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Ready4AfricaNews - ANNO III, N.6 Venerdì 22 LUGLIO 2011 Giù nello slum di Mathare FIN DOVE PUÒ ARRIVARE L’UOMO ANNO III N.6 HAPA TUKO + LEO-MAJOR MATURIPERL’AFRICA NEWS READY4AFRICA Oggi baraccopoli Inferno andata e ritorno Pagina 2 Why not La scuola del perchè no Pagina 4 Il giro in baraccopoli Di girone in girone Pagina 5 Progetti di carpenteria Si diventa ingegneri da qui Pagina 6 Decompressione Al parco o a casa per smaltire la sbornia Pagina 7 Riflessioni terra terra A volte non c’è niente da capire Pagina 8 Furlans in Kenya Il Kenya è una colonia del Friuli Pagina 8 Disaccordi Pagina 9

22 luglio

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Why not La scuola del perchè no Pagina 4 HAPA TUKO +LEO-M AJOR Progetti di carpenteria Si diventa ingegneri da qui Pagina 6 Furlans in Kenya Il Kenya è una colonia del Friuli Pagina 8 ANNO III N.6 Oggi baraccopoli Inferno andata e ritorno Pagina 2 Venerdì 22 LUGLIO 2011 Riflessioni terra terra A volte non c’è niente da capire Pagina 8 Decompressione Al parco o a casa per smaltire la sbornia Pagina 7 Il giro in baraccopoli Di girone in girone Pagina 5 Ready4AfricaNews - ANNO III, N.6

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Ready4AfricaNews - ANNO III, N.6

Venerdì 22 LUGLIO 2011

Giù nello slum di MathareFIN DOVE PUÒ ARRIVARE L’UOMO

ANNO III N.6

HAPA TUKO+LEO-MAJOR

MATURIPERL’AFRICANEWSREADY4AFRICA

Oggi baraccopoliInferno andata e ritornoPagina 2

Why notLa scuola del perchè noPagina 4

Il giro in baraccopoliDi girone in gironePagina 5

Progetti di carpenteriaSi diventa ingegneri da quiPagina 6

DecompressioneAl parco o a casa per smaltire la sborniaPagina 7

Riflessioni terra terraA volte non c’è niente da capirePagina 8

Furlans in KenyaIl Kenya è una colonia del FriuliPagina 8

Disaccordi

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Ed eccoci arrivati al grande giorno, là dove convergeva il senso di questo viaggio. Il minimo, quello che non sapremo raccontarvi se non per cenni. Si parte all’avventura slum già con una certa inquietudine per il tragitto. Dominic non c’è, è a fare qualcosa di sportivo da qualche parte in Kenya, cioè è lontano anche se ci aveva promesso di accoglierci e farci girare la baraccopoli. Al suo posto mi ha passato un numero di cellulare di tal Gorge, un insegnante della scuola di cui non so nulla, di cui conosco solo la voce: fra l’altro parla inglese stretto stretto e al telefono faccio una fatica improba a capire. Informazioni frammentarie come Matatu 14 da Kenyatta Hospital fino a Town (?) poi 45 fino a Mathare (sì, ma dove?) mi obbligano a sbilanciarmi e chiedergli di venire almeno a prenderci alla fermata del primo matatu. Dieci minuti e siamo al Kenyatta. Matatu quasi al volo, tutto per noi, passo all’autista il buon Philip e siamo in cinque inuti al National Archive. Siamo proprio nel centro di Nairobi, sotto l’Ambassador Hotel ched è il meglio del meglio quanto a modernità e livello. In cinque minuti arriva Philip, un giovane piuttosto basse tarchiatello, con due simpatiche scarpe lucide e nere a punta che lo fanno immediatamente soprannominare

“l pinguino”. Modi simpatici, sembra il fratello minore di Dominic e credo che andrà tutto bene. Quattro passi e siamo alla fermata del matatu successivo, il 45 che ci spiattella dopo un quarto d’ora all’ingresso di Mathare. Ingresso è un eufemismo: si tratta di un distributore di benzina da cui si accede alla voragine delle baracche. Ma già il viaggio di andata è una discesa agli inferi, fatta di baracche immonde, passatemi il termine, di commerci minimi nel lerciume del fango, di esistenze prostrate. Gente che corre tirando a forza di braccia carretti stracolmi di sacchi, di verdure, di taniche legate con lo spago, immondizia ovunque, sull’asfalto, nei fossi, nei prati lerci e stentati che nonostante tutto esistono al bordo strada. Brulicante è la parola giusta: vecchi, bambini che corrono qua e là, in un bailamme assurdo. L’aria è irrespirabile, alcune delle ragazze già camminano tenendosi un fazzoletto davanti alla bocca perché fra polvere, benzene e schifezze varie respirare è affar serio. Un vecchio con una barba bianca smuove con un bastone in mezzo ad un mucchio di immondizia setacciata chissa quante vole in cerca di un residuo utile, lo stesso poco lontano due giovani accovacciati in mezzo a un mucchio di schifezze.

Si scende dal matatu, il distributore nella mia fantasia è un po’ come la fermata di un treno fantasma, il binario 8 e mezzo di Henry Potter. Da lì nella mia fantasia e nel mio ricordo si apre un alro mondo, un mondo assurdo e quel distributore lì fa la differenza, è lo spartiacque. T inoltri e la terra cambia, il clima e l’odore sono altro. Fuori c’erano le stesse persone, le stesse miserie ma qui è chiuso, è un mondo chiuso da una recinzione, con regole sue, dimensioni sue. Io ci sono già stato due volte e mi divido fra le mie impressioni e quelle che leggo negli occhi degli altri che non ci sono mai stati. Si arriva intanto al belvedere dopo un centinaio di metri di strada e immondezzaio che fanno un po’ da anticamera: il belvedere si apre sulla fossa, sulla vallata di lamiere e ruggine,sotto una sorta di voragine che ricorda le latomie di Sicilia, alla base il campo di calcio della Why not, tale solo perché è l’unico punto libero e orizzontale, più in là il mare di tetti arrugginiti, >Questo è quanto, il resto è odore, puzza, gente che vive un’esistenza diversa dalla tua. Ci guida Philip e ci concediamo alcune fotografie con sfondo sfacelo. Fotografare è imbarazzante, ci sentiamo turisti della miseria ma mi consola la sola consolazione, il fatto di voler riportare indietro, a scuola, una

Oggi baraccopoliINFERNO, ANDATA E RITORNO

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partenza di quello che sto attraversando. Poi si scende fra una cascata di rifiuti, perché in effetti Mattare, Kibera e Korogocho sono delle discariche a cielo aperto in cui vivono centinaia di migliaia di persone. In effetti se guardi la depressione in cui si addensano le baracche sarà un chilometro e mezzo per altrettanto, e pare ci vivano circa 400 mila persone. Scendere sopra questa cascata di schifezza in mezzo a capre che rosicchiano qualche porcheria, galline che razzolano e bambini che ci guardano curiosi è un percorso iniziatici. Me lo ricordo bene, lo leggo negli occhi dei miei giovani compagni: scendi a ogni passo verso l’abiezione. Cosa andiamo a vedere? Perché? Lo sapevamo già, in fondo, abbiamo visto decine di documentari. E allora? L’odore, forse ci mancava l’odore, o ci pareva incredibile. Non so. Scendo e incomincio a non capire più, i conti si confondono come le altre volte.

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Si arriva su un bassopiano affollato di baracche, scuole in lamiera storta e malamente dipinta, si scende per uno scarrupamento ancora più ripido ed ecco il profilo verde e azzurro della nostra scuola. Un edificio di lamiera ondulata lungo una ventina di metri, lungo e stretto, in cui sono state ritagliate quattro aule. Dentro terra battuta, davanti un canale di scolo davvero lurido e immondo in cui stagna un’acqua che dà il voltastomaco. Fuori alcuni bambini, una decina con la loro maglia sdrucita blu ci accolgono. Prime foto, ci danno la mano, vogliono toccarci. Poi ci fanno entrare nell’ultima classe e ci accolgono una quarantina di bambini compressi dentro venti metri quadri. Maglia verde, questi, da uno a undici anni circa. Seduti su certe panche traballanti. Come entriamo ci fanno un applauso, iniziano a cantare delle canzoni molto vivaci mentre la loro maestra fa un lavoro splendido di partecipazione, animazione ballando e cantando con una foga ammirevole. La cattedra è una pena, quattro tavole inchiodate, piccola, miserrima. In un angolo un materasso lercio, sopra quattro bambini di un anno o poco più, con dei vestiti di miseria. Mentre i canti continuano ne prendo in braccio uno: ha fatto la pipì ma non lo cambieranno da due giorni almeno. Mi vengono i campi allo stomaco, divergono a dirlo, devo trattenere i donati di vomito ma poi passa: l’odore diventa normale, il bambino non sorride ma gioca con le mani a prendermi il naso e a togliermi gli occhiali. Uno per uno anche gli altri tre bambini hanno trovato la loro balia e saltellano stupiti fra le braccia di queste italiane venute da lontano. Noi ringraziamo a modo nostro cantando per loro il solito inno di Mameli e coinvolgendoli nella macchina del capo, magistralmente tradotta e mimata da

Carlo, Alessandro si dà da fare con i coccodrilli ma lo guardano stupiti quando cerca di focalizzare l’unicorno che come è noto è di casa nella savana del Kenya. Ma si divertono moltissimo, imparano le canzoni e non smetterebbero più. Dobbiamo smettere noi, però , e uscire fuori con Philip mollando i bambini che ci porteremmo dietro fino in Italia se potessimo. La Marta si è scelto il suo e ci sta giocando da mezz’ora fregandosene di coccodrilli, la Anna si becca il mio quando le braccia cominciano a farmi male e quando mi giro i tre che restavano sul materassino puzzolente non ci sono più, adottati da altrettante mature per l’Africa. La Chiara ne ha uno in braccio e sta leggendo nei suoi occhi enormi il suo futuro di dottoressa. La solita Tamara comincia a far collezione: prima della fine della giornata se ne sarà spupazzati duecento e avrà stretto le mani a duemila, accovacciandosi a giocare con frotte di bambini urlanti e bisognose di tutto. Ma usciamo tirandocela dietro e saliamo al secondo piano della baracca nuova, una delle pochissime costruzioni a due piani che prolunga su un lato la scuola e che funge da direzione. Sull’altro lato dall’ultima volta è pure sorta una piccola baracca e che fa da laboratorio: un giovane sta costruendo con i tappi delle birre e dei portachiavi, delle cornici, anche questo un business collaterale all’attività della scuola. Ok, andiamo, strappiamo Tamara e company e via per strade di Mathare accompagnati da Philip, una maestra e un amico. Via alla scoperta del peggio.

Why notLA SCUOLA DEL “PERCHE’ NO?”

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Cammini per più di un ora fra stradine strette in cui devi stare tu e una fognatura, Sali per cascatelle di liquami in equilibrio precario fra baracche che sono case e che non vorresti come pollaio. Gente che nel frattempo sta vivendo, donne che lavano in certi catini di acqua marrone, fuori dalla porta, scorci di vicoli laterali dove la miseria si moltiplica come riflessa in un caleidoscopio orribile. Non c’è bellezza nella miseria e anche se fai una fotografia bella, anche se il cielo sta bene con il marrone della ruggine la miseria è brutta. Passi rasente a scuole miserrime, bambini escono a frotte, hanno bisogno di essere toccati, ti prendono le mani, batti un cinque, give me five. Se ti fermi con uno ne hai subito cento intorno. Picture, picture, vogliono la fotografia e poi voglio vedersi nello schermo per ridere come matti. Cadono uno sll’altro ma si rialzano subito come se non fosse niente. Moccio al naso, vestiti troppo grandi, lerci, pieni di terra e di baraccopoli. Occhi enormi, mani piccole che ce ne vogliono cinque per stringere una delle mie, How are you e la cantilena solita che ti segue come un ritmo, Fine, thanks. Abari per salutare la gente che incontriamo e che risponde meccanicamente Muzuri, abbozzando un sorriso. Cosa diavolo ci fanno questi Mzungu qua in mezzo? A volte è meglio

non fotografare, a volte chiedi, a volte ti dicono che non vogliono. Qualcuno è orgoglioso del suo misero lavoro sicchè ho una collezione che conta nell’ordine: una sarta, una parrucchiera, un arrotino con la sua bicicletta, un calzolaio, un falegname, un fabbro, un tecnico elettronico. Fanno cose povere, guadagnano meno di quello che prenderebbero andando a fare la giornata a Nairobi, ci spiega Philip: due euro in città, qui di meno, ma pare che basti per arrivare a domani. Ovunque vendono qualcosa, minuscoli pesci pieni di mosche, attrezzi vari, vestiti. Vediamo delle latrine lungo il fiume che attraversa la parte bassa e non entrerei in una di quelle nemmeno per un milione di euro, vediamo un mercatino di vestiti fatto di graticci e stracci appesi, assurdo. In un posto stanno distillando abusivamente una birra locale fatta di miglio fermentato: giù in fondo, una trentina di metri sotto di noi, lungo il fiumicello di liquami fanno fuoco sotto certi bidoni enormi di quelli del petrolio, un tubo nero passa dentro la corrente e risale per finire in una tanica. Questa la serpentina, questa la distilleria, questo spiega certe distese di miglio germogliato messe ad asciugare qua e là. No photos here, niente fotografie, qui è illegale, come se altrove qualcosa fosse legale. Qui tutto è assurdo ma andiamo avanti. Sotto una

baracca stanno cuocendo una testa di mucca intera semplicemente girandola su una griglia improvvisata, ma ciascuno di noi avrebbe cento di questa immagini da raccontare, qui c’è tutto. Io mi perdo a pensare alla notte: cosa deve essere qui la notte? Magari adesso con i bambini che ci corrono dietro, le donne che sorridono dalle porte a questi strani mzungu la miseria ha una sua faccia mite, perfino sostenibile ma richiedo cosa deve essere la vita dietro, dentro le baracche o con il buio. Violenze sessuali continue, prostituzione, compromessi di tutti i tipi e a tutti i livelli. Che sessualità c’è qui, che intimità in una baracca di due metri quadri, uno per due, con sbandati che girano di continuo, gente che non ha neanche i soldi per una baracca e dorme all’aperto. Capre e galline ovunque a contendere un rifiuto ad altri disperati. A me resta il simbolo di questa testa di mucca sulla griglia, ognuno di noi si porterà dietro il suo. Il nostro giro continua finchè tornare alla scuola Why not ci pare quasi una liberazione da un incubo.

Il giro in baraccopoliDI GIRONE IN GIRONE

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Riunione al vertice con Philip e un altro paio di Why not. Al vertice anche tecnicamente nel senso che saliamo all’attico della baracca nuova, una delle pochissime a due piani, stanzone (!) tre per tre, quattro panche. Philip ci racconta qualcosa su quello che abbiamo visto, ci parla soprattutto di quello che si fa qui a Why not. Ci si occupa di formazione, di pulizia di alcune zone della baraccopoli, di prevenzione dell’HIV, produzi9e di piccolo artigianato, organizzazione di attività sportive, soprattutto calcio. Ragioniamo un po’, seduti su certe panchette asse basse, chiediamo qualche notizia sulla baraccopoli, chiediamo che cosa possiamo pare in questi giorni per loro.Ne avevo parlato con Dominic via mail ma qui possiamo vedere direttamente e valutare. Ci sarebbe da dividere quella stanza in due parti con un tramezzo in compensato per creare una sorta di direzione e di biblioteca (fatico a capire il senso viste le dimensioni 3 x 3 della stanza intera, ma qui capisco che non serve capire, al massimo serve l’umiltà di fare), poi servirebbe aggiustare i banchi che hanno nella scuola e costruirne altri venticinque. Venticinque?! Due conti a

mente calcolo del lavoro e la cosa diventa quasi industriale. Ma va bene, eravamo preoccupati che non ci fosse abbastanza da fare e adesione abbiamo troppo. Poi ci sarebbe da pulire una zona, lo spiazzo davanti alla scuola, togliere le immondizie. A Carlo viene in mente che si potrebbe farne un campo da calcio con due porte. Mi vengono i sudori freddi ma la cosa va e quindi vada anche per il campo da calcio. Eccoci sistemati per le feste, ma di fatto è quello che volevamo. Organizziamo i tempi, lunedì saremo qui con i tools, gli attrezzi necessari, per le tavole compreremo nel deposito poco fuori da qui e che Dio ce la mandi buona.Un po’ di entusiasmo dopo la disperazione di poco fa: l’impresa costruzioni Ready4Africa s.p.a. è operativa: dateci una settimana e vi rifacciamo la baraccopoli fognature comprese!!

Progetti di carpenteriaSI DIVENTA INGEGNERI PARTENDO DA QUI

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Si esce ripercorrendo il tratto iniziale della bolgia fino alla strada dove si prendono i matatu ma ciascuno già rumina dentro questo strappo. L’Angela non sta bene, non digerisce, ha il viso rosso fuoco. Grazie a dio somatizza, credo si dica così: in qualche modo bisognerà buttare fuori quello che si è visto in modo da potergli trovare un posto dentro di sé. Per adesso occorre un posto per metabolizzare: propongo una passeggiata all’Ururu park ma la truppa non è in vena di passeggiate, preferisce tornare a casa, una doccia e qualcosa da mangiare. Ok, per stasera tutti al ristorante sotto casa, crepi l’avarizia: si tratta di stare un po’ insieme, cambiare aria. Matatu 46, destinazione Hurlingham, in dieci minuti ci siamo. Qualcuno tenta qualche timida battuta ma per lo più negli occhi di ciascuno c’è la moviola di quello che si è visto, nel naso l’odore. Si parla un po’ a singhiozzo. Qua e là qualcuno si chiede se è vero, come è possibile, cosa è successo. E’ successo che abbiamo visto una fetta di mondo, e una fetta anche bella grande che la logica di mercato condanna a questa cosa qui. Semplice. Le baracche appartengono a qualcuno che vive lontano, come dice Philip a qualcuno che da queste parti non si fa certo vedere, che manda ogni mese degli scagnozzi a riscuotere i 10-15 euro di affitto da centinaia di disgraziati e vive in una villa da qualche altra parte. Mentre cammino sotto le torri dell’Ambassador rifletto con Tamara sulla differenza rispetto alla schiavitù. Nessuna, forse lì eri incatenato per il

collo qui sei legato per qualcos’altro, lì la salute dello schiavo stava a cuore al padrone non fosse altro che per il suo costo, qui qualunque disgraziato, libero, può essere buttato via e sostituito con un altro. Fra ragionamenti di questo tipo si arriva all’Orphanage e la doccia per tutti è la prima cosa: i vestiti,la pelle, i capelli sono impregnati di slum e l’occidentale che c’è in noi vuole lavarlo via appena possibile. Pomeriggio di docce, vedo una folla di studenti ai lavatoi a strofinare vestiti, stendibiancheria pieni. Un gruppo va a fare la spesa, Daniele torna alle sue manutenzioni, il Ve nti è rapito dalle suore per riparazione pc infetti. La cena se Dio vuole arriva e siamo nel ristorante attaccato all’Orphanage. Posto civile, un menu, tavoli normali, dovrebbe perfino esserci la musica dal vivo ma un musicista è malato. Nessuno parla più di baracche: fase due, la rimozione, ci penseremo domani,occorre prendere le distanze per vedere. Domani sul matatu, in mezzo al parco nazionale di Nairobi, qualcuno troverà anche la forza di fare una battuta ripetendo fuori contesto il ritornello How are you?dei bambini delle slums, suscitando una risata generale e liberatoria. Sequenze da manuale di psicologia, effetto catartico nel più perfetto Aristotele. Spazzoliamo risi, verdure, birre e carni varie, facciamo un po’ di tira e molla con il gestore sul prezzo poi restiamo in quattro a discutere a un tavolo mentre la truppa è tornata in camera. Si discute di noi, di psicologia, si scava dentro perché la fase 4 è questa: quello

che hai visto ti ha portato in apnea al fondo marino di te stesso e ritorni a galla con brandelli di alghe, domande non risposte, teorie che dovrebbero aiutarti a costruire un senso. Grazie a Dio si è fra amici e spadellare sul tavolo passati travagliati che ciascuno di noi ha è cosa umana e bella. Non siamo d’accordo su niente o quasi ma siamo qui, a migliaia di km da casa a sbattere ancora la testa con noi e con il mondo. I ragazzi saranno a fare la stessa cosa nelle camere, poco ma sicuro.

DecompressioneAL PARCO O A CASA PER SMALTIRE LA SBORNIA?

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Quando sei qua dentro, immerso con i piedi in uno scolo che sa chiaramente di escrementi umani, sotto lamiere arrugginite che rischiano di farti lo scalpo, con AIDS che sfreccia come un nugolo di moscerini nell’aria, senza prospettive di nessun tipo, niente di niente che non sia arrivare fino a sera, far arrivare fino a stasera i tuoi figli a suon di un euro al giorno raccattato con i denti, ti chiedi come vivi, cosa fai. No, non te lo chiedi, vivi. Noi ce lo chiediamo perché non siamo dentro, perchè la nostra testa viene da un’altra parte, perché senza un progetto, una prospettiva di lungo termine non sappiamo vivere. Ma

entrando qui dobbiamo smettere di chiedercelo. Dobbiamo guardare, registrare e ragionare diluendo nel tempo l’emozione violenta di questo spettacolo enorme di miseria umana. Cosa di deve dare a questa gente, da mangiare o un progetto? Un progetto li distruggerebbe, perché irraggiungibile: in certe condizioni vivi solo se non pensi troppo, se non fai il confronto continuo con un altro mondo alto e lontano. Dar da mangiare a milioni di persone non è cosa da poco, non è alla nostra portata e comunque vale sempre la storia del pesce e della lenza. Niente, non so, lascio che le rotelle girino libere nella mia

testa e in quella dei miei giovani compagni, lascio che ciascuno vada in crisi per conto suo e si cerchi una risposta. Non ne troverà ma, porco cane, da adesso ogni sua scelta avrà una prospettiva diversa.Non avrei voluto scrivere neanche una riga su questa giornata per lasciare a loro lo spazio per esprimere riflessioni e sensazioni, per sfogarle,ma adesso capisco che è presto, che è come un pranzo di quelli troppo pesanti: ti resta sullo stomaco per giorni prima di digerirlo. E allora butto giù alla meglio una cronaca, tanto perché leggendo ripercorrano luoghi, colori e persone.

Riflessione terra terraA VOLTE NON C’E’ NIENTE DA CAPIRE

A girare per missioni si scopre che la friulianità non ha bisogno di fogolars ma dilaga ovunque ci sia da mettere un mattone sull’altro: sembra quasi che l’idea stessa di costruire sia intimamente connessa all’anima friulana tanto da attirare come mosche sul miele muratori e lavoratori ai quattro angoli del globo. Tutto pur di far malta o muovere le mani.Ipotiposi del tipo suddetto è suor Assunta, di Casarsa (e non ci vengano a dire che viene dall’Australia o dagli USA: i Colussi sono di Casarsa, punto), che di fare e organizzare ne sa qualcosa. Poi, a procedere storicamente viene Don Mario Del Frari che fa parte della mia infanzia in quanto mio zio di quinto grado, spedito a Naro Moru per un bel po’ di anni. Ricordo in famiglia queste raccolte di vestiti e robe varie da mandare alle missioni di Don Mario. Poi vengono i Venturosi, muratori pure di Travesio che sorprendentemente da quando sono in pensione vengono quasi tutti gili annida queste parti a tirar su muri e tetti per le missioni Il gruppo Frurlans in Kenya coglie l’occasione per presentare le scuse ufficiali e il proprio rammarico alla prof. Claudia Magalì Lorenza Beacco, italianissima, per la propria insensibilità nell’aver continuato a parlare furlàn dopo ben tre ammonimenti formali. A dimostrazione che si può mancare di rispetto a chi ti sta vicino anche quando sei in un posto per fare del bene a chi ti è lontano. Ca si scusi, profesoresa, a si displâs. Una busada. (pv, tn, dm)

Furlans in KenyaIL KENYA E’ UNA COLONIA DEL FRIULI

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REDAZIONE:

JOLANDA BARRA ANNA BATTISTELLA CLAUDIA BEACCOSILVIA BURIOLLA

PAOLO VENTI CARLO COSTANTINO EDOARDO PICCININ

ANDREA SANTIN ALESSANDRO GIACINTA

TOMMASO MARTINVALERIA DE GOTTARDO

MARTA GREGO MARTINA DE FILIPPO

ANNALISA SCANDURRA CHIARA VENA

GIULIA LORENZON ANGELA BRAVO

TAMARA NASSUTTI DANIELE MARCUZZI

22 Luglio 2011 ANNO III N.6

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Parenti, amici e conoscenti!

Disaccordi

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Venti è per il pc, la Beacco per Mac, Venti non vuole andare in chiesa, la Bea se le farebbe tutte, a Venti gli scappa il friulano, la Bea di incazza tutte le volte, lui è per il fare lei per il pensare. Visto che Carlo ha mal di gola ed è quasi out, Daniele pensa solo ai tubi ed è conteso dalle suore, Tamara si spupazza bambini, la spedizione è in grave difficoltà nella gestione per questi contrasti ideologici al vertice.

E’ dalla partenza che cerchiamo di convincere la Claudia che il nostro friulano in realtà è swahili ma è furba e non ci casca, porca la miseria!!

Per costruire i venticinque banchi ci servono tavole per circa duecento metri di lunghezza lineare e dovremo piantare qualcosa come mille chiodi totali, chiodo più chiodo meno. Nella mente perversa del Venti e del Daniele frullano idee così mentre si abbandonano al sonno. Gente da rinchiudere!!