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2013 14+I
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Prima parte: ECCLESIOLOGIA
ARGOMENTI:
0. Prologo: prospettive esistenziali e metodologiche
1. La Chiesa nella Bibbia
1.1. La questione della fondazione della Chiesa
1.2. Prefigurazioni della Chiesa nell’Antico Testamento
1.3. La Chiesa nel Nuovo Testamento
2. La Chiesa nella Tradizione e nel Magistero ecclesiastico
2.1. La Chiesa dei primi secoli
2.2. La Chiesa del Medioevo
2.3. La Chiesa dell’epoca moderna e contemporanea
3. Approfondimento teologico-sistematico del mistero della Chiesa
3.1. L’origine trinitaria e la natura teandrica della Chiesa
3.2. Le proprietà essenziali della Chiesa
3.3. La struttura, la realizzazione e la missione della Chiesa
Epilogo: Maria, prototipo e modello della Chiesa
Appendice I: Commento alla Costituzione dogmatica Lumen Gentium (1964)
PROF. D. AIMABLE MUSONI, SDB
Università Pontificia Salesiana
Piazza dell’Ateneo Salesiano, 1
I – 00139 ROMA
0687290203
3
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1 Una bibliografia complementare specifica e/o tematica è indicata alla fine di ogni sezione o
all’occasione dello svolgimento particolareggiato dei temi più rilevanti. Si può, inoltre, consultare alcuni repertori
bibliografici come ad esempio U. VALESKE, Votum Ecclesiae (München, Claudius 1962); N. CIOLA, Il dibattito
ecclesiologico in Italia. Uno studio bibliografico (1963-1984) (Roma, PUL 1986); A. DULLES – P. GRANFIELD, The
Theology of the Church. A Bibliography (New York, Paulist Press 1999). Inoltre, occorre considerare le voci
“chiesa”/“ecclesiologia” dei principali dizionari, enciclopedie e/o lessici biblici, storici e teologici che spesso
offrono delle monografie vere e proprie. Tra di essi, indichiamo solo: G. CALABRESE – P. GOYRET – O.F. PIAZZA (a
cura), Dizionario di ecclesiologia (Roma, Città Nuova 2010); W. KASPER (a cura), Lexikon für Theologie und
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0. PROLOGO: prospettive esistenziali e metodologiche
0.1. La Chiesa, oggetto e soggetto della fede
“Crediamo... nella Chiesa una, santa, cattolica e apostolica”2. Questo è l’articolo
dedicato alla Chiesa nella professione di fede dei centocinquanta padri radunati all’occasione del
concilio ecumenico di Costantinopoli I (381). Tuttavia, prima di essere oggetto di fede, la Chiesa
appare innanzitutto come soggetto della fede nell’introduzione del Credo ove dice “io credo”
oppure “noi crediamo”. Dapprima si professa la fede nel Padre, creatore, poi nel Figlio,
redentore, infine nello Spirito Santo, e qui è inclusa la professione di fede nella Chiesa. La fede
di ogni singolo è quindi partecipazione alla fede della Chiesa, alla fede nella Chiesa (= comunità
dei fedeli), in quanto essa si professa e si comporta come popolo eletto e radunato da Dio, come
forma della manifestazione storica del Risorto, costituita attraverso la partecipazione al corpo
eucaristico di Cristo, e come nuova creazione realizzata dallo Spirito Santo per manifestare, sia
pure in forma iniziale, la salvezza definitiva dell’intera umanità e del cosmo.
La Chiesa non si trova però sullo stesso piano dell’oggetto vero e proprio della fede, che è
il Dio uno e trino: la Chiesa è oggetto di fede in quanto appartiene ai doni di salvezza, come
segno e strumento di cui Dio si serve per chiamare l’umanità alla comunione con sé. Essa si
colloca tra la presenza della redenzione in Cristo e l’anticipazione del compimento nello Spirito
Santo. È significativo che i simboli di fede dicano generalmente “io credo in Dio Padre, in Gesù
Cristo suo Figlio, nello Spirito Santo”, ma solamente “credo la Chiesa”3. La Chiesa viene
nominata per altro nel terzo articolo di fede, in relazione con la fede nello Spirito Santo. A questo
riguardo è ricca di insegnamenti la terza domanda battesimale del più antico ordo che sia stato
conservato. Essa recita verosimilmente: “Credi anche nello Spirito Santo [operante] all’interno
della santa Chiesa per la risurrezione della carne?”4. Questo significa che, da una parte, il
2 “PisteÚomen ... e„j m…an ¡g…an kaqolik¾n kaˆ ¢postolik¾n ™kklhs…an” (G. ALBERIGO [a cura],
Conciliorum Oecumenicorum Decreta [Bologna, EDB 1991] 24; sarà d’ora in poi abbreviato in COD, seguito dalla
pagina).
3 P. HÜNERMANN (a cura), Heinrich Denzinger. Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de
rebus fidei et morum = Strumenti (Bologna, EDB 37
1995) 2.6.86, abbreviato d’ora in poi DH seguito dal numero a
cui si rimanda. Rinviando al Catechismo romano (1, 10, 22), il Catechismo della Chiesa Cattolica (§ 750) spiega
che “nel Simbolo degli Apostoli professiamo di credere una Chiesa Santa («Credo… Ecclesiam»), e non nella
Chiesa, per non confondere Dio e le sue opere e per attribuire chiaramente alla bontà di Dio tutti i doni che egli ha
riversato nella sua Chiesa”.
4 IPPOLITO DI ROMA, Traditio apostolica 21, secondo lo studio di P. NAUTIN, Je crois à l’Esprit Saint dans
la Sainte Église pour la résurrection de la chair. Étude sur l’histoire et la théologie du symbole = Unam Sanctam 17
7
cristiano crede in Dio uno e trino, d’altra parte, la Chiesa è il luogo dove lo Spirito Santo opera,
così come la risurrezione della carne è l’ultimo effetto dello Spirito Santo. Lo stesso Tommaso
d’Aquino commenta come segue l’articolo riguardante la fede “nella” Chiesa: “Se si dice «nella
santa Chiesa cattolica», si deve intendere che la nostra fede si riferisce allo Spirito Santo, il quale
santifica la Chiesa; e cioè in questo senso: «Credo nello Spirito Santo che santifica la Chiesa».
Però secondo l’uso più comune è meglio non mettere la preposizione in, e dire semplicemente:
«la santa Chiesa cattolica», come lo fa anche S. Leone papa”5.
Come oggetto e soggetto della fede, la Chiesa è dunque allo stesso tempo mistero che
procede dalla Trinità e istituzione storica costituita da uomini che agiscono nella storia:
“Infatti è il carattere di mistero che per la Chiesa determina la sua natura di soggetto storico.
Correlativamente è il soggetto storico che, da parte sua, esprime la natura del mistero; in altre
parole, il popolo di Dio è simultaneamente mistero e soggetto storico; cosicché il mistero
costituisce il soggetto storico e il soggetto storico rivela il mistero”6. La Chiesa è quindi un’unica
realtà complessa e analoga al mistero del Verbo incarnato, fatta da un duplice elemento, umano e
divino, come ricorda il paragrafo 8 della Costituzione dogmatica Lumen Gentium (21 novembre
1964) del Concilio Vaticano II, che inoltre asserisce già nel primo paragrafo: “La Chiesa è in
Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto
il genere umano”7. In questo senso, la categoria di “sacramento di comunione” aiuta a cogliere
(Paris, Cerf 1947) 27 e passim. Contro l’interpretazione di Nautin si schierano tuttavia, tra altri, B. BOTTE, Note sur
le Symbole baptismal de saint Hippolyte, in Mélanges Joseph de Ghellinck, I = Museum Lessianum. Section
historique 13 (Gembloux, J. Duculot 1951) 189-200; J.N.D. KELLY, I simboli di fede della chiesa antica. Nascita,
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5 TOMMASO D’AQUINO, La Somma Teologica II-II, q. 1, a. 9, ad 5 (Bologna, ESD 1984) 70. Per i
particolari, vedere A. ANTÓN, La Iglesia de Cristo. El Israel de la Vieja y de la Nueva Alianza = BAC Maior 15
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6 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi scelti d’ecclesiologia (8 ottobre 1985) 3 (= Enchiridion
Vaticanum IX, n. 1688 [cf. nn. 1688-1698]). Sulla Chiesa come mistero e soggetto storico, vedere soprattutto A.
BANDERA, La Iglesia misterio de comunión en el corazón del Concilio Vaticano II = Biblioteca de teólogos
españoles 22 (Salamanca, San Esteban 1965); A. GARUTI, Il mistero della Chiesa. Manuale di ecclesiologia =
Bibliotheca – Manualia 3 (Roma, Antonianum 2004); C. JOURNET, Il mistero della Chiesa secondo il Concilio
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Storia, testo e commento della Costituzione Lumen Gentium = Già e non ancora 93 (Milano, Jaca Book 1975); M.
SEMERARO, Mistero, comunione e missione. Manuale di ecclesiologia = Nuovi saggi teologici 40 (Bologna, EDB
1996).
7 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione dogmatica Lumen Gentium 1 (= COD 849) “... ecclesia
sit in Christo veluti sacramentum seu signum et instrumentum intimae cum Deo unionis totiusque generis humani
unitatis”. Sull’analogia tra la Chiesa e il Verbo incarnato adoperata nel § 8 della Costituzione dogmatica Lumen
8
il significato della dimensione “teandrica” della Chiesa, sia nella sua origine e la sua natura, che
nella sua struttura e la sua missione.
0.2. Il paradosso del mistero della Chiesa
A livello visibile, la duplice dimensione inscindibile del mistero della Chiesa si dimostra
però in un certo modo paradossale, perché la componente divina rischia spesso di essere oscurata
dal peccato, che insidia la componente umana. La storia bimillenaria della Chiesa mette davanti
agli occhi di tutti, infatti, tanti aspetti contrastanti, tante immagini irriducibili, tante metamorfosi,
per non parlare addirittura delle separazioni provenienti dalle rotture tra le comunità cristiane dei
diversi paesi e regioni, nella loro mentalità, nel loro modo di vivere e di pensare la loro fede. Nel
medesimo tempo e luogo non è raro vedere gruppi e individui opporsi in ogni campo, pur
pretendendo ciascuno di appartenere alla stessa e vera Chiesa8. Questa appare dunque come una
complexio oppositorum: si professa santa, ma è piena di peccatori; ha la missione di strappare
l’uomo alle preoccupazioni terrene e di ricordagli la sua vocazione eterna, mentre invece appare
proprio impegnata nelle vicende temporali, come se volesse installarsi per sempre nel mondo. La
Chiesa è universale, aperta come l’intelligenza e la carità divina, invece i suoi membri si
ripiegano timidamente in gruppi chiusi, come fanno dappertutto gli esseri umani; si definisce
come immutabile, stabile, invece la repentinità dei suoi rinnovamenti è sconcertante9.
Con quanto viene appena detto si capisce come a fatica la Chiesa riesce ad esprimere
visibilmente il mistero di Dio di cui essa è segno e strumento. Anzi, l’esposizione inevitabile
all’attenzione e all’opinione pubblica finisce per diventare tanto imbarazzante quanto
insopportabile, perché a volte ciò che si lascia vedere rispecchia poco – o forse meglio, non del
tutto – la vera “essenza” della Chiesa, che necessariamente si attua in forma storica. In effetti,
tutto ciò che appare della Chiesa – pusillanimità, atteggiamenti autoritari, ipocrisia, chiusura –
dal pubblico critico e scettico viene in qualche modo anche posto in relazione con Dio, con il Dio
per il quale la Chiesa esiste. Non poche volte ciò che appare della Chiesa di norma e di rado non
Gentium (= COD 854), vedere sotto, nel § 3.1. del corso, dedicato appunto a “L’origine trinitaria e la natura
«teandrica» della Chiesa”.
8 Cf. H. DE LUBAC, Meditazione sulla Chiesa, in J.M. MILLER (a cura), La teologia dopo il Vaticano II.
Apporti dottrinali e prospettive per il futuro in una interpretazione ecumenica (Brescia, Morcelliana 1967) 325.
9 Cf. H. DE LUBAC, Meditazione sulla Chiesa, in J.M. MILLER (a cura), La teologia dopo il Vaticano II 326.
Si veda pure C. DUQUOC, “Credo la Chiesa”. Precarietà istituzionale e Regno di Dio = GDT 284 (Brescia,
Queriniana 2001); H. DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, in IDEM, Opera Omnia III. Chiesa 9 = Già e non
ancora 72 (Milano, Jaca Book 1979) 2-3 [1-12].
9
parla per Dio, per un Dio che è amante degli uomini, un Dio a cui sta a cuore l’uomo e la sua
salvezza. La Chiesa quindi non rende sempre credibile la fede in Dio, nel Dio di Gesù Cristo e
dei cristiani, a tal punto che alcuni dei nostri contemporanei pensano di poter dire comodamente
“sì a Dio” e “no alla Chiesa”,10
se non rinunciano addirittura alla stessa fede in Dio per colpa
(presunta) della Chiesa! Poiché la Chiesa è decisamente di questo mondo e deve affermarsi in
questo mondo, risulta effettivamente difficile vedere nella Chiesa Dio, avvertire in essa qualcosa
che provenga da Dio, senza che essa stessa si lasci continuamente plasmare dallo Spirito Santo e
s’incammini sulla via di Gesù Cristo verso il Padre. Solo a queste ultime condizioni, la Chiesa
può favorire la visibilità di Dio e diventare il motivo di credibilità per la lieta notizia che essa
annuncia11
.
Se dunque il paradosso della Chiesa di cui sopra non è apparentemente un solo gioco di
parole, dobbiamo scuotere l’illusione delle prime apparenze che può mascherare l’essenziale del
mistero della Chiesa, che è allo stesso tempo popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello
Spirito Santo (cf. Costituzione dogmatica Lumen Gentium 17). In quanto la Chiesa è chiamata
dalla Santissima Trinità per radunare e condurre a quest’ultima l’umanità intera, “essa è umana e
divina, elargita dall’alto e scaturita dal basso. Gli uomini di cui essa si compone resistono, con
tutto il peso di una natura pesante e ferita, alla Vita che essa si sforza di far penetrare in loro.
Guarda al passato, concentrandosi in un memoriale, il cui contenuto, essa lo sa, non tramonterà
mai, e contemporaneamente è protesa verso l’avvenire, esaltandosi in una speranza di una
consumazione ineffabile, della quale non esiste segno sensibile che le lasci intravedere qualcosa.
Destinata, nella sua forma presente, a passare del tutto, come «la figura di questo mondo», essa è
pure destinata, nel contenuto più profondo del suo essere, a perdurare nella sua totalità, dal
giorno in cui verrà manifestata la sua vera realtà”12
.
10
Si vedano ad esempio le riflessioni di K. BERGER, Kann man auch ohne Kirche glauben? (Gütersloh,
Quell-Gütersloher Verlagshaus 2000); R. BLAZQUEZ, Jesús sí, la Iglesia también. Reflexiones sobre la identidad
cristiana (Salamanca, Sígueme 1983); J. CADILHAC, Gesù sì, la Chiesa non (Roma, Città Nuova 2007); S. DIANICH,
Cristo sì, Chiesa no? Discussione su una mentalità diffusa = Mondo Nuovo 64 (Leumann [To], Elle Di Ci 1984); M.
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Konfessionen (Darmstadt, Primus 2002); W. KASPER – J. MOLTMANN, Gesù sì, Chiesa no? = Meditazioni 7 (Brescia,
Queriniana 1974) 49-83; P. TIHON, Croire grâce à l’Église, croire malgré l’Église?, in Lumen Vitae 49 (2004) 403-
414; G. VATTIMO, Credere di credere. È possibile essere cristiani nonostante la Chiesa? (Milano, Garzanti 21999); S.
WIEDENHOFER, La Chiesa 22 [21-30].
11
Cf. R. LATOURELLE, Chiesa, III. Motivo di credibilità, in R. LATOURELLE – R. FISICHELLA (a cura),
Dizionario di Teologia Fondamentale (Assisi, Cittadella 1990) 162-181; J. RATZINGER, Perché sono ancora nella
Chiesa, in H.U. VON BALTHASAR – J. RATZINGER, Due saggi. Perché sono ancora cristiano. Perché sono ancora
nella Chiesa = Dibattito sul cristianesimo 19 (Brescia, Queriniana 1971) 51-71; J. WERBICK, La Chiesa. Un progetto
ecclesiologico per lo studio e per la prassi = BTC 103 (Brescia, Queriniana 1998) 22-26 e 33-37.
10
0.3. Prospettiva teologica dogmatica
Il nostro Corso di ecclesiologia13
che si colloca nella comprensione confessionale
cattolico-romana vuole approfondire metodicamente l’intelligenza del mistero della Chiesa. La
Chiesa è, per così dire, l’oggetto materiale del nostro studio. L’angolo formale è
complessivamente quello della teologia dogmatica, per cui ci si occuperà dell’origine della
Chiesa, della sua essenza (sacramentale), delle sue strutture, delle sue funzioni, del suo futuro,
partendo dai dati della Sacra Scrittura e della Tradizione14
. Nella teologia, l’intelligenza della
verità creduta, viene sviluppata metodicamente in modo da diventare più ampia e più profonda,
sistematicamente ordinata e completa, senza che il mistero cessi di restare tale, senza che la fede
venga sostituita o repressa. La teologia dogmatica concernente la Chiesa si distingue per il suo
metodo da tutti gli altri modi di considerarla, e quindi sia da quello della teologia fondamentale o
apologetica, sia del diritto canonico, della sociologia, della storia e della scienza delle religioni.
Se tutte le discipline teologiche, ognuna secondo un preciso punto di vista, considerano la Chiesa
alla luce della fede, la teologia dogmatica invece si sforza di giungere ad una visione completa,
cerca di offrire una vasta analisi che, dalla prospettiva della fede, consideri tutti gli elementi
essenziali alla conoscenza della Chiesa, tenendo conto di tutto lo sviluppo dottrinale in merito15
.
12
H. DE LUBAC, Meditazione sulla Chiesa, in J.M. MILLER (a cura), La teologia dopo il Vaticano II 326-
327.
13
La parola “ecclesiologia” è stata probabilmente coniata da Johann Scheffler (= Angelus Silesius) nel
1676, o almeno usata dallo stesso autore come titolo di un libro. Tuttavia, solo agli inizi del XX secolo la parola
“ecclesiologia” è diventata d’uso corrente in patristica, prima di imporsi progressivamente verso la metà del XX
secolo nella teologia sistematica per designare la “dottrina sulla Chiesa” [= Lehre von der Kirche] (Cf. W. HÄRLE,
Kirche, VII. Dogmatisch, in Theologische Realenzyklopädie XVIII, 308, nota 1).
14
Cf. W. LÖSER, Ecclesiologia, in W. BEINERT (a cura), Lessico di teologia sistematica (Brescia,
Queriniana 1990) 234. Si nota (Ibidem) che il trattato della teologia fondamentale è interessato alla Chiesa in quanto
questa è mezzo e strumento della trasmissione della divina rivelazione. A proposito della prospettiva fondamentale,
si veda anche A. BIRMELÉ, Ecclésiologie, in J.-Y. LACOSTE (a cura), Dictionnaire critique de théologie (Paris, PUF
1998) 359; H. FRIES, Chiesa, in IDEM (a cura), Dizionario Teologico, I (Brescia, Queriniana 21968) 246-250 [242-
254]; W. KERN – H.J. POTTMEYER – M. SECKLER (a cura), Corso di teologia fondamentale, III: Trattato sulla Chiesa
(Brescia, Queriniana 1990); R. LATOURELLE, Cristo e la Chiesa segni di salvezza (Assisi, Cittadella 1971); S. PIÉ-
NINOT, Chiesa, I: Ecclesiologia fondamentale, in R. LATOURELLE – R. FISICHELLA (a cura), Dizionario di Teologia
Fondamentale (Assisi, Cittadella 1990); 148-151; IDEM, Eclesiología fundamental: “status quaestionis”, Revista
Española de Teología 49 (1989) 361-403; IDEM, Eclesiología fundamental, in C. O’DONNELL – S. PIÉ-NINOT,
Diccionario de Eclesiología = Diccionarios San Pablo (Madrid, San Pablo 2001) 343-360 B.-D. DE LA SOUJEOLE, Il
sacramento della comunione. Ecclesiologia fondamentale (Casale Monferrato, Piemme 2000).
15
Cf. H. FRIES, Chiesa, in IDEM (a cura), Dizionario Teologico, I 246; M. SCHMAUS, Dogmatica cattolica,
III/1: La Chiesa 20-21. Sulla questione metodologica, si veda soprattutto A. ANTÓN, La Iglesia de Cristo 5-70; S.
DIANICH, Ecclesiologia. Questioni di metodo e una proposta = Proposte teologiche 14 (Cinisello Balsamo, Ed.
Paoline 1993); S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa = Nuovo corso di teologia sistematica 5 (Brescia,
Queriniana 2002)139-166 (con abbondanti indicazioni bibliografiche nelle note); A. DULLES, Models of the Church
11
Fedele alle raccomandazioni del decreto conciliare Optatam totius (§ 16)16
, il Corso si
divide in tre parti, dedicate rispettivamente allo studio della Chiesa innanzitutto nella Bibbia
(I), poi nella Tradizione e nel Magistero ecclesiastico (II), prima di riprendere, in un modo
sistematico, l’approfondimento teologico del mistero della Chiesa (III), per farne trasparire il
tutto unitario con un unico sguardo d’insieme. Naturalmente, l’orizzonte non può essere altro che
quello della fede e dell’esperienza cristiana vissuta, in cui ha effettiva consistenza ed efficacia il
disegno della salvezza, concepito dal Padre e realizzato dal Figlio in comunione con lo Spirito
Santo. Inoltre, “il concetto di Chiesa è scandagliato nella sua più profonda natura solo quando
diventa chiaro fino a che punto la Chiesa penetra nel mio intimo, nella mia anima, nella mia
coscienza”17
. Il nostro augurio è quindi che l’approfondimento teologico del mistero della Chiesa
possa corroborare una maggiore coscienza ecclesiale (sensus ecclesiae), in modo tale da
conoscere, amare e servire di più la Chiesa, perché da essa non può prescindere la nostra fede
cristiana, orientata appunto in e con la Chiesa, verso quel Dio che nello Spirito Santo si
comunica attraverso Gesù Cristo.
(New York, Doubleday 21987); B. MONDIN, La Chiesa primizia del regno. Trattato di ecclesiologia = Corso di
teologia sistematica 7 (Bologna, EDB 21989) 15-24.
16
Cf. Decreto Optatam totius, § 16 (= COD 955-956): “Nell’insegnamento della teologia dogmatica, prima
vengano proposti gli stessi temi biblici; si illustri poi agli alunni il contributo dei padri della chiesa orientale e
occidentale nella fedele trasmissione ed enucleazione delle singole verità rivelate, nonché l’ulteriore storia del
dogma, considerando anche i rapporti di questa con la storia generale della chiesa. Inoltre, per illustrare
integralmente quanto più possibile i misteri della salvezza, gli alunni imparino ad approfondirli e a vederne il nesso
per mezzo della speculazione, avendo s. Tommaso per maestro; si insegni loro a riconoscerli presenti e operanti
sempre nelle azioni liturgiche e in tutta la vita della chiesa; e inoltre essi imparino a cercare la soluzione dei problemi
umani alla luce della rivelazione, ad applicare le verità eterne alla mutevole condizione di questo mondo e
comunicarle in modo appropriato agli uomini contemporanei”. Nella citazione, il corsivo è nostro.
17
J. RATZINGER, La Chiesa. Una comunità sempre in cammino (Cinisello Balsamo, Ed. Paoline 1991) 8.
Parlando del compito del teologo cattolico, Walter Kasper dice giustamente: “In realtà esso esige pure un sensus
fidei ed un più ampio sentire ecclesiam, possibili soltanto se si vive in e con la chiesa concreta, nelle sue comunità”
(W. KASPER, Teologia e Chiesa = BTC 60 [Brescia, Queriniana 1989] 12). Si terrà presente pure l’interdipendenza
vitale a livello di condizionamento e di arricchimento fra Chiesa ed ecclesiologia, secondo quanto afferma A.
ANTÓN, L’ecclesiologia del dopo-Concilio: acquisizioni e problemi, in D. VALENTINI, Aspetti innovatori e loro
incidenza sulla ecclesiologia e sulla mariologia = Biblioteca di Scienze Religiose 85 (Roma, LAS 1989) 174-175.
12
1. LA CHIESA NELLA BIBBIA18
In questo capitolo viene messa in luce la testimonianza biblica sulla Chiesa, sia quanto
riguarda la sua prefigurazione nell’Antico Testamento (AT), che la sua realizzazione nel Nuovo
Testamento (NT). Ma, innanzitutto, si impongono delle premesse ermeneutiche sulla questione
della fondazione della Chiesa, strettamente legata all’interpretazione dei dati biblici.
1.1. La questione della fondazione della Chiesa19
Nella dottrina ecclesiale preconciliare condizionata dall’orientamento contro-riformistico
e nella dogmatica neoscolastica, la legittimità biblica della Chiesa era riassunta richiamandosi a
determinati passi biblici (= dicta probantia), in una chiara asserzione storico-dogmatica: Gesù ha
istituito o fondato l’unica Chiesa. Tale affermazione si trova per esempio nel giuramento
antimodernista del Motu proprio Sacrorum antistitum (1910) di Pio X:
“Credo ugualmente con fede ferma che la Chiesa, custode e maestra della parola rivelata, fu
istituita immediatamente e direttamente dallo stesso vero e storico Cristo, mentre viveva fra noi, e che la
stessa fu edificata su Pietro, principe della gerarchia apostolica, e sui suoi successori per sempre”20
.
18
Per le citazioni e le abbreviazioni dei libri biblici, si usa, salvo indicazione contraria, la Bibbia TOB.
Edizione integrale (Leumann [Torino], Elle Di Ci 1992).
19
Seguiamo qui la COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi scelti d’ecclesiologia (8 ottobre 1985)
1 (= Enchiridion Vaticanum IX, nn. 1673-1680); J. HOFFMANN, La Chiesa e la sua origine, in B. LAURET - F.
REFOULÉ (a cura), Iniziazione alla pratica della teologia, III: Dogmatica, II (Brescia, Queriniana 1986) 86-92; S.
WIEDENHOFER, La Chiesa 47-56. Si vedano anche J. AUER, La Chiesa, in J. AUER – J. RATZINGER, Piccola
dogmatica cattolica, VIII (Assisi, Cittadella 1988) 203-222; J. BETZ, Die Gründung der Kirche durch den
historischen Jesus, in Theologische Quartalschrift 138 (1958) 152-183; M. KEHL, La Chiesa. Trattato sistematico di
ecclesiologia cattolica = L’Abside. Saggi di teologia 17 (Cinisello Balsamo, San Paolo 1995) 255-305; G. LOHFINK,
Hat Jesus eine Kirche gestiftet ?, in Theologische Quartalschrift 161 (1981) 81-97; IDEM, Gesù come voleva la sua
comunità ? La Chiesa quale dovrebbe essere = Problemi e dibattiti 5 (Cinisello Balsamo, Ed. Paoline 1987); K.
MÜLLER, Die Aktion Jesu und die Re-Aktion der Kirche, in Jesus von Nazareth und die Anfänge der Kirche
(Würzburg, Echterverlag 1972) 31-64; K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di
cristianesimo = L’Abside. Saggi di teologia (Cinisello Balsamo, Ed. Paoline 51990) 417-429; L. SCHEFFCZYK, La
Chiesa. Aspetti della crisi postconciliare e corretta interpretazione del Vaticano II = Già e non ancora 327 (Milano,
Jaca Book 1998) 44-48; J. SCHMID, Chiesa, in H. FRIES (a cura), Dizionario Teologico, I (Brescia, Queriniana 21968) 223-229; R. SCHNACKENBURG, La Chiesa nel Nuovo Testamento. Realtà, interpretazione teologica, essenza e
mistero = Quaestiones disputatae (Brescia, Morcelliana 41975) 13-40; T. SÖDING, Gesù e la Chiesa. Che cosa dice il
Nuovo Testamento? = Books (Brescia, Queriniana 2008); H.-J. VENETZ, Così cominciò la Chiesa. Sguardo sul
Nuovo Testamento (Brescia, Queriniana 1989); J. WERBICK, La Chiesa 85-107; A. ZIEGENAUS, Kirche – Stiftung
Jesu Christi, in W. BRANDMÜLLER (a cura), Mysterium Kirche. Sozialkonzern oder Stiftung Christi ? (Aachen, MM
Verlag 1996) 41-61.
13
1°) Affermare l’istituzione o la fondazione della Chiesa da parte di Gesù significa che il
Signore terreno e risorto ha posto consapevolmente ed esplicitamente determinati atti giuridici
formali attraverso i quali egli ha fondato la Chiesa come una istituzione visibile e costituita
giuridicamente dalla sua volontà nei suoi aspetti essenziali: il primato papale è fondato
nell’istituzione della Chiesa su Pietro (Mt 16, 15-19; cf. Lc 22, 31-32; Gv 21, 15-19), il collegio
episcopale nella chiamata del collegio apostolico (cf. Mt 10, 1-4; Mc 3, 13-19; Lc 6, 12-16), la
gerarchia ecclesiastica e la sua triplice potestà nel conferimento della triplice potestà di Cristo
(ufficio magisteriale, pastorale e sacerdotale) agli apostoli (cf. Mt 18, 18; 28, 18-20; Gv 20, 21-
23), senza dimenticare i sacramenti (l’eucaristia in specie: Lc 22, 14-20; cf. Mt 26, 26-28; Mc 14,
22-25; 1 Cor 11, 23-26) e l’insegnamento della fede rintracciabili nelle parole e gesti di Gesù.
Questa prospettiva dogmatico-apologetica considera la Chiesa come società perfetta e
organo di salvezza visibile, durevole e ordinato gerarchicamente, che può trasmettere la salvezza
agli uomini poiché è stata dotata da Cristo di tutte le istituzioni e poteri necessari.
2°) Le affermazioni relative alla fondazione della Chiesa provengono da un contesto
apologetico-polemico, con l’intenzione di legittimare e di distinguere la Chiesa (cattolica)
rispetto a determinati avversari. In realtà, lo studio dei dati storici e scritturistici ci pone di fronte
alla constatazione che la questione della fondazione della Chiesa è complessa: ad esempio,
bisogna partire dal presupposto che i vangeli sono sorti nella situazione ecclesiale postpasquale.
Questo significa che essi trasmettono le parole di Gesù in modo già attualizzato in riferimento ad
una nuova esperienza (cf. la storia degli effetti: Wirkungsgeschichte), quella della morte e
risurrezione di Gesù e della comunità che a partire da essa si raccoglie e attende il ritorno del
Signore. In Gesù invece, al centro sta qualcosa altro, che si può riassumere come segue:
anzitutto, la sua predicazione escatologica nella quale egli annuncia l’irrompere imminente del
Regno di Dio21
; inoltre, le sue azioni con carattere di segno nelle quali egli, in concrete situazioni
20
DH 3540. L’obbligo al giuramento antimodernista fu sospeso nel 1967. Sulla questione della fondazione
della Chiesa da parte di Gesù, il concilio Vaticano I aveva affermato con cautela: “L’eterno pastore e guardiano delle
nostre anime, per perpetuare l’opera salutare della redenzione, ha deciso di edificare la santa Chiesa, nella quale,
come nella casa del Dio vivente, tutti i fedeli fossero riuniti dal vincolo di una sola fede e di una sola carità”
(Introduzione alla costituzione dogmatica Pastor aeternus [= COD 811]). Quanto al Vaticano II, si legge nella
costituzione dogmatica sulla Chiesa: “Il mistero della santa Chiesa si manifesta nella sua fondazione. Il Signore Gesù
infatti diede inizio alla sua Chiesa predicando il buon annuncio, cioè la venuta del regno di Dio promesso da secoli
nelle Scritture” (Lumen Gentium 5 [= COD 851]).
21
In effetti, i Vangeli Sinottici riassumono l’insegnamento e la predicazione di Gesù nella frase lapidaria: “Il
tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1, 14-15; Mt 4, 17; Lc 4, 43).
L’espressione “regno di Dio (o dei cieli)” ricorre 122 volte nel NT; di queste, ben 99 nei Vangeli Sinottici, 90 delle
quali si trovano in parole di Gesù (cf. J. FUELLENBACH, Regno di Dio, in R. LATOURELLE – R. FISICHELLA [a cura],
Dizionario di Teologia Fondamentale [Assisi, Cittadella 1990] 902 [902-913]; J. RATZINGER, La Chiesa 14-15).
14
di sventura, conferisce una forma percepibile nel nostro mondo all’amore incondizionato e senza
limiti di Dio e alla sua misericordia; infine, Gesù si rivolge all’intero Israele, senza escludere
alcun gruppo. Il suo scopo è la raccolta, il rinnovamento e la preparazione dell’intero popolo in
vista del Regno di Dio.
In questa prospettiva storico-esegetica, si afferma che Gesù non voleva né fondare una
nuova comunità religiosa, né costituire un resto o una comunità particolare all’interno di
Israele22
. Che dal suo movimento di raccolta di fatto derivi una separazione non dipende perciò
dalla volontà di Gesù ma dal rifiuto dei destinatari. In tale quadro, una fondazione della Chiesa
secondo la comprensione tradizionale è difficile da collocare: per l’esegeta, lo storico o ancora il
sociologo del fatto religioso, una cosa sarà vedere in Gesù l’iniziatore di un movimento religioso
che di fatto, e per effetto di un gioco di fattori storici e sociali, prenderà la forma di una “Chiesa”
che si riferirà a lui e che intenderà continuare la sua opera; altra cosa sarà vedere in lui il
fondatore effettivo di una Chiesa distinta e organizzata.
3°) La lettura teologica e la comprensione di fede, tuttavia, non si fermano solo alla
lettera e ai fatti puri e nudi, ma piuttosto cercano di penetrarne lo spirito ed evidenziarne il
significato profondo, secondo il disegno divino della salvezza che si dispiega nella storia. In
questo senso, la testimonianza del NT invita il credente a considerare come origine della Chiesa
non soltanto le parole e i gesti del ministero pubblico di Gesù, ma la totalità dell’evento
Gesù Cristo, cioè la sua incarnazione, il suo mistero pasquale e il dono dello Spirito Santo, che
non sono rimasti un episodio effimero nel mondo23
. Del resto, quest’ultima posizione (via media)
si riallaccia alla duplice intenzione presente nella rilettura delle tradizioni del Signore da parte
delle comunità primitive: riprendendo e reinterpretando le parole di Gesù, si voleva da una parte
22
Alfred Loisy, che sarà di seguito bollato di eresia come “modernista”, osservava nel 1902 a questo
proposito: “Gesù annunciava il Regno ed è la Chiesa che è venuta. Essa è venuta allargando la forma del Vangelo,
che era impossibile tenere tale e quale, appena il ministero di Gesù fu chiuso dalla passione [...]. Sarebbe assurdo
esigere che il Cristo avesse determinato in anticipo le interpretazioni e gli adattamenti che i tempi dovevano
provocare, perché essi non avevano ragion d’essere prima dell’ora che li rendeva necessari. Non era né possibile né
utile che l’avvenire della Chiesa venisse rivelato da Gesù ai discepoli. Il pensiero che trasmise loro il Salvatore era
che bisognava volere, preparare, attendere e realizzare il regno di Dio. La prospettiva del regno si è allargata e
modificata, quella del suo avvento definitivo è stata differita, ma lo scopo del vangelo è rimasto lo scopo della
Chiesa” (A. LOISY, Il Vangelo e la Chiesa e Intorno a un piccolo libro = “Ulisse”. Collana di studi umanistici [Roma,
Ubaldini 1975] 141.142). Si veda anche G. LOHFINK, La raccolta d’Israele. Una ricerca sull’ecclesiologia lucana
(Casale Monferrato, Marietti 1983).
23
La Commissione Teologica Internazionale afferma a giusto titolo: “L’intera opera e tutta la vita di Gesù
costituiscono in certo qual modo la radice e il fondamento della Chiesa, la quale è come il frutto di tutta la sua
esistenza. La fondazione della Chiesa presuppone l’insieme dell’opera salvifica di Gesù nella sua morte e
risurrezione, come pure la missione dello Spirito. Per questo nell’agire di Gesù è possibile riconoscere elementi
preparatori, sviluppi progressivi e tappe che conducono alla fondazione della Chiesa” (COMMISSIONE TEOLOGICA
15
radicare l’esperienza attuale della Chiesa nell’opera storica di Gesù in cui si compie
misteriosamente il Regno di Dio (cf. Mt 9, 1 s.; 12, 28; Lc 4, 14-22; ecc.) e, d’altra parte,
attestare con ciò che il luogo della sua presenza viva ed attuale era la comunità. La sua presenza e
la sua offerta di salvezza erano ormai mediate dai gesti e dalle parole della comunità, sorretta
dallo Spirito Santo, primo dono del Risorto. Per questo ultimo motivo il Concilio Vaticano II
parla della nascita della Chiesa nel giorno della pentecoste (cf. At 2)24
, evento che costituisce la
definitiva manifestazione di ciò che si era compiuto nello stesso cenacolo già il giorno di Pasqua.
Il Cristo risorto venne e “portò” lo Spirito Santo ai discepoli (cf. Gv 20, 19-23), che d’ora in poi
furono i suoi apostoli, cioè testimoni e missionari nel mondo intero.
In conclusione, la struttura complessa dei dati neo-testamentari relativi all’origine della
Chiesa e la loro interpretazione ci inducono così ad affermare che le prime comunità cristiane si
comprendono come il luogo e la figura di un’esperienza che è fondamentalmente pasquale.
Questa esperienza include però una ripresa e uno sviluppo nuovo di ciò che Gesù, a suo tempo e
nella sua missione storica, ha inaugurato tra gli uomini. Di conseguenza, una riflessione sulla
predicazione e sull’opera di Gesù, e sul raduno escatologico d’Israele a cui egli mira, dovrà
tenere conto di quest’orizzonte complessivo rappresentato dal giudaismo del suo tempo e dagli
scritti dell’AT, in particolare per quanto riguarda il modo con cui in essi si esprime la coscienza
d’Israele di essere il popolo che Dio si è scelto, con il quale ha fatto alleanza, che Dio rinnova
attraverso le sue prove e per mezzo dei profeti che manda, popolo che è beneficiario delle sue
promesse e suo testimone tra le nazioni. Tenere conto di tutto ciò è tanto più necessario in quanto
le comunità cristiane si riferiranno alle immagini e alle rappresentazioni prefigurative della
“Chiesa” (= ™kklhs…a) dell’AT per esprimere la propria coscienza di essere ormai, in mezzo ad
Israele e per le nazioni, la vera Chiesa di Dio: quella, appunto, che Dio convoca e raduna
nell’evento escatologico della salvezza che è la morte e la resurrezione del Cristo25
.
INTERNAZIONALE, Temi scelti d’ecclesiologia (8 ottobre 1985) 1.3 (= Enchiridion Vaticanum IX, n. 1676). Di
seguito (Ibidem nn. 1677-1679), vengono menzionati gli sviluppi e le tappe nel processo di fondazione della Chiesa.
24
Cf. Sacrosanctum Concilium 6 (= COD 822): “... proprio il giorno di pentecoste, nel quale la chiesa si
manifestò al mondo, «quelli che accolsero la parola» di Pietro «furono battezzati»”; Ad Gentes 4 (= COD 1013):
“Indubbiamente lo Spirito santo operava nel mondo già prima che Cristo fosse glorificato. Ma nel giorno della
pentecoste si effuse sui discepoli, per rimanere con loro in eterno, la chiesa fu manifestata pubblicamente alla
moltitudine, ebbe inizio attraverso la predicazione la diffusione del vangelo in mezzo alle genti…”; si veda anche
Lumen Gentium 4 (= COD 850-851). Per i commenti a questi passi, vedere GIOVANNI PAOLO II, Dominum et
vivificantem. Lettera enciclica sullo Spirito Santo nella vita della Chiesa e del mondo (18 maggio 1986), §§ 25-26 (=
Enchiridion Vaticanum X, nn. 503-510).
25
Cf. COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi scelti d’ecclesiologia (8 ottobre 1985) 1.3-4 (=
Enchiridion Vaticanum IX, n. 1675-1679); J. HOFFMANN, La Chiesa e la sua origine 90-93; G. LOHFINK, Gesù e la
Chiesa, in W. KERN – H.J. POTTMEYER – M. SECKLER (a cura), Corso di teologia fondamentale, III. Trattato sulla
Chiesa (Brescia, Queriniana 1990) 49-105; L. SCHEFFCZYK, La Chiesa 44-48; S. WIEDENHOFER, La Chiesa 47-56.
16
1.2. Prefigurazioni della Chiesa nell’Antico Testamento
Nella Dichiarazione Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non
cristiane, il Concilio Vaticano II giustifica la necessità del ricorso all’AT, dove è prefigurata
misteriosamente la Chiesa del NT, che continua oggi la vocazione e la missione d’Israele:
“La chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano
già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti. Essa afferma che tutti i
fedeli cristiani, figli di Abramo secondo la fede (cf. Gal 3, 7), sono inclusi nella vocazione di questo
patriarca e che la salvezza della chiesa è misticamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto dalla terra
di schiavitù. Per questo la chiesa non può dimenticare di aver ricevuto la rivelazione dell’antico
testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di
stringere l’antica alleanza, e che essa si nutre della radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i
rami dell’ulivo selvatico che sono i popoli pagani (cf. Rm 11, 17-24)”26
.
L’esposizione delle strutture dell’ecclesiologia veterotestamentaria verterà sulle diverse
forme di apparizione dell’™kklhs…a dell’AT, la sua relazione con Dio, la missione di Israele e il
rapporto dell’individuo con la collettività. Il termine ™kklhs…a che le prime comunità cristiane
avrebbero ripreso dalla Bibbia greca dei Settanta (LXX)27
per designare se stesse ha delle
sfumature diverse, che incontreremo gradualmente:
1°) Nei LXX, ™kklhs…a che ricorre circa 100 volte come traduzione esclusiva per
l’ebraico qāhāl indica l’assemblea del popolo d’Israele, allo stesso modo che, nel linguaggio
profano, esso designava l’assemblea politica della città. Denominandosi anch’esse ™kklhs…a,
26
Dichiarazione Nostra aetate 4 (= COD 970). Si veda anche la Costituzione dogmatica Lumen Gentium 2
(= COD 850); 6 (= COD 851); 9 (= 855-856).
27
Sulla derivazione del concetto neotestamentario di ™kklhs…a dalla LXX, come traduzione del
veterotestamentario qahal, afferma K.L. SCHMIDT, ™kklhs…a, in G. KITTEL – G. FRIEDRICH (a cura), Grande Lessico
del Nuovo Testamento [= GLNT], IV (Brescia, Paideia 1968) 1526 (cf. 1565): “Per il concetto cristiano di ™kklhs…a
entro la cornice dell’uso linguistico greco, un elemento costitutivo è dato dalla linea che si svolge dai LXX al N.T.,
nel cui solco il termine ha ricevuto il suo significato specifico. Solo la correlazione tra il Nuovo e l’A.T. poteva dar
peso a questo concetto e orientarlo in una certa direzione, tanto più che era ormai evidente la corrispondenza tra la
™kklhs…a dell’A.T. e quella del Nuovo per quelli che, pur provenendo dal giudaismo, lo superavano”. Ultimamente,
tuttavia, questa tesi di Schmidt è stata criticata da Jürgen Roloff (cf. ™kklhs…a, in H. BALZ – G. SCHNEIDER [a cura],
Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento [= DENT], I [Brescia, Paideia 1995] 1094-1096; IDEM, Die Kirche im
Neuen Testament [Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht 1993] 97) secondo il quale l’espressione ™kklhs…a toà
Qeoà (= assemblea/comunità/chiesa di Dio) ha la sua matrice nel giudaismo apocalittico (qumranico) e corrisponde
all’ebraico qehal ’ēl (1 QM 4,10; 1 QS
a 1,25). Essa designerebbe la Chiesa come schiera escatologica di Dio. Si veda
17
le comunità cristiane si vedono quindi innanzitutto in una certa analogia con un ‘popolo’, che ha
l’espressione concreta della propria identità in assemblee nel contempo “sacre” e “politiche”, non
senza lasciare trasparire una profonda trasformazione provocata dal passaggio della città pagana
alla teocrazia d’Israele, poi in seguito dall’applicazione alle comunità cristiane.
2°) La differenza essenziale tra le assemblee della città greche e quelle d’Israele consiste
nel fatto che le prime sono assemblee di uomini che decidono quello che devono fare, mentre le
seconde sono radunate per ascoltare la Parola di Dio che le ha convocate, che è presente in
mezzo ad esse, e per acconsentire ad essa nella fede (™kklhs…a < ™k-kalšw = attivo: chiamare
fuori, eccitare; medio: chiamare a sé, provocare, incitare a fare qualcosa // Qâhâl, da Qôl = voce).
Questo conferisce ad Israele la sua identità di “popolo convocato e radunato”, anche al di fuori
di ogni raduno attuale. Più concretamente, il termine ™kklhs…a designa innanzitutto l’assemblea
archetipa del deserto, rinnovata nella rifondazione del popolo d’Israele dopo l’esilio; poi la
distanza che si scava tra la realtà concreta d’Israele e l’immagine ideale del popolo di Dio
evocata dal termine ™kklhs…a farà sì che questo termine diventi poco alla volta un’espressione
che cristallizza l’esperienza del raduno escatologico dei figli dispersi di Israele secondo la sua
vera e definitiva identità di popolo di Dio.
3°) Applicando a se stessa il termine ™kklhs…a, la comunità cristiana delle origini
esprime la propria coscienza di essere “assemblea convocata” da Dio nel suo Verbo Gesù
Cristo, nonché la convinzione che in essa è iniziato quel raduno dell’Israele degli ultimi
tempi che è l’oggetto dell’annuncio profetico e della speranza escatologica. Per così dire,
nell’orizzonte dell’insieme dell’economia della salvezza, la Chiesa è il popolo di Dio preparato
in Israele, che trova in Cristo la sua realizzazione ultima e definitiva come “Israele” di Dio fatto
di ebrei e di pagani28
.
A proposito dell’uso terminologico, si noterà che la voce ™kklhs…a appare 114 volte nel
NT in modo diseguale. Tra i sinottici, soltanto in Matteo si trovano 3 occorrenze (Mt 16, 18; 18,
17 [bis]). Nel quarto vangelo (Gv), il vocabolo manca del tutto. Il maggiore numero di presenze
si ha in Paolo: 46 (di cui 22 in 1 Cor), nelle deuteropaoline ossia lettere pastorali 16 e in Atti
degli Apostoli 23. Mentre nella lettera agli Ebrei se ne trovano 2, nelle lettere cattoliche, il
vocabolo compare soltanto in 3 Gv (3 volte) e in Giacomo (1 volta). Delle 20 presenze che si
anche J.Y. CAMPBELL, The Origin and the Meaning of the christian Use of the Word ™kkles…a, in Journal of
Theological Studies 49 (1948) 130-142.
28
Cf. A. ANTÓN, La Iglesia de Cristo. El Israel de la Vieja y de la Nueva Alianza = BAC Maior 15
(Madrid, Edica 1977) 70-109; J. HOFFMANN, La Chiesa e la sua origine 57-58; K. KERTELGE, La realtà della
Chiesa nel Nuovo Testamento, in W. KERN – H.J. POTTMEYER – M. SECKLER (a cura), Corso di teologia
fondamentale, III 107-110 [106-135]; J. RATZINGER, La Chiesa 21-22.
18
hanno nell’Apocalisse, 19 si trovano in espressioni convenzionali nel contesto delle sette missive
inviate appunto alle Chiese (Ap 1-3)29
. La parola ™kklhs…a nel NT designa innanzitutto una
comunità particolare o locale (sicché se ne ha pure il plurale, ™kklhs…ai), ma anche la Chiesa
intera o universale, poiché la molteplicità delle comunità non pregiudica l’unità della Chiesa di
Dio in quanto tale, sostanzialmente presente in ciascuna delle sue realizzazioni particolari. Se
essa prende corpo secondo una forma sociale e pubblica, la sua esistenza, però, dipende
unicamente da Dio che la suscita e che le dà la vita, e il modo stesso in cui si realizza è
espressivo della sua identità di comunità credente, suscitata e determinata da una Parola che
viene ad essa e che essa riceve nella fede30
.
Dopo queste considerazioni terminologiche e lessicografiche preliminari a proposito della
parola ™kklhs…a, si può ora esaminarne le forme di apparizione nell’AT.
1.2.1. Forme di apparizione dell’™kklhs…a nell’AT
Le diverse forme di apparizione dell’™kklhs…a nell’AT che vengono ripresi dal NT
rappresentano una gamma variegata di possibili concretizzazioni storico-teologiche della
medesima complessa realtà ecclesiale che, in fondo, non può essere ricondotta a nessun
denominatore comune, perché ognuna si fa carico di un significato ben specifico. Per questo
motivo, dobbiamo esaminare separatamente le principali di queste forme31
.
1°) Il popolo di Dio: In adempimento della promessa veterotestamentaria (cf. Am 9, 11
ss.), nel NT Dio si preoccupa di “trarre dai pagani (= œqnh, nazioni) un popolo (= laÒj) riservato
al suo Nome” (At 15, 14). Infatti, Dio abiterà in mezzo ad essi e con essi camminerà, sarà il loro
Dio ed essi saranno il suo popolo (cf. 2 Cor 6, 16 ; Eb 8, 10). In questi passi e in altri analoghi
del NT, si tratta sempre di citazioni tratte dall’AT32
; quindi ciò che in esse viene detto dall’antico
29
J. ROLOFF, ™kklhs…a, in DENT, I 1093 [1092-1106]. Si veda anche P. BOLOGNESI, L’uso biblico del
termine ™kklhs…a, in Bibbia e Oriente 36 (1994) 181-184; L. COENEN, Chiesa (™kklhs…a), in L. COENEN – E.
BEYREUTHER – H. BIETENHARD (a cura), Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento (Bologna, EDB 21980) 258-273; P.T. O’BRIEN, Chiesa, in G.F. HAWTHORNE – R.P. MARTIN – D.G. REID (a cura), Dizionario di
Paolo e delle sue lettere (Cinisello Balsamo, San Paolo 1999) 213-226; J. SCHMID, Chiesa, in H. FRIES (a cura),
Dizionario teologico, I 216-229; K.L. SCHMIDT, ™kklhs…a, in GLNT, IV 1497-1498 [1490-1580].
30
Cf. J. AUER, La Chiesa, in J. AUER – J. RATZINGER, Piccola dogmatica cattolica, VIII (Assisi, Cittadella
1988) 83-84; S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa 76-82; J. HOFFMANN, La Chiesa e la sua origine 57-59;
J. WERBICK, La Chiesa 47-53.
31
Cf. N. FÜGLISTER, Strutture dell’ecclesiologia veterotestamentaria, in AA.VV., Mysterium Salutis, VII.
L’evento salvifico nella comunità di Gesù Cristo (Brescia, Queriniana 1972) 25-62.
19
Israele è qui applicato al popolo di Dio della nuova alleanza. Per di più, la parola laÒj usata per
indicare il “popolo” è quella scelta apposta dai traduttori greci dell’AT e divenuta termine tecnico
per connotare Israele che, in quanto “popolo di JHWH” (= laÒj Qeoà o Kur…ou), si distingue
dai popoli (pagani) e dalle nazioni (= œqnh). Ad esso, nella Bibbia ebraica, corrisponde il
sostantivo ‘am elohim (il “suo” popolo, con idea di parentela, di legame tribale o gentilizio,
connotando altresì l’idea della comunione di vita e di destino). I membri del popolo di Dio sono
perciò legati dal fatto di essere insieme uniti nella comunione fraterna di un centro divino, al di
fuori del quale si corre il rischio di dissolversi (cf. Gn 11, 6). Alla base c’è dunque la concezione
di un patto (= berit) che fonda la coscienza di appartenenza tra un Dio-padre e un gruppo umano
come giustificazione di una continua comunione di vita nel senso nomade, la quale si esprime
mediante il rapporto di parentela. In virtù della sua origine nomade, Israele appare
essenzialmente come il popolo peregrinante di Dio. Il suo Dio, in quanto Dio dei suoi padri
nomadi, è un Dio che guida, un Dio che non si lascia porre e fissare in un luogo, ma accompagna
i suoi nei loro spostamenti attraverso gli spazi e i tempi, è con loro e con loro cammina: è un
“Dio dell’esodo”. Per di più, in quanto “truppa” o “schiera di soldati” di JHWH, il popolo è
l’esercito da condurre alla guerra, e, come Israele nel deserto, da spostare da accampamento in
accampamento. Questo aspetto agonale del concetto di popolo e di Dio si trova in tutti gli stadi e
in tutti gli strati dell’AT, e ha contribuito non poco a configurare Israele come nazione (cf. Es 7,
4; 12, 41; Nm 1 s.; 10; Gdc 5, 13.23). L’Israele primitivo nel deserto è dunque insieme comunità
attorno al santuario ed esercito sul campo di battaglia, e la sua storia viene rappresentata
appunto come una guerra santa. Questa peculiarità di Israele come popolo guerriero costituisce
il fondamento biblico per la concezione cristiana della “militia christiana” della “Chiesa
militante” (cf. Mt 10, 34 s. e par.; Ef 6, 10-17).
2°) La federazione delle tribù: Nonostante tutte le vicende della sua storia millenaria
che l’hanno portato ad una progressiva riduzione, Israele è e rimane il popolo delle dodici tribù.
Per questo la Chiesa neotestamentaria, come Israele di Dio (cf. Gal 6, 16), è il nuovo popolo
delle dodici tribù (cf. At 26, 6 s.; Gc 1, 1; Ap 7, 4-8), fondata e rappresentata dai dodici apostoli
32
Cf. Rm 9, 25 s. // Os 2, 25; 2 Cor 6, 16 // Lv 26, 12 // Ez 37, 27; Tt 2, 14 // Es 19, 5 s. // Dt 7, 6 // 14, 2;
Eb 4, 9 // cf. Sal 95, 7; Eb 8, 10 // Ger 31, 33; Eb 10, 30 // Dt 32, 36; Eb 13, 12 // cf. Lv 22, 32 s.; 1 Pt 2, 9 s. // Es
19, 5 s.; Ap 18, 4 // Is 48, 20 // 52, 11 // Ger 51, 45; Ap 21, 3 // Ez 37, 27 // Zc 2, 14; ecc. Sul concetto di popolo di
Dio, vedere CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen Gentium, cap. II: Il popolo di Dio (= COD 855-
862); M.-D. CHENU, La Chiesa popolo messianico = Il chicco di senape 3 (Torino, P. Gribaudi 1967); G. GRIECO, La
Chiesa, popolo di Dio e corpo di Cristo (Padova, Messaggero 1974); W. HENN, Church. The People of God
(London-New York, Burns & Oates 2004); G. LOHFINK, Dio ha bisogno della Chiesa ? Sulla teologia del popolo di
Dio = L’Abside. Saggi di teologia 25 (Cinisello Balsamo, San Paolo 1998); F. MUSSNER, Il popolo della promessa
(Roma, Città Nuova 1982); D. NOVAK, L’elezione di Israele. L’idea di popolo eletto = Biblioteca di cultura religiosa
64 (Brescia, Paideia 2001); M. VIDAL, L’Église, peuple de Dieu dans l’histoire des hommes (Paris, Centurion 1975).
20
(cf. Mt 10, 2 e par.; Mt 19, 28; At 11, 26; Ap 21, 12.14). Il fondamento di questa caratteristica del
popolo di Dio va ravvisato ancora una volta nella sua origine nomade (o seminomade). Per un
popolo peregrinante di nomadi, cioè di pastori erranti (cf. Eb 3, 7 – 4, 1; 13, 14),
l’organizzazione statale è qualcosa di secondario e accidentale. I nomadi, inoltre, possono
muoversi soltanto in piccoli gruppi. Queste cellule sociologiche primitive sono i singoli clans o
le singole grandi famiglie (“case paterne”). Esse, in tutti gli stadi della storia d’Israele, sono
rimaste le unità primarie di volta in volta più o meno chiaramente emergenti, dove peraltro si
celebrava la festa della pasqua. Tuttavia le singole famiglie sono unite tra loro, per lo più in virtù
di relazioni di parentela, per formare le “stirpi” che, a loro volta, possono raggruppassi in “tribù”.
Diverse tribù poi, in virtù di interessi comuni o spinte dalla necessità, aspirano a riunirsi tra loro
in confederazione: si tratta qui di una confederazione di dodici tribù che si consideravano
particolarmente omogenee, dovendo rappresentare la totalità d’Israele, ben prima del periodo
della sedentarizzazione. La parentela più o meno stretta che regna tra queste tribù viene
considerata in base ad un sistema genealogico almeno parzialmente artificiale. Tutte le dodici
tribù d’Israele hanno comunque il loro “padre” comune in Giacobbe-Israele (cf. Gn 32, 29), da
cui la federazione delle tribù ha tratto il suo nome: Israele è la casa (cioè la famiglia) di
Giacobbe. Così l’idea di solidarietà, determinata dalla salvezza divina e dalla conclusione
dell’alleanza vissute insieme, ricevette anche una fondazione genealogica, in quanto nella storia
dei patriarchi tutti gli Israeliti vennero visti come fratelli, discendenti da un unico padre. Il
santuario comune, costitutivo per la confederazione di Israele (cioè la cosiddetta
¢mfiktuon…a)33
, è l’arca dell’alleanza, considerata come il trono di JHWH e che, nel periodo
anteriore alla fondazione dello stato, non era legata ad alcun luogo particolare. A sua volta, l’idea
di un santuario comune implica una fede sostanzialmente identica nel Dio comune a tutte le
tribù, nonostante l’esistenza delle specifiche esperienze e tradizioni storico-salvifiche delle
singole tribù. A questa fede che tende a formare una comune coscienza storica fanno
necessariamente parte comuni abitudini cultuali e principi giuridici che regolano la vita d’Israele
(cf. Gs 24, 18-25; 2 Sam 13, 12; Gdc 19, 30; 20, 6.10; ecc.). Questa comunità di fede, di culto e
33
È invalsa l’abitudine di chiamare anfizionia (dal greco ¢mfiktuon…a) l’unione confederativa delle dodici
tribù d’Israele. Con questo concetto, mutuato dall’antichità classica, viene designata l’unione antichissima di più
genti o tribù in una lega sacra, con un santuario comune come punto di riferimento. Per queste leghe il numero
dodici dei membri partecipanti è caratteristico, siano esse greche o itale; e ciò si spiega col fatto che ad ognuno di
essi era affidata a turno per un mese la cura dei santuari. Cf. G. FOHRER, Altes Testament-“Amphiktyonie” und
“Bund” ?, in Studien zur alttestamentlichen Theologie und Geschichte = Beihefte zur Zeitschrift für die
Alttestamentliche Wissenschaft 115 (Berlin, W. de Gruyter 1969) 84-119; N. FÜGLISTER, Strutture dell’ecclesiologia
veterotestamentaria 31-32; M. NOTH, Das System der zwölf Stämme Israels = Beiträge zur Wissenschaft vom Alten
und Neuen Testament V/1 (Stuttgart, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1930).
21
di diritto portava ad una comunità di azione più o meno ampia: ciò succedeva soprattutto di
fronte alle minacce comuni. Allora la comunità di fede diventava una comunità guerriera, il cui
centro, come nel servizio religioso, era costituito dall’arca dell’alleanza. In questo senso, la
confederazione delle dodici tribù non s’identifica più solo con il concetto genuino di popolo di
Dio come fraternità ma anche come unità guerriera: l’unione d’Israele costituita dalle genealogie
mediante la fede comune è diventata il popolo di JHWH.
3°) Il resto santo: Israele, come popolo di Dio, era e sarà sempre come un’entità ideale,
quindi non tanto come un fatto sociologico-politico quanto un postulato teologico. Ciò significa
che il concetto di popolo d’Israele, visto nell’ottica dell’alleanza, è astratto dalla categoria del
tempo, è sovratemporale. Quindi non conta tanto l’incremento demografico, lo sviluppo o il
declino storico, perché il popolo d’Israele è un’entità aperta. In mezzo a tutte le vicende della
storia d’Israele, rimane sempre quel “resto”, quella realtà spirituale che solo mediante una
continua concentrazione e riduzione può essere garantita. Il resto concentra sempre in sé la vita e
la promessa della comunità. Ogniqualvolta compare, il “resto” rappresenta, per quel dato
momento storico, il popolo di Dio, e quindi l’erede delle promesse, della rivelazione e del piano
salvifico di Dio (cf. Gn 18, 16-33; 1 Re 9, 14.18; 2 Re 19, 4; Is 1, 9 // Rm 9, 29; Is 6, 12 s.; 46, 3;
Ez 9, 8; 11, 13; 14, 21 s.; Am 3, 12; 4, 11; 5, 3.15; Zc 8, 11-15; Esd 9, 8.13.15; Ne 1, 2 s.; ecc.)34
.
La concentrazione per riduzione è una legge fondamentale della storia della salvezza: la salvezza
non avviene solo nella disgrazia ma anche mediante essa. L’aspetto della scelta e della divisione,
del giudizio come crisi è costitutivo della tematica del “resto”. Israele deve la sua esistenza e
peculiarità ad un progressivo processo di elezione e di differenziazione, mediante la riduzione
per eliminazione. Israele infatti ha bisogno, per rimanere fedele alla sua natura e alla sua
missione, di una progressiva purificazione che giudichi e discrimini. Soltanto così l’infedeltà
viene superata dalla sempre maggiore fedeltà di Dio. I credenti (cf. Is 7, 2-9; 28, 16) sono coloro
che ritornando (cf. Is 7, 3; 10, 21 s.) si rivolgono decisamente a JHWH, aderiscono a lui, a lui
solo. Ciò che l’intero popolo avrebbe dovuto fare, lo farà il resto. Il resto sarà ciò che l’intero
Israele avrebbe dovuto essere: è quindi il “vero Israele”. Questo significa che il popolo come
totalità cerca una sicurezza umana per la propria esistenza, mentre solo il resto vi rinuncia per
34
L’idea escatologica (cf. Is 4, 3; 10, 20-23 // Rm 9, 27 ss.; Is 11, 10 ss.; 28, 5 s.; Ger 23, 3 ss.; 31, 2.7; Dn
12, 1) che presenta il “resto” come entità futura appare anche nell’apocalittica intermedia tra i due testamenti (cf. 4
Esdras 9, 7 s.; 12, 32 ss.; 13, 48; Apocalisse siriaca di Baruc 40, 2 s.) e la setta di Qumran, convinta di essere essa
sola l’Israele rimasto fedele, si considererà il “resto” purificato in un senso esclusivo ed elitario. Al contrario, nel
rabbinismo il concetto di resto non è rilevante. Cf. A.-M. DENIS, Évolution des structures dans la secte de Qumrân :
aux origines de l’Église = Recherches bibliques 7 (Bruges 1965) 23-49; N. FÜGLISTER, Strutture dell’ecclesiologia
veterotestamentaria 34-35.
22
confidare solamente in JHWH e tributargli la gloria che gli compete (cf. Is 7, 9; 8, 16; 28, 16 s.).
Il resto non è tuttavia l’ultima cosa: esso, come “ceppo”, deve diventare una “semenza santa” (cf.
Is 6, 13; 37, 31 s.; Ger 23, 3; Esd 9, 2), la cellula del nuovo, che è insieme il vero antico, il
popolo di Dio, il popolo dei santi dell’Altissimo (cf. Dn 7, 18.27). Su questo piccolo resto riposa
sempre la speranza di sopravvivenza dell’intero Israele.
La Chiesa è per la sua essenza e la sua missione, in quanto “piccolo gregge” (cf. Lc 12,
32) di quelli che sono giunti alla fede in Cristo (cf. Rm 9-11), il “santo resto” nel vero senso della
parola.
4°) La diaspora: Il “resto” si compone dei salvati attraverso il giudizio. Si tratta dei
salvati dalla catastrofe del crollo, che ha dapprima distrutto il Regno del Nord, Israele (734 e 721
avanti Cristo) e poi quello del Sud, Giuda (597 e 586 avanti Cristo), nell’esistenza dell’esilio.
D’ora in poi, Israele è nella dispersione (= diaspor£). Il concetto designa gli Ebrei che vivono
nella dispersione, cioè fuori della Palestina ed implica l’idea di una minoranza religiosa, o
religioso-nazionale, che viva nell’ambito di un’altra comunità religiosa od anche politica. La
diaspora è quindi una delle forme di apparizione ed esistenza del popolo di Dio, nell’AT come
nel NT, che indica la sua essenza profonda di popolo peregrinante di Dio sulla terra (cf. Dt 26, 5
s.; Eb 11, 8-16). L’essere-straniero sulla terra, anche se abita nella terra promessa, è avvertito
dall’ebreo come situazione umana, e quindi ecclesiologica (cf. Sal 39, 13; 119, 19; 1 Cr 29, 15).
Il cristiano pure non si trova soltanto nella dispersione, ma vive in questo mondo come un tempo
Israele viveva in Egitto e in esilio, fondamentalmente come pellegrino e straniero (cf. 1 Pt 2, 11;
Fil 3, 20), e in quanto tale, appartiene al popolo peregrinante di Dio (cf. Eb 3, 7 – 4, 11). La
situazione di dispersione è la conseguenza e l’attuazione del bando (= gôlâ o galût): la diaspora
d’Israele “nel deserto dei popoli” (Ez 20, 35) è la triste conseguenza del peccato visto come
rottura d’alleanza, una punizione e una maledizione che pesa su Israele (cf. Dt 28, 62-68; 2 Re
17, 7-23). Comunque la gôlâ non è la fine. L’attività giudicatrice di Dio è orientata anche qui alla
salvezza : il popolo purificato nel e mediante l’esilio – il “santo resto” – può e deve far ritorno; il
disperso alla fine dei tempi, sarà raccolto definitivamente e per sempre (cf. Is 11, 11 s.; Ez 11, 17;
At 2, 5-12). L’Israele della fine, raccolto dal resto disperso, come popolo delle dodici tribù
ricostituito, sarà uguale all’Israele delle origini. Tutto ciò rimane promessa anche nel NT, benché
in parte realizzata: Gesù, infatti, è morto e esaltato come segnale messianico che attira tutto a sé
(cf. Mt 24, 30; Gv 12, 32), “per ricondurre all’unità i figli di Dio dispersi” (Gv 11, 52; cf. Dt 30,
4; Zc 2, 10; Mt 24, 31 e par.). Ma già sulla terra, l’istituzione della sinagoga appare come luogo
di riunione dei dispersi e punto di cristallizzazione delle comunità locali. In quanto tale, la
23
sinagoga è stata probabilmente importata in Palestina dall’esilio di Babilonia. Ad ogni modo,
data l’impossibilità del culto sacrificale legato al tempio lontano e distrutto, è di grande
importanza il fatto che durante l’esilio nella casa del profeta stesso si fosse creato un nuovo
centro per la comunità in cui si radunavano gli anziani e altri membri della colonia babilonese
per ascoltare una parola di JHWH o per consigliarsi su qualsiasi questione. Le Scritture, che ora
vennero raccolte e attualizzate nella meditazione e nella predicazione contenevano la storia
d’Israele, la promessa di salvezza e la legge (= torah) che dava forma all’intera vita ebraica. Così
la comunità domestica e locale del NT che si raduna attorno al Signore riceve una nuova
giustificazione veterotestamentaria.
5°) La comunità cultuale: L’AT e il NT sono concordi nell’affermare che non va mai
perduta l’idea della grande comunità d’Israele, nonostante l’esistenza delle assemblee locali,
costituite in seguito alla situazione di esilio e di diaspora. Il popolo di Dio, Israele, è una realtà
sussistente e da realizzare già nel presente, e non solo una speranza escatologica. Accogliendo il
concetto deuteronomistico di popolo di Dio, lo scritto sacerdotale concepisce Israele come la
grande comunità cultuale che abbraccia tutte le dodici tribù. Questo scritto sacerdotale e la
letteratura postesilica che ne dipende usano al riguardo soprattutto il termine eda, non senza
ricorrere però a volte anche al più deuteronomistico qahal. Entrambi i sostantivi ebraici, anche se
in qahal (= bando) può emergere più il momento attivo e in eda (= comunità radunata) quello
passivo, vengono usati sempre più come sinonimi e designano, sia nel lessico profano sia in
quello religioso, l’assemblea come “schiera” o “comunità”. Mentre nell’AT greco eda viene
tradotto quasi sempre con sunagwg», qahal è per lo più reso con ™kklhs…a. Ma come eda e
qahal, anche sunagwg» ed ™kklhs…a, nell’uso profano o religioso, hanno praticamente lo stesso
contenuto espressivo: assemblea, folla, comunità. Si deve tuttavia notare che ™kklhs…a, nella
grecità profana, è termine tecnico per indicare l’assemblea politica dei cittadini delle città-stato
greche, mentre nel greco giudaico sunagwg» è diventato il nome fisso per indicare la sinagoga
come comunità religiosa giudaica e il suo luogo di raccolta. Per questo motivo, può darsi che la
Chiesa neotestamentaria, al fine di distinguere la sua autocomprensione da quella della
“sinagoga”, abbia scelto il termine ™kklhs…a come propria designazione, sia che si tratti della
comunità locale che di quella superlocale abbracciante tutti i credenti. Si deve parlare di una
comunità cultuale o sacrale, quindi di una comunità religiosa e non nazionale: l’organizzazione
statale infatti, la quale per Israele rimase sempre qualcosa di secondario, è dissolta. Dopo la
caduta di Gerusalemme e la fine delle istituzioni politiche, Israele rappresenta una comunità
religiosa amministrata dalla sua legge religiosa e dal governo dei suoi sacerdoti. C’è quindi una
24
specie di governo teocratico nel quale si conferma un’antica concezione: Israele ha Dio per suo
re (cf. 1 Sam 12, 12; sulla monarchia: Gdc 9, 8-15; 1 Sam 8-12). Dopo il crollo della nazione,
sorge così il giudaismo come comunità religiosa, così come prima della nascita della nazione era
sorto il patto religioso tribale. Come già prima della conquista del paese, della formazione dello
stato e dell’edificazione del tempio, Israele era stato il popolo di JHWH, così anche ora che era
senza paese, senza re e senza tempio, esso poteva rimanere il popolo di Dio. Il prototipo della
“comunità” (eda) è il popolo delle dodici tribù che, accampato nel Sinai, si organizza attorno alla
tenda della rivelazione e di là parte per altre mete. Questa specie di “assemblea originaria”
sinaitica viene di volta in volta riattualizzata nell’oggi cultuale del rinnovamento dell’alleanza35
.
Quattro elementi costitutivi rendono Israele una comunità cultuale:
- la chiamata o la convocazione di JHWH, per cui Israele è la “comunità di
JHWH”, la “chiesa del Signore” (cf. Nm 20, 4; 27, 17; 31, 16; Sal 74, 2);
- la comunità si schiera nella tenda-santuario attorno a JHWH, che la convoca e
chiama a sé: al suo centro sta JHWH (cf. Nm 16, 3);
- in mezzo alla comunità e per la comunità si manifesta JHWH che comunica la
sua volontà, soprattutto tramite la legge;
- la comunità è quindi “cultuale” perché si raccoglie per l’attività cultuale
mediante la quale essa viene rinnovata e sempre più santificata da Dio.
6°) La città santa: dopo l’esilio, il tempio, Sion e Gerusalemme diventano i concetti
quasi sinonimi per indicare il luogo della presenza di Dio e della sua rivelazione e quindi del suo
agire benefico percettibile specialmente nel culto. Dalla tenda-santuario si passa quindi all’unico
tempio di Sion e/o di Gerusalemme che costituisce il punto centrale di raccolta e di sicurezza
della “comunità” (cf. Es 15, 1-18; Is 1, 8 s.; 14, 32; 26, 1 s.; Zc 8, 1-6; 14, 2; Sal 78; Esd 9,
8.13.15). Sion e Gerusalemme (cf. Is 46, 13; Sof 3, 14 s.; Sal 149, 2) sono usati come paralleli o
sinonimi di Israele per indicare la città di Dio, non solo come un dato puramente storico-
35
Si può certamente trovare altre forme di apparizione della comunità sacrale: ad esempio, nella
descrizione e legislazione sacerdotale della pasqua (cf. Es 12, 3.6.19.47), si parla per la prima volta di Israele come
“comunità”. Eda è sempre la comunità d’Israele dal momento della prima pasqua in Egitto, la quale fece da preludio
alla liberazione dalla schiavitù egiziana. Nella celebrazione annuale della pasqua, Israele si costituisce nuovamente
come “comunità cultuale”, allo stesso modo che la Chiesa si realizza in occasione e mediante l’eucaristia, concepita
in analogia con la pasqua. Deuteronomistica è la designazione di Israele, radunato per la consacrazione del tempio di
Salomone, come “comunità” (cf. 1 Re 8, 14.22.55; Ne 8, 2.17; Sal 22, 23.26). Nell’epoca tra i due testamenti, la
comunità di Qumran si considera pure come l’“assemblea (qahal) di Dio”, la “comunità (eda) dei poveri” o la
“comunità degli eletti di Jahvé”, edificata per Jahvé dal cosidetto Maestro di giustizia. Si veda anche qui N.
FÜGLISTER, Strutture dell’ecclesiologia veterotestamentaria 44 e più in genere J.H. CHARLESWORTH, Gesù e la
comunità di Qumran (Casale Monferrato, Piemme 1997); J. DANIÉLOU, Les manuscrits de la mer morte et les
origines du christianisme = Livre de vie 121 (Paris, Éd. de l’Orante 21974); K.H. SCHELKLE, La comunità di
Qumran e la Chiesa del Nuovo Testamento = Collana Scritturistica (Roma, Città Nuova 1970).
25
geografico, ma anche come simbolo del popolo eletto di Dio (cf. Is 51, 16), del regno di Dio, in
cui è personificata la comunità intera in tutto il mondo e in ogni tempo. In virtù della speranza
messianica e escatologica del popolo di Dio, la città santa (= ƒerÒpolij) che è insieme città
madre (= mhtrÒpolij) di Gerusalemme/Sion costituisce il punto finale di realizzazione della
grande assemblea alla fine dei tempi per tutti gli Israeliti (cf. Is 27, 13; 60, 1-9; Tb 14, 5). Qui si
trova il punto d’aggancio per la concezione della Gerusalemme celeste o superiore, documentata
dall’apocalittica intermedia tra i due Testamenti, e di cui farà tesoro il NT (cf. Gal 4, 26; Eb 12,
22 s.; 13, 14; Ap 21, 1.12).
7°) Il regno di Davide: Sion/Gerusalemme e il suo santuario, nell’AT, sono
strettissimamente congiunti con il regno davidico. La città di Dio è al contempo la città di
Davide. Questi, conquistandola, ha reso Gerusalemme sua proprietà personale e patrimonio
regale della sua dinastia, fino allora città cananeo-gebusaica. E il santuario di Sion, in quanto
parte costitutiva del palazzo reale, è anzitutto il santuario privato della dinastia davidica, che poi,
con la traslazione dell’arca dell’alleanza, è divenuto il palladio della confederazione delle dodici
tribù, il santuario centrale e il tempio del regno. Ciò significa che, nella misura in cui l’elezione
di Gerusalemme e di Davide vengono viste congiuntamente (cf. Sal 78, 68-72; 132, 1-17), il re
davidico e quindi il messia diventa il re di Sion (cf. Zc 9, 9), e la sede di Dio diventa il trono del
re (cf. Sal 2, 6; 110, 1 s.). Con il regno (cf. Dt 17, 14; 1 Sam 8, 5.20), Israele – e quindi
l’™kklhs…a veterotestamentaria – si presenta in una nuova forma organizzativa socio-politica: in
quella del regno (= mamlaka) e quindi della nazione e dello stato. Il presupposto di ciò era la
presa di possesso del paese, con la conseguente organizzazione territoriale richiesta dalla
sedentarizzazione: l’originaria autonomia e libertà delle tribù scompare davanti alla nascita di
uno stato dinastico; la struttura sociale, d’ora in poi gerarchizzata, viene trasformata; inizia un
processo di secolarizzazione dettato dal calcolo politico; l’unità geografica si rivela più
importante di quella del sangue e della fede, per cui ha luogo lo sviluppo di una popolazione
mista non senza pericoli per la peculiarità d’Israele. Contro questo stato di cose si scatenano le
correnti ostili alla monarchia (cf. Dt 17, 14-20; 1 Sam 8, 1-22; 10, 18-25; Is 40-55; Ez 43, 7 s.;
45, 7; Os 7, 3-7; 8, 4.10; 10, 15; 13, 9 ss.), e il cammino si fa sempre verso forme di vita
premonarchiche. In realtà anche lo stato, e quindi la regalità, nel complesso della storia d’Israele
è una forma di apparizione, tanto secondaria quanto transitoria, del popolo dell’alleanza: un
modo di organizzazione d’Israele certamente possibile dal punto di vista storico ma anche
estremamente precario. Tuttavia, l’era davidico-salomonica, vista evidentemente in un’ottica
celebrativa, ha potuto essere trattata come un’epoca ideale per Israele, cristallizzando la
26
speranza nell’attesa messianica del popolo di Dio, che deve vivere nel proprio paese sotto il
proprio re. Come tutte le altre realizzazioni neotestamentarie di questa attesa, si fa riferimento
anche al regno di Davide illustrando l’evento-Cristo (cf. Lc 1, 32 ss. // 2 Sam 7, 16): il Figlio di
Davide non erige soltanto il nuovo e definitivo santuario; egli, come luogo della definitiva
presenza e dell’incontro con Dio, è nella sua stessa persona il tempio nuovo e definitivo e quindi
la sorgente della benedizione e della salvezza escatologica (cf. Gv 3, 19.21; 7, 37).
8°) Le due case d’Israele: Il regno di Davide è stato un episodio. Dopo la morte di
Salomone avvenne la divisione del regno, il grande scisma: il grande impero davidico-
salomonico (ca 1000-930 avanti Cristo) si divise nel regno del Sud e in quello del Nord, l’unica
casa di Giacobbe nelle due case di Israele (cf. Is 8, 14.17). Sorsero così i due stati, politicamente
autonomi, di Giuda (930-586) e di Israele (930-722). Il popolo di Dio diviso in due costituisce
anch’esso una forma di apparizione dell’™kklhs…a. Lo “scisma” visto come la grande catastrofe
che precipitò sul popolo di Dio (cf. Is 7, 17), è da una parte la conseguenza della defezione
umana, più precisamente la conseguenza della defezione del re, il quale invece di essere un
mediatore di salvezza diventa mediatore di sciagura (1 Re 11, 31 ss.; 12, 1-19). La divisione –
visibile tramite la disgregazione della confederazione delle tribù del Nord e del Sud –
corrisponde alla disposizione della volontà di Dio, manifestata attraverso un profeta (cf. 1 Re 11,
29-39; 12, 15.24; 14, 7 s.; 16, 2 s.). Al pluralismo etnico-tribale corrisponde un pluralismo
teologico delle tradizioni: ogni tribù, ogni gruppo di tribù ha le sue tradizioni e quindi la sua
specifica “teologia” e “spiritualità”. Lo si può vedere se si confrontano le fonti redazionali
(Jahvista e scritto sacerdotale: J e P) e i profeti (specialmente Amos e Isaia) originari del Sud con
le fonti (Elohista e la parte fondamentale del Deuteronomio: E e D) e i profeti del Nord
(soprattutto Osea e Geremia). Unità nella molteplicità, molteplicità nell’unità; poiché,
nonostante il dualismo politico e la diversità delle tradizioni, ci si sente sostanzialmente uniti
come “fratelli” (cf. 1 Re 12, 24; 2 Cr 28, 11): nella fede nell’unico Dio, nella fede in JHWH, il
Dio comune di Israele (cf. 2 Re 1, 2 ss.). Così, al di sopra di tutte le lacerazioni politiche del
tempo dei re, rimane viva l’idea religiosa dell’unione delle dodici tribù, la cui futura
ricomposizione è attesa dai profeti (cf. Is 11, 11 ss.; Ger 3, 18; 23, 5-8; Ez 37, 15-22; Os 2, 2;
Mic 4, 8; Zc 9, 10; ecc.). Questa ricomposizione equivale ad una nuova creazione per cui è
un’azione salvifico-escatologica di JHWH, che sarà preceduta dal giudizio (cf. Is 11, 13; Ger 3,
6-13; Ez 23, 1-49; 37, 21 ss.). Nel NT, questo principio di unificazione, benché operante già
all’interno della storia (cf. Ef 4, 4-6: un solo Dio che agisce per mezzo di tutti ed è presente in
tutti), è in fondo pure un’entità escatologica (cf. Ap 5, 5 s.: l’Agnello sacrificato e glorificato, che
27
è insieme “il leone di Giuda, la radice di Davide”), attorno alla quale si raccoglierà per sempre il
nuovo popolo delle dodici tribù (cf. Ap 7, 4-9).
9°) Il regno di Dio: Anche l’idea neotestamentaria di “regno di Dio” è profondamente
radicata nell’AT. Ma come nel NT il “regno di Dio” non può essere identificato con la Chiesa,
così già nell’AT malkût JHWH (o l’equivalente greco basile…a toà Qeoà) non può essere
semplicemente identificato con il popolo di Dio, Israele: non si tratta di un regno di Dio nel
senso di un territorio da lui dominato (eccetto forse negli scritti veterotestamentari più recenti
come Ester e Daniele), quanto piuttosto la regalità di Dio, la sua dignità e sovranità regale. Però
in quanto JHWH, la cui gloria regale sono già riempiti il cielo e la terra (cf. Is 6, 1-5), è re
d’Israele in un modo speciale (cf. 1 Sam 8, 7; 12, 12; Is 33, 22; 41, 21; 43, 15; 44, 6; Ger 8, 19;
Sal 24, 7-10; 47, 3 ss.), a ragione Israele può essere detto il reame di JHWH (cf. Sal 114, 2; come
anche Es 19, 6; Is 6, 1-5; 24, 23; Ger 8, 19; Mic 4, 7; Sof 3, 15; Zc 14, 9.16 s.; Sal 17, 14; 48, 3;
99, 1; 110, 1; 1 Cr 13, 8; 17, 14; 28, 5; 29, 23). Questa regalità universale e onnicomprensiva di
Dio, che si estende in modo particolare su Israele, è anzitutto un fatto presente. Si fonda sulla
virtù salvifica redentrice di JHWH, che del resto viene vista e descritta in analogia con l’azione
creatrice (cf. Es 15, 18; Is 6, 1-5; 43, 15; 44, 6; Sal 5, 3; 84, 4; 114, 2), che è sempre richiamata e
riattualizzata nella rappresentazione cultuale, anticipando il futuro dominio pieno di Dio. Si
tratta di un’anticipazione poiché, anche a motivo delle dolorose esperienze di fallimento nel
mondo, ci si attende la manifestazione definitiva della gloria e della sovranità di Dio che, per
principio, sono già ora invisibilmente presenti (cf. Zc 14, 9.16). In quanto Israele, il popolo di
Dio parteciperà in maniera speciale alla regalità escatologica di Dio, che si oppone ai regni
terreni, li dissolve e trascende (cf. Sal 149; Dn 7, 18.27; Sap 3, 8). Ciò significa che la comunità
teocratica incomincia a considerarsi membro del regno celeste di JHWH, per poter apparire, al
momento della svolta escatologica, come parte costitutiva del nuovo eone, mentre passa l’essere
di questo mondo36
. Qui anche l’AT e il NT sono tra loro strettamente vicini: infatti nel NT pure il
regno di Dio è un fatto simultaneamente già presente e non ancora definitivo, e come tale
concepito come fatto che viene (cf. Mt 19, 28; Lc 22, 28 ss.; Ap 3, 21; 20, 6). Prevale, infatti, la
logica del già e non ancora: in Gesù il Regno di Dio è già presente, ma la sua manifestazione
definitiva non è ancora in via di compimento.
36
Cf. S. WIEDENHOFER, La Chiesa 61: “Le espressioni che indicano la forma sociale della fede di Israele
designano tanto una realtà empirica, l’Israele concreto con le sue condizioni di vita storiche, politiche, sociali e
culturali, come pure una realtà ideale e normativa della fede, l’Israele di Jhwh; esse indicano infine anche una realtà
escatologica, la sperata e attesa nuova comunità di Jhwh”. Il corsivo è nostro in questa citazione.
28
1.2.2. Il rapporto d’Israele con Dio
Dopo aver esaminato le forme di apparizione dell’™kklhs…a veterotestamentaria, si deve
approfondire la comprensione teologica del rapporto d’Israele con Dio. Infatti, Israele è il popolo
di Dio perché e in quanto sta in un rapporto particolare con Dio il quale, appunto in virtù di
questo rapporto, diventa il suo Dio. JHWH, Dio d’Israele, è il Dio che esiste, che è presente per il
suo popolo, nel suo popolo, mediante il suo popolo. E viceversa, Israele esiste mediante e per il
suo Dio. Esso è proprietà di Dio, partner dell’alleanza con Dio, santuario di Dio.
1°) Israele come proprietà di Dio: Israele esiste per il suo Dio per opera sua. Esso è
proprietà di Dio in quanto sua creatura, opera da lui realizzata per se stesso. JHWH è il
“creatore” d’Israele (cf. Is 43, 1.7), egli ha “fatto” (cf. Is 44, 2), “formato” e “plasmato” Israele
(cf. Is 43, 1.7.21; 44, 2.21.24; 45, 11). Inoltre, JHWH si è acquistato e ha liberato Israele tra le
nazioni (cf. Es 6, 6.7; 15, 13.16; Dt 4, 20.34; 7, 8; 13, 6; 24, 18; 32, 6; 2 Sam 7, 23; Ger 31, 32;
Mic 6, 4; Sal 74, 2; 78, 54; 106, 10). Quindi Israele è stato oggetto d’elezione: JHWH si è
“scelto” (cf. Dt 4, 37; 7, 6 s.; 10, 15; 14, 2) in sua proprietà Israele e l’ha “santificato” (cf. Lv 22,
32), stabilendola come sua (porzione d’) “eredità” esclusiva e inalienabile (cf. Lv 20, 26; Dt 4,
20; 9, 26.29; 32, 8.9; 1 Re 8, 51.53; Sal 28, 9; 33, 12; 74, 2; 78, 62.71; ecc.). Questo significa che
JHWH ha amato in modo particolare Israele e i suoi padri (cf. Is 63, 9; Os 11, 1.4; Ml 1, 2) e l’ha
liberato dalla casa della schiavitù (cf. Dt 7, 6 ss.). L’esistenza d’Israele è fondata quindi nella
“grazia gratuita e preveniente” di Dio. In questo contesto si comprendono anche le immagini con
cui l’AT esprime sia il rapporto speciale di Israele con il suo Dio che la relazione particolare tra
Dio e il suo popolo: Israele è la “vigna” (cf. Is 5, 1-7) o “vite” di JHWH (cf. Ger 2, 21; Sal 80, 9
ss.), il suo “gregge” (cf. Is 40, 11; Ger 23, 2 ss.; Ez 34, 1-31; Sal 95, 7); ma soprattutto, mediante
la redenzione, Israele è “servo di JHWH” (cf. Lv 25, 42.55; Is 41, 8; 44, 1; Ne 1, 10) e “figlio di
Dio” (cf. Es 4, 22; Ger 2, 3; Os 11, 1; Sap 18, 13). Israele è inoltre la “sposa” e la “consorte” di
JHWH (cf. Is 50, 1; 54, 4-8; 61, 10; Ger 2, 2; 3, 1 s.; Ez 16; Os 1-3; Ct 1, 1 ss.). Tutti questi temi,
immagini e termini sono stati ripresi dal NT e applicati alla Chiesa.
2°) Il partner dell’alleanza con Dio: Come “servo” e “figlio”, “sposa” e “consorte” di
JHWH, Israele sta in un rapporto di partner con il suo Dio. Per esprimere concettualmente questa
relazione e questo legame esistente tra JHWH ed Israele si parla di “alleanza” (berît). JHWH è il
Dio dell’alleanza di Israele, Israele è il popolo dell’alleanza di JHWH (cf. Dn 11, 22.28.30.32):
“Io sarò il tuo Dio - tu sarai il mio popolo” (Es 6, 7; cf. Lv 26, 12; Dt 26, 17 ss.; 29, 12; 2 Sam 7,
24 // 1 Cr 17, 22; Ger 7, 23; 11, 4; 24, 7; 30, 22; 31, 1; 31, 33 // Eb 8, 10; Ger 32, 38; Ez 11, 20;
29
14, 11; 36, 28; 37, 23; 37, 27 // 2 Cor 6, 16; Zc 8, 8). In questa cosiddetta formula dell’alleanza
(Bundesformel) è espresso in analogia ai contratti di matrimonio, di adozione o legittimazione
dell’antico Oriente (cf. 2 Sam 7, 14; Ger 31, 9; Os 2, 4) il nucleo del messaggio biblico, ciò che
costituisce il fine ultimo e il vero contenuto sia dell’antica che della nuova alleanza: come Israele
è l’“eredità” di JHWH, così JHWH, a sua volta, è la “porzione” dei suoi (cf. Sal 16, 5; 73, 26;
142, 6), e come Israele lotta con e per JHWH (cf. Gdc 5, 2.9.23; 2 Mac 8, 24; 10, 16; 11, 10; 12,
36), così JHWH combatte per Israele; ecc. Si tratta quindi di una comunione di vita e di destino:
Dio e il suo popolo sono strettamente congiunti tra loro. L’affare del popolo è anche l’affare di
Dio e viceversa. Il rapporto reciproco di vita e di comunione che ne scaturisce fonda la
reciprocità dell’amore: JHWH ama Israele e Israele ama JHWH come suo Dio, in quanto è stato
prima amato da lui37
.
3°) Israele come santuario di Dio: Nella misura in cui, come partner dell’alleanza, si
interessa di Israele, Dio si inserisce in Israele, diviene presente nel suo popolo, si realizza, si
concretizza e si “incarna” in e mediante Israele. Infatti, JHWH – il Dio che è presente per i suoi e
diviene continuamente presente di nuovo per salvare (cf. Es 3, 14 s.) – è già nell’AT l’Emanuele,
il “Dio con noi” (cf. Is 7, 14; 8, 8). E così, già nell’AT, “soteriologia”, “ecclesiologia” e
“incarnazione” si condizionano a vicenda e formano una unità indissolubile. Dio diviene
presente nel mondo per il fatto di essere con e tra gli uomini, in mezzo al suo popolo,
accompagnato dalla sua presenza attraverso il deserto (cf. Es 29, 45 s.; 33, 16; 34, 9; Lv 26, 11;
Dt 2, 7; 31, 6; Is 48, 21), verso la terra santificata dalla sua presenza (cf. Nm 35, 34; Ag 2, 4 s.).
Nella misura in cui Israele è il “popolo santo” di JHWH (cf. Lv 11, 44 s.; 19, 2; 20, 26; Nm 15,
40; 16, 3; Dt 7, 6; 14, 2.21; 26, 19; 28, 9), esso, in virtù dell’evento dell’elezione e della
redenzione, in quanto “territorio su cui comanda”, è il “santuario” di Dio (cf. qôdeš: Sal 114, 2; o
ancora Ger 31, 33; Ez 37, 26 ), luogo e sacramento della sua presenza. In termini spaziali, questo
luogo attorno al quale si radunava il popolo israelitico dell’alleanza per celebrare il servizio
religioso e cioè la presenza di Dio, era, nel deserto, la “tenda dell’incontro”, e poi, nella terra
promessa, il “tempio” di Gerusalemme (cf. 1 Re 8, 13; Sal 46). Ma siccome Israele viene sempre
37
Questo rapporto tra Jahvé e il suo popolo viene spesso espresso da tre verbi in reciprocità e che
s’intrecciano strettamente con la tematica vetero-orientale-biblica dell’alleanza : 1°) conoscere (cf. Is 1, 2 s.; Ger 4,
22; 9, 23; 24, 7; 31, 33.34; Os 2, 22; 4, 1; 6, 6; 13, 4 s.; Am 3, 2), 2°) amare (cf. Dt 6, 5; 7, 7 s.; 7, 13; 10, 12.15; 11,
1.22; 23, 6; 30, 20; Ger 31, 3 s.; Os 11, 4), e 3°) essere fedele all’alleanza (hesed come oggetto della berît: Es 34, 6;
1 Re 8, 23; Ger 31, 31-34 // Eb 8, 8-12; Os 2, 21 s.; Ne 9, 32). Inoltre, come nel NT (cf. Mc 14, 24 e par.; 2 Cor 3,
6.14; Gal 4, 24; Eb 7, 22; 8, 6; 9, 14 ss.; 12, 24; ecc.), già negli scritti di Qumran la promessa della nuova alleanza è
considerata adempiuta: la comunità si designa come “la comunità della nuova alleanza”, nella quale si entra
mediante delle pratiche di iniziazione e che ogni anno, forse a pentecoste, veniva rinnovata. Si vedano N.
30
più identificato con Gerusalemme, con il “trono di JHWH” (Ger 3, 17; cf. 14, 21; 17, 12), così il
popolo di Dio in quanto tale diviene il tempio-santuario. Analogamente, nel NT, i cristiani come
nuovo popolo di Dio, sono il “tempio santo del Dio vivente” (cf. 1 Cor 3, 16 ss.; 2 Cor 6, 16 //
Lv 26, 12; Ef 2, 20 ss.; Ap 11, 1 s.), la “casa spirituale” (cf. 1 Pt 2, 5). Cioè, come Israele nell’AT,
così la Chiesa nel NT è il sacramento primordiale di Dio, il vero luogo della sua presenza. Si
deve notare che il termine greco ™kklhs…a (e i suoi equivalenti ebraici) non indica mai nella
Bibbia un edificio, ma sempre il popolo di Dio, più esattamente il popolo di Dio radunato per il
culto, ossia, la “comunità cultuale”, che nella sua preghiera rende concreta la presenza di Dio (cf.
Es 19; 20, 24; 24; Dt 4, 7; 12, 7; 26, 17 ss.; 27, 9 s.; 29, 9-14; Sal 42, 2 ss.; 50, 2-5; 63, 2 ss.; 81;
148, 14). Israele, come la Chiesa, è quindi il santuario di Dio in mezzo al mondo e per il mondo.
1.2.3. La missione d’Israele
Come popolo di Dio, Israele sta nel mondo e vive, in tutte le sue forme di apparizione, tra
i popoli che, a differenza di esso, sono i popoli pagani (i gôjîm, œqnh), in opposizione allo ‘am
JHWH (laÒj Qeoà o Kur…ou). Ed Israele, in fondo, esiste per i popoli, benché vi si
contrapponga: ha una missione che scaturisce dalla sua natura e insieme la costituisce. In quanto
popolo tra i popoli, Israele è il popolo mediatore, al servizio dell’universalismo salvifico di Dio.
1°) Il popolo tra i popoli: Nell’unico e medesimo AT coesistono insieme delle tendenze
particolaristiche e individualistiche che, almeno a prima vista, difficilmente si possono ridurre a
un denominatore comune. Così ad esempio, all’universalismo dello Jahvista (J) e del
Deuteroisaia (cf. Is 40-55) si contrappone il particolarismo del Deuteronomio (D) e dello scritto
sacerdotale (P), e la mentalità da ghetto postesilica di un Neemia, la quale si chiude ad ogni
influenza dall’esterno, contrasta nella maniera più stridente con l’amplissima apertura al mondo
del libretto di Giona, scritto pressappoco nello stesso periodo di tempo. In una cosa tuttavia si è
concordi: il popolo di Dio è senz’altro interamente legato al mondo naturale della creazione, ma
lo è in modo che Israele costituisca il senso e l’obiettivo della creazione nonché il centro del
mondo, perché la storia d’Israele è il centro della storia universale. Da questo fatto deriva che gli
altri popoli sono e devono essere assoggettati a JHWH e ad Israele, e perciò non devono servire
soltanto JHWH, il Dio d’Israele, ma anche Israele stesso (cf. Is 43, 3 s.; 49, 22 s.; 60, 4-16; 61, 5
s.; Ag 2, 6 ss.). Una tale logica si fonda sull’intero agire di Dio nella storia della salvezza e che,
in nessun caso, può essere eliminata, senza perdita di sostanza e di identità, dalla rivelazione
FÜGLISTER, Strutture dell’ecclesiologia veterotestamentaria 70-71, n. 23; A. JAUBERT, La notion d’alliance dans le
31
biblica sia dell’Antico che del Nuovo Testamento. Alla radice di tutto sta il principio
dell’elezione, per il quale un popolo viene separato ed elevato dai popoli per essere, in un modo
del tutto particolare, proprietà di Dio, suo partner nell’alleanza e suo santuario. Il popolo di Dio
si presenta così in opposizione agli altri popoli, lasciati a disparte da Dio (cf. Nm 23, 9), a tal
punto che questa separazione e particolarizzazione deve quasi necessariamente portare al
contrasto, non senza rischio per l’autonomia nazionale e religiosa d’Israele (cf. Sal 83, 3 ss.). In
virtù della sua elezione e separazione Israele è il popolo santo. Questa santità, primariamente
dono di Dio, è insieme un compito, in quanto Israele deve dimostrarsi santo. Se infatti santificare
significa separare, è chiaro che i santificati da Dio, per parte loro, devono distinguersi e tenersi
lontani da tutto ciò che non è santo. Ad esempio, Israele deve sterminare i cananei, distruggerne i
santuari ed evitare di imparentarsi con essi, poiché esso è il popolo santo al Signore (cf. Dt 7, 1-
6; 20, 17 s.)38
. Israele, se non vuole rinnegarsi e quindi perdere la sua missione, deve rimanere
fedele alla sua caratteristica e quindi alla sua diversità, anche con il rischio di essere intollerante.
Però qui, parallelamente alla reazione negativa, non si deve dimenticare il processo positivo di
assimilazione, sia pure integratrice e subordinatrice, per il quale Israele è stato debitore agli altri
popoli, soprattutto per quanto riguarda elementi importanti come il culto e la regalità, insieme
alle attese di salvezza che ne sono congiunte.
2°) Il popolo mediatore: La relazione tuttavia che esiste tra Israele e le nazioni non si
esaurisce nel fatto che i popoli pagani debbano esistere unicamente in vista del popolo di Dio per
servirlo e assoggettarsi ad esso. È vero anche il contrario: Israele esiste per i popoli, è ordinato
ad essi. La separazione dai popoli infatti è necessariamente anche una separazione per essi.
Questa funzione, per la quale Israele è stato eletto, in ultima analisi non può essere altro che una
funzione di salvezza e deve rivolgersi al mondo e all’umanità, quindi ai “popoli”. Questo
significa che, innanzitutto, in quanto l’azione di JHWH in Israele accade di fronte ai popoli, al
cui cospetto JHWH si glorifica (cf. Is 44, 23), Israele riflette e rivela ai popoli la gloria di JHWH,
la sua potenza e forza (cf. Es 7, 5; 18, 10 s.; Dt 4, 6 s.; Gs 2, 9 ss.; 9, 9 ss.; 1 Sam 4, 7 s.; Is 43,
10 s.; 49, 26; 60, 1 ss.; Ez 37, 27). Poi, in quanto Israele è santuario di JHWH, questi diviene
presente in mezzo al mondo tra i popoli. Nel suo culto, Israele è quindi il centro santificatore di
tutta la terra (cf. Is 6, 1 ss.; Ez 47, 1-12; Zc 14, 8 s.). Infine, il popolo di Dio non è soltanto il
recettore dell’agire salvifico di Dio, di maniera che in esso tale azione raggiungerebbe il suo fine.
judaïsme aux abords de l’ère chrétienne = Patristica Sorbonensia 6 (Paris, Seuil 1963) 209-249.
38
Così pure, alcuni divieti, quali per esempio matrimoni misti (cf. Esd 10, 3; Ne 10, 31; 13, 23-28),
mangiare animali impuri o praticare la divinazione, risalgono alla preoccupazione di proteggere Israele da pratiche
32
Israele deve essere nel mondo una sorgente di benedizione per i popoli, secondo la cosiddetta
storia primitiva di Gn 1-11 per esempio: in Abramo e la sua discendenza JHWH benedirà tutte le
nazioni della terra. Così fin dall’inizio, Israele è il mediatore universale della salvezza: Dio non
opera la salvezza del mondo soltanto in e su, ma anche mediante Israele, ciò che verrà detto
anche della Chiesa. Israele è strumento di Dio perché è il suo “servo” (‘ebed), cioè l’eletto di
JHWH, che egli destina e impiega, come suo fiduciario e plenipotenziario, in un determinato
incarico (cf. Is 41, 8 s.; 42, 19; 43, 10; 44, 1 s. 21; 48, 20). Ad Israele vengono attribuite le tre
funzioni tipiche del mediatore di salvezza, in virtù del concetto della personalità corporativa:
Israele, nella misura in cui viene presentato come il popolo di Dio e il servo di Dio, è il
mediatore regale (cf. Is 43, 10.12; 55, 3 ss.; Dn 7, 13 s.), profetico (cf. Is 42, 6.19; 49, 8; Gio 1, 1
ss.; Sap 18, 4) e sacerdotale (cf. Es 19, 5 s. // 1 Pt 2, 9; Ap 1, 6; 5, 10; Is 61, 6)39
della salvezza.
Questo servizio di Dio in mezzo ai popoli e per essi si compie soprattutto nella forma
dell’intercessione (cf. Gn 18, 22-32; 20, 7.17; Es 8, 4.8.24 ss.; Is 53, 12; Ger 29, 7; Bar 1, 10 s.; 1
Tm 2, 1 s.) e della lode (cf. Is 12, 4 ss.; 43, 21; 48, 20; Sal 47, 2; 66, 1.8; 67, 4 ss.; 96, 3; 97, 1;
105, 1; Tb 13, 3 s.). Come “corifeo dell’universo”, Israele erompe la sua strettezza e compie la
sua missione per la salvezza del mondo.
3°) L’universalismo della salvezza: Da ciò che è stato detto sopra risulta chiaramente
che si tratta della salvezza del mondo anche e proprio là dove si tratta d’Israele. E non potrebbe
essere diversamente dato che il creatore d’Israele è insieme il creatore del mondo e “il Dio
dell’alleanza è il Dio del mondo”, i cui piani si estendono molto al di là di Israele. L’elezione
d’Israele, come già visto, presuppone, da una parte l’universalismo e, dall’altra, ne è al
servizio come lo strumento rispetto al fine. Infatti la salvezza, garantita dalla sovranità di Dio,
la quale si fonda nell’azione creatrice del mondo e si impone definitivamente nel giudizio
universale (cf. Is 24, 23; Zc 14, 9; Sal 47, 3 ss.; 93, 1-4; 95, 3; 96, 4.10.13; 97, 1-9; 98, 9; 99, 2;
Dn 3, 33), non è limitata ad Israele; essa, al contrario, come la lode che l’anticipa, deve
abbracciare tutti i popoli (cf. 1 Re 8, 43; Is 2, 2 ss.; 19, 25; 43, 9; 45, 6.14.22.23; 49, 1.13; 51, 4;
55, 5; 66, 19; Ger 1, 10; 16, 21; Ez 36, 23; 38, 23; 39, 6 s.; Sof 2, 11; 3, 9; Zc 8, 23; Sal 87, 4) e
dare volto nuovo all’intera creazione (cf. Is 32, 15; 65, 17). Così il problema del rapporto tra
contrarie alla sua fede e di mantenerlo santo (cf. Es 18, 3; 22, 17; 23, 24; Lv 11, 43 ss.; 20, 6 s.; 20, 23; Dt 12, 29 ss.;
1 Re 14, 24; 2 Re 16, 3; 17, 7 ss.; Ger 10, 1 s.; Sal 106, 35).
39
In un’interpretazione giudaica del testo posteriore all’AT, Filone di Alessandria († 42 ca) (cf. Vita Moisis
1, 149; De Abrahamo 98) dice che Israele ha ricevuto “l’ufficio sacerdotale e profetico per l’intero genere umano”; è
il popolo che “scelto fra tutti gli altri, deve esercitare il servizio sacerdotale, offrendo preghiere in ogni tempo per il
genere umano, affinché sia allontanato dal male e divenga partecipe del bene” (citato qui da N. FÜGLISTER, Strutture
dell’ecclesiologia veterotestamentaria 83).
33
particolarismo dell’elezione e universalismo si pone ormai secondo la direzione inversa: la
salvezza di tutte le stirpi della terra è condizionata dal loro rapporto variegato (cf.
assoggettamento: Sal 2, 8-11; 72, 8-11.17 ; incorporazione: Es 12, 38.43-49; 18, 12; Nm 10, 29
ss.; 15, 15 s.; Gs 6, 25; 9, 19-27; Ez 47, 22 s.; partecipazione al culto d’Israele: Dt 23, 2-9; 1 Re
8, 41 ss.; Is 56, 3.6 ss.; 66, 18-21; Sal 115, 11 ss.; 118, 4; 135, 20; 145, 12; ecc.) con Israele e
dipende dalla loro solidarietà con esso (cf. Gn 12, 2 s.; Is 14, 1 s.; 45, 14 ss.; 60, 10-16; 61, 5 s.;
66, 11 s.; Mic 7, 14-17; Zc 2, 12 s.). L’universalismo escatologico trascina tutti i popoli (cf. Is 2,
2 s. e par.; Mic 4, 1) e il pellegrinaggio delle nazioni ha come termine il santuario cosmico, la
nuova Gerusalemme, che non sarà solo la patria degli Israeliti, ma anche il centro del mondo e
dell’umanità (cf. Is 19, 16-25; 25, 6-9; Sof 3, 9; Sal 22, 28; 87, 3-7). In questo modo, il Sion
della fine dei tempi come luogo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo che supera tutti i
confini, diventerà il sacramento della presenza di Dio che abbraccia e rinnova tutto il mondo.
1.2.4. Il rapporto tra l’individuo e la collettività
Dio si interessa della salvezza del mondo intero, del divenire unità del tutto frantumato e
disperso dal peccato. Per fare ciò egli si serve del suo popolo, della “Chiesa” in quanto
collettività, quindi di un insieme di uomini: come tutto, esso è sia l’oggetto, che riceve
passivamente, sia il soggetto, strumentalmente attivo, dell’agire di Dio. Sorge adesso la questione
del rapporto vicendevole tra individuo e collettività. Ne risulta che il popolo di Dio non è una
massa anonima, ma una comunità articolata in cui al singolo, per il bene del tutto, vengono
attribuiti ben determinati ruoli e funzioni. Ma, in quanto personalità corporativa, anche questo
singolo individuo può impersonare la totalità e concretizzarne la missione.
1°) Individuo e collettività: Non di rado si rimprovera all’AT il suo preteso
collettivismo, come se ad esso non interessasse la salvezza dell’uomo in quanto individuo ma
soltanto la stabilità e la grandezza del popolo. Tutt’al contrario, fin dall’inizio in Israele, si può
vedere da tutti gli strati e le parti di cui si compone l’AT che il singolo è protagonista della storia
e delle vicende del suo popolo. Per quanto concerne la legislazione (dal libro dell’alleanza al
codice sacerdotale) ad esempio, l’individuo è il vero soggetto del diritto, considerato tanto come
beneficiario della tutela giuridica che come portatore di responsabilità. Ma il custode e la difesa
della libertà e integrità personali è JHWH, in quanto garante del diritto divino inscritto nella
legge dell’alleanza. La predicazione profetica dimostra anche che la ristrutturazione del rapporto
individuale con Dio (cf. peccato, giudizio, liberazione) divengono il mezzo indispensabile per la
34
redenzione del popolo di Dio, perché nella nuova creazione del singolo e in nessun altro modo
Dio compie la rigenerazione della sua comunità. A ciò corrisponde il rapporto personale con Dio
messo in luce dai salmi e la speranza in una salvezza personale che si fonda su esso. Così non è
solo Israele nella sua totalità ad essere l’“eletto”, il “servo” e il “figlio” di JHWH; anche i singoli
Israeliti sono i suoi “eletti”, i suoi “servi” (cf. Is 65, 9.15; 66, 14) e i suoi “figli” (cf. Dt 14, 1; 32,
5; Is 1, 2; 43, 6 s.). Tutto ciò dimostra che nell’AT il singolo e la comunità non sono affatto dei
concetti antitetici, essi al contrario si compenetrano reciprocamente. Invece di perdersi, nel
gruppo sociale il singolo si ritrova sostenuto da tutti ma anche responsabile del tutto, e non
conosce nessuna altra possibilità di esistenza al di fuori di questo cerchio vitale40
. Il singolo porta
quindi la responsabilità del popolo (nel senso della solidarietà orizzontale con i “fratelli”
contemporanei e della solidarietà verticale con i “padri” e con i “figli”), e il popolo, nel rituale
ordinato da Dio, gli mette a disposizione lo strumento per salvare se stesso e insieme il popolo,
sopra il quale la sua colpa ha minacciato di far scendere l’ira di Dio (cf. Gn 9, 25 ss.; Es 20, 5 s.;
Dt 5, 9 s.; 1 Sam 2, 30-36; Sal 105, 6.8 ss.; 106, 45). La celebrazione liturgica delle gesta di
JHWH per i padri diventa anche l’occasione per ricordare che ciò che hic et nunc avviene al
singolo, è importante per l’intera ™kklhs…a, cioè per tutti e per ciascuno (cf. Es 13, 8; Dt 12, 18
s.; 14, 26-29; 26, 5-10; Sal 22, 23-27).
2°) Ruoli e funzioni del singolo: La vera comunità è più che un agglomerato casuale o la
somma di singoli individui. Perciò anche il popolo di Dio non è una massa anonima, amorfa e
indifferenziata, ma un organismo e, in quanto tale, un corpo articolato mediante una certa
solidarietà organica. I diversi uffici sono vincolati strettissimamente alle diverse forme di
manifestazione dell’™kklhs…a veterotestamentaria di cui si è detto sopra. La pluralità di funzioni
fondamentali – ad esempio regali, sacerdotali e profetiche – conduce al pluralismo e alla
polarizzazione degli uffici, con coppie di contrari che si hanno nel NT e nella Chiesa cristiana : la
polarizzazione tra funzioni e governi istituzionali e carismatici, organizzativi e kerygmatici,
monarchici e collegiali, locali e sopraregionali. Si delinea anche un’altra polarità carica di
tensione (cf. Nm 16, 3.5.7): da una parte, Dio stesso crea una certa gerarchia all’interno del suo
popolo eleggendo e santificando in modo particolare certi uomini come suoi incaricati, traendoli
per questo dal suo popolo eletto e santo (cf. Es 28, 36; 29, 33.36; Lv 21, 6 ss.; Nm 3, 12; Dt 33,
8; Gdc 13, 7; 16, 17; 1 Sam 21, 5 s.; 2 Re 4, 9; Is 13, 3.5 s.; Ger 1, 5; Am 2, 11; Sal 89, 20-29;
40
L’esclusione dalla comunità infatti significa perdita dell’individuo e, alla fine, morte ; l’isolamento quindi
equivale a sciagura e infelicità. Nell’AT, non mancano i casi dell’estirpazione del cattivo per il bene della comunità
(cf. Gn 17, 14; Es 12, 15.19; 30, 33.38; Lv 7, 20-27; 17, 4.9.14; 18, 29; 19, 8; 20, 18; 23, 29; Dt 13, 6; 17, 7; 19, 19
35
106, 16; Lc 1, 70; At 3, 21; 2 Pt 1, 21); d’altra parte, il fondamentale principio democratico
viene sempre mantenuto anche nella concezione, genuinamente biblica, del ministero, perché gli
investiti di un ufficio sono presi dal popolo, del quale però continuano a fare parte (cf. Dt 17,
15; 18, 15.18; 1 Sam 11, 15; 2 Sam 2, 4; 5, 1 ss.; 1 Re 12, 1-19), ed esistono per il popolo, e non
viceversa. Essi, siano re, sacerdoti o profeti, sono un dono di Dio al suo popolo (cf. Am 2, 11), al
cui servizio essi stanno come “servi di Dio”. Infine, in questo contesto, non si deve perdere di
vista l’ideale sostanzialmente escatologico, secondo cui ogni singolo individuo, in quanto
membro del popolo-mediatore regale, sacerdotale e profetico, dovrà essere sacerdote (cf. Es 19,
6; Is 61, 6; Ap 1, 6; 5, 10) e profeta (cf. Nm 11, 29; Gl 3, 1 s. // At 2, 17 s.) e quindi vicino a Dio
(cf. Ger 31, 31-34 // Eb 8, 8-12). Si deve riconoscere però che la piena realizzazione di questa
promessa non sia avvenuta neppure nel NT e nella Chiesa cristiana; infatti l’Israele ideale finora
è stato realizzato pienamente soltanto in una persona: in Cristo che personifica e adempie le
speranze riposte nel popolo di Dio.
3°) La personalità corporativa: Lo spiraglio aperto sul NT ci stimola ora a prendere in
considerazione un aspetto supplementare della dialettica esistente tra individuo e comunità41
. Per
questo aspetto, molto importante anche per l’ecclesiologia neotestamentaria, l’indagine recente
sull’AT ha coniato il concetto di “personalità corporativa”: un intero gruppo, compresi i suoi
membri morti, viventi e futuri, può agire come un unico individuo, e precisamente
attraverso ognuno dei suoi membri che sia chiamato a rappresentarlo. Il concetto di
“personalità corporativa” significa da una parte, che la comunità è ben più di una semplice
somma accidentale di singoli individui, può essere trattata come una “corporazione” o “corpo”
che, per così dire, si presenta ed agisce come un “grande-Io”. In questo modo, senza pregiudizio
per l’integrità del singolo, gli individui e la comunità formano un’unica e concreta realtà fisica.
D’altra parte, un singolo individuo – soprattutto il migliore – può rappresentare la comunità in
modo tale che in lui essa, in certo modo, venga personificata e realizzata. Nella “personalità
ss.; 22, 22; Gio 1, 1-16). Per il NT, basta ricordare la tragica “profezia” di Caifa su Gesù: “È meglio che un uomo
solo muoia per il popolo” (Gv 18, 14; cf. Gv 11, 49-52).
41
Oltre il solito N. FÜGLISTER, Strutture dell’ecclesiologia veterotestamentaria 99-104; si vedano anche J.
DE FRAINE, Individu et société dans la religion de l’Ancien Testament, in Biblica 33 (1952) 324-355; 445-475;
IDEM, Adamo e la sua discendenza. La concezione della personalità corporativa nella dialettica biblica
dell’individuale e del collettivo (Roma, Città Nuova 1968); J. HEMPEL, Das Ethos des AT = Beihefte zur Zeitschrift
für die Alttestamentliche Wissenschaft 67 (Berlin, W. de Gruyter ²1964) 32-67; H. DE LUBAC, Cattolicismo. Aspetti
sociali del dogma, in IDEM, Opera Omnia III. Chiesa 7 = Già e non ancora 41 (Milano, Jaca Book 1979); K.-H.
MENKE, Stellvertretung. Schlüsselbegriff christlichen Lebens und theologische Grundkategorie = Sammlung
Horizonte. Neue Folge 29 (Einsiedeln-Freiburg, Johannes 1991); J.R. PORTER, The Legal Aspects of the Concept of
“Corporate Personality” in the OT, in Vetus Testamentum 15 (1965) 361-380; J. RATZINGER,
Rappresentanza/sostituzione, in H. FRIES (a cura), Dizionario teologico, III (Brescia, Queriniana 21969) 42-53; H.W.
36
corporativa”, così considerata, vengono in luce due cose: in primo luogo, il fatto che un singolo
individuo sta realmente al posto della comunità, e in secondo luogo, il fatto che, nonostante
questo carattere “corporativo”, egli rimane una vera persona individua. Tutto ciò si realizza
nel presente del popolo di Dio: la comunità si presenta come un “Io” che può essere
interpellato come “Tu”. Per esempio, nella parenesi e nella legislazione del Deuteronomio,
benché il destinatario sia sempre la stessa comunità, si trova continuamente il plurale (“voi”)
scambiato con il singolare (“tu”). Lo stesso fenomeno si osserva nel salterio (cf. Sal 89, 39-52;
129), dove a volte il popolo viene personificato nell’“Io”. Mediante il rappresentante eletto (cf.
re, capo, ecc.), la società in quei momenti diviene cosciente di sé e il rappresentante non si
considera più come individuo nel senso moderno bensì come un “grande-Io”; egli esprime i
sentimenti e le idee della società, ed agisce in modo che l’intera società agisca in lui e a lui venga
vincolata. Insieme però, l’idea della “personalità corporativa” lega Israele al suo passato tramite
l’eponimo della preistoria della famiglia o della casa che egli personifica. Così nelle figure dei
patriarchi della Genesi è impersonato l’intero popolo di Dio (cf. Abramo: Gn 12, 1 ss.; 15, 6;
Giacobbe: Gn 32, 23-33; Os 12, 3 ss.). Al contrario, per quanto riguarda il futuro, il “santo resto”
può venire talmente concentrato, mediante un processo di progressiva riduzione (cf. 1 Mac 3, 17-
19) che, alla fine, un solo individuo personifica e realizza l’essere e la missione d’Israele. Questo
fatto assai significativo appare particolarmente chiaro nel “servo di Dio” dei canti deuteroisaiani
dell’Ebed-JHWH (cf. Is 41, 8; 49, 6; 53, 10). Lo stesso si deve dire del “Figlio dell’uomo” del
libro di Daniele (cf. Dn 7). Secondo la testimonianza del NT, questo “servo di Dio” e “Figlio
dell’Uomo” è Gesù, che rappresenta il nuovo e vero Israele (cf. Mt 2, 15 // Os 11, 1; Lc 3, 23-38;
Gal 3, 16), in cui si realizza la nuova alleanza. Se Gesù Cristo è, infatti, il vero, unico, irripetibile
antitipo, e la vera, unica, irripetibile realtà rispetto all’AT, la Chiesa del NT è, in Cristo, la realtà
rispetto all’AT (= preparazione e figura), primizia e promessa rispetto alla patria beata. In questo
modo si rivela quanto siano indissolubilmente unite tra loro l’ecclesiologia e la cristologia e
quanto profondamente questa unità, essenziale per la Chiesa neotestamentaria, sia ancorata
all’AT e rimanga in essa radicata.
* *
*
ROBINSON, The Hebrew Conception of Corporate Personality, in Werden und Wesen des AT = Beihefte zur
Zeitschrift für die Alttestamentliche Wissenschaft 66 (Berlin, W. de Gruyter 1936) 49-62.
37
Vale quindi il principio che senza una retrospettiva adeguata sull’AT, non si può avere
una genuina comprensione del NT, non soltanto per l’interpretazione dei singoli concetti e
immagini mutuate dal NT, ma anche delle strutture fondamentali di una e medesima realtà quale
è il popolo di Dio, la quale è dominata dalle tensioni tra le forme contingenti di manifestazione e
le linee strutturali costitutive, tra il particolarismo e l’universalismo, l’individuo e la collettività,
come pure tra la promessa e il compimento42
. Per di più, nonostante tutto ciò che in virtù
dell’evento-Cristo è già ora realtà, il NT sa bene che l’essenziale manca ancora e che quindi, non
diversamente dell’AT, rimane ancora a livello di promessa: la nuova Gerusalemme è una realtà
celeste, la cui trascendenza verrà manifestata solo alla fine dei giorni.
1.3. La Chiesa nel Nuovo Testamento43
Qui ci si chiede come il NT comprenda la Chiesa. Infatti, nel quadro della riflessione di
fede sulla Chiesa, è importante soltanto l’interpretazione che il NT dà della Chiesa e non la
descrizione del cammino storico da questa compiuto dalla nascita e nella sua crescita. La
difficoltà per la comprensione neotestamentaria della Chiesa sta nel fatto che lo stesso NT non
può fornire una presentazione sistematica della Chiesa, a motivo del carattere frammentario e
condizionato dalle situazioni e dall’interesse molto diverso degli scritti raccolti nel NT. In effetti,
“la crescente distanza dai primi testimoni apostolici, la pluralità delle tradizioni e le eresie che si
diffondono, la controversia con le tendenze entusiastiche che nascono da un fraintendimento
della cristologia dell’esaltazione o della pneumatologia come pure la critica all’incipiente
tendenza a rendersi autonoma dall’istituzione ecclesiale rendono necessaria l’attualizzazione
della tradizione di Gesù, anche nella forma dell’accertamento storico, mettendola criticamente in
relazione con le condizioni attuali”44
.
Tematicamente, della Chiesa si parla al massimo negli Atti degli Apostoli e nella Lettera
agli Efesini, per lo più in connessione con altri temi. Inoltre, il pensiero ecclesiologico del NT
42
Sull’unità fondamentale tra il popolo di Dio nell’AT e quello del NT, senza pregiudizio per l’unicità
irripetibile dell’evento-Cristo, si veda per esempio Mt 8, 11; Lc 1, 54; 13, 28 s.; Gv 4, 22; Rm 4, 1; Gal 3, 7; Gc 2,
21; Ap 12, 1-17. Inoltre, sul fatto che l’ecclesiologia neotestamentaria, e quindi la Chiesa cristiana, sia debitrice
verso Israele e l’AT, ci sono delle osservazioni metodologiche pertinenti presso N. FÜGLISTER, Strutture
dell’ecclesiologia veterotestamentaria 104-112.
43
In questo paragrafo seguiremo soprattutto H. SCHLIER, Ecclesiologia del Nuovo Testamento, in AA.VV.,
Mysterium Salutis, VII. L’evento salvifico nella comunità di Gesù Cristo (Brescia, Queriniana 1972) 115-257 (+
bibliografia: 258-265); R. SCHNACKENBURG, La Chiesa nel Nuovo Testamento 63-128.
44
S. WIEDENHOFER, La Chiesa 90.
38
non è espresso in maniera diretta e del tutto esplicita, anche se lo sfondo è segnato da una certa
coscienza comunitaria o ecclesiale. Nel tentativo di raccogliere e di accostare le immagini
teologiche e la riflessione di fede sulla Chiesa nel NT, si cercherà di conservare la problematicità
e l’apertura dei dati disponibili, pur limitandosi agli scritti più paradigmatici e sperando tuttavia
di non essere troppo unilaterali.
1.3.1. La Chiesa secondo Marco45
Ci sono pochi spunti sulla concezione della Chiesa nel Vangelo di Marco, che peraltro
non usa la parola ™kklhs…a. Così come per gli altri evangelisti tuttavia, si può trovare
dichiarazioni ecclesiologiche perlomeno indirette in Marco. La tematica riguardante la Chiesa è
da stabilire in rapporto con il discepolato. Per così dire, la comunità dei credenti chiamata
“Chiesa” dopo la Pasqua di Cristo è da riconoscere nel nucleo della comunità dei discepoli del
Gesù terreno. A parte l’eccezione di Pietro (e di Giacomo e Giovanni: cf. Mc 1, 16-20; 1, 29; 5,
37; 9, 2 ss.; 9, 38; 10, 35 ss.; 13, 3; 14, 33), in genere il discepolato viene considerato da Marco
in modo tipico e collettivo, per dare esempio al lettore credente. Discepolo è colui che vuole stare
con Gesù (Mc 3, 14; 5, 18) e confessa che egli è il Cristo (Mc 8, 29), prende la sua croce e segue
Gesù (Mc 8, 34-38; 9, 33-37; 10, 42-45), partecipando quindi alla sua sorte e alla sua missione
(cf. Mc 6, 7-13). Alla comunità marciana scossa dalla persecuzione e dalla sofferenza,
l’evangelista ricorda di nuovo, soprattutto nel contesto degli annunci della passione (cf. Mc 8,
31-33; 9, 31-32; 10, 32-34), che l’esperienza della persecuzione e della sofferenza è strettamente
legata con la sequela di Gesù (cf. Mc 8, 27 – 10, 52). Questo ricordo diviene da sé un’istruzione
sulla vera sequela che riguarda anche la configurazione e la struttura della comunità come pure le
forme del suo governo.
La prima parte del Vangelo di Marco (cf. 1, 14 – 8, 26) è articolata da pericopi dedicate
all’insegnamento di Gesù e alla chiamata dei discepoli (cf. Mc 1, 16-20: chiamata dei primi
discepoli; 3, 13-19: “creazione” dei Dodici; 6, 6b-13: la loro missione). Tra i discepoli, in
particolare, i Dodici appaiono come una vera istituzione di coloro che devono prima stare presso
Gesù e poi partecipare alla sua missione. Questo è verosimilmente il significato di Mc 3, 13-15:
“[Gesù] salì sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì
45
Cf. P. NEUNER, Ekklesiologie. Die Lehre von der Kirche, in W. BEINERT (a cura), Glaubenszugänge.
Lehrbuch der Katholischen Dogmatik, II (Paderborn, F. Schöningh 1995) 453-454. Si veda anche J. GNILKA, Was
heißt “Kirche” nach den synoptischen Evangelien?, in H. ALTHAUS (a cura), Kirche. Ursprung und Gegenwart
(Freiburg-Basel-Wien, Herder 1984) 11-38; S. WIEDENHOFER, La Chiesa 90-94.
39
Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare (… ™po…hsen toÝj dèdeka, †na
ðsin met\ aÙtoà kaˆ †na ¢postšllh aÙtoÝj khrÚssein) e perché avessero il potere di
scacciare i demoni”. Qui sono chiaramente sottolineate la sovrana iniziativa di Gesù e la libera
disponibilità dei discepoli (cf. Mc 1, 16-20). Chi è chiamato ad esercitare l’autorità nella
comunità deve essere l’ultimo (œscatoj), il servo (di£konoj) e lo schiavo (doàloj) di tutti (cf.
Mc 9, 35; 10, 42-45); il compito di governare si adempie non nel pretendere obbedienza,
sottomissione e onore, ma nell’accogliere un bambino (paid…on) povero e bisognoso di aiuto (cf.
Mc 9, 36-37; 10, 13-16). In Marco, la comunità cristiana è quindi compresa, tanto nella sua
struttura che nelle relazioni sociali e nell’organizzazione del governo, in forma nettamente
opposta rispetto all’immagine della famiglia patriarcale antica. Non il capo famiglia patriarcale e
la sua autorità, ma donne, bambini, servi e schiavi sono i paradigmi sociali della vera sequela,
santificati dal servizio e dalla passione di Gesù. Se qui, nel contesto della passione del Signore e
della sequela delle discepole e dei discepoli, viene ricordata la forma fondamentale della vera
sequela, questo non avviene solo come difesa estrema da un pericoloso adattamento della Chiesa
al proprio tempo e alla società, ma come correzione sempre necessaria contro una strutturale
incomprensione di se stessa da parte della Chiesa e della sua autorità46
.
Rispetto agli scribi e ai farisei, Gesù è il nuovo e vero maestro che chiama ed ammaestra
autorevolmente (cf. Mc 1, 22.27) tutti con l’insegnamento e con i segni di potenza. L’annuncio
della passione, la morte e la risurrezione di Gesù costituiscono la seconda parte del Vangelo di
Marco (cf. Mc 8, 31 – 16, 20) e svelano definitivamente il segreto messianico di Gesù (cf. Mc 1,
25.34.44; 3, 12; 8, 30). In lui si deve avere fede (cf. Mc 4, 40; 5, 34.36; 10, 52; 11, 22-25), capire
(cf. Mc 8, 14-21), riconoscere la sua identità e decidersi a seguirlo (cf. Mc 8, 27-30). Proprio per
la loro familiarità con Gesù, i Dodici possono condividere la sua missione (cf. Mc 3, 14; 6, 7-13;
16, 14-20: predicare, guarire gli infermi, cacciare i demoni), collaborando allo stabilimento del
Regno di Dio. Nonostante gli ammonimenti ripetuti di Gesù (cf. Mc 8, 34-38; 9, 33-37.42-50;
10, 35-45; 11, 20-25; 13, 1-37; 14, 22-25; 14, 37-40), la fuga dei discepoli nel Getsemani (cf. Mc
14, 50) e il rinnegamento di Pietro (cf. Mc 14, 66-72) indicano l’insuccesso della loro sequela di
Gesù. Dopo la risurrezione, tuttavia, Gesù li precede in Galilea (cf. Mc 14, 28; 16, 7) ed essi
potranno dedicarsi alla missione (cf. Mc 16, 20). In questo essere ed agire del discepolato si
profila l’identità e la missione della futura Chiesa, ben radicata nella tradizione apostolica.
Pietro può essere considerato come il garante di questa tradizione, visto il suo ruolo preminente
46
Cf. S. WIEDENHOFER, La Chiesa 92-93.
40
di portavoce nel gruppo dei Dodici (cf. Mc 1, 16; 1, 29-31; 3, 16; 8, 29; 9, 5; 14, 29-31; 16, 7),
ciononostante la sua debolezza (cf. Mc 8, 32-33; 14, 37-38; 14, 66-72).
1.3.2. La Chiesa secondo Matteo
La comprensione ecclesiologica di Matteo è più sviluppata rispetto a quella di Marco, a
tal punto che il primo Vangelo nell’attuale canone neotestamentario viene a volte chiamato il
“Vangelo della Comunità o della Chiesa”. La Chiesa, come è compresa e come vive in Matteo, in
quanto Chiesa del Messia Gesù (= ¹ ™kklhs…a mou: Mt 16, 18), non è soltanto quella promessa
da Gesù, ma anche la Chiesa che inizia segretamente già con lui. Essa, fondamentalmente, è già
all’opera nell’imminenza del regno escatologico di Dio, “del regno dei cieli”, che è insieme “il
regno del Figlio dell’Uomo” (cf. Mt 16, 28). Questa “imminenza” del regno dei cieli infatti, è
presente nella persona di Gesù, cioè nella sua opera e nella sua vita. Senza dubbio anche, per
Matteo, il regno dei cieli è un’entità futura (cf. Mt 5, 12 e par.; 5, 22.23.33; 6, 10; 8, 11 s. // 26,
29; 8, 12; 13, 39.40.41.49; 18, 8 s.13; 25, 21.23.30; ecc.). Ora di questo regno dei cieli il Gesù di
Matteo dice anche che esso “è venuto vicino” (cf. Mt 4, 17 e par.; 10, 7 e par.). In esso si allude
ad un’imminenza temporale di cui resta indeterminato il momento dell’avvento (cf. Mt 10, 23;
16, 28). Ma a questo senso cronologico della “vicinanza” si sovrappone quello concreto, secondo
cui essa è già iniziata e la si può incontrare in Gesù e nel suo evento: il regno dei cieli futuro è
“vicino”, poiché in Gesù esso è penetrato e, quindi, divenuto presente nell’orizzonte della storia.
Il suo futuro incombente, in questo modo, è superato dal suo avvento nascosto in Gesù. Inoltre,
secondo Matteo, il regno dei cieli è “vicino” nella predicazione e negli insegnamenti di Gesù,
che non solo parla con autorità (™xous…a: Mt 7, 28-29) e svela appunto i misteri del regno (cf. Mt
4, 17.23; 5, 2.17.20; 6, 53; 7, 21.24.29; 9, 35; 11, 1; 13, 3.10.11.19.20.59; 24, 35; ecc.), ma anche
con il suo compartamento che lo rende vicino agli esclusi, ai piccoli e ai peccatori (cf. Mt 9,
2.9.12 s.; 11, 19). Le gesta miracolose, salvatrici e liberatrici di Gesù (dun£meij: Mt 11, 20 s.23;
13, 54.58; 14, 2; t¦ shme‹a tîn kairîn: Mt 16, 3), soprattutto le guarigioni ed espulsioni di
demoni (cf. Mt 4, 24 s.; 8, 16 s.; 12, 15.24 ss.; 14, 34 ss.; 15, 29-31) attestano l’avvento del
Messia-Figlio dell’uomo (cf. Dn 7, 13; Mt 8, 20; 9, 6.8; 10, 23 // Gv 10, 33; Mt 11, 19; 12, 8.32;
13, 24; 16, 13-15; 17, 12.23; 20, 18 ss.; 26, 2; ecc.), e quindi di Dio stesso, della sua salvezza e
del suo giudizio. Dietro alle parole e ai gesti di Gesù sta pure la sua persona, che provoca la
decisione nei suoi confronti (cf. Mt 10, 39; 11, 6.12 ss.; 12, 6.30; 12, 41-42; 13, 16; 16, 25; 19,
29). Il regno celeste viene inaugurato anche da Gesù sulla via della passione, conseguenza del
41
suo radicalismo sovvertitore e del suo anticonformismo (cf. Mt 9, 1-9 ss.15.34; 10, 25; 12, 1 ss.9
ss.24; 13, 53 ss.; 15, 8.12; 21, 14 ss.45 s.; 21, 23.39; 23, 29-39). In tal modo, nell’opera e nella
vita di Gesù, si realizza quel servizio del figlio dell’uomo che “non è venuto per essere servito
ma per servire e dare la sua vita come riscatto per molti” (Mt 20, 28; cf. 26, 28). La Chiesa può
essere così designata come il “sacramento del Regno”, poiché in essa la realtà del Regno è
misteriosamente presente e cresce per la potenza di Dio47
.
Secondo Matteo quindi l’evento escatologico fondamentale è costituito dal fatto che nella
persona di Gesù e nella sua opera in parole ed azioni, sulla via della passione, il regno dei cieli si
è avvicinato ed ora può essere incontrato nell’orizzonte della storia in determinati modi e forme.
Questa vicinanza è situata in un luogo e questo luogo è il discepolato di Gesù, che questi,
guardando al futuro, chiama “mia chiesa” (mou t¾n ™kklhs…an: Mt 16, 18). La Chiesa sarà
costituita da quelli che avranno accolto la sua parola, e cioè i discepoli (cf. Mt 5, 1 s.; 8, 21.23;
13, 2; 14, 13 ss.). Per Matteo, i discepoli (maqhta…) non costituiscono certamente una schiera
numericamente delimitata, bensì una cerchia aperta (cf. Mt 27, 57). Dalla folla, essi si
distinguono sia per la chiamata che per la sequela (cf. Mt 4, 18-22; 5, 1): sono coloro che
accompagnano Gesù (cf. Mt 12, 1); i suoi messaggeri (cf. Mt 21, 1); i suoi commensali (cf. Mt 9,
10 s.); i suoi servitori (cf. Mt 14, 15 ss.22; 15, 32 ss.; 21, 2.6; 26, 17 ss.) che seguono il maestro
(did£skaloj: Mt 8, 19; 9, 11; 12, 38; 17, 24; 23, 8; 26, 18) ovunque vada (cf. Mt 8, 21.23). Essi
vengono iniziati da Gesù nei “misteri del regno dei cieli” (cf. Mt 13, 11.52), e ad essi il Messia
confida il suo destino di sofferenza (cf. Mt 16, 21; 17, 22 s.; 26, 1 s.; 20, 17 ss.; 24, 13).
L’essenziale del discepolato è costituito dalla “sequela”, intesa come il seguire Gesù in maniera
decisa (cf. Mt 4, 20.22; 8, 22), abbandonando tutti i possedimenti e i legami terreni (cf. Mt 9, 9;
10, 37; 19, 21 s.27 ss.), credendo (cf. Mt 18, 6.10) e seguendo il Signore sulla via della passione
che porta alla croce (cf. Mt 5-7; 8, 19 ss.; 10, 38; 11, 29 s.; 12, 22 ss.; 13, 53 ss.; 16, 24; ecc.),
mediante inanzitutto l’amore di Dio e del prossimo (cf. Mt 5, 43-48; 19, 19; 22, 34-40). Tra i
47
Sulla “Chiesa come sacramento del Regno”, si veda la COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi
scelti d’ecclesiologia (8 ottobre 1985) 10.3 (= Enchiridion Vaticanum IX, nn. 1759-1764 [1753-1764]). Sulla
questione del rapporto tra Chiesa e Regno in genere, vedere anche AA.VV., Règne (ou Royaume) de Dieu, in
Dictionnaire de la Bible. Supplément, X (Paris, Letouzey & Ané 1985) 1-199 [cc. 79-121: Le Règne de Dieu et
l’Église du Christ]; S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa = Nuovo Corso di Teologia Sistematica 5
(Brescia, Queriniana 2002) 90-116; J. FUELLENBACH, Regno di Dio, in R. LATOURELLE – R. FISICHELLA (a cura),
Dizionario di Teologia Fondamentale (Assisi, Cittadella 1990) 911-913; J. FUELLENBACH, Church, Community for
the Kingdom = American Society of Missiology. Series 33 (Maryknoll/NY, Orbis Books 2002); G. LOHFINK, Gesù e
la Chiesa, in W. KERN – H.J. POTTMEYER – M. SECKLER (a cura), Corso di teologia fondamentale, III 49-105; R.
LOMBARDI, Chiesa e Regno di Dio (Brescia, Morcelliana 1976); C. MOREROD, Église et Royaume I: le débat
théologique, in Nova et Vetera 74/3 (1999) 5-36; C. MOREROD, Église et Royaume II: Vatican II, in Nova et Vetera
75/1 (2000) 39-61; R. SCHNACKENBURG, Signoria e regno di Dio. Uno studio di teologia biblica = Collana di studi
religiosi (Bologna, Il Mulino 1971); T. SÖDING, Gesù e la Chiesa 57-99; 302-309.
42
discepoli regnano o devono regnare i rapporti di fraternità (cf. Mt 5, 22 ss.; 7, 3 ss.; 18, 15.21.35;
23, 8), di perdono vicendevole (cf. Mt 5, 24; 18, 21-23 s.). Anche se i discepoli sono chiamati ad
essere “sale della terra” e “luce del mondo” (cf. Mt 5, 13 ss.) nel loro essere e nella loro
missione, essi non mancano di debolezze umane né d’incomprensione nei confronti della persona
di Gesù (cf. Mt 8, 26; 14, 21 ss.26 s.; 15, 15-23; 16, 8 s.; 17, 6.20; 19, 13 s.25 s.; 16, 21 ss.; 26,
31; 26, 8 s.; 28, 17). Ciononostante, Gesù si affida a loro nella raccolta escatologica per il bene
del popolo emarginato, oppresso e senza pastore (cf. Mt 9, 35 ss.; 13, 41), per continuare il
regno da lui inaugurato.
All’interno della schiera dei discepoli, c’è anche l’istituzione dei “dodici” (oƒ dèdeka)
(cf. Mt 10, 5; 20, 17; 26, 14.20), cioè i “dodici discepoli” (oƒ dèdeka maqeta…: Mt 10, 1; 11, 1;
26, 20) o, più significativamente ancora, i “dodici apostoli” (oƒ dèdeka ¢pÒstoloi: Mt 10, 2)48
.
I dodici sono i discepoli per eccellenza, che godono di una specie di condizione privilegiata49
. La
loro missione e i loro poteri saranno quelli di predicare l’avvento del regno dei cieli, guarire gli
ammalati, risuscitare i morti, mondare i lebbrosi, scacciare i demoni (cf. Mt 10, 7 s.), quindi la
continuazione dell’attività escatologica di Gesù. Essi sono anche coloro di fronte ai quali, già ora
e un giorno nel giudizio, si decide la salvezza o la dannazione di una casa o di un luogo in cui
essi entrano (Mt 10, 11 ss.; 10, 40); con loro, agli uomini giunge Dio stesso. A loro Gesù, nel suo
ultimo convito con essi, sotto il segno del pane e del vino, consegna in testamento se stesso in
corpo e sangue, immolato per tutti (cf. Mt 26, 20-25 // Mc 14, 17-21; Lc 22, 14.21 ss.). Essi,
come eponimi escatologici del nuovo Israele, sostituiscono quelli dell’antico, e come reggenti
assieme al sovrano escatologico, Gesù Cristo, sono anche i giudici futuri d’Israele ricostituito (cf.
Mt 19, 28). A ciò sono fin d’ora designati da Gesù e nella loro attività attuale stanno già in questa
luce. All’interno di questa corporazione dei “dodici”, che emerge dalla schiera dei discepoli,
risaltano a loro volta alcune persone singole: Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, vengono
nominati fra i primi dei dodici (cf. Mt 4, 21; 10, 2; 20, 20; 26, 37; 27, 56), e Gesù li distingue
rispetto agli altri discepoli (cf. Mt 17, 1 ss.; 26, 36 ss.). Ma di una preminenza di principio si può
48
Rispetto ai LXX, il NT ci presenta un fatto nuovo, e cioè la frequenza del sostantivo “apostolo”
(¢pÒstoloj) che ricorre per 79 volte, delle quali 34 sono da assegnare a Luca (6 nel vangelo, 28 in At) e altrettante
agli scritti paolini. Abbiamo inoltre 1 volta in Eb (3, 1: Gesù, “apostolo” del Padre), 3 nelle lettere di Pietro, 1 volta
in Gd e 3 in Ap; infine 1 volta ciascuno in Mt (10, 2), Mc (6, 30) e Gv (13, 16). A differenza della grecità classica, il
NT usa il concetto di “apostolo” soltanto col significato generale di messaggero e per il resto come definizione
(post-pasquale) ormai fissata di un ufficio ben preciso, quello dell’apostolato nella chiesa primitiva. Cf. D. MÜLLER,
Apostolo (¢postšllw), in L. COENEN – E. BEYREUTHER – H. BIETENHARD (a cura), Dizionario dei concetti biblici
del Nuovo Testamento 129 [127-136]; V. SERRANO, Discípulos, apóstoles y los doce. En la vida pública de Jesús y
en los orígines del cristianismo, in Biblia y Fe 29 (2003) 389-411.
43
parlare soltanto a proposito di Pietro (S…mwn-Pštroj). Questi, nonostante i suoi limiti e la sua
incomprensione (cf. Mt 14, 31; 16, 22-23; 26, 33-35; 26, 36 ss.; 26, 69-74), è chiaramente
presentato sempre come il portavoce dei discepoli (cf. Mt 15, 15; 17, 4.24 s.; 18, 21; 19, 27; 26,
40). È altresì il primo discepolo ad essere chiamato (cf. Mt 4, 18-21 // Mc 1, 16-20 // Lc 5, 1-11;
vedi però Gv 1, 35-42), e il primo ad essere nominato nella lista dei “dodici apostoli” (cf. Mt 10,
2-4 // Mc 3, 16-18 // Lc 6, 14-16 // At 1, 13). Ma la sua posizione di preminenza per principio è
documentabile solo in base alla pericope di Mt 16, 13-20 (// Mc 8, 27-30; Lc 9, 18-21), secondo
la quale Pietro:
1°) confessa, a nome dei discepoli, che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente;
2°) è colui al quale, perciò, è stata partecipata la rivelazione di Dio;
3°) è la “roccia”50
scelta da Gesù, cioè il fondamento solido della futura Chiesa di Gesù;
4°) è il detentore e l’amministratore delle chiavi del regno dei cieli, il titolare del potere di
legare e sciogliere in vista del Regno di Dio, cioè di condannare e di assolvere.
Ciò che nel passo di Mt 18, 18 (cf. Gv. 20, 23 [21-23]) viene attribuito a tutti i discepoli
in quanto pastori del gregge, è qui attribuito a Pietro (cf. Mt 16, 18-19) nei confronti dell’intera
Chiesa. All’interno dei dodici Simon Pietro è quindi il primo, in quanto rappresenta il
fondamento del futuro discepolato che Gesù chiama “mia Chiesa” (™kklhs…a mou). Così questo
discepolato con i dodici e Simon Pietro il loro portavoce, per Matteo, è l’anticipazione o la
preformazione della futura Chiesa. Essa, si può anche dire, nella sua struttura fondamentale è
questa Chiesa nel modo della promessa, ancora nascosta ma già segretamente presente. Il regno
di Dio, la sua irruzione nell’orizzonte della storia in Gesù, il suo inserimento all’interno della
storia, nel discepolato circoscritto, ma insieme aperto, di coloro che “seguono” e ne
comprendono il mistero, l’articolazione di questo discepolato nei discepoli e nei dodici con
49
Anche se Matteo non insiste come Marco sul discepolato, presso di lui non mancano degli accenni che
fanno ugualmente capire che i Dodici sono una specie di istituzione.
50
Il soprannome di Pštroj (Pietro) è, infatti, la traduzione greca del nome aramaico Kepha che significa
“roccia”, “pietra”. Questa parola non veniva usata come nome proprio di persona nell’ambiente di allora. Il NT fa
pure uso della semplice trascrizione greca della parola aramaica Khf©j (Gv 1, 42; 1 Cor 1, 12; 3, 22; 9, 5; Gal 1,
18; ecc.). Di solito la “roccia” o la “pietra (angolare)” indica Dio stesso o precisamente ancora Cristo nella Bibbia
(cf. Is 28, 16; Zc 3, 9; 4, 7; Sal 118, 22 // Mc 12, 10 // Mt 21, 42 // Lc 20, 17 // At 4, 11 // Rm 9, 33 // 1 Pt 2, 4-7; 1
Cor 10, 4; Ef 2, 20). Dando un nome nuovo a Simone, Gesù gli conferisce una vocazione nuova, quella appunto di
essere la pietra di fondamento della sua nuova comunità (™kklhs…a mou: Mt 16, 18). Sul Sitz im Leben e sul
significato del brano di Mt 16, 17-18, si veda innanzitutto A. ANTÓN, La Iglesia de Cristo 400-412 [389-420 : La
preformación de la “Ekklêsia”]; J.M. VAN CANGH – M. VAN ESBROECK, La primauté de Pierre (Mt 16, 16-19) et son
contexte judaïque, in Revue Théologique de Louvain 11 (1980) 310-324; O. CULLMANN, Pštroj-KÁfaj, in Grande
Lessico del Nuovo Testamento X, 124-160; J.P. MEIER, Pietro: origini di un primato, in Il Regno-attualità 49/14 (15
luglio 2004) 496-507 [506-507: note bibliografiche]; R. PESCH, Simon-Petrus. Geschichte und geschichtliche
Bedeutung des ersten Jüngers Jesu Christi = Päpste und Papsttum 15 (Stuttgart, Hiersemann 1980); IDEM, I
fondamenti biblici del primato = GDT 291 (Brescia, Queriniana 2002) 43-48.135-136 e passim; J. RATZINGER, La
Chiesa 40-46 [33-53].
44
Simon Pietro al vertice e a fondamento del tutto, sono per Matteo i dati che principalmente
fondano e indicano la struttura della Chiesa nel discepolato e nella sequela di Gesù. La Chiesa
non è il “regno dei cieli” o il “regno di Dio” stesso ; essa, piuttosto, in quanto “regno del Figlio
dell’uomo” sulla terra, è il modo provvisorio della sovranità di Dio nel mondo, o ancora, il
luogo di presenza del regno escatologico di Dio avvicinatosi. Nel discepolato di Gesù avviene il
passagio da Israele, cui era legata la promessa del regno di Dio, ad un nuovo popolo di Dio (ossia
il “vero Israele”, comprendente tutte le nazioni) che l’accoglie e custodisce51
. La morte, la
risurrezione di Gesù e l’invio dello Spirito santo nella Pentecoste ratificheranno l’esperienza pre-
pasquale del discepolato, dandone forma nella nuova comunità (= ™kklhs…a) di quelli che
confessano il Signore risorto e glorificato, con l’incarico di ammaestrare tutte le nazioni e di fare
discepoli tutti i popoli (cf. Mt 27, 57 ; 28, 19-20).
1.3.3. La Chiesa negli scritti di Luca
Secondo Luca, la storia della Chiesa si inserisce nell’evento generale della salvezza. In
altre parole, l’evento della salvezza trascende il suo fondamento costituito dall’evento salvifico
Gesù ed opera anche nella nascita della Chiesa fino all’arrivo a Roma dell’apostolo Paolo e del
suo vangelo. Perciò, secondo Luca, oltre al vangelo (Lc) anche la storia degli apostoli (At), in
quanto pure essa annuncia la salvezza, deve avere un senso kerygmatico. Si è giustamente
osservato che, per Luca, il tempo della Chiesa è già il terzo grande periodo della storia della
salvezza : la prima epoca è il tempo di Israele che è caratterizzato dalla “legge e i profeti” e va
fino a Giovanni Battista; da quel tempo è annunziato il Regno di Dio (cf. Lc 16, 16). Il
battezzatore penitenziale del Giordano getta i ponti al tempo della salvezza (cf. At 13, 24) nel
quale opera Gesù, il Messia unto dallo Spirito (Lc 4, 18 ss.), e proprio in questo “centro del
tempo” si inserisce come terza epoca della storia della salvezza, il tempo della Chiesa52
.
51
Si potrà trovare la stessa prospettiva del discepolato in Marco, ma con una sottolineatura leggermente
diversa, insistendo meno sul criterio di continuità tra l’AT e il NT privilegiato da Matteo.
52
Questa osservazione di Hans Conzelmann sul Cristo come “Centro del tempo” (cf. Die Mitte der Zeit.
Studien zur Theologie des Lukas = Beiträge zur historischen Theologie 17 [Tübingen, J.C.B. Mohr 1954]) è piena di
significato per la teologia della Chiesa: 1°) la Chiesa sta in continuità con i piani e le istituzioni salvifiche di Dio; 2°)
anche l’ambiente geografico dell’attività di Gesù e dei suoi apostoli serve a sottolineare il posto preminente di
Israele nella storia della salvezza (cf. At 3, 26; 13, 46). La città santa di Gerusalemme sta nel punto centrale
dell’evento salvifico, dove tra altro, si compie il destino che Dio ha disposto per il Messia (cf. Lc 13, 33-34; 9, 51 –
19, 28), e da dove il Vangelo si diffonde in tutto il mondo (cf. Lc 24, 47); 3°) come in Gesù si adempiono gli oracoli
messianici rivolti a Israele nella prima epoca della salvezza (cf. Lc 4, 18-21; 7, 21-23), così anche il tempo della
Chiesa rappresenta un tempo di adempimento : da una parte l’effusione dello Spirito a Pentecoste è l’evento
escatologico annunziato dal profeta Gioele, dall’altra è anche il compiersi della promessa fatta dal Signore sul punto
45
Secondo Luca, la Chiesa che colma il tempo che si estende tra la resurrezione di Gesù
Cristo e la sua parusia, è “opera” di Dio (cf. At 13, 41 // Ab 1, 5 ; così pure At 2, 47 ; 5, 38 s. ;
15, 18). Gli apostoli, ad esempio Paolo, non hanno altro compito che annunciare l’avvento del
regno di Dio e la necessità di aderire a Cristo (At 28, 23; cf. At 8, 30 ss.; 10, 43; 12, 32 ss.; 17,
11; 26, 6). Con Gesù, la promessa di rivelazione di Dio ad Israele ha già sempre presente anche
la Chiesa formata di Giudei e di pagani: la Chiesa è il “vero Israele” che ha sostituito l’antico
(cf. At 15, 15-21, citando Am 9, 11 ss.). Da ultimo, e in maniera definitiva, Dio si rivela in Gesù
e nel suo evento. Mediante questa rivelazione avviene l’adempimento delle promesse, l’opera di
Dio, la Chiesa (cf. Lc 18, 37; 24, 19; At 2, 22; 3, 6; 4, 10; 10, 36 ss.; ecc.). L’espressione di Luca
ha subìto l’influsso delle formule di fede della comunità primitiva, mettendo al centro l’intero
evento salvifico di Gesù, morto e risorto, che è anche l’oggetto della predicazione (cf. At 1, 3; 2,
23 ss.; 3, 13 ss.; 4, 2; 5, 30 ss.; 10, 39b-43; 13, 26-35; 23, 6; 24, 5.21.26; 26, 8). Per Luca, la
fondazione della Chiesa è da vedere nell’autosvelamento di Gesù come il risorto in persona agli
“apostoli” (cf. At 1, 3 ; 24, 36 ss.), nel suo rivelarsi attraverso la parola e i segni, in particolare la
manifestazione dell’agire di Dio nella passione e risurrezione di Gesù alla luce degli scritti
dell’AT (cf. Lc 24, 26.32.44 ss.), nella predicazione del regno di Dio (cf. At 1, 3) e
nell’automanifestazione di Gesù nel segno della frazione del pane (cf. Lc 24, 30 s.35). L’invio
dello Spirito del Risorto (cf. At 1, 2) e la promessa di esso ai testimoni (cf. Lc 24, 49 ; At 1, 8)
segnano la fine dei “tempi dell’incertezza” (cf. At 3, 17 ; 17, 30-31), appunto a causa della
rivelazione. È incominciato quindi il tempo nuovo, quello della Chiesa, che non durerà
all’infinito ma soltanto fino a quando il glorificato ritornerà come il giudice stabilito da Dio (cf.
At 1, 11 ; 3, 19 ss. ; 10, 42 s. ; 17, 30 s.). L’attesa imminente troppo febbrile sembra smorzata (cf.
At 1, 6-8), per dare alla Chiesa tranquillità e fiducia per la sua missione (cf. Lc 17, 20 ss.; 19, 11
ss.; 21, 7-9.24; 24, 21).
Il tempo della Chiesa per Luca è il tempo dello Spirito Santo che agisce (cf. At 1,
2.5.8.16 ; 2, 4.18 ; ecc.) e confonde ogni spirito del mondo. È lo Spirito che Cristo ha ricevuto
dal Padre nella sua esaltazione e che effonde sui “dodici” affinché siano suoi testimoni e portino
a compimento la sua missione (cf. Lc 24, 49 ; At 1, 4 s.8 ; 2, 11). In loro, lo Spirito è come la
dÚnamij (At 1, 8), cioè il potere e la forza di essere degli apostoli, nel senso di “testimoni”
(m£rturej) che con il suo aiuto e la sua ispirazione suscitano nuovamente lo Spirito, una nuova
pentecoste (cf. At 4, 8 ; 5, 3 ; 5, 9 ; 8, 15 ss. ; 10, 19 ; 15, 28). Gli apostoli parlano “pieni di
Spirito Santo”, come una volta lo stesso Spirito Santo parlò per mezzo dei profeti. Sono così
di separarsi da loro, di mandare loro la “potenza dall’alto” (cf. Lc 24, 49; At 1, 8). Per queste considerazioni, vedere
46
giunti “gli ultimi giorni”, e le promesse sono adempiute. Per Luca, dopo la morte e risurrezione
di Gesù, i dodici (cf. At 6, 2) svolgono il ruolo di un’istituzione normativa per la Chiesa
nascente. Essi hanno un’incarico (cf. At 1, 20b : ™piskop» // Sal 109, 8) e convocano la
“moltitudine dei discepoli” (At 6, 2). Tra gli “apostoli” poi emerge Pietro (cf. Lc 22, 31-32)53
, il
loro portavoce (cf. At 1, 15 ; 2, 14.37 s. ; 3, 3 s. ; 3, 6.11.12 ; 4, 8.13.19 ; 8, 20 ; 12, 18 ; 15, 7
ss.), per cui si può parlare di “Pietro e gli altri apostoli” (cf. At 2, 14.37 ; 5, 29). A Pietro spetta
anche la direzione della comunità e l’iniziativa per la missione (cf. At 1, 15 ss. ; 5, 2.3.8 s. ; 9,
32-36 ss. ; 10, 1 s. ; 15, 6 ss.), sempre sotto la guida dello Spirito Santo (cf. At 4, 8 : Pštroj
plhsqeˆj pneÚmatoj ¡g…ou). Senza diminuire il profilo e la posizione influente di Giacomo (il
“Giusto”), “fratello del Signore” e uomo di guida della comunità di Gerusalemme (cf. At 12, 17;
15, 13-21; 21, 18; 1 Cor 15, 7; Ga 2, 9), l’altra figura di spicco che appare negli Atti è
indubbiamente Paolo (Saàloj-Paàloj) : di lui, ci riferisce quasi l’intera seconda parte degli
Atti (cf. 13-28), alla stessa maniera che Pietro costituisce il punto focale della prima (cf. At 1-12 ;
15, 7-11). Eppure solo due volte, assieme a Barnaba e in un senso generale, viene detto
“apostolo” (¢pÒstoloj) come i “dodici” (At 14, 4.14). Rispetto ai dodici sui quali si fondava la
Chiesa, Paolo era una comparsa del tutto nuova, che però la conversione aveva reso uno
“strumento eletto di Dio” (cf. At 9, 15 [1-19] ; 22, 6 ss. ; 26, 12-16 ss.) per compiere, sotto la
guida dello Spirito Santo (cf. At 13, 9 ; 16, 6 s. ; 20, 22), la sua missione tra le nazioni (cf. At 13,
16.43.45 ; 14, 9.12 ; 16, 14 ; 20, 24 ; 22, 21). L’apparizione del Signore glorificato a lui (cf. At 9,
3-9.17 ; 26, 12-18 ; 1 Cor 15, 8) sta, infatti, sullo stesso piano delle apparizioni del Risorto a
Pietro e ai dodici (cf. 1 Cor 15, 5-8).
I dodici e Paolo compiono la missione del Signore mediante la parola e i segni che
servono la parola. Questa parola consiste soprattutto nella confessione della signoria di Gesù
Cristo, figlio di Dio, morto e risorto per la redenzione dell’umanità (cf. At 1, 21 s. ; 2, 30 ss. ; 4,
33 ; 8, 5 ; 9, 20 ; 11, 20 ; 17, 3.18 ; 18, 5.25.28 ; 22, 14 s. ; 26, 16.22 ; 28, 23.31). Lo Spirito
santo, che è lo Spirito di Dio e di Gesù, mediante e nel quale Dio si rende percepibile in Gesù, si
esprime nella parola apostolica (cf. Lc 12, 12 ; At 1, 8 ; 2, 4.42 ; 4, 29.31 ; 5, 28 ; 8, 14.25 ; 9,
31 ; 11, 1 ; 12, 24 ; 13, 7.12.48.49 ; 17, 19 ; ecc.), che è vangelo, insegnamento, proclamazione,
testimonianza, kerygma, assumendo i tratti di parola franca e di esortazione, supplica e
il riassunto di R. SCHNACKENBURG, La Chiesa nel Nuovo Testamento 73-75.
53
Il brano di Lc 22, 31-34 (soprattutto il versetto 32: “… io ho pregato per te, che non venga meno la tua
fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli”), come del resto Mt 16, 16-19 e Gv 21, 15-19, conferisce
indubbiamente a Pietro un posto di rilievo nel gruppo dei Dodici. Come in Mt 16, 16ss, anche in Lc la fede di Pietro
gioca un ruolo decisivo per la formazione della comunità primitiva.
47
scongiuro, di appello e di incitamento. Si può dire che la Chiesa è affidata a Dio e alla potente
parola della grazia scaturita nell’evento salvifico di Gesù Cristo che la edifica (cf. At 13, 26 : Ð
lÒgoj tÁj swthr…aj taÚthj ; si veda pure At 11, 14.18 ; 13, 46.48 ; 14, 3 ; 20, 32 ; 26, 23).
Questa parola apostolica ispirata dallo Spirito santo opera segni e prodigi in continuità
dell’attività taumaturgica di Gesù, dato che è il Signore che continua ad operare attraverso gli
apostoli e le loro mani (cf. At 2, 22.43; 4, 16 ss.22.29.30; 5, 16; 8, 7.13; 10, 38; 14, 3; 15, 12; 16,
18; 19, 11). È il nome del Signore (tÕ Ônoma Ihsoà Cristoà) che salva chi crede in esso e
riceve il perdono dei peccati (cf. Lc 24, 47; At 3, 6 ss.16; 4, 10.17.18.29 s.; 5, 28.40; 8, 12; 9,
15.27.28; 10, 43; 26, 18; ecc.).
Con la parola apostolica nasce la Chiesa. È la sua sorgente e la sua perenne forza
interiore. E lo è per coloro che l’accolgono nella fede (cf. At 4, 4; 8, 14; 10, 44; 11, 1; 13, 7.8.44;
15, 7; 19, 10) e si convertono a Dio (cf. Lc 24, 45-49; At 2, 38; 3, 19.26; 5, 31; 8, 22; 9, 35-42;
11, 21; 14, 15; 17, 30; 20, 21; 26, 20). La conversione implica il battesimo, nel quale si riceve lo
Spirito santo mediante l’imposizione delle mani (cf. At 2, 38.41; 8, 12.16.17s.38; 9, 17; 16, 15;
18, 8; 19, 6). Dio concede ad Israele (cf. At 5, 31) e ai pagani (cf. At 2, 39; 11, 18; 14, 27) una
conversione che conduce alla vita. In quanto destinati da Dio alla vita eterna (cf. At 13, 48),
pervenuti alla fede e battezzati, i membri delle comunità sono dei “discepoli” (maqhta…: At 6,
1.2.7; 9, 10; ecc.), i “credenti” (pisto…: At 10, 45) o ancora i “santi” (¤gioi: At 9, 13.32.41), in
cammino sulla via del Signore (cf. At 9, 2; 18, 25.26; 19, 9.23; 22, 4; 24, 14.22)54
. Ad Antiochia
essi vengono chiamati per la prima volta “cristiani” (cristiano…: At 11, 26). Popolo (laÒj)
riservato al nome di Dio (cf. At 15, 14; 18, 10), i credenti sono l’™kklhs…a (cf. At 5, 8.11; 8, 1.3;
9, 31; 11, 26; 14, 23; 19, 1; 20, 17.28). Questa comunità si raduna fin da principio nel tempio (cf.
Lc 24, 53 ; At 2, 46), ma anche nelle case private (cf. At 5, 42; 12, 12; 16, 5.40; 20, 20; ecc.), per
il culto. Essa cresce mediante l’acquisizione di nuovi membri tra i Giudei e i pagani ad opera
della predicazione apostolica, ma anche mediante la predicazione di alcuni membri della
comunità di Gerusalemme, in esilio (cf. 11, 19 ss.), e nella comunità ad opera dei singoli
carismatici, come Stefano (cf. At 6, 8 – 7, 60). La vita della prima comunità cristiana (cf. At 2,
42-47) si distingue soprattutto dall’assiduità nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e
nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere, senza dimenticare la comunione
dei beni. Si deve notare che la celebrazione dell’eucaristia rappresenta una continuazione del
convito con il Risorto e quindi una continuazione dell’ultima cena con il Gesù terreno. Inoltre, se
54
Questa “via (del Signore)” indicando l’orientamento e la comunione di fede cristiana appariva agli occhi
degli estranei e degli avversari come una “setta (dei Nazorei)” (a‰resij [tîn Nazwra…wn]: At 24, 5; cf. At 24, 14;
28, 22).
48
i membri della Chiesa hanno tutti ricevuto lo Spirito santo e sono fratelli (¢delfo…), questo non
significa che siano uguali : da questa fraternità, infatti, emergono due gruppi, che conosciamo
anche da altri testi del NT, cioè i “carismatici” (chiamati a volte profÁtai, i “profeti”: At 11, 27
ss.; 21, 10 s.) e i titolari di un “ministero” (fra cui gli anziani, i presbÚteroi: At 11, 30; 15,
2.4.6.22.23; 16, 4). Mentre, riempiti di Spirito, i carismatici emergevano dalla massa tra altro per
la predicazione, i presbiteri invece costituivano a Gerusalemme, assieme agli apostoli che li
avevano nominati mediante l’imposizione delle mani (cf. At 14, 4.14.23), un senato chiuso ma in
sé différenziato, e insieme con gli apostoli fungevano da guida e da istanza dottrinale per la
Chiesa intera, radunavano quindi in sé qualcosa come la presidenza della sinagoga e il sinedrio
(cf. At 16, 4 ; 21, 18). In altre parole, nella Chiesa descritta da Luca si trovano già gli elementi
della tradizione e della successione, della potestà magisteriale e di governo, insomma del
ministero (diakon…a). Questa Chiesa apostolica di Gesù Cristo nel mondo conoscerà fino alla
fine la persecuzione e il martirio (cf. At 4-9; 11, 19 ss.; 14, 22; 21, 12 ss.), ma qualche volta
anche il favore e la pace (cf. At 2, 47; 9, 31).
1.3.4. La Chiesa nella letteratura giovannea
Qui vengono presi in considerazione rispettivamente il quarto vangelo (Gv), le lettere
giovannee (1-3 Gv) e l’Apocalisse (Ap). Se nel vangelo di Giovanni manca il concetto di
™kklhs…a e che non vi si parla mai esplicitamente di essa, la sua natura intima non è meno
presente allo spirito dell’evangelista. Ciò appare chiaramente già dal fatto che Giovanni
difficilmente si interessa della struttura concreta della Chiesa. La sua considerazione si concentra
invece sulla comunione dei membri della Chiesa e sul loro rapporto con Gesù : in altre parole,
per questo vangelo la Chiesa è il discepolato di Gesù. Essa è presente fin dall’inizio, cioè nel
discepolato del Gesù terreno e si presenta con valore paradigmatico come il discepolato del
Risorto per raggiungere la sua vera essenza nel discepolato del Glorificato, il quale è presente
nello Spirito. Tale stato di cose corrisponde alla concezione giovannea della storia che pretende
solo di vedere Gesù e il suo discepolato nell’orizzonte definitivo e normativo dello Spirito
rivelatore (cf. Gv 1, 32-33; 6, 63; 7, 39b; 14, 16-17.26).
1°) Nel IV vangelo: la Chiesa appare sempre come la schiera dei credenti (cf. Gv 1, 12;
3, 18.36; 5, 24; 6, 66), che si distingue, nella sua condizione di provvisorietà e di definitività,
dalla folla fluttuante dei credenti e dagli increduli. La vera fede del discepolato e quindi dei
49
membri della Chiesa, secondo Giovanni, ha una triplice caratteristica : prima di tutto, è un
rimanere nella parola di Gesù (cf. Gv 5, 38 ; 8, 31 ; 15, 7), poi è una fede che “conosce” (cf. Gv
6, 69) e, infine, è una fede che porta molto frutto (cf. Gv 15, 8). Il rapporto di Gesù con i suoi
discepoli che Dio gli affida (cf. Gv 6, 39.44.65) è determinata soprattutto dalla sua presenza
futura nello Spirito, l’“altro Paraclito” (cf. Gv. 7, 39 ; 14, 3.16-17.26 ; 16, 7-15; 20, 22). I
“dodici” (cf. Gv 6, 67.70) sono l’esempio dei veri discepoli che credono e aderiscono a Gesù, che
per essi si è immolato dimostrando loro così il suo amore (cf. Gv 1, 29.36 ; 11, 50 s. ; 12, 24.25 ;
13, 1.34 ; 15, 12 s. ; 18, 14). Sotto ogni aspetto essi costituiscono la Chiesa di Gesù.
I discepoli vivono della parola di Gesù unita ai segni (cf. Gv 14, 29 ; 15, 20 ss. ; 16,
1.13.14.32 s. ; 17, 2.6.8), che apporta loro la salvezza, e stanno sotto il comandamento del suo
amore (cf. Gv 13, 15.34 s. ; 15, 12) e il suo invito alla sequela (cf. Gv 1, 43). Vengono sorretti
dalla sua preghiera, che chiede che siano conservati nel suo nome in mezzo al mondo, che siano
santificati nella verità, lo raggiungano e vedano la gloria (cf. Gv 17, 1-26). Ricevono la sua pace
ed hanno la promessa della sua gioia (cf. Gv 15, 11 ; 16, 20 ss. ; 17, 13). Così i membri della
Chiesa sono presentati come discepoli di Gesù, suoi servi ed amici, figlioli e fratelli, i “suoi” (cf.
Gv 10, 14 ; 13, 1.13.16.33 ; 15, 14 ss.20 ; 20, 17 ; 21, 5). Senza essere attaccati a lui, non
possono portare frutto (cf. Gv 15, 1-17 : Gesù la vera vite) ; formano il gregge del buon pastore
(cf. Gv 10, 1-18). Gesù è quindi l’origine e il centro fecondatore della sua comunione.
Il discepolato della Chiesa è universale e trova il suo compimento nella sua unità in Gesù
(cf. Gv 4, 1-42: l’incontro con la Samaritana; 10, 16: le “altre pecore”; 12, 20-26.27-36: la gloria
e la croce). In quanto tale continua l’opera dell’amore di Dio nella missione di Gesù, la quale sta
nel guadagnare il mondo alla fede e nel dargli la vita. Soltanto unita, in conformità con la volontà
di Gesù (cf. Gv 11, 51-52; 17, 20-23), la comunità dei discepoli (= la Chiesa) riesce credibile al
mondo. La Chiesa, tuttavia, che non è del mondo, abita nel mondo e in esso e mediante esso fa
l’esperienza del destino di Gesù (cf. Gv 15, 18-25; 16, 25-33; 17, 6-26). Il mondo infatti è caduto
nella menzogna, nel peccato e nella morte e odia, desiderandole così inconsciamente, la verità, la
libertà e la vita (cf. Gv 8). Odia e uccide Gesù e i suoi, per cui la Chiesa è una Chiesa sofferente
(cf. Gv 9, 22; 12, 42; 15, 18; 16, 1-4.33; ecc.).
Che in definitiva, quando Giovanni tratta della schiera dei discepoli di Gesù, parli della
Chiesa concreta, lo si intravede dal fatto che sullo sfondo compaiono certi elementi della
struttura della Chiesa: la missione (cf. Gv 4, 38; 13, 16.20; 17, 18; 20, 21), il ministero (cf.
soprattutto la persona e la funzione di Pietro [Gv 1, 42; 6, 67-70; 21, 15-19: affidamento
dell’incarico di “pastore”], di Giovanni [Gv 13, 23; 18, 15-16; 19, 26.35; 20, 2; 21, 7.20.24] e
50
degli altri discepoli [Gv 20, 21])55
, la tradizione (cf. Gv 14, 26; 15, 26; 16, 13-15) e il culto (cf.
Gv 1, 26.31.33; 3, 3-8.22-23; 4, 1-2: battesimo; Gv 2, 18-21: tempio = corpo di Gesù [Gv 1, 14;
1, 51]; Gv 4, 19-26: adorazione in spirito e verità; Gv 19, 34: allusione al battesimo e
all’eucaristia; Gv 2, 1-11; 6, 14-17; 19, 36: eucaristia; ecc.). Inoltre, si noterà la presenza
puntuale di Maria, la madre di Gesù, nell’“ora” di quest’ultimo (cf. Gv 2, 1-5: le nozze di Cana;
Gv 19, 25-27: Maria presso la croce; ecc.). In croce, Gesù affida Maria al discepolo prediletto e
viceversa (cf. Gv 19, 26-27), e quindi, secondo una corrente interpretazione, fa di Maria la
“madre dei credenti”.
In conclusione, si noterà che l’autore del quarto Vangelo non parla di una comunità
puramente spirituale o carismatica, piuttosto egli vede la Chiesa prevalentemente sotto
l’aspetto spirituale. L’annuncio dei sacramenti (ad es. battesimo ed eucaristia) viene fatto nel
contesto spirituale, mentre la sequela dei discepoli è finalizzata nell’orizzonte dello Spirito alla
continuazione dell’opera salvifica di Gesù, maestro e buon pastore per eccellenza.
2°) Nelle lettere giovannee: come nel quarto vangelo che trae origine dalla stessa
“scuola”, la Chiesa è anche qui presente sullo sfondo, tuttavia emerge con maggiore chiarezza in
alcuni elementi della sua struttura. In 3 Gv, l’autore si definisce l’“anziano” (Ð presbÚteroj), il
che con ogni probabilità non è ancora un titolo ministeriale, ma una designazione della sua
dignità ed autorità, forse nel senso di depositario e trasmettitore della tradizione del Signore. In 1
Gv, l’autore rinuncia a tale denominazione ma mette in luce tanto più energicamente la sua
autorità spirituale, per essere all’interno della comunità il rappresentante e il portavoce di un
gruppo, cioè di quello che custodisce la tradizione, al servizio della comunione (cf. 1 Gv 1, 3:
koinwn…a). Egli, poi, presenta alla comunità delle proposizioni vincolanti dal punto di vista della
fede, con la pretesa di offrire così una verità infallibile (cf. 1 Gv 2, 1.15.27). Infine, il modo con
cui chiama i membri della comunità fa intendere una stretta relazione personale e un certo potere
spirituale sugli auditori (cf carissimi [¢gapeto…]: 1 Gv 2, 7; 3, 2.21; 4, 1.7.11; 3 Gv 2, 5.11;
fratelli [¢delfo…]: 1 Gv 3, 13; figlioli [tekn…a o paid…a]: 1 Gv 2, 1.12.14.18.28; 3, 7.18; 4, 4; 5,
21; 3 Gv 4). In 3 Gv, questo prebÚteroj si oppone con autorità ad un certo Diostrefe, che è forse
55
Se Pietro e il “discepolo che Gesù amava” – tradizionalmente identificato con l’apostolo Giovanni dei
vangeli sinottici – appaiono come dei concorrenti, sembra che con le loro figure il quarto vangelo voglia dare forma
alla concorrenza tra colui che detiene l’ufficio e la persona carismatica. In ogni caso, in tutte le pericopi in cui
Pietro e quel discepolo compaiono insieme (cf. Gv 13, 23-26 ; 20, 1-10 ; 21, 7.20-24), si nota che il secondo appare
come colui che aveva una particolare consuetudine con Gesù, mentre Pietro è colui che ha l’autorità e l’ufficio. Cf.
H. SCHLIER, Ecclesiologia del Nuovo Testamento 168-169.
51
investito di un ufficio ecclesiastico e che potrebbe essere un ™p…skopoj, ma non certamente in
questioni dottrinali.
Per quanto riguarda l’autocomprensione della comunità, si deve dire che essa sta nella
“comunione” con il Padre e il suo Figlio Gesù Cristo ed è fondata nell’amore preveniente di Dio.
Questo amore, Dio lo ha dimostrato mandando il suo Figlio, che è la manifestazione della vita
eterna (cf. 1 Gv 1, 1-4.9 ; 2, 12.27 ; 3, 8.16 s. ; 4, 9.10.14 ; 5, 20). Gesù è il giudice davanti al
quale ognuno deve rispondere e prendere la decisione definitiva (cf. 1 Gv 2, 28 ; 3, 2 ss. ; 4, 17).
La comunità, che è debitrice a Dio e a Gesù Cristo in tutto, ha anche lo Spirito, che si manifesta
in molteplici maniere (cf. 1 Gv 3, 24 ; 4, 1.2.6.13 ; 5, 6), dona la conoscenza e istruisce su tutto
(cf. 1 Gv 2, 20 ; 2, 27), e rende pure testimonianza al battesimo e alla croce di Gesù (cf. 1 Gv 5,
6-12). In virtù dello Spirito, la comunità possiede anche la parola, che è prima di tutto il LÒgoj
divenuto carne e Verbo della vita (cf. 1 Gv 2, 7 ; 5, 11). La custodia della Parola (cf. 1 Gv 2, 3
ss.) significa l’osservanza dei comandamenti, e innanzitutto il comandamento dell’amore (cf. 1
Gv 2, 3.7 ss. ; 3, 11.23.24 ; 4, 2.16.21 ; 5, 2 ; 2 Gv 4-6). Così la parola che lega la comunità a Dio
e a Gesù Cristo e fa rifluire sui suoi membri la vita e fa sì che si amino vicendevolmente, è
sempre la stessa della tradizione, ispirata dallo Spirito. Non mancano anche delle indicazioni sui
sacramenti (cf. 1 Gv 2, 20.22.27: confessione battesimale; 5, 6-8: battesimo ed eucaristia; 1 Gv 1,
9: confessione dei peccati).
Edificata sulla parola di Dio e sui sacramenti, la comunità è composta dai credenti che
conoscono e amano Dio e lo conservano in sé (cf. 1 Gv 2, 5.6.24 ; 3, 24 ; 4, 3.6.12.16 ; 3 Gv 11).
La fede che è conoscenza di Dio o di Gesù Cristo (cf. 1 Gv 2, 3 s.13 s. ; 3, 1.6 ; 4, 6.7 s. ; 4, 16 ;
5, 20) viene suscitata e risponde alla testimonianza (martur…a) dello Spirito nella parola (cf. 1
Gv 2, 7.14.24 ; 3, 23 ; 5, 5-13) e nell’amore di Dio e dei fratelli (cf. 1 Gv 2, 29 ; 3, 9.23 ; 4,
2.7.21 ; 5, 1.4.18 s. ; 2 Gv 4-6). In tal modo la fede, in quanto atteggiamento dei membri della
comunità, è la vittoria sul mondo (cf. 1 Gv 5, 4) e i credenti sono i vincitori del mondo, del
maligno e dell’eresia (cf. 1 Gv 2, 13 s. ; 4, 4 ; 5, 5). Come persone che credono e amano, i
membri della comunità sanno di essere separati dal mondo, anzi di essere in contrasto con esso
(cf. 1 Gv 2, 15 ss. ; 3, 10). Questo mondo, infatti, nelle sue intenzioni, non ha ricevuto il suo
essere da Dio, ma vive di se stesso, quindi di ciò che è passeggero (cf. 1 Gv 1, 5 s. ; 2, 9-11 ; 5,
19) e si compiace nel peccato e nelle opere del diavolo (cf. 1 Gv 3, 4.8.10). Il mondo e il suo
principe sono però penetrati anche nella comunità, mediante le eresie che la minacciano (cf. 1 Gv
2, 18.22.26 ; 3, 7 ; 4, 1.3.6 ; 2 Gv 7.9.10 s.)56
. I cristiani devono stare in guardia, provare gli
52
spiriti (cf. 1 Gv 4, 1) e rimanere in ciò che hanno ascoltato dal principio (cf. 1 Gv 2, 24.26 ; 2 Gv
8 s.). La comunità vive nel tempo finale. Gli eretici o anticristi, che compaiono in seno alla
Chiesa, sono il segno dell’ultima ora (cf. 1 Gv 2, 18). Ma questo tempo finale, con più esattezza,
è il tempo in cui le tenebre se ne vanno e brilla già la vera luce (cf. 1 Gv 2, 8). La vera luce però
brilla e scaccia le tenebre in quanto l’antico e quindi nuovo comandamento si è realizzato in
Gesù il Cristo e si realizza nella comunità mediante la fede e la carità. La Chiesa tentata, ma
sempre fedele alla dottrina di Cristo mediante la forza dello Spirito, è il segno del tempo finale
incominciato.
3°) Nell’Apocalisse di Giovanni: la comunità dei credenti viene presentata come la
Chiesa di Gesù Cristo, quale testimone fedele, primogenito tra i morti, principe dei re della terra
(cf. Ap 1, 5; 1, 17 s.; 2, 8). Che il suo ritorno sia vicino (cf. Ap 1, 1.3; 2, 16; 3, 11; 22,
6.7.10.12.20) e che non ci sia più tempo (cf. Ap 10, 6 s.; 12, 12; 17, 10), questo fa sì che il regno
del “leone della tribù di Giuda e germoglio di Davide” (Ap 5, 5 // Gn 49, 9; Is 11, 1.10), che è un
“agnello immolato” (Ap 5, 6), sia assoluto.
La Chiesa è la proprietà di questo Gesù Cristo, che “ci ama e ci ha liberati dai nostri
peccati con il suo sangue; che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1,
5; cf. 5, 9-10; 14, 3.4). Di questa Chiesa, che è debitrice del suo amore, egli è il Signore e al
veggente appare “in mezzo ai sette candelabri” (Ap 1, 13), che simboleggiano le sette Chiese e
quindi la Chiesa universale (Ap 1, 20; 2, 1), e come colui “che tiene nella sua mano destra sette
stelle” (Ap 1, 16.19; 2, 1; 3, 1) che sono “gli angeli delle sette Chiese” (Ap 1, 20), cioè la Chiesa
nella sua essenza stabilita e custodita da Dio. La Chiesa, come sposa dell’Agnello (cf. Ap 19, 7;
22, 17), è il luogo di presenza del Cristo crocifisso e glorificato. Questi conosce bene la sua
Chiesa e la sua condizione, per cui può premunirla contro certi pericoli (cf. Ap 1, 11 – 3, 22:
lettere alle sette chiese). Questa Chiesa è universale : essa in quanto popolo di Dio (cf. Ap 18, 4;
21, 3), tratto “da ogni tribù, lingua, popolo e nazione” (Ap 5, 9), sostituisce Israele. In effetti, è la
città santa, la nuova Gerusalemme (cf. Ap 21, 10), cinta da un grande ed alto muro con dodici
porte, sopra le quali stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli
d’Israele (Ap 21, 12). Inoltre, viene detto che le mura di questa città poggiano su dodici
basamenti, dove si leggono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello (Ap 21, 14). Senza
dubbio i 144.000, cioè i 12.000 per dodici, sono l’Israele ricostituito nel popolo di Dio della fine
dei tempi (cf. Ap 7, 1 ss.; 21, 12). Quest’Israele perfezionato è la moltitudine degli eletti (cf. Ap
56
Sembra trattarsi prevalentemente di un’eresia cristologica, il docetismo, che non voleva confessare come
53
7, 9), la Chiesa perfetta che serve al trono di Dio (cf. 7, 13-15), e sotto il nuovo cielo e sulla terra
nuova la celeste Gerusalemme sarà la “dimora di Dio con gli uomini” ed egli “dimorerà tra di
loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il ‘Dio-con-loro’” (Ap 21, 3: aÙtoj Ð QeÕj met\
aÙtîn œstai).
I membri della Chiesa di Cristo sono chiamati “santi” (cf. Ap 5, 8; 8, 3.4; 11, 18; 13, 7),
“servi di Dio” (cf. Ap 1, 1; 2, 20; 7, 3; 10, 7; 11, 18; 22, 9), “fratelli” (cf. Ap 6, 11; 12, 10),
talvolta distinti dai “profeti” come carismatici (cf. Ap 11, 18; 16, 6; 18, 20). Per loro urge sempre
l’imperativo di conversione (cf. Ap 2, 5.16.21.22; 3, 3.19; 9, 20.21; 16, 9.11), di testimonianza e
di confessione del nome di Gesù (cf. Ap 1, 3; 2, 7.9.11.13.17; 3, 8; 11, 18; 19, 10; 22, 7.9.18 s.). I
cristiani sono ancora coloro che “seguono l’Agnello ovunque vada” (cf. Ap 14, 4) e ne sono
testimoni e confessori, anche attraverso la passione e la morte (cf. Ap 1, 5; 3, 14; 6, 9; 7, 9.14;
12, 11; 14, 12; 16, 6; 17, 6; 20, 4; 22, 14). Con il martirio, conseguente all’ostilità e all’inimicizia
del mondo e delle sue potenze contro il loro Signore (cf. Ap 12: il dragone; 13: le due bestie; 17-
18: Babilonia, la grande prostituta), i cristiani raggiungono il vertice del loro essere cristiani.
Infatti, la Chiesa ora tentata ed oppressa, dal mondo riesce già profeticamente trionfante,
mediante la custodia divina (cf. Ap 11, 1 s.; 12, 13 ss.; 22, 1 ss.) e la stessa vittoria dell’Agnello.
Paradigmatica è la lotta tra la donna e il dragone in Ap 1257
. Questa donna, adorna di ornamenti
celesti, dà alla luce un figlio nel quale bisogna riconoscere il Messia perché al v. 5 egli compie la
profezia messianica del Sal 2, 9, non senza riferimento al cosiddetto “Protovangelo” di Gn 3, 15,
cioè l’annunzio della vittoria del Messia, nato da una donna. In Ap 12, 9 il grande drago è in
effetti chiamato l’antico serpente, diavolo e satana che seduce tutta la terra. Se si tiene conto
anche del seguito (cf. Ap 12, 17), è chiaro che questa donna designa Sion (cf. Is 54; 60; Os 2, 21-
25) cioè il popolo di Dio, che genera il Messia e i credenti. In quanto madre del Messia, la donna
di Ap 12 potrebbe anche indicare Maria, così come hanno pensato numerosi Padri e tutta una
tradizione liturgica ed iconografica. Almeno l’autore avrebbe pensato a Maria in quanto figura
della Chiesa (alle prese con la persecuzione).
1.3.5. La Chiesa nella letteratura paolina
Qui sono presi in esame i nomi della Chiesa, il suo mistero, la sua edificazione e i suoi
membri secondo le grandi lettere di San Paolo (Rm, 1 & 2 Cor, Gal, Ef, Fil, Col, 1 & 2 Ts).
Cristo il Gesù terreno (cf. 1 Gv 2, 22 ; 4, 2-3).
57
Cf. anche Ap 12, 2 e la nota i della TOB.
54
1°) I nomi della Chiesa: sono tre le nozioni principali che sottolineano molteplici e
diversi aspetti della Chiesa: popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito Santo.
L’applicazione alla Chiesa dell’espressione “popolo di Dio” (laÕj toà Qeoà) in Paolo è rara ; vi
compare due volte in altrettante citazioni dall’AT (cf. Rm 9, 25-26 → Os 2, 1.25; 2 Cor 6, 16 →
Lv 26, 12 // Ez 36, 28; 37, 27). Ciò dimostra, da una parte, quanto naturale fosse per l’apostolo il
nesso, anzi, in un certo senso, l’identità del popolo di Dio veterotestamentario con la Chiesa.
D’altra parte però, ciò dimostra che per lui il concetto di “popolo di Dio” in quanto tale non
esprime in maniera abbastanza pregnante ciò che la Chiesa è. Per questo Paolo, per connotare la
Chiesa, ha desunto dall’AT greco e dalla comunità ellenistica primitiva un altro concetto più
espressivo, nel quale si condensa anche il significato di “popolo di Dio”, cioè il concetto di
™kklhs…a (cf. 1 Cor 1, 2; 10, 32; 11, 16.22; 15, 9; Gal 1, 13.22; 1 Ts 1, 1; 2, 14; 2 Ts 1, 1.4). Per
Paolo, e già per la comunità primitiva, è un concetto grave e solenne, insieme anche
evidentemente, biblico: nell’AT esso è la traduzione quasi esclusiva del concetto ebraico qāhāl
(cf. Dt 23, 2ss.; 1 Cr 28, 8; Mic 2, 5; ecc.) che però, inversamente, viene reso anche da
sunagwg» (riunione, sinagoga: 21 volte in Gn, Nm, Lv, ecc.), Ôcloj (massa di popolo: Ger 31,
8; Ez 16, 40; 17, 7) e plÁqoj (moltitudine: Es 12, 6; 2 Cr 31, 18). Nell’uso paolino, ™kklhs…a
indica il popolo di Dio radunato e formato di giudei e di pagani, che ora è il popolo uno ed
unico in Dio, nel Padre e nel Signore Gesù Cristo, o in Cristo in questo o quel luogo, quindi
presente nelle singole comunità locali o domestiche (cf. Rm 16, 1.4.5.16.23; 1 Cor 4, 17; 6, 4;
10, 32; 11, 16.22; 12, 28; 14, 33 s.; 15, 9; 16, 1.19; Gal 1, 13; Col 4, 15; Fm 2). Essa rappresenta
la continuazione e il compimento escatologico del popolo di Dio che è Israele, non secondo la
carne ma secondo lo Spirito e la promessa (cf. Rm 4, 11 s.; 9, 6-13.27; 11, 5.7.17 s.; 1 Cor 10,
18; Gal 3, 6 ss. 29; 4, 26; 6, 16; Fil 3, 3). La singola chiesa locale si presenta anche come
un’assemblea santa, secondo la qualificazione dei suoi membri, “santi per chiamata” (Rm 1, 6-7;
1 Cor 1, 2; cf. Rm 8, 27.28.33; 12, 13; 16, 2.13.15; 1 Cor 1, 24; 6, 1 s.; 14, 33; Col 3, 12; 2 Tm 2,
10; Tt 1, 1), per cui sulla terra essi sono come una colonia di cittadini del cielo (cf. Ef 2, 12.19;
Fil 3, 20), che si raduna per compiere gli atti sacri e pubblici del culto.
La Chiesa è il popolo di Dio in quanto popolo di Cristo (cf. Rm 16, 16; 1 Ts 2, 14; Gal 1,
22). Essa è dunque la proprietà di Cristo. Per esprimere questo rapporto, Paolo usa l’espressione
caratteristica di “corpo di Cristo” (sîma toà Cristoà)58
. Nelle lettere ai Romani (cf. 7, 4; 12,
58
Nel NT, l’espressione “corpo di Cristo” indica tre realtà distinte ma collegate tra loro: 1°) il corpo
carnale o fisico di Gesù (cf. Mc 15, 43 e par.; Lc 24, 3; Gv 2, 21; 20, 12; Rm 7, 4; Col 1, 22; 1 Pt 2, 24; Eb 10,
5.10); 2°) il corpo eucaristico e sacramentale (cf. i racconti dell’istituzione eucaristica: Mc 14, 22; Mt 26, 26; Lc
22, 19; 1 Cor 11, 24; vedere anche Gv 6, 56 [s£rx]; 1 Cor 10, 16; 11, 29); 3°) il corpo ecclesiale di cui i fedeli sono
55
4-5) e ai Corinzi (1 Cor 10, 16-17; 12, 12-27), la Chiesa in quanto “corpo di Cristo” appare
come un organismo (biologico) avente come Capo Cristo, ma anche come una “sussistenza
sacramentale” in questo mondo del corpo fisico di Cristo glorificato. In effetti, dalla comunione
con l’unico corpo di Cristo, l’apostolo deduce che tutti coloro che celebrano la Cena del Signore
costituiscono un solo corpo (1 Cor 10, 16-17; cf. Rm 12, 5; Gal 3, 28), in una specie di
“personalità collettiva”. L’analogia del corpo non è tanto l’unità del corpo formato dai cristiani,
quanto il fatto che siano un corpo unico in unione con Cristo, perciò non si può avere un’unione
simile con i demoni (cf. 1 Cor 10, 21). La formulazione parallela “un solo pane, un solo corpo”
(1 Cor 10, 17) a cui la partecipazione all’unico pane unisce, rivela che l’espressione “un solo
corpo” descrive simbolicamente l’unità della Chiesa, perlopiù locale. Il testo di 1 Cor 12, 12-27
chiarisce in che misura questa unità della comunità “in Cristo” (™n cristù) sia garantita, e come
la comunità formi dunque il corpo di Cristo: in un certo qual modo, Paolo vuole dire che la
comunità è unita “in Cristo” nella molteplicità dei suoi membri, così come anche Cristo ha molte
membra (cf. 1 Cor 6, 15), le quali però, benché molte, sono un solo corpo. Paolo parla qui
dell’appartenenza delle membra a Cristo, grazie alla quale unicamente il corpo è costituito.
Questo corpo è peraltro il risultato del conferimento dello Spirito (1 Cor 12, 1-11; cf. 1 Cor 6, 17:
“chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito”) e del battesimo (1 Cor 12, 13); al singolo
credente, la cui nuova identità che si realizza in Cristo, raggiunge ora una configurazione tale da
costituire insieme agli altri credenti un solo corpo “in Cristo”, no nonostante ma mediante la
diversità e la specificità delle funzioni di ognuno (cf. 1 Cor 12, 14-26). Nella Cena del Signore,
le membra sono continuamente costituite come un solo corpo a partire dall’evento salvifico in
Cristo, e non vivono più per se stessi, ma appartengono totalmente a Cristo (cf. Rm 14, 7-9; Gal
2, 19-20; 6, 14; Fil 3, 7-12).
Nelle lettere agli Efesini ed ai Colossesi, considerate come deutero-paoline, non si parla
soltanto della Chiesa come corpo di Cristo ma anche di Cristo quale “capo” di questo corpo (cf.
Ef 1, 22 s.; 4, 12.16; 5, 23.30; Col 1, 18.24; 2, 19). In entrambi i casi si indica il rapporto di
Cristo con la Chiesa. La Chiesa è il corpo di Cristo, o più precisamente, essa è Cristo nel suo
corpo. Nel corpo di Cristo, la Chiesa, è presente Cristo stesso in una maniera particolare. In esso
Cristo è presente in modo che egli sta insieme di fronte alla Chiesa, può rapportarsi ad essa. La
Chiesa in quanto suo corpo non può essere separata da lui. Essa però non può nemmeno
identificarsi in senso pieno con lui. Egli e la Chiesa non sono la stessa cosa. La correlazione
membra (cf. Rm 12, 4-5; 1 Cor 10, 17; 12, 12-27; Ef 2, 16; 3, 6; 4, 4.16 [nota d]; 5, 23; Col 1, 18.24; 2, 19; 3, 15).
Dopo la risurrezione, il corpo fisico di Cristo prende la forma del corpo eucaristico-sacramentale per esistere
(misticamente) nel corpo ecclesiale.
56
capo e corpo esprime il rapporto indissolubile della Chiesa con Cristo e di Cristo con la Chiesa
(Ef 1, 22-23; 5, 31-32; Col 1, 18; cf. At 9, 4-5; Gal 2, 20). Il concetto di capo implica una
preminenza di Cristo e una subordinazione della Chiesa nei suoi confronti: Cristo è il
fondamento imperituro della Chiesa e il suo fine permanente. Come suo corpo, essa procede
sempre da lui e compare sempre dopo di lui; egli è l’origine e il fine del suo dinamismo interiore.
Inoltre, il corpo sulla terra permette di raggiungere il capo in cielo (cf. Ef 4, 13 ss.)59
. Il rapporto
Cristo-Chiesa appare anche in Ef 5, 21-32, dove Cristo, capo del corpo, viene presentato come
suo sposo e questo corpo come sua sposa. Ora chiaramente la Chiesa incontra Cristo in una
specie di personalità. Però, nella Chiesa, che è la sua fidanzata, la sua sposa, Cristo ama anche se
stesso (cf. Ef 5, 28b). In questa relazione d’amore, la Chiesa è la sposa di Cristo nella dedizione a
colui che l’ha amata e purificata, al cui continuo interessamento essa risponde con il suo amore
obbediente (cf. Ef 5, 22.25 ss.). A dire il vero, in San Paolo, l’immagine di “corpo” mette
l’accento principalmente sull’unione della Chiesa con Cristo (= unità), mentre l’immagine di
“sposa” la situa piuttosto di fronte al suo Signore e Sposo (= dualità). Nella prima prospettiva, la
Chiesa è considerata come formante un solo essere mistico con Cristo; nella seconda, i due poli
sono distinti, altrimenti l’incontro faccia a faccia sarebbe impensabile. Si arriva quindi a
concepire una dualità nell’unità (o forse meglio ancora, un’unione-nella-distinzione), dove non si
dimentica l’assoluta disparità delle due componenti, se tanto è vero che nel mistero pasquale
Cristo ha creato e purificato la sua Chiesa per poterla amare. In questo caso, lo Sposo non ha
propriamente scoperto la sua sposa, dato che le ha dato l’esistenza60
.
59
Il significato onnicomprensivo del concetto di “corpo” porta a riconoscere il carattere cosmico della
Chiesa. Questa, in quanto “corpo di Cristo”, del secondo Adamo, dell’uomo primordiale, è un “mondo”. Per
principio dunque la sua estensione coincide con quella del cosmo. Tutto il mondo, in virtù di Cristo, è sottoposto al
suo diritto e alla sua cura e in essa viene rinnovato (cf. Ef 1, 10; 3, 18). In questo senso, il “corpo” di Cristo è sempre
considerato prima dei singoli membri. Ma il “corpo” può anche indicare la comunità dei credenti (= “corpo dei
membri di Cristo”), in quanto è una creazione sociale, un organismo strutturato partendo dai suoi membri (cf. Rm
12, 3 ss.; 1 Cor 12, 12 ss.; Ef 4, 1 ss.). Questi due aspetti della Chiesa sono ovviamente complementari. Cf. H.
SCHLIER, Ecclesiologia del Nuovo Testamento 188-189; IDEM, Il tempo della Chiesa. Saggi esegetici = Collana di
studi religiosi (Bologna, Il Mulino 1965) 281-282. Vedere anche J. HAINZ, Vom „Volk Gottes“ zum „Leib Christi“.
Biblisch-theologische Perspektiven paulischer Ekklesiologie, in Volk Gottes, Gemeinde und Gesellschaft = JBTh 7
(Neukirchen-Vluyn 1992) 145-164; A. MUSONI, La Chiesa di Dio in Gesù Cristo. Lineamenti dell’ecclesiologia
paolina, in M. SODI – P. O’CALLAGHAN (a cura), Paolo di Tarso. Tra kerygma, cultus e vita = Pontificia Academia
Theologica. Itineraria 3 (Città del Vaticano, LEV 2009) 67-86.
60
Cf. G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero 98-99. Si veda anche M. KEHL, La Chiesa 81: “ La Chiesa è
«corpo di Cristo» perché, nella sua unità intima e inseparabile con lui, essa rappresenta lo spazio vitale «corporeo»,
esteso nella realtà sociale e differenziato in modo plurale, del Signore glorificato in mezzo a noi. «Sposa di Cristo»
sottolinea invece soprattutto la diversità della Chiesa rispetto a Cristo; essa gli sta di fronte in una relazione
personale e dal suo amore è purificata, santificata e preservata dal pericolo di andare in rovina per la sua
peccaminosità”.
57
Quest’orientamento verso la sua origine e il suo futuro in Cristo non impedisce affatto la
Chiesa a avere la sua consistenza nei singoli membri e nella loro compagine sociale. I membri
del corpo di Cristo, secondo Paolo, sono prevalentemente dei pneumatici e carismatici (cf. 1 Cor
2, 13 ss.; 3, 1; 12, 1 ss.; Gal 6, 1; Ef 5, 19; Col 1, 9; 3, 16): infatti, i doni dello Spirito fondano e
rivelano la vivente unità dei membri delle comunità che sono complementari tra loro. Così
dunque la vita della Chiesa e nella Chiesa si muove nello Spirito di Dio (cf. Ef. 2, 22), per cui la
Chiesa appare come il “plèroma (pl»rwma) di Cristo” (Ef 1, 23; 4, 13; cf. 3, 19; Col 1, 19; 2, 9-
10), cioè il luogo della pienezza divina (Col 2, 10: pl»rwma qeÒthtoj).
Un terzo concetto fondamentale per la comprensione della Chiesa secondo Paolo è quello
di “tempio di Dio” (naÕj toà Qeoà). In 1 Cor 3, 16-17, si legge: “Non sapete che siete tempio
di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi ? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui.
Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi”. Affini a “tempio” sono i concetti di “edificio” (cf.
Ef 2, 19 ss.), di “casa” (cf. Ef 2, 19; 1 Tm 3, 15), ma anche di “città” (cf. Gal 4, 21 ss.; Fil 3, 20).
Se il concetto di tempio di Dio connota la Chiesa come compagine (cf. 1 Cor 3, 5 ss.; Ef 2, 19
ss.; 4, 7 ss.), esso significa pure il luogo in cui Dio vive ed agisce mediante lo Spirito santo (cf. 2
Cor 6, 16). In altre parole, nella Chiesa in quanto tempio di Dio si sono realizzate le promesse di
Dio ad Israele (cf. Lv 26, 11 s.; Ez 37, 26 s.; Zc 8, 8). Ma Dio abiterà in questo tempio in Spirito.
Di lui la Chiesa è debitrice, per suo mezzo essa si edifica, in quanto egli è colui che distribuisce i
suoi doni e il principio vitale dei suoi ministeri e dei suoi membri (cf. Rm 8, 1 ss.; 12, 11; 15, 16;
1 Cor 2, 10 ss.; 6, 11; 12, 1 ss.; 2 Cor 1, 22; 3, 3.6 ss.; Gal 3, 1 ss.; 5, 16 ss.; 1 Ts 1, 5 s.; Ef 1, 13
s.; 2, 17 ss.; 3, 3 ss.; 5, 18; ecc.). Paolo, infine, mette in rapporto la santità della Chiesa con il
concetto di tempio di Dio : nella misura in cui ogni credente è a sua volta “tempio dello Spirito”
(1 Cor 6, 19; cf. 1 Cor 3, 17b). In quanto tale egli non appartiene più a se stesso ma al Dio santo
(cf. Rm 14, 7-8; Gal 2, 20).
2°) La Chiesa nel mistero di Dio: i concetti paolini in merito alla Chiesa pongono sulle
tracce della misteriosa natura della Chiesa. Nella Lettera agli Efesini, Paolo presenta l’origine
della Chiesa nel mistero della provvidenza e predestinazione divine. Da sempre Dio vede davanti
a sé la Chiesa e la vuole. In essa si concretizzano la sapienza e la volontà eterne di Dio (cf. Ef 1,
10 [1, 3-14]). La Chiesa quindi non trae la sua origine dal mondo e dalla sua storia, ma
dall’insondabile volontà salvifica di Dio, manifestando l’adempimento in Cristo del mistero
nascosto da secoli nella mente di Dio, “che i Gentili cioè sono chiamati, in Cristo Gesù, a
partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della promessa per
mezzo del vangelo” (Ef 3, 6). Se la creazione è già segretamente orientata verso la Chiesa (cf. Ef
58
3, 9-11; Col 1, 16-18), ciò vuol dire che con la Chiesa viene in luce anche la stessa creazione, in
attesa di compimento definitivo (cf. Rm 8, 18-25; 2 Cor 5, 1-10). Nel mistero pasquale di Cristo,
la creazione ha ricevuto un nuovo fondamento (cf. Ef 2, 15 s.): la realtà del corpo di Cristo in
croce, la quale estendendosi a tutto il mondo lo riconcilia, lo regge e gli ridona la vita, prende
forma e si costruisce come dimensione salvifica della Chiesa, per opera dello Spirito Santo. In
altre parole, nella forza dello Spirito Santo rivelatore, la Chiesa è il frutto e la manifestazione
visibile del mistero di Dio sulla terra, che è apparso definitivamente in Gesù Cristo, crocifisso e
risuscitato dai morti.61
3°) L’edificazione della Chiesa: lo Spirito Santo realizza e trasforma la dimensione
salvifica del corpo di Cristo in croce nella immagine salvifica della Chiesa mediante il vangelo e
i sacramenti, e con l’ausilio dei servizi ministeriali e carismatici. Il vangelo è “vangelo di Dio o
di Cristo” (cf. Rm 1, 1.9.16; 1 Ts 3, 2; 2 Ts 1, 8), “testimonianza di Dio o di Cristo” (cf. 1 Cor 2,
1; 1 Cor 1, 6), “parola di Dio o del Signore” (cf. 1 Cor 14, 36; 2 Cor 2, 17; 1 Ts 1, 8; 2 Ts 3, 1;
ecc.). Questa parola di Dio o di Cristo poi risuona nella parola dell’apostolo (cf. Gal 1, 11; 2, 2; 1
Ts 1, 5; 2 Ts 2, 14). In virtù dello Spirito santo, la parola di Dio sulla bocca dell’uomo, come
parola divino-umana, attualizza la realtà della croce e della risurrezione edificando la Chiesa (cf.
Ef 3, 8 ss.), che è concretamente la dimensione salvifica del corpo di Cristo sulla terra. I
sacramenti contribuiscono ugualmente all’edificazione della Chiesa (cf. battesimo: 1 Cor 12, 13;
Ef 5, 26; eucaristia: 1 Cor 10-11; ecc.), in quanto sono segni che attualizzano e rivelano il
mistero pasquale di Cristo, in virtù dello Spirito. La predicazione del vangelo, la celebrazione dei
sacramenti avvengono mediante determinati ministri e servizi, ai quali Dio ha affidato
l’amministrazione (cf. Rm 1, 9; 15, 16; 1 Cor 1, 17; 4, 1 s.; 9, 17; 2 Cor 3, 4 ss.; 5, 18-20; 6, 4;
11, 23; Gal 1, 11-15; Col 1, 25). Se l’apostolato come tale cessa con l’apostolo Paolo (cf. 1 Cor
15, 8), il servizio apostolico non ha fine. Esso viene esercitato dai discepoli dell’apostolo
mediante il principio della successione (cf. 1 Cor 4, 17). Oltre agli apostoli, ci sono anche i
profeti come mediatori e investiti dello Spirito (cf. Rm 12, 6; 1 Cor 1, 7; 12, 28 ss.; Ef 2, 20; 1 Ts
5, 19-21), sempre per la testimonianza e l’edificazione della dimensione salvifica di Cristo che è
la Chiesa. Non c’è identità né opposizione tra ministri e carismatici, ed entrambi diversamente
edificano il corpo di Cristo in virtù dello Spirito (cf. Rm 14, 7 ss.13-20; 1 Cor 8, 11-12; 1 Ts 5,
11). Infatti, Cristo “ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti,
altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di
61
Pertanto, si nota che “Paolo (con tutto il N.T.) non usa mai la locuzione ‘il mistero della Chiesa’, anzi la
evita là dove avrebbe potuto impiegarla (cfr. per es. Ef. 3, 3.9); semmai parla di “mistero… in rapporto a Cristo e
59
edificare il corpo di Cristo” (Ef 4, 11-12 [11-16]). In tutte queste persone e attività l’intero corpo
della Chiesa è interessato al suo sviluppo da Cristo verso Cristo.
4°) I membri della Chiesa: Il corpo di Cristo, la Chiesa, è insieme una comunità di
uomini. I membri della Chiesa vengono edificati quando sono inseriti e consolidati in Cristo (cf.
1 Cor 1, 30; 10, 12; 12, 13; Gal 3, 27 s.). Questo essere assunti “in Cristo” (™n Cristù) significa
che i cristiani entrano nell’ambito nuovo di una sovranità personale, nel quale Gesù Cristo si è
rivelato nella sua essenza e vive con essi. A riguardo, Paolo afferma per esempio: “Sono stato
crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella
carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,
20; cf. anche Rm 8, 9.10; 1 Cor 3, 23; 6, 13; 2 Cor 13, 5; Gal 5, 24; Col 1, 27). Questa
appartenenza a Cristo è garantita dalla presenza dello Spirito Santo, che è lo Spirito di Cristo.
In lui, i cristiani diventano “un solo Spirito” (1 Cor 6, 17; cf. anche Rm 5, 5; 8, 4-9; 1 Cor 6, 19;
2 Cor 3, 17; 5, 5; Gal 3, 2.5.14; 4, 29; 1 Ts 4, 8; 2 Ts 2, 13) e non appartengono più a loro stessi
(cf. Rm 14, 7-8; Gal 2, 20), ma sono debitori del Signore (cf. 1 Cor 6, 19). Questa è la
caratterizzazione generale del nuovo modo di essere di coloro che sono stati “chiamati” e “eletti”
(cf. Rm 8, 28-33; 9, 12.24; 1 Cor 1, 9.27; 7, 15; Gal 1, 6; Ef 1, 4; Col 3, 12; 1 Ts 1, 4),
“giustificati” e “santificati” (cf. Rm 3, 24-30; 5, 10; 8, 30; 1 Cor 1, 2; 2 Cor 1, 1; 5, 18; Ef 2, 16),
“liberati” e “illuminati” (cf. Rm 8, 1 s.; 7, 7 ss.; 8, 37 ss.; 1 Cor 3, 21 ss.; 6, 19-20; 7, 20 ss.; Gal
4, 1-8 ss.; 5, 13; Ef 5, 8.14) nel mistero pasquale di Cristo per diventare i suoi eredi (cf. Rm 8, 14
ss.; Gal 3, 26.29; 4, 6 s.; Ef 1, 18) e le membra del suo Corpo, in modo tale che in essi viene
edificata la Chiesa. Tutto ciò, secondo Paolo, avviene quando lo “stare nel Signore” e il
“camminare nello Spirito” sono caratterizzati dalla fede, la speranza e la carità, accogliendo tutto
come dono di Dio, con riconoscenza e impegno conseguente.
1.3.6. La Chiesa nelle lettere pastorali e nelle lettere cattoliche
1°) Le lettere pastorali (cf. 1 & 2 Tm, Tt) sono, nel corpus paolino, le uniche lettere
indirizzate a persone esplicitamente nominate, tranne la breve lettera a Filemone (Fm). Essendo
post-paoline, esse hanno presente, rispetto a Paolo, una struttura nuova della Chiesa: esse sono
convinte che la nuova forma della Chiesa e soprattutto del ministero ecclesiastico debba essere
considerata come una trasformazione storica della Chiesa paolina sotto l’urgenza della nuova
situazione, senza tradire lo spirito e la volontà dell’Apostolo dei Gentili.
alla Chiesa” (ib. 5, 32 […]), non lasciando comunque ‘la Chiesa’ da sola” (R. PENNA, Il “mysterion” paolino.
60
Della Chiesa come tale si parla assai poco nelle lettere pastorali, ed ancora, solo sotto
l’aspetto del ministero ecclesiastico. Si possono tuttavia rilevare tre elementi ecclesiologici
importanti : innanzitutto, la Chiesa è nata dall’immolazione di Gesù Cristo per noi ed è
proprietà sua (cf. Tt 2, 14). La Chiesa è quindi la sostituzione di Israele con il nuovo popolo dei
cristiani, perché l’evento salvifico d’Israele è l’evento della Chiesa. In un’ottica diversa poi, la
Chiesa è contrapposta ad una famiglia terrena (cf. 1 Tm 3, 5), per essere considerata come una
specie di “casa/famiglia di Dio” (o•koj Qeoà: 1 Tm 3, 15), che abbraccia e custodisce i suoi
membri (cf. Eb 3, 6 ; 1 Pt 4, 17). Infine, la Chiesa viene caratterizzata anche mediante l’idea di
edificio, precisamente come “Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità”
(™kklhs…a Qeoà zîntoj, stàloj kaˆ ˜dra…wma tÁj ¢lhqe…aj: 1 Tm 3, 15; cf. 1 Tm 2, 4.7; 4,
3). Da una parte, quindi, la Chiesa deve essere considerata come il fondamento divino della fede
e, dall’altra, come la convivenza di credenti e infedeli (cf. 2 Tm 2, 19 ss.), popolo acquistato da
Cristo (cf. Tt 2, 14). È una istituzione divina formata di uomini.
In quanto tale, questa istituzione si fonda sul ministero apostolico ed è curata da esso. È
questo il centro di gravità delle lettere pastorali. Il fondamento dell’apostolato è il vangelo di
Gesù Cristo. Paolo è stato costituito araldo, apostolo e maestro (kÁrux kaˆ ¢pÒstoloj kaˆ
did£skaloj: 2 Tm 1, 11) di questo vangelo, precisamente presso i pagani (cf. 1 Tim 2, 7). Paolo,
il “maestro”, è il Paolo attuale nell’età postapostolica, e questi è il vero Paolo nella nuova
situazione e conforme alla trasformazione avvenuta. Il kerygma o vangelo paolino, in quanto
dottrina vincolante, è la sua interpretazione autentica che mantiene storicamente attuale il
vangelo di Paolo. Anche il potere di ordine e di governo dell’apostolo compare in una nuova
luce, dato che in ogni ministero c’è una trasposizione dal diritto divino a quello ecclesiastico,
sottoposto alle direttive apostoliche (cf. 1 Tm 1, 20; 4, 14; 5, 17 ss.; 2 Tm 1, 6). Con Timoteo e
Tito, in quanto tipi dei titolari di un ministero, si intuisce la peculiarità del ministero
postapostolico, che non è altro che l’esplicitazione della ministerialità dell’ufficio apostolico. Il
rito di ordinazione è costituito dall’imposizione delle mani da parte del presbiterio e
dell’apostolo. L’ordinazione comunica il carisma di Dio, che appartiene al suo servizio e viene
conferito una volta per sempre (cf. 1 Tm 1, 18; 4, 14; 2 Tm 1, 6; 2, 2; Tt 1, 5). Dopo una tale
ordinazione, si può svolgere, in determinate circoscrizioni ecclesiastiche, la funzione di
rappresentante dell’Apostolo (cf. 1 Tm 3, 15; 4, 13; 2 Tm 4, 5.9; Tt 3, 12). Questa funzione
consiste nell’insegnamento (cf. 1 Tm 2, 12; 4, 3.11; 6, 3; 2 Tm 2, 14.15; 4, 2; Tt 2, 15; 3, 1) che
mira soprattutto a custodire il deposito apostolico contro le eresie (cf. 1 Tm 4, 7.16; 6, 20; 2 Tm
Traiettoria e costituzione = Supplementi alla Rivista Biblica 10 [Brescia, Paideia 1978] 68).
61
1, 13 s.; 2, 14.23-26; Tt 5, 9-16). Il detentore di un ufficio ha anche potestà amministrativa, che
non condivide con la comunità ma, tutt’al più, con altri titolari di ufficio (cf. 1 Tm 4, 14; 5, 17
ss.). Ad esempio, Timoteo deve sapere come comportarsi nella casa di Dio (cf. 1 Tm 3, 15; 5, 1-2
ss.); egli è responsabile di questa casa di Dio. Perciò deve sorvegliare non solo sui membri della
comunità ma anche su tutti i ministeri (cf. 1 Tm 5, 7.17-21: potestà disciplinare sui “presbiteri”;
1 Tm 3, 1-7; 5, 3-16; Tt 1, 5-9). Appare, infine, un certo “potere di ordine”: il discepolo
dell’Apostolo ha ricevuto da lui l’ordine e il potere di costituire dei presbiteri (presbÚteroi)
nelle comunità (cf. Tt 1, 5), presbiteri che vengono detti episcopi (™p…skopoi: 1 Tm 3, 1-7; Tt 1,
5.7) quando esercitano funzioni direttive (cioè insegnare, presiedere, ordinare: 1 Tm 4, 13; 5, 17;
2, Tm 2, 2), avendo al loro fianco i diaconi (di£konoi: 1 Tm 3, 8-13)62
. È significativo che le
lettere pastorali vedano la missione paolina dei discepoli dell’Apostolo e i ministeri riconosciuti
e onorati da Paolo nelle comunità come fondati nella successione ministeriale e nell’ordinazione
sacramentale. Lo Spirito è il fondamento e la forza dell’attività ministeriale (cf. 1 Tm 4, 14; 2
Tm 1, 6 s.14; 2, 1), per cui si può parlare di ministero “spirituale”, che non è altro che la
continuazione dell’ufficio apostolico partecipato da tutti in modo strutturato, esercitato nella fede
e nell’amore in Cristo (cf. 2 Tm 1, 13), mediante la sua assistenza e la sua grazia (cf. 2 Tm 2,
1.7), per la salvezza di tutti.
2°) Nelle lettere cattoliche: si tratta qui soprattutto della Chiesa nella prima lettera di
Pietro (1 Pt), dato la scarsità di elementi rilevanti nella seconda lettera di Pietro (2 Pt), nella
lettera di Giacomo (Gc) e in quella di Giuda (Gd). Per Pietro, l’evento di Gesù Cristo viene
interpretato come compimento delle affermazioni profetiche (cf. 1 Pt 1, 11) e in connessione con
la storia d’Israele tramandata nell’AT, anche se è soltanto la predicazione, cioè il “vangelo” (cf. 1
Pt 1, 12.25; 4, 6.17), che esprime in maniera adeguata il senso dell’evento di Cristo e vi fa
cogliere la presenza della grazia, mediante l’azione dello Spirito Santo (cf. 1 Pt 1, 12.21; 4, 14).
Alla “chiamata” di Dio per accogliere il suo dono di grazia e di misericordia (cf. 1 Pt 1, 15; 2,
9.21; 3, 9; 5, 10), l’uomo aderisce nell’obbedienza della fede che spera o nella speranza che
crede (cf. 1 Pt 1, 5-8.21; 2, 8; 3, 1; 4, 17). I cristiani sono quelli che sperano (cf. 1 Pt 1, 3.13; 3,
15) e sono “figli dell’obbedienza” alla parola (1 Pt 1, 14; cf. 1 Pt 2, 7.8; 3, 1.20; 4, 17). Costituiti
e rigenerati dal battesimo (cf. 1 Pt 3, 21; cf. 1 Pt 1, 3; 2, 2; 3, 23), i cristiani sono quindi degli
uomini che si lasciano plasmare dall’obbedienza nella loro vita.
62
Sui ministeri nelle lettere pastorali, si veda tra altro J.A. FITZMYER, The Structured Ministry of the
Church in the Pastoral Epistles, in The Catholic Biblical Quarterly 66/4 (2004) 582-596.
62
In mezzo a coloro che, al seguito della chiamata di Dio l’hanno ricevuta nel vangelo ed
hanno ricevuto pure il battesimo come sigillo, la grazia si crea il popolo di Dio tratto dai pagani,
la Chiesa (cf. 1 Pt 2, 10). In questo popolo Israele ha trovato il suo compimento nel senso che
esso l’ha sostituito. Questo popolo di Dio tratto dai pagani è ora “la razza eletta, il sacerdozio
regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato” (1 Pt 2, 9; cf. 5, 13). I suoi membri,
quali stranieri eletti nella diaspora del mondo (cf. 1 Pt 1, 1), non hanno alcuna terra santa in
questo mondo, la loro terra santa è in cielo. Quaggiù, essi sono dei “stranieri” e “pellegrini”
(p£roikoi kaˆ parep…dhmoi: 1 Pt 2, 11; cf. 1, 1), e il tempo del loro soggiorno sulla terra è
paroik…a, cioè “pellegrinaggio” e/o “soggiorno in esilio” (Pt 1, 17). Nella città terrena essi
formano al massimo una colonia (cf. anche Fil 3, 20; Eb 11, 10.13.16; 13, 14). La loro riserva nei
confronti del mondo non scaturisce certamente da mancanza di interesse o da avversione bensì
dal fatto che essi non si aspettano la salvezza dal mondo e dagli uomini ma da colui in cui
credono, da Gesù Cristo (cf. 1 Pt 1, 3-12; 2, 2; 4, 13; 5, 1.4.10). Questo nuovo popolo, che è
anche il gregge il cui “pastore supremo” è Dio stesso (1 Pt 5, 4; cf. 2, 25; 5, 2)63
, in virtù
dell’elezione assume tutti gli attributi onorifici d’Israele, che si fondano su gesta e doni di Dio ed
esigono da questo popolo la testimonianza in favore del suo Dio (cf. 1 Pt 2, 9-12). I pastori del
popolo di Dio tratto dai pagani sono gli “anziani” (presbÚteroi) (cf. 1 Pt 5, 1-4; Gc 5, 14): essi
devono pascere il gregge di Dio, quindi assicurare alla Chiesa locale direzione, nutrimento e
assistenza. Oltre a questi servizi “ministeriali” ce ne sono altri di natura puramente carismatica
(cf. 1 Pt 4, 10-11). Come in 1 Tm 3, 15, la Chiesa è anche la “casa di Dio” secondo 1 Pt 4, 17 (cf.
anche 1 Pt 1, 3.8.23; 2, 4-8.17; 5, 9). La sua edificazione è un processo vitale e spirituale che
sulla terra non ha mai fine (cf. 1 Pt 2, 5). Inoltre, il suo senso è sempre connesso con quello del
tempio: l’efficace sacrificio che viene offerto a Dio dai suoi sacerdoti (cf. 1 Pt 2, 5).
Questo popolo di Dio vive in mezzo ad un mondo pagano e le sue tribolazioni (cf. 1 Pt 1,
6.14; 2, 11-12; 3, 13-17; 4, 2.4.12-19). Si avverte una grande ostilità del mondo contro ciò che è
cristiano, per cui ci vuole la perseveranza nella fede, nella speranza e nell’amore (cf. 1 Pt 1,
7.13.22; 2, 17; 3, 8-9; 4, 8), imitando la passione di Cristo (cf. 1 Pt 2, 21; 4, 1.13; 5, 1). Su colui
che soffre con pazienza riposa lo Spirito della gloria di Dio (cf. 1 Pt 4, 14). L’esortazione alla
vigilanza si giustifica dal fatto che la fine di tutte le cose è vicina (cf. 1 Pt 4, 7). La Chiesa è
63
“Gregge” e “pastore” sono immagini già usate da Israele nell’AT (cf. Nm 27, 15 ss. ; Ger 3, 15 ; 13, 37 ;
23, 1 s. ; Ez 34, 1 ss. ; Os 13, 4 ss. ; Zc 10, 3 ; Sal 23 ; 28, 9 ; 74, 1 ; 78, 52.70 ss.) e ricorrenti anche altrove
nell’antico Oriente per designare il popolo e il suo capo. Per il NT, si vedano Mt 10, 16 par. ; Mc 14, 27 s. par. ; Lc
12, 32 ; Gv 10 ; 21, 15 ss. ; At 20, 28 s.
63
quindi il frutto dell’evento della salvezza in Gesù Cristo, che era previsto prima della fondazione
del mondo ed è stato manifestato alla fine dei tempi (cf. 1 Pt 1, 20).
1.3.7. La Chiesa nella lettera agli Ebrei
Della comunità cui è indirizzata la lettera agli Ebrei, si sa ben poco. Comunque essa è una
comunità della seconda generazione cristiana, che ha alle sue spalle il tempo delle origini (cf.
Eb 5, 11 ss.; 6, 1 ss.), ha già sofferto molte tribolazioni (cf. Eb 10, 32 ss.), ma ha anche
dimostrato molta carità per il nome di Dio (cf. Eb 6, 10), ora però è in pericolo di stancarsi e di
rinunciare alla fede (cf. Eb 12, 3.12 ss.), anzi di distaccarsi da Dio (cf. 3, 12; 4, 11; 6, 6; 12, 15).
La figura concreta della Chiesa in questa lettera rimane sullo sfondo, ma la comprensione della
sua essenza può essere ottenuta chiaramente in connessione con il tema fondamentale riguardante
Gesù (Cristo), “il Figlio” e il “Sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek” (¢rciereÝj kat¦
t¾n t£xin Melcisedšk: Eb 5, 10; cf. 3, 1-6; 4, 14-15; 5, 1-10; 6, 20; 7, 1 – 10, 18), che “per
santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città” (Eb 13, 12; cf. 2, 8-
18; 4, 15; 6, 6; 12, 2; 13, 2). La Chiesa è il popolo peregrinante di Dio (cf. Eb 4, 9; 10, 30; 11,
25), di cui Israele (cf. Eb 2, 16-17; 5, 3), la sua storia e le sue istituzioni non sono altro che delle
copie, degli esempi, dei modelli, anticipatori e umbratili (Eb 9, 23; 10, 1).
Questa comunità che deve la sua esistenza a Dio e a Cristo (cf. Eb 1, 2.10; 2, 10.16)
conosce la tradizione (cf. Eb 2, 3), la confessione (cf. Eb 3, 1; 4, 14; 10, 23), la lode (cf. Eb 13,
15), la preghiera (cf. Eb 13, 18); ha dei presidenti o capi (¹goÚmenoi) che le predicano la “parola
di Dio” (cf. Eb 13, 7) e ai quali essa deve “obbedire” e sottomettersi, poiché a loro tocca la
responsabilità davanti a Dio delle anime dei fedeli (cf. Eb 13, 17). Bisogna, inoltre, che si ricordi
di essi e se ne “imiti” la fede (cf. Eb 13, 7). Questo nuovo popolo, dopo essere passato attraverso
il battesimo (cf. Eb 6, 4 ss.; 10, 23.26.32), vive nella casa di Dio (o•koj toà Qeoà: Eb 10, 21; cf.
3, 2-6) e cammina nella speranza e nella pazienza verso il suo fine invisibile, la salvezza. Esso
l’ha già incontrata nella fede. Proprio per tale ragione si tratta di non scostarsi da questo futuro
ma di rimanervi fedeli in mezzo a tutte le tribolazioni e tentazioni (cf. Eb 3, 6.14; 4, 14; 10,
23.32-36). Soltanto così il nuovo patto della fine dei tempi (cf. Eb 5, 9; 6, 11; 7, 22; 8, 6; 9,
15.27-28; 10, 16.25.29.36-37; 12, 1.24), istituito da Dio mediante l’autoimmolazione salvifica e
liberatrice di Gesù, del “Figlio” e del “gran sacerdote” celeste, viene realizzato una volta per
sempre (cf. Eb 9, 26.28: ¤pax; 10, 10: ™f£pax) con le sue promesse e la comunità si manifesta
64
come la casa di Dio e di Cristo nell’esilio del mondo, in attesa di “entrare nel santuario” (Eb 10,
19) e di “ricevere in eredità un regno incrollabile” (Eb 12, 28).
Il popolo di Dio è quindi giunto alla città del Dio vivente in quanto si apre alla città
futura e viceversa (cf. Eb 13, 14). Il suo pellegrinaggio verso la meta celeste è guidato
dall’ascolto della parola di Dio e dalla predicazione (cf. Eb 2, 1.3-4; 4, 7.12; 13, 7.22), mediante
l’obbedienza della fede (cf. Eb 4, 3.7; 5, 9; 10, 39; 11, 1-40; 12, 2; 13, 9), il rifiuto del peccato e
la lotta fino al sangue contro di esso (cf. Eb 12, 1.4), l’incoraggiamento vicendevole nella fede e
nelle buone opere (cf. Eb 3, 12-13; 4, 1; 10, 24; 12, 15-16; 13, 1-19), ecc. L’augurio finale della
lettera agli Ebrei suppone che questo popolo sia il gregge di Cristo, quando afferma: “Il Dio della
pace che ha fatto tornare dai morti il Pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di
un’alleanza eterna, il Signore nostro Gesù, vi renda perfetti in ogni bene, perché possiate
compiere la sua volontà” (Eb 13, 20-21; cf. 13, 22-25, che sarebbe un’aggiunta).
* *
*
In conclusione, si può notare che quando il NT parla, direttamente o indirettamente, della
Chiesa, pensa sempre alla concreta Chiesa universale o alle concrete singole Chiese locali nelle
quali si “incarna” la Chiesa universale. Inoltre, viene offerta una prospettiva di fondo unitaria per
quanto riguarda l’origine e la natura della Chiesa, ma non altrettanto una ecclesiologia unitaria.
1°) Per il NT, la Chiesa non è un’entità ideale bensì la creazione storica della Chiesa terrena
che, in quanto tale, è opera misteriosa di Dio e fenomeno trascendente che viene considerato
nella sua essenza teologica.
2°) Alla Chiesa antecede Israele, in quanto popolo di Dio, che nelle sue gesta e nelle sue parole
prefigura la Chiesa, di cui il “resto” costituisce la base, e che viene superato dal nuovo popolo di
Dio, che come Chiesa dei giudei e dei pagani è il vero Israele o l’Israele di Dio (cf. Ef 2, 11-22).
3°) Come opera di Dio prevista e predeterminata dall’eternità, la Chiesa si fonda nella
immolazione di Gesù Cristo che è risorto come Crocifisso, è apparso come Risorto e è presente
nella sua glorificazione come Signore, mediante lo Spirito Santo. Questi inabita ed ispira la
Chiesa in modo da rendere presente in e con la Chiesa lo spazio di vita del corpo di Cristo in
croce. La Chiesa è quindi inscindibile da Gesù Cristo e dal suo mistero pasquale, essendo
l’incorporazione della sua presenza sensibile nel mondo.
65
4°) I membri della Chiesa sono i fratelli, eletti, santificati, chiamati alla comunione con il
Signore. Secondo il NT, la Chiesa, in quanto popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello
Spirito santo, è apostolica, una ed universale: non c’è Chiesa senza gli “apostoli”, quali
“testimoni” del Risorto, e senza rapporto con essi. Nella sua unità organica dell’unico gregge
sotto un solo pastore, la Chiesa avanza, nel nome del Signore, il diritto di dominio sul mondo di
tutti i tempi, su tutti i popoli e su tutti gli uomini.
5°) Si tratta anche di una Chiesa della parola e dei segni sacramentali, il cui luogo di
espressione è la liturgia dell’assemblea santa. Mediante la parola, la sua trasmissione e la sua
interpretazione attuale si opera l’attualizzazione dell’evento salvifico del quale la Chiesa, in virtù
dello Spirito, è debitrice. I segni efficaci, dei quali specialmente il battesimo e l’eucaristia hanno
un particolare ruolo, corroborano la piena e concreta partecipazione al corpo di Cristo.
6°) L’edificazione di questo corpo è compito dei vari ministeri e dei carismi di ogni specie, che
si completano a vicenda e coinvolgono tutti i fedeli. La fede, la speranza e la carità aiutano i
membri della Chiesa a resistere al mondo, alle sue tentazioni e persecuzioni, in attesa di entrare
nella città celeste, già segretamente presente nel Regno di Dio iniziato in Gesù Cristo64
.
64
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