu-trirsi di esperienzepositive che vadanoad alimentare il sen-so del piacere, del-l’autostima, dell’a-more verso se stes-si. L’ultima conside-razione da fare èche, fin qui, abbia-mo declinato que-sti due disturbi alfemminile; in effet-ti, ad oggi, tutti idati ci dicono chele più colpite sonole ragazze. Provo-catoriamente po-tremmo dire che lacorrelazione è ab-bastanza evidente:è come se l’anores-sia e la bulimia fos-sero la manifesta-zione di quell’eredi-tà atavica che spes-so non permette alladonna di essere at-traverso il suo corpoe di esprimere leproprie emozioni,tra cui la rabbia.«oggi vorrei usciree passeggiare, gode-re del sole. sposto latenda... e vado...».

“Se si è in questo mondo per il tramitedi un corpo allora un corpo meno

evidente potrebbe essere la via per nonessere, con tutto ciò che questo

comporta. «Siamo ciò che mangiamo»,scrive Feuerbach, allora se non

mangio...”

“Perché si vuole eliminare quel corpo?È proprio questa una delle chiavi di

lettura – Essere, corpo, cibo –attraverso cui i disordini alimentari

assumono un significato”

Fernando Botero, Donna nel bagno (2000)

Nonostante l’interesse perla produzione di carburan-ti di natura rinnovabile siastoria recente, non an-drebbe dimenticato che ibiocarburanti, risalendo aquasi due secoli fa, nondelineano affatto un feno-meno postmoderno legatoall’ecologismo: nel 1853gli scienziati E. Duffy e J.Patrick misero a punto ilprocesso di transesterifi-cazione che consente la

trasformazione dell’olio vegetale grezzo in una miscelautilizzabile come combustibile. Nel 1900, il motore pre-sentato all’esposizione universale di Parigi da Rudolf Die-sel era stato testato per funzionare bruciando semplice oliodi arachidi. Durante i primi anni del Novecento, l’uso deibiocarburanti venne accantonato per una chiara questionedi economicità: non avrebbe avuto senso, infatti, produrrebiocarburante invece di utilizzare le abbondanti riserve dicombustibile fossile disponibili all’inizio del secolo scor-so. Tale convenienza economica si tradusse nell’edifica-zione di un intero mondo industriale supportato da energiadi origine fossile; e le macchine, nate insieme ai biocarbu-ranti, vennero assemblate intorno a un motore adattato allaviscosità specifica del petrolio (rara eccezione rappresentòil modello T di Henry Ford, progettato per funzionare aetanolo derivato dal grano). L’andamento della domandadi biocarburante nel 1900 è stato principalmente determi-nato dalla necessità di trovare alternative alle importazionidi carburante fossile, in un’ottica di sicurezza energetica:durante la seconda guerra mondiale, ad esempio, la Ger-mania adottò l’uso di un missile a propulsione ecologica,attivato da una miscela di perossido di idrogeno ed alcooletilico ottenuto dalla fermentazione delle patate. Con il ri-stabilirsi della pace, il carburante di origine fossile medio-rientale tornò a essere la fonte energetica più a buon mer-cato e frenò la prolifica ricerca tecnologica che la guerraaveva messo in atto. I biocarburanti sono tornati alla ribal-ta del panorama internazionale grazie alla instabilità geo-politica e agli interessi economici conseguenti alle crisipetrolifere incorse a partire dagli anni Settanta. I continuitagli alla produzione annunciati dall’Opec, il crescente au-mento di fabbisogno energetico mondiale e la presa di co-scienza dell’impatto ambientale dei costumi energivoridelle società moderne, hanno reso i biocarburanti l’ogget-to di un intenso dibattito a livello mondiale. I carburanti rinnovabili possiedono caratteristiche merceo-logicamente interessanti: sono biodegradabili; sono compo-sti in parte da ossigeno, elemento che permette l’abbatti-mento degli inquinanti gassosi nelle emissioni dei motori

degli autoveicoli; contengono una quantità minima di zolfo,permettendo la riduzione delle emissioni di anidride solfo-rosa; hanno un contenuto energetico paragonabile a quellodegli idrocarburi fossili; se prodotti sotto determinate condi-zioni, presentano un bilancio energetico decisamente positi-

vo; oltre che dalle colture dedicate alla fornitura di materiaprima, possono essere prodotti dagli scarti della lavorazioneindustriale, agricola, forestale e dai rifiuti urbani. I biocarburanti si dividono in tre categorie: quelli di prima

Ylenia Curci

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“Nel 1853 gli scienziati E. Duffy e J.Patrick misero a punto il processo ditransesterificazione che consente la

trasformazione dell’olio vegetalegrezzo in una miscela utilizzabile come

combustibile”

Il biodiesel viene ricavato dalla lavorazione delle piante oleaginosecome la colza

Campi energeticiI biocarburanti: un altro frutto della terra

di Ylenia Curci

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generazione sono prevalentemente ricavati dalla lavorazio-ne di materia prima di origine agricola e zootecnica attra-verso processi di fermentazione e transesterificazione con-solidati. Quando di origine agricola, essi sottraggono ac-qua, terra e materia prima all’industria alimentare, ma pro-ducono sottoprodotti quali i fertilizzanti organici e mangi-mi per animali da allevamento. I biocarburanti di secondagenerazione presentano possibilità di successo ben superio-ri rispetto ai loro predecessori, in quanto promettono risul-tati migliori in termini di bilancio energetico e riduzionedelle emissioni di CO2 e non entrano in competizione conla filiera alimentare ma non producono sottoprodotti di al-cun genere. I biocarburanti di seconda generazione deriva-no dalla lavorazione della biomassa ligno-cellulosica, prin-cipalmente legno e la parte non nutritiva dei cereali: la bio-massa, attraverso il processo di fotosintesi, è in grado diconvertire i raggi solari in molecole complesse ad alto con-tenuto energetico. In tal senso, quindi, la biomassa può es-sere considerata una risorsa rinnovabile inesauribile, cosìcome lo è il sole. Quelli di terza generazione sono quasi to-talmente derivati dalla decomposizione delle alghe. Tre sono i principali carburanti prodotti al mondo: il bio-diesel viene ricavato principalmente dalla lavorazione dicolza, soia, palma e girasole, oltre che dagli scarti dell’in-dustria alimentare; ma può essere estratto in realtà daqualsiasi pianta oleaginosa (ne esistono più di 4000, moltedelle quali impiegate per usi industriali e alimentari). Il

biodiesel può essere prodotto in modi a dir poco inaspetta-ti: ad esempio è possibile ottenere biodiesel dagli scarti dipolvere di caffè. Da oltre 7 miliardi di tonnellate di caffèconsumati nel mondo annualmente potrebbero venire pro-dotti circa 1,2 miliardi di litri di biodiesel il quale, per viadegli agenti antiossidanti contenuti nel caffè, risulta unamiscela particolarmente stabile. Un ulteriore esempio pro-viene dalla Scozia: dal 2007, nella contea dell’Ayrshire,sono in circolazione autobus al profumo di patatine: il bi-glietto del Bio-Bus è scontato per i passeggeri che, dopoaver fritto le patatine, consegnano l’olio usato all’autista.Il secondo, il bioetanolo, è ottenuto mediante la fermenta-zione di prodotti agricoli ricchi di amido e zuccheri, qualii cereali (mais, sorgo, frumento, orzo) e le colture zucche-rine (barbabietola, canna da zucchero). Il bioetanolo damais è principalmente prodotto negli Stati Uniti mentrequello derivato dallo zucchero è prodotto quasi interamen-te in Brasile. In questo paese il bioetanolo è talmente dif-fuso che i cittadini brasiliani hanno trovato convenienteadottare (dalla Fiat) veicoli flex-fuel, i quali possiedono unmotore in grado di adattarsi completamente alla viscositàdel petrolio di origine fossile e del bioetanolo derivato dal-lo zucchero. Infine il biometano è un gas che possiede lestesse caratteristiche del metano presente in natura, maviene prodotto attraverso la fermentazione anaerobica dirifiuti organici di origine anche animale.

I biocarburanti sono stati protagonisti negli ultimi annidi un acceso dibattito: ad essi è stato attribuito un ruolochiave nello straordinario aumento dei prezzi agricoliavvenuto a partire dai primi mesi del 2007. Negli anniOttanta e Novanta del secolo scorso, la quantità di mate-ria prima di origine agricola utilizzata nella produzionedei biocarburanti rappresentava una porzione infinitesi-male del totale prodotto: dal 1980 al 2002, ancora primadell’esplosione della produzione dei biocarburanti, ladomanda statunitense di mais per bioetanolo è aumenta-ta di 24 milioni di tonnellate, mentre, dal 2002 al 2007,è cresciuta di ulteriori 53 milioni. Queste quantità ap-paiono però fortemente ridimensionate se si considera laquestione da un altro punto di vista: la superficie di terradedicata alla coltivazione di commodity per la produzio-ne dei biocarburanti rappresenta oggi meno del 3% deltotale della terra coltivata. Le valutazioni econometricheeffettuate per stabilire in quale proporzione i biocarbu-ranti siano stati responsabili dell’aumento dei prezziagricoli, sono giunte a conclusioni opposte, a secondadell’istituto di ricerca che le ha realizzate. Sintetizzandoall’estremo le posizioni dei diversi istituti, si possono

“Durante i primi anni del Novecento,l’uso dei biocarburanti venne

accantonato per una chiara questionedi economicità: non avrebbe avuto

senso, infatti, produrre biocarburanteinvece di utilizzare le abbondanti

riserve di combustibile fossiledisponibili”

citare due teorie contrapposte. La prima origina dallapittoresca dichiarazione del commissario europeo Fi-scher Boel: « (…) quelli che vedono i biocarburanti co-me la forza che ha guidato il recente aumento dei prezziagricoli, non hanno visto non uno, ma due elefanti cheerano proprio davanti ai loro occhi. Il primo elefante èl’incredibile aumento della domanda dei paesi emergenti(…) Il secondo elefante sono le cattive condizioni atmo-sferiche e i relativi effetti sulla produzione».In contrapposizione a questa tesi, in certo qual modo asso-lutoria, si trova l’opinione di alcuni istituti quali la FAO ela Banca Mondiale, ben riassunta da Jean Ziegler, respon-sabile degli aiuti alimentari ONU, in una dichiarazione ri-lasciata all’emittente radio tedesca Bayerischer Runfunknel 2008: «Produrre biocarburanti oggi è un crimine con-tro l’umanità».

Il fatto che sia stato possibile assumere atteggiamenticosì lontani nell’affrontare lo stesso problema chiariscequanto poco si conoscano in realtà i legami tra prezzi

degli alimenti e produzione di carburanti di origine agri-cola. Nell’attesa che luce venga fatta su tale questione,non bisogna dimenticare che i carburanti possono essereprodotti anche da ciò che normalmente consideriamo“rifiuti”, dagli scarti dell’industria alimentare e non,dalla spazzatura che produciamo ogni giorno nelle no-stre case. Produzione che in nessun modo insidia il mer-cato dei prodotti agricoli.

«L’uso dell’olio di origine vegetale come carbu-rante può sembrare insignificante oggi, ma, que-st’olio forse diventerà, nel corso del tempo, impor-tante come il petrolio e il carbone dei giorni d’og-gi.» Rudolf Diesel, 1912«Possiamo ottenere carburante dalla frutta, dagliarbusti che crescono sul ciglio delle strade, dallemele, dall’erbaccia, dalla segatura. Praticamentepossiamo ottenere carburante da tutto! C’è carbu-rante in ogni pezzetto di materia vegetale che puòessere fermentata. C’è abbastanza carburante nellepatate raccolte da un campo di un ettaro in un an-no per guidare i macchinari necessari a coltivarelo stesso campo per cento anni. Stiamo solo aspet-tando che qualcuno scopra come produrre questocarburante a livello commerciale, un carburantemigliore di quello che conosciamo oggi e ad unprezzo più conveniente.» Henry Ford, 1925

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Sono considerati biocarburanti di seconda generazione quelli derivanti dalla lavorazione della biomassa ligno-cellulosica, principalmentelegno e la parte non nutritiva dei cereali

“I biocarburanti sono tornati allaribalta del panorama internazionale

grazie alla instabilità geopolitica e agliinteressi economici conseguenti alle

crisi petrolifere incorse a partire daglianni Settanta”

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Ricordate John Lemon? OTutanpanem? O RapanelloSanzio?Sono i fantastici personag-gi della nota campagnapubblicitaria EsselungaFamosi per la qualità. Co-sa significa oggi puntaresulla qualità per i consu-matori? Cosa significa so-prattutto per i produttori eper i venditori? Nessun commerciante diràche sta vendendo una mela

lubrificata, passata sotto svariati trattamenti chimico-fisiciper consentirle di vivere più a lungo sul suo bancone. Mala perfetta forma e consistenza di una mela non coincidonoevidentemente con la sua qualità. L’obiettivo di quella campagna pubblicitaria (2001-2004),creata dal gruppo Armando Testa, è quello di trasformare«il messaggio in qualcosa di più: un’esperienza globale cheavvolge il consumatore» (dal Manuale anticrisi, ArmandoTesta Group). Direi di più: che rassicura il consumatore. D’altronde Esse-lunga è anche il primo grande distributore italiano, seguitoda Coop, che ha creato una linea biologica. Se i suoi pro-dotti possono fregiarsi di essere Famosi per la qualità ache scopo creare – anche – una linea biologica? Dove sta ladifferenza? Come consumatore potrei ragionevolmentepensare che a fronte di prezzi più alti (quelli dei prodottibiologici) mi convenga comprare tutto il resto. È pur vero che a dar retta alle pubblicità, in tema di cibo, è

genuino dare ai nostri figli le merendine tutti i giorni oppu-re è garantito che si possono prevenire le carie lavandosi identi con una gomma da masticare. Il concetto di qualitàpertanto è qualcosa di estremamente relativo, soprattutto senon è possibile certificarlo in alcun modo. Sarebbe ovviamente auspicabile che a nostra tutela, oltre adelle bellissime pubblicità che possono rendere più allegri inostri acquisti, potessimo verificare – sempre – la prove-nienza di quello che mangiamo in modo sicuro e trasparen-te. Questo non avviene anche perché, come si legge nel si-to del Ministero delle politiche agricole alimentari e fore-stali, nelle etichette non è obbligatorio inserire i luoghi diprovenienza della materia prima. Nella produzione biologica, sulla base del Regolamento(CE) 834/07, è previsto un rigido controllo di tutta la filiera

produttiva. «L’agricoltura biologica in Europa è una tecni-ca di coltivazione a carattere volontario normata. La certi-ficazione biologica» ci spiega Nicolò Passeri, tecnico ispet-tore per il controllo dei prodotti biologici e responsabiledel settore apistico del Lazio per Bioagricert «è l’unica cer-tificazione di processo che rende tracciabile il prodotto, nelsenso che qualsiasi azione che interviene nel processo diproduzione o sul prodotto deve essere documentata». Lo sabene Giulia che ha aperto un’azienda biologica 5 anni fasulle rive del lago di Bolsena: «devo compilare tutta unaserie di registri in cui scrivo quello che ho venduto, quelloche ho prodotto, quello che ho raccolto, giorno per giorno.Tuttavia è necessaria una grande etica personale, nonostan-te ci sia un sistema di controllo». In Italia l’attività di controllo delle aziende è stata subap-paltata ad alcuni organi privati di certificazione (17 in tota-le) che, per conto del Ministero, effettuano almeno una vi-sita all’anno, ispezionando la documentazione cartacea maanche prelevando dei campioni e analizzando in laborato-rio i prodotti. Il punto debole del sistema sta nel fatto che a pagare gli en-ti di certificazione siano le aziende. Giulia ci dice: «Quelloche io contesto è che si paga per aderire al biologico, gliagricoltori dovrebbero essere incentivati con aiuti econo-mici maggiori. I contributi, che pure esistono, sono moltoesigui e non permettono di risanare lo scarto che esiste trala produzione tradizionale e quella biologica». Ma l’ispet-tore ci rassicura dicendo che «l’ente che fa la certificazione

La logica del biologicoAlla ricerca (disperata) della qualità

di Valentina Cavalletti

Valentina Cavalletti

Una cesta di prodotti biologici

“L’agricoltura biologica in Europa èuna tecnica di coltivazione a carattere

volontario normata”

è un ente accreditato che vive della reputazione che si fasul mercato. Inoltre gli stessi enti subiscono dei controllicampionari dal Ministero, dalle Regioni, dai Nas». Per il consumatore, la garanzia del prodotto è data dall’eti-

chetta, in cui può comparire il nome dell’organismo di con-trollo autorizzato e il suo codice; il codice dell’aziendacontrollata; il numero di autorizzazione; il logo del biologi-co europeo (facoltativo). «Agricoltura biologica significaritrovare un’agricoltura di tipo tradizionale, senza inputchimici e diserbanti – ci spiega il nostro agronomo – man-tenendo l’equilibrio naturale che esiste tra sistema pianta,sistema suolo e sistema animale». Come cambia il metododi coltivazione? «La differenza è la semplicità di approc-cio. Mentre per l’agricoltura tradizionale generalmente siutilizzano input chimici di sintesi, per l’agricoltura biologi-ca si utilizzano per la maggior parte tecniche agronomichebasate sul monitoraggio costante dei parametri che condi-zionano il prodotto (clima, ambiente di coltivazione, esi-genze specifiche) e dalla tempestività di azione basata sutecniche a basso impatto ambientale. Ad esempio al postodei fertilizzanti si possono coltivare alcune specie di pianteche, se interrate, fanno da concime alle altre. Ritrovare l’e-quilibrio non significa necessariamente perdere la produtti-vità del terreno». Ma può significare probabilmente acqui-stare in salute. Nel rapporto annuale 2008-2009 del Presi-dent’s Cancer Panel, il gruppo di esperti che consiglia ilPresidente Obama riguardo ai temi oncologici, dal titoloRedusing environmental cancer risk. What we can do now,si esplicita che mangiare cibo biologico è un modo efficaceper ridurre l’esposizione alle sostanze chimiche pericoloseper la salute: «con 80.000 sostanze chimiche presenti sulmercato Usa, molte delle quali utilizzate da milioni di citta-dini quotidianamente, (…) l’esposizione ambientale a po-tenziali agenti cancerogeni è molto diffusa». Per abbattere i costi delbiologico ma anche peraderire a un modello diconsumo alternativo, iconsumatori scelgonosempre di più la venditadiretta. Come si leggenel rapporto Bio Bank2010, tutte le forme difiliera corta in Italia so-no in crescita. I gruppidi acquisto solidali, or-mai più di 600, sono au-mentati del 68% in treanni, gli spacci delle ol-tre 2.000 aziende agrico-le sono aumentati del32%, i 130 siti per laspesa bio on line sonocresciuti del 25%. In

aumento anche la vendita diretta di cassette preparate daicontadini ogni settimana e consegnate direttamente nellecase dei consumatori. Incredibilmente il settore del biologi-co sembra non aver conosciuto crisi in questi ultimi dueanni: «il biologico porta con sé una componente etica eambientale che ha un fortissimo valore nella percezione delconsumatore, tanto da divenire un valore irrinunciabile»spiega l’ispettore Passeri.

A questo proposito Giulia sottolinea di essersi accorta «chela gente, quando vede la freschezza del prodotto appenacolto dalla pianta, capisce che vale la pena pagare di piùper la propria salute e per la qualità di quello che si man-gia. Raccogliere le verdure la domenica mattina e conse-gnarle il lunedì, è qualcosa che nel mercato tradizionalenon avviene». La vendita diretta permette infatti di bypas-sare tutti i trattamenti post raccolta, vietati per legge nellaproduzione biologica. Ecco perché un prodotto bio dura di meno e può esserepiù brutto esteticamente. È come il vecchio albero della

casa in campagna checontinua a produrre su-sine anche se per tuttol’inverno è abbandona-to a se stesso. Certo,quei frutti saranno ba-cati e non saranno tuttiperfettamente uguali.Ma saranno i miglioriper un’ottima marmel-lata fatta in casa. Pec-cato che a quell’alberoe ai suoi frutti ci abbia-mo dovuto attaccarel’etichetta «biologico»per poterli vendere.Una buona pubblicitàper il modello di consu-mo attuale? Famosoper l’assurdità.

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“Il punto debole del sistema sta nelfatto che a pagare gli enti di

certificazione siano le aziende”

“Ma l’ispettore ci rassicura dicendoche «l’ente che fa la certificazione è un

ente accreditato che vive dellareputazione che si fa sul mercato»”

Il nuovo logo, vincitore di un concorso europeo, che viene applica-to ai prodotti biologici dell’Unione Europea a partire da luglio 2010

Vincent Van Gogh, Il seminatore (1888)

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In tutti gli album di fami-glia non manca mai uncerto numero di foto a ta-vola, compleanni, battesi-mi, pranzi di Natale e Ca-podanno. Vere e propriegallerie di ritratti di fami-glia con pietanza. A veder-le venti o trent’anni dopo,quelle immagini fanno te-nerezza per tanti motivima fra i dettagli più curio-si da riscoprirvi c’è il mo-do in cui erano apparec-

chiati quei tavoli. I bicchieri viola e le caraffe giallognoledegli anni Settanta, le tazzine trasparenti dove si serviva ilcaffè annacquato ai bambini, le bottiglie dell’acqua in ve-tro, i dolci con l’Alchermes, tutti tinti di rosa, le cucine pia-strellate fino al soffitto. Sono sicura di aver visto, non soquando, una foto di mia cugina, all’età di circa sei anni,che mangia la zampa di gallina nel sugo, seduta a quelloche era il suo posto nell’assetto della cena della domenica,all’angolo del tavolo di formica verde della cucina di mianonna. E se la foto non c’è mi ricordo quest’immagine cosìbene che è come se ci fosse. Ma l’album di famiglia sul cibo non è solo memoria perimmagini. Il cibo è anche legato al lessico famigliare. Aimodi di dire casalinghi che spesso nascono dal cibo e sulcibo raccontano e tramandano storie. A casa di mia madread esempio si usava dire, di una fetta di pane o di formag-gio, che «ci si vedeva il nonno dalla vigna», per intendereche era così sottile da essere trasparente, così tanto che ci sipoteva vedere attraverso il nonno, che stava alla vigna,all’“infideo”. E oggi ancora lo diciamo, quando qualcunoaffetta il pane troppo sottile: «ma come lo tagli? Ci si vede

il nonno dalla vigna!» e allora, quando capita, a volte siracconta la storia del nonno (che poi sarebbe il bisnonno)che aveva l’“infideo” dove faceva la vigna e le olive. C’eraun noce anche. La mattina partiva con la bisaccia e andavalì, a piedi o con l’asina, e portava sempre da mangiare aigatti: lische di pesce e scorze di formaggio. Scorze sottiliovviamente perché una volta si scartava poco e il bisnon-no, classe 1887, magrissimo, era uno che al risparmio ci te-neva e l’acqua per lavare i piatti, quando c’era lui, o siscaldava o ci si metteva il sapone, che tutte e due le coseera uno spreco. «Ma che cos’è quest’“infideo”?», imman-cabilmente qualcuno lo chiedeva, quando si raccontavaquesta storia. Sembrava una parola strana allora, quando lasentivo dire da piccola, una parola da grandi, anzi da vec-chi, ma aveva un non so che di importante, di misterioso edi solenne. E infatti lo era. L’“infideo” era la terra, un pez-zo di terra. Nient’altro che il nome deformato nel dialettolocale di un contratto agrario di usufrutto della terra, in ita-liano: enfiteusi.

È da storie come questa che abbiamo imparato il valore delcibo e la fatica ma anche la dedizione e l’amore necessariper procurarselo. Per usare le parole di Jonathan SafranFoer storie come questa sono «le storie fondanti della miafamiglia», come di molte altre, credo, a queste latitudini.Foer, uno dei più apprezzati autori della narrativa contem-poranea statunitense, partendo dalle storie sul cibo dellasua famiglia ha scritto un singolare libro (Se niente impor-ta. Perché mangiamo gli animali?, Guanda, 2010), che staa metà fra l’inchiesta e il racconto e che è la testimonianzadel suo viaggio agli inferi dell’allevamento intensivo dianimali negli Stati Uniti.Sua nonna, ebrea in fuga nell’Europa orientale degli annidella guerra è sopravvissuta alla fame mangiando ciò chegli altri non erano disposti a mangiare, nascondendo patatenel fondo legato dei pantaloni, frugando nella spazzatura,barattando un pugno di riso con uno di fagioli («devi averefortuna e intuizione»). Anni dopo, a Washington, matriarca

Federica Martellini

I muli erano necessari compagni di lavoro. Trasporto della legnasugli altipiani di Arcinazzo

“Fra i dettagli più curiosi da riscoprirenelle vecchie foto a tavola degli album

di famiglia c’è il modo in cui eranoapparecchiati quei tavoli. I bicchieri

viola e le caraffe giallognole degli anniSettanta, le tazzine trasparenti dove siserviva il caffè annacquato ai bambini,le bottiglie dell’acqua in vetro, i dolcicon l’Alchermes, tutti tinti di rosa, le

cucine piastrellate fino al soffitto”

MisticanzaLe storie, le parole, i riti e i ricordi che fanno da ingredienti ai menù di famiglia

di Federica Martellini

di una famiglia numerosa, figlia di quella fuga, insegna ainipoti come della mela si mangia tutto e che è sempre suf-ficiente una bustina di tè, a prescindere dal numero di taz-ze che si devono servire. E soprattutto racconta una storia,di quando, affamata, rifiutò un pezzo di carne di maialeoffertole da un contadino russo, perché non era kosher,perché: «Se niente importa, non c’è niente da salvare». Èripensando a questo insegnamento che Foer parte per ilsuo viaggio, conducendoci nei capannoni e nei mattatoi,parlando con gli “addetti ai lavori” e anche con i pochi al-levatori che si oppongono al sistema imperante della pro-duzione industriale di carne a basso costo, proponendomodelli differenti.Ma c’è da chiedersi: per noi che veniamo dalle nostre pro-prie storie; per noi che ci ricordiamo di quando i pulciniappena nati si portavano a casa in una scatola di cartone,che faceva da incubatrice; per noi che vogliamo continuarea raccontare la storia del nonno e a parlare con il lessico fa-migliare che viene dal nostro modo di mangiare il cibo; pernoi cosa significa il libro di Foer? Su cosa ci interroga?Quali corde tocca del nostro quotidiano?

Ogni giorno alla tavola calda, in pizzeria, al ristorante, alsupermercato operiamo delle scelte sul cibo, che non ri-guardano però, ovviamente, solo il cibo. Il libro su questoterreno ci coinvolge nel suo appello a un vegetarianismo ditipo etico e ci mostra che le opzioni che pensavamo corret-te, non sempre lo sono o non lo sono abbastanza, che seeravamo convinti di impegnarci a sufficienza controllandosul cartone delle uova il codice che ci dice se le galline chele hanno prodotte sono allevate a terra o in gabbia, ci siamosbagliati, perché le galline “allevate a terra” vivono stipatein dei capannoni. Ci mostra come persino il rassicurantetermine “biologico” significa troppo spesso molto meno diquello che siamo abituati a credere perché se è vero che ilcibo biologico ha di norma un’impronta ecologica minore

e fa meglio alla salute, allo stesso tempo «puoi dire che iltuo tacchino è biologico e torturarlo tutti i giorni». Ci mo-stra che gli animali di cui si può dire che hanno avuto «unavita felice e una morte facile», come dovrebbe accadere (ea volte accade) nel migliore degli allevamenti non intensi-vi, sono purtroppo una percentuale infinitesimale di quelliche mangiamo. O almeno, di certo, di quelli che vengonomangiati negli Stati Uniti dove di quasi tutti i quarantacin-que milioni di tacchini che arrivano ogni anno sulle tavoledel Ringraziamento si può dire che «non sono mai stati sa-ni, non sono stati felici e – per usare un eufemismo assolu-to – non sono stati cari a nessuno». Per quanto i più volen-terosi di noi cerchino di essere informati e consapevoli, perquanto ci impegniamo ad avere un comportamento sosteni-bile, c’è sempre qualcos’altro dietro alle parole sulle eti-chette ed è sempre più arduo rintracciare l’origine del ciboche mettiamo nel piatto. Tutto questo ovviamente importa.

Ma non si tratta solo di questo. C’è ancora qualcos’altro.Al fruttivendolo del negozio nel vicolo piace raccontarecose sulla verdura che vende. Spesso a primavera porta lamisticanza, l’insalata mista di campo composta da tanti ti-pi diversi di erbe. Se lo trovi nel momento buono, si diver-te a sceglierle una alla volta dalla cassetta, ti mostra la for-ma e il colore della foglia e ti insegna il nome: la valeria-na, la cresta di gallo, la rucola selvatica – da non confon-dere con quella coltivata – il crespino, il dente di leone, ilcordone del frate… Ne snocciola tantissimi di questi nomie sembra una poesia, di sicuro è una sapienza, una formadi sapienza e forse la più bella. Sostiene che per fareun’insalata buona ci vogliono almeno dieci tipi diversi dierbe («possibilmente non in busta e compatibilmente conle esigenze della vita metropolitana!» aggiunge, con unsorriso complice ma anche un po’ amaro, fra il rimproveroe la comprensione). Ecco questa sapienza è un patrimonio,che ha a che fare forse anche con l’etica, ma soprattuttocon qualcos’altro: con le radici, con l’identità. E anchequesto importa.Foer riesce, alla fine del libro, a trarre una sua sintesi rega-landoci la bella suggestione di un Ringraziamento senza iltacchino; rievocando i pranzi del Ringraziamento di quan-do era bambino e proponendone uno di tipo nuovo, da la-sciare in eredità alle future generazioni della sua famiglia.«Che succederebbe se non ci fosse il tacchino? Si rompe-rebbe, o danneggerebbe, la tradizione, se invece lo saltas-

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“Ma l’album di famiglia sul cibo non èsolo memoria per immagini. Il cibo èanche legato al lessico famigliare. Ai

modi di dire casalinghi che spessonascono dal cibo e sul cibo raccontano

e tramandano storie”

“La nonna di Foer, ebrea in fuganell’Europa orientale degli anni della

guerra è sopravvissuta alla famemangiando ciò che gli altri non erano

disposti a mangiare. Anni dopo, aWashington, matriarca di una famiglianumerosa, insegna ai nipoti come della

mela si mangia tutto e che è sempresufficiente una bustina di tè, a

prescindere dal numero di tazze che sidevono servire”

Aratura arcaica a Sperone, nella Marsica

Jonathan Safran Foer, da piccolo, trascorreva il sabato e la domenica con suanonna. Quando arrivava, lei lo sollevava per aria stringendolo in un forte ab-braccio, e lo stesso faceva quando andava via. Ma non era solo affetto, il suo:dietro c’era la preoccupazione costante di sapere che il nipote avesse mangia-to a sufficienza. La preoccupazione di chi è quasi morto di fame durante laguerra, ma è stato capace di rifiutare della carne di maiale che l’avrebbe te-nuto in vita, perché non era cibo kosher, perché «se niente importa, non c’èniente da salvare». Il cibo per lei non è solo cibo, è «terrore, dignità, gratitu-dine, vendetta, gioia, umiliazione, religione, storia e, ovviamente, amore».Una volta diventato padre, Foer ripensa a questo insegnamento e inizia a in-terrogarsi su cosa sia la carne, perché nutrire suo figlio non è come nutrire sestesso, è più importante. Questo libro è il frutto di un’indagine durata quasitre anni che l’ha portato negli allevamenti intensivi, visitati anche nel cuoredella notte, che l’ha spinto a raccontare le violenze sugli animali e i venefici

trattamenti a base di farmaci che devono subire, a descrivere come vengono uccisi per diventare il nostro ciboquotidiano. (dal risvolto di copertina)

simo e ci limitassimo a stufato di patate dolci, panini fattiin casa, fagiolini con le mandorle, composta di mirtilli ros-si, batate, purè al burro, torta di zucca e noci pecan? (…)Non è un pensiero così assurdo. I tuoi cari intorno alla ta-vola. Ascolta i suoni, annusa gli odori. Non c’è il tacchino.La festa è forse compromessa? Il Ringraziamento non èpiù il Ringraziamento? O il Ringraziamento ne uscirebbeancora più forte? (…) Sarebbe fonte di delusione o d’ispi-razione? Sarebbero trasmessi più o meno valori? (…) Im-magina il Ringraziamento della tua famiglia quando tunon ci sarai più, quando la domanda non sarà più “Perchénon mangiamo questo?”, ma la più ovvia, “Perché lo man-giavamo?”. Immaginare lo sguardo delle future generazio-ni su di noi può farci vergognare, nel senso kafkiano deltermine, costringendoci a ricordare?» (…) «Che io siedaalla tavola globale, con la mia famiglia o con la mia co-

scienza, l’allevamento industriale, per quanto mi riguarda,non appare solo irragionevole. Accettarlo mi sembrerebbeinumano. Accettarlo – nutrire la mia famiglia con il ciboche produce, sostenerlo con i miei soldi – mi renderebbemeno me stesso, meno il nipote di mia nonna, meno il fi-glio di mio padre. Questo voleva dire mia nonna quandodisse: “Se niente importa, non c’è niente da salvare”».Ci sarà forse per ciascuno una sintesi, una propria parti-colare sintesi cui poter arrivare tenendo conto della biolo-gia, dell’etica, della dietologia, della medicina, dell’istin-to, dei ricordi, dell’identità. Di tutte queste variabili insie-me o di alcune di esse. O forse no, non può esserci sem-pre una sintesi. A volte è necessario semplicemente sce-gliere o se non altro cominciare a porsi la domanda. «Es-sere coerenti non è obbligatorio, ma porsi il problema si».Cosa importa per me?

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Mungitura in un ovile, sui pascoli della Ciociaria Mietitura a mano sulle crete senesi

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Dimmi cosa mangi e ti diròcome stai (e come starai).Parafrasando Ludwig Feur-bach, più precisamente ilsuo Il mistero del sacrificioo l’uomo è ciò che mangia,senza addentrarci in rifles-sioni sulla coincidenza(materialista) tra essere emangiare va ammesso,come avvalorato da medicie nutrizionisiti, che c’è una

stretta corrispondenza tra ciò di cui ci nutriamo, il nostroumore e ancor più la nostra salute. Non ci si riferisce, ovvia-mente, alle diete dimagranti che nella maggior parte dei casisi preoccupano più del quantum che non del modus, e chesecondo l’Associazione nazionale dietisti provocherebberoaddirittura dipendenza tra gli adolescenti ma alla cosiddettadieta alimentare bilanciata. Secondo i nutrizionisti, infatti, lanostra salute dipenderebbe in buona parte da un’alimen-tazione equilibrata, basata sulla corretta proporzione tra ele-menti nutritivi. A tal proposito la piramide degli alimenti è es-tremamente esplicativa: divisa in sei sezioni di dimensioni di-verse contenenti vari gruppi di alimenti, ciascuno dei qualideve essere presente nella nostra dieta in modo proporzionalealla grandezza della sua sezione. Alla base ci sono gli alimen-ti che possiamo utilizzare più liberamente mentre al verticetroviamo quelli che è meglio limitare, ovviamente non si trat-ta di prescrizioni rigide. Ampio spazio viene raccomandatoper i cibi ricchi di carboidrati, principale fonte di energia, ecioè cereali e derivati immediatamente seguiti da frutta e ver-dura (contenenti vitamine, sali minerali e fibre), seguono glialimenti di origine animale, ricchi di proteine, mentre il ver-tice (cioè i cibi che servono in minore quantità) è occupatodai cibi grassi e dai dolci. Secondo questa teoria nessun ali-mento è di per se indispensabile, infatti solo variando l’ali-mentazione possiamo assumere tutte le sostanze necessarie alnostro organismo. Nonostante sembri semplice seguire pochepiccole accortezze per mangiare sano uno studio del maggioscorso di Coldiretti/Censis, sulle abitudini alimentari nel nos-tro Paese ha rivelato che quattro italiani su dieci vorrebberomangiare sano ma non ci riescono. La volontà è importante,ma purtroppo non è tutto, infatti il 43% degli italiani èsovrappeso, a causa delle pessime abitudini alimentari el’11% è addirittura clinicamente obeso. I giovani laureati ri-escono a mantenere una tendenza salutista, almeno fino ai40/45 anni, buone notizie anche dai pensionati, infatti ben il40,3% degli over 65 (spesso per ragioni mediche) adotta unadieta equilibrata. Secondo le statistiche Coldiretti noi italianici divideremmo in tre categorie: coloro che mangiano “sano”,coloro che sanno cosa significhi mangiare “sano” ma per ra-gioni pratiche o stress vi rinunciano e coloro che non sono aconoscenza né hanno la volontà d’informarsi al riguardo e

mangiano ciò di cui hanno più voglia. E ancora: un vero mustnelle abitudini di casa nostra sembra essere lo spuntino, il62,3% degli italiani si concede un break a metà mattinata o ametà pomeriggio. Ma il dato che ci fa meno onore, vista lanostra grande tradizione culinaria, è sicuramente quello che siriferisce all’acquisto di prodotti alimentari surgelati, infattiquasi il 70% degli italiani ammette di farne grande uso.Questo sta portando ad una trasformazione radicale nellenostre abitudini a tavola basti pensare che solo il 40% delcampione acquista prodotti, per così dire, di prima mano.Dall’analisi Coldiretti emerge che dal dopoguerra a oggi èaumentato del 300% il consumo di carne così come sono au-mentate frutta e verdura sulle nostre tavole, a dispetto del vi-no (ridotto di oltre un terzo). Buono l’aumento di frutta e ver-dura, molto meno quello della carne. Infatti i grassi animali,come sostiene tra gli altri da quasi cinquant’anni il prof. Um-berto Veronesi, se assunti in grande quantità favorirebberol’insorgere di alcuni tipi di tumore perché in grado di veico-lare i residui di pesticidi, erbicidi e fungicidi che si usano inagricoltura, il fall-out radioattivo e il benzopirene che emanadalle città inquinate. Non ci sono dubbi, sostiene Veronesi,che un’alimentazione povera di carne e ricca di vegetali siapiù adatta a mantenerci in salute. Attraverso gli alimenti cheingeriamo, immettiamo nel nostro organismo una certa quan-tità delle sostanze tossiche solubili disperse nell’ambiente,che si accumulano più facilmente nel tessuto adiposo, espo-nendoci più a lungo ai loro effetti tossici. Frutta e verdura, in-vece, sono alimenti poverissimi di grassi e ricchi di fibre che,agevolando il transito del cibo ingerito, riducono il tempo dicontatto con la parete intestinale degli eventuali agenti can-cerogeni presenti nella dieta quotidiana. Ma per chi nonvuole (o non si sente pronto) a dire addio a bistecche, lom-bate e arrosticini ci sono comunque buone notizie. Secondogli Andrologi Italiana, infatti la dieta mediterranea aiuterebbe,qualora equilibrata nel modo giusto, a migliorare leprestazioni sessuali e a prolungare l’attività sessuale fino atarda età. Esiste, secondo questo studio, una strettissima re-lazione tra disfunzioni sessuali, problemi cardiovascolari eobesità, perché la molecola che innesca l’erezione vieneprodotta dalle cellule che rivestono le arterie dei corpi caver-nosi del pene, chiamate cellule endoteliali. Non bisogna peròallenare solo mascella e mandibola, dedicandosi alla masti-cazione, infatti è necessaria anche una moderata attività fisica(90 minuti, due volte a settimana) per migliorare la qualitàdella vita e rallentare il naturale processo d’invecchiamento.La stessa Organizzazione mondiale della sanità ha presentato,nel 2004, la Strategia globale per la dieta, l’attività fisica e lasalute, sollecitando il coinvolgimento di tutti i governi inun’azione coordinata per la salvaguardia del benessere degliabitanti del pianeta. Dal canto nostro non possiamo far altroche tenerci stretti la buona tavola (che ci contraddistingue),rinunciare a un po’ di carne in favore di pesce o verdura e ri-cordarci di fare un po’ di moto. Buon appetito.

Il cibo è ciò che siamoDieta mediterranea: croce e delizia

di Giacomo Caracciolo

Giacomo Caracciolo

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«Il cinema non è un pez-zo di vita, ma un pezzo ditorta» affermò AlfredHitchcock nel celebre li-bro-intervista a lui dedi-cato da François Truffaut.Questa citazione ci indicauno dei legami solo appa-rentemente più superfi-ciali tra cibo e cinema(ma potremmo dire insenso più largo tra arte ecibo), di certo quello piùimmediatamente percepi-

bile, ovvero che nel momento in cui ci disponiamo a ve-dere un film così come a consumare un pasto, la primaed elementare aspettativa è quella di ricavarne piacere.Se era nota la volontà dissacratoria del regista inglese neiconfronti di qualsiasi forma di elucubrazione intellettualesul cinema e la citazione in questione potrebbe quindi es-sere facilmente liquidata come una semplice boutade, ètuttavia altrettanto vero che questa affermazione ci aiutaa capire subito che, in realtà, cinema e cibo operano pra-ticamente sullo stesso piano. E infatti, ed è la storia stes-sa del cinema a raccontarcelo e in particolare quella delnostro paese, il cibo e tutti gli argomenti che intorno adesso ruotano sono stati e sono metafora ideale e tra le piùutilizzate per raccontare i molteplici aspetti della vitadell’uomo e della società. Basti ricordare che alla primaproiezione dei fratelli Lumière, il 28 dicembre del 1895,tra i vari rulli proiettati ci fu anche Le déjeuner du bébéin cui veniva ripreso un quadro di vita familiare dei Lu-mière stessi mentre imboccavano uno dei loro figli. Apartire da questo momento la presenza dell’argomentocibo non mancherà più di arricchire le pagine della storiacinematografica. In particolare è interessante analizzarecome questo rapporto si sia sviluppato nella storia del ci-nema italiano, essendol’Italia un paese che, perla sua storia e le sue ori-gini, ha spesso trovatonel cibo uno dei pochielementi di coesione a li-vello culturale. Ed è sta-to proprio il cibo infatti,inteso come pratica fon-damentale dell’individuoe quindi come rilevatoredi un’identità culturale,di classe e di apparte-nenza locale, ad apparirein tutti i momenti dellastoria del cinema italia-

no. In questo senso basta pensare a due film praticamen-te contemporanei che negli anni Settanta, anni di ripen-samento generale e di enormi rivolgimenti in tutta la so-cietà italiana, affrontano la storia del nostro paese inun’ottica di racconto corale in cui il cibo e la tavola svol-gono un ruolo principe e cioè Amarcord di Federico Fel-lini e Novecento di Bernardo Bertolucci. Nel primo il ri-cordo della vita di una famiglia di provincia durante ilventennio fascista trova proprio nelle scene a tavola larappresentazione più emblematica della famiglia tradi-zionale, ancora legata al suo retaggio contadino e ai ruolida esso imposti, primo su tutti quello della madre, chedomina la scena della tavola, così come quella dei rap-porti familiari, a tal punto che la sua scomparsa vienerappresentata da una tavola spoglia e deserta. Nel film diBertolucci, invece, tra gli elementi che contribuiscono atratteggiare il racconto epico della storia italiana attra-verso la storia individuale dei due protagonisti c’è anchee soprattutto la contrapposizione tra le scene ambientatesulle tavole delle loro due famiglie. Da una parte infattila famiglia borghese del personaggio interpretato da Ro-bert De Niro impone al figlio le proprie rigide abitudininonché le proprie aspirazioni di emancipazione da unpassato provinciale attraverso la proposta di cibi presidalla tradizione francese, come le rane fritte. Dall’altrainvece la famiglia contadina di Gérard Depardieu, nono-stante sia anch’essa dominata da regole arcaiche, riesceancora a vivere il momento della tavola come momentoconviviale nel senso stretto del termine. Che la cono-scenza delle abitudini culinarie e delle modalità socialidel consumo del cibo sia essenziale per comprendere lastoria e la cultura del nostro paese è del resto confermatodirettamente anche dalla rappresentazione di un’altra fa-miglia italiana, questa volta trapiantata all’estero e quin-di, in contrapposizione con una società estranea e ostile,ancor più arroccata in difesa della propria identità, anchea tavola. Parliamo della famiglia Corleone, protagonista

della trilogia del Pa-drino di Francis FordCoppola, che sin dalleprime battute del pri-mo film si presenta ri-unita per il banchettodi nozze della figliadel patriarca MarlonBrando. Qui al rito fa-miliare in senso strettosi sovrappone quellodella famiglia crimi-nale che in occasionedella festa richiede fa-vori al Padrino. Il rapporto con il cibo

«Il cinema è un pezzo di torta»Un secolo di storie tra la tavola e lo schermo

di Ugo Attisani

Ugo Attisani

Una scena da Amarcord di Federico Fellini (1973)

tuttavia non è stato solostrumento di raccontosociale bensì anchestrumento metaforicoper descrivere la dis-gregazione dell’indivi-duo nella società con-sumistica e così si pas-sa dalle tavole imban-dite e dalle immaginimemorabili della com-media all’italiana (unaper tutte la celebre cenadegli spaghetti in UnAmericano a Roma) al-le cupe descrizioni diMarco Ferreri, la cui in-tera cinematografia può essere letta come una riflessione

sul mangiare come atto di rassegnazione e autodistruzionedell’individuo ormai emarginato da una società che non ri-conosce e che non lo riconosce. Il cibo diventa poi con glianni Ottanta specchio di una nuova cultura che, attraversouna diversa consapevolezza delle abitudini alimentari,mette al centro dell’attenzione l’immagine del corpo comeultima frontiera del dominio della società capitalistica, uncibo sempre più neutralizzato dalle caratteristiche che lorendono fonte di piacere e di cultura oltre che di nutrimen-to. Questo mutamento non manca di essere raccontato supellicola e qui pensiamo, per esempio, allo yuppie serialkiller di American Psycho, tratto dal libro di Bret EastonEllis, ossessionato dalcibo salutare necessarioper raggiungere la ago-gnata forma fisica im-posta dall’America de-gli anni Ottanta, cosìcome dalla frequenta-zione di ristoranti allamoda che del ristoranteormai conservano sol-tanto il nome; oppurealla Julianne Mooreprotagonista di Safe diTodd Haynes che sul-l’orlo di una crisi psico-logica e fisiologica deri-vata da un’allergia allatte trova una poco rac-comandabile serenità inuna sinistra comunitànew age. Questa ten-

denza continua fino ainostri anni dove il rap-porto con il cibo arrivaad essere addiritturapatologico e anche inquesto caso non man-cano gli esempi cine-matografici che raccon-tano di queste triste-mente note malattie,come per esempioTrauma di Dario Ar-gento, che è probabil-mente il primo film adaffrontare in Italia il te-ma dell’anoressia, ocome Primo amore di

Matteo Garrone che racconta di un’inquietante vicenda dicronaca nera. Non sono però mancati, sempre negli ultimianni, film come Il Pranzo di Babette di Gabriel Axel (dal-l’omonimo racconto di Karen Blixen) o Big Night di Stan-ley Tucci che hanno contribuito a riaffermare un rapportoindissolubile tra il cibo e la cucina, alla riscoperta di unacultura e uno stile di vita meno frenetico e consumistico o,con altre parole, più umano. Sempre in questa direzione poi è interessante ricordare co-me, seguendo quella che è stata una tendenza di successonegli ultimi anni, inaugurata dai film di Michael Moore, ci

siano stati esempi di denuncia delle abitudini alimentaridei paesi del primo mondo, tra documentario e cinema ve-rità, come Super Size Me, di Morgan Spurlock, dove il re-gista si sottoponeva volontariamente ad un mese di dieta abase di cibo spazzatura di un fast food per osservarne i ri-sultati sul proprio corpo e Food, inc. di Robert Kenner che

getta invece uno sguar-do critico ai mutamentidell’industria alimenta-re americana in manoalle multinazionali. Ilrapporto tra cinema ecibo va quindi ben oltrela semplice e comunericerca del piacere im-mediato, come sembra-va suggerirci Hitch-cock, ma da quel puntodi partenza è semprebene iniziare a muover-si, per non dimenticarequello che ci sembra es-sere il motivo di attra-zione più grande chequesti due mondi conti-nuano ad esercitaresull’uomo.

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“È stato proprio il cibo, inteso comepratica fondamentale dell’individuo equindi come rilevatore di un’identitàculturale, di classe e di appartenenzalocale, ad apparire in tutti i momenti

della storia del cinema italiano”

“Il rapporto tra cinema e cibo va benoltre la semplice e comune ricerca del

piacere immediato”

Il pranzo di Babette di Gabriel Axel (1985) è tratto dall’omonimo raccontodi Karen Blixen

La grande abbuffata, di Marco Ferreri (1979)

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Di cosa ci hanno parlato,di cosa ancora ci parlano,nella loro evoluzione, car-toni animati e film d’ani-mazione? A considerare“dall’alto” la loro storia,presa e idealmente rimon-tata per sequenze di inse-guimenti, piume svolaz-zanti, tane e rifugi, ormeda seguire, travestimenti e«mi è semblato di vedeleun gatto», sembra quasiche negli anni non ci ab-

biano parlato di nulla che non fosse qualcosa che ci vededirettamente coinvolti: la catena alimentare, con le sueleggi crudeli. E poco importa se il dovuto happy end can-cella gli istinti di natura, la fame dei predatori e la pauradelle prede, rappacificando le parti con una consolatoriavirata finale verso un mondo dove non ci si ciba o si di-venta vegetariani: a dare avvio alle storie è quasi semprela più realistica situazione in cui la signora Tweedy di tur-no, scontenta del profitto delle uova, decide di fare delsuo allevamento di galline (allevamento-lager che ricordaa ragione il modello dei campi di concentramento) unaserie di nutrienti pasticci di pollo all’inglese. Ecco, cihanno sempre parlato di cibo, i cartoni animati, ben al dilà degli spaghetti con polpettine di carne che Lilli e Bia-gio (più noto come il “vagabondo”) consumano insiemedurante una cenetta romantica: ci hanno parlato del cibo

che siamo, oltre che del cibo di cui ci nutriamo. Il patto a cui anche un adulto è invitato a sottostare difronte a un cartone animato, per non perdere il senso del-la morale finale, è il patto dell’immedesimazione con ipiù deboli, e ciò ha significato quasi sempre parteciparecon apprensione alla fuga dei personaggi dalle pentole edalle padelle a cui erano destinati: siamo stati Babe chenon voleva essere il pranzo di Natale; siamo stati l’oca in-glese Reginaldo, l’avvinazzato zio di Adelina e Guendali-na Blabla de Gli Aristogatti, che rischiava di essere cuci-nato al Petit Cafè di Parigi; abbiamo unito le nostre forzea quelle di Sebastian, il granchio de La Sirenetta, nellasua lotta rocambolesca contro lo chef Louis (quello di«les poissons, les poissons, io gli stacco la testa e glistrappo le spine», per intenderci). Intanto, antropomorficamente quei personaggi vengono

incontro a noi e se, solo in un mondo disegnato, NonnaPapera ha il diritto di allevare pollame, si possono ancheavere personaggi animali che passano dall’altra parte deifornelli. Il Remy di Ratatouille incarna la celebrazionedella meraviglia del cibo: finito nella cucina di AugusteGusteau, noto chef di Parigi (ancora una volta, Parigi), in-vece di procacciare cibo per sé, decide di coronare il suosogno più grande facendosi creatore di piatti prelibati per

Il cibo nei film di animazione......una questione di catena alimentare

di Michela Monferrini

Michela Monferrini

Rémy, il ratto dotato di olfatto e gusto sopraffini protagonista di Ratatouille (2007)

“I cartoni animati ci hanno sempreparlato di cibo, del cibo che siamo oltre

che del cibo di cui ci nutriamo”

i clienti del ristorantepiù famoso del mondo.Di là, in sala, campeggiala figura (lugubre) delcritico Anton Ego, “ilTruce Mangiatore”, pen-na e taccuino alla mano,che alla fine è però co-stretto a riconoscere cheuna ratatouille buonacome quella del novellochef Remy, non l’avevaassaggiata mai. Più so-miglianti per forma ecolore, se così si può di-re, a Ego, forse ancheper ataviche memorie cisembra però di esserepiù vicini al Remy che sceglie di scegliere, che per quan-to possa sembrare un’assurda, illusoria pretesa, tenta di ti-

rarsi fuori da quella stessa catena alimentare che dovreb-be vederlo sotto le grinfie di un gatto, che dice «Mi piacemangiare bene, d’accordo?», mentre suo fratello Emilegli si avvicina masticando qualcosa di non riconoscibile,di veramente immangiabile, spiegandogli che «Una voltasuperata l’istintiva repulsione, si apre tutto un mondo dipossibilità alimentari». Ma i cartoni animati sono favole, e se bisogna tornarepur sempre alla realtà, c’è sempre qualche personaggio,

dentro lo stesso cartoneanimato, che con la suamorale realista riportatutti con i piedi per ter-ra. In questo caso è ilpadre di Remy, per ilquale la parola d’ordineè proprio: tornare al pro-prio posto, eliminarequell’«istintiva repulsio-ne» che è vizio e capric-cio. Solo per un topo?Non saranno, anche gliumani, gastronomica-mente viziati? Se sem-pre più, i film d’anima-zione si dirigono versotematiche ecologiste (ba-

sti pensare al recente Bee Movie), una delle ultimissimeuscite, Piovono polpette, mette direttamente sotto accusala società dei consumi, la società dagli eccessivi consumialimentari, bulimicamente ingorda di fast food, e con unaparodia dei disaster movie hollywoodiani, fa letteralmen-te piovere su una popolazione inizialmente euforica, pol-pette di carne, spaghetti, cheeseburger, cocomeri e altricibi. Sembra davvero, per tutti, un nuovo mondo di pos-sibilità alimentari dove la repulsione non ha più nemme-

no motivo d’esistere. Sembra, persino, la soluzione alproblema della fame nel mondo. Sembra, eppure è solouna rappresentazione della dismisura e dell’eccesso, unagran confusione di ruoli che fa di quella catena che tantoci è stata narrata, due soli anelli, dove l’unica preda è ilmondo stesso.

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La romantica cena di Lilli e Biagio in Lilli e il vagabondo (1955)

Una scena da Piovono polpette (2009)

“Il patto implicito cui siamo invitati asottostare è quello

dell’immedesimazione: siamo statiBabe che non voleva essere il pranzo di

Natale, siamo stati l’oca ingleseReginaldo e l’avvinazzato zio di

Adelina e Guendalina Blabla de GliAristogatti, che rischiava di esserecucinato al Petit Cafè di Parigi”

“Ma i cartoni animati sono favole, e sebisogna tornare pur sempre alla realtà,

c’è sempre qualche personaggio,dentro lo stesso cartone animato, che

con la sua morale realista riporta tutticon i piedi per terra”

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L’ultimo geniaccio a esserestato consacrato nel gotha del-la gastronomia internazionaleè lui, Rene Redzepi, chef delNoma di Copenhagen, vinci-tore quest’anno del San Pelle-grino World’s 50 Best Restau-rants, la classifica dei miglio-ri ristoranti della Terra. Questogiovane chef, esponente dipunta di quella che viene chia-mata New Nordic Cuisine, haridato vita e forma alla cucina

nord europea reintroducendo materie prime e cotture cheerano state lasciate un po’ da parte: il pesce locale, i muschi,i licheni, la cenere usata come spezia, ad esempio, vengonousati come elementi per riportare la percezione del gusto a unritorno al contatto con la terra e con i suoi sapori. Questo è sta-to il frutto di un’esperienza acquisita in grandi ristoranticome El Bulli di Adrià e poi di due mesi in viaggio nella suaregione alla riscoperta di prodotti dimenticati e delle loro cot-ture. I piatti che ne derivano hanno un ottimo equilibrio di cot-ti e crudi, di modo che chi li gusta si ritrova a provare una sen-sazione di intimità come nel contatto con la natura selvaggia,il paesaggio e la stagionalità di quel determinato luogo. Perquanto riguarda la nostra penisola non siamo certo da meno:gli chef innovativi e di primo livello sono tanti, ma quelli chenegli ultimi anni si sono distinti per la ricerca su prodotti e cot-ture sono stati sicuramente Massimo Bottura (Osteria Fran-cescana) e Davide Scabin (Combal.Zero). Il primo ha fatto delconnubio fra tradizione e innovazione la sua filosofia di vita,creando così una sorta di avanguardia culinaria del gusto. Fa-moso è il suo “bollito non bollito” che consiste in una cottu-ra della carne di circa 18 ore a una temperatura di 63 gradi co-stanti. Il risultato? Carne che alla vista può sembrare cruda mache invece è cotta e mantiene tutte le sue proprietà e la sua te-nerezza. Per realizzare tutto ciò spesso non bastano i fornel-li; grazie al roner, una macchina usata anche in ambito far-maceutico, si può cuocere a bagnomaria a temperatura con-trollata e con l’acqua in movimento affinchè si possa ga-rantire una temperatura identica in tutto il recipiente come nelcaso appena menzionato. Per quanto riguarda Scabin, parliamodi uno chef che, nel suo ristorante, non vede la cucina solo

come mangiare, quanto piuttosto come un’esperienza ri-creazionale che ci dovrebbe aiutare a tornare bambini e che cidovrebbe far apprezzare il piacere della sorpresa. Ogni suo sin-golo piatto prevede uno studio sulle cotture e le consistenzedelle materie prime che non può lasciare nulla all’improvvi-sazione e alla casualità. La sua “ostrica virtuale” ne è unesempio: non c’è ostrica, ma un bocconcino di anguria, bot-targa e scaglie di mandorle tostate che insieme ricordano il sa-pore del mollusco. Altro innovatore in tema di cotture è si-curamente lo sloveno Tomaž Kavcic (Gostisce Pri Lojzetu) conle sue piastre di sale. Queste permettono sostanzialmenteuna cottura senza alcuna aggiunta di grassi e, soprattutto, man-tenengono inalterati sapori (in particolare per quanto riguar-da il pesce) e consistenze. La piastra permette che i vapori do-vuti all’umidità del sale evaporino, permettendo così la tra-smissione al prodotto di sali nobili. Così facendo il tipico sa-pore di iodio marino, che era stato tolto in fase di lavaggio, tor-na al pesce. Un importante contributo, anche se è discutibilel’effettiva sostenibilità di questo tipo di gastronomia, è statodato dalla manifestazione Cook It Raw (cuocilo crudo) de-dicata alla cucina nella doppia accezione di “cruda”, ma an-che di “selvaggia” , che quest’anno si è svolta nel Collio. L’e-vento ha visto la presenza di tredici cuochi che si sono riunitiper analizzare i processi di elaborazione di piatti crudi, par-tendo dalla pesca in laguna alla scelta dei prodotti al merca-to. Lo scopo è quello di ottenere una cucina legata alla natu-ra e a tecniche a impatto energetico zero. Altro stile di cotturaadottato negli ultimi anni in alcuni ristoranti è quello delsottovuoto. Questo modo di trattare gli alimenti ha sicuramentegrandissimi vantaggi: in primis vengono bloccate tutte leattività enzimatiche dell’alimento, prolungando notevol-mente la durata dello stesso e impedendo il costituirsi difattori che ne causano il veloce deterioramento, ma soprattuttosi mantengono tutti i nutrienti e l’umidità naturale del cibo che,se pensiamo alla carne, costituiscono gran parte del prodotto.Una volta cotto, l’alimento viene tolto dall’involucro e ri-scaldato (se si è cotto a bassa temperatura) e conserverà un sa-pore originale che difficilmente riuscireste a ottenere conaltri tipi di cotture. Fino a oggi il sottovuoto è riservato qua-si esclusivamente a pochi ristoranti dagli chef estrosi e crea-tivi e all’industria alimentare, ma sicuramente verrà il mo-mento in cui verranno messi sul mercato strumenti per otte-nere questo tipo di cottura anche in casa propria.

Quando la tecnologia esalta i saporiDalle piastre di sale ai crudi nordici, dal sottovuoto alla riscoperta dei prodotti selvaggi

di Indra Galbo

Indra Galbo

«Il sale è quel pezzo di mare che non è voluto tornare al cielo – afferma lo chef sloveno Tomaž Kavcic che ha ideato una piastra di saleper cuocere carni e pesce – prima c’è la natura, in questo caso il sale e poi l’uomo, che non può nulla per migliorarne la perfezione».

A parlare di ristoranti et-nici, subito viene da pen-sare ai lampioncini e alletettoie rosse presenti intante strade romane: nonc’è quart iere che nonproponga, non solo unluogo in cui poter man-giare pollo alle mandor-le, involtini primavera egelato fritto, ma addirit-tura una scelta tra più ri-storanti cinesi, una con-correnza tra piatti di riso

alla cantonese e nuvolette, a colpi di prezzi economici(spesso ultraeconomici), impeccabili servizi take-awaye cordialità.Il vicino (sulla carta geografica) Giappone, ormai daqualche anno ha conquistato i romani (e non solo) conuna vera e propria invasione di sushi bar: regni di pescecrudo accompagnato da verdure, alghe e riso in bianco.Il concetto gastronomico che fa da base a questa cucina,è molto diverso e quasi opposto a quello a cui siamoabituati in Italia, tra piatti ricchi e soffritti: dal Giappo-ne, impariamo che «un buon sapore naturale non ha bi-sogno di essere ritoccato». Sarà per questo che dal tavo-lo di un sushi bar ci si alza leggeri, ma anche – bisognadirlo – quasi sempre ancora affamati. Da Akasaka, nelquartiere Ostiense, due chef del Sol Levante, Jong TaeJin e Song Kyong Soo, accanto a sushi e sashimi pro-pongono una lunga lista di pietanze e le lasciano scorre-re sul caratteristico nastro kaiten (a Roma inauguratodallo Zen Sushi Re-staurant in Prati)posto al centro dellatavolata, a portata dipiatto. Da F.I.S.H.,nel rione Monti, e daChikutei ai Parioli,la gastronomia nip-ponica incontra ri-spettivamente quellathailandese e la ma-lesiana; da Roppon-gi, in via QuattroFontane, la cena ini-zia, inaspettatamen-te, con la jwilly, la“nostra”, temuta me-dusa; mentre GinzaGold, su via Barbe-rini, versione deluxedel Ginza di San

Giovanni, costituisce una vera e propria azienda: oltre allacena in sale eleganti e lussuose, qui si organizzano corsi diorigami e di cucina, feste private con servizio take-away egift card prepagate di vario valore per regalare serate ga-stronomicamente indimenticabili. Anche la cucina indiana ha ormai colonizzato con i suoiforti sapori speziati intere zone romane, come ad esem-pio il rione Monti, con i locali Guru, Maharajah, Mo-ther India, Sitar. Ma in altre zone, sono ospitati anche ilTiger Tandoori, locale d’atmosfere sandokaniana in unmix pop di poster e musiche da Bollywood e arredamen-to di modernariato, che accoglie anche sapori del Paki-stan e del Bangladesh, o l’incantevole, romantico SuryaMahal, nel cuore di Trastevere, considerato il miglior ri-storante indiano di Roma.

Per restare in area orientale, la capitale ospita anche isapori dell’Indonesia, del Vietnam e della Thailandia, alBali Bar&Restaurant o al Go Thai; quelli coreani (la cuicucina è una delle più povere in grassi essendo i cibicotti al vapore e tra le cui specialità spicca la pizza aifrutti di mare) al Bi Won (letteralmente, giardino segre-to), all’Hana o all’I Gio; infine quelli prettamente thai-landesi all’Isola Puket o al Thai Inn, dove la creatività èdoppia e i piatti dagli ingredienti fantasiosi vengono ser-viti come fossero opere d’arte.

Per spostarci inarea mediorienta-le, oltre ai tanti lo-cali in cui è possi-bile mangiare ke-bab, lo spiedo dicarne che ha ormaida qualche annoinvaso la capitale(e non solo), tro-viamo gli Antichisapori della Tur-chia; Alfonso, re-gno del cous cous,(altro piatto fortu-nato e proposto inpiù varianti); lacucina libanese alBeirut, con il pa-strami di manzo,gli spiedini kafta

Non solo CinaMappa delle cucine straniere a Roma

di Michela Monferrini

Michela Monferrini

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“Dal Giappone impariamo che unbuon sapore naturale non ha bisogno

di essere ritoccato”

Una pietanza di sushi

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di pollo e i dolci preva-lentemente al miele, e alCedro del Libano dove siassiste anche a spettacolidi danza del ventre; i sa-pori siriani al Zenobia eallo Sciam, dove anchel’arredamento riporta aDamasco. In area Porticod’Ottavia, il mediorientesi fa kosher e per rapportoqualità-prezzo, è da se-gnalare lo Yotvata, dovela tradizione gastronomi-ca che rispetta le regoledella religione ebraica, siconiuga a quella giudai-co-romanesca.E forse non tutti sannoche a Roma vi sono an-che diversi ristoranti dicucina africana: l’Africa,lo Zighinì, il Sahara e ilMassawa, per esempio,locali di cucina eritrea edetiope in cui è d’obbligomangiare direttamentecon le mani. Non deveinvece indurre in errore ilnome d’un altro locale:Bla Congo. Là è possibi-le provare la cucina scan-dinava e la sua tipica va-rietà di patate rosse farci-te in decine di manieredifferenti (dal salmone aifunghi) che dà il nome al ristorante, appunto.Per mangiare in luoghi colorati e con sicuro sottofondomusicale, l’ideale è scegliere la cucina del Sudamerica:tequila, paella, empanadas e sangria sono le pietanze ti-piche dell’argentino Boca, così come dei messicaniCharreada – Café y Grill, Cucara Macara, Hell’s Grill.I sapori sono quelli piccanti delle spezie e del peperon-cino, i balli la samba, il tango e i latinoamericani in ge-nere (La cucaracha, è il nome di un locale messicano di

Trionfale ), ragione per cui questi locali sono frequentatisoprattutto da comitive di giovani e richiestissimi perfeste di addio al nubilato o al celibato. Suonano invecele note del charango andino, la chitarra peruviana a diecicorde, al Los Hijos del Sol, ristorante di cucina appuntoperuviana (a Roma portata però da La Limeña al quar-

tiere Flaminio, degli chefElsa Javier e Luciano Pia-centini) che accoglie sa-pori – tra loro anche di-versi – provenienti dal-l’intero paese, dalle Andefino al sud. Più note al nostro palatoeuropeo, e provenienti dadistanza geografica piùridotta, la cucina france-se, greca, tirolese, spa-gnola. Per quest’ultima,vale la pena arrivare sullungomare di Ostia e daDon Pepe ordinare paellaa volontà, vegetariana ocon frutti di mare, magariaccompagnata da tapas eprosciutto ovviamenteiberico come il Pata Ne-gra. La cucina mitteleu-ropea, e i suoi pezzi forti(würstel, knoedel, gou-lash, strudel di mele, sa-cher) si trovano all’anticaBirreria Viennese , daFranz , o al Löwehaus ,dove anche l’ambiente,con tavoli in legno, co-stumi tipici e grossi boc-cali, talvolta enormi perla birra, ricorda le taver-ne della Foresta Nera.Mentre gli indirizzi per lacucina greca sono davve-

ro numerosi (soprattutto nel quartiere di Trastevere, e siricordano il piccolo e confortevole Akropolis e il recen-tissimo Ouzerì) e tutti propongono prezzi veramenteeconomici. Per una romantica cena in atmosfera parigi-na, ci sono due locali di diversa fascia di prezzo: a LaMaison de l’Entrecôte non si spende molto, si entra allespalle del Gazometro di Ostiense e ci si ritrova immersiin un locale della Parigi anni Cinquanta. A L’Escargot,sull’Appia Antica, il prezzo sale un po’, ma la tartare dicarne cruda e chateaubriand con salsa bernaise è servitaa lume di candela. Per fare colpo, senza andare troppolontano.

Il nastro kaiten che scorre con le pietanze davanti agli avventori in unristorante giapponese

“In area Portico d’Ottavia, ilmedioriente si fa kosher e la tradizione

gastronomica che rispetta le regoledella religione ebraica, si coniuga a

quella giudaico-romanesca”

“Per mangiare in luoghi coloratie con sicuro sottofondo musicale,l’ideale è scegliere la cucina del

Sudamerica: tequila, paella,empanadas e sangria. I sapori sono

quelli piccanti delle spezie e delpeperoncino, i balli la samba, il tango

e i latinoamericani in genere”

Che l’alimentazione in-cida sulla qualità dellavita e sulla nostra saluteè ormai un dato appura-to. Mangiare bene signi-fica stare bene, o almenostare meglio rispetto aquando si mangia male.Negli ultimi anni l’atten-zione rivolta all’alimen-tazione umana è di granlunga aumentata, in con-siderazione di una mag-giore consapevolezza as-

sunta sia dal punto di vista qualitativo che quantitati-vo. OGM, rischio di obesità e malattie correlate, cibiche aiutano a prevenire i tumori, come, d’altra parte,attenzione all’alimentazione eco e bio e il fiorire diiniziative di sensibilizzazione: oggi c’è un mondo diopinioni, pensieri e considerazioni intorno all’alimen-tazione, come probabilmente non è mai accaduto nellastoria dell’uomo. Ma cosa dire invece dei nostri amicianimali? Se l’alimentazione è tanto importante per noi,se incide in maniera tanto significativa nella nostra vi-ta, cosa accade nella loro? Come dobbiamo nutrirli,quanto e quante volte per garantire loro un’alimenta-zione sana, genuina e salutare? Ovviamente anche inquesto caso le opinioni appaiono le più disparate eogni veterinario avrà tratto le proprie conclusioni rela-tive a studi ed esperienze. Il primo consiglio per chipossiede un animale domestico sembra dunque quellodi ascoltare le indicazioni del medico veterinario, esat-tamente come si fa con un pediatra quando ci si vuoleprendere cura diun bambino. Allostesso modo, pe-rò, è giusto tener-si informati, cer-care di carpire leesperienze altruie trarne conside-razioni che pos-sano ampliare lenostre conoscen-ze e competenze,per non farci tro-vare impreparatidavanti ad emer-genze o proble-m a t i c h e . C o m equando, nel 2007,negli Stati Unitisono morti circa

1950 gatti e 2200 cani. I veterinari si sono subito al-larmati, segnalando numerosissime “morti insolite”dovute a insufficienza renale. Ma questa appariva solola causa del decesso. Cosa avesse causato tanti im-provvisi problemi ai reni lo scoprì poco dopo la FDA(Food and Drug Administration) che ritirò dal mercatointere partite di cibo per cani e gatti e, analizzandole,scoprì che su 85 campioni di proteine di riso, in 27 erapresente la melammina, sostanza tossica di cui abbia-mo sentito molto parlare con l’emergenza del “latte ci-nese contaminato”. Nei primi mesi del 2009 il pericoloera arrivato anche da noi, quando due cani morti inVeneto avevano fatto scattare l’allarme e le indagini suun’azienda di Pavia, una delle tante produttrici del co-sì detto pet food. Il Parlamento europeo decise allora

di adottare un regolamento che, proprio al fine di tute-lare la salute degli animali domestici, imponesse l’ob-bligo di indicare, sulle etichette dei prodotti, l’elencodelle materie prime impiegate. Ma soprattutto il petfood divenne nuovamente, per l’ennesima volta, og-getto di critica e condanna da parte di quella scuola dipensiero che vede nel cibo “fatto in casa” il metodomigliore per alimentare i propri animali domestici. Ladiatriba va avanti da sempre: c’è infatti chi ritiene che

sia consigliabilenutrire il cane (madiscorso simile sipotrebbe fare an-che per il gatto)con i nostri avan-zi, proprio perchégaranzia di qualitàe genuinità, men-tre c’è chi sostie-ne che il cibo inscatola, i mangi-mi secchi e quelliumidi debbano co-stituire l’unico si-stema di sostenta-mento per gli ani-ma l i domes t i c i .Volendo tentareun’analisi in meri-

Le nuove frontiere del pet foodMa ancora una volta la qualità è più importante della quantità

di Irene D’Intino

Irene D’Intino

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“Se l’alimentazione è tanto importanteper noi, se incide in maniera tantosignificativa nella nostra vita, cosaaccade in quella dei nostri animali?

Come dobbiamo nutrirli?”

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to, che possa appa-rire più oggettivapossibile, dobbia-mo partire da unassunto di base:l’apparato digeren-te degli animali èdiverso dal nostro.Quindi non è dettoche qualcosa che anoi r iesce faci l -mente assimilabilee digeribile lo siaallo stesso modoper il nostro cane(o gat to) . È peresempio il caso dicipolle e cavoli ,assolutamente sconsigliati nella dieta animale, così co-me, ovviamente, ogni tipo di dolce (cioccolato in pri-mis), caffè, bevande alcoliche, cibi grassi o avariati,formaggi fermentati. Esattamente come avviene per gliuomini, infatti, gli animali sono soggetti a malattie le-gate all’alimentazione e non solo: possono addiritturanon tollerare assolutamente cibi che per noi costitui-

scono alimenti di base. Quindi attenzione a quandonutrite i vostri animali con gli scarti delle abbuffateintorno al tavolo: seppure usata molto di frequente, eprobabilmente non del tutto deleteria, questa praticadeve però essere condotta con coscienza e con l’ausi-lio del consiglio veterinario. Sul sito dell’ASPCA(American society for the prevention of cruelty to ani-mal) potrete trovare un elenco completo di sostanzealimentari e non, tossiche e nocive per cani e gatti(www.aspca.org). Allo stesso modo, bisognerebbe assumere maggiorecoscienza nel momento in cui si acquistano cibi pronti,scatolette o mangimi. È importante ricordare, infatti,che in Italia vi sono circa 14 milioni di esemplari dianimali da compagnia, compresi cani, gatti, pesci, uc-celli e roditori. In pratica un animale domestico ognidue famiglie. È facile comprendere perciò l’incidenzaeconomica di un mercato come quello del pet food,che, secondo l’Euromonitor, dovrebbe valere circa1.232 milioni di euro l’anno. E che aumenta soprattut-to quando sono i medici dei nostri amici animali, cioèi veterinari, a consigliarci di nutrirli con cibi preconfe-zionati. L’importante sembra comunque trovare perl’animale una dieta adatta alla sua attività fisica, allasua età, alla sua razza, per evitare le problematicheconseguenti di natura estetica ma anche salutare.

Come spesso ac-cade anche conil sistema nutri-zionale umano, avolte assistiamo asperimentazioni,tentativi di cam-biamenti in virtùdi migliorie sa-lutiste o etiche.Questo avvieneanche nel campoanimale, e le ulti-me tendenze ve-drebbero l’emer-gere di un sistemadi alimentazionee s t r e m a m e n t e

particolare ma sano, almeno a detta di coloro che lohanno già adottato per i propri “amici a quattro zam-pe”. Stiamo parlando del BARF, Bones and raw food,ovvero Ossa e Cibo crudo: alla base della filosofia delBARF, infatti, vi è la convinzione che l’animale vadanutrito esattamente come farebbe da solo se vivesseallo stato brado. E quindi con ossa e carne cruda, manon solo. Anche muscoli, organi, verdure e frutta cru-de. Anche perché l’obiettivo è quello di replicare unapreda. Se questo potrà far storcere il naso a molti, peraltri sembra aver rappresentato la soluzione ottimale aiproblemi di salute dei propri cuccioli. Ma attenzione:chi decidesse di mettere in pratica questo tipo di ali-mentazione, deve attenersi a tabelle molto precise escrupolose. Il veterinario australiano Ian Billinghurst eil dott. Tom Lonsdale saranno i vostri mentori miglio-ri, al riguardo.

Qualunque dieta decidiate di adottare, comunque sce-gliate di alimentare il vostro animale, forse lo spuntod’analisi migliore ve lo darà l’etologia: sembra impor-tante infatti, oltre al contenuto della ciotola, il modoin cui la preparate o la porgete al vostro animale. «Og-gi spesso si dà da mangiare al cane mentre si sta al te-lefono, si apre una scatoletta e il problema è risolto»spiega l’etologo. Bisognerebbe invece condividere ilcibo con il proprio animale per «farlo sentire parte in-tegrante del nostro branco». O almeno dedicare al mo-mento della sua nutrizione un rito speciale o particola-re, magari preparando la ciotola, chiedendogli di farequalcosa per cui merita una ricompensa e poi invitarloa mangiare. Perché, vale la pena ricordarlo, molte vol-te è la qualità e non la quantità che può fare la diffe-renza. Nell’alimentazione così come nelle attenzioniche rivolgiamo ai nostri cuccioli.

“L’apparato digerente degli animali èdiverso dal nostro. Quindi non è detto

che qualcosa che a noi riesce facilmenteassimilabile e digeribile lo sia allo

stesso modo per il nostro cane o gatto”

“Primo consiglio per chi possiede unanimale domestico sembra dunquequello di ascoltare le indicazioni del

medico veterinario”

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Chi si occupa oggi di con-servazione della natura èconsapevole di agire in unquadro dinamico profon-damente mutato rispettoagli anni “militanti” deisoli vincoli e divieti. Allo-ra si trattava di interrom-pere pratiche terribili che,con il livello di coscienzaattuale, potrebbero quasiunanimemente essere de-

finite barbare: cementificazione di coste e argini, uccisio-ne di lupi e orsi, uso del DDT e dell’eternit etc. Oggi, inItalia e in Europa, diversi obiettivi ambientali e culturalisono ormai acquisiti e socialmente riconosciuti, anche sequesto riesce solo a rallentare la continua erosione di bio-diversità, ambienti e paesaggi dovuta agli attuali tassi dicrescita e di consumo delle risorse.Conservare la natura nel 2010 vuol dire da una parte cono-scere e monitorare le dinamiche ambientali realizzandoazioni per la salvaguardia di habitat e specie a rischio. Daun’altra essere in grado di lavorare con le comunità localinei territori, riconoscendone complessità e specificità, perfavorire politiche integrate di sviluppo di attività realmen-te sostenibili che scongiurino le tendenze all’abbandono eallo spopolamento. Da un’altra ancora, infine, vuol direporsi molte domande ed essere consapevoli che per alcunepossono non esservi risposte.

In questo scenario di incertezza globale le aree protette(parchi e riserve naturali) si candidano sempre più ad as-sumere un ruolo di laboratori di sperimentazione e innova-zione. E la nuova sfida diventa gestire e fare progetti con iterritori non tanto per stimolarne la crescita economica,quanto per incrementarne la qualità della vita e la funzionechiave di nodi produttivi e di tutela di beni e servizi d’ec-cellenza per il sistema-paese. A partire da quei presidi irri-

nunciabili dell’esistenza che sono i prodotti della terra. Laloro qualità, varietà, genuinità ma anche le tradizioni e ipaesaggi legati alla loro storia.I paesaggi sono entità dinamiche la cui evoluzione è scan-dita da processi naturali ma anche dalla mano dell’uomo.Per secoli gli abitanti delle campagne hanno tratto il mas-simo dalle terre, anche impervie e disagevoli, che veniva-no disboscate, dissodate, spietrate e infine coltivate o pa-scolate. Da pochi decenni invece, con l’abbandono deicampi, questo processo si è invertito e la natura sta lenta-mente riprendendo possesso del territorio. Ma sono mol-tissimi i segni del modellamento umano del paesaggio an-cora riconoscibili. Si tratta di testimonianze diffuse ma la-bili, meritevoli di attenzione e conservazione in quantoespressione della nostra memoria storica, delle nostre radi-ci. E insieme ad esse vanno tutelati i costumi, le azioni, i

Natura protetta e cibiI parchi custodi della biodiversità alimentare e rurale

di Filippo Belisario

Filippo Belisario

Sorgente nel Parco regionale dei Monti Simbruini

“Sono moltissimi i segni delmodellamento umano del paesaggio. Si

tratta di testimonianze diffuse malabili, meritevoli di attenzione e

conservazione in quanto espressionedella nostra memoria storica, delle

nostre radici. E insieme ad esse vannotutelati i costumi, le azioni, i gesti

quotidiani e le esistenze che a quelletestimonianze hanno dato vita”

repo

rtag

e

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gesti quotidiani e le esistenze che a quelle testimonianzehanno dato vita.Nei parchi più che altrove questa necessità è sentita comeuna parte della mission. Non solo la cura degli assetti deiluoghi per il mantenimento degli equilibri idrogeologici edella biodiversità, che esprime proprio nel mosaico di fo-reste, radure, campi e cespuglieti, il massimo delle sue po-tenzialità. Ma anche la salvaguardia di saperi, abilità, sa-pori e tradizioni che compongono l’identità collettiva dellecomunità. Immaginiamo il Parco nazionale delle Cinque Terre, sitoUNESCO “Patrimonio dell’Umanità”, i suoi paesi, i suoivini, il suo sistema di piccoli vigneti terrazzati a strapiom-bo sul mare delimitati da migliaia di muretti a secco. Im-maginiamo i paesaggi agricoli montani dell’Italia centralee meridionale, i campi cintati da siepi, i tratturi della trans-umanza, le colture promiscue e le “viti maritate”, i pascolibradi di mucche e cavalli, la vita sempre più difficile divillaggi e frazioni ormai senza servizi in cui d’inverno ri-siedono poche decine di anime. Siamo disposti ad accet-tarne la silenziosa scomparsa? Quanti parchi sono neces-sari per renderne più probabile la sopravvivenza?Il primo e più essenziale tra i “prodotti” della terra, l’ali-mento principe, è l’acqua. La fornitura di acqua potabile rientra in una rosa di servizi

fondamentali, resi dagli ecosistemi, che raramente figura-no o sono quotati nei conti economici delle imprese essen-do forniti in permanenza e gratuitamente dalla natura. Ep-pure l’acqua ha un costo, per tutti, e gli analisti concorda-no nel ritenere che sarà sempre più alto man mano che lepiogge diminuiranno e le grandi falde di pianura verrannoinquinate. In questo, i territori delle aree protette, anche in virtù dellaprevalente collocazione in zone montane, sono delle au-tentiche miniere d’oro per qualità, quantità e varietà delleacque. E gli enti chiamati a gestirli, anche se spesso prividi fondi e strumenti, sono i custodi di questi tesori. Soloper fare un esempio si pensi che, nel Lazio, il Parco regio-nale dei Monti Simbruini fornisce, ogni secondo, 8 metricubi (8.000 litri) di buonissima acqua di montagna all’areametropolitana di Roma. In un anno sono oltre 250 milionidi metri cubi pari a un prezzo “teorico” di mercato di circa50 milioni di euro. A Fara San Martino (in provincia diChieti), invece, l’acqua e il grano duro del Parco nazionaledella Majella sono gli ingredienti essenziali di due pastifi-ci famosi in tutta Italia.

Processi di captazione e sfruttamento eccessivo delle sor-genti di montagna possono portare al depauperamento ir-reversibile delle falde, con conseguenze su interi habitat.Qualsiasi attività antropica richiede acqua. Quanto siamodisposti a limitare le nostre tante “seti”?Nel “paniere” dei servizi ecosistemici che non compaionoin alcun conto economico o piano finanziario ve ne sonodiversi legati al mondo vivente, alla biosfera. I più impor-tanti e noti sono la fotosintesi, intesa come capacità dellepiante di produrre biomassa, e l’impollinazione, che favo-risce il mantenimento della diversità floristica e l’evolu-zione vegetale.

Mucca al pascolo brado nel Parco regionale dei Monti Simbruini

“L’alimento principe è l’acqua. Lafornitura di acqua potabile rientra inuna rosa di servizi fondamentali, resi

dagli ecosistemi, che raramentefigurano o sono quotati nei conti

economici delle imprese essendo fornitiin permanenza e gratuitamente

dalla natura”

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All’impollinazione dobbiamo la grande varietà e diversifi-cazione del mondo vegetale, le forme, i colori e i profumidei fiori, la bontà dei frutti e delle erbe spontanee, l’eserci-to instancabile delle moltissime specie di insetti pronubi.Eppure la continua immissione di pesticidi nelle parti dicampagna ancora utilizzate sta riducendo le popolazioni diimenotteri e farfalle più sensibili, compresi molti sciamidegli apicoltori. Le amiche api, macchine sociali perfettedalla vita scandita nei cui misteri non siamo mai riusciti apenetrare fino in fondo, non ce la fanno a stare al passocol nostro “progresso”. In parchi e riserve non è solo la tutela ma anche la distan-za da insediamenti industriali, infrastrutture e grandi centri

urbani a garantire lo svolgersi indisturbato dei processi na-turali. A tutto vantaggio della qualità degli alimenti che daessi derivano. Siamo disposti a pagare qualcosa di più perquesti prodotti genuini di “filiera corta”?

Nella Riserva regionale di Monte Rufeno (Acquapendente- VT) una ricca diversità floristica, centinaia di ettari di fo-reste e prati e decine di arnie collocate in posizioni strate-giche consentono la produzione di un ottimo miele mille-fiori di bosco a partire da essenze come il castagno, l’eri-ca, il corbezzolo, l’acacia, il trifoglio: uno dei pochissimimieli locali riconosciuto come “prodotto agroalimentaretradizionale italiano”. Sul Pian Grande di Castelluccio(Norcia - PG), nel cuore del Parco nazionale dei Monti Si-

Oliveto pascolato nel Monumento naturale Gole del Farfa (RI)

Piccoli vigneti di Moscato di Terracina a Campo Soriano (LT)

“Immaginiamo i paesaggi agricolimontani dell’Italia centrale e

meridionale, i campi cintati da siepi, itratturi della transumanza, le colture

promiscue e le “viti maritate”, i pascolibradi di mucche e cavalli, la vitasempre più difficile di villaggi e

frazioni ormai senza servizi in cuid’inverno risiedono poche decine di

anime. Siamo disposti ad accettarne lasilenziosa scomparsa?”

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billini, le tecniche e i gesti per coltivare le famose lentic-chie sono rimasti gli stessi da centinaia di anni. L’avventodel Parco ne tutela l’integrità e ne garantisce la continuità.A Terracina (LT), nell’area protetta Monumento naturaledi Campo Soriano, in un lembo isolato di territorio che sadi altri tempi, massi e pinnacoli calcarei derivanti dai pro-cessi carsici contendono il suolo a decine di piccolissimivigneti di Moscato di Terracina, nel cuore più autenticodell’areale di produzione.

E si potrebbe continuare a lungo: sono veramente innume-revoli gli abbinamenti fra aree protette e prodotti agroali-mentari di qualità. Solo per restare nel Lazio si va dallenocciole e dai marroni dei Cimini (Riserva del Lago di Vi-co) alle ciliegie e al farro del Parco regionale dei MontiLucretili, dall’olio di oliva Sabino del Monumento natura-le Gole del Farfa alla porchetta di Ariccia e ai pani di Gen-zano e Lariano del Parco regionale dei Castelli Romani.Ed è proprio nei parchi del Lazio, messi “a sistema” grazie

alle iniziative dell’Agenziaregionale parchi, che è na-to Natura in Campo, unprogetto integrato di pro-mozione agroalimentare ditutti i territori protetti re-gionali che prevede, tral’altro, il sostegno alle atti-vità agricole rispettosedell’ambiente e la conces-sione di un marchio per iprodotti certificati, biolo-gici e tradizionali. Senzadimenticare il coinvolgi-mento attivo di ragazzi eadulti nella vita dei campie nei processi di produzio-ne e trasformazione deglialimenti attraverso una re-te di Fattorie educative.Perché facendo si conoscee si capisce quello che sifa. E solo conoscendolo losi può amare.

“La continua immissione di pesticidinelle parti di campagna ancora

utilizzate sta riducendo le popolazionidi imenotteri e farfalle più sensibili,

compresi molti sciami degli apicoltori.Le api non ce la fanno a stare al passo

col nostro progresso”

Pian Grande di Castelluccio, Norcia (PG)

A fianco, dall’alto verso ilbasso: Macaone (Papilio ma-chaon) su pianta fiorita di ro-smarino; olive, corbezzoli,castagno

Lo scorso 17 giugno, ad Allumiere (RM), il Rettore GuidoFabiani ha presentato il nuovo Centro studi e ricerche del-l’Ateneo, che sorgerà nella ex base Nato di La Faggeta (egià ospita un primo campo sperimentale formato da lau-reandi in Geologia sotto la guida dei professori ElisaGhiozzi e Claudio Faccenna). La scelta del sito non è affat-to casuale infatti il Comune di Allumiere, che dista pocopiù di 70 km da Roma, sorge sulle cime più elevate deiMonti della Tolfa, che si affacciano sul litorale che va dallacapitale a Civitavecchia ed è il fulcro non solo di una zonaricca di storia ma anche di notevole interesse naturalisticoe archeologico. Potremmo dire che il futuro della ricercapassa attraverso la nostra storia, infatti questo nuovo centroche si candida come polo multifunzionale all’avanguardianel panorama accademico italiano si svilupperà dove è sta-ta accertata dagli archeologi la presenza di insediamenti ur-bani fin dall’epoca paleolitica (più precisamente dal paleo-litico medio, VII-VI sec. a.c.). Il sindaco Augusto Battiloc-chio parla di «una scommessa vinta, condivisa dall’Univer-sità e dal consiglio comunale» ed aggiunge «è il corona-mento di un percorso comune intrapreso con l’UniversitàRoma Tre». Il Rettore Fabiani, dal canto suo, ha dichiaratoche «l’Università Roma Tre vuole fare di La Faggeta uncentro di attività formative e di ricerca di alto livello e so-prattutto multidisciplinare». Ed ha aggiunto: «la scommes-sa di cui ha parlato il sindaco è in corso. Al Centro non tut-to è completo, ma l’essenziale è stato fatto. Ci aspettiamol’impegno profondo delle istituzioni per proseguire». Nellospecifico La Faggeta – che bisogna ricordare essere inseri-ta in un territorio di ampie aree SIC (sito di importanza co-munitaria) e ZPS (zona a protezione speciale) che ne certi-ficano l’alta valenza ambientale – ospiterà scuole, scuole dispecializzazione, master, workshop e seminari internazio-nali che non potranno non tener conto del patrimonio arti-stico e geologico di questa zona dell’alto Lazio. Per quantoriguarda l’istituzione di laboratori, l’Ateneo ha fatto sapereche le scelte saranno adottate in funzione degli spazi, deifinanziamenti che sarà possibile attivare o di linee strategi-che prioritarie che si riterrà opportuno sviluppare. Certa,per il momento, la creazione di un laboratorio di didatticaavanzata, che coordinerà il Centro studi di ricerca e di mo-nitoraggio in campo ambientale, con laboratori organizzatiin diverse aree disciplinari (Centro ECOMET) e il Labora-torio per l’innovazione tecnologica in campo ingegneristi-co (con particolare attenzione alle energie rinnovabili). Ov-viamente soddisfatte anche le referenti del progetto per Ro-ma Tre, le professoresse Marina D’Amato e Giulia Caneva,a quest’ultima abbiamo chiesto se e come è prevista l’acco-glienza di studenti stranieri (anche al di fuori del ProgettoErasmus). «Sicuramente saranno ospitati, è tra i nostriobiettivi – ha dichiarato – però ciò dipenderà soprattuttodalla tipologia di progetti didattici che saranno avviati nellasede che avrà una funzione polivalente per scuole estive,master, stage di dottorato o attività curricolari di campo».

Con Marina D’Amato abbiamo analizzato il significato el’idea romantica che porta con sé l’utilizzo di un ex basemilitare come luogo di sapere. «Trovo estremamente sug-gestivo che dalle funzioni militari di controllo di una voltaoggi La Faggeta diventi un luogo che offre possibilità diincontri informali tra docenti italiani e stranieri e tra docen-ti e studenti. È proprio in questi contesti (con la possibilitàdi fermarsi alcuni giorni) che si costruiscono le premessemigliori per lo studio e la ricerca. Questo nuovo centro re-sidenziale, oltre ad essere un’eccezione nel panorama ita-liano e continentale, rappresenta in pieno la mentalità del-l’Ateneo». Per concludere abbiamo chiesto al sindaco Bat-tilocchio come procede l’ambientamento del primo camposperimentale e come crede saranno accolti gli eventualistudenti stranieri in futuro. «La comunità è felice di conti-nuare a mettersi alla prova con lo scambio culturale. Perquanto riguarda i futuri biologi già presenti sul territorio, etutti coloro che ci auguriamo giungano presto – ha sottoli-neato – la scelta dell’Università di non creare strutture diristorazione è un gesto importante per l’integrazione con lacomunità e far conoscere ai ragazzi anche la nostra tradi-zione enogastronomica, oltre che storico-culturale». Perora non ci resta che aspettare che i tempi tecnici facciano ilproprio corso per tornare presto a La Faggeta per dedicar-ci, questa volta, ai progetti di laboratorio e alle sensazionidegli studenti.

La Faggeta: un nuovo Centro studi e ricerchedi Ateneo ad Allumiere

di Giacomo Caracciolo

Il Rettore Guido Fabiani e Giulia Caneva all’inaugurazione delCentro studi La Faggeta

Ci racconti come nasce il progetto Soul food, di cui seil’ideatore?Il progetto Soul food nasce in un certo senso come appendi-ce del mio lavoro artistico sul cibo, anche se ormai cammi-na con le proprie gambe. Ho iniziato a lavorare così con duemie grandi passioni: la musica e il cibo appunto. Il cibo rap-presentava il legame con la mia terra di origine, la Puglia,mentre la musica, rappresenta il viaggio, lo spostamento, lascoperta. Passato e futuro, io il presente che li unisce.Nello spettacolo giochi con una serie di elementi/ali-menti che caratterizzano la tua terra di origine, ma an-che altri luoghi dell’area mediterranea, come il Magh-reb, la Provenza. Li abbini e li metti in viaggio…Quando ho iniziato a raccontare delle melanzane alla par-migiana e di John Coltrane, mi sono reso conto che sia chelo raccontassi in una piazza di paese sia che si trattasse diuna città, la gente aveva dimenticato il rapporto con le sta-gioni, il piacere che deriva dal cibo e soprattutto dalla co-munione solidale che quasi naturalmente si manifesta at-traverso il cibo. Questo aspetto è ben visibile nella culturacontadina, che in qualche modo mi porto dietro. Non solo.Più vado verso nord più vedo una forte individualizzazio-ne, quindi attraverso lo spettacolo cerco di riproporre e didiffondere quella capacità socializzante che caratterizza lacultura mediterranea.

Sono nato in un paesino del Salento e la musica per me èstata un vero e proprio vettore: mi ha dato la possibilità diconoscere, confrontarmi e sperimentarmi con culture fisi-camente distanti da me; sostanzialmente la musica è stataparte integrante della mia crescita. Il cibo la parte sostan-

ziale. Viaggiavo attraverso la musica, mi immaginavo, miproiettavo altrove e quando poi sono andato in un altrove,l’ho fatto portandomi dietro il cibo, perché niente raccontaciò che siamo quanto il cibo di cui ci nutriamo. E il cibo

Tom Waits beve Caffè Quarta!Intervista a Don Pasta

di Alessandra Ciarletti

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inco

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Sono nato in un paesino del Salento ela musica per me è stata un vero e

proprio vettore: mi ha dato lapossibilità di conoscere culture

fisicamente distanti da me;sostanzialmente la musica è stata parteintegrante della mia crescita, come ilcibo del resto. Attraverso la musicaviaggiavo e quando poi sono andato

altrove, l’ho fatto portandomidietro il cibo

Don Pasta selecter è un dj-economista, appassionato di gastronomia che prova adunire le sue passioni e conoscenze con il progetto Food sound system, manualepolitico di gastronomia musicale. Nato come dj in Salento, dove è dj resident del-la Mandragola-Otranto nel periodo 1996/1998, si definisce un «salentino esule perscelta». Di passaggio spesso in Francia, è romano d’adozione da più di un decen-nio. È membro fondatore del Clash city rockers sound system, collettivo aperto didj e selecter che organizza eventi ed iniziative musicali in diversi centri sociali ro-mani. Ha curato a Roma l’appuntamento settimanale Moods: a selection aboutcoolness and revolutionary sounds.Per due anni ha vissuto a Parigi, dove ha suonato nei maggiori club cittadini (LaGuinguette Pirate, la Favela Chic, il Jungle Montmartre) ed è stato resident dj delfestival “La Porte Basse” in Corrèze. È inoltre promotore di due importanti eventiche si svolgono a Roma: Sciroccu (festival sulla cultura salentina) e la Roda deiCirchi (festival franco-italiano di circo contemporaneo). (da www.donpasta.com)

va protetto, tramandato e inSalento tutto questo avvienespontaneamente. Con questoprogetto ho voluto diffonderequella che secondo me è unabuona pratica. Tutto questoperò riformulato con codicinuovi che attingono moltissi-mo dal mondo dei dj, quindimi sono “limitato” a mesco-lare qualcosa di esistente el’ho trasformato, senza snatu-rarlo.«Se hai un problema, ag-giungi olio». Questo il con-siglio che apre il tuo spetta-colo. Cosa rappresenta perte questo fluido antico?Innanzitutto va detto che tut-to questo progetto lo faccioda esule, un esule che si porta dietro/dentro gli affetti piùforti. In fondo penso che alla base di questo mio lavoro cisia proprio questo sentire. E per me il rapporto con il ci-bo, con la cucina è innanzitutto il rapporto con mia madree con mia nonna: quelle di cui parlo sono le loro vecchiericette. E l’olio rappresenta il fluido che aggrega, che dàsapore. E poi voglio dire una cosa per me fondamentale:l’olio è olio, la pasta è la pasta, il sugo è il sugo: ovveroalimenti basilari, autentici; ma partendo da questi si puòdar vita a tantissimi piatti, si può mettere in evidenza tuttauna serie di cose. Questi elementi sono per me radici epiù vado in giro più questo concetto di radice/ tradizionesi radica ulteriormente in me. Ed è un sentire che si inne-sta nei primissimi anni di vita, non si acquisisce dopo. Edè ricchezza di scambio: quando ci si confronta con moltialtri, con identità altre – io vivo in Francia dove il concet-to di identità è vissuto quotidianamente – ci si rende con-to che è una grande fortuna avere proprie identità da por-tare con sé. Ci sono due cose fondamentali: uno è il dirsi

io sono questa storia qui, che è un discorso individualema anche culturale, e l’altra è dire e dirsi, questa mia sto-ria la metto a disposizione, la scambio con altri. In questoprocesso, la musica costituisce il fluido, l’olio di olivache amalgama la passata di pomodoro e pure il cous-co-us. L’identità è uno strumento di confronto, di relazione.L’olio poi per noi è quasi un fluido magico. Esso è allabase dell’alimentazione ma anche elemento curativo; il

fatto di avere olio ti permet-te anche di scambiare, di re-lativizzare le cose, di esseremorbido nell’affrontare l’al-tro. Come in un vecchiomercato, chi ha olio è ingrado di negoziare qualsiasicosa.Dici che la cucina è quellache ti hanno trasmesso tuanonna e tua madre. Neituoi spettacoli combini inun divertente e imprevedi-bile mix tradizione e inno-vazione, cucini, reciti, can-ti. Una sorta di miscella-nea artistica fra poesia,cottura lenta di passata dipomodoro, musica, tenutainsieme dalla voce. Qual è

il messaggio principale?Il messaggio principale… in realtà ce ne sono tanti. Ti fac-cio un esempio: ora mi trovo a Tolosa e da poco mi hannofinanziato un progetto cui tengo molto, in cui attraversodelle interviste a ristoratori che vengono da tutto il mondoe che vivono da tempo a Tolosa, l’identità collettiva ècambiata, si è arricchita di tanti sud. Se osservi bene tantecittà del nord – New York, Parigi, Londra – altro non sonoche ricostruzioni di tanti sud. Il mio messaggio è che attra-verso la curiosità del cibo, che è un’identità profonda, le-gata a un carattere storico e culturale molto forte e attra-verso un sud a disposizione, si può essere aperti a altrisud. Questo se vogliamo è il manifesto del Food soundsystem. Non voglio salvaguardare la tradizione per tenerlachiusa in casa, non è questo il mio obiettivo: in fondo so-no un esule e in questo esodo, dovuto al fatto che in Italianon riuscivo a lavorare mentre qui sì, porto la mia storiache entra in relazione con le storie delle persone che cono-sco e da questo confronto nasce una storia nuova e allar-gando l’obiettivo nasce una società nuova, che a sua voltaè frutto di questo con-fondere tante identità, senza annul-lare quella d’origine... il che significa: vivo in Francia equindi sono pronto a mangiare burro tutti i giorni? Assolu-tamente no, non ci penso proprio. Uso l’olio. D’altro cantoè così da millenni: il piatto tipico di Milano è il risotto conlo zafferano, che certo non nasce in Lombardia; un piattotipico della cucina romana è il carciofo alla giudia… Tuttoquesto per dire che il concetto stesso di tradizione è di fat-to un ibrido e nasce proprio dallo scambio, dal fare propriusi e costumi che nascono altrove, mescolando al preesi-stente, traendone nuova e forte convinzione, tanto che poila si considera tradizione propria. Il sogno della cucina,una sorta di metafora riuscita perché manifesta è che qual-siasi tradizione serve per costruire comunità, per integrarecomunità. La pasta con le sarde nello spettacolo avevaquesta valenza.Se la musica fosse un ingrediente sarebbe…Olio! La musica è stata per me la prima forma di curiositàche mi ha permesso di fare passi avanti: non a caso PaulMcCartney a un certo punto capì che aveva fatto più rivo-luzione lui coi Beatles che qualsiasi politico dei suoi tem-

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Fior di vinile. Strana fioritura di primavera su alcuni alberi di Ro-ma. All’alba di giovedì 8 aprile la capitale ha mostrato “pasta e vi-nile” al posto dei più diffusi e comuni fiori. Un assaggio del Cookand Roll Circus (il 15 aprile scorso all’Auditorium), lo spettacolodove le melodie incrociano, letteralmente, verdure e non solo.

Quando ho iniziato a raccontare dellemelanzane alla parmigiana e di John

Coltrane, mi sono reso contoche la gente aveva dimenticato il

rapporto con le stagioni, il piacere chederiva dal cibo e soprattutto dalla

comunione solidale che quasinaturalmente si manifesta

attraverso il cibo

pi. La musica è una delle reali formedi avanzamento culturale e sociale.L’esempio per me più importante lorappresentano i Clash, gruppo punkdegli anni Settanta che se ne fregaro-no del nichilismo dei Sex Pistols, me-scolarono insieme tutte le influenzemusicali che caratterizzavano la Lon-dra di quei tempi e mangiavano in unristorante indiano. Furono i primi acapire che l’elemento interessante de-gli anni Ottanta era questa sorta dimixaggio delle culture. Avendo rice-vuto questo messaggio, attraverso lamusica lo traslo in altre forme artisti-che e perfetta in questo senso è lametafora del cibo.Perchè Tom Waits e Caffè Quarta,Nick Drake e la mandragola. Cosasi cela dietro questi abbinamenti?E soprattutto gli abbinamenti li fai per convergenza odivergenza?Le associazioni sono un po’ folli e assolutamente persona-li; non hanno niente di scientifico, e sono legate invece aun approccio emotivo. La Mandragola era il posto in cuiho iniziato a fare il dj, un posto selvaggio perso nella cam-pagna salentina; la mattina mi svegliavo molto presto perorganizzare bene il lavoro, avevo di fronte il mare, intornola campagna e la musica di cui avevo bisogno era una mu-sica dolce, appunto Nick Drake. Ogni passaggio dellospettacolo è legato alla memoria, che viene sì trasformata,adattata, ma quella rimane!Tom Waits e Caffè Quarta… be’ il Caffè Quarta per qual-siasi salentino è più che un rito, è quasi un amuleto dellafelicità e Tom Waits ha per me la stessa cifra… potrò anda-re ovunque ma lui non mancherà mai tra i miei dischi. In-somma sono associazioni personali che quasi mai si basanosu informazioni relative all’artista. Inoltre, nello specificoquesti due artisti rappresentano per me una sorta di viaggioiniziatico, sono i primi musicisti che ho amato, poi c’è Col-trane che associo alla parmigiana di melanzane, i Clash e ilpolpo in pignata… è un modo tutto mio di mettere insiemele cose più significative della mia adolescenza.Ci spieghi perché un piatto fuori stagione non è poetico? La prima domanda se vogliamo rappresenta la mia poeti-ca: non puoi fare la parmigiana in gennaio perché le me-lanzane sono piene d’acqua e non hanno gusto, quindiprepareresti un piatto senza armonia, che non trasmettepoesia, poesia intesa proprio come armonia fra gli ali-menti. Forzare uno o più elementi, nello specifico lamancanza del sole, del caldo che maturano le melanzane,che le rendono dolci, oppure il silenzio delle mattine d’e-state in campagna… rinunciare a questi elementi signifi-ca togliere a un piatto le sue condizioni esistenziali; si-gnifica togliergli tutte quelle cose che lo rendono specia-le, unico, trasformandolo, invece, in qualcosa di routina-rio, sempre pronto e disponibile. In realtà non è così e labuona cucina è strettamente connessa con il ritmo dellanatura. Inoltre cucinare è preparare e, se vogliamo, pre-pararsi a mangiare e a far mangiare. Non è un atto mec-canico; è un atto magico.

La cucina è più incertezza o im-provvisazione?Direi che la cucina è entrambe! Incer-ta come la vita, da improvvisare tal-volta come quando ti arrivano i colpibassi... bisogna prenderli stando inpiedi! Devi essere pronto per viverel’incertezza, preparato. L’invenzione èspesso frutto di una soluzione trovatain un momento di incertezza, facendoi conti, anche in senso stretto, conquello che in quel momento hai a dis-posizione. In fondo attraverso la cuci-na passano validi insegnamenti di vi-ta. Senza considerare poi che l’incer-tezza è alla base di qualsiasi forma ar-tistica. L’incertezza è la base artisticadella cucina. L’improvvisazione è lasua conseguenza.E la lentezza?

In cucina la velocità non esiste, anzi è la cucina stessa chedecide i tempi, li decide per te. Nella cucina popolare esisteil concetto di lentezza e in questo senso è una buona meta-fora di vita: se vuoi mangiare bene ti devi fermare.

Cosa sono le cene carbonare?Le cene carbonare fanno parte del festival Soul food, ciboambiente solidarietà e arte, organizzato dall’associazioneTerreni fertili, sono in un certo senso il nostro fiore all’oc-chiello. Di fatto sono cene illegali a casa di qualcuno, e lagente si iscrive un po’ alla cieca, non sapendo esattamentedove e con chi andrà a mangiare (massimo una ventina dipersone) e durante queste cene si parla di cose serie: l’inte-grazione, l’ecologia, la filiera corta, la convivialità. Hai duepossibilità per parlare di questi temi: o lo fai dal palco colrischio di ergerti a giudice, oppure lo fai stando tra le perso-ne, mangiando con loro. Soul food è un contenitore di nuo-ve forme di comunicazione. Le cene carbonare hanno unpo’ questo obiettivo, parlare di queste cose che sono alla ba-se della società. Tutto questo attorno a un tavolo e finendo atarallucci e vino, nell’accezione positiva del termine.Alla fine dello spettacolo hai detto che la Francia ti haaccolto, lasciando intendere che l’Italia ti ha rifiutato.Eppure il legame con le tue radici è il nucleo fondante latua stessa arte. Risolvi così il dissenso di un rapporto“conflittuale” con la tua terra?Vivo in Francia da quattro anni. In Francia lavoro e da quiporto in Italia il mio progetto artistico, finanziato dal Comu-ne di Tolosa e dall’ambasciata di Francia. Credo che tuttoquesto possa far riflettere.A Tolosa nessuno mi conosceva, mentre in Italia avevo giàpubblicato due libri... eppure qui il progetto è piaciuto ed èstato finanziato, in Italia non riuscivo a lavorare. Nemo pro-pheta in patria! 55

Non puoi fare la parmigiana in gennaioperché le melanzane sono piene

d’acqua e non hanno gusto, quindiprepareresti un piatto senza armonia,

che non trasmette poesia

Maurizio Ranzi ha studiato Architettura presso l’Università di Roma La Sapienza dovesi è laureato nel 1961 e dove ha insegnato Composizione architettonica fino al 1991.In seguito è entrato a far parte del gruppo fondatore della Facoltà di Architettura del-l’Ateneo di Roma Tre, insegnando dal 1992 Progettazione architettonica e urbana.Dal novembre del 2008 è in pensione per raggiunti limiti di età. Durante la carrierauniversitaria ha soggiornato saltuariamente in Francia e negli Stati Uniti, dove hasvolto cicli di conferenze e attività didattica in qualità di visiting professor. Paralle-lamente all’attività di docente ha svolto attività professionale, progettando, tra l’al-tro, edifici per abitazione, edilizia scolastica, complessi direzionali, ospedali ed alle-stimenti. Infine ha partecipato a molti concorsi nazionali e internazionali, vincendo-ne alcuni e perdendone molti, cosa più che normale, avendo ritenuto da sempre ilconcorso non un modo per acquisire un incarico, ma un’occasione per riflettere suisignificati del mestiere di architetto.

Ciò che mangiamo non è solo ciò che mangiamo. È anchedove lo compriamo, come lo cuciniamo, dove, quando e do-po quanto tempo lo consumiamo. Il teatro di tutte questeazioni quotidiane, per la maggior parte inconsce, è la cucina,spazio abitativo che da luogo privato, quasi intimo, si è an-dato via via trasformando in uno degli spazi più moderni,tecnologici e ricercati della casa. O almeno così è stato finoa poco tempo fa. Sì, perché ora, nonostante l’ancora forte at-tenzione all’high tech la tendenza sembra essere quella di unrecupero. Delle tradizioni, della manualità, dei sapori e degliodori. Nella vita, così come nella cucina, che per moltiaspetti ci riflette come specchio di una società che cambia.Per cercare di comprendere meglio il significato storico, ar-chitettonico e anche, perché no, sociologico della cucina, neabbiamo parlato con Maurizio Ranzi, incontrandolo nel suostudio di Roma.Mi corregga se sbaglio, prof. Ranzi, ma la cucina, permolto tempo, è stata considerata un luogo “privato”, chesi tendeva a tenere nascosto, in favore di altri spazi abita-tivi più presentabili, come la sala o il salotto. Perché, poi,il ruolo della cucina è stato sdoganato?Quando studiavo Architettura, ci insegnavano che l’alloggioè fatto di due blocchi: la zona notte e la zona giorno. Quindiqualsiasi casa avessimo dovuto progettare, dovevamo tenerconto di questa divisione. Poi tornavo a casa, osservavo illuogo dove vivevo e mi accorgevoche questa differenza non era inrealtà così netta: c’era una portache apriva su un lungo corridoio,da cui partivano le stanze, tutteuguali. Le uniche che effettiva-mente si “differenziavano” eranoil bagno e la cucina, o almenoquel luogo che chiamiamo cosìma che all’epoca aveva quasiesclusivamente un grande lavelloin cui mettevamo a sciacquarel’insalata e a tener fresco il burrosotto la cannella dell’acqua diret-

ta. La cucina era composta veramente da pochi elementi e datante credenze. Poi piano piano sono arrivati il frigorifero, ilfrizer, il frullatore e tutti gli altri elettrodomestici e, per fini-re, il forno a microonde, che io considero uno strumento in-fernale...Perché considera il microonde infernale?Perché è il simbolo di un modo di vivere il cibo che secondo

me è molto pericoloso. Nel momento in cui sono subentratiquesti elettrodomestici, paradossalmente la cucina è diventa-ta inutile. Pensiamo al film The Apartment: in una scenaJack Lemmon rientra dopo una giornata di stress, si toglie lagiacca, tira fuori dal frigo (che, non a caso, sta in salotto) untv dinner surgelato, lo scalda nel microonde, che si trova

sempre nello stesso ambiente, sisiede sul divano e cena, anzi ma-stica, davanti alla televisione dasolo. A quel punto la cucina po-trebbe anche non esserci. Basta lamano che spinge il bottone.Questo avviene forse perché lacucina cambia in base alle no-stre esigenze? È corretto direche anche le nostre abitudinialimentari possono influenzaree cambiare il modo di concepirela cucina?Ma certo! Qualsiasi cosa avviene

La cucina risveglia le nostre memorieAbitare e mangiare: intervista a Maurizio Ranzi

di Irene D’Intino

“Penso che gli uomini abbiano fattosempre, nelle diverse comunità in cui sitrovavano a vivere, cose molto simili,

senza saperlo. L’unica cosa che lidifferenziava era il tipo di

approvvigionamento che avevano, sevivevano in un luogo più marino o più

boscoso”

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Jack Lemmon nel film The Apartment, di Billy Wilder (1960)

in uno spazio lo influenza. È logi-co pensare che se il tempo che noidedichiamo al cibo è ridotto e con-centrato in pochi essenziali pas-saggi, la cucina avrà bisogno distrumenti ed elementi adattabili al-le nostre abitudini, così come suc-cederebbe, viceversa, se trascor-ressimo molto tempo a prepararegli alimenti dei nostri pasti.Osservando la questione daquesto punto di vista, si po-trebbe anche sostenere cheuna maggiore funzionalità inambito progettuale potrebbescaturire da una pratica esperienziale...Sicuramente conoscere qualcosa aiuta a comprenderne me-glio il funzionamento, anche se gli elementi che poi vannoad incidere sono tanti. Mi viene spesso in mente un parados-so dell’architettura razionalista degli anni Trenta: è con iro-nia che ho sempre pensato al passavivande, quel simulacrodi tempi lontani, quel buco nel muro attraverso il quale por-tare i piatti in sala da pranzo; ho sempre immaginato la“donna di casa” che cucina con il grembiule, che quando ipiatti sono pronti li poggia nel passavivande senza mostrarsi,sistema la gonna e i capelli, e poi, finalmente presentabile, siunisce a tavola al resto della famiglia: un controsenso che ri-calca antichi rituali familiari perduti, che si ricollega a ciò dicui parlavamo all’inizio, all’idea di una cucina da nasconde-re, quasi come uno spazio intimo, privato.Perché forse, riflettendoci, lo spazio in cui ci si nutre, incui si preparano gli alimenti, in cui si condivide è ancheuno spazio molto privato...Sì, è vero, anche se oggi la tendenza è quella di avere dellecucine piuttosto asettiche, in cui sia tutto ordinato, pulito,dove non ci siano odori che filtrino nelle altre stanze. Insom-ma qualcosa di molto freddo, quasi finto, come se fosse piùun oggetto da esposizione che da utilizzo.A livello internazionale, c’è un modo diverso di ideare oconcepire lo spazio abitativo della cucina? Ci sono paesiin cui il ruolo affidatole risulta diverso da quello che leaffidiamo, ad esempio, noi in Italia?Penso che gli uomini abbiano fatto sempre, nelle diverse co-munità in cui si trovavano a vivere, cose molto simili, senzasaperlo. L’unica cosa che li differenziava era il tipo di ap-provvigionamento che avevano, se vivevano in un luogo piùmarino o più boscoso e quindi se andavano a pesca piuttostoche a caccia e altri fenomeni naturali che distinguono le pri-ma comunità. Però il modo di vivere era abbastanza simile,schematizzando. Poi però è arrivata la globalità. Tutto questoha quindi assunto un carattere universale, più o meno consa-pevole, che però è diventato consapevole. C’è perciò unagrossa analogia. Pensiamo per esempio alla moglie del Pre-sidente degli Stati Uniti Barak Obama: nel suo primo discor-so ha parlato di orto. Scoprire l’orto in una società comequella statunitense! Se me lo avessero detto negli anni Ses-santa, avrei pensato: «Ma loro non sanno nemmeno che co-s’è un orto!». Perché per me l’orto è quello che ha la vec-chietta in montagna, in Abruzzo, che coltiva le sue cose. Larealtà però ci dimostra il contrario, ovvero che le necessità ciaccomunano. La riscoperta dell’orto non ha una sola valenza

economica: deriva piuttosto dauna esigenza di controllo di cosamangiamo. Se vogliamo è unapresa di coscienza del valore deicibi; e questo riscoperto approc-cio ridona valore alla cucina. È unpo’ un riscoprire di cosa siamofatti: recuperare la manualità, a unlivello più sottile, restituisce sen-so al corpo che abitiamo. Nellacucina poi si annida da sempre latradizione, la memoria di ciò checi ha preceduto. Le faccio unesempio: come si tira una sfoglia?Io lo so perché osservavo mia

madre mentre lo faceva. Ecco, vivevo la cucina, vivevo miamadre e attraverso il cibo apprendevo molto di più della so-stanza nutritiva. La cucina è lo specchio di noi e di quelloche viviamo.

È anche lo specchio dei nostri tempi: il recupero dell’ortoda parte di Michelle Obama forse simboleggia proprioquesto...Certo! Michelle Obama non ha necessità di fare l’orto: bastache schiocchi le dita e le portano la più buona zucchina pro-dotta nell’Arkansas! E invece no, lei preferisce farlo da sola.L’insegnamento che ci dà la cucina, letto in filigrana, è pro-prio questo: la cucina è un luogo in grado di risvegliare lenostre memorie, per non farci perdere la nostra identità.Quindi, se dovessi sintetizzare tutto quello che ci siamo dettiin questa piacevole conversazione, proporrei la lettura delledue quartine e delle due terzine del sonetto di GioacchinoBelli intitolato La bona famija:

Mi’ nonna, a un’or de’ notte che viè ttata,Se leva de filà, povera vecchia,attizza un carboncello, ciapparecchiae maggnamo du’ fronne d’insalata.

Quarche vorta se famo una frittata,Che ssi la metti ar lume ce se specchiaCome fussi attraverzo d’un’orecchia:Quattro noce, e la cena è terminata.

Poi ner mentre ch’io, tata e Crementinaseguitamo un par d’ora de sgoccetto,Lei sparecchia e arissetta la cucina.

E appena visto er fonno al bucaletto,‘Na pisciatina, ‘na sarvereggina,E, in zanta pace, ce n’annamo a letto. 57

“La riscoperta dell’orto non ha unasola valenza economica: deriva

piuttosto da una esigenza di controllodi cosa mangiamo. Se vogliamo è una

presa di coscienza del valore dei cibi; equesto riscoperto approccio ridona

valore alla cucina”

Michelle Obama nell’orto della Casa Bianca, con alcunistudenti delle scuole primarie

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Il disegno di legge re-cante norme in materiadi “Organizzazione equalità del sistema uni-versitario, di personaleaccademico e di dirittoallo studio” continua ilsuo iter parlamentare afronte degli imponentitagli finanziari e con ilsusseguirsi di momen-ti di confronto, moltospesso assai duri , a l-l ’ i n t e rno de l mondo

universitario e del paese in generale. Certamente itemi della governance e del personale accademicosono stati immediatamente percepiti, sin dalla primaversione del DdL nell’ottobre dello scorso anno, co-me “dirompenti” sull’assetto attuale del sistema uni-versitario; molto meno, invece, il dibattito si è acce-so sul tema del diritto allo studio. Non c’è dubbioche in ciò si possa riconoscere un principio di real-tà: se quel che viene percepito a rischio è l’interosistema, è chiaro che il diritto dei meritevoli a po-terne fare parte possa pensarsi come subordinato.Eppure pensare agli studenti anche in termini di ri-sorse per la qualità del sistema universitario è un te-ma di grande rilevanza, non fosse altro che per laragione che ne sono il futuro. Ma nel DdL questotema è probabilmente il più trascurato. La maggiorenovità per gli studenti è in quell’art. 4, nel quale siistituisce un fondo per il me-rito. Sebbene il testo licen-z i a to da l l a Commiss ioneistruzione del Senato abbia,anche sulla specifica questio-ne del diritto allo studio, in-trodotto alcuni miglioramentirispetto al testo iniziale, re-stano irrisolti alcuni nodi sul-la concezione stessa del meri-to rappresentata nel disegnodi legge.Iniziamo da quello che po-trebbe essere un elemento po-sitivo. Mentre nel testo origi-nario non compariva alcun ri-ferimento al tema dell’orien-tamento, tra gli ultimi emen-damenti approvati dalla Com-missione, nell’art. 1 comma 3si legge: «Al fine di rimuove-re gli ostacoli all’istruzione

universitaria per gli studenti capaci e meritevoli, maprivi di mezzi, il Ministero prevede, in armonia conle competenze delle Regioni, e monitora specificiinterventi per l’effettiva realizzazione del diritto al-lo studio e la valorizzazione del merito a seguito an-che di un opportuno piano di orientamento deglistudenti alla scelta del Corso di studi». Questo la-scerebbe pensare che, molto opportunamente, si stiapensando alla valorizzazione del merito attraversol’effettiva realizzazione del diritto allo studio, chesignifica in primo luogo rimuovere quegli ostacolidi natura economica, sociale, familiare che limitanoo impediscono del tutto ad una parte di giovani diaccedere, con prospettiva di successo, alla forma-zione superiore. Trascuriamo pure di discutere chenel DdL non vi siano riferimenti alla copertura fi-nanziaria, ma resta il fatto che al di là della enun-ciazione di principio in apertura, la valorizzazionedel merito si traduce nella istituzione di un fondo,al quale gli studenti meritevoli accederebbero attra-verso una prova standard, ossia una sorta di “con-corsone” in ingresso; ed è solo grazie ad uno degliultimi emendamenti, approvati in Commissione, chegli studenti privi di mezzi risultano esonerati dalcontributo dovuto per l’iscrizione alla prova.Tralasciamo di discutere della validità ed attendibi-lità della prova standard ai fini del riconoscimentodel merito, tema che come facilmente si intuisce ètutt’altro che banale, ma la questione principale è sequello che realmente serve al sistema è una selezio-ne dei meritevoli al termine di un percorso che, co-

me sappiamo bene dagli or-mai dettagliati rapporti stati-stici sulla scuola, non è anco-ra in grado di garantire la ne-cessaria equità. Mi sembrainvece che la questione prin-cipale sia quella che moltoopportunamente viene ribadi-ta anche nell’ultimo Rappor-to sulla Scuola della Fonda-zione Agnelli, ossia del per-ché non possiamo più per-metterci un sistema scolasti-co iniquo e della necessità dipassare dalle pari opportunitàd’accesso alle pari opportuni-tà di apprendimento. A vede-re il tema del diritto allo stu-dio centrato sulla istituzionedi “premi” per il merito vieneda pensare ad un brano trattoda Il matematico indiano, ro-

«A family affair»Merito e orientamento nel sistema formativo italiano

di Massimo Margottini

Massimo Margottini

Il matematico indiano Srinivasa Aiyangar Ramanujan

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manzo biograficosu l pove r i s s imomatemat i co Ra-manujan e alla ri-flessione del ma-tematico britanni-co Godf rey Ha-ro ld Hardy, suop igmal ione maanch’egli di origi-ne modesta, sullanatura dei premi:«Perché tanta av-versione per i pre-mi? Penso chefosse perché sape-vo, anche mentreeccellevo sul pra-to, che i l campoda gioco era truc-cato. Era truccatoper premiare i ricchi, i ben nutriti, i ben curati. Ecome i miei genitori non si stancavano mai di ricor-darmi io non ero tra questi. Ero già fortunato ad es-sere lì. Il talento non assisteva il figlio del minatoredel Galles: lui avrebbe passato la sua vita in minie-ra, anche se avesse avuto la dimostrazione dell’ipo-tesi di Reimann stampata nella mente».Non credo ci sia ulteriore necessità di dimostrarecon i dati che l’Italia ha una bassa percentuale di di-plomati e laureati (Education at a Glance – OCSE) eche è tra i paesi con il più basso tasso di mobilitàsociale ascendente. A family affair è il titolo di unarecente ricerca OCSE che mostra come, in Italia piùche in altri paesi, il destino dei figli, dalla scelta del-la scuola agli esiti nella scuola stessa sino ai livelliretributivi, sia legato a quello della famiglia di origi-ne, con forti differenze territoriali tra nord e sud.La questione, quindi, di promuovere una imposta-zione centrata sulla rilevazione del merito come fat-to oggettivo misurabile in qualsiasi punto della vitadi una persona, dipendente unicamente da quantoquella persona si è voluta impegnare e ne è stata ca-pace, non è soltanto iniqua ma non prende in consi-derazione un aspetto altrettanto importante dellapromozione del diritto allo studio ossia quanta intel-ligenza, capacità, potenzialità meritevole non siamoin grado di rilevare e inevitabilmente finiamo perdisperdere.Quindi alcune domande devono essere poste: quan-do si parla di prove standard a cosa ci si riferisce?Al livello di conoscenze possedute? Il merito è le-gato solo alle conoscenze? Vogliamo riconoscere epremiare quegli studenti che sapranno ripagare l’in-vestimento che facciamo su di loro? Allora abbiamobisogno di rilevare qualcosa di più che attiene anchealla storia personale e alle esperienze pregresse, an-che ad aspetti volitivi e di natura motivazionale, al-la capacità di impegnarsi e perseguire nel raggiungi-mento dei risultati, fattori di grande rilievo ai finidel successo formativo (Pellerey 2006).

I l p roblema de lmerito, se ridottoad una prova stan-dard per il ricono-scimento di pre-mi, diventa soloun problema di se-lezione, più o me-no equa ed accu-rata; ritengo inve-ce che, tanto per ilsistema quanto peri l d i r i t to indivi-duale, la questioneprincipale risiedanel modo in cu isia possibile pro-muovere e incen-t i v a r e i l m e r i t ostesso, rimuoven-do gli ostacoli al-

lo sviluppo delle potenzialità personali e incentivan-do politiche attive di orientamento e tutorato.E questo deve necessariamente essere collegato allaesperienza scolastica precedente introducendo tra glielementi, con i quali il merito viene rilevato e valu-tato, aspetti relativi alla carriera scolastica, anche insenso evolutivo, registrandone cioè i progressi.Non vi è alcun dubbio che su questo piano scuola euniversità debbano ancora lavorare molto e insieme.Sul piano normativo, almeno da una quindicina dianni a questa parte, sono state poste le basi per svi-luppare un efficace raccordo tra le istituzioni, anchese le condivise enunciazioni non sempre sono stateseguite da un corrispondente investimento in terminifinanziari. Nonostante ciò molti Atenei promuovonoazioni coordinate con le scuole secondarie superiori,nell’ambito di iniziative di orientamento preuniver-sitario. L’Ateneo Roma Tre, da diversi anni, attra-verso il GLOA (Gruppo di lavoro per l’orientamentodi Ateneo), è particolarmente attento al raccordocon le scuole del territorio nella convinzione che unprocesso di or ientamento formativo (Domenici2009, Pombeni 2002) radicato nella prassi didattica,sin dai primi anni di scuola, sia condizione indi-spensabile per affrontare quelle questioni, a comin-ciare dal drop out, che richiamano allo stesso tempol’efficienza del sistema e i temi dell’equità e del di-ritto allo studio.Tra le più recenti iniziative in questa direzione, a fi-ne aprile di questo anno, il GLOA ha promosso unseminario di studi dal titolo Scuola e Università.Reti per l’orientamento, del quale sono in corso dipubblicazione gli atti, con l’obiettivo di riflettereinsieme alla scuola sui processi di orientamento esulle forme di collaborazione utili a sviluppare negliallievi progetti e scelte consapevoli che rispondanoal tempo stesso al legittimo bisogno individuale direalizzare le proprie aspirazioni e sollecitino lascuola e l’università a potenziare le azioni per rico-noscere e valorizzare i talenti individuali. 59

La scuola di Barbiana

Roma Tre è nata con unaprecisa volontà di porsicome un’istituzione apertaalle relazioni internaziona-li nella convinzione – con-divisa dai Rettori che sisono succeduti alla sua gui-da – che l’istituzione uni-versitaria è, come il saperee la cultura, internazionaleper essenza. Basti ricorda-re come proprio nell’Eu-

ropa medievale l’università nasce già pienamente interna-zionale e caratterizzata dalla mobilità di docenti e studenti.I famosi clerici vagantes sono in un certo senso i precursoridel Programma Erasmus. Oggi, dopo le Dichiarazioni del-la Sorbona e di Bologna, l’istituzione di straordinari pro-grammi dell’Unione Europea come l’Erasmus, una delle for-me più interessanti del processo di internazionalizzazione,è rappresentata dalla organizzazione di reti che connettonoe armonizzano le istituzioni universitarie. Ve ne sono diverse:tra queste vorrei richiamare l’attenzione su UNICA, la retedelle Università delle città capitali europee che riuniscequarantadue università con una forza combinata di 120.000docenti e 1.500.000 studenti. La sua missione è il perse-guimento dell’eccellenza accademica, l’integrazione, la co-operazione, il rifiuto delle discriminazioni e, in generale, lacooperazione tra i suoi membri in tutta Europa. UNICA sipone anche come un potente propulsore del cosiddettoProcesso di Bologna e come un fattore di agevolazionedell’integrazione delle Università dell’Europa centrale eorientale nello spazio europeo dell’istruzione superiore.Il Processo di Bologna, giova ricordarlo – è un processo diriforma che si propone di realizzare, entro il 2010, unoSpazio europeo dell’istruzione superiore. Vi partecipano almomento quarantasei paesi europei, con il sostegno di al-cune organizzazioni internazionali. Si tratta di un grandesforzo di convergenza dei sistemi universitari dei paesipartecipanti, che sta coinvolgendo direttamente tutte le is-tituzioni europee e le loro componenti interne. L’obiettivoperseguito è che nel 2010 i sistemi di istruzione superioredei paesi partecipanti e le singole istituzioni siano orga-nizzati in maniera tale da garantire la trasparenza e la leg-gibilità dei percorsi formativi e dei titoli di studio, la pos-sibilità concreta per studenti e laureati di proseguire agevol-mente gli studi o trovare un’occupazione in un altro paeseeuropeo, una maggiore capacità di attrazione dell’istruzionesuperiore europea nei confronti di cittadini di paesi ex-tra-europei, l’offerta di un’ampia base di conoscenze di altaqualità per assicurare lo sviluppo economico e sociale del-l’Europa. Negli ultimi tempi la crisi economica mondiale hainevitabilmente colpito anche questo grande disegno so-prattutto rendendo più difficile e onerosa la mobilità di

studenti e docenti. Per realizzare i suoi scopi UNICA pro-muove un sistematico e continuo scambio e una discussionearticolata in seminari, incontri, convegni in cui si con-frontano i punti di vista delle università membri dellarete in ordine alle complesse strutture dell’educazione su-periore di fronte alle sfide del futuro e, ciò che più conta, inun sistematico confronto con le istituzioni europee nazion-ali, regionali e locali, rendendo disponibili a tutti le in-formazioni sulle iniziative e i programmi dell’Unione Eu-ropea e favorendo e promovendo la collaborazione conprogetti congiunti. Essa fornisce, insomma un forum incui tutte le università possono riflettere sulle richieste di in-novazione strategica necessarie allo sviluppo dell’univer-sità e della ricerca in un mondo che cambia. A proposito diforum, una delle più importanti iniziative di UNICA èl’organizzazione ogni due anni di un Forum degli studentieuropei che vede riunirsi in una capitale nutrite rappre-sentanze di studenti che dibattono del tutto liberamentesui temi di maggiore interesse. Quest’anno il forum UNICAdegli studenti europei si è tenuto a Roma, dal 22 al 25settembre organizzato dalle tre università membri UNI-CA (Roma Tre, Tor Vergata e La Sapienza) col prezioso con-tributo dello IUSM. Le conclusioni elaborate dalle delegazioni di studenti du-rante la conferenza di Roma, dal significativo titolo di Europethrough student’s eyes, confluiranno poi in un documento uf-ficiale, la Rome declaration, che verrà presentato alle massimeautorità locali ed europee. I temi scelti dagli studenti da una lista assai più vasta sono iseguenti: 1. internationalisation at universities: challenges and prob-

lems;2. the European mobility programmes (Erasmus, Erasmus

placement, Erasmus Mundus, Leonardo da Vinci, MarieCurie, doctoral programmes etc.): toward the 20% mo-bility by the year 2020?

3. what is the role of the university in contemporary society?4. unity and diversity in future of Europe: the challenge of

multiculturalism;5. innovation, formal and informal education: can univer-

sities nurture the creativity of students?6. the Bologna process and the development of the European

higher education: quality, employability and social issues;7. student mobility and the enlargement and consolidation

of the European Union;8. high quality universities with low fees: is it possible? How

to choose the best university to study at?9. sustainable development and greener universities;10. hard and soft skills: are the European universities help-

ing the students to develop both?Dunque UNICA deve certamente essere considerata comeun importante tassello della costruzione dell’Europa didomani.

Progetto UNICARoma Tre e le università delle capitali europee

di Roberto Pujia

Roberto Pujia

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L’idea di Innovation Laba Roma Tre è nata duran-te un viaggio in Finlan-dia, grazie ad una interes-santissima visita al De-sign Factory di Espoodell’Università di Hel-sinky. Lì, in un vecchioedificio industriale, cheun tempo ospitava un la-boratorio per l’analisidella cellulosa, a poche

centinaia di metri dal quartier generale di Nokia, daqualche anno lavorano insieme studenti di tre diverseFacoltà (Ingegneria, Economia e Architettura) con l’o-biettivo di favorire al massimo l’interdisciplinarietà.Grazie ad aule, sale multimediali, officine con presse etorni verticali, telai high tech e tutta la strumentazionenecessaria per fabbricare prototipi funzionanti e straor-dinariamente innovativi di ascensori, biciclette elettri-che, oggetti per arredamento e quant’altro possa essererichiesto dal mercato. Un tipo di progetto che potrebbesembrare poco adatto alla nostra mentalità accademica,sempre più orientata a dividere che a unire. Eppure, an-che da noi qualcosa è successo. Abbiamo iniziato loscorso mese di marzo, con un ciclo di incontri dedicati aquaranta studenti di Economia e di Ingegneria, organiz-zati in mini gruppi (anche essi obbligatoriamente inter-facoltà) che sono stati invitati a produrre una “businessidea” innovativa da presentare ai potenziali investitori.Il tutto si è concluso con un convegno, Innovazione perla sostenibilità delle imprese, organizzato presso la Fa-coltà di Economia il 22 aprile scorso (giornata mondialedella terra), che ha visto una inaspettata ed entusiasticapartecipazione di investitori privati (business angel eventure capital) interessati a conoscere (ed eventual-mente finanziare) le idee migliori.

«Solo facendo studiare insieme ingegneri, esperti dimarketing e designer è possibile far nascere l’innovazio-ne» conferma Kalevi Ekman, professore di Product de-velopment e fondatore del Design Factory di Helsinky.«Quando conoscenze e culture diverse vivono lo stessospazio possono nascere idee di prodotti realmentebreakthrough». Nella Design Factory si cerca di favorireal massimo l’interazione tra ricercatori, vietando addirit-tura macchinette del caffè nelle stanze, per obbligaretutti ad andare nella “common room”, condividendoesperienze e informazioni. In questa ottica, il passo suc-cessivo di Innovation Lab Roma Tre è ancora più inno-

vativo: una settimana a tempo pieno nel mese di lugliopresso la nostra (nuovissima) sede di Allumiere (RM).Si chiamerà Innovation Camp, una summer school dedi-cata a una ventina di studenti di tutte le Facoltà. Gli al-lievi, guidati da docenti, esperti ed imprenditori, potran-no mettere alla prova la loro creatività cercando di tra-durre conoscenze e intuizioni in progetti di impresa. Per aggiornamenti e informazioni:www.innovationlab.dia.uniroma3.it.

Innovation LabFormazione integrata e scambi con le imprese

di Carlo Alberto Pratesi

Carlo Alberto Pratesi

Un momento della giornata svoltasi il 22 aprile scorso pressol’Aula Magna della Facoltà di Economia

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La musica pop è con po-chi dubbi, se non il piùimportante, sicuramente ilpiù influente fenomenoculturale di massa del se-colo appena passato. Lacapacità con cui essa nontanto si è fatta semplicepromotrice delle esigenzee delle istanze del mondogiovanile, ma le ha, po-tremmo dire, create toutcourt come categoria so-ciale (e spesso e purtroppo

anche commerciale) è sotto gli occhi di tutti ed è difficil-mente contestabile. È quindi facile comprendere come es-sa si sia poi spesso trasformata, nel corso della sua storia edella sua evoluzione, in un formidabile mezzo di diffusio-ne nelle masse giovanili di culture, sottoculture, filosofiee, in alcuni casi, addirittura di religioni più o meno alter-native a quello che era il modo di pensare consolidato dal-l’establishment degli adulti. Che sia stato poi il mondo delpop, in modo consapevole, a farsi alfiere di queste nuoveculture alternative, o siano stati piuttosto gli esponenti piùilluminati di queste ultime, in modo più o meno scaltro, adintuirne la fenomenale capacità di penetrazione e convin-cimento, è fenomeno tutto dastudiare e che può essere parti-colarmente interessante analiz-zare proprio partendo dal singo-lare, ma ormai innegabile, con-nubio che da almeno cinquan-t’anni lega il mondo del rock e isuoi protagonisti alla cultura ve-getariana. Il vegetarianismo è inrealtà già di per sé un fenomenodi natura estremamente sfug-gente, visto che, inteso in unsenso estremamente rigorosocome l’astensione dal mangiarecibi ricavati in modo diretto oindiretto dagli animali, trova ra-dici e motivazioni estremamen-te differenti a seconda del con-testo storico e culturale in cui sicolloca. Volendo tracciare bre-vemente le radici storico-filoso-fiche del vegetarianismo, esse sipossono individuare, per quantoriguarda il mondo occidentale,per la prima volta nel pensiero

del filosofo Pitagora e, nel mondo orientale, nel pensieroinduista, o almeno in una corrente di esso. Alla base di en-trambe queste correnti di pensiero vi sono motivazioni dicarattere prettamente etico, ovvero basate sul principio dinon esercitare violenza contro nessuna delle altre specieviventi sul pianeta. Scomparso nel mondo occidentale conl’avvento del cristianesimo, il vegetarianismo ricomparein Europa nel XIX secolo come movimento più o menosotterraneo e collaterale nel pensiero di diversi esponentidella cultura dell’epoca, tra i quali possiamo ricordareShelley, Tolstoj e Thoreau, per poi culminare con la fonda-zione della Vegetarian Society nel 1847, la più antica asso-ciazione di promozione della cultura vegetariana nel mon-do. Con la nascita della Vegetarian Society il movimentovegetariano trova in occidente per la prima volta una for-ma di supporto organizzato e può anche contare su unanuova e più solida base ideologica nel nascente pensieroantispecista, che proprio in quegli anni, grazie a JeremyBentham, trovava le sue origini. È stato quindi naturaleche, da questo momento in poi, il movimento vegetarianoabbia cercato di utilizzare tutti gli strumenti che la nascen-te società industriale gli forniva, concependo un modo diagire che è continuato sino ai giorni nostri, e che ha trova-to, appunto, nell’incontro col mondo della musica leggerauno degli abbinamenti più fortunati e fruttuosi. Se è diffi-cile individuare le origini dell’incontro tra i due mondi, è

sicuramente più facile e brevesegnalare quelli che sono stati,in questi sessanta anni, i prin-cipali protagonisti e i principa-li momenti che lo hanno carat-terizzato. Nella fase degli al-bori della musica rock è diffi-cilissimo trovare personaggidotati di una seppur minimaconsapevolezza sociale e cul-turale di sorta, e questo in sen-so assoluto. Non è quindi pos-sibile ricordare alcuna figurain particolare. Con l’arrivo de-gli anni Sessanta e con lo svi-lupparsi per la prima volta diuna vera e propria cultura rockche traeva la sua linfa dal riccomondo controculturale dell’e-poca, si possono incontrare iprimi musicisti che fanno pro-fessione di appartenenza almondo vegetariano. Un postosicuramente importante lo me-ritano i Beatles, probabilmente

Ugo Attisani

Popscene«Meat is murder». Musica e vegetarianismo: un rapporto tra consapevolezza e moda

di Ugo Attisani

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il primo e più importante gruppo i cuimembri sono stati associati all’immagi-ne di vegetariano. In realtà la vicendadel quartetto di Liverpool è più com-plessa di quanto non appaia in un primomomento e merita di essere analizzatacon attenzione, proprio per poter porta-re in luce quelle dinamiche di coesisten-za e collaborazione tra fenomeni cultu-rali apparentemente distanti, di cui ave-vamo accennato in principio. I Beatlessi avvicinarono al vegetarianismo pro-babilmente sulla spinta dell’interesse diGeorge Harrison verso la cultura e laspiritualità indiana, interesse che culmi-nerà con il celebre, e ampiamente rac-contato dai media dell’epoca, soggiornoin India presso lo yogi Maharishi Mahesh. Dopo l’altret-tanto celebre e precipitosa fuga dal ritiro spirituale indianoperò, soltanto George Harrison rimase vegetariano. SiaJohn Lennon che Paul McCartney dovranno infatti aspet-tare i loro rispettivi incontri con le future mogli Yoko Onoe Linda Eastman, sicuramente più consapevoli e sensibiliall’argomento di quanto non lo fossero i mariti, per ritor-nare ad abbracciare il vegetarianismo. Nel corso degli anniSettanta e Ottanta poi, durante la sua avventura solista coni Wings, proprio McCartney e la moglie Linda in partico-lare, diventeranno tra i più convinti sostenitori della causaanimalista e vegetariana, animatori di molteplici iniziativedi divulgazione e diffusione della cultura vegetariana, dal1980 in poi spesso in collaborazione con l’ormai celebreassociazione PETA (People for the Ethical Treatment ofAnimals). Da ricordare proprio a questo proposito come lafigura di Linda McCartney sia stata centrale nell’afferma-zione e nella legittimazione a livello popolare dell’imma-gine del vegetariano, con la pubblicazione di svariati libridi ricette vegetariane ed in particolare segnando un ulte-riore momento storico con la sua partecipazione ad unapuntata del cartoon americano The Simpsons, dove il per-sonaggio della piccola Lisa Simpson diventava vegetaria-na grazie anche al sostegno della stessa Linda.Durante gli anni Ottanta il fenomeno dei vegetariani nelrock segue due vie opposte, sia nei presupposti ideologiciche negli strumenti di diffusione. Da una parte infatti l’af-fermarsi di una più generale consapevolezza politica e so-ciale nei principali gruppi e musicisti di riferimento delperiodo favorisce l’assorbimento del discorso sul vegeta-rianismo nel più ampio ambito della causa ambientalista edi quella umanitaria; dall’altra, invece, emergono in am-bito underground movimenti di militanti vegetariani lega-ti alla scena punk/hardcore nordamericana. In ambitomainstream sono infatti molti i musicisti, quasi semprecontemporaneamente impegnati anche in iniziative socia-li, umanitarie ed ecologiste, che si dichiarano vegetariani,in alcuni casi quasi addirittura a far pensare che possatrattarsi di una moda più o meno passeggera. Sono co-munque da ricordare in senso positivo l’impegno costantedi Peter Gabriel, parallelo al suo coinvolgimento in nu-merose iniziative umanitarie e il sostegno dato alla causavegetariana da Morrissey, sia durante la sua carriera negliSmiths, culminata con la canzone Meat is Murder che da-

va il nome al loro secondo album, sianella sua carriera solista durante laquale sono numerose le sue partecipa-zioni ad iniziative della PETA. Ad evi-denziare invece un utilizzo quanto me-no disinvolto e superficiale del termi-ne vegetariano possiamo citare la pa-rabola di Madonna, passata dall’ade-sione dei primi anni di carriera, allapartecipazione a battute di caccia as-sieme all’ex marito Guy Ritchie intempi più recenti. Totalmente oppostofu invece l’approccio alla questione,radicale ed estremo, ed in un certosenso anche controverso, da parte delmovimento Straight Edge. Teorizzatoa Washington ad opera del cantante e

chitarrista del gruppo hardcore Minor Threat Ian McKa-ye, lo Straight Edge stava ad indicare un nuovo e diversoapproccio alla vita e non solo alla musica, basato su un ri-fiuto totale di qualsiasi eccesso legato all’assunzione disostanze stupefacenti e di alcool, in netta contrapposizio-ne da una parte con la filosofia da sempre imperante nelmondo della musica e sintetizzata dal motto “sesso, drogae rock’n’roll”, e dall’altra con l’affacciarsi proprio in que-gli anni in America dell’edonismo capitalista che la faràda padrona per l’intero decennio. Intorno a questo movi-mento si consoliderà una seconda generazione di gruppiche, in alcuni casi aderendo anche alla religione HareKrishna, abbraccerà la filosofia cosiddetta del veganismo,forma di vegetarianismo estremo, che comporta un totalerifiuto non solo dei cibi derivati in modo diretto o indiret-to dagli animali, ma anche l’utilizzo di qualsiasi tipo dioggetti la cui produzione comporti lo sfruttamento o l’uc-cisione di animali. Questa scena musicale, che si contras-segnerà per una deriva estremista che la contrapporrà inmodo anche violento a tutti gli altri gruppi punk ad essanon appartenenti, ha dato luogo ad un altro interessantespin off che è quello dell’abbigliamento vegano, cioè del-la produzione di linee di vestiti prodotte senza alcuna for-ma di sfruttamento di animali.Negli ultimi anni, grazie soprattutto alla diffusione dellarete, è diventato estremamente più facile per associazionicome PETA o Vegan Society, ma anche per i numerosiaderenti alla causa vegetariana e animalista, siano essi per-sonaggi del mondo della musica o meno, condurre le pro-prie battaglie in modo rapido e capillare, e tra le figure piùimportanti di questo periodo possiamo citare il musicistaelettronico Moby che, oltre ad aver pubblicato nel 1996 unalbum intitolato Animal Rights, ha fondato un locale vega-no a New York, il TeaNy di cui ha diffusamente parlato inun libro ad esso dedicato, uscito nel 2005.Possiamo quindi azzardare in conclusione che, anche secome abbiamo visto l’intreccio tra mondo del rock e vege-tarianismo è stato ed è caratterizzato da contorni non sem-pre chiari e da motivazioni non sempre cristalline, ungrande e decisivo contributo all’affermazione e diffusionedella cultura vegetariana, se è vero che gli ultimi dati stati-stici danno il fenomeno in netta ascesa nei paesi occiden-tali, può essere almeno in parte attributo al sodalizio ormaipluridecennale con la musica rock.

Meat Is Murder è il secondo album di stu-dio degli Smiths. È stato pubblicato nel feb-braio del 1985

La casa lontano da casaNel panorama delle residenze universitarie presenti in Ita-lia, emerge chiaramente l’idea che tali strutture, destinate astudenti universitari fuori sede, debbano essere residenze“speciali”, ovvero non luoghi temporanei e precari, maluoghi dotati di qualità ambientale, spaziale e culturale,idonei per lo svolgimento di attività di studio e sociali. Inquest’ottica, la residenza di Via di Valleranello costituisceun esempio di residenza che coniuga efficacemente lo spa-zio per lo studio e il tempo libero, la lunga permanenza el’integrazione all’interno del moderno campus.La residenza è costituita da due edifici, aventi ciascuno 200posti letto ed al suo interno sono presenti numerosi ed ampispazi per attività di aggregazione, sia culturali, sia ricreative.Tutte le camere hanno l’accesso con smart card, sono prov-viste di aria condizionata e angolo cottura completo. Le ca-mere doppie hanno due letti singoli e due scrivanie ben se-parate. Non manca lo spazio internet ed è prevista a breveuna sala per la pratica delle diverse fedi religiose.È a disposizione di tutti gli studenti un servizio navetta, at-tivo sette giorni su sette, che collega la residenza con iquartieri limitrofi e la stazione della metro B Eur Fermi.I 400 posti letto disponibili sono assegnati a studenti fuorisede iscritti presso le università romane in possesso dei re-quisiti previsti dal Bando unico dei concorsi (requisiti dimerito e di reddito/patrimonio).

L’assegnazione della sede e del posto alloggio ai vincitori,ferma restando la ripartizione tra “matricole” e “anni suc-cessivi” come prevista dall’art. 11 del bando, sarà effettua-ta in considerazione della posizione dello studente nella re-lativa graduatoria. Tuttavia sarà adottato un criterio di pre-valenza in favore degli studenti che abbiano indicato, nelladomanda on line, la preferenza per una residenza gestitadall’Adisu territoriale afferente all’Università di riferimen-to, ciò significa che, relativamente alla residenza di Via diValleranello, avranno priorità gli studenti di Roma Tre chene faranno richiesta.Laziodisu sta, inoltre, provvedendo alla redazione di un re-golamento che prevederà la possibilità di destinare alcunecamere all’ospitalità di visiting professor, studenti stranieriin Italia per programmi di scambio culturale, studenti Era-smus, ed altro ancora.

Guida al Diritto allo StudioIn occasione della giornata “Orientarsi a Roma Tre” l’Adi-su ha presentato agli studenti la nuova Guida al Diritto alloStudio per l’A.A. 2010/2011. Fedele alla veste grafica dellaversione precedente, la nuova pubblicazione è stata realiz-zata con nuove soluzioni cromatiche, aggiornata nei conte-nuti secondo quanto previsto dal nuovo Bando unico deiconcorsi ed arricchita da una sezione specifica riguardantela nuova residenza per studenti di Via di Valleranello.

Ultim’ora da Laziodisu di Salvatore Buccola

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La residenza di via di Valleranello. Nell’ordine: la palestra, la sala giochi, una camera e la sala informatica

Ancora una volta l’Anno Accademico si conclude con unappuntamento speciale: si rinnova infatti, per la quarta edi-zione consecutiva, Mille e una vela per l’Università, la tregiorni di regate, convegni e mostre promossa dall’AteneoRoma Tre, che fin dall’inizio ha coinvolto molte altre Uni-versità italiane e straniere. Certamente un motivo d’orgoglioper l’Ateneo romano, che ha sviluppato quest’idea, grazieall’intuizione di alcuni suoi docenti. Si tratta di un’iniziativanata nella Facoltà di Architettura, allargata poi a livello diAteneo, che ha deciso di promuoverla e portarla avanti neiconfronti delle altre università.L’idea di fondo: recuperare la manualità nei giovani, risco-prire cioè l’uso delle mani e la coscienza del costruire. Pro-prio con questo obiettivo è stato istituito dalla Facoltà di Ar-chitettura il programma didattico opzionale Una vela perRoma Tre: un corso annuale a carattere sperimentale divisoin due semestri consecutivi a cui partecipano anche studentidi Ingegneria, suddiviso in una prima fase di progettazione euna seconda dedicata alla costruzione navale. Entrambe mi-rano a portare a compimento l’ideazione e la realizzazione diuna barca da regata che parteciperà poi, ogni anno, alla com-petizione nazionale gestita da Roma Tre, denominata appun-to Mille e una vela per l’Università. «La cosa che contraddi-stingue questa iniziativa» afferma il prof. Ranzi, ex docentedi Architettura a Roma Tre «è che realmente si progetta, sirealizza e si utilizza un “oggetto” molto complesso e legato asituazioni ambientali particolarissime. E questo è molto im-portante per quelle Facoltà in cui il recupero della manualitànon può che costituire un punto di forza nella formazionedello studente. Ma se le prime fasi di progettazione e costru-zione sono riservate quasi esclusivamente ad Architettura eIngegneria, per la terza fase, quella della selezione e adde-stramento degli equipaggi, la partecipazione è aperta aglistudenti di tutto l’Ateneo: è così che si comincia a formare ilnostro “vivaio”».Se siete appassionati edesperti di vela e in particolaredi barche acrobatiche (è que-sto il modello specifico pro-posto dal regolamento detta-to da Roma Tre), fatevi avan-ti: aspettiamo anche voi perprovare a portare a casa lavittoria. «Finora ha vintosempre il Politecnico di Mi-lano» ci spiega ancora ilprof. Ranzi «ma è anche nor-male, grazie ad una tradizio-

ne nel mondo della nautica che noi non abbiamo ancora, mache comunque possiamo, dobbiamo e vogliamo costruire intempi brevi». E poi in fondo, e in questo concordiamo conil professore, in certe occasioni non è importante solo vin-cere: Una vela per Roma Tre e Mille e una vela per l’Uni-versità, infatti, costituiscono un’esperienza didattica com-pleta sotto diversi punti di vista, permettendo di entrarerealmente e concretamente in relazione con l’oggetto di stu-dio (cosa che raramente avviene nelle università) creandoun contesto di socializzazione e aggregazione che permetteuna maggiore coesione tra gli studenti non soltanto duranteil lavoro didattico preparatorio, ma anche durante i tre gior-ni di regate, dove la condivisione diventa convivenza quoti-diana anche con i ragazzi degli altri Atenei. Tutte questeesperienze forniscono competenze reali con un valore ag-giunto: proiettano gli studenti con maggiore concretezza ecompetenza verso il mondo del lavoro che li attende da lì apoco, dove un’esperienza non solo teorica ma anche praticaè spendibile con maggiore possibilità di successo. Insom-ma, tutti questi aspetti di alto valore didattico fanno passarein secondo piano il risultato agonistico e fanno idealmentesperare che iniziative come queste vengano proposte e pro-mosse anche in molti altri ambiti della formazione universi-taria. Intanto, mentre si cominciano a mettere in acqua lenuove imbarcazioni appena terminate, già fervono i prepa-rativi per l’edizione Mille e una vela 2010, che farà tesorodelle esperienza passate. «Le tre edizioni precedenti, infatti,ci hanno permesso di comprendere quali fossero le cose chemaggiormente hanno funzionato e che pertanto vanno man-tenute all’interno della quarta manifestazione. Prima traqueste il “villaggio”: una grande struttura lungo l’areniledel Tombolo di Giannella dove alloggeranno tutti gli stu-denti partecipanti, che avranno così la possibilità di cono-scersi e stare più tempo insieme. Inoltre quest’anno vorrem-

mo riproporre il “Padiglioneincontri” per esporre, allaconsueta mostra, non tanto iprogetti delle imbarcazioniche sono state costruite, mapiuttosto quelli delle barcheche sogniamo di costruire enon siamo ancora riusciti arealizzare, in questo modovogliamo offrire qualcosa dipiù per quanto riguarda ri-cerca e innovazione a chi civerrà a trovare a Porto SantoStefano». Tutti a bordo!

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Aggiornamento sul progetto Mille e una vela.L’edizione 2010 di Mille e una vela per l’Università quest’anno non avrà luogo. In alternativa è stata organizzatadalle Università partecipanti una manifestazione velica autonoma che si svolgerà a metà ottobre nello stesso luogo.

Non tutti sanno che...Mille e una vela 2010

di Irene D’Intino

CaravaggioBisognerebbe dirlo ininglese, di fronte alleopere d i Caravaggio :still life, “ancora in vi-ta”, ché le sue naturesono così poco morte danon far risaltare l’as-senza di figure umane.Certo le pere, le foglied’insalata, i fichi, l’uva,sono malconci, maturi,sporchi, ma proprio perquesto “figure”, corpi,corpi vivi soggetti a de-

composizione. Si potrebbe anche dire, personifican-doli, che sono pallidi, magri, vecchi, poveri. Ecco, si

potrebbe dire che sono povero cibo per povera gente:del resto, anche quando Caravaggio intendeva raffi-gurare una divinità, un Bacco per esempio, o la Ver-gine Maria, prendeva a modello qualcuno dei suoiamici, o una donna dalla strada, quando non unadonna della strada, a lui magari ben nota. Le moscheche nelle tele sorvolano i vassoi vengono dalla lo-canda frequentata, e poco cambia, se svolazzino so-pra un frutto o attorno a un bimbo: è la vita dei corpiad essere realisticamente descritta. Così, la ferita diCristo in cui Tommaso per credere deve inserire undito, non è troppo distante dalla spaccatura rossa sulfianco del fico maturo; così, le ombre si posanougualmente su frutta e persone, e uguale è il giocopreferito dell’artista, che è il gioco della luce e delbuio. Come scriveva Roberto Longhi nel saggio a luidedicato, Caravaggio andava già in una fase iniziale

La vita della natura morta Da Caravaggio alla Pop Art, un percorso sulle tracce della natura mortadi genere alimentare

di Michela Monferrini

Michela Monferrini

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Caravaggio, Canestra di frutta, 1594-1597, Pinacoteca Ambrosiana, Milano

della sua opera, ad an-nul lare la d is tanza t rauna natura superiore –que l la umana – e unapresunta natura di secon-do grado, delle cose si-lenti e immote. Verrebbeda dire che quando il pit-tore si trova di fronte aquelle opere della naturache sono il cibo, i fiori,le foglie – opere a metàstrada tra l’uomo e l’og-getto – dovendo sceglie-re, decida di nobilitare,di innalzare, di umaniz-zare. Qui sta la rivolu-zione, ed è una rivoluzio-ne che non perde valorecon l’andar dei secoli :nobilitare il soggetto nonè renderlo perfetto, liscioe lucido se è un frutto,florido e roseo se si trat-ta d’un uomo, ma render-lo vero, reale, realmenteimperfetto. Così il Bac-chino malato (che si sa essere un autoritratto dell’ar-tista in un periodo di malattia) finisce per avere unincarnato simile all’uva verde che gli pende dallemani, e l’accusa di staticità d’ogni natura morta, ac-cusa rivolta anche al primo Caravaggio, si risolvenell’evidenza di qualcosa che accade insieme all’uo-mo e al cibo, ed è azione pur non essendo gesto: lacaducità, la corruzione, il disfacimento che il tempoprovoca semplicemente passando. Oltre CaravaggioDopo il Caravaggio e le contemporanee figure natu-ralistiche del Carracci, o quelle “cibesche” dell’Ar-cimboldi, la natura morta alimentare si svilupperàdefinitivamente nel corso del Seicento in tutta Euro-pa, ma con una più marcata presenza nei pittori deiPaesi Bassi, dove la composizione si codificherà inben precise tipologie. Saranno i vari Aertsen, Flegel,Beert, Heda, a influenzare il francese Chardin, cheun secolo dopo, secondo l’enciclopedista Diderot,diventerà il maestro incontrastato della riproduzionerealistica e illusionistica di oggetti quotidiani. Dallesue opere, ricche di ampolliere, terrine in coccio pervari alimenti nazionali (dal paté alla trippa), bicchie-ri e calici di diverse, nuove forme, servizi in argentoper un’apparecchiatura sempre più accurata, è possi-bile ricostruire gli usi alimentari di un paese che an-dava definendo in un clima illuministico la propriaidentità gastronomica e anche in cucina, desideravaabbattere i pregiudizi e rinvigorire le tradizioni, fa-cendo inoltre attenzione alle nuove prescrizioni die-tetiche. I cibi della convalescenza è il titolo signifi-cativo di una di queste opere: nell’uovo, cotto allacoque nel pentolino apposito detto coquerelle, è in-dicato un cibo dietetico ideale. In un’altra opera, Il

menù di magro, il conte-nitore in coccio per le uo-va indica la facilità concui l’alimento può essereconservato. E ancora: nel-la Natura morta con brio-che, la raffinata zucche-riera in porcellana euro-pea, testimonia come lozucchero non fosse piùconsiderato nocivo per lasalute e la sua immaginenon venisse più associa-ta a l pecca to . Accan touna bott igl ia, al la basedella quale sono posatetre ciliegie, sembrerebbeindicare un contenuto dikirsch, liquore dolce, di-stillato di quel frutto, al-l’epoca molto apprezzato. « [...] per l’edonista / l’i-dea del paradiso era ladispensa di una cucinafrancese, / mele e caraffedi creta da Chardin agliimpressionis t i : / l ’ar te

era une tranche de vie, formaggio o pane fatto in ca-sa», sono alcuni versi di una poesia di Derek Walcotttratta dalla raccolta Piena estate (1984), ed è propriocosì, è soprattutto da Chardin, che si arriverà, nel-l’Ottocento, all’esaltazione – a volte con accentiprovocatori – della vitalità degli alimenti. Proprio alcibo, l’Impressionismo francese conferirà il compitodi celebrare la quotidianità antiretorica, e persino lepieghe d’un prosciutto – “cibo-simbolo” dei costumialimentari borghesi nell’Ottocento e gloria nazionaleper il suo passato illustre in epoca romana – potran-no essere indagate dal pennello dell’artista (Gau-guin, nel caso specifico) con non meno attenzione erilievo di quello che si sarebbe dato a un corpo fem-minile. E così per il quarto di carne e per le albicoc-che in sciroppo di Monet, per la carpa, le ostriche, leciliegie, la brioche di Manet, fino al formaggio briedi Bonvin – soggetto che era stato citato nel Dizio-nario di cucina di Alexandre Dumas e che stava lì arappresentare l’identità nazionale – fino alle patatedi Van Gogh, fino all’esplosione delle potenzialitàartistiche, estetiche, della natura morta, con Cé-z anne. Non più discriminato come genere minore, nel Nove-cento il tema della natura morta alimentare seguiràla sorte delle correnti d’avanguardia, divenendo alcontempo simbolo della società dei consumi, e nellariproduzione seriale ossessiva dei cibi negli scaffalidei supermercati così come sulle tele della Pop Art,segno della violenza del capitalismo che s’afferma.Ed è un cerchio che si chiude, se con il futurismo –si pensi all’Anguria di Boccioni – la natura morta ri-vendica la sua vitalità, diventa movimento e azione,rivendica il suo stato di still life. 67

Caravaggio, Bacchino malato, 1593-1594, Galleria Borghese, Roma

Cosa mangiamo? Siamodavvero al corrente di tut-to quello che c’è da saperesulla nostra alimentazio-ne?Spiedini, hamburger, pettidi pollo, braciole di maia-le, carne macinata. Neisupermercati si trova or-mai qualsiasi tipo di carnesi desideri, confezionatain pacchetti dai colori edagli slogan accattivanti.

Questo è ciò che compriamo tutti i giorni fidandoci dell’a-spetto, perfetto ed invitante, ma soprattutto affidandoci al-le etichette come al Vangelo. Dopo aver visto FOOD,Inc., tuttavia, le nostre certezze crolleranno.Il documentario-inchiesta, girato nel 2008 negli Stati Uni-ti da Robert Kenner, ha come obiettivo quello di renderenoto il percorso di un alimento dal primo anello della ca-tena di produzione fino al piatto del consumatore, focaliz-zando l’attenzione soprattutto sull’industria della carne.Scopriamo così che dietro le scintillanti confezioni dei su-permarket si nasconde l’incubo della produzione di mas-sa, di allevamenti sproporzionati, di maltrattamenti aglianimali. Dopo che avrete visto il film non riuscirete più aguardare la vostra fettina ai ferri nello stesso modo, masoprattutto avrete forti dubbi sul mangiarla o meno.L’inchiesta comincia con le immagini stampate sulle con-fezioni di vari tipi di carne in un supermarket. Rassicuran-ti foto di fattorie, fieri sguardi di allevatori, nomi e simbo-li che ci riportano alle vaste praterie del Nord America ealla natura, una favola moderna che fa sognare di mangia-re sano, ma che si conclude con un brusco ritorno allarealtà. Gli animali non provengono af-fatto da ridenti pascoli, ma sono stipatiin giganteschi allevamenti intensivi, te-nuti in condizioni igieniche spaventosee trattati alla stregua di semplici oggettida cui ricavare profitto. Le telecameredella troupe di Kenner sono riuscite afilmare enormi capannoni dove sono la-sciati ad ingrassare migliaia di polli,nutriti con antibiotici che ne stimolanouna crescita maggiore in minor tempo eche, ciechi e grandi quasi il doppio delnormale, schiacciati tra altre migliaia diesemplari, non riescono nemmeno a te-nersi sulle zampe. I bovini sono nutritinon con fieno ed erba ma a base dimais, che negli Stati Uniti ha raggiuntoprezzi scandalosamente bassi. Il risulta-to è che gli animali, non abituati a que-

sto tipo di alimentazione, sviluppano batteri come l’esche-richia coli e la salmonella, potenzialmente letali anche perl’uomo. Nel documentario, Kenner ha scelto di seguire latragica vicenda del piccolo Kevin, morto all’età di 3 anniper aver mangiato un hamburger con carne infetta. La ma-dre del bambino gira gli Stati Uniti per raccontare la suastoria e ottenere giustizia. La donna chiede che venga ap-provata la cosiddetta “Legge di Kevin”, con la quale sipredispongano i criteri per una maggiore sicurezza sullecertificazioni alimentari. Sulle sue tracce lo spettatore ini-zia così a capire come tutta l’industria alimentare sia inmano a grandi e potenti corporazioni, che puntano su unaproduzione di massa, che abbatte i prezzi ma anche laqualità del cibo, senza che nessuno riesca a fare nulla perimpedirlo. Molti dei grandi imprenditori che hanno inte-ressi in questo campo siedono infatti anche all’interno deidipartimenti governativi per l’alimentazione. Ed ecco chesi inizia a percepire come anche i consumatori siano trat-tati alla stregua delle bestie e che, come non si curano lecondizioni del bestiame destinato al macello, non si curanemmeno la nostra incolumità, in nome del profitto.Ma passiamo alla produzione del mais. Quel mais che èalla base della dieta di tutti gli animali degli allevamentiindustriali e che si trova nella maggior parte dei prodottialimentari venduti nei supermercati statunitensi. Tutto giraintorno alla Monsanto, produttrice di pesticidi ma ancheideatrice del brevetto di semi di colza, mais e soia transge-nici in grado di resistere a questi pesticidi. Due piccionicon una fava. Così l’agricoltura americana è diventataOGM, i coltivatori sottoposti alle regole della corporationo fatti fuori. Il risultato è una produzione massiccia dimais a basso costo che diventa la componente fondamen-tale di gran parte dei prodotti alimentari made in USA. Non sembra ci sia una via d’uscita dalla grande macchi-

na dell’industria alimentare, ma gliStati Uniti iniziano a rendersi contodell’importanza di mangiare sano, eche, nonostante un hamburger al fast-food costi meno di un’insalata, c’è bi-sogno di iniziare a cambiare abitudinialimentari, per non cadere nella retedelle corporazioni che controllano co-sa mangiare e quanto pagare per farlo.Lo ripetono gli studiosi, ma lo sannoanche i contadini: se sulle confezionidi alimenti manca una corretta indica-zione della provenienza non è possibi-le garantirne la sicurezza. Morale dellafavola, con quello che mangiamo nonsi scherza, non ci si può affidare alleapparenze, alla pubblicità o al mar-chio, bisogna imparare a riconoscerela qualità.

FOOD, inc. La verità su quello che abbiamo nel piatto

di Marzia Pitirra

Marzia Pitirra

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Nei giorni tra il 20 e il 23maggio scorso si è svoltaa Roma, presso l’Audito-rium Parco della Musica,la Settimana della Biodi-versità in occasione diquello che è stato dichia-rato dalle Nazioni Unitel’anno internazionale del-la diversità biologica.L’evento, organizzato daBiodiversity Internationalcon la collaborazione del

Comune di Roma, si è posto come obiettivo la «scopertadei legami tra cultura, cibo e natura» attraverso dibattiti,conferenze, concerti, mostre e laboratori per bambini. Ve-ro e proprio evento nell’evento è stata poi la 7° edizionedel Festival internazionale audiovisivo della biodiversità,organizzato dal Centro internazionale Crocevia che dal1958 si occupa di cooperazione e solidarietà internaziona-le con l’obiettivo di tutelare la ricchezza culturale legataalla terra e all’agricoltura tradizionale. Tutto quello, cioè,che un sistema di consumo sempre più sfrenato e lontanodal concetto di qualità sta divorando, come argomenta ilpresidente di Slow Food, Carlo Petrini, che proprio in oc-casione della Settimana della Biodiversità ha presentato ilsuo ultimo libro, Terra Madre, come non farci mangiaredal cibo, edito da Giunti. Se-condo Petrini, è fondamentaleche produttori e consumatori sialleino per combattere le alte-razioni dell’agrobusiness inter-nazionale per cui il cibo è soloun prodotto fra gli altri «omo-logato, seriale, globale e poconaturale»: un cibo che, anzichéessere divorato, finisce per di-vorare noi stessi e i nostri giàprecari ecosistemi. Come ci ri-corda in modo ironico la breveanimazione in concorso dal ti-tolo Quiero ser tortilla in cuiPanocha, una pannocchia mes-sicana che vive felicementecon un contadino e il suomaiale, viene intrappolata in-sieme alle sue compagne nelsistema transgenico. Stipatecome oggetti seriali e “maltrat-tate” senza alcuna differenzaper diventare olio, le pannoc-chie si prenderanno la loro ri-vincita e, al grido di «Antes

comestible que combustibile», scoppietteranno in tantipop corn.Se frutta, verdura e carne avessero davvero potuto ribellar-si ai trattamenti di questi ultimi anni, che cibo avremmooggi? Sicuramente non quello alterato e “finto” del brevefilmato The story of the food in cui, infatti, ci si chiede: puòun pomodoro rosso, bello, perfetto dirsi ancora un pomo-doro? Ebbene, no. In cinquant’anni, infatti, sono successetante cose: il mercato si è ampliato, le distanze si sono al-lungate e il cibo è diventato un ricco business in cui il con-tadino è letteralmente divorato dalle grandi compagnie checomprano i suoi prodotti mentre le piantagioni, soffocatedall’uso eccessivo di pesticidi, si avviano verso la totaleestinzione. «What can we do?» è l’ultima, essenziale do-manda che si pone e ci pone il filmato. La risposta? Unbreve vademecum del corretto consumatore: pensare allaprovenienza e alle modalità produttive del cibo; cercare ci-bo locale, organico e “solidale” e supportare i piccoli con-tadini quando possibile. Perché abbondanza non è sempresinonimo – quasi mai, anzi – di eguaglianza. Prodotti del sud consumi del nord. Il caffè etiope è il cortoche dà voce ai milioni di produttori di caffè africani, asiati-ci e sud americani che non riescono, nonostante l’aumentodei prezzi del prodotto finale, ad avere delle remunerazionivantaggiose, come dichiara Francesco Terreri, economistae giornalista. «Da molto tempo, ormai, si è messo in motoun mercato speculativo di titoli, anche sulle materie pri-

me», dice Terreri, per cui ciòche conta è far fruttare al massi-mo il guadagno. Il commercioequo e solidale, tuttavia, ha di-mostrato che è possibile realiz-zare un altro mercato, «un mer-cato – continua l’economista –in cui i prezzi si formano inmodo trasparente e stabile» alfine di dare ai produttori la pos-sibilità di vivere una vita digni-tosa. Perché il rischio, ricordia-mocelo, è che il cibo non in-ghiotta solo noi, ma anche queimilioni di contadini in tutto ilmondo la cui vita, come l’im-patto di certi trattamenti sul-l’ambiente, non è decisamentesostenibile. Tutte le informazioni sul Festi-val audiovisivo della biodiver-sità, i trailer, le opere premiate,i link ai lungometraggi e ai cor-tometraggi proiettati su:www.mediatecadelleterre.it/fes-tival-della-biodiversita.

Settimana della biodiversitàIl cibo incontra la macchina da presa

di Martina Micillo

Martina Micillo

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Dopo il successo delledue precedenti edizioni,anche quest’anno il Ro-ma wine festival, che si èsvolto presso la Città delgusto del Gambero Ros-so, si è rivelato come unappuntamento imperdibi-le per gli appassionati delnettare di Bacco e per gliaddetti al settore. Duegiorni caratterizzati dascambi enologico-cultu-rali, workshop, degusta-

zioni, ma anche un’occasione per conoscere da vicinoproduttori di tutta Italia (e non) e i protagonisti di unaimportante realtà economica oltre che enogastronomica.Rispetto ai due anni passati, sono cresciuti i numeri diquesto evento: 190 aziende presenti (il 50% in più) e ol-tre 700 etichette in degustazione che offrono un panora-ma completo della realtà vitivinicola regionale italiana.Ospite d’onore, come vuole la tradizione, è stato ungrande vino estero: quest’anno i protagonisti sono statigli ottimi Chateau Guirad e Chateau Climens presentatidal Syndicat Cru Classé Sauternes et Barsac, vini passitimolto particolari in quanto non destinati solo al dessert,ma adatti anche per pasteggiare (soprattutto con formag-gi). Molte sono state le degustazioni svolte in questi duegiorni: i bianchi dell’Alto Adige, i vari stili di Syrah, iTre Bicchieri (i vini con il massimo punteggio sulla gui-da dei vini del Gambero Rosso) e i vini del Collio per

citarne alcuni. Quella che però ha colpito particolarmen-te è stata la degustazione dedicata ai tre principali viniprodotti con uva nebbiolo (Barolo, Barbaresco, Roero)che anche se un po’ sbilanciata numericamente a favoredel Barolo, ha permesso di bere un Barbaresco Sottima-no Currà del 2004 che spiccava sui concorrenti per ele-ganza, perfezione e piacevolezza di beva.Naturalmente questo festival non è stato solo un’occa-sione per assaggiare vini; eventi di questo tipo rappre-sentano anche un’opportunità per gli imprenditori vitivi-nicoli di promuovere il meglio della loro produzione,farsi conoscere e trovare nuovi clienti.Questo è anche quello che auspica per i vini laziali l’as-sessore alle attività produttive del Comune di Roma,Davide Bordoni, dichiarando che il successo di eventicome questo dimostrano che Roma può essere una vetri-na di eccellenza per accendere i riflettori sulla produzio-ne vinicola sia regionale che nazionale. Quello che inve-ce vuole evidenziare il presidente di Gambero Rosso,Paolo Cuccia, oltre al crescente numero di aziende e dipubblico partecipanti, è sicuramente il ruolo della suaazienda nella doppia funzione di talent scout di prodottidi eccellenza per i consumatori e di partner delle azien-de nella loro attività di marketing e sviluppo. Una ulteriore nota positiva va attribuita al grande svi-luppo dei vini del Lazio, regione che negli ultimi anni,grazie all’importante ruolo trainante di alcuni produttoricome Sergio Mottura, Antonello Coletti Conti, Falesco eCasale del Giglio (giusto per citarne alcuni), sta cre-scendo molto nella produzione di vini di qualità cercan-do di accorciare il gap con le storiche regioni italiane diproduzione.

Roma wine festivalTanti produttori e tante iniziative per l’appuntamento più importante

della capitale sul vino

di Indra Galbo

Indra Galbo

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Panzanella alla romanaIngredienti (per 4 persone)4 fette di pane casareccio raffer-mo; 4 pomodori maturi; olio ex-travergine d’oliva; 1 goccio diaceto bianco; 1 cipollotto (o unapiccola cipolla dolce); basilico;sale; pepe

PreparazioneAmmorbidire in acqua le fette di pane raffermo di qualchegiorno. Tagliare a fettine sottilissime il cipollotto (si consi-glia di lasciarlo in acqua salata fredda per qualche ora, inmaniera che perda un po’ del suo sapore forte). Insaporire ilpomodoro tagliato a pezzi con olio, aceto, basilico tritato,sale e pepe. Strizzare molto bene il pane e in un piatto daportata mescolarlo con tutti gli altri ingredienti.

Bucatini all’amatricianaIngredienti (4 persone)200 g di guanciale; q.b. di sale;pepe nero; 80 g di pecorino;400 g di bucatini; 3 cucchiai diolio extra vergine d’oliva; 350 gdi salsa di pomodoro; 1 pepe-roncino.

PreparazioneTagliare il guanciale a dadini e farlo rosolare in olio extra-vergine d’oliva, quindi aggiungere il peperoncino ed il po-modoro, regolare di sale e lasciar cuocere per circa 20 mi-nuti. Lessare i bucatini e scolarli ben al dente, ripassarlinella salsa. Spolverare di pecorino e pepe nero grattugiatoal momento. Per rendere questa salsa ancora più gustosa,far rosolare la cipolla con il guanciale, aggiungere il vinobianco, alzare la fiamma per farlo evaporare, quindi proce-dere come sopra.

Baccalà fritto alla romana Ingredienti (4 persone)1 kg di baccalà ammollato; 200 gdi farina; olio extra vergine d’oli-va; 10 g di lievito di birra; 1 li-mone, sale.Preparazione Il baccalà va filettato, cioè taglia-

to in filetti larghi due dita e lunghi 8-10 cm e poi dissalato inacqua corrente per almeno due giorni; oppure va compratogià bagnato e tagliato; molta cura va posta nel fare la pastel-la e nel friggere. Prima di tutto occorre preparare la pastella,setacciando la farina e mescolandola piano piano in una ter-rina con acqua tiepida, in cui sia stato sciolto il lievito di bir-ra e il sale. Se il tutto è troppo consistente, aggiungete anco-ra un po’ di acqua tiepida. L’impasto deve essere come pan-na liquida densa; appena completato coprite la terrina con unpanno e fate riposare il tutto per almeno due ore senzaesporlo al freddo. Al termine delle 2 ore prendete i filetti di

baccalà e ripassateli nella pastella; subito dopo immergetelipiano in una padella contenente olio ben caldo. Non appenasi saranno dorati, estraeteli dall’olio, sgocciolateli e metteteliin un piatto da portata, mettendo accanto ai filetti i limonitagliati a spicchi. Serviteli ben caldi.

Cicoria ripassataIngredienti (4 persone)1 kg di cicoria piccola; 1 spic-chio d’aglio; 1 peperoncino; salegrosso q.b.; olio d’olivaPreparazioneLavare bene e più volte la cico-ria.

Mettere in una pentola molto grande l’acqua fino a pocopiù della metà e due prese di sale grosso. Quando avrà rag-giunto l’ebollizione mettere tutta la cicoria e lasciarla les-sare senza coperchio per una decina di minuti. Il tempopuò variare a seconda del tipo di cicoria: se è molto grandefarla lessare più a lungo. Preparare una padella con l’olio,lo spicchio d’aglio tagliato a metà e ripulito della partecentrale e il peperoncino spezzettato. Dorare a fuoco mo-derato e versare la cicoria ben scolata. Lasciarla in padellaper 2-3 minuti sempre mescolando con un cucchiaio di le-gno, in modo che gli ingredienti aderiscano bene. Servirlaancora calda dopo aver rimosso l’aglio.

Crostata di ricottaIngredientiLa scorza grattugiata di 1 aran-cia; 1/2 cucchiaino di cannellain polvere; la scorza grattugiatadi 1 limone; 1 kg di ricotta dimucca; 4 uova; 40 g di uvetta; 1bustina di vanillina; 300 g di

zucchero; 500 g di pasta frolla.PreparazioneVersare nella tazza di un robot da cucina la ricotta, le uo-va, la vanillina, la scorza di arancia e limone, la polvere dicannella e lo zucchero, quindi amalgamare bene il tutto fi-no a ottenere una crema liscia e omogenea. Preparare lapasta frolla. Stendere la pasta frolla (tenetene da parte cir-ca 100 g da utilizzare per decorare la torta) e ricavare uncerchio che servirà per foderare il fondo e le pareti di unatortiera a cerchio apribile del diametro di 24 cm, prece-dentemente imburrato e infarinato. Quindi trasferire lacrema di ricotta in una casseruola e portarla lentamente abollore, quindi trascorsi un paio di minuti spegnere il fuo-co, aggiungere l’uvetta precedentemente ammollata estrizzata e versare il composto nella tortiera foderata dipasta frolla. Piegare leggermente i bordi di pasta frollaverso l’interno, sulla crema, poi, con la pasta frolla tenutada parte, ricavare delle strisce piatte o dei cordoncini conle quali formare una graticola intrecciata sulla crostata.Forno a 180°. Cottura per circa 60 minuti.

Menù del giorno

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