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2. Il diritto processuale civile: le fonti e i principi Sommario: 2. Il diritto processuale civile: le fonti e i principi - 2.1. Il diritto processuale civile - 2.2. Le fonti del diritto processuale civile - 2.2.1. Le fonti sovranazionali - 2.2.2. Il diritto dell’Unione europea - 2.2.3. Convenzioni sui diritti dell’uomo - 2.2.4. La Costitu- zione - 2.2.5. La legge ordinaria - 2.3. L’efficacia della legge processuale nello spazio e nel tempo - 2.3.1. L’efficacia nello spazio - 2.3.2. L’efficacia della legge processuale nel tempo - 2.4. I principi fondamentali del diritto processuale civile - 2.4.1. Premessa - 2.4.2. Il giusto processo - 2.4.3. Il principio del contraddittorio - 2.4.4. Il principio della domanda - 2.4.5. Il principio dispositivo 2.1. Il diritto processuale civile Lo strumento attraverso il quale lo Stato esercita la giurisdizione è il pro- cesso. Le norme che disciplinano l’attività giurisdizionale sono le stes- se norme che disciplinano il processo e sono dette, per questo, norme processuali. Il complesso ordinato di queste disposizioni disciplinatrici costituisce il diritto processuale civile. Nel nostro ordinamento vige il principio del diritto scritto: le disposizioni regolatrici del processo sono raccolte, nel loro corpo principale, nel codice di procedura civile. Esse sono poi completate da diverse leggi speciali, aventi la medesima natura processuale (regolanti le procedure di divorzio, la mediazione, la nego- ziazione assistita ecc.). Le norme processuali hanno natura del tutto diversa da quelle del diritto sostanziale. Esse non regolano in via primaria le relazioni tra i sogget- ti riguardanti i loro reciproci diritti. Ma disciplinano lo strumento che interviene, in via secondaria, per la tutela, attraverso l’intervento del giudice, dei diritti nascenti da quelle relazioni (secondarietà della giuri- sdizione: si veda il Capitolo I, par. 1.3.4).In quanto disciplinano lo stru- mento processuale, esse descrivono le forme che devono assumere le attività da compiere nel processo (scritte, orali, atti in forma di ricorso, di citazione, ecc…) e per tale ragione esse sono anche dette norme for- mali, per indicarne questa loro caratteristica tipica. Degli atti da com- piersi nel processo esse stabiliscono i presupposti, i tempi, le modalità di esecuzione e gli effetti (ad esempio, deduzioni da farsi entro la prima udienza, con atto da depositare in cancelleria, notificazione da farsi alla residenza, ecc...). In sintesi, questa è la nozione del diritto processuale civile: complesso ordinato delle norme che disciplinano il processo civile. Giurisdizione e processo Diritto processuale COMP_676_CompendioDirittoProcessualeCivile_01_2018.indb 53 21/03/18 09:10

2. Il diritto processuale civile: le fonti e i principi · Il diritto processuale civile: le fonti e i principi 55 In applicazione degli impegni accettati con i trattati, gli organi

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�� 2.  Il diritto processuale civile: le fonti e i principi 

Sommario: 2. Il diritto processuale civile: le fonti e i principi - 2.1. Il diritto processuale civile - 2.2. Le fonti del diritto processuale civile - 2.2.1. Le fonti sovranazionali - 2.2.2. Il diritto dell’Unione europea - 2.2.3. Convenzioni sui diritti dell’uomo - 2.2.4. La Costitu-zione - 2.2.5. La legge ordinaria - 2.3. L’efficacia della legge processuale nello spazio e nel tempo - 2.3.1. L’efficacia nello spazio - 2.3.2. L’efficacia della legge processuale nel tempo - 2.4. I principi fondamentali del diritto processuale civile - 2.4.1. Premessa - 2.4.2. Il giusto processo - 2.4.3. Il principio del contraddittorio - 2.4.4. Il principio della domanda - 2.4.5. Il principio dispositivo

2.1. Il diritto processuale civileLo strumento attraverso il quale lo Stato esercita la giurisdizione è il pro-cesso. Le norme che disciplinano l’attività giurisdizionale sono le stes-se norme che disciplinano il processo e sono dette, per questo, norme processuali. Il complesso ordinato di queste disposizioni disciplinatrici costituisce il diritto processuale civile. Nel nostro ordinamento vige il principio del diritto scritto: le disposizioni regolatrici del processo sono raccolte, nel loro corpo principale, nel codice di procedura civile. Esse sono poi completate da diverse leggi speciali, aventi la medesima natura processuale (regolanti le procedure di divorzio, la mediazione, la nego-ziazione assistita ecc.). Le norme processuali hanno natura del tutto diversa da quelle del diritto sostanziale. Esse non regolano in via primaria le relazioni tra i sogget-ti riguardanti i loro reciproci diritti. Ma disciplinano lo strumento che interviene, in via secondaria, per la tutela, attraverso l’intervento del giudice, dei diritti nascenti da quelle relazioni (secondarietà della giuri-sdizione: si veda il Capitolo I, par. 1.3.4).In quanto disciplinano lo stru-mento processuale, esse descrivono le forme che devono assumere le attività da compiere nel processo (scritte, orali, atti in forma di ricorso, di citazione, ecc…) e per tale ragione esse sono anche dette norme for-mali, per indicarne questa loro caratteristica tipica. Degli atti da com-piersi nel processo esse stabiliscono i presupposti, i tempi, le modalità di esecuzione e gli effetti (ad esempio, deduzioni da farsi entro la prima udienza, con atto da depositare in cancelleria, notificazione da farsi alla residenza, ecc...). In sintesi, questa è la nozione del diritto processuale civile: complesso ordinato delle norme che disciplinano il processo civile.

Giurisdizione e processo

Diritto processuale

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Definizione di diritto processuale civile:Complesso ordinato delle norme che disciplinano il processo civile.

Le norme in questione hanno natura di diritto pubblico. Esse, infatti, non disciplinano le relazioni tra i privati cittadini (per le quali vale il principio generale della disponibilità dei reciproci diritti) ma riguardano il modo con il quale si svolge una funzione dello Stato, nell’interesse di tutta la comuni-tà: vale a dire, la funzione giurisdizionale, che si affianca a quella esecutiva e a quella legislativa, nella tradizionale ripartizione dei poteri dello Stato. 

2.2. Le fonti del diritto processuale civile 

2.2.1. Le fonti sovranazionaliL’Italia intrattiene relazioni con gli altri Stati della comunità internazio-nale e coltiva con essi rapporti non soltanto economici o diplomatici ma anche attinenti all’esercizio delle loro giurisdizioni. Il reciproco rispet-to delle sovranità e delle reciproche giurisdizioni hanno reso necessaria la stipulazione di trattati finalizzati a stabilire le regole e le condizioni da osservare per una collaborazione ordinata e stabile nei rapporti ex-traterritoriali. Questi trattati hanno riguardato anche le manifestazioni dell’autorità statale nelle quali consiste l’amministrazione della giustizia all’interno dei rispettivi territori e di queste situazioni si è fatto cenno nel Capitolo I. Completiamo il discorso sotto il profilo del rilievo che le norme di diritto internazionale assumono come fonti del diritto interno.In genere, i trattati e le convenzioni internazionali vincolano diretta-mente soltanto gli stati contraenti e non disciplinano i rapporti tra i cittadini. Costoro non possono invocare una norma contenuta in un trattato come fonte regolatrice di un loro rapporto. Spetta a ciascuno stato contraente emanare norme che valgano come proprio diritto in-terno, in attuazione dell’accordo, e come disposizioni da osservare nei rapporti tra i singoli. Ogni stato, pur accettando regole di convivenza internazionale, resta padrone del proprio ordinamento e con i trattati assume l’obbligo, di fronte agli altri stati contraenti, di adeguare il pro-prio ordinamento agli accordi che ha sottoscritto.  

2.2.2. Il diritto dell’Unione europeaUna importante deroga al principio di cui sopra deriva dall’adesione dell’Italia all’Unione europea. Il proposito di fare dell’Europa una comu-nità di stati regolati da una disciplina unitaria ha condotto a concludere accordi che consentono a talune delle norme emanate dagli organi comu-nitari di diventare direttamente norme di diritto interno. Ciò avviene sotto un profilo duplice.

Natura delle norme processuali

I trattati

Efficacia dei trattati

Fonti di diritto

interno

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In applicazione degli impegni accettati con i trattati, gli organi compe-tenti dell’unione europea (il Parlamento; il Consiglio) emanano norme che vanno a comporre e a modificare l’ordinamento comunitario e che assumono la forma di direttive e di regolamenti. Le direttive conten-gono regole rivolte ai singoli stati membri e che richiedono di essere trasformate in norme di diritto interno per diventare vincolanti per i cittadini (secondo la regola generale che vige nel diritto internazionale). I regolamenti, invece, dettano disposizioni che hanno applicazione diretta nei rapporti interni (e questa è la deroga al ricordato principio di ordine generale). Per questo aspetto il diritto dell’Unione europea è fonte di diritto nazionale.Le norme dei trattati internazionali vincolano, come ormai più volte si è ricordato, gli stati contraenti. Come si è visto, ciò vale, sia pure con una vistosa eccezione, anche nell’ambito della comunità europea.Questa situazione è venuta a modificarsi a seguito di un intervento che nel 2001 ha mutato alcune disposizioni del Titolo V della nostra Costi-tuzione (legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3). In quel contesto fu sostitu-ito l’art. 117, che attualmente dispone, nel primo comma: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Co-stituzione nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali”. Per tal modo è stata posta una importante limitazione alla potestà discrezionale del legislatore, che deve osser-vare, nel dettare le norme, non soltanto i principi della Costituzione ma anche le regole pattizie accettate per l’adesione all’Unione europea e con i trattati internazionali. L’osservanza di queste regole è stata elevata a rango di principio co-stituzionale. Ciò significa che l’ordinamento interno non può derogare alle norme comunitarie e internazionali e che, nel conflitto tra esse e le norme interne devono prevalere le prime. Come è risolta l’eventuale discordanza?Le disposizioni dell’ordinamento comunitario (con l’eccezione dei rego-lamenti) e quelle internazionali recepite dallo Stato valgono come limite al potere legislativo. Esse attualmente costituiscono principi ai quali la normativa interna non può derogare. Pertanto, il giudice nazionale deve interpretare la normativa interna attribuendole un contenuto che non contrasti con quella comunitaria o internazionale. I principi comunitari e quelli accettati con i trattati internazionali costituiscono regole interpre-tative del diritto interno. Ove, però, una siffatta interpretazione confor-me non sia possibile e il giudice rilevi un contrasto non superabile della norma interna con i principi suddetti, egli deve sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma interna, per violazione della dispo-sizione comunitaria o internazionale e dell’art. 117. 

Obbligatorietà per il cittadino

Limite alla potestà del legislatore

Interpretazione conforme

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2.2.3. Convenzioni sui diritti dell’uomoNel contesto del diritto comunitario, e sotto il particolare profilo della sua incidenza sul diritto processuale interno, va ricordata la Conven-zione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fonda-mentali (nota, nel linguaggio comune, come Convenzione EDU o anche CEDU). Essa riprende, in larga parte, la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 20 marzo 1952, rati-ficata con L. 4 agosto 1955, n. 848, ma istituisce un organismo giurisdi-zionale (la Corte europea dei diritti dell’uomo) di fronte al quale possono essere instaurate controversie nelle quali si fa denuncia della mancata osservanza delle disposizioni comunitarie ad opera delle legislazioni degli stati membri. Tra le regole stabilite dalla Convenzione europea e riferite alla giurisdizione va ricordata quella stabilita dall’art. 6, che im-pone agli stati membri l’obbligo di assicurare ai loro cittadini il diritto ad un processo equo, dinanzi a un tribunale imparziale in un giudizio pub-blico e in un tempo ragionevole. L’obbligo così fissato comporta che in ciascuno degli stati membri il processo consenta il contraddittorio tra le parti e sia da concludersi nel più breve tempo consentito dalle necessità del suo svolgimento, ad opera di un giudice terzo, rispetto alle parti e al contenuto della controversia. Sarebbero contrarie e, di conseguenza, im-pugnabili davanti alla Corte, regole processuali che negassero o compri-messero il diritto ad un processo equo come sopra inteso. Il ricorso alla Corte ha funzione sussidiaria, vale a dire che esso è consentito dopo che sono stati esperiti i mezzi di impugnazione previsti dal diritto interno.  

2.2.4. La CostituzioneLa nostra Costituzione non detta norme rivolte a disciplinare diretta-mente il processo civile. Essa enuncia i principi fondamentali ai quali deve essere conformato l’ordinamento e stabilisce i valori che devono guidare il legislatore nel porre le norme di diritto interno. Alcuni dei principi affermati dalla Costituzione valgono come clausole fondanti re-golatrici dell’attività processuale, in generale e non soltanto civile. Essi possono essere così sintetizzati.

A) Il principio del giudice naturaleL’art. 25 afferma solennemente che nessuno può essere distolto dal giu-dice naturale precostituito per legge. Per giudice naturale deve intendersi quello che è competente secondo la normativa generale e che deve pre-esistere rispetto al fatto (penale o civile) di cui è chiamato a conoscere. L’organo giudicante deve essere istituito per le situazioni future e non per fatti e rapporti già verificatisi. Esso non deve venir creato appositamente, per giudicare su situazioni già poste in essere: il cittadino ha diritto di sapere prima di tenere un certo comportamento quali saranno le conse-

Convenzione europea

Principi costituzionali

Il giudice naturale

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guenze dei suoi atti e quale sarà l’ufficio giudiziario competente a cono-scerne. Il divieto costituzionale di istituire tribunali dopo il compimento del fatto e, quindi, ad hoc è finalizzato a impedire che attraverso di essi possano essere compiute rappresaglie, con lo schermo della legge, in vio-lazione di un elementare principio di giustizia che vuole siano conosciute preventivamente le sanzioni e le procedure della loro applicazione.

Il principio del giudice naturale si esprime anche con l’affermazione secondo la quale il giudice deve essere pre-costituito, per legge, rispetto al fatto del quale è chiamato a conoscere. Il principio assume particolare importanza soprattutto nell’ambito del diritto penale, essendo finalizzato a impedire forme di persecuzione travestite da applica-zione della giustizia in danno di antagonisti sconfitti o di oppositori politici. Nel diritto processuale civile esso va comunque ricordato, come regola generale di oggettiva le-gittimità del processo. A presidio della sua applicazione sono poste le norme discipli-natrici della giurisdizione e della ripartizione delle competenze.

B) Diritto a difendersi in giudizioL’art. 24 della Costituzione dispone, al primo comma, che “tutti posso-no agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”; il secondo comma aggiunge che “la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”. La norma enuncia un principio fon-damentale e ineliminabile nell’ordinamento giuridico moderno, per il quale tutti possono accedere alla tutela giurisdizionale e tutti possono difendersi, nel processo, dalla pubblica accusa come pure dalla pretesa di di natura civile proposta da terzi. Si tratta di un diritto di libertà il cui riconoscimento impedisce che il processo si risolva in addebiti avverso i quali non è consentito controbattere e dimostrarne l’infondatezza. Per assicurare che il diritto alla difesa trovi sempre una attuazione concreta, lo stesso art. 24 dispone che devono essere garantiti ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdi-zione. In osservanza di questo precetto sono state emanate norme che in origine prevedevano il gratuito patrocinio, ora denominato patrocinio a spese dello Stato e disciplinato dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, Testo unico in materia di spese di giustizia.

C) Principio del giusto processoImpegni internazionali e diritto dell’Unione europea impongono anche all’Italia di assicurare con la sua normativa che il processo sia “giusto”. Se ne è fatto cenno poco sopra, con il riferire che il dovere di garantire un processo giusto costituisce un obbligo assunto per impegno sovrana-zionale e tradotto nel diritto interno quale principio recepito a livello della nostra Costituzione. Resta ora da precisare che le fonti sovrana-zionali non specificano che cosa debba intendersi per processo giusto e si limitano a indicarne le caratteristiche nel: a) contraddittorio (si veda

Diritto di agire e diritto di difendersi in giudizio

Giusto processo

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il paragrafo 2.4.3), b) nella imparzialità del giudice (si veda il Capitolo 4, paragrafo 4.5) e c) nella ragionevole durata temporale del suo svol-gimento. Il legislatore nazionale ha voluto iscrivere in modo esplicito il principio del giusto processo nella Costituzione e lo ha fatto con la sosti-tuzione dell’originario testo dell’art. 111, che nel testo vigente fornisce alcune indicazioni utili a comprendere la nozione di giusto processo. La disposizione precisa che “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. La stessa disposizione ag-giunge che tutti i provvedimenti devono essere motivati. Alcune delle indicazioni così fornite richiamano caratteristiche che già il nostro legislatore aveva assicurato al processo civile, con l’imporre nor-me a tutela del contraddittorio e della terzietà del giudicante e con il disporre, con una legge apposita, forme di indennizzo per l’eccessiva pro-trazione dei processi. L’art. 111 ha elevato quelle caratteristiche a prin-cipi costituzionalizzati, con la conseguenza della illiceità costituzionale delle norme ordinarie che venissero emanate in contrasto. Ad esse ha ag-giunto il dovere del giudice di motivare i provvedimenti giurisdiziona-li. Questo dovere, in particolare, è rivolto a rendere conoscibili le ragioni sulle quali è fondata una certa decisione e a consentire di impugnare il provvedimento sottoponendo a critiche quelle ragioni: conoscere una motivazione permette di stabilire se la si accetta o se esistono argomen-ti in base ai quali farne risultare l’erroneità o l’ingiustizia. Conoscere la motivazione significa poter esercitare il diritto di difesa. Il già ricordato art. 111 Costituzione dispone anche: “Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli orga-ni giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge”. Questa norma, di ambito generale, è riferibile anche al diritto processuale civile per la parte che menziona le sentenze. Essa viene interpretata dalla giurisprudenza, nell’ambito del processo civile, nel senso che per “sentenza” deve intendersi qualunque provvedimento del giudice che rivesta:– carattere decisorio su situazioni giuridiche soggettive e non sia un atto soltanto ordinatorio o comunque strumentale (quale un’ordinanza che ammette prove o nomina un consulente tecnico);– carattere definitivo, per non essere prevista nei suoi confronti l’esperi-bilità di alcun altro mezzo processuale di impugnazione.Non ha importanza la denominazione che il giudice ha dato al suo prov-vedimento o il fatto che le disposizioni legislative lo dichiarino non im-pugnabile. Se l’atto presenta i caratteri di cui sopra esso è, per regola co-stituzionale, impugnabile con il ricorso per cassazione. Questo ricorso è detto straordinario perché può essere proposto senza che in precedenza sia tenuto il giudizio di appello.

Ricorribilità per cassazione

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Il diritto processuale civile: le fonti e i principi � 59

La legge 24 marzo 2001, n. 89, mette a disposizione una equa ripara-zione a favore di coloro che subiscono gli effetti della violazione della regola secondo cui il processo deve avere una durata ragionevole. Questo provvedimento stabilisce la durata di una varia tipologia di procedimenti (per il giudizio di cognizione in primo grado, ad esempio, la durata equa è fissata in tre anni) e attribuisce il diritto ad una riparazione pecuniaria in una misura la cui determinazione è affidata al giudice, tra un minimo e un massimo prestabiliti. La legge stabilisce i casi nei quali l’indennizzo non è dovuto e disciplina il procedimento di equa riparazione , da tenersi dinanzi alla Corte d’appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del processo.  

2.2.5. La legge ordinariaLe norme disciplinatrici del processo civile sono per la maggior parte raccolte nel codice di procedura civile, approvato con R.D. 28 ottobre 1940, n. 1443, ed entrato in vigore il 21 aprile 1942. Esso raccoglie in 4 gruppi, denominati “Libri”, le disposizioni sul processo in generale, le disposizioni sul processo di cognizione, quelle sul processo di esecuzione forzata e le altre riguardanti i procedimenti speciali. Sull’assetto origina-rio dell’esposizione normativa il legislatore è intervenuto ripetutamente, con modifiche che hanno profondamente inciso sulle caratteristiche del processo civile. Esso fu inizialmente disegnato come una serie di atti ri-gidamente organizzati per fasi, tra loro separate da rigorose preclusioni finalizzate a regolarne il corso in modo da impedire dispersioni di attivi-tà e regressioni a momenti già superati. Sulle attività da eseguirsi dove-va vigilare il giudice, vero dominus del processo, mentre molto limitate erano le concessioni alle facoltà delle parti di modificare le loro domande e ampliare le rispettive difese. Il sistema fu innovato già con la legge 14 maggio 1950, n. 581 (nota nel linguaggio comune come la “novella del ‘50”), che attenuò i principi di prevalente oralità e di concentrazione cui si era ispirato il legislatore codicista, facendo del processo un pro-cesso scritto; e fu modificato nuovamente con la L. 26 novembre 1990, n. 353, che segnò un netto ritorno al passato. Successivi provvedimenti soppressero il giudice conciliatore e il pretore e istituirono il giudice di pace (L. 21 novembre 1991, n. 374). Da allora si sono susseguite moltis-sime disposizioni, quasi tutte limitatesi a intervenire su singoli settori dell’ordinamento processuale e che progressivamente ne hanno trasfor-mato la disciplina di cui alla codificazione originaria nel tentativo di fare del processo uno strumento rapido ed efficace. Numerose leggi speciali hanno dettato norme giunte ad integrare quelle del codice di procedura civile e a completarne la disciplina. Le più im-portanti hanno riguardato i rapporti di famiglia e il matrimonio, la me-diazione obbligatoria e facoltativa, la negoziazione assistita, l’arbitrato.

Ragionevole durata

Codice di procedura civile

Leggi speciali

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Altre norme processuali sono contenute in testi normativi che regola-no materie diverse, quali il codice della navigazione marittima e aerea, la legge fallimentare, le leggi sulla locazione di immobili, il testo unico sulle spese processuali, il codice sulla proprietà industriale, il codice del consumo, la legge sulla responsabilità dei magistrati e quella sull’equo compenso dovuto per l’eccessiva durata dei procedimenti.  

2.3. L’efficacia della legge processuale nello spazio e nel tempo 

2.3.1. L’efficacia nello spazioOgni stato ha una propria sfera di sovranità che coincide, in genere, per quanto ne riguarda l’ambito spaziale, con il suo territorio. Il territorio è uno degli elementi costitutivi dello stato: su di esso si esercita la sovra-nità statale e all’interno di esso si applicano le leggi dello stato sovrano e indipendente. L’ordinamento giuridico ha per confini i confini territo-riali, i quali costituiscono il limite oltre il quale si pone la sovranità di altri enti statuali. Dell’ordinamento giuridico sono parti componenti le norme processuali: anch’esse, dunque, hanno per limite spaziale di appli-cazione il territorio dello stato. Ne segue che il processo è regolato dalla legge dello stato nel quale esso deve svolgersi: il criterio del territorio individua la giurisdizione e descrive anche le forme del processo. Vige in proposito il principio della lex fori, che costituisce una regola di diritto internazionale quasi universalmente riconosciuta e applicata. Nel diritto interno il principio è enunciato dalle norme della legge 31 maggio 1995, n. 218, di diritto internazionale privato, per le quali “Il processo civile che si svolge in Italia è regolato dalla legge italiana”. Poiché la giurisdizio-ne civile segue il principio della territorialità, ne deriva che non dovrebbe avere importanza, per la determinazione delle forme del processo, la cit-tadinanza dei soggetti che nel territorio vengono a trovarsi. Si è riferito nel Capitolo I, par. 6.2.2., che il cittadino straniero può essere citato in un processo civile in Italia se qui vi ha domicilio, residenza o un rappresentante autorizzato. Questa regola è una diretta applicazione della lex fori, per la quale chi si trova nel territorio dello stato è soggetto alla legge italiana: con la precisazione per cui (data anche la lunghez-za dei tempi processuali) non è sufficiente una semplice dimora o una presenza temporanea. Si richiedono un domicilio o la residenza perché la giurisdizione nei confronti di uno straniero è legata ad una presenza sufficientemente stabile e ad un legame riconoscibile con il territorio. Invece, il cittadino italiano può essere sempre convenuto in giudizio in Italia, anche se ha domicilio o residenza all’estero: e in questa ipotesi si pone una eccezione al principio della lex fori, residuo di quella che un tempo era la concezione della pan processualità della legge italiana. 

Territorio

Cittadino straniero

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2.3.2. L’efficacia della legge processuale nel tempoAnche il diritto processuale civile osserva il principio per il quale la legge non dispone che per l’avvenire e non ha effetto retroattivo. Così sancisce l’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, con una disposizione che trasferisce nella legge ordinaria una regola stabilita per il diritto penale dagli artt. 1 e 2 del codice penale e che è elevata a principio costituzionale dall’art. 25 della Costituzione: nessuno può essere punito (deve intender-si: anche con sanzioni civili, quali la condanna al risarcimento) se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Il principio, a ben vedere, riguarda prevalentemente il diritto sostanziale. Nell’ambito del processo esso assume una connotazione in parte diversa, legata alla natura del processo, che consiste nello svolgersi di una serie di attività finalizzate a consentire la pronuncia del giudice. In questo partico-lare ambito, la regola da utilizzare per determinare l’efficacia della legge nel tempo deve servire a stabilire se ed a quali, degli atti compiuti o da com-piere, si applichi la normativa che sopraggiunga a disciplinare in maniera diversa le dette attività. In proposito vige il principio per cui ogni atto processuale deve intendersi disciplinato dalla legge che è già in vigore nel momento in cui è posto in essere e non può essere sottoposto retro-attivamente ad una disciplina entrata in vigore dopo tale momento. Nel succedersi delle attività processuali, ciascuna di esse è compiuta conforme-mente alla legge del suo tempo e gli atti posti in essere in precedenza non possono più essere confrontati con la legge successiva (non possono, per esempio, essere dichiarati nulli sol perché non rispettano una normativa nuova). Il principio è espresso con il brocardo latino “Tempus regit actum”.Ne segue una importante conseguenza. Un procedimento iniziato nelle forme di un determinato rito, come previsto in allora, deve proseguire nelle stesse forme anche se un provvedimento legislativo le modifica nel corso del suo svolgimento. L’applicazione di un nuovo rito ad un proces-so già intrapreso con forme diverse si tradurrebbe, infatti, in una appli-cazione retroattiva della legge, vietata dall’ordinamento.

La Corte di cassazione, con sentenza 7 ottobre 2010, n. 20811, ha affermato: “In man-canza di una norma che statuisca diversamente, un processo è destinato a concludersi secondo il rito con il quale è stato iniziato, costituendo il “rito” l’insieme delle regole sistematicamente organizzate in vista della statuizione giudiziale. Il principio tempus regit actum, dal quale discende che lo jus superveniens è immediatamente applicabile in materia processuale, si riferisce ai singoli atti da compiere, ad ogni atto processuale isolatamente considerato, e troverebbe una applicazione distorta se fosse inteso nel senso che, mutato l’intero rito in pendenza di un processo già iniziato, il rito e non la singola norma debba essere applicato a quella sola parte del processo non ancora svoltasi (e, evidentemente, soltanto a questa, giacché sono senz’altro destinati a con-servare piena validità gli atti compiuti in base al rito previgente), con l’inevitabile altera-zione del sistema che il legislatore abbia disegnato con il nuovo rito. È, invece, proprio il principio di irretroattività posto dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale…

Irretroattività

Riti diversi

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ad imporre la conclusione opposta giacché, dovendo il rito necessariamente riguardar-si come un insieme di regole tra loro tutte coordinate, l’applicazione del nuovo rito ad un processo già iniziato si risolverebbe nell’applicazione retroattiva di quell’insieme. Il che, in difetto di una diversa previsione da parte del legislatore, non è consentito”.

Le situazioni in cui viene a mutare un determinato regime giuridico proces-suale possono dare occasione al sorgere di problemi relativi al passaggio da una disciplina all’altra e alla tutela delle parti a fronte di una normativa che regola i loro diritti e le loro facoltà processuali in modo diverso da quello che esse avevano previsto e sul quale avevano fatto affidamento. Si accen-na in proposito a questioni di diritto intertemporale e basterà pensare a quelle che sorgono quando viene soppresso un ufficio giudiziario e occorre stabilire a quale altro ufficio vadano assegnate le controversie che erano di sua competenza (tanto è avvenuto con la soppressione del pretore e del giudice conciliatore; e tanto è avvenuto con la riduzione del numero dei tribunali sul territorio nazionale). A risolvere le difficoltà interpretative e pratiche che per tal modo possono determinarsi, interviene molto spesso il legislatore con il dettare norme di applicazione transitoria. Con esse si stabilisce, di volta in volta, una diversa data di decorrenza dell’entrata in vigore delle nuove norme; si regolano i nuovi rapporti tra gli uffici giudizia-ri; si dettano disposizioni per la chiusura dei processi pendenti, e così via. 

2.4. I principi fondamentali del diritto processuale civile 

2.4.1. PremessaLa disciplina del processo civile osserva alcuni principi che possiamo de-finire fondamentali e, nello stesso tempo, descrittivi del tipo di pro-cedura costruito dal nostro ordinamento. Alcuni di questi principi co-stituiscono l’osservanza di altrettante regole di diritto internazionale o costituzionalizzate e non potrebbero essere mutati dal legislatore sen-za costituire una violazione di queste regole, comportante l’illegittimità della norma inosservante. Altri principi sono posti direttamente dalla legge processuale, per indirizzare le attività del giudice e delle parti, ed entro certi limiti possono subire adattamenti suggeriti dall’opportunità o dal proposito di perseguire in modo migliore l’efficienza della giusti-zia. Dobbiamo dunque ricordare che alcuni dei principi fondamentali del processo sono stati costituzionalizzati e non potrebbero essere soppressi o conculcati dal legislatore ordinario; mentre altri principi costituiscono linee guida alle quali il legislatore si è attenuto nel dettare una disciplina adatta al periodo storico attuale e che potrebbero essere modificati in conseguenza di ragioni di politica legislativa (ad esempio, la prevalenza data dal legislatore all’azione con ricorso piuttosto che con citazione; la previsione di decadenze processuali; e simili). 

Norme transitorie

Diversa fonte

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2.4.2. Il giusto processoAlcuni dei più importanti principi processuali aventi rango costituzio-nale sono stati enunciati con l’introduzione nel nostro ordinamento della nozione di giusto processo. Si è accennato supra, a proposito delle fonti costituzionali, al dettato dell’art. 111 nel testo vigente (dovuto alle modifiche apportate dalla legge cost. 23 novembre 1999, n. 2), per il quale è giusto il processo che: a) si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità; b) davanti a un giudice imparziale e c) in tempi ragionevoli. La citata disposizione stabilisce altrettanti canoni vincolan-ti per il legislatore e in base ai quali vanno interpretate le stesse norme della legge ordinaria (interpretazione costituzionalmente orientata). Si rimanda a quanto riferito retro, nel paragrafo 2.2.4. 

2.4.3. Il principio del contraddittorioPrima ancora che venisse elevato a regola di rango costituzionale, il nostro diritto processuale civile riconosceva come essenziale al processo il contrad-dittorio tra le parti, inteso come possibilità assicurata dalla legge di agire e di difendersi in giudizio in posizione di reciprocità parità tra le parti. Il principio per il quale, nel processo deve essere assicurato il contraddittorio tra le parti, risponde ad una esigenza ritenuta insopprimibile dalla società attuale, al punto da essere affermato in Convenzioni internazionali (quale quella sui diritti dell’uomo e sulle libertà fondamentali), nella Convenzione europea sui diritti dell’uomo che vincola gli stati aderenti all’Unione euro-pea e nella nostra Costituzione (retro, paragrafo 2.2.4.). Il principio è uno degli aspetti essenziali di quello che oggi è conosciuto come “giusto proces-so” ed è espressamente richiamato dalla Costituzione (art. 111). Le Convenzioni e la Costituzione si limitano ad enunciare un principio, senza specificare i modi in cui esso deve trovare attuazione. Tocca poi al legislatore ordinario stabilire queste modalità con disposizioni rivolte al giudice e alle parti.Dispone in proposito l’art. 101 del codice di procedura civile che “Il giu-dice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcu-na domanda se la parte contro la quale è proposta non è stata regolar-mente citata e non è comparsa”. La norma pone a base dell’osservanza del principio del contraddittorio il divieto per il giudice di pronunciarsi sulla domanda che gli viene proposta senza che colui nei cui confron-ti essa è rivolta venga chiamato a presenziare nel procedimento. Per “parte contro la quale la domanda è proposta” deve intendersi colui che dovrà subire le conseguenze del provvedimento del giudice. Egli è il sog-getto passivo rispetto all’azione esercitata da chi presenta la domanda di tutela al giudice: è colui che, di volta in volta, assume la veste di conve-nuto, di resistente, di appellato e simili. Questi deve essere regolarmen-te citato, vale a dire, non semplicemente informato dell’esistenza di un

Rinvio

Principio fondamentale

Disciplina normativa

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processo che lo riguarda, ma citato a prendervi parte e citato in modo corretto, vale a dire, con una citazione valida e utile allo scopo di dargli una conoscenza effettiva e a invitarlo a partecipare al giudizio. Nel dirit-to romano la regola così sancita era enunciata con l’espressione “audiatur et altera pars” e già in allora comportava che prima di decidere il giudice dovesse ascoltare anche le ragioni della controparte. Il principio del con-traddittorio assicura, in questo modo, la concretezza del diritto alla dife-sa nel processo ma realizza, altresì, la parità delle parti, entrambe poste in condizione di esercitare nel processo un ruolo attivo: fare istanze al giudice e ribattere alle asserzioni altrui.La disposizione citata contiene due incisi che devono essere chiariti. Con il primo di essi la disposizione fa salvi i casi in cui la legge dispone altri-menti, vale a dire, i casi nei quali la legge non richiede che la decisione del giudice si formi dopo che sulla domanda si è svolto il contradditorio. Questi casi sono caratterizzati dal fatto per cui il contraddittorio non è soppresso (non sarebbe possibile escluderlo) ma è soltanto posposto ri-spetto ad un primo intervento del giudice. Le fattispecie possono essere riunite in tre gruppi. Il primo caso è costituito dal processo di esecuzione forzata. Chi ha una cambiale ricevuta in modo regolare e formalmente valida (o altro titolo munito di forza esecutiva) può intraprendere l’esecuzione forzata diret-tamente, se il titolo non è onorato, senza prima dover ricorrere al giudice per ottenere un suo provvedimento esecutivo. In questo tipo di processo il creditore intraprende direttamente l’azione esecutiva che assogget-ta da subito il debitore alle conseguenti attività processuali. Queste si svolgono avendo il debitore come semplice soggetto passivo, a fronte delle attività esecutive compiute dal giudice e dai suoi ausiliari, ma egli può chiedere un contraddittorio che accerti l’inesistenza del diritto del creditore. Lo strumento che gli è fornito è l’opposizione all’esecuzione: questa opposizione è trattata nelle forme del giudizio di cognizione. L’op-posizione, se proposta, realizza ex post quel contraddittorio che costi-tuisce la garanzia costituzionale di difesa del soggetto nei cui confronti l’azione è esercitata. Un’altra fattispecie è rappresentata da quella in cui esigenze di inter-vento urgente impediscono di rispettare i tempi occorrenti a citare il controinteressato e ad ascoltarlo. Chi si vede occupare un proprio fondo da costruzioni non autorizzate altrui e in corso ha interesse a rivolgersi alle autorità perché quelle attività siano sospese, con un provvedimento provvisorio, almeno per tutto il tempo necessario a far risultare, con il processo, la natura abusiva delle opere. Anche in questo caso, quel contraddittorio che è mancato, per l’urgenza di provvedere subito, va esercitato successivamente se colui contro il quale la domanda di tutela cautelare è proposta ne fa richiesta, nei modi previsti dalla legge proces-

Deroghe

Titolo esecutivo

Esigenze cautelari

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suale: opposizione, reclamo, ricorso ecc... Il successivo contraddittorio è idoneo a condurre ad una pronuncia che pone nel nulla quella preceden-te e provvisoria. Il contraddittorio è soltanto differito ed è eventuale, essendo rimesso alla volontà di chi ne fa richiesta per sottoporre alla cognizione del giudice le proprie eventuali ragioni.A questi casi si aggiunge quello di chi agisce in giudizio essendo munito di elementi di prova della fondatezza del suo diritto tali da giustificare un provvedimento immediato, senza che si debba attendere le argomen-tazioni in contrario del soggetto obbligato. Chi è munito di una fattura valida e regolare può chiedere al giudice un decreto ingiuntivo, che co-stituisce titolo per l’esecuzione senza necessità che sia preventivamente sentito colui che appare descritto come debitore. Questi può chiedere il contraddittorio sino ad allora mancato con il proporre una opposizione che apre un ordinario giudizio di cognizione. In esso chi ha ottenuto il provvedimento conserva la veste di attore e deve dare la prova del suo diritto, provvisoriamente tutelato; l’opponente assume la veste di con-venuto.Con il secondo inciso il ricordato art. 101 accenna inoltre alla possibilità che colui contro il quale la domanda è proposta non compaia nel proces-so, nonostante vi sia regolarmente citato. La comparizione del convenu-to non è, come potrebbe apparire da una lettura testuale della disposizio-ne (se non è citato e se non è comparso), una condizione della regolarità della sua evocazione in giudizio o il presupposto necessario per far rite-nere rispettato il principio del contraddittorio. Il soggetto passivo non può essere obbligato a partecipare al processo, entrandovi in modo formale. Egli può scegliere di non costituirvisi e di rimanere inerte: e opportunamente la legge processuale disciplina la conseguente situazio-ne, che definisce di “contumacia”. Ciò che rileva, ai fini del rispetto del principio del contraddittorio, è che l’interessato sia stato posto nelle con-dizioni per risolversi a entrare nel processo. Il contraddittorio non deve essere assicurato nel solo momento prepa-ratorio del processo, quello, cioè, in cui il soggetto passivo è invitato a comparirvi. Il principio pervade di sé anche il corso successivo del pro-cesso. Durante il suo svolgimento le parti (le parti che vi si costituisco-no) agiscono in posizione di parità, avendo entrambe il diritto di fare allegazioni (cioè, di fare affermazioni e indicare fatti), di fare deduzioni (cioè, di proporre argomentazioni e sollevare eccezioni), di indicare prove a proprio favore nonchè controprove per opporre fatti diversi da quelli oggetto delle prove altrui. Ad entrambe le parti spettano gli stessi poteri e le stesse facoltà processuali. L’efficacia delle loro attività nel processo è tutelata dal diritto di ciascuna alla difesa tecnica, che è fornita dal mini-stero e dall’assistenza di un professionista iscritto all’albo degli avvocati e legalmente esercente.

Procedimenti sommari

Contumacia

Nel corso del processo

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Un particolare aspetto del principio del contraddittorio, quale diritto a difendersi nel processo, è posto in evidenza dal secondo comma dell’art. 101. Esso si riferisce alle situazioni che il giudice può, nel processo, rile-vare nell’esplicazione dei suoi poteri di conoscere del fatto e di interpre-tare il diritto, senza che debbano farne necessaria deduzione od eccezio-ne le parti. In proposito la norma dispone che quando il giudice ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio e non trattata prima tra le parti, egli deve riservarsi la pronuncia (vale a dire, sospenderla) ed assegnare alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sul-la questione rilevata. Questa disposizione ha recepito nell’ordinamento processuale i principi espressi da alcune decisioni degli organi di giustizia europea che avevano esplicitamente esteso al rilievo d’ufficio di questio-ni non discusse tra le parti il principio del rispetto del contraddittorio.

Avveniva spesso che la decisione pervenisse a pronunciare su aspetti ignorati dalle parti, sui quali esse non avevano esercitato il loro potere di deduzione e difesa e indivi-duati come risolutivi della controversia dal giudice. La dottrina accennava in proposito a “decisioni a sorpresa” o “della terza via” per indicarne, appunto, l’estraneità della soluzione al tema trattato tra le parti. Occorre attualmente che, nel momento in cui il giudice raccoglie gli atti e si appresta a motivare la sua decisione con riguardo a que-stioni rilevate d’ufficio e non discusse tra le parti, egli riapra la trattazione della causa con una ordinanza nella quale indica la questione non vista dalle parti e dalla cui solu-zione dipende la definizione della vertenza. Su questa questione le parti sono rimesse in termini a interloquire con memorie scritte, se lo credono. Può farsi l’esempio della prescrizione del diritto azionato in giudizio, sfuggita alle parti e rilevata dal giudice; o del difetto della sottoscrizione della procura difensiva rilasciata da una delle parti, ugualmente da esse non avvertito in precedenza.

Una situazione che viene risolta in modo diverso rispetto a quanto di-sposto dal ricordato art. 101, secondo comma, è quella nota nella prassi con la denominazione di “overruling”. Le decisioni della giurisprudenza non costituiscono, nel nostro ordinamento, un precedente vincolan-te, come avviene in larga misura nel diritto anglosassone. Esse, però, indicano il contenuto che la magistratura giudicante ha attribuito alle norme di diritto sostanziale e processuale e costituiscono un importan-te riferimento al quale attenersi nell’esercizio delle attività difensive e nell’approfondimento scientifico. Soprattutto le sentenze della Corte di cassazione rappresentano un rilevante criterio interpretativo, per la po-sizione stessa di questo organo, cui è attribuito un generale compito di nomofilachia, avente lo scopo di assicurare l’unità del diritto. Accade che talvolta le innovazioni legislative o la rimeditazione di questioni contro-verse inducano la giurisprudenza a mutare indirizzo, con decisioni con-trastanti rispetto all’opinione seguita in precedenza e che vengono a

Questioni rilevate

d’ufficio

Mutamento di giurisprudenza

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Il diritto processuale civile: le fonti e i principi � 67

sconfessare le tesi della parte che su di essa aveva costruito la propria difesa nel processo. Anche in questo caso si può parlare di sentenze a sorpresa ma manca una regola normativa che serva a disciplinarne le conseguenze. Una soluzione è stata offerta dalla stessa giurisprudenza (Sezioni unite della Corte di cassazione, sent. 1544/2011) per la quale, se il mutamento di indirizzo è imprevedibile (ad esempio, perché contrario a una interpretazione consolidatasi) e viene a determinare un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte che aveva fatto ragionevole affidamento sulla stabilità dell’orientamento precedente, si deve applicare un principio che rientra nel concetto di giusto processo: la fattispecie da decidere va valutata, a seconda dei casi, nella ripartizione delle spese, in conformità all’interpretazione precedente oppure la parte pregiudicata dal nuovo orientamento è rimessa in termini a compiere quella difesa che da questo veniva ad esserle preclusa.  

2.4.4. Il principio della domandaDispone l’art. 99 codice di procedura civile che “Chi vuole far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente”. Il giu-dice non ha poteri propri di intervento nei rapporti privati altrui. La tutela giudiziaria deve essere chiesta da chi ritiene di doverne usufruire. Lo stato pone a disposizione il servizio giustizia, quale forma di prote-zione e risoluzione pacifica delle controversie. Spetta all’interessato, che veda inosservato un proprio diritto, decidere se invocare l’intervento del giudice, soprassedere o ricercare altre forme di composizione della contro-versia, quali la conciliazione presso gli organi che svolgono questa attività. Il principio informa poi tutto il corso del processo e non soltanto la fase della sua instaurazione. L’ammissione delle prove deve essere chiesta dalla parte interessata. Domande ed eccezioni sono trattate nei limiti del loro contenuto, così come esso viene indicato e senza che il giudice possa pro-nunciare oltre quei limiti. Le istanze disattese in un grado devono essere riproposte nel grado successivo, altrimenti sono considerate abbandonate. Fanno eccezione al principio i poteri attribuiti dalla legge processuale al giudice di rilevare d’ufficio (vale a dire, senza istanza di parte) questioni rilevanti per la definizione del giudizio: difetti di legittimazione, di assi-stenza difensiva, di giurisdizione, di competenza, ecc… Questi poteri sono assegnati al giudice a tutela di interessi di ordine pubblico, non deroga-bili dai privati, ed allo scopo di assicurarne comunque e sempre il rispetto. Ove questi poteri non fossero esercitabili, i privati potrebbero determinare l’elusione di quegli interessi con accordi maliziosi di inosservanza.  

2.4.5. Il principio dispositivoÈ interesse e scelta delle parti condurre a termine il processo. Senza la loro volontà il giudice non potrebbe portare avanti da solo le attività

Onere di domanda

Questioni rilevabili d’ufficio

Disponibilità dei diritti

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processuali e giungere ad una pronuncia che, a quel punto, non corrispon-derebbe più agli interessi delle parti. Queste possono rinunciare espressa-mente agli atti del giudizio già compiuti ed a compierne di ulteriori (art. 306 cod. proc. civ.). O possono determinare l’estinzione del giudizio con il mantenere una condotta di inerzia, nelle occasioni in cui esse dovrebbero comparire alle udienze (artt. 181, 309 cod. proc. civ.) o dovrebbero effet-tuare adempimenti (riassunzione del processo (art. 307 cod. proc. civ.). Il principio dispositivo del processo si traduce nel rimettere alle parti l’iniziativa di dargli inizio e di condurlo sino alla pronuncia del giudice. Sono esse ad avere il potere, e insieme l’onere, di dare impulso al processo.L’ambito processuale nel quale maggiormente si evidenzia il principio dispositivo è quello delle prove. Il processo civile, nelle sue varie forme e nelle sue varie finalità, implica sempre un accertamento di fatti, da confrontare poi con una norma giuridica. Questi fatti devono essere nar-rati (allegati, in termine giuridico) dalle parti, che non soltanto devono descriverli come di fondamento alle reciproche pretese ma di essi devono anche fornire la prova di effettiva sussistenza. Non basta asserire che il debitore non ha pagato una determinata somma; occorre indicare di che somma si tratta e dimostrare l’esistenza del contratto o del diverso tito-lo dal quale deriva a carico di costui l’obbligo della prestazione. Queste indicazioni sono a carico delle parti tranne limitate eccezioni.Si afferma, al riguardo, che le parti hanno l’onere della prova; e che esse non ottengono il riconoscimento delle loro pretese se non adempiono all’onere della prova. Il codice di procedura civile enuncia questo principio in forma indiretta, sotto l’aspetto del limite che esso comporta ai poteri del giudice. Dispone, infatti, l’art. 115, primo comma, del codice che: “Sal-vi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della sua decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero”. Spetta, dunque, alle parti (e in limitatissimi casi al pubblico ministero) indicare al giudice le prove da assumere nel processo. Esse sono nella disponibili-tà delle parti e non del giudice; e le parti possono scegliere secondo la loro convenienza e la loro strategia quali prove dedurre e a quali rinunziare. L’ordinamento impone un divieto di ordine generale, a tutela del principio dispositivo. Esso vieta la scienza privata del giudice: il giudice non può av-valersi di conoscenze che egli ha acquisito privatamente o pubblicamente, se queste non entrano nel processo attraverso le deduzioni delle parti.La norma citata accenna a casi in cui la legge dispone diversamente. Essi sono abbastanza numerosi ma non tali da smentire il principio e da tra-sformare il processo civile da processo di tipo dispositivo in un processo di tipo inquisitorio (nel quale tutti i poteri di iniziativa e di accertamento competono al giudice). Per il processo ordinario di cognizione possono citarsi ad esempio di questi casi in cui la legge dispone altrimenti (e in forza dei quali il nostro sistema processuale è descritto come un processo

Oneri probatori

Disponibilità delle prove

Prove d’ufficio

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Il diritto processuale civile: le fonti e i principi � 69

di tipo “dispositivo attenuato”) il potere del giudice di deferire a una delle parti il giuramento estimatorio (art. 241 cod. proc. civ.) e il potere di ordi-nare l’ispezione di luoghi, di cose o di persone (artt. 118 e 260 cod. proc. civ.). Più estesi sono i poteri d’ufficio nel processo del lavoro, nel quale è consentito al giudice di disporre d’autorità l’ammissione di mezzi di prova anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile (art. 421 cod. proc. civ.). Una forma particolare di potere attribuito al giudice, in via di eccezione al principio dispositivo, deriva dal così detto “fatto notorio”. L’art. 115 già ricordato, dispone in proposito, nel secondo comma, che: “Il giudice può…, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le no-zioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”. Si tratta dei fatti che possono aversi per provati in quanto conosciuti da tutti o da una lar-ga fascia di persone e che non richiedono di essere confermati di volta in volta. La notorietà può essere a livello generalizzato (tutti sanno che esi-ste, ad esempio, l’ora legale) oppure circoscritto ad una determinata zona, nella quale si sono svolti i fatti di causa (ad esempio, che una certa strada è aperta all’accesso del pubblico) oppure ristretta ad una area locale (la sua vocazione turistica). Per poter essere considerati notori, i fatti devono risultare a conoscenza delle persone con una diffusione e con una appar-tenenza tali da farli apparire come ormai acquisiti alle conoscenze comuni di costoro. Non possono essere considerati rientranti nella notorietà fatti che richiedono il possesso di nozioni specifiche, professionali o tecniche. Il principio dispositivo che comporta a carico delle parti l’onere della prova assegna ad esse un onere ulteriore: quello di contestazione. Infat-ti, l’art. 115 che si è sopra ricordato, dopo aver disposto che il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti, aggiunge che il giudice può porre a fondamento della decisione anche i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita. Per dare un senso a questa disposizione occorre tener presente che il processo, nel suo schema tipico, trova la sua utilità nell’esigenza di accertare situazioni controverse e di risolvere contestazioni. Ciascuna delle parti contendenti è tenuta a dimostrare il fondamento della sua pretesa con il fornire la prova di sussistenza dei fatti dai quali deriva il diritto che si chiede sia tutelato. Talune di queste circostanze di fatto possono essere date per scontate nel processo, vale a dire, esser considerate tacitamente come sussistenti e certe: può darsi per inteso, ad esempio, in una causa che una determinata via pubblica sia una autostrada, soggetta al relativo regime giuridico disposto dal codice stradale; o darsi per implicita la qualità di coeredi tra i soggetti che chiedono una divisione di beni ereditari. Questi fatti vengono indicati con la denominazione di “pacifici”, per indicare la mancanza di contrasto, sulla loro sussistenza, che li contraddistingue. Essi rimangono esterni al vero e proprio ambito della controversia e ne costituiscono una sorta di presupposto, dato per scontato.

Fatto notorio

Fatti pacifici

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Vi sono, però, fatti che sono elementi costitutivi della pretesa e che, come tali, andrebbero provati in giudizio. Di questa prova non ricorre la necessità se l’altra parte non ne disconosce l’esistenza e non li contesta. Per fare un esempio, il creditore che agisce in giudizio per ottenere il pagamen-to di una somma deve dimostrare il suo titolo (l’obbligazione assunta dal debitore) e l’ammontare del suo credito. Ma se il debitore, convenuto nel processo, contesta soltanto l’ammontare della somma richiesta, il credito-re non ha più necessità di provare il titolo del suo diritto alla prestazione. La norma sopra ricordata pone a carico delle parti un onere che incide direttamente sul meccanismo della ripartizione dell’onere della prova. Ciò che non viene specificamente contestato si ha per provato e il giudice può porlo a fondamento della sua decisione. Così, nell’esempio fatto, se il debitore convenuto in giudizio non contesta (già nelle sue prime difese) la veste di creditore nell’attore, questa veste si ha per provata per difetto di contestazione: e non può più essere ridiscussa. L’onere delle parti si speci-fica dunque in due aspetti connessi: ciascuna deve provare i fatti sui quali fonda la propria pretesa; e ciascuna deve contestare i fatti asseriti dalla controparte se intende che questi non si abbiano come provati. Per effetto della contestazione, i fatti che ne sono oggetto non vengono considerati come acquisiti al processo; e devono essere provati da chi li allega.L’onere di contestazione fa carico alla sola parte costituita nel processo. Esso non può riguardare la parte contumace. Soltanto chi prende parte al processo, infatti, ha modo di svolgervi attività e può essere tenuto all’osservanza delle regole che disciplinano quelle attività. Ove si doves-se considerare provato tutto ciò che asserisce la parte costituita, nella contumacia dell’altra, si giungerebbe a trasformare una condotta di mera inerzia, e di silenzio, in una ammissione tacita di responsabilità.

⊲ Domande per l’autovalutazione

1. Quali principi di diritto internazionale sono applicabili nel diritto pro-cessuale civile? (§ 2.2.1)

2. Una norma di natura processuale è applicabile retroattivamente? (§ 2.3.2)

3. Cosa si intende per principio del contraddittorio? (§ 2.4.3)

4. Quali questioni sono rilevabili d’ufficio dal giudice? (§ 2.4.4)

5. A chi spetta l’onere della prova? (§ 2.4.5)  

Principio di contestazione

Contumacia

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