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Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Facoltà di Economia “Marco Biagi”
Master Universitario di I Livello
“Mercati del lavoro, Intermediazione,
Prevenzione e Sicurezza”
Anno Accademico 2005/2006
“La responsabilità civile del datore di lavoro in tema
di infortuni sul lavoro e malattie professionali”
Relatore
Prof. Francesco Basenghi
Candidata
dott.ssa Rosa Pinneri
2
INDICE
Introduzione pag. 3
PARTE I : L’OBBLIGO DI SICUREZZA
capitolo 1: Cenni storici pag. 4
capitolo 2: natura giuridica dell’obbligazione di sicurezza pag. 11
2.1 terorie extracontrattualistiche e pubblicistiche pag. 11
2.2 teorie contrattualistiche pag. 13
2.3 carattere bifrontale dell’art. 2087 c.c. pag. 14
Capitolo 3: Il contenuto dell’obbligazione pag. 15
Capitolo 4: I soggetti pag. 19
4.1 Il datore di lavoro pag. 20
4.2 Dirigenti e preposti pag. 23
4.3 Il lavoratore pag. 25
PARTE II RESPONSABILITÀ E RISARCIMENTO
Capitolo 1: Lo speciale regime di responsabilità: il principio del parziale
esonero
1.1 Il rischio professionale pag. 27
1.2 l’art. 10 del D.P.R. 1124/1965 pag. 31
Capitolo 2: Il danno pag. 34
2.1 Il danno risarcibile pag. 34
2.2 l’assicurazione obbligatoria: oggetto e prestazioni pag. 42
Capitolo 3: Le azioni di risarcimento pag. 48
3.1 Le azioni di rivalsa dell’INAIL: regresso e surroga pag. 48
6.2 Le azioni del lavoratore pag. 51
Capitolo 4: Il ruolo dell’assicuratore privato pag. 57
4.1 il contratto di responsabilità civile pag. 57
4.2 l’assicurazione della responsabilità civile verso
prestatori di lavoro pag. 60
BIBLIOGRAFIA pag. 65
3
INTRODUZIONE La tematica della responsabilità civile per infortunio sul lavoro si inserisce a pieno titolo
nella materia della sicurezza del lavoro che vive, nel nostro Paese, alterne vicende.
L’anno appena trascorso si è chiuso con un bilancio assai pesante per il mondo del lavoro,
che ha contato oltre un milione di infortuni e più di mille morti. Queste cifre, davvero
inquietanti, hanno indotto il Capo dello Stato, nel tradizionale messaggio di fine anno, ad
un monito forte, con il quale ha ribadito che “…una società più giusta, libera e aperta può
anche essere più sicura, attraverso il richiamo severo, che non deve mancare, al rispetto
delle leggi, delle regole, dei doveri…”.
E’ un messaggio assai significativo, che induce a sperare che la sicurezza sul lavoro inizi
ad essere intesa non solo come costo, ma come valore. In questo senso pare di poter
leggere lo schema di disegno di legge presentato il 17/2/2007 recante “Delega al Governo
per l’emanazione di un testo unico per il riassetto normativo e la riforma della salute e
sicurezza sul lavoro” con il quale il Governo, “ in conformità all’art. 117 della
Costituzione e garantendo l’uniformità della tutela dei lavoratori sul territorio nazionale..”
proceda ad un riordino dell’ intera normativa (penale, civile, amministrativa) della
Sicurezza sul lavoro.
L’approccio giuridico qui affrontato non ha sicuramente la pretesa di essere esaustivo di
un tema multidisciplinare e dalle mille sfaccettature, che coinvolge le diverse forze sociali
ed il sistema produttivo nel suo insieme, ma può aiutare, seppure nella sintesi che il lavoro
impone, a comprendere i sostanziali mutamenti che il nostro ordinamento ha approntato
(spesso con sovrapposizioni normative di dubbia interpretazione) per arginare il fenomeno
infortunistico e per riconoscere il ristoro dei pregiudizi subiti dai lavoratori.
4
PARTE I - L’OBBLIGO DI SICUREZZA
Capitolo 1. Cenni storici
In ossequio al principio della lex aquilia, cardine dell’ordinamento romano, per cui non vi
è responsabilità in assenza di colpa, sino alla fine del 1800 il lavoratore che si trovava a
subire un infortunio sul lavoro poteva ottenere un indennizzo a titolo di risarcimento solo
qualora avesse dimostrato la ricorrenza di due fattori: la responsabilità civile del datore di
lavoro e l’esistenza di un danno. 1
Al fine di contenere i rilevanti effetti sociali di tale impianto normativo, si pervenne, da
parte della dottrina, all’elaborazione della teoria del c.d. “rischio professionale”2, ritenendo
che il datore di lavoro, così come si avvantaggiava del lavoro altrui, dovesse sostenere i
costi subiti dal lavoratore nello svolgimento dell’attività lavorativa. Ciò comportò
dapprima l’ampliamento delle ipotesi di risarcimento da parte dell’imprenditore e,
successivamente, con l’approvazione della legge 17/03/1898 n. 70 - che ha rappresentato
nel nostro ordinamento il primo, importante impulso normativo previdenziale -
l’obbligatorietà dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro.
L’ambito di operatività, seppur limitato (venivano corrisposte le sole prestazioni
economiche e la tutela previdenziale era subordinata al carattere contrattuale del rapporto
assicurativo) rappresentava una significativa innovazione, poiché si estendeva la tutela agli
infortuni determinati da caso fortuito, forza maggiore o colpa (non grave) del lavoratore, a
differenza di quanto avveniva con il tradizionale schema assicurativo della responsabilità
civile per danni.
Dopo vari interventi, attuatisi nel corso degli anni ed aventi per oggetto alcuni particolari
settori produttivi, l’introduzione nel nostro ordinamento del nuovo codice civile ed in
particolare dell’art. 2087, rappresentò una vera e propria svolta, poiché si impose
all’imprenditore un comportamento di tipo dinamico, teso ad adeguare la propria attività
alle esigenze di tutela della salute dei lavoratori.
Si pervenne pertanto all’esplicitazione di un vincolo a carico del datore, di un obbligo
generale di sicurezza nei confronti dei propri dipendenti e, conseguentemente, ad
1 G. Alibrandi “ Infortuni sul lavoro e malattie professionali” Milano, 2002, p. 32 2 Dell’argomento si tratterà più diffusamente nel seguito del lavoro
5
organizzare l’attività predisponendo tutti i mezzi e gli accorgimenti idonei ad evitare il
verificarsi di eventi nocivi.
Il dovere di sicurezza divenne perciò parte integrante dell’oggetto dell’intera prestazione,
che doveva potersi svolgere in un ambiente di lavoro sicuro, condizionando e
ridimensionando i poteri del datore in ordine all’organizzazione del lavoro.
Tuttavia, nonostante l’ampio respiro conferito a questa norma, definita dai più “norma di
chiusura dell’intero sistema prevenzionale” 3, nella realtà l’efficacia del disposto
normativo si rivelò piuttosto limitata.
Va infatti considerato come l’art. 2087 c.c. non abbia espletato il ruolo di norma
prevenzionale, ma sia stata per lo più invocata in occasione dell’esercizio di un’azione di
risarcimento ad opera del lavoratore 4.
La necessità di rendere in concreto più specifiche, applicabili ed esigibili le disposizioni
contenute nell’art. 2087 c.c. si tradusse, tra gli anni 50 e 60, nell’approvazione di alcuni
decreti tuttora vigenti, che forniscono elementi concreti per l’esplicitazione dell’obbligo di
sicurezza.
Si ricordano, tra i più importanti:
� D.P.R. 27/4/1955 n. 547 recante norme per la prevenzione degli infortuni sul
lavoro e integrato dal D.P.R. 302/1956, contenente norme integrative per situazioni
di elevato grado di pericolosità
� D.P.R. 19/3/1956 N. 303, recante norme per l’igiene del lavoro
� D.P.R. 7/1/1956 n. 164, disciplinante la prevenzione infortuni nelle costruzioni
Queste disposizioni hanno rappresentato il quadro normativo di riferimento per gli
operatori della prevenzione fino all’emanazione del D. Lgs. 19/9/1994 n. 626 ed ancora
oggi costituiscono un importante strumento, elaborato avendo quale obiettivo la “tutela
integrale” dell’ambiente di lavoro, da realizzarsi attraverso l’imposizione di obblighi e
divieti intesi a preservare sia la salute che la sicurezza dei lavoratori dagli effetti dei
fattori di nocività presenti negli ambienti di lavoro.
3 In tal senso, anche di recente, la Corte di Cassazione, 27/2/2004 n. 4075. Nella precedente sentenza 22/7/1999 n. 9328 ha affermato che l’art. 2087 cod.civ., pur non contenendo prescrizioni come quelle rinvenibili nelle leggi organiche per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, non si risolve in una mera norma di principio, ma deve considerarsi inserito a pieno titolo nella legislazione antinfortunistica, di cui costituisce norma di chiusura. 4 L. Montuschi “Diritto alla salute e organizzazione del lavoro” Milano, 1989, p. 49
6
Il principio della tutela del lavoro, sino ad allora dal carattere assai generale (l’art. 35 della
Costituzione sanciva la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni e l’art. 2087
c.c. faceva genericamente riferimento ai prestatori di lavoro) subì una ridefinizione,
stabilendo l’art. 1 del D.P.R. 27/4/1955 un preciso ambito di operatività delle disposizioni
ivi contenute: “tutte le attività alle quali siano addetti lavoratori subordinati o ad essi
equiparati, comprese quelle esercitate dallo Stato o dagli Enti pubblici”5.
La decretazione si caratterizzò per la puntualizzazione, talvolta estrema, di prescrizioni
impartite al datore di lavoro (il D.P.R. 547/1955 si suddivide in 13 titoli e 406 articoli
recanti disposizioni generali), attuando una prevenzione di tipo “tecnologico”, determinata
dalla volontà di creare un ambiente oggettivamente sicuro.
L’analiticità, che rappresentò in effetti uno dei presupposti della decretazione di quegli
anni, offriva la possibilità di affidare l’azione prevenzionale a mezzi tecnici, in grado di
garantire una tutela anche in ipotesi di imperizia, negligenza o imprudenza degli stessi
addetti.6 E, sebbene la puntuale indicazione dei suoi precetti impedisse alla normativa di
decretazione di auto-adeguarsi all’evoluzione del processo produttivo, la presenza nel testo
normativo di termini quali “per quanto possibile”, “compatibilmente”, ne ha consentito
l’applicazione sino ai giorni nostri.
Altro importante principio introdotto è identificabile nel concetto di condivisione
dell’obbligo di sicurezza, che veniva ripartito attraverso l’applicazione del principio di
effettività. E’ a tali decreti che si deve l’introduzione, nel nostro ordinamento, della
legislazione penale del lavoro: le norme ivi inserite si componevano per lo più di un
precetto e di una sanzione, i cui destinatari erano soggetti identificati in relazione alla
funzione rivestita (datore di lavoro, dirigente, preposto, ecc)7.
E’ a tali norme che si può far derivare inoltre il principio di condivisione dell’obbligo di
sicurezza, da ripartirsi attraverso il criterio di effettività.8
Grazie a queste imposizioni dal carattere tassativo, alcune aziende iniziarono a
riorganizzare i propri servizi di medicina aziendale e l’attenzione delle OO.SS. si fece via
5 Smuraglia C. “La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale” Milano, 1974, pag. 52 6 Celestino L “Infortuni sul lavoro: responsabilità civile e penale” Milano, 1989 p. 46 7 Tacconi G. “ Le responsabilità penali in materia di sicurezza sul lavoro” Torino, 2004 p. 8 8 cass. Pen. Sez IV 14/11/1967 n. 1658, cass. Pen. Sez VI 17/3/1970 n. 681
7
via sempre più viva, con un costante impegno alla sensibilizzazione sul tema della salute
nei luoghi di lavoro, affrontando anche i problemi legati all’organizzazione aziendale.9
Tale fase culminò con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori in cui, all’art. 9, venne
introdotto il diritto per i lavoratori di attivarsi per la proposizione di nuove misure di tutela
e sicurezza e di poter controllare, per mezzo di proprie rappresentanze, l’applicazione delle
norme poste a prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali.
Si trattava di un principio innovativo, di un diritto di controllo da esercitarsi
collettivamente, avendo attribuito alla rappresentanza (collettiva) dei lavoratori la
legittimazione a difendere il contenuto di un diritto la cui titolarità, tuttavia, permaneva in
capo al singolo lavoratore.
A tale diritto fu collegato l’obbligo, per il datore di lavoro, di assoggettarsi ai controlli
richiesti dalle rappresentanze dei lavoratori, rendendoli possibili. Un eventuale
inadempimento venne da alcuni autori considerato comportamento antisindacale e pertanto
sanzionabile, ai sensi del disposto di cui all’art. 28 della legge 300/1970 10.
Nonostante l’art. 9 facesse riferimento a generiche “rappresentanze”, queste furono, anche
a seguito di interventi della Suprema Corte, ben presto identificate con le rappresentanze
sindacali di cui all’art. 19 della stessa legge 300 e pertanto la possibilità di creare entità
autonome, avulse dalla contrattazione e con il compito di gestire in totale autonomia il
tema del diritto alla salute e della sua tutela in azienda, non venne coltivata .11
Va poi ancora osservato come, sia per l’opera di mediazione, tipica dell’organizzazione
sindacale, quanto per la contingenza politico/sociale che caratterizzava quegli anni, il
ricorso ad un’azione giudiziaria volta a garantire, di volta in volta, la soddisfazione di
un’attività prevenzionale fu di fatto impedito e l’attività sindacale si indirizzò sul consueto
binario della contrattazione, ove il tema della sicurezza nei luoghi di lavoro non
rappresentava di norma il fulcro della piattaforma rivendicativa.
9 Di notevole interesse lo studio “avanguardista” della FIOM di Torino risalente al 1964 che suddivideva in quattro macrosettori gli elementi di nocività presenti nell’ambiente di lavoro: 1) fattori presenti anche in ambito extra lavorativo: luce, temperatura, rumore, umidità, ventilazione; 2) fattori tipici dell’ambiente di lavoro: polveri,fumi,gas, vapori; 3) fatica: fisica, mentale; 4) effetti stancanti: monotonia, tempi di lavoro insostenibili, ritmi di lavoro eccessivi, ansia, responsabilità, disagio Riportato in Montuschi “Diritto alla salute….” Cit., pag. 194 10 Treu T. “Atti discriminatori e condotta antisindacale” Milano, 1994, pag. 70 11 Galantino L. in AA.VV. “ La sicurezza del lavoro – commento ai decreti legislativi 19/9/1994 n. 626 e 242/1996”, Milano, 1996, pag. 9
8
Le innovazioni legislative e contrattuali del periodo vennero riprese dalla legge 23/12/1978
n. 833, istitutiva del SSN, i cui principi ispiratori vennero direttamente attinti dalla Carta
Costituzionale (l’art. 1 al 1° comma riproduce testualmente il contenuto dell’art. 32 Cost.)
L’intero settore subì un mutamento sostanziale:
� venne introdotta la previsione di sanzioni penali in caso di violazioni;
� venne prevista la costituzione dell’ISPSEL e la contemporanea soppressione
dell’ENPI, istituto spesso contestato dalle rappresentanze dei lavoratori per
l’ambiguità del ruolo rivestito;
� al titolo III vennero disciplinate le funzioni e le sfere di competenza delle USL alle
quali, nel rispetto di condizioni e garanzie valide per l’intero territorio nazionali,
vennero affidati i compiti di individuazione, accertamento e controllo dei fattori di
nocività, pericolosità e deterioramento degli ambienti di lavoro.
Anche il controllo sullo stato di salute dei lavori, sino ad allora esercitato dall’Ispettorato
del Lavoro, venne affidato alle USL, mentre altre attività, quali gli accertamenti medico
legali e le certificazioni, rimasero di competenza dell’INAIL.
� Al SSN veniva quindi, tra le altre, attribuita la finalità di perseguire la sicurezza del
lavoro, con la partecipazione dei lavoratori e delle OO.SS., con la volontà di
imprimere un forte impulso all’attività prevenzionale, da gestire non in via
generale, ma sulla base delle esigenze in concreto verificate, congiuntamente alle
organizzazioni sindacali e datoriali.12 Non pochi furono i problemi di
coordinamento tra i diversi organismi preposti ai
ruoli di garanzia e controllo, ingenerando per un lungo periodo sovrapposizioni e, talvolta,
lacune, alcune delle quali ancora non colmate.13
12 Montuschi L.: “Diritto alla salute…” cit. pag. 221 13 Interessanti spunti al proposito possono trarsi dalla “piattaforma sindacale nazionale unitaria per il rilancio, la qualificazione ed un assetto stabile dell’attività di prevenzione nei luoghi di lavoro”, ove si fa esplicito riferimento alla necessità avvertita di ridefinire ed aggiornare il “mandato” dei servizi di Prevenzione delle ASL, sulla base della nuova, forte domanda, proveniente dagli organi paritetici e RLS e che ha per oggetto oltre all’esecuzione dei compiti istituzionalmente previsti, anche l’esercizio di altre attività, quali la formazione qualificata.
9
Verso la fine degli anni ’70 si assistette ad una sensibilizzazione a livello europeo, sul tema
della sicurezza sul lavoro ed alla conseguente emanazione di alcune direttive comunitarie,
miranti all’armonizzazione della legislazione dei singoli Stati.
Si citano, quale esempio:
� direttiva 576/1977 sulla segnaletica di sicurezza nei luoghi di lavoro,
� direttiva quadro 1197/1980 contro i rischi derivanti dall’esposizione ad agenti
chimici, fisici e biologici durante il lavoro
� direttiva 501/1982 sui rischi da incidenti rilevanti connessi a determinate attività
industriali.
In particolare, la Carta Comunitaria dei diritti sociali, approvata il 9/12/1989, ribadì il
diritto dei lavoratori ad operare in un ambiente sicuro e la necessità, per gli Stati membri,
di adottare norme adeguate, tali da rendere armonica, tra i diversi paesi, la gestione della
sicurezza. Tale armonizzazione si rendeva ancora più necessaria in considerazione del fatto
che il differente costo della gestione della sicurezza avrebbe potuto creare un’alterazione
degli equilibri tra gli stati membri in tema di concorrenza sul mercato.14
In tema di responsabilità civile va evidenziato che, all’art. 5, venivano previsti due
differenti regimi, da recepire, integralmente o in parte, a cura di ogni stato membro: a)
una responsabilità assoluta, che non incontrava alcun limite (neanche nell’ipotesi di caso
fortuito); b) una responsabilità oggettiva, che prevedeva, quale limite, il verificarsi di
alcuni fatti-eventi (con la conseguente esclusione / graduazione della responsabilità civile
dei datori di lavoro nell’ipotesi di fatti o circostanze a loro estranee, eccezionali ed
imprevedibili).15
Le direttive comunitarie si caratterizzarono per la previsione di elementi generali di tutela,
quali la prevenzione soggettiva (il singolo lavoratore incide nel processo produttivo e
pertanto deve essere adeguatamente informato e formato) e l’individuazione di procedure
(valutazione dei rischi) attraverso le quali, organicamente, intervenire; vennero individuati
nuovi ruoli, rivestiti da soggetti che con la loro opera coadiuvavano il datore di lavoro nella
gestione della sicurezza.
14 Galantino L., “Commento….” cit., pag. 11 15 Franco M.: “Diritto alla salute e responsabilità civile del datore di lavoro”, Milano, 1995 pag. 85
10
Dopo anni di dibattiti parlamentari venne emanato il D. Lgs. 626/1994, che finalmente,
anche nel nostro ordinamento, recepiva le principali otto direttive in materia di sicurezza
sul lavoro - ultima delle quali la direttiva quadro 391/1989 - prescrivendo misure per la
tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nell’ambito di tutti i settori produttivi.
Per riformare i limiti presenti nell’impianto normativo sino ad allora in vigore, vennero
introdotte importanti novità, che manifestarono i propri effetti non tanto sul contenuto
dell’obbligo di sicurezza – che sembrava aver subito piuttosto specificazioni che non
innovazioni – quanto sulle modalità gestionali di tale obbligo.16
L’intento del legislatore di attribuire a questo decreto una portata generale è ravvisabile
nelle disposizioni contenute nel titolo I, che consentono di predisporre concretamente le
necessarie condizioni di tutela e della sicurezza dei lavoratori e di offrire tanto un valido
ausilio interpretativo, quanto un’efficace possibilità di auto-adeguamento al variare della
realtà tecnico-produttiva.17
In particolare l’art. 3, con la sua lunga elencazione di misure necessarie ad assicurare la
tutela della salute e della sicurezza, può costituire una sorta di direttiva alla quale il datore
di lavoro deve conformare la propria azione, sia per quanto riguarda l’adempimento delle
prescrizioni contenute nel decreto stesso che per l’adozione delle misure contenute nella
legislazione precedente.
Si può correttamente parlare di un’organizzazione del sistema sicurezza, che per la sua
complessità giustificava la nuova previsione di uno staff, il Servizio di Prevenzione e
Protezione, che avrebbe affiancato e coadiuvato il datore di lavoro nella gestione e nella
programmazione di tutti quegli interventi ritenuti necessari a garantire la sicurezza
dell’ambiente lavorativo.
Venivano inoltre previste, in concreto, le modalità, le procedure per mezzo delle quali tale
obbligo dovesse realizzarsi, adottando strumenti di assoluta novità per il nostro
ordinamento ed il cui fine era quello di garantire efficacia alla programmazione
16 Galantino L. “Commento…” cit., pag. 11 17 Romei P. “Il campo di applicazione del d.lgs. n. 626 del 1994 e i soggetti” in AA.VV. “Ambiente, salute e sicurezza” cit. pag. 60; M. Franco “Diritto alla salute e responsabilità civile del datore di lavoro” Milano, 1995, pag. 69 ss.
11
(valutazione dei rischi e redazione del relativo documento, riunione periodica)18, attraverso
una gestione partecipata. Ne conseguiva il coinvolgimento di tutte le risorse umane
presenti nell’ambito dell’azienda, compresi gli stessi lavoratori che sono “tenuti a
contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti, ai preposti, all’adempimento di tutti gli
obblighi previsti “.(art. 5 D. Lgs. 626/1994).
Capitolo 2. Natura giuridica dell’obbligazione di sicurezza
Il problema della natura, aquiliana o contrattuale, della responsabilità del datore di lavoro,
è stato lungamente dibattuto in dottrina ed il fulcro della disamina è stato rappresentato,
prevalentemente, dall’art. 2087 c.c., che ha svolto (e svolge) un ruolo di assoluto rilievo
nell’ambito del sistema prevenzionale, rappresentandone un punto di inizio – per la
qualità intrinseca di norma assolutamente elastica – e di chiusura, supportando la
legislazione tecnica esistente in tema di infortuni e malattie sul lavoro e costituendo altresì
un costante riferimento giurisprudenziale ai fini della valutazione della responsabilità del
datore di lavoro 19.
Tale norma, come autorevolmente sostenuto20, è stata oggetto di un fenomeno che ha
caratterizzato la definizione di molte altre norme peculiari del diritto del lavoro ad opera
della dottrina: il tentativo di “costringere” la disposizione in uno schema privatistico o in
uno schema di tipo pubblicistico.
18 A tale proposito Romei “Il campo di applicazione ….” cit., pag. 67 evidenzia come l’impostazione fosse radicalmente mutata rispetto al passato, quando era il legislatore che provvedeva, caso per caso, ad individuare i rischi connessi all’impianto o al tipo di produzione, indicando anche gli adempimenti necessari ad evitarli o a ridurre gli effetti negativi. 19 Così M. Lai “Flessibilità e sicurezza del lavoro” Torino, 2006, pag. 7; P. Romei “Il campo di applicazione del D. Lgs. 626 in AA.VV. “Ambiente, salute e sicurezza” Torino 1997 evidenzia come il D. Lgs. 626, pur esplicitandone e talvolta anche innovandone i contenuti, sembra tuttavia presupporre una norma di carattere generale come l’art. 2087 c.c. , che conserva perciò la funzione di norma di chiusura dell’intero sistema 20 C. Smuraglia “La sicurezza nel lavoro e la sua tutela penale” Torino, 1974 pag. 81
12
2.1 Teorie “extra contrattualistiche” e pubblicistiche
I primi commentatori ravvisarono nella norma un carattere pubblicistico, evidenziando
come il contenuto della disposizione non faccia esclusivo riferimento all’interesse
personale del creditore, ma soddisfi anche interessi ed obiettivi più generali (tutela
dell’ambiente di lavoro) . Secondo tale teoria, pertanto, l’art. 2087 cod. civ. non attribuisce
al lavoratore un diritto soggettivo, ma una mera “situazione di vantaggio, classificabile
come interesse legittimo, in quanto connessa alla tutela di un pubblico e, quindi, di più
ampio interesse”21.
Anche in seguito all’introduzione nel nostro ordinamento della Carta Costituzionale, tale
interpretazione non mutò sostanzialmente e, pur riconoscendo una stretta correlazione tra
l’art. 2087 C.C. e l’art. 32 Cost., si giunse alla conclusione che il diritto alla sicurezza altro
non è che un’estrinsecazione di un principio generale e pertanto, rientrando il diritto alla
salute tra i diritti della personalità, non può essere confinato nel ristretto ambito
contrattuale.22
Dal che conseguirebbe, in caso di inadempimento del datore di lavoro, l’applicazione del
generale principio del neminem laedere, di cui all’art. 2043 cod. civ.
Un’evoluzione della teoria pubblicistica pose poi in evidenza come, coordinando le
disposizioni contenute all’art. 2087 cod. civ. e l’art. 40 2° cod. pen. (non impedire un
evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo), il principio
generale del neminem laedere assumerebbe, per il datore di lavoro, connotati del tutto
particolari, traducendosi non solo in un obbligo negativo (non fare), ma anche in un
obbligo positivo (attuazione di una tutela preventiva del bene giuridicamente protetto,
coincidente con la salubrità dell’ambiente di lavoro).23
21 D’Eufemia I pag. 14 22 Di opposto parere L. Montuschi “diritto alla salute e organizzazione del lavoro” Milano 1986, pag. 55, il quale reputa la tesi dell’appartenenza del dovere di sicurezza alla sfera del diritto pubblico “politicamente pericolosa e giuridicamente discutibile” 23 Con la sentenza 29/9/2006 n. 32286 la Cass. Penale rimarca tale posizione, affermando che il datore di lavoro è garante dell’incolumità fisica e della personalità morale del prestatore di lavoro dal che deriva che, in caso di inadempimento del suo obbligo di tutela, l’evento lesivo gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall’art. 40 2° comma cod. pen. M. Franco “Diritto alla salute…” cit., pag. 354 sostiene che la salubrità dell’ambiente di lavoro può essere considerata, in linea di principio, un bene giuridicamente rilevante, che ha per oggetto una situazione di vantaggio per la collettività dei lavoratori.
13
Tale tesi, come osservato, è di interesse, poiché “consente di estendere gli obblighi di
sicurezza anche nei confronti di soggetti non legati da un vincolo di subordinazione con il
datore di lavoro, ma solo temporaneamente inseriti nell’organizzazione produttiva”24.
Secondo tale teoria, inoltre, la sola violazione dell’obbligo in astratto considerato - e non
già il verificarsi dell’evento lesivo ed il conseguente danno al lavoratore - consentirebbe al
lavoratore di poter agire per la tutela del proprio interesse.
2.2 Le tesi contrattualistiche
Di contro, la dottrina e la giurisprudenza prevalente hanno attribuito all’art. 2087 c.c. una
valenza preminentemente contrattualistica e pertanto un’applicazione pressoché indiscussa
nell’ambito del contratto di lavoro subordinato.25
Nell’ambito dell’elaborata teoria “contrattualistica”, le interpretazioni sono tuttavia
tutt’altro che univoche.
Secondo taluni va ravvisato un obbligo di protezione 26, riconducendo il contenuto dell’art.
2087 c.c. agli obblighi di correttezza e buona fede cui il datore di lavoro è tenuto ex art.
1175 e 1375 cod. civ. Il rapporto di lavoro veniva quindi valutato come struttura
complessa, composta da alcuni obblighi principali ed altri, quali quello di sicurezza,
meramente accessori, la violazione dei quali non avrebbe pregiudicato l’obbligazione
principale.
Di diverso avviso altra parte della dottrina, il cui pensiero viene ricondotto nell’ area della
cooperazione creditoria: il datore di lavoro deve rendere possibile al proprio dipendente, in
totale sicurezza, l’esecuzione della propria prestazione lavorativa . 27
Qualora il datore di lavoro fosse inadempiente, l’obbligazione di lavoro ne rimarrebbe
fortemente influenzata, sul presupposto “ che il debito trova la sua misura ed incontra il
24 M. Lai “La sicurezza del lavoro tra legge e contrattazione collettiva” Torino, 2002, pag. 7 25 Cass. 18/11/1976 n. 4318 26 L. Mengoni “Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi” in Riv. Dir. Comm. 1954, I, p. 185 ss. E, per una nota bibliografica accurata si rimanda a M. Lai “La sicurezza…” cit. p. 3 27 M. Franco “Diritto alla salute e responsabilità civile del datore di lavoro” Milano, 1995 pag. 31, secondo il quale la responsabilità contrattuale del datore deriva anzitutto dal legame sussistente tra l’art. 2087 cc. Ed il precetto costituzione, ritenendo che il danno alla salute venga a coincidere con quel danno che l’art. 1218 c.c. fa gravare sul debitore che non esegue la prestazione.
14
suo limite nel rispetto pregiudiziale della persona del debitore stesso”28, con la conseguente
giustificazione del rifiuto del lavoratore ad operare in un ambiente di lavoro riconosciuto
insalubre o insicuro.
Va osservato tuttavia che, qualora si accogliesse senza riserve la tesi sopra esposta, al
creditore di sicurezza spetterebbe solo una facoltà di natura non processuale, cioè il diritto
di rifiutare sì la prestazione lavorativa senza subire per tale ragione alcuna sfavorevole
conseguenza giuridica 29, ma nessun diritto a pretendere il corretto ed esatto adempimento
dell’obbligazione sub specie di una modificazione dell’organizzazione del lavoro. 30
Soprattutto a seguito dell’introduzione dello Statuto dei lavoratori, molti interpreti non si
limitarono a considerare una predominanza, all’interno del rapporto di lavoro,
dell’interesse del datore di lavoro, ma ritennero che l’aver ricondotto l’art. 2087 c.c.
nell’ambito delle obbligazioni principali avrebbe consentito di individuare non più un
mero onere, ma un dovere di sicurezza a carico del datore di lavoro, cui corrispondeva un
diritto soggettivo di credito. 31
Si poteva quindi affermare che il contenuto dell’art. 2087 c.c., penetrando e condizionando
il rapporto di lavoro, di fatto modella il sinallagma contrattuale32.
2.3 Carattere bifrontale dell’art. 2087 codice civile
Altri interpreti, coniugando alcune delle tesi sopra esposte, hanno riconosciuto all’art. 2087
cod. civ. un carattere “bifrontale”: pur concordando sulla rilevanza civilistica e contrattuale
dell’art. 2087 cod. civ., ne hanno evidenziato anche il profilo pubblicistico.
Taluni hanno poi evidenziato come sia poco corretto, riduttivo, definire la sicurezza mero
obbligo a carico del datore di lavoro, ritenendo assai più appropriato parlare di “dovere”,
28 L. Montuschi “ Diritto alla salute..” cit. p. 71 29 Spagnuolo Vigorita: pag. 453 M. Franco “Diritto alla salute..” cit., pag. 107 30 L. Montuschi “Diritto …” cit., p. 53 31 M. Lai “ La sicurezza…” cit. , p. 6 , Bianchi D’Urso F. “Profili giuridici della sicurezza nei luoghi di lavoro” Napoli, 1980, pag. 57 , Cass. 18/11/1976 n. 4318 32 L. Montuschi: “Diritto alla salute…” cit. pag. 75
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facendo derivare da tale accezione un comportamento di obbedienza astratto da un
rapporto giuridico identificato e non necessariamente correlato ad un diritto soggettivo .33
Si andrebbe dunque a configurare una situazione nella quale il dovere di sicurezza permane
in capo ad un singolo soggetto (datore di lavoro), mentre il corrispettivo credito viene
ripartito tra due soggetti: lo Stato (quale titolare di un interesse pubblico collettivo) ed il
lavoratore.
L’astrazione dal rapporto giuridico individuato – contratto di lavoro dipendente –
offrirebbe inoltre la possibilità di garantire l’applicazione delle disposizioni a tutti i casi in
cui fosse comunque rilevabile una prestazione lavorativa34.
Tale interpretazione, che estende la tutela infortunistica a “tutti gli addetti”, ben si potrebbe
coniugare con il contenuto dell’art 7 del D. Lgs. 626/1994, che integra il dettato della
norma civilistica. 35
Vanno tuttavia valutati l’importanza e gli effetti che la considerazione dell’obbligo di
sicurezza quale bifrontale sortirebbe, ad esempio per quanto concerne l’agibilità dei mezzi
reattivi ai quali è possibile ricorrere in caso di inadempimento ( infra, pag 49).36
Capitolo 3. Il contenuto dell’obbligazione
L’evoluzione del dibattito sulla natura delle posizioni soggettive ha condotto a considerare
indiscusso il contenuto prevenzionistico dell’art. 2087 c.c. e, di conseguenza, a ritenere
superate le posizioni volte a circoscriverne la portata in senso esclusivamente risarcitorio37
33 Smuraglia “La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale” p. 47 34 Lai “La sicurezza..” cit., p. 9 e M. Franco “L’obbligo di sicurezza del datore di lavoro nell’età corporativa e dopo, i Riv. It. Dir. Lav. 1993, I pag. 114 35 In tal senso Cass. 22/3/2002 n. 4129 che, ritenendo che l’art. 2087 c.c. integri le disposizioni in materia di prevenzione degli infortuni previste da leggi speciali e sia applicabile anche nei confronti del committente, tenuto al dovere di provvedere alle misure di sicurezza dei lavoratori (anche se non suoi dipendenti) ove si assuma i poteri tecnico-organizzativi dell’opera da eseguire. La pronuncia va nel senso di una responsabilità solidale tra committente ed appaltatore (datore di lavoro “titolare”degli infortunati), in base alla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. 36 Così L. Montuschi “Diritto alla salute…” cit., p. 53 37 Natullo “La tutela..” cit. pag. 22
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Come più volte ricordato, l’art. 2087 c.c. rappresenta una norma di chiusura del sistema
antinfortunistico nel senso che, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva,
la suddetta disposizione impone al datore di lavoro di adottare comunque le misure
generiche di prudenza, diligenza e l’osservanza delle norme tecniche e di esperienza.38
L’estrema elasticità della norma determina di fatto un ampio vincolo a carico del datore di
lavoro circa le modalità di adempimento del suo obbligo di sicurezza: essendogli affidata
l’indagine circa la potenzialità e la probabilità di un danno e, in conseguenza, circa la
sussistenza concreta di un pericolo, questi dovrà comportarsi utilizzando una diligenza
non comune, bensì qualificata, ex art. 1176 2° c.c.
Il datore di lavoro è infatti tenuto ad adottare tutte le misure “necessarie” a tutelare
l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro secondo i parametri della
particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica.39
Il concetto di particolarità del lavoro è estremamente ampio e comprende tutte le attività,
anche quelle definibili come preparatorie o complementari.
Secondo alcuni, l’ambito di applicazione non può limitarsi alle attrezzature, ai macchinari
o ai servizi, ma va esteso a tutte le condizioni ambientali e cioè a quel complesso di
condizioni di pericolo, di disagio e di faticosità che sono insite nelle caratteristiche
peculiari di ogni specifica attività lavorativa 40, andando a coinvolgere l’intera gestione
dell’attività nella sua fase dinamica 41.
I termini esperienza e tecnica sono pressoché unanimemente considerati dalla dottrina 42
parametri “esterni”, sulla base dei quali individuare le misure di carattere preventivo
adeguate alla particolarità del lavoro. Il datore di lavoro dovrà quindi, nel predisporre le
misure prevenzionali, riferirsi alle conoscenze messe a disposizione dal progresso tecnico
scientifico e, nel fare ciò, non potrà subordinare l’adozione di misure di sicurezza a criteri
38 Cassazione 9/5/1998 n. 4721. Nello stesso senso anche la pronuncia Cass. 29 marzo 1995, n. 3738 secondo cui 'art. 2087 c.c. costituisce norma di chiusura del sistema antinfortunistico, la cui operatività non è esclusa, bensì rafforzata dalla sussistenza di norme speciali che dispongano l'adozione di particolari cautele.
39 Lai “La sicurezza..” cit. pag. 15, Bianchi D’Urso “Profili giuridici.. cit., pag. 41 40 Smuraglia, “La sicurezza…”cit. pag. 85 41 Cass. 20/04/1998 n. 4012 e Cass. 6/9/1988 n. 5048 Per la Corte, che si trovava a giudicare se nel caso di specie (aggressione di dipendenti bancari ad opera di malviventi), si è espressa nel senso che, una volta che un determinato tipo di attività lavorativa venga a trovarsi, nei fatti, esposto a rischi prima inesistenti, il datore di lavoro dovrà adoperarsi affinché, in concreto, per mezzo dell’organizzazione del lavoro, i rischi possano essere prevenuti. 42 V. per tutti, Natullo G. “La tutela dell’ambiente di lavoro” Torino 1995, pag. 25
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di fattibilità economica o produttiva (massima sicurezza ragionevolmente praticabile), ma
dovrà tendere al raggiungimento, in concreto, della massima sicurezza tecnologicamente
possibile43.
Il concetto di esperienza va anch’esso inteso, secondo un autorevole autore 44 in senso lato,
per cui diviene penalmente perseguibile il datore di lavoro che non abbia usato quelle
misure e quei rimedi preventivi che in altre lavorazioni dello stesso tipo si siano rivelati
idonei a prevenire i sinistri.45
Se da un lato il datore di lavoro è tenuto ad adottare, secondo la giurisprudenza costante,
tutte le misure di prevenzione espressamente indicate 46, si è altresì considerato come,
qualora le norme specialistiche siano di fatto obsolete, il datore di lavoro dovrà rapportarsi
alle nuove conoscenze acquisite47 .
La legislazione italiana, con l’approvazione del D. Lgs. 626/1994, si è di fatto rivelata una
tra le più “garantiste” nei confronti del lavoratore48, attuando e talvolta superando i criteri
assunti dalla legislazione comunitaria dell’epoca. 49
43 Marino F. “La responsabilità del datore per infortuni e malattie del lavoro” Milano 1990, pag. 71 rileva, a proposito dell’art. 2087 c.c. , come “pur antecedente alla carta costituzionale la norma si appalesa come un vero gioiello di modernità e si pone come strumento attuativo degli articoli 32 e 41, laddove negano che l’attività economica possa svolgersi in contrasto con le esigenze di dignità e sicurezza umana e quindi con il primario diritto alla salute”. Conforme Cass. 29/3/1995 n. 3738. La Cass. Penale con sent. 29/9/2006 n. 32286 ha ribadito come un’eventuale indisponibilità dello strumentario di sicurezza, dipendente da qualsiasi causa, non può assurgere ad esimente, considerando che il diritto alla salute è un diritto fondamentale dell’individuo che non può ammettere eccezioni. 44 Smuraglia, cit. pag. 85
45 La Cassazione civile, con sentenza 29 marzo 1995, n. 3738 ha esteso tale concetto, imponendo al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge per la specifica attività, ma anche alle altre misure che si rendano necessaria in base alla particolarità dell’attività lavorativa, all’esperienza ed alla tecnica, misure per l’individuazione delle quali può farsi riferimento, ove sussista identità di ratio, anche ad altre norme dettate ad altri fini, ancorché peculiari ad attività diverse da quella dell’imprenditore.
46 Al proposito va ricordata la decisione della corte costituzionale 25/7/1996 n. 312 che, pronunciandosi su una questione di legittimità avente per oggetto la genericità del contenuto dell’art. 41 comme 1° D. Lgs. 277/1991 (riduzione al minimo dei fattori di rischio da rumore “in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, i rischi derivanti dall’esposizione al rumore mediante misure tcniche, organizzative e procedurali, concretamente attuabili, privilegiando gli interventi alla fonte”) rispetto alla previsione dell’art. 25 comma 2° Costituzione (necessaria determinazione delle previsioni della legge penale), ha evidenziato la necessità di ridurre l’ambito dell’interpretazione, valutando volta per volta se il comportamento del datore di lavoro deriva dagli standard i sicurezza acquisiti per le diverse produzioni. 47 Cass. Pen. 24/6/2000; Cass. 30/08/2004 n. 17314 48 Romei “Il campo di applicazione..” cit. pag. 63 49 Il rapporto tra obbligo di sicurezza ed acquisizioni scientifiche è così qualificato dalla Sentenza della Corte di Giustizia Europea 15/11/2001: “i rischi professionali che devono essere oggetto di una valutazione
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L’art. 3, in particolare, pur non contenendo alcun richiamo al principio di esperienza che
nell’art. 2087 c.c. assolve alla funzione di individuare un criterio di normalità tecnica,
introduce una “direttiva di ragionevolezza nell’adozione delle misure di sicurezza, verso il
raggiungimento di un (difficile) equilibrio tra il principio della massima sicurezza
tecnologicamente possibile ed il rispetto della funzionalità dell’organizzazione
produttiva”50.
Va infatti rammentata la tendenza della giurisprudenza e di parte della dottrina a fornire
una interpretazione estensiva del contenuto della norme prevenzionistiche e dell’art. 2087
c.c. in particolare, che si ritiene contenga non solo un dovere di tipo positivo (adozione
delle misure di sicurezza necessarie), ma anche un dovere di tipo negativo, individuato
all’art. 3 D. Lgs. 626/1994 nel rispetto dei principi ergonomici, nella definizione dei
metodi di lavoro e produzione, al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo.51
E’ in ogni caso accolto dalla giurisprudenza e dalla dottrina prevalente il concetto secondo
il quale dal verificarsi dell’evento lesivo non derivi una responsabilità oggettiva a carico
del datore di lavoro. Si ritiene infatti che dal dovere di prevenzione non possa desumersi
un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ma che, al fine dell’attribuzione di
responsabilità debba accertarsi, oltre che il verificarsi di un danno, anche la colpa del
da parte dei datori di lavoro non sono stabiliti una volta per tutte, ma si evolvono costantemente in funzione, in particolare, del progressivo sviluppo delle condizioni di lavoro e delle ricerche scientifiche in materia di rischi professionali”. Ne consegue, per il datore di lavoro un obbligo “di tenersi aggiornato e di tenere conto di quanto risulta da acquisizioni tecniche e scientifiche che abbiano un margine sufficienti di solidità, di sperimentazione e di effettiva possibilità di conoscenza al di là del mondo scientifico strictu sensu considerato” 50 Romei, ibidem pag. 66 51 Natullo “La tutela..” cit. pag. 27 e, in tema di incidenza dell’obbligo di sicurezza sull’organizzazione del lavoro, Smuraglia, “La sicurezza..” cit pag. 87 e segg. osservava ..”e’ chiaro che tra i doveri di sicurezza del datore vi è anche quello di occuparsi dell’intera organizzazione aziendale… ogni cura deve essere posta nella scelta del lavoratori da adibire ai singoli reparti e specialmente a quelli in cui si svolgono lavorazioni pericolose o nocive; da essi devono essere allontanati i prestatori che manifestino predisposizione alle malattie…” . Lai “sicurezza..” cit., pag. 30 evidenzia inoltre come il dovere di sicurezza venga ad incidere anche sul potere di assegnazione o modifica delle mansioni, indicazione prima implicitamente dedotta dal 2087 c.c. ed ora espressamente oggetto di obbligo ai sensi dell’art. 4 comma 5 D.Lgs. 626/94. La S.C. con sentenza sez. lav., 30 agosto 2000, n. 11427 ha comunque negato il diritto del lavoratore, in caso di sopravvenuta inidoneità, ad essere adibito a mansioni del tutto diverse da quelle per le quali è stato assunto, con la necessaria adozione da parte del datore di lavoro di modifiche dell'assetto organizzativo implicanti ampliamenti di organico o innovazioni strutturali.
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datore di lavoro per violazione di obblighi di comportamento (derivanti sia da leggi che
suggeriti dalla tecnica e/o dall’esperienza) concretamente individuati. 52
Capitolo 4. I SOGGETTI
Il modello della ripartizione intersoggettiva degli obblighi di sicurezza è adottato dal nostro
ordinamento sin dagli anni ’50, quando i D.P.R. 547/1957 e 303/1956 ed il D. Lgs.
277/1991 hanno introdotto la possibilità di una ripartizione degli obblighi in capo a più
soggetti - datore di lavoro, dirigenti e preposti - ai quali veniva fatto carico di attuare le
misure di sicurezza previste. Veniva quindi legittimata la delega, cioè la traslazione di
poteri, responsabilità e funzioni da parte del datore di lavoro, che poteva così sgravarsi
di tutti o di alcuni dei suoi obblighi, affidandoli ad un suo sottoposto.
Al fine di evitare “la creazione di zone di extraterritorialità penale mediante ripartizioni di
funzioni di carattere fraudolento”53, la Giurisprudenza introdusse una serie di limitazioni,
avendo come riferimento costante l’organizzazione dell’impresa e la ripartizione delle
incombenze effettuata in concreto tra quanti sono chiamati a collaborare con
l’imprenditore e ad assumere in sua vece l’onere della tutela delle condizioni di lavoro54.
Altri elementi ritenuti di assoluta rilevanza erano riconducibili a: la presenza di
un’organizzazione produttiva complessa55, l’esistenza di una autonomia decisionale e di
spesa del dirigente delegato56, l’idoneità tecnica del delegato a rivestire l’incarico
affidatogli 57, gli specifici contenuti della delega e la sua accettazione.58
52 Cfr. per tutti, P. Rossi in AA.VV. “Il sistema di tutela degli infortuni e delle malattie professionali” a cura di F. Facello pag. 238 . Cass. 10/5/2000 n. 6018 Cass. 23/07/2004 n. 13887 e Cass. 1/6/2004 n. 10510 53 Marino “cit “ pag. 139 54 Cass. Pen sez. IV 24/1/1962 n. 761 55 Contra Cass. Pen. 12/04/2005 n. 26122, che ammette la delega anche all’interno delle strutture non complesse 56 Cass. Pen. 23/02/1993 57 Cass. Pen. 26/10/1985 e, più recentemente, Cass. Pen. 1/04/2004 n. 27857 58 A tale proposito va comunque evidenziato che, qualora dirigenti e preposti siano investiti di responsabilità ex lege, ininfluente sarà l’eventuale delega attribuita (Cass. Pen. 1/4/2004 n. 24055 e Cass. Pen. 31/3/2006 n. 11351)
20
Non può infatti considerarsi legittima una delega di fatto priva dei contenuti o dei poteri
necessari alla concreta attuazione degli obblighi gravanti sul delegante.59
Fedele a questo modello che consentiva di raggiungere un obiettivo di sicurezza diffusa 60
il D. Lgs. 626/94 ripropose una suddivisione del carico prevenzionistico tra tutti coloro
che, ai vari livelli, sono titolari di poteri di intervento o di influenza sull’ambiente di
lavoro61.
4.1 Il datore di lavoro
Il datore di lavoro, quale primo garante del debito prevenzionistico, trova la sua formale
definizione per la prima volta nel nostro ordinamento all’art. 2 lettera b) del D. Lgs.
626/94 (come modificato dal D. Lgs. 242/1996) ove viene qualificato come “il soggetto
titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il
tipo dell’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa, ovvero
dell’unità produttiva…in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa”. 62
La norma ricomprende pertanto anche i soggetti che, pur non formalmente titolari del
rapporto di lavoro, abbiano però la responsabilità dell’impresa o di una sua unità
produttiva. Viene quindi a configurarsi, accanto ad un datore di lavoro “formale”, un
datore di lavoro “sostanziale”, identificato con colui che, considerate le particolari
59 Cass. 22/6/2000 n. 9343 60 Basenghi F. “La ripartizione intersoggettiva degli obblighi prevenzionistici nel nuovo quadro legale” in AA.VV. “La sicurezza del Lavoro – commento….” cit.pag. 61 61 Ibidem 61 62 Come osservato da F. Basenghi “La ripartizione ...” cit., pag. 66 e seg., la definizione inizialmente contenuta nel d. lgs. 626/94 era stata oggetto di seri problemi interpretativi poiché la trasposizione della direttiva comunitaria qualificava datore di lavoro “qualsiasi persona fisica o giuridica o soggetto pubblico…titolare del rapporto di lavoro … e che abbia la responsabilità dell’impresa o dello stabilimento”. La definizione presentava aspetti di incompatibilità con l’assenza di attribuzione alla persona giuridica, nel nostro ordinamento, di capacità giuridica in ambito penale. Altro elemento di critica veniva dalla considerazione che la necessità – che la norma sembrava richiedere – del cumulo delle due condizioni di titolare del rapporto di lavoro e di responsabile dell’impresa o dello stabilimento – era assai difficilmente riscontrabile nella realtà (cfr. Romei “ Il campo di applicazione.. “ cit, pag. 76) e, paradossalmente, applicando letteralmente la disposizione, “lo status datoriale non avrebbe dovuto invece spettare all’amministratore delegato plenipotenziario che avesse avuto la responsabilità dell’intera impresa costituita in forma societaria. Su tale soggetto, infatti, non si sarebbe imputata la titolarità dei rapporti correnti con i dipendenti dell’impresa gestita”
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modalità organizzative dell’intera impresa o di un suo ramo appare provvisto dei relativi
poteri operativi e gestionali.63
Si determina dunque un effetto diffusivo del debito, con la possibilità di identificare più
datori di lavoro (e come tali anche i dirigenti che abbiano la responsabilità dell’impresa o
di una unità produttiva) ai fini della sicurezza in un’impresa articolata in più unità
produttive,64 ove per unità produttiva va intesa un’articolazione dell’azienda, dotata di
autonomia tecnico funzionale, cioè una struttura dotata di una propria identità da un punto
di vista produttivo, spaziale e organizzativo65
Mentre nelle aziende meno strutturate il datore di lavoro sostanziale potrà essere
agevolmente identificato nella persona fisica che concretamente risulti titolare dei più ampi
poteri di gestione e amministrazione dell’azienda, nelle strutture più complesse,
normalmente società, il ruolo va attribuito solitamente agli amministratori, previa tuttavia
una verifica circa l’entità dei poteri e delle prerogative ad essi attribuite.66
Per tale verifica non si potrà prescindere dal canone della c.d. “effettività”, unanimemente
accolto in dottrina ed in giurisprudenza, che individua nella concreta e reale assegnazione
di compiti e poterei a ciascun soggetto nell’ambito dell’organizzazione aziendale il criterio
che consente di scomporre il debito prevenzionistico.67
Per quanto attiene la Pubblica Amministrazione, per l’individuazione del datore di lavoro
viene fatto riferimento al “dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il
funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto
ad un ufficio avente autonomia gestionale”. Tale individuazione è, ai fini formali piuttosto
agevole, poichè pressoché tutte le amministrazioni hanno proceduto all’individuazione, al
63 Franco, “La responsabilità…”cit. pag. 257 64 Montuschi “Diritto…” cit. pag. 45, Ferraro in “Il datore di lavoro e l’obbligazione di sicurezza: attribuzione di compiti e delegabilità di funzioni nel complessivo quadro dei nuovi adempimenti” in AA.VV. “Ambiente, lavoro…” cit. pag. 112 65 Romei “Il campo di applicazione…” cit. pag. 78 . Conforme Cass. 5892/1999 66 Basenghi “ La ripartizione…” cit. pag. 64 In tema di operatività della delega di funzioni in azienda, la recente sentenza Cass. Pen. Sez. III 4/4/2006 ha stabilito che rientra tra i compiti dell’amministratore della società l’organizzazione dell’impresa e la vigilanza sull’intero andamento aziendale all’interno di una struttura semplice, atteso che in tali ipotesi non sussiste la necessità di decentrare, in funzione partecipativa, l’esercizio dei poteri di direzione e controllo dell’attività produttiva. 67 Montuschi “Diritto…” cit. pag. 102 Per riferimenti alla indispensabile valutazione di merito sui criteri endoaziendali di ripartizione dei compiti si rimanda alla trattazione di Basenghi, cit. pag. 57 e segg.
22
loro interno, dei soggetti da qualificare quali datori di lavoro, in applicazione al disposto di
cui all’art. 30 D. Lgs. 242/1996.
L’autonomia gestionale cui si è fatto riferimento, soprattutto a seguito delle ripetute
riforme del settore pubblico, si ritiene non possa limitarsi ad un mero potere di indirizzo,
ma debba coniugarsi ad una capacità gestionale di natura patrimoniale.68 In ogni caso, la
responsabilità dell’organo di vertice o di governo non può essere totalmente esclusa,
poiché questi debbono, tra l’altro, formulare obiettivi e programmi anche in tema di
sicurezza, predisponendo nel bilancio le necessarie risorse e vigilando sulla corretta
attuazione delle misure prestabilite.
Si può parlare quindi di una contrapposizione tra una responsabilità derivante da carenze
strutturali, addebitabile ai vertici dell’ente e una responsabilità derivante da deficienze
nell’ordinario funzionamento, cui rispondono, secondo il consolidato principio
dell’effettività, i soggetti istituzionalmente preposti 69
Una particolare fattispecie di responsabilità del datore di lavoro in tema di sicurezza si
realizza nell’ipotesi dell’appalto.
Secondo la definizione fornita dall’art. 1655 c.c., tale tipologia contrattuale si caratterizza
per l’autonomia gestionale ed organizzativa che l’appaltatore utilizza per il compimento di
un’opera o di un servizio. Il committente, pertanto, dovrebbe essere considerato terzo
rispetto alla tutela del personale dell’appaltatore, al quale dovrebbero invece far capo tutti
gli obblighi prevenzionali. Tuttavia, qualora tale autonomia non fosse di fatto
compiutamente realizzata, si potrebbe incorrere in una co-responsabilità del committente.
Ciò si verifica quando quest’ultimo attui un’ingerenza nell’attività dell’appaltatore
attraverso modalità di tipo funzionale-direttivo (andando oltre il normale e legittimo
potere di controllo) o di tipo tecnico-operativo (quando l’appaltatore utilizzi mezzi e
strumenti messi a sua disposizione dal committente - che, ai sensi dell’art. 6 D.Lgs.
626/1994 dovranno essere del tutto conformi alle riposizioni sulla sicurezza). In caso di
infortunio la responsabilità penale dell’imprenditore ai fini della sicurezza non esclude
l’esistenza di una colpa concorrente (talvolta anche esclusiva) dell’interposto, a seconda
del ruolo rivestito di fatto nei confronti dell’imprenditore e del personale da lui reclutato 70
68 Guariniello “Obblighi e responsabilità” pag. 550 . Conforme Cass. Pen. 28/7/2000 e Cass. Pen 15/1/2001 69 Lai “ La sicurezza…” cit. pag. 128 e seguenti 70 Marando “Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro” Milano, 2003 pag. 154
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L’art. 7 D.Lgs. 626/1994 prevede infatti una serie di oneri (verifica dell’idoneità tecnico-
professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi, formazione,
informazione, cooperazione e coordinamento con l’appaltatore) che gravano sul datore di
lavoro committente in relazione ai lavoratori autonomi ed ai dipendenti degli appaltatori
che eseguono lavori all’interno dell’azienda.
Situazione più gravosa si aveva per l’appalto di manodopera, sino al 2003 vietato dal
nostro ordinamento. Ove si fosse verificato tale illecito, i prestatori di lavoro, occupati in
violazione, erano a tutti gli effetti considerati alle dipendenze dell’imprenditore-utilizzatore
(art. 1 legge 1369/1960), pure tenuto a tutti gli obblighi connessi al rapporto assicurativo-
previdenziale (art. 9 T.U. 1124).
La legge 30/2003 ha fortemente rinnovato tale settore, derogando il divieto di appalto di
manodopera con il riconoscimento della possibilità di collocamento della stessa a società di
intermediazione autorizzate. L’art. 29 del D.Lgs. 276/2003 individua nell’assunzione del
rischio di impresa e nell’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore la
distinzione tra appalto (anche d’opera) e somministrazione.
Per quanto attiene la sicurezza, gli obblighi di prevenzione di cui al D.Lgs. 626/1994
gravano sull’utilizzatore, il quale deve tutelare i lavoratori a lui affidati alla stregua di
propri dipendenti.71
Il contratto di somministrazione può inoltre prevedere che alla formazione, informazione e
addestramento all’uso delle attrezzature debba provvedere l’utilizzatore anzichè l’agenzia
fornitrice e, in tal caso, l’atto dovrà contenere anche l’indicazione della presenza di
eventuali rischi per la salute e l’integrità dei lavoratori addetti, nonché delle misure di
sicurezza adottate.
4.2 Dirigenti e preposti
Mentre sino agli anni ’90 gli obblighi di sicurezza potevano, in presenza di valida
delega72, competere indifferentemente al datore di lavoro, ai dirigenti o ai preposti, il D.
71 Marando “Il sistema vigente della sicurezza del lavoro” Milano, 2006 pag. 142 72 Per la cui sussistenza dovevano coesistere alcune caratteristiche, così riassunte da Basenghi in “ La ripartizione… “ cit. pag. 91 e segg. : a) l’assenza di ingerenza del delegante sull’operato del delegato, b) l’insussistenza di una integrale attribuzione dell’obbligo di sicurezza, permanendo in ogni caso a carico del lavoro l’obbligo di vigilanza e di programmazione, c) l’idoneità tecnico-professionale del delegato
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Lgs. 626 introduce una limitazione, escludendo espressamente la possibilità di delegare
una serie di adempimenti, previsti all’art. 4 commi 1– 2- 4a) e all’art. 11 (valutazione del
rischio, elaborazione del relativo documento, designazione del responsabile del servizio di
prevenzione e protezione, autocertificazione per le imprese familiari o sino a 10 addetti,
dell’avvenuta valutazione del rischio e degli obblighi relativi).
Alcuni autori hanno posto in rilievo la non assoluta coincidenza tra gli obblighi sopra
indicati ed il contenuto, più ampio, dell’art. 89, ove vengono previste sanzioni a carico del
solo datore di lavoro qualora vi sia un inadempimento di alcune altre disposizioni. Da ciò
si è considerato derivare l’impossibilità, per tutte le fattispecie ivi indicate, di delegare ad
altri l’adempimento73 o, al più, la facoltà di delegarne la mera esecuzione materiale.74
Individuato il dirigente come il soggetto cui spetta il compito di dirigere il lavoro altrui con
una notevole discrezionalità e con ampio margine di autonomia e che, nell’ambito della
sicurezza deve non solo predisporre le misure specifiche nell’ambito delle direttive
generali ricevute, ma anche individuare e adottare, di volta in volta, quelle misure che
l’esecuzione della lavorazione venga via via rivelando come necessarie75, va tuttavia
rilevato che, facendo la normativa riferimento alla qualifica sostanziale e non formale, il
dirigente, come già accennato, potrebbe essere qualificato come datore di lavoro ai fini
della sicurezza.
Anche per la figura del dirigente, come già evidenziato per quella del datore di lavoro, si
potrebbe realizzare una dissociazione tra la figura elaborata ai fini prevenzionistici e
quella individuata all’art. 2095 c.c. per cui, a prescindere dalla formale attribuzione, il
dirigente che ai fini della sicurezza diviene l’alter ego del datore di lavoro, sarà
responsabile di una cospicua parte degli obblighi a quest’ultimo attribuiti; d’altro canto
un’investitura solo formale da parte del datore di lavoro, senza il conferimento di
autonomi poteri decisionali e di spesa, non sarà sufficiente a determinare un’eventuale
responsabilità del dirigente.76 Anche in questo caso, la guida alla corretta identificazione
73 Lai “La sicurezza…” cit., pag. 9 74 Franco “Diritto alla salute..” cit., pag. 276. Il Ferraro in “Il datore di lavoro…” cit. pag.126 ritiene invece che alcuni adempimenti, specie di natura tecnica, quali la valutazione del rischio, possano essere dal datore di lavoro delegati a persone di fiducia e qualificate, pur permanendo la responsabilità penale in capo al primo. 75 Smuraglia “La sicurezza..” cit. pag. 112 76 Lai “ La sicurezza …” cit., pag.132 Cass. Pen. Sez. IV 9/1/1963 n 678 in cui si evidenzia come la individuazione del soggetto penalmente responsabile per la mancata attuazione deve essere effettuata, più che attraverso la qualificazione giuridica
25
del debitore in prevenzione verrà fornita dal criterio di effettività che, valutando la concreta
determinazione dei poteri gestionali - anche di ordine economico - a questi riferibili e
suscettibili di condurre a tale identificazione sostanziale.
Per quanto attiene il preposto, in assenza di una definizione codicistica, questi veniva
identificato, sino alla fine degli anni ’50, con il soggetto che aveva funzioni sia di
supervisione del lavoro, sia di controllo diretto sulle modalità di esecuzione della
prestazione, attraverso una relazione diretta con i suoi sottoposti 77. La sua attività di
vigilanza è stata definita come sussidiaria, riferendosi esclusivamente agli sviluppi
esecutivi dell’opera ed essendo la sua autonomia costituita dallo stesso grado di cognizioni
tecniche in suo possesso, nonché dal ruolo assunto all’interno dell’organizzazione
dell’impresa.78
Con il D. lgs. 626/94 le responsabilità attribuite al preposto divengono agevolmente
desumibili dalle sanzioni poste a suo carico dall’art. 90 qualora non ottemperi ai compiti
definiti dall’art. 4 (quali ad esempio l’obbligo di aggiornamento delle misure di
prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che abbiano rilevanza ai
fini della sicurezza o la fornitura ai lavoratori dei necessari ed idonei DPI) ma, anche in
questo caso, così come avviene per gli altri soggetti debitori della sicurezza, andrà
verificata, in concreto, la reale autonomia decisionale necessaria ad adempiere agli
obblighi di cui è destinatario 79 e la qualificazione soggettiva80.
dei rapporti esistenti tra i diversi soggetti che si inseriscono nel ciclo produttivo, tenendo conto delle mansioni reali di ciascuno di essi, disimpegnate per incarico ricevuto o anche di propria iniziativa. Cass. 23/2/1994 n. 1806 e Cass. 9/9/2003 n. 13191, ove il dirigente viene identificato come colui che, pur in presenza di direttive programmatiche del datore di lavoro è preposto a dirigere l’intera organizzazione aziendale o un settore della stessa. 77 Lai “La sicurezza…”, cit. pag. 133, Marino “La responsabilità del datore…” cit., pag. 143 78 Smuraglia “La sicurezza..” cit. pag. 121 79 Cfr., quale esempio, la sentenza Cass. Pen. 29/10/2003 n. 49492, nella quale si afferma il principio secondo il quale il preposto è responsabile per la vigilanza ed il controllo nei confronti dei lavoratori. Di recente la Cass. Pen., sez. III con la sentenza 15/4/2005 n. 14017 ha individuato, quale specifica competenza prevenzionale del preposto “quella di controllare la ortodossia antinfortunistica della esecuzione delle prestazioni lavorative, cioè di assolvere agli obblighi specificamente indicati nell’art. 4 comma 5…..” Tra questi obblighi rientra quello di aggiornare le misure prevenzionali in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi, “ma sempre nell’ambito delle sue limitate attribuzioni., che attengono alla organizzazione delle modalità lavorative e non alla scelta dei dispositivi di sicurezza o dei macchinari conformi alle norme antinfortunistiche…” 80 Ai fini della validità della delega, il preposto dovrà essere persona tecnicamente capace e dotata dei necessari poteri (Cass. Pen., sez. III, 20/12/2002 )
26
4.3 Il lavoratore
Successivamente agli anni ’50 la giurisprudenza prevalente ha ritenuto che le norme di
prevenzione contro gli infortuni non avessero come unici soggetti debitori il datore di
lavoro, i dirigenti ed i preposti, ma che, seppure in misura contenuta, anche al lavoratore,
dovesse essere richiesta una partecipazione attiva alla gestione del sistema.
Con il D. Lgs. 626 il ruolo del lavoratore ha sicuramente subito consistenti modificazioni,
trasformandosi da titolare del credito di sicurezza o, al più, destinatario passivo di precetti
da eseguire, a soggetto attivo e responsabile della sicurezza propria e altrui nell’ambito
dell’ambiente lavorativo.81
La decretazione prevedeva infatti solo alcuni doveri a carico dei lavoratori, in
contrapposizione ad obblighi previsti invece per il datore di lavoro, i dirigenti ed i
preposti82, mentre secondo l’attuale ordinamento anche il lavoratore è destinatario di
obblighi, la cui violazione è sanzionata penalmente.
L’avvenuta riqualificazione della sua posizione obbligatoria non va tuttavia attribuita
automaticamente, non potendo prescindere dalla congiunta verifica dell’applicazione, in
concreto, delle nuove prerogative (informazione e formazione) delle quali il lavoratore è
investito e che rappresentano uno strumento non solo per la realizzazione dell’interesse del
lavoratore stesso (tutela della sua salute), ma anche per il corretto adempimento degli
obblighi posti a suo carico.83
La bivalente responsabilità attribuita determina il superamento della visione individuale
dell’attività lavorativa, collocandola all’interno di una determinata organizzazione
produttiva84. Ne deriva che il comportamento del lavoratore che non ottemperi alle
previsioni dell’art. 5, assume un valore ancora più rilevante e pertanto potrà essere non
solo sanzionato penalmente nelle fattispecie espressamente indicate, ma potrà condurre, 81 Lai “Flessibilità e sicurezza”.. cit pag. 87 82 Alcuni autori, tra i quali V. Marino “ “ cit. pag. 145 hanno considerato che l’inclusione del lavoratore tra i co-obbligati della sicurezza, avvenuta con il DPR 303/1956 trovava la sua ragion d’essere nel riconoscimento dell’onere di cooperazione che grava sul lavoratore. Valorizzando la natura pubblicistica della tutela, si è quindi ritenuto che la violazione delle norme poteva indurre a conseguenze sia in ambito disciplinare che in ordine alla ripartizione della responsabilità, qualora un evento dannoso si fosse realizzato. In ogni caso la responsabilità del lavoratore sarebbe stata completamente esclusa qualora il datore di lavoro non avesse per primo adempiuto al proprio obbligo di sicurezza. 83 R. Del Punta “Diritti e obblighi del lavoratore: informazione e formazione” in AA. VV. “Ambiente….” Cit. pag. 158 84 Lai “ Flessibilità..” cit. pag. 89
27
in caso di insuccesso di tutti gli altri percorsi (informazione, formazione, richiami) a
sanzioni disciplinari, sino al licenziamento, ovviamente da proporzionarsi all’entità della
violazione.85
85 Cass. 26/1/1994 n. 774 e Cass. 27/2/2004 n. 4050
28
PARTE II – RESPONSABILITA’ E RISARCIMENTO
Capitolo 1. Lo speciale regime di responsabilità: il principio del parziale esonero
1.1 Il rischio professionale
Verso la fine del 1800 il grande sviluppo del settore industriale produsse, accanto ad un
forte sviluppo economico, un consistente aumento del fenomeno infortunistico, con
conseguenze sociali di altissimo rilievo. La situazione, di grande drammaticità, costrinse
l’intera collettività a confrontarsi con il problema inerente il risarcimento dovuto agli
infortunati o ai loro superstiti, acquisendo la consapevolezza che si rendeva necessaria una
particolare protezione verso i soggetti colpiti (all’epoca chi subiva un infortunio sul lavoro
veniva aiutato, alla stregua di tutti gli altri indigenti, dagli istituti di assistenza e
beneficenza).
La dottrina e la giurisprudenza, in applicazione alle disposizioni comuni previste agli artt.
1151 e seguenti del vigente codice civile del 1865, ricondussero inizialmente il
fondamento dell’indennizzabilità degli infortuni ad una responsabilità extra contrattuale.
L’infortunio sul lavoro era considerato un illecito comune, sottoposto pertanto alle generali
regole in ordine all’onere della prova: il soggetto leso era tenuto a dimostrare la
colpevolezza del datore di lavoro (o di terzi) nel determinismo dell’evento e rimaneva
privo di qualsiasi riparazione tutte le volte in cui l’evento dannoso fosse imputabile al
soggetto stesso o a forza maggiore.86
Come intuibile, l’inadeguatezza della tutela offerta al lavoratore - derivante essenzialmente
dalle esigue possibilità di accertare la responsabilità datoriale (anche in assenza di norme
specifiche per la prevenzione degli infortuni), dai lunghi tempi processuali e dalle forti
implicazioni psicologiche della lite si palesò rapidamente - e, con il costante sviluppo del
settore industriale, parte della dottrina si avviò verso un’interpretazione di segno opposto,
individuando nella responsabilità contrattuale il fondamento del risarcimento al prestatore
d’opera, con una totale inversione dell’onere della prova, stavolta a carico del datore di
86 Per un’approfondita analisi del fenomeno v., tra gli altri, Marando G. “Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro” Milano 2003, pag. 104 e segg.
29
lavoro87. Nonostante l’attribuzione di questa responsabilità “aggravata”, va osservato che,
qualora il datore di lavoro avesse dimostrato l’utilizzo dell’ordinaria diligenza al fine di
evitare il danno, sarebbe stato considerato non responsabile dell’evento lesivo, con
conseguente inefficacia dell’azione promossa dal lavoratore.
Ci si rese tuttavia conto che anche quest’interpretazione, peraltro non condivisa da molte
parti, - soprattutto in virtù del fatto che, nel completo silenzio della legge non potesse
desumersi a carico del datore di lavoro un’obbligazione di protezione e sicurezza - non era
di per sé sufficiente a tutelare l’alto numero di soggetti infortunatisi in occasione di lavoro.
Si fece strada la convinzione che gli infortuni, se considerati nel loro complesso,
apparivano non più imprevedibili, ma come accessori inevitabili e ricorrenti,88
individuando un vero e proprio rischio professionale.
Nell’ambito della dottrina venne pertanto sempre maggiormente in considerazione l’idea
che “l’imprenditore, il quale spera di ricavare lucro dall’azione combinata di tutti gli
strumenti necessari per la produzione, debba anche sopportare i rischi per i danni che
fortuitamente, in causa o occasione dell’industria, possa colpire quegli elementi”89.
Si aprì dunque un importante dibattito che portò all’emanazione della legge 17/03/1898 n.
80, che tradusse il principio del rischio professionale in una forma transattiva, costituendo
la prima legge di tipo “sociale” del nostro ordinamento, non solo per i suoi contenuti, ma
anche per la sua forma.
Il contenuto del compromesso elaborato in dottrina venne dunque tradotto in legge,
divenendo applicabile nei confronti di alcuni soggetti (la tutela non si estese a tutti gli
operai, ma solo a coloro che erano addetti ad attività industriali ritenute particolarmente
pericolose sia per la loro natura intrinseca che per l’utilizzo di macchine “mosse da agenti
inanimati o da animali”), che venivano finalmente indennizzati anche per gli infortuni che
fossero derivati da forza maggiore, caso fortuito o dalla stessa colpa del lavoratore,
fattispecie sino ad allora completamente escluse dalla tutela (tale indennizzo era tuttavia
87 Nonostante l’attribuzione di questa responsabilità “aggravata”, va osservato che, qualora il datore di lavoro avesse dimostrato l’utilizzo dell’ordinaria diligenza al fine di evitare il danno, sarebbe stato considerato non responsabile dell’evento lesivo, con conseguente inefficacia dell’azione promossa dal lavoratore. Tra gli altri, Di Cerbo “L’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali nella giurisprudenza” Milano, 1998 p. 124 88 G. Marando “Responsabilità, danno …” cit., pag. 113 89 Fusinato “Gli infortuni sul lavoro e il Diritto civile” in Riv. It. Scienze giur. 1887 III p. 209, riportato in De Matteis-Giubboni “Infortuni sul lavoro e malattie professionali” Milano, p.38
30
determinato in forma prestabilita, normalmente inferiore al risarcimento che sarebbe
spettato secondo i comuni criteri civilistici) 90.
Dal canto suo il datore di lavoro traeva un indubbio vantaggio poiché, accollandosi il
pagamento del premio assicurativo, si liberava di qualsiasi responsabilità nei confronti
dell’operaio.
L’attuazione del principio del rischio professionale presentava un carattere di forte
originalità, disciplinando la tutela infortunistica in modo del tutto differente da quanto
avvenisse per le altre assicurazioni sociali, poichè teneva in considerazione soprattutto il
nesso eziologico al lavoro ed il suo complesso e peculiare determinismo91.
Si era dunque, seppur con una soluzione compromissoria, riusciti a coniugare l’esigenza di
garantire la tutela infortunistica (evitando il rigoroso sistema probatorio prima in capo al
prestatore d’opera) e l’esonero, seppur entro determinati limiti, del datore di lavoro dalla
responsabilità civile.
Rimanevano a questo punto privi di tutela gli infortunati nel solo caso in cui, in mancanza
di regolare copertura assicurativa, il datore di lavoro risultasse insolvibile.
Tale lacuna venne sanata dal Regio Decreto 17/8/1935 n. 1765, con l’affidamento delle
funzioni assicurative ad un ente di diritto pubblico e con l’introduzione dell’automatismo
assicurativo, grazie al quale anche qualora la procedura amministrativa non fosse stata
regolarmente avviata, il lavoratore avrebbe comunque potuto fruire, in tutta la loro portata,
delle prestazioni previste per legge.92
Al regime di eccezione che, rispetto al diritto comune, era disposto in favore del datore di
lavoro, vennero apportate critiche dopo l’emanazione del codice civile del 1942 ed una
parte della dottrina ritenne che l’art. 2087 C.C., con il suo ampio respiro, avesse abrogato
l’art. 4 del R.D. 1765/19635, posizione che venne respinta dalla giurisprudenza e dalla
dottrina dominante.
90 De Matteis Giubboni, cit. p.48 91 Alibrandi “Infortuni sul lavoro e malattie professionali” Milano 2002, p. 163
92 De Strobel D. “L’assicurazione di responsabilità civile” Milano, 2004, pag. 585
31
1.2 L’ART. 10 DEL D.P.R. 30/06/1965 n. 1124
Il D.P.R. 1124 del 30/06/1965 (TU delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria
contro gli infortuni e le malattie professionali) accolse tutti questi principi e sviluppò
ulteriormente l’automatismo assicurativo, garantendo al lavoratore infortunato un
indennizzo da parte dell’ente pubblico sul presupposto oggettivo di un rapporto di lavoro,
indipendentemente dall’avvenuto adempimento da parte del datore di lavoro.
Anche dopo l’approvazione di tale legge, vennero ribaditi alcuni dubbi sulla
costituzionalità di tale automatismo, rilevando un’ipotesi di illegittimità costituzionale del
sistema indennitario ove, non sottoponendo il datore di lavoro alle comuni disposizioni in
materia di responsabilità civile, si sarebbe sottratto al lavoratore infortunato il diritto al
risarcimento del danno.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 9/3/1967 n. 22 ritenne non fondata la questione in
riferimento agli invocati artt. 3, 35 e 38 della Costituzione, argomentando che la peculiarità
del sistema assicurativo garantisce al lavoratore infortunato una tutela “più ampia di quella
consentita dal diritto comune, indennizzandolo per il danno professionale subito anche
nelle ipotesi di caso fortuito o colpa”. La Corte ritenne invece costituzionalmente
illegittimi:
1. l’art. 4 3° comma dell’art. 4 RD 1765/1935, nella parte in cui limitava la
responsabilità datoriale al solo fatto commesso dai dirigenti e dai preposti e non
anche dagli altri dipendenti del cui fatto dovesse rispondere, ai sensi dell’art. 2049
Cod. Civ.
2. l’art. 4 comma 5° nella parte in cui consentiva al giudice civile di accertare che il
fatto che aveva cagionato l’infortunio costituiva reato soltanto nelle ipotesi di
estinzione dell’azione penale per morte dell’imputato o per amnistia, senza
considerare quella di prescrizione del reato (che opera con la stessa efficacia delle
altre ipotesi invece espressamente considerate)
3. l’art. 10 T.U. 1124/1965, comma 3° e 5°, poiché riproducevano integralmente le
due ipotesi sopra indicate.
La Giurisprudenza costante, uniformandosi a tale criterio, ha pertanto ridisegnato la sfera
di applicazione della regola del parziale esonero, per cui si è in presenza di una
responsabilità civile del datore di lavoro non solo quando sussista, in ordine al fatto che ha
dato luogo all’infortunio, “la responsabilità penale di lui o di persona che egli abbia
32
incaricato della direzione o della sorveglianza del lavoro, ma anche quando una
responsabilità penale venga accertata a carico di un altro suo dipendente, del cui fatto egli
debba rispondere secondo le norme del Codice civile (artt. 2043 e seguenti c.c.)”93.
Tale ampliamento comporta, in sé, una corrispondente estensione del diritto di regresso
dell’istituto assicuratore, del quale la responsabilità civile costituisce un presupposto.94
Il citato articolo 10 è stato oggetto di altre due importanti pronunce della Corte
Costituzionale, la quale
� con sentenza 102 del 29/4/1981 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del
comma 5° della disposizione nella parte in cui non consente che l’accertamento
del fatto-reato possa essere svolto dal giudice civile anche nei casi in cui il
procedimento penale si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria o vi
sia procedimento di archiviazione (la pronuncia aveva per oggetto l’esercizio
del diritto di regresso dell’INAIL, che era stato precluso)95
� con sentenza 118 del 24/4/1986, riaffermando il contenuto della sentenza 102,
ha stabilito che l’accertamento della responsabilità civile in seguito ad
infortunio sul lavoro deve seguire gli stessi criteri, tanto per l’INAIL, quanto
per l’infortunato stesso. L’accertamento del fatto-reato può essere oggetto di
giudizio civile anche nei casi in cui, non essendo stata promossa l’azione penale
nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente, vi sia procedimento di
archiviazione e quando il procedimento penale nei confronti del datore o di un
suo dipendente si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria.
L’intero quadro di questi rapporti è stato modificato dalla Corte Costituzionale e riadattato
dal c.p.p., che ha superato il principio della pregiudizialità penale, accentuando la
93 F. de Compandri/ P. Gualtierotti “L’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali” Milano, 2002, pag. 808. V. in tal senso, la pronuncia della S.C. Cass. 24/1/1990 n. 906, 94 Alibrandi “Infortuni sul lavoro…2 cit. pag. 736 95 Fino al 1981 - in applicazione della disciplina dei rapporti tra giudicato penale e procedimento civile dettata dalle norme del previdente c.p.p. - qualora la responsabilità civile dovesse risultare da un giudicato penale di condanna, un’ eventuale pronuncia di assoluzione avrebbe precluso l’azione civile. Ne deriva che se il datore di lavoro fosse stato prosciolto in fase istruttoria o avesse ottenuto un’assoluzione dibattimentale, si sarebbe affermato il suo totale esonero da responsabilità e alcuna azione in sede civile (di rivalsa da parte dell’Ente o da parte del lavoratore) sarebbe stata proponibile.
33
differenza tra i due procedimenti.96
Secondo il 5° comma dell’art. 10 TU, è dunque il giudice civile, su domanda proposta a
pena di decadenza 97 dagli interessati entro tre anni dal passaggio in giudicato della
sentenza penale, a decidere se, per il fatto che avrebbe costituito reato, sussiste
responsabilità civile a carico del datore di lavoro. Il giudice civile dovrà pertanto accertare:
se il fatto da cui è derivato l’infortunio costituisca un reato perseguibile d’ufficio, se per
tale reato si sarebbe dovuta emettere sentenza penale di condanna ove non fossero
intervenute le ipotesi di amnistia, morte dell’imputato.
Nell’effettuare tale accertamento il giudice dovrà attenersi al principio della causalità
materiale (art. 40 c.p. e 41 c.p. nell’ipotesi di concause) disciplinato nel codice penale.98
Passando ora ad esaminare, in relazione all’indennizzo spettante al lavoratore, i
comportamenti del datore di lavoro (o di un terzo) che abbiano avuto un’efficacia causale
rispetto all’infortunio, va osservato come, più volte evidenziato, che l’art. 10 del TU
riafferma il principio del parziale esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile
conseguente agli infortuni dei propri dipendenti.
Si tratta di una norma speciale ed in quanto tale non suscettibile di estensione analogica.
Non è dunque applicabile nei confronti di un terzo responsabile ed è invocabile dal datore
di lavoro (compresa la Pubblica Amministrazione), per il sopra espresso automatismo,
anche qualora questi non abbia provveduto a regolare il premio assicurativo 99
Va in ultimo rilevato che il parziale esonero dalla responsabilità civile opera erga omnes e
non soltanto nei rapporti tra lavoratore e datore di lavoro. Ne consegue “che il terzo
corresponsabile dell’infortunio non può agire in rivalsa contro il datore di lavoro per la
96 Sino ad allora, gli articoli 25, 27 e 28 c.p. stabilivano la preminenza della giurisdizione penale su quella civile, attribuendo validità erga omnes al giudicato penale. Il giudizio civile rimaneva fortemente condizionato da un eventuale giudizio penale, non potendosi infatti modificare la fase di accertamento già avvenuta in tale sede. Tuttavia tale principio era stato ripetutamente oggetto di pronuncia da parte della Corte Costituzionale, che con le sentenze 22/3/1971 n. 55, 27/6/1973 n. 99 e 26/6/1975 n. 165, aveva stabilito l’illegittimità del vincolo posto dall’accertamento penale nei confronti di soggetti non presenti nel precedente giudizio o per impossibilità giuridica (assenza di legittimazione, come ad esempio nel caso dell’ente mutualistico che, non essendo né direttamente né indirettamente qualificabile come “persona” offesa dal reato, non può partecipare al giudizio penale) o perché non posti in condizione di partecipare (mancanza di cognizione legale del processo). 97 trattandosi di azione a tutela degli interessi individuali, la decadenza è rinunciabile, l’eccezione non può essere rilevata d’ufficio né essere eccepita per la prima volta nel giudizio di cassazione 98 Alibrandi “Infortuni sul lavoro…” cit., pag. 732 99 Cassazione 21/10/1961 n. 2324)
34
quota di responsabilità di questi; al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 10 T.U. manca,
infatti, il titolo della responsabilità civile del datore di lavoro e quindi anche della sua
corresponsabilità ex art. 2055 c.c.”.100
Si può quindi concludere, come autorevolmente affermato, che il meccanismo presuntivo
derivante dal combinato disposto degli artt. 2087 e 1218 c.c. (giusta il quale incombe al
datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le misure necessarie, secondo
l’esperienza e la tecnica, ad evitare l’evento dannoso) può, dunque, operare solo al di fuori
dell’ambito di applicazione della garanzia assicurativo sociale e, quindi, della regola di cui
all’art. 10 TU la quale subordina, appunto, il riconoscimento della responsabilità civile del
datore all’accertamento - in sede penale o, eventualmente, di una colpa in ogni caso
effettiva. 101
Capitolo 2. Il danno
Nell’ambito di applicazione dell’art. 10 del TU, perchè possa darsi luogo ad un
risarcimento, è necessario che il giudice adito riconosca che l’entità del danno subito dal
lavoratore, a causa di infortunio sul lavoro o malattia professionale, corrisponda ad un
importo superiore a quanto già indennizzato dall’INAIL.
Al fine dunque di determinare in cosa consiste questo danno “differenziale”, è opportuno
identificare, seppure in estrema sintesi - come imposto dalla trattazione in questa sede -
la composizione del danno il cui ristoro compete al lavoratore infortunato e quali siano le
prestazioni erogate dall’INAIL.
2.1 Danno risarcibile
Il codice civile aveva racchiuso il concetto di danno risarcibile nella dicotomia disciplinata
agli articoli 2043 e 2059 c.c., le cui previsioni individuavano rispettivamente il danno
100 Alibrandi “infortuni.. cit pag. 734 101 S. Giubboni “La responsabilità civile del datore di lavoro” in AA. VV. “ Dottrina e giurisprudenza sistematica di diritto della previdenza sociale” (a cura di M. Cinelli) Torino 1995, pag. 688
35
patrimoniale ed il danno morale.
Danno patrimoniale
E’ identificabile in un pregiudizio di carattere meramente economico, che può distinguersi,
a seconda della relazione, diretta o indiretta con l’evento, in danno emergente (perdita di
reddito ed esborso di somme) e lucro cessante (perdita di un futuro vantaggio).
Mentre il danno emergente deve essere liquidato secondo l’equo apprezzamento del
giudice, ex art. 2056, il lucro cessante è da quantificarsi ex art. 1223 c.c. secondo le
circostanze del caso.
Per lungo tempo il risarcimento del danno alla persona veniva in considerazione per la
sola patrimonialità delle conseguenze e pertanto valutato secondo il concetto astratto di
“capacità lavorativa generica”, cioè in relazione alla perdita, causata dalla lesione subita, di
una generica capacità di produrre reddito. Venivano così risarciti tutti quei pregiudizi che
diminuivano il valore della persona senza tuttavia intaccarne il reddito e, proprio per tale
motivo, ne erano destinatari tutti i soggetti, indipendentemente dallo svolgimento di
un’attività lavorativa in senso proprio (studenti, casalinghe, ecc.)
Per la liquidazione di tale danno il giudice poteva procedere all’assegnazione di una
somma, alla determinazione di una rendita o ad una capitalizzazione del mancato guadagno
in relazione alla presunta durata della vita lavorativa.
La prassi che andò tuttavia consolidandosi utilizzava il metodo della capitalizzazione
anticipata. Ipotizzando che la percentuale di invalidità accertata si ripercuotesse in egual
misura sulla generica capacità lavorativa si procedeva alla valutazione del futuro
pregiudizio attraverso un calcolo che teneva in considerazione il guadagno, la percentuale
di menomazione e l’età. Tale quantificazione non poteva tuttavia ipotizzarsi come equa,
risarcendo allo stesso modo anche soggetti che, in concreto, non avevano subito lo stesso
pregiudizio.
Danno morale
L’art. 2059 c.c. venne considerato, dalla sua introduzione, come norma legittimante il
riconoscimento del solo danno morale soggettivo, cioè di quel patema d’animo e quella
sofferenza di origine psichico che il leso è costretto a sopportare in conseguenza
dell’illecito. Il risarcimento veniva infatti qualificato come pretium doloris e veniva
36
inscindibilmente collegato all’art. 185 c.p., limitandone quindi il riconoscimento alle sole
ipotesi di fatto-reato indipendentemente dalla componente volontaria dell’azione e
dall’esistenza di una condanna penale. La previsione di una condanna al pagamento di una
somma era riconducibile, nelle intenzioni del legislatore, alla volontà di rafforzare la
sanzione principale.
Titolari del diritto al risarcimento del danno morale sono il danneggiato stesso ed i suoi
familiari, iure proprio , mentre i legittimati passivi sono, in solido, l’autore dell’illecito ed
il responsabile civile (nel caso di sinistro stradale, ad esempio, il conducente, il proprietario
del veicolo e l’assicuratore).
Il danneggiato non è tenuto a quantificare il pregiudizio arrecatogli ma gli sarà sufficiente,
ai fini risarcitori, dare prova del fatto che ha prodotto le lesioni.102
A seguito di alcune importanti sentenze della Corte di Cassazione risalenti al 2003103, al
danneggiato è stato inoltre riconosciuto il diritto al riconoscimento del danno morale
anche qualora si fosse in presenza di una mera presunzione di colpa (es. art. 2054 2°
comma). Tale orientamento è stato avallato dalla Corte Costituzionale che con la sentenza
11.7.2003 n. 233, ha ricompreso “la fattispecie corrispondente nella sua oggettività
all’astratta previsione di una figura di reato, con la conseguente possibilità che, ai fini
civili, la responsabilità sia ritenuta per effetto di una presunzione di legge”
Il giudice civile può autonomamente procedere al riconoscimento ed alla successiva
liquidazione del danno morale, ma l’accertamento del fatto è imprescindibile e va attuato
secondo i criteri che governano il procedimento penale. La liquidazione del danno morale
compete al giudice e viene affidata alla sua concreta valutazione; potrà, ai fini della
quantificazione, utilizzare criteri “tabellati” (normalmente ancorati ad una frazione del
danno biologico – da ¼ ad ½ a seconda della gravità del caso), ma dovrà apportare i
correttivi necessari a valorizzare la specificità del caso.104
102 La Corte di cassazione con la sent. 10/1/2007 n. 238 conferma, in tema di risarcibilità del danno non patrimoniale, che in presenza di una fattispecie contrattuale, quale il contratto di lavoro, non può sussistere alcuna incompatibilità tra responsabilità contrattuale e risarcimento del danno morale, atteso che la fattispecie astratta di reato è configurabile anche nei casi in cui la colpa sia addebitata al datore di lavoro per non aver fornito la prova liberatoria richiesta dall'art. 1218 cod. civ. 103 N. 7281-7282 – 7283 del 12/5/2003 104 Cass. 12/5/2006 n. 11039
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Diverso dal danno morale è il danno psichico, vera e propria malattia (ed in quanto tale
componente autonoma del danno alla salute) che consiste nella rinuncia ad attività
esistenziali ed è accertabile solo attraverso un giudizio medico legale.
Danno biologico
In antitesi al vecchio sistema risarcitorio previsto dal nostro codice, la giurisprudenza di
merito avvertì l’esigenza di valutare il soggetto leso nella totalità della sua persona e non
solo per la sua capacità economica e, in conseguenza, vennero in considerazione altri
elementi che connotavano il danno realmente subito. A partire dal 1974 si individuò un
tertium genus, che traeva la sua origine dall’art. 32 Cost. ed è identificabile con l’integrità
psico-fisica di per sé considerata, la cui lesione è comune ad ogni soggetto e va
indennizzata in modo equanime, rapportando l’entità del danno ad un parametro
uniforme.105
L’ipotesi del c.d. tertium genus venne presto abbandonata e l’obbligo del risarcimento del
danno biologico venne ricondotto al vasto contenuto dell’art. 2043 c.c., che contempla
l’obbligo generale di risarcimento del danno ingiusto, cioè della lesione di un interesse
giuridicamente tutelato. La rinnovata interpretazione si fondava sull’immediata precettività
dei diritti primari ed assoluti – quali il diritto alla salute – nell’ambito dei rapporti
intersoggettivi, così come confermato dalla stessa Corte Costituzionale.106
Parte della magistratura riteneva tuttavia che sussistesse comunque un dubbio di
costituzionalità, ex art. 2059 c.c., considerando come tale norma potesse comunque
limitare la già affermata posizione soggettiva direttamente tutelata dalla Costituzione.
La corte Costituzionale, con la sentenza 14/7/1986 n. 184, dichiarò infondata la questione,
riconducendo la risarcibilità del danno biologico al combinato disposto degli artt. 32 Cost.
e 2043 c.c..
La motivazione della sentenza era assai articolata e, in sintesi, si affermava che l’art. 2059
c.c. è da riferirsi al solo danno morale soggettivo, mentre l’art. 2043 c.c. è da considerarsi
come rappresentazione di una sanzione per chi provoca ad altri un danno ingiusto, ma
giacchè non indica espressamente le ipotesi in cui ciò si verifica, affinché queste possano
esplicitarsi, dovrà essere fatto riferimento ai diritti soggettivi inviolabili che la Carta
105 Le prime sentenze in tal senso furono emanate dal Tribunale di Genova, sent. 25/5/1974 e 20/10/1975 106 Che con la sentenza 26/7/1979 n. 88 ha incluso, tra gli interessi meritevoli di tutela, ex art. 2043 c.c., anche quelli protetti dalla Costituzione.
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Costituzionale individua. Veniva quindi effettuata un’importante distinzione tra il “danno
evento”, identificato nel danno biologico, in quanto indipendente dagli arrecati pregiudizi
patrimoniali e morali, questi ultimi identificati invece come “danni conseguenze”, dal
carattere eventuale ed esterni al fatto illecito.
Dopo tale pronuncia la Corte Costituzionale continuò a valorizzare la sussistenza e
l’importanza del danno biologico, seppure con modalità non del tutto lineari, così
riassumibili: “ con la sentenza del 1979 la fonte di tutela della salute è ravvisata nell’art.
2059 c.c., nel 1986, per evitare l’abbattimento di tale norma, il risarcimento del danno
biologico è affidato all’art. 2043 c.c. combinato con l’art. 32 Cost.; infine nel 1994 e 1996
si adotta un sistema misto, con riferimento all’ipotesi di danno biologico per il decesso del
congiunto”.107
Tali pronunce in realtà non fecero che confermare la tendenza espressa dalla S.C., ormai
orientata verso la risarcibilità del danno biologico come componente del “danno
ingiusto”di cui all’art. 2043 c.c.
In un primo momento, sull’esempio della scuola genovese, il danno biologico veniva
calcolato utilizzando quale parametro il triplo della pensione sociale, ma ben presto si
ritenne questo metodo incongruo poiché, come evidenziato dalla S. C. 108, esso assumeva
comunque come parametro un reddito, impedendo una personalizzazione del risarcimento.
L’evoluzione di tale orientamento portò all’elaborazione delle tabelle di Pisa e quindi di
quelle di Milano che adottarono il criterio del cosiddetto “punto variabile”. La liquidazione
del danno assumeva quale base la media del valore risarcito nei procedimenti giudiziari del
distretto, rettificato secondo criteri stabiliti non solo in base al sesso ed all’età, ma anche
in relazione all’accertato grado di invalidità permanente residuato. Il valore del punto si
modifica, dunque, in misura più che proporzionale all’aggravarsi della lesione, mentre
diminuisce in misura proporzionale all’età del soggetto. L’importo ottenuto poteva poi
essere dal giudice equitativamente aumentato, in considerazione della specificità del caso.
107 G. Marando “Responsabilità…” cit. pag. 375. Con la sentenza 372/1994 la Consulta si pronunciò in merito al diritto al risarcimento del danno biologico ai familiari anche nell’ipotesi di lesioni non mortali del congiunto (danno conseguenza); con l’ordinanza 22/7/1996 n. 293 precisò il contenuto della sentenza appena richiamata, chiarendo che il danno morale non è considerabile lesione della salute psico-fisica (oggetto era una particolare ipotesi di somatizzazione in capo ai congiunti della vittima) e pertanto si era proceduto a parificare il trattamento delle due figura ex art. 2059 c.c. 108 Sentenza 13/1/1993 n. 357
39
Conformandosi pienamente alle indicazioni della Consulta109, il metodo del punto variabile
venne adottato in modo pressoché uniforme dalla magistratura.
Va tuttavia rilevato che il principio innovatore di un’autonoma categoria di danno, che
andava a risarcire il pregiudizio indipendentemente dalla condizione sociale o dalla
capacità produttiva del singolo, si scontrò con la sua concreta applicazione, a causa degli
innumerevoli criteri valutativi che i vari tribunali elaborarono e che, ben presto, produssero
risultati di assoluta disuguaglianza.110
Sebbene la necessità di fornire regole comuni alla determinazione del danno biologico sia
assai sentita, il legislatore non ha ancora provveduto ad una disciplina organica sul danno
biologico, realizzando solo alcuni interventi in settori specifici.
L’art. 13 del D. Lgs. 38/2000, di cui si parlerà più diffusamente nel seguito, fornisce la
prima definizione del danno biologico: “In attesa della definizione di carattere generale di
danno biologico e dei criteri per la determinazione del relativo risarcimento, il presente
articolo definisce, in via sperimentale, ai fini della tutela dell'assicurazione obbligatoria
conto gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali il danno biologico come la lesione
all'integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona. Le
prestazioni per il ristoro del danno biologico sono determinate in misura indipendente
dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato”, mentre il D.L. 28/3/2000 n. 70
(disposizioni urgenti per il contenimento delle spinte inflazionistiche) non convertito in
legge e con la successiva legge 5/3/2001 n. 57 che riprende buona parte del suo contenuto,
fornisce, all’art. 5, una definizione assai simile: “.. lesione dell’integrità psico-fisica della
persona suscettibile di accertamento medico legale, il danno biologico è risarcibile
indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito del
danneggiato”. (unica differenza è ravvisabile nella valutazione, piuttosto che
nell’accertamento medico legale).
Al fine di raggiungere l’auspicata valorizzazione soggettiva, viene introdotta la possibilità
per il giudice di deliberare un aumento non superiore ad un quinto, “con equo e motivato
apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato”.
109 Che con la sentenza 184/1986 raccomandava di adeguare la liquidazione alla peculiarità del caso concreto, evitando il pericolo di una liquidazione che tendesse ad un eccessivo livellamento o che di fatto duplicasse il risarcimento. 110 Basti pensare, ai diversi criteri elaborati dai Tribunali, limitrofi, di Reggio Emilia, Modena (che applicava le tabelle Milanesi) e Bologna dove la medesima lesione riceveva risarcimenti assai diversi
40
L’operatività della disposizione è limitata al settore dell’assicurazione obbligatoria RCA ed
ha per oggetto, oltre alla inabilità temporanea, le sole cosiddette micropermanenti, ossia le
invalidità permanenti accertate in misura inferiore al 9%.
Qualora l’entità della lesione superi tale soglia, in attesa dell’elaborazione della tabella
prevista dall’art. 32 della legge 273/2002, ci si continuerà ad affidare alla comune prassi
giudiziaria.
Danno esistenziale
Mentre l’introduzione del concetto di danno biologico ha consentito di superare la
dicotomia tra danno patrimoniale e danno morale, l’evoluzione giurisprudenziale del
concetto di danno ha condotto, negli anni, all’individuazione di nuove tipologie di
pregiudizi per la persona che necessitavano di tutela.
La genesi di tale processo è da far risalire alla storica sentenza della Corte Costituzionale
17/7/1986 n. 184 con la quale, al fine di consentire una piena tutela del diritto alla salute
evitando le “strettoie” previste dall’art. 2059 cod. civ. 111, si confermò il principio di stretto
collegamento tra l’art. 2043 cod. civ. e l’art. 32 della Costituzione.
Estendendo le ipotesi del realizzarsi del danno non patrimoniale, venne gradualmente
identificato il pregiudizio identificato come danno esistenziale, risarcibile secondo la
giurisprudenza di merito, in base al combinato disposto dell’art. 2043 cod. civ. e articoli 2
e 29 della Costituzione, applicando il medesimo procedimento giuridico a suo tempo
utilizzato per riconoscere l’esistenza del danno biologico.
Nella sfera del danno esistenziale vanno contemplati tutti i casi che non possano ricondursi
alle fattispecie del danno biologico (inteso come lesione psico-fisica oggetto di
accertamento medico legale), del danno morale (pretium doloris) e del danno patrimoniale,
che si concretizzano, in definitiva “nella perdita di un’attività dell’esistenza
rappresentativa di un interesse tutelato dall’ordinamento, la cui lesione crea un danno
ingiusto e quindi risarcibile, per l’art. 2043 cod. civ.”112
111 G. Marando “Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro” Milano, 2003 pag. 453 112 G. Marando, ibidem, pag. 459 Tra le tipologie di pregiudizi ricondotti a danno esistenziale si possono ricordare le forzose rinunce alla svolgimento di attività non remunerative, quali ad esempio attività biologiche familiari ed affettive, associative, sportive e ricreative.
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Questa nuova figura riassumerebbe dunque in sé tutti i pregiudizi ulteriori rispetto al danno
biologico e morale, prevedendo ciò che il nostro ordinamento di fatto non contempla, cioè
la risarcibilità, in senso generale, di qualsivoglia pregiudizio di carattere non patrimoniale.
Come intuibile, l’accoglimento senza riserve di tale orientamento condurrebbe ad un
coacervo di situazioni non direttamente connesse all’ambito normativo.
La Corte di Cassazione, recepito il rischio di questa indeterminatezza e la spinta ad
un’esasperata risarcibilità, ha puntualizzato la necessità di accertare, in concreto, se la
persona abbia subito un danno a causa di un comportamento incidente su diritti inviolabili (
ed in quanto tali ben specificati nell’ambito del nostro ordinamento)113.
Ma, mentre le sentenze della Cassazione non nominano esplicitamente la figura di danno in
oggetto 114, la Consulta, con la sentenza 223 del 2003, “rileggendo” l’art. 2059 cod. civ.,
vi ricomprende ogni danno di natura non patrimoniale derivante dalla lesione di valori
inerenti alla persona, riferendosi tanto al danno biologico in senso stretto quanto al “danno
(spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza esistenziale) derivante dalla lesione di
(altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”.115
Come autorevolmente osservato, la corretta identificazione degli interessi di rango
costituzionale assume dunque un ruolo di assoluta centralità, poiché “il rischio, assai
concreto, è infatti quello di una costituzionalizzazione strisciante ed indiscriminata di ogni
aspetto della personalità sotto il comodo riparo offerto dalla previsione contenuta nell’art.
2 Costituzione, specie se intesa come norma aperta”116
Correttamente, dunque, il danno esistenziale può essere definito come un “danno di
carattere non patrimoniale e che attinge a beni ed interessi costituzionalmente tutelati,
113 Cass. 3/4/2001 n. 4881 e 10/5/2001 n. 6507 Come evidenziato da Zivit in “Il danno non patrimoniale” in AA. VV. “La responsabilità civile” (a cura di Cendon) vol. VII Torino, 1998, pag. 372 tali decisioni furono pronunciate per la necessità sopravvenuta di evitare che la magistratura di merito, al fine di offrire ristoro alle più svariate tipologie di lamentate lesioni, individuino (o addirittura creino) ex post, un diritto soggettivo di rilievo costituzionale in capo al danneggiato. 114 Cass. 8827 e 8828 del 2003 115 La sent. Cass. 15/7/2005 n. 15022 riafferma il principio secondo il quale le norme costituzionali, che attengono a valori inviolabili della persona umana non solo hanno efficacia precettiva nei confronti dello Stato, ma sono immediatamente efficaci nei rapporti privatistici. 116 S. Giubboni “ Infortuni e malattie professionali” Milano 2005, pag. 996
42
inerenti l’esistenza dei singoli e la qualità alla vita o comportanti la lesione di vari beni
immateriali”.117
2.2 L’assicurazione obbligatoria: oggetto e prestazioni
Come già evidenziato nel corso della trattazione, l’ente pubblico è stato chiamato a
svolgere nel nostro ordinamento una funzione indennitaria, che “rappresenta, come è noto,
l’eliminazione del danno, non il risarcimento di esso in senso tecnico”118 nei confronti di
tutti quei lavoratori che abbiano subito un infortunio sul lavoro o abbiano contratto un
malattia professionale.
Oggetto della copertura assicurativa è la tutela degli infortuni e delle malattie professionali.
Infortunio professionale
L’art. 2 T.U. 1124/1965 offre una definizione di infortunio professionale, qualificando
come tale l’infortunio “avvenuto per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia
derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero
un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per più di tre
giorni”.
I requisiti essenziali affinché all’evento possa conseguire un indennizzo da parte
dell’assicuratore sociale sono dunque rappresentati dall’esistenza di una lesione, dalla
causa violenta e dall’occasione di lavoro. Più precisamente:
� per lesione deve intendersi ogni alterazione, sia esterna che interna, apparente o no,
anatomica o funzionale, sofferta dall’organismo fisio-psichico del lavoratore119
� Per causa violenta veniva inizialmente inteso qualunque fattore esterno che in
modo subitaneo, concentrato nel tempo ed imprevedibile, arrecava al lavoratore una
lesione. Successive pronunce della suprema corte hanno invece esteso la portata di
117 Buffa “Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro” Torino, 2005, pag. 42 118 Alibrandi “Infortuni…” cit. pag. 145, cui si rimanda per un’approfondita analisi della natura e della funzione giuridica dell’assicurazione infortuni sul lavoro e malattie professionali e sulla qualificazione dell’assicurazione sociale come “sollievo dal bisogno” attraverso l’organizzazione di un servizio pubblico. 119 Circolare INAIL 7/67 del 15/2/1988
43
tale concetto, tanto da valutare violenta anche quella causa che non sia determinata
da un fattore esterno, ma dall’attività normalmente svolta dal lavoratore120
� L’occasione di lavoro condiziona il carattere professionale dell’evento, in quanto
ne rappresenta la particolare eziologia e si configura in presenza del cosiddetto
“rischio specifico”: l’infortunio diviene cioè indennizzabile solo quando l’evento
lesivo risulti direttamente relazionabile agli elementi che costituiscono le
condizioni oggettive dell’attività realizzata. Vi rientrano pertanto tutti i fatti
verificatisi nell’ambiente lavorativo, anche a causa di macchine e/o persone
presenti (inclusi i terzi).
Se di norma il verificarsi del cosiddetto rischio generico – definibile come il
rischio comune a tutti gli individui, cioè indipendente dalle peculiari condizioni
lavorative - si ritiene interrompa il nesso di causa, va segnalata qualche pronuncia
giurisprudenziale che valuta in modo estensivo il concetto di “occasione di lavoro”,
facendovi rientrare anche quegli eventi in cui possa rilevarsi un rischio aggravato e
quelli verificatisi durante un’azione prodromica o consequenziale alla propria
attività lavorativa121
L’infortunio in itinere rappresenta una particolare situazione, da ricondursi ad un
“generico” rischio della strada, che incombe certamente non solo sul lavoratore. Tuttavia
tale rischio può essere aggravato da elementi che possono di fatto strettamente collegarlo al
concetto di occasione di lavoro. Sul tema gli orientamenti circa l’indennizzabilità erano
tutt’altro che univoci e, a dirimere la questione, è intervenuto il D. Lgs. 38/2000 che
comprende gli infortuni subiti dalle persone assicurate durante il normale tragitto di
andata/ritorno dall’abitazione al luogo di lavoro (e, in assenza di servizio mensa, anche
nella pausa del pranzo, per il tragitto compreso tra il luogo di lavoro e quello ove si
120 Cit. ad es., le sentenze di seguito indicate che annoverano, nell’ambito infortunistico, alcune situazioni del tutto particolari. Sent. 10/01/2003 n. 239 in tema di “sforzi” e sollecitazioni che il lavoratore si trova a dover compiere e cass. 27/9/2000 n. 12798 e 27/10/00 n. 14085 in relazione all’infarto che aveva colpito il lavoratore sottoposto a turni troppo gravosi o ad eccessivi impegni. 121 Si pensi, quale ipotesi di rischio aggravato, alla folgorazione, cui sicuramente è maggiormente esposto, rispetto alla comunità degli individui, un lavoratore che operi in prossimità di alberi ad alto fusto o tralicci elettrici. Tra le altre, la Sent. Cass. 7/4/2000 n. 4433, che riconosceva l’indennizzabilità anche nell’ipotesi di una caduta aggravata dalla presenza di attrezzi da lavoro sul pavimento
44
consuma il pranzo) anche utilizzando un mezzo di trasporto privato, purchè necessitato. 122
Non rientrano in ogni caso tra gli infortuni in itinere, ma sono al contrario inquadrabili
come infortuni sul lavoro quegli eventi che, pur originati dal rischio stradale, accadano
nell’arco di spazio e di tempo riferibili alla normale prestazione lavorativa ed in
collegamento con la stessa.
Malattia professionale
L’indennizzo della malattia professionale, cioè di ogni alterazione dello stato di salute non
dipendente da infortunio, è prevista dagli art 3 e 211 T.U.
Il T.U. prevede un “numero chiuso” di malattie professionali e l’allegato 4 specifica, per le
sole attività di tipo industriale, le patologie che godono di tutela ed il periodo massimo
della loro indennizzabilità dalla data di cessazione del lavoro (la medesima disciplina si
applica per il settore agricolo, ex art. 211 e tabella 5 del T.U.).
L’assicurazione contro le malattie professionali opera dunque a condizione che la patologia
sia insorta e si sia sviluppata a causa dell’esercizio dell’attività lavorativa tutelata.
La tecnopatia si caratterizza e si differenzia rispetto all’infortunio, fra l’altro, anche per la
natura del rapporto eziologico, poiché non è sufficiente al suo manifestarsi, un rapporto di
occasionalità tra lavoro ed evento, ma è necessario un rapporto di causalità. Ulteriore
differenza si ha in relazione alle modalità in cui si verifica la lesione: nell’infortunio la
causalità ha una manifestazione violenta (subitanea, concentrata nel tempo), mentre nella
tecnopatia il tratto caratteristico è dato dall’esposizione al rischio ripetuta nel tempo.
La sentenza della Corte Costituzionale 18/2/1988 n. 179 ha dichiarato, in riferimento
all’art. 38 e 3 della Costituzione, l’illegittimità costituzionale degli artt. 3 e 211 T.U., nelle
parti in cui non veniva prevista la tutela di quelle malattie che, pur non essendo incluse
nelle tabelle allegate al T.U., erano comunque state causate da lavorazioni soggette a tutela
INAIL. Veniva dunque così introdotto nel nostro ordinamento il c.d. “sistema misto”, che
prevede una diversa procedura per la richiesta del riconoscimento di un indennizzo per 122 Tale requisito era, già anteriormente al D. Lgs. 38/2000 univocamente richiesto dalla Giurisprudenza della S.C. al fine dell’indennizzabilità dell’evento. Si cita, ad esempio, la sent. Cass. 21/04/1999 n. 3970, con la quale veniva chiarito come il rischio generico della strada può diventare rischio specifico di lavoro quando al primo si accompagni un elemento aggiuntivo e qualificante, per il quale l’infortunio su strada viene a trovarsi in rapporto di stretta e necessaria connessione con gli obblighi lavorativi. Di recente, con la sentenza 27/7/2006 n. 17176 si è chiarito che non possono farsi rientrare nel rischio coperto dalle garanzie previste dalla normativa infortuni quelle situazioni che, senza rivestire carattere di necessità, rispondano invece ad aspettative, pur legittime, di comodità o minor disagio. Tali ultime situazioni non rivestirebbero infatti uno spessore tale da giustificare un intervento di tipo solidaristico a carico della collettività. Sono in ogni caso esclusi dalla tutela gli infortuni direttamente cagionati a seguito di violazione di norme di legge (abuso di alcolici, di sostanze stupefacenti o psicofarmaci, nonché la mancata abilitazione alla guida).
45
aver contratto una malattia professionale, a seconda che si tratti di una malattia “tabellata”
(cioè inclusa tra le patologie espressamente indicate nelle tabelle di legge, causata dalle
lavorazioni ivi indicate) o di una malattia“non tabellata”. In quest’ultimo caso, non
sussistendo alcuna presunzione legale d’origine, il lavoratore potrà vedersi riconosciuta
qualsiasi malattia contratta a causa delle lavorazioni protette di cui al T.U., ma solo nel
caso in cui egli dia prova dell’origine professionale di tale patologia.123
Tale prova deve essere valutata in termini di ragionevole certezza; può essere cioè
ravvisata solo in presenza di un elevato grado di probabilità (e non di mera possibilità), da
accertarsi caso per caso124
Il D. Lgs. 38/2000, anche in adempimento alle raccomandazioni CEE degli ultimi anni, ha
previsto, all’art. 10, l’istituzione di una commissione scientifica per l’elaborazione e la
revisione periodica dell’elenco delle malattie professionali (con decreto del Ministero del
Lavoro e della Previdenza Sociale, di concerto con il ministero della Sanità, sentite le
OO.SS. nazionali di categoria maggiormente significative).
Il D.M. 27/4/2004 ha introdotto un elenco delle malattie professionali per le quali è
obbligatoria la denuncia per ogni medico che ne riconosca l’esistenza e lo suddivide in tre
liste, a seconda che l’origine lavorativa sia di elevata o limitata probabilità, oppure
possibile.
Nell’ambito delle nuove patologie denunciate all’ente al fine del riconoscimento della
malattia professionale, particolare rilievo assume il fenomeno definito Mobbing.
Va operata al proposito una preliminare definizione del Mobbing in senso proprio, che
deve intendersi come un’organizzazione volontaria lesiva che pone in essere atti e
123 Permane l’onere della prova a carico del lavoratore anche per l’ipotesi di malattie tabellate qualora queste non vengano denunciate nei termini massimi di indennizzabilità previsti dalla legge per cui, se il lavoratore dimostra che la malattia si è manifestata entro i suddetti termini, si applica la presunzione legale, mentre, in assenza della richiesta dimostrazione, il lavoratore avrà anche l’onere di provare la natura professionale della malattia. 124 In particolare, a proposito dell’ipoacusia, la S.C., con la sentenza 24/3/2003 n. 4292 ha ritenuto valida, pur in assenza di una causa certa, la prova della probabilità, valutata in ragione dell’esposizione professionale al rumore prolungata nel tempo e nell’intensità, tale da svolgere un rapporto causale. Sul tema l’INAIL, con la circolare 1672/06, evidenzia un radicale mutamento dei caratteri delle malattie professionali spesso a genesi multifattoriali e dal lento decorso. Seguendo l’orientamento giurisprudenziale adotta, per il riconoscimento della tecnopatia quale malattia professionale – qualora non sia possibile un riscontro certo delle condizioni esistenti – la possibilità di desumere tali condizioni “con un elevato grado di probabilità, dalla tipologia delle lavorazioni svolte, dalla natura dei macchinari presenti nell’ambiente di lavoro e dalla durata della prestazione lavorativa” La valutazione finale dell’esposizione al rischio è rimessa alla funzione medico-legale, poiché richiede un giudizio di sintesi che tenga conto non soltanto dell’entità dei fattori di nocività presenti nell’ambiente di lavoro, ma anche della variabilità della sensibilità dello specifico soggetto che agli stessi è stato esposto”.
46
comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo a danno di lavoratori da parte
del datore di lavoro (bossing) o di colleghi, attuati in forma persecutoria ed aventi effetto
sulla psiche.125
Diversa sotto il profilo della volontà è la costrittività organizzativa, che si realizza
attraverso un insieme di azioni che inducono sì sofferenza emotiva nel lavoratore, ma
senza predeterminazione.
Entrambe le situazioni sono oggetto di tutela, ex art. 2087 c.c.,in quanto si individua in
capo al datore di lavoro l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare la
personalità morale del prestatore di lavoro 126 ma, al fine di distinguere le due tipologie di
sofferenza psichica realizzata in ambiente lavorativo, l’INAIL ha individuato una serie di
parametri che ne consentano l’esatta qualificazione (frequenza, durata, tipo di azione,
l’andamento secondo fasi successive – modello di EGE- l’intento persecutorio).127
Altrettanto pacifica è l’estensione di responsabilità civile del datore, oltre che per l’ipotesi
di bossing anche nel caso in cui il comportamento vessatorio sia imputabile ai suoi
collaboratori (ex art. 1228 c.c.), superiori gerarchici del lavoratore, a prescindere dalla
conoscenza e persino dalla conoscibilità delle condotte realizzate dagli ausiliari e dalla
diligenza profusa per controllarne l’operato.128
Le prestazioni erogate dall’INAIL, ai sensi dell’art. 66 del T.U. sono costituite da:
� un’indennità giornaliera per inabilità temporanea,
� una rendita per inabilità permanente qualora l’invalidità accertata fosse superiore
all’11% (ora modificata dal D.Lgs. 38/2000),
� un assegno per assistenza personale continuativa, una rendita ai superstiti una
tantum in caso di morte
� cure mediche e chirurgiche (compresi gli accertamenti clinici)
125 Può realizzarsi,come affermato dalla S.C. con sent. 6/3/2006, con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato. 126 Smuraglia “La sicurezza del…” cit., pag. 86 127 La sentenza del TAR del Lazio 4/7/2005 n. 5454 ha statuito che il mobbing non può essere trattato alla stregua di una malattia tabellata, poiché indispensabile è la dimostrazione del nesso di causalità 128 M. T. Carinci “Il mobbing: alla ricerca della fattispecie” in “Mobbing, organizzazione, malattia professionale – quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni industriali” Torino, 2006, pag.. 45, cui si rimanda per un’approfondita analisi del tema
47
� la fornitura di apparecchi di protesi.
Mentre alcune forme indennitarie non hanno subito sostanziali modificazioni, il sistema
infortunistico pubblico, che si ricollega al diritto comune sotto i due profili della
responsabilità e del danno attraverso le azioni dell’Istituto e dell’infortunato (artt. 10 e 11
T.U.),129 non poteva restare indifferente alla problematica del danno biologico, il cui
riconoscimento si era via via consolidato nella prassi quotidiana.
Con il citato D. Lgs. 38/2000 si è pertanto provveduto ad un radicale riassetto del sistema
indennitario, anche alla luce della vasta elaborazione di dottrina e giurisprudenza ed in
particolare della sentenza della Corte Costituzionale 15/2/1991 n. 87.130
E’ ora previsto un indennizzo base per il danno biologico qualora venga accertata una
lesione dell’integrità psicofisica pari o superiore al 6%. Tale indennizzo è determinato
senza alcun riferimento alla retribuzione del soggetto leso e ad esso andrà cumulato, in
caso di invalidità permanente pari o superiore al 16%, una quota anche a titolo di danno
patrimoniale.
Quindi, ove si accerti una invalidità permanente biologica inferiore al 6% nulla viene
corrisposto oltre all’indennità per la inabilità temporanea e le eventuali spese; nella fascia
valutativa dal 6 al 16% viene erogata un’indennità in capitale (e pertanto in un’unica
soluzione) per il solo danno biologico; oltre la soglia del 16% viene corrisposta una rendita
il cui importo è calcolato integrando il danno biologico con un quid di danno patrimoniale
determinato in modo automatico, in via presuntiva, senza una verifica reale della diminuita
capacità lavorativa.131
Il sistema, che segna la fine di un’epoca durata circa un secolo, ristora un danno tenendo in
considerazione l’individuo non più solo per la sua capacità di produrre reddito, ma anche
129 G. Marando, “Responsabilità..” cit., pag. 440 130 Con la sentenza citata la Consulta sottolineava la necessità che l’assicurazione infortuni comprendesse, tra le sue garanzie, anche il rischio della menomazione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, legata casualmente all’esercizio della propria attività lavorativa ed indipendentemente dalle conseguenze ulteriori che ne dovessero derivare. 131 L’art. 13 rinviava, per la determinazione delle indennità, ad apposite tabelle, poi approvate con D.M. 12/07/2000 ed annualmente revisionabili. Le tabelle sono quattro e riguardano: 1) L’entità delle menomazioni, che ha costituito il primo barème per la valutazione delle lesioni; 2) il valore del punto di invalidità per la liquidazione del danno biologico dal 6 al 15%. E’ stato adottato il cosiddetto “punto variabile”, differenziato per sesso e direttamente proporzionale alla percentuale di invalidità permanente riscontrata; 3) valore della rendita annua per il danno biologico a partire dal 16%; 4) i coefficienti di riduzione del reddito da applicarsi, presuntivamente, nel caso di riscontrata invalidità pari o superiore al 16%.
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sotto il profilo della integrità e validità. Da ciò trae beneficio non solo il lavoratore, ma
indirettamente anche il datore di lavoro, che vede ampliata l’area di esonero dalla comune
responsabilità civile.
Capitolo 3. Le azioni di risarcimento
La profonda trasformazione del concetto di danno risarcibile, che aveva come obiettivo il
ristoro integrale dei pregiudizi subiti dalla persona lesa ha di fatto provocato, come
illustrato, duplicazioni e talvolta un raddoppio degli indennizzi.
Il legislatore ha tentato, con alcuni interventi (v. l’introduzione del danno biologico con il
D.Lgs. 38/2000 tra le prestazioni dell’INAIL), di avvicinare i due sistemi, civile e
previdenziale, ma i criteri che li sovrintendono non sono ancora sovrapponibili e pertanto
viene determinato un diverso ammontare dei risarcimenti.
Mentre in linea generale in ambito civilistico il soggetto leso deve essere integralmente
risarcito nella sua individualità, l’assicurazione obbligatoria ha il fine di liberare dal
bisogno l’infortunato ed ottiene tale risultato applicando criteri automatici, di rapida
individuazione.
Proprio al fine di evitare le incongruenze rilevabili nella gestione del sinistro verificatosi in
ambito lavorativo, la giurisprudenza, con un ormai consolidato orientamento, ha chiarito
la necessità di evitare duplicazioni del danno e perciò ha attribuito al soggetto leso la
possibilità di agire solo per la quota di danno “differenziale” che residua dalla
quantificazione civilisticamente dopo la soddisfazione del credito vantato dall’INAIL.132
3.1 Le azioni di rivalsa dell’INAIL: regresso e surroga
All’istituto competono due distinte azioni da esercitare nei confronti del responsabile
dell’infortunio o della malattia professionale, genericamente definite azioni di rivalsa.
132 V. da ultimo, la sentenza Cass. 15/7/2005 n. 15022
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Si distinguono, a seconda del soggetto passivo, in:
� Azione di regresso, esercitabile nei confronti del datore di lavoro, anche per
persone delle quali debba rispondere
� Azione di surroga, prevista nei confronti del terzo responsabile, estraneo al
rapporto di lavoro
L’azione di regresso, il cui il tratto distintivo è dato dalla possibilità, per chi ha pagato il
debito di un altro soggetto, di agire nei confronti di quest’ultimo per il recupero
dell’importo, è limitata nel nostro ordinamento ad ipotesi ben determinate e tassative.
Trova, per il settore del quale ci si occupa, il suo fondamento nell’art. 11 del TU 124/1965
ove si è conservato, accanto alla funzione tipica dell’assicurazione infortuni di tutela del
lavoratore, l’effetto “riflesso di un parziale esonero da responsabilità quale corrispettivo
dell’integrale onere dei premi imposto al datore”133
L’ente pubblico, anche se obbligato da un rapporto previdenziale nei confronti
dell’assistito, in sostanza paga un debito che in realtà competerebbe al datore in presenza
del versamento di un premio che, va ricordato, non va a coprire il rischio di infortunio
derivante dal concretarsi di un fatto-reato.134
Si può pertanto individuare la fattispecie costitutiva del regresso nella sussistenza degli
stessi elementi che vanno ad annullare l’esonero: la responsabilità civile del datore di
lavoro per un fatto-reato commesso da questi o da un suo collaboratore, la perseguibilità
d’ufficio del reato ed il verificarsi di un infortunio sul lavoro (art. 2 T.U.); condizione di
esercizio per l’azione è l’avvenuto pagamento delle prestazioni all’assicurato-infortunato.
Le decisioni della Corte Costituzionale risalenti agli anni ’90 (87/1991-356/1991-
485/1991) hanno rappresentato una svolta decisiva in merito alla scindibilità del danno
risarcibile, ridimensionando le possibili richieste dell’ente.
Mentre sino a quel momento l’INAIL poteva surrogarsi nei diritti del proprio assicurato
verso il terzo fino alla concorrenza dell’intera indennità erogata, ai sensi dell’art. 1916 c.c.,
dopo i citati interventi della Consulta venne dalla giurisprudenza prevalente considerato
come, non riconoscendo l’Ente alcun danno biologico ai propri assistiti, solo questi ultimi
potevano vantare il diritto, nei confronti del terzo, a vedersi riconoscere questa parte di
133 Marando “Responsabilità..” cit. pag. 281 134 La Corte Costituzionale, con sentenza 22/6/1971 n. 134 ha chiarito che le prestazioni previdenziali, pure ammesso che trovino un autonomo titolo (nel rapporto assicurativo) si effettuano in sostituzione delle erogazioni che, a causa del medesimo evento dannoso sono poste a carico del datore di lavoro, assumendo perciò un carattere di anticipazione rispetto all’assolvimento dell’obbligo a carico del responsabile.
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danno. In conseguenza, l’INAIL avrebbe potuto agire nei confronti del terzo, entro i limiti
del danno civilisticamente risarcibile, per il solo danno patrimoniale.
Con l’introduzione del D. Lgs. 38/2000, come sopra precisato, l’INAIL eroga, in caso di
invalidità permanente accertata pari o superiore al 6%, un importo a titolo di danno
biologico, con la conseguente cessazione della necessità di scindere i diversi componenti
dell’importo complessivamente erogato in caso di rivalsa nei confronti del responsabile
civile.
A seguito della “rivoluzione” introdotta dal d. Lgs. 38, il problema dell’esperibilità e
dell’oggetto della rivalsa dell’INAIL si è proposto in misura importante.
Ci si è infatti chiesto se, qualora l’INAIL corrisponda una rendita per menomazioni
valutate oltre il 16% di invalidità permanente (in relazione alla diminuita integrità psico-
fisica), questi possa agire in rivalsa nei confronti del responsabile civile per l’intero
ammontare delle sue erogazioni o se, qualora non venisse riscontrata un’effettiva
limitazione della capacità lavorativa, le sue richieste debbano trovare il limite del solo
danno non patrimoniale riconosciuto. Sulla questione, di non poco valore, poiché
dall’oggetto dell’azione esercitata dall’INAIL dipenderà, ovviamente, l’entità del danno
“differenziale” da riconoscere al lavoratore, non si è ancora determinata una corrente di
pensiero prevalente.
La surroga
L’azione viene esercitata qualora l’infortunio sia cagionato, in tutto o in parte da un terzo
estraneo al rapporto assicurativo e l’ente abbia provveduto ad indennizzare il proprio
assistito.
In tal caso l’Istituto è legittimato alla successione del diritto di credito del leso, ex art. 1916
cod. civ., ma per l’esercizio di tale azione è tenuto a comunicare al responsabile,
esattamente come nell’ipotesi di cessione del credito di cui all’art. 1264 cod. civ., il
pagamento dell’indennizzo e la propria volontà di surrogarsi.
Ne deriva che eventuali atti dell’assicurato possano pregiudicare il diritto di rivalsa
dell’Istituto solo qualora gli stessi siano stati compiuti anteriormente all’avvenuta
comunicazione di surroga. 135
135 Qualora infatti l’assicuratore non si avvalga tempestivamente di tale facoltà ed il danneggiato (pur avendo già ricevuto l’indennità prevista dalla legge) agisca nei confronti del responsabile, ottenendo il completo risarcimento, il terzo potrà opporre (validamente) all’istituto la totale soddisfazione del debito.
51
I termini per l’esercizio dell’azione sono i medesimi applicabili generalmente per il
danneggiato:
2 anni nel caso di responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli,
5 anni per l’ipotesi di responsabilità extra contrattuale e
10 anni per la responsabilità contrattuale
Sottostando ai principi applicabili in tema di risarcimento del danno, il debitore non può
opporre al creditore che le eccezioni che avrebbe potuto sollevare nei confronti del
creditore originario (il terzo non può dunque eccepire all’Istituto l’insussistenza dei
requisiti necessari per la qualificazione dell’evento come infortunio sul lavoro, trattandosi
di un’eccezione contrattuale relativa ad un rapporto in cui non è parte).
Tra le eccezioni che più frequentemente il danneggiante oppone all’Istituto vi è
sicuramente l’eventuale concorso di colpa dell’infortunato. Questi, con la sua azione,
concausa dell’evento, viene a limitare l’altrui responsabilità ed il conseguente risarcimento,
in ossequio al principio generale sancito all’art. 1227 1° comma, secondo cui “se il fatto
colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito
secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che sono derivate”. Tale
eccezione può ovviamente applicarsi alle sole azioni esperite nei confronti del responsabile
al fine dell’ottenimento di un risarcimento del danno, a differenza di quanto avviene in
ambito pubblicistico, ove non si dà alcun rilievo ad un eventuale concorso di colpa o ad
altrui responsabilità prima di erogare la prestazione assicurativa (fatta eccezione per i soli
fatti intenzionali, dovuti cioè a dolo e rischio elettivo).136
Ne consegue che, in caso di corresponsabilità del soggetto leso, l’Istituto non potrà che
surrogarsi nei diritti del danneggiato verso il responsabile civile, fino alla concorrenza
dell’indennità pagata, ma sempre entro i limiti del danno civilisticamente quantificato.137
136 Il dolo del lavoratore non rientra nel rischio assicurato per espressa volontà del legislatore (artt. 11 3° comma e 65 del TU) in ossequio al principio generale dettato dall’art. 1900 cod. civ., per il quale l’assicuratore non risponde dei sinistri cagionati dal dolo del contraente. Diversa è l’ipotesi del rischio elettivo, in cui il lavoratore volontariamente crea un rischio che non ha alcun rapporto con lo svolgimento del suo lavoro e che, magari, può essere in contrasto con questo o con le disposizioni che lo disciplinano. In questo caso l’evento non può essere considerato indennizzabile, poiché espressione non del rischio professionale assicurato, ma di quello selettivamente posto in essere dall’assicurato stesso. 137 Pertanto, ipotizzando che l’Istituto avesse erogato una rendita pari a 1000, che l’ammontare del danno civilisticamente accertato fosse pari a 1200 ed un concorso di colpa addebitabile al leso per una quota del 25%, l’Ente potrebbe agire in surroga per l’importo complessivo di 900 (75% di 1200).
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3.2 Le azioni del lavoratore.
L’autotutela Indipendentemente dal diritto di richiedere un intervento giudiziale, il lavoratore può
tutelare autonomamente il diritto allo svolgimento della sua prestazione senza rischio per la
sua salute.
Già in passato la dottrina maggioritaria aveva individuato il diritto del lavoratore di
astenersi dalla propria prestazione in presenza di un inadempimento del datore di lavoro
che non avesse rispettato gli standards previsti in tema di sicurezza.138
Un eventuale sciopero, sicuramente legittimo, potrebbe qualificarsi tecnicamente corretto
solo qualora il suo scopo sia quello di aumentare il livello di sicurezza generalmente
presente mentre, qualora la rivendicazione sia una reazione ad un preciso inadempimento
dell’obbligo del datore, sarebbe più opportuno qualificare l’astensione lavorativa come
una vera e propria eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c.139 che, tuttavia, non
prevede il diritto alla controprestazione. Per ovviare a tale limite, un orientamento ha
individuato nella retribuzione dovuta dal datore di lavoro per il periodo di astensione
lavorativa un’obbligazione secondaria di natura risarcitoria140
Vi è poi chi giustifica il comportamento del lavoratore come un effetto della mora in cui il
datore di lavoro, inadempiente sotto il profilo della predisposizione di un ambiente sicuro,
incorrerebbe automaticamente.141 Al fine di tutelare il lavoratore da un’eventuale richiesta
formale di prestazione, con conseguente messa in mora del datore di lavoro, sarebbe
sufficiente la disponibilità (presenza sul luogo) del prestatore di lavoro ad adempiere non
appena vengano eliminate le condizioni che rendono insicuro l’ambiente di lavoro.
Altra parte della dottrina, aderendo alla teoria secondo la quale il contenuto dell’art. 2087
c.c. è identificabile con un diritto soggettivo perfetto del lavoratore, ipotizza la possibilità
di azionare, accanto al rifiuto della prestazione, la richiesta di adempimento in forma
specifica ex art. 1453 c.c. 142. Ne deriverebbe, sul piano processuale, conseguente alla
contrattualità dell’azione, l’onere della prova a carico del datore convenuto.
138 V. Bianchi D’Urso “Profili..” cit. pag. 86 139 Bianchi d’Urso ibidem, pag. 88, Marino “La responsabilità..” cit. pag. 75 140 G. Natullo “La tutela…” cit. pag. 113 141 Montuschi “Diritto…” cit. pag. pag. 73 segg. 142 Montuschi “Diritto …” cit., p. 76 . In relazione al fumo passivo, v. Pretura Torino 8/2/1993
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Tale azione, da esperirsi non con l’ordinario processo di cognizione, ma ex art. 700
c.p.c.143 -vista l’urgenza dell’accertamento- avrebbe quale fine l’ottenimento di una tutela
inibitoria, di carattere preventivo e quindi indipendente dall’avvenuto verificarsi di una
lesione del diritto alla salute 144.
A tale teoria si è comunque opposta la considerazione che, non sussistendo nel nostro
ordinamento una tutela inibitoria generale diretta a paralizzare il comportamento illecito e
da identificarsi come precipuo strumento di protezione dei diritti a contenuto e funzione
non patrimoniale, al lavoratore non rimarrebbe, quale efficace tecnica di autotutela
preventiva (ed a fini meramente protettivi) che l’abbandono del posto di lavoro in caso di
pericolo grave o immediato e che non può essere evitato (art. 14 d. lgs. 626/1994) -
assimilabile allo stato di necessità - o il rifiuto della prestazione lavorativa.145
L’autotutela, in quanto tale, non è condizionata dall’accertamento giudiziale, ma ne è
sicuramente agevolata. Spetterà pertanto al lavoratore decidere, di volta in volta, in
considerazione della gravità dell’illecito del datore e delle conseguenti probabilità di
definitiva vittoria in giudizio, se attuare o no in difesa dei propri beni personali una
tempestiva autotutela, eventualmente sulla scorta di un provvedimento d’urgenza
favorevole.146
Sul tema va segnalata un’interessante sentenza della S.C. (7/11/2005 n. 21479) la quale si
è pronunciata sul caso di un casellante di una società autostradale che, essendo stato
oggetto di ripetute aggressioni a scopo di rapina, aveva più volte segnalato al datore di
143 Bianchi d’Urso “Profili…” cit., pag 106 144 tuttavia val la pena di evidenziare che, pur se tale azione fosse esperita dal singolo lavoratore avanti l’organo giudiziario civile, il problema della sicurezza è sempre da considerarsi di portata collettiva e strettamente legato alla dimensione organizzativa dell’azienda . D’altro canto, nonostante la previsione dell’art. 9 dello Statuto dei Lavoratori, si è giustamente evidenziato come sussista uno scarto tra i poteri di controllo di idoneità dell’ambiente e la tutela dell’integrità psico fisica, che rimane di stretta competenza individuale e conseguente legittimazione ad agire riservata (nel caso di lesione dell’interesse) al singolo lavoratore (Marino “La responsabilità…” cit., pag. 251) 145 V. A. Vallebona “responsabilità civile dell’imprenditore. Appalti. Responsabilità dei progettisti, fabbricanti, fornitori e installatori” in AA.VV. “Ambiente, salute e sicurezza – per una gestione integrata dei rischi da lavoro” Torino, p. 208 il quale sostiene che, “…del resto nel nostro ordinamento manca una inibitoria generale, comunque inutile in assenza di espresse misure coercitive indirette per la sua osservanza, mentre anche la condanna all’adempimento di obblighi di fare o di non fare infungibili, come sono quelli inerenti alla attività di impresa (art. 41 Cost.), non è assistita da alcuna tecnica esecutiva, tanto che dalla incoercibilità si fa perfino derivare, secondo un’opinione diffusa seppur non priva di dissensi, l’inammissibilità di questo tipo di condanna per la sua inutilità 146 A. Vallebona, “responsabilità civile dell’imprenditore…” cit., p. 211
54
lavoro la necessità di provvedere ad un miglioramento delle condizioni di sicurezza.
Nonostante tale richiesta, nessun provvedimento venne adottato e, a seguito di un’ulteriore
aggressione nella quale il dipendente venne ferito con un’arma da fuoco, questi comunicò
all’azienda che si sarebbe astenuto dalla prestazione lavorativa sino a quando le condizioni
non fossero state adeguate. L’azienda gli intimò il licenziamento, che il lavoratore
impugnò. Evidenzia la S.C., nell’accogliere il ricorso che “….In particolare con
riferimento al contratto di lavoro l'ipotesi del sopravvenuto venir meno in modo totale o
parziale della prestazione lavorativa tale da giustificare il licenziamento ex art. 18 l.
300/1970 per giusta causa o per giustificato motivo ai sensi dell'art. 3 l. 604/1996 non è
ravvisabile se il mancato o non completo adempimento del lavoratore trova giustificazione
nella mancata adozione da parte di datore di lavoro delle misure di sicurezza che, pur in
mancanza di norme specifiche, il datore è tenuto ad osservare a tutela dell'integrità fisica e
psichica del prestatore di lavoro e se quest'ultimo prima dell'inadempimento secondo gli
obblighi di correttezza informa il datore di lavoro circa le misure necessarie da adottare a
tutela dell'integrità fisica e psichica del lavoratore, sempre che tale necessità sia evidente o,
comunque, accertabile o accertata”
L’azione di risarcimento verso il responsabile civile
Il datore di lavoro, nonostante l’esistenza di un rapporto assicurativo sociale, rimane
civilmente responsabile per il danno subito dal lavoratore a seguito di infortunio
professionale o malattia se il fatto da cui questo è derivato integri gli estremi di un reato
perseguibile d’ufficio.
Va qui evidenziato come, mentre la depenalizzazione realizzata con la legge 689 del
1981 ha subordinato l’azionabilità per il risarcimento di ogni danno derivante da lesioni
colpose a querela di parte, gli infortuni sul lavoro continuano a godere di una tutela del
tutto particolare, garantita dall’ultimo comma dell’articolo 90 c.p., ove si riafferma la
procedibilità d’ufficio per le lesioni colpose gravi o gravissime subite in occasione di
lavoro per violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e per le
malattie professionali.
Mentre, dunque, per le tecnopatie non si rileva alcun mutamento rispetto al passato, la
procedibilità d’ufficio per gli infortuni viene limitata all’ipotesi di violazione di norme
antinfortunistiche.
55
La giurisprudenza, valorizzando il disposto ora illustrato, ha adottato un indirizzo costante,
affermando che anche l’art. 2087 cod. civ. deve essere considerata una vera e propria
norma di prevenzione, così che la sua inosservanza integra la fattispecie di reato
prevista.147
Con la sentenza penale di condanna il giudice è tenuto, per effetto della costituzione di
parte civile del soggetto leso, a pronunciarsi sulla domanda di risarcimento, che potrà avere
per oggetto il solo danno “differenziale” di cui all’art. 10 T.U.. Solo qualora le prove
acquisiste non consentissero la liquidazione del danno, le parti potranno essere rimesse al
giudice civile.
L’oggetto della richiesta di risarcimento da parte del lavoratore viene limitata, dai commi 6
e 7 dell’art. 10 T.U. al solo danno differenziale, cioè alla sola differenza tra danno
civilistico e indennità pubblicistica erogata. Come già osservato a proposito
dell’esperibilità dell’azione di rivalsa dell’ente pubblico, tale differenza non viene più
determinata sulla base di una semplice operazione aritmetica, ma dovrà aversi riguardo ai
vari elementi che compongono il danno, distinguendo tutte quelle spettanze risarcibili in
sede civile e non contemplate in ambito pubblicistico148 (ad esempio il danno morale e
l’inabilità temporanea biologica). Può poi verificarsi l’ipotesi in cui, pur se l’evento può
rientrare a pieno titolo nelle ipotesi disciplinate dal T.U., rimane in capo al lavoratore un
diritto esclusivo, come nel caso del danno biologico inferiore al 6% e pertanto non
indennizzato dall’Ente.
Qualora si tratti di fatto imputabile al datore di lavoro opererà la disciplina “speciale”,
mentre qualora la condotta lesiva non sia riconducibile alle ipotesi di esonero o sia
attribuibile ad un terzo, il danneggiato dovrà agire in forza dei principi civilistici ed in tal
caso verrà sicuramente in considerazione una sua eventuale responsabilità nella causazione
dell’evento lesivo.
Sino agli anni ’80 l’orientamento giurisprudenziale era teso a riconoscere la responsabilità
civile a carico del datore di lavoro anche qualora l’evento si fosse verificato a causa di un
comportamento negligente o imprudente del lavoratore, in considerazione del fatto che le
norme anti-infortunistiche avevano, tra l’altro, lo scopo di superare tali comportamenti.
147 Cass. 19/8/1996 n. 7636, 12/2/2000 n. 1579 148 L’insieme di tali componenti viene definito dal Marando “responsabilità..” cit. pag. 518 quale danno complementare. L’autore distingue infatti tra danno differenziale, il cui riconoscimento è condizionato nell’an dall’esistenza di un reato infortunio delle cui conseguenze civili il datore debba rispondere; mentre il danno complementare è basato sulla colpa civile, presunta o effettiva.
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Successivamente, anche a seguito del nuovo ruolo che il lavoratore è stato chiamato a
rivestire dal D. Lgs. 626/1994 – che all’art. 93 prevede espressamente sanzioni per i
lavoratori al fine di non permettere che con il loro comportamento possano compromettere
l’effettività della tutela – si è proceduto a puntualizzare tale concezione, nel senso di
valorizzare quale esimente (totale o parziale) della responsabilità civile datoriale, la
condotta del lavoratore che possa essere qualificata come abnorme o assolutamente
imprevedibile, da valutarsi anche in considerazione dell’esperienza lavorativa del
dipendente149.
Ovviamente, al fine di valutare se un lavoratore era tenuto ad un determinato
comportamento, in svolgimento del generale dovere di cura, andrà preliminarmente
accertato se lo stesso aveva ricevuto una adeguata formazione e se gli erano stati impartite
adeguate istruzioni.150
La vigilanza del datore di lavoro va dunque rapportata in concreto al lavoro da svolgere,
all’ubicazione del medesimo, all’esperienza ed alla specializzazione del lavoratore, nonché
alla sua autonomia151.
La prova della condotta anomala o abnorme è a carico del datore di lavoro e deve essere
rigorosa. Solo dopo tale accertamento si potrà verificare in quale misura la condotta vada
in concreto ad incidere sulla responsabilità civile del datore.
Ugualmente, non viene considerata di per sé esimente della responsabilità del datore la
condotta del dipendente che omette di utilizzare le idonee misure protettive, gravando
comunque sul datore l’obbligo di accertare e vigilare152 affinché queste misure vengono di
149 Cass. 13/10/00 n. 13690 e 28/2/2003 n. 9291, Cass. civ., sez. lav., 12 aprile 2000, n. 4708 In tema di infortuni sul lavoro, il comportamento del lavoratore diventa idoneo ad escludere il rapporto causale fra inadempimento datoriale ed evento infortunistico solo quando sia autosufficiente nella determinazione dell'evento, cioè quando abbia il carattere dell'abnormità (nel caso in esame la S.C. ha rigettato il ricorso avverso la sentenza di merito che aveva riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro, in relazione al comportamento del lavoratore che aveva inserito il braccio nell'apertura laterale al carter della macchina priva di protezione e destinata all'asportazione degli sfridi di lavorazione, toccando con la mano il sensore che determinava la discesa delle lame).
150 R. Del Punta “ Diritti e obblighi…”cit. pag. 170. Cfr. Cass. 7/10/2002 n. 14323 151 Frigenti “La responsabilità civile del lavoratore” in AA. VV. “Il sistema di tutela degli infortuni e delle malattie professionali: soggetti, funzioni, procedure” (a cura di F. Facello) pag. 236 152 Cfr. Cass. 29/5/1997 n. 4782 ove si statuisce l’obbligo del datore di lavoro sussiste anche in relazione a eventuali comportamenti volontari del dipendente e pregiudizievoli per la sua stessa sicurezza.
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fatto utilizzate, ma anche in questo caso l’esonero potrà ottenersi qualora venga provata
l’abnormità o l’imprevedibilità del comportamento.153
Capitolo 4. IL RUOLO DELL’ASSICURATORE PRIVATO
4.1. Il contratto di responsabilità civile
Il contratto di assicurazione della responsabilità civile è regolato dall’art. 1917 1° comma
c.c. che così stabilisce: “ Nell’assicurazione della responsabilità civile l‘assicuratore è
obbligato a tenere indenne l’assicurato di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto
durante il tempo dell’assicurazione, deve pagare a un terzo, in dipendenza della
responsabilità dedotta nel contratto. Sono esclusi i danni derivanti da fatti dolosi” .
L’ampia formula usata dal legislatore ricomprende sia la responsabilità per fatto proprio
che per fatto di terzo, derivante da ogni forma di illecito, fatta eccezione per i soli atti
dolosi, espressamente esclusi dalla copertura assicurativa. Va tuttavia osservato che molti
contratti comprendono, tra i rischi assicurati, anche l’ipotesi di responsabilità civile che
possa derivare all’assicurato da un fatto doloso di persone delle quali debba rispondere.
L’assicuratore sarà dunque tenuto a rifondere le somme che l’assicurato è tenuto a
corrispondere, quale responsabile, ai sensi di legge, al terzo, per i danni a quest’ultimo
involontariamente cagionati.
Si può quindi individuare un, pur se implicito, vincolo di destinazione dell’indennità
assicurata – che è oggetto del diritto di credito dell’assicurato – al risarcimento del danno
153 Cass. civ., sez. lav., 7 aprile 1992, n. 4227 esclude la responsabilità civile del datore di lavoro nell'ipotesi in cui venga accertata la volontaria disattivazione da parte del lavoratore di misure di cautela (nella specie, cuffia di protezione di sega circolare, prevista dall'art. 109 d. p. r. 27 aprile 1955, n. 547 per evitare il contatto incidentale del lavoratore con la lama ed intercettare le schegge), ove non si configuri una violazione dell'obbligo del datore medesimo di assicurare al dipendente la sicurezza del posto di lavoro, con riguardo all'imprevedibilità di un'elusione cosciente e determinata delle norme di sicurezza da parte di un lavoratore esperto, per il quale non si richieda una sorveglianza assidua e costante. Cass. 12/9/2006 n. 30039:dell'infortunio occorso al dipendente, non risponde penalmente il datore di lavoro, laddove la condotta di quest'ultimo interrompe il nesso causale e presenta i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive organizzative ricevute.
58
al terzo.154 Un eventuale rimborso all’assicurato potrà aversi solo dietro dimostrazione che
il terzo sia già stato effettivamente risarcito.
Trattandosi di un rapporto contrattuale volontario, il terzo, a differenza di quanto avviene
ad esempio in ambito R.C.A., non ha la possibilità di agire direttamente contro
l’assicuratore: le due obbligazioni assicuratore/assicurato e assicurato/terzo rimangono del
tutto autonome, per cui la facoltà dell’assicuratore di pagare direttamente il terzo è mera
conseguenza della richiesta dell’assicurato.
Qualificandosi l’assicurazione r.c. come assicurazione del patrimonio, in tale tipologia
contrattuale l’interesse preminente mira alla conservazione dell’integrità del patrimonio
esposto al rischio.
Non potendosi tuttavia aprioristicamente determinare tale entità, si è ricorso, sotto il profilo
tecnico, all’individuazione di un massimale, che rappresenta in caso di sinistro la copertura
dell’assicuratore e sulla base del quale viene stabilito un premio.
Proprio in considerazione dell’aleatorietà del contratto e dei mutamenti che nel corso
dell’annualità assicurativa possono subentrare (soprattutto per le imprese di medio-grandi
dimensioni), accanto ad un premio base, da pagarsi anticipatamente alla scadenza
dell’annualità assicurativa, si procede al cosiddetto “regolamento premio”, cioè alla
determinazione, a consuntivo, di un ulteriore importo (sia positivo che negativo) sulla base
di alcuni elementi variabili (numero dei dipendenti, mercedi, ecc).
I termini per procedere a questo conguaglio sono espressamente indicati in polizza ed il
loro mancato rispetto produce, di norma, la sospensione della garanzia fino alle ore 24 del
giorno in cui l’assicurato adempia ai propri obblighi, salvo il diritto per la società
assicuratrice di agire giudizialmente o di recedere dal contratto.
Altro oggetto di preciso patto contrattuale è la disciplina della gestione delle vertenze di
danno.
Sin dalla fase stragiudiziale l’assicuratore, per mezzo della sua struttura organizzativa,
provvede a raccogliere gli elementi utili all’istruttoria del caso, ad effettuare la stima dei
danni e la conseguente valutazione del danno arrecato al terzo.
Potrà avvalersi, per tali incombenze, di dipendenti o collaboratori, la cui direzione ed il cui
costo rimarrà a suo esclusivo carico.
154 R. Cavallo Borgia “L’assicurazione di responsabilità civile” in “Trattato della responsabilità civile” Milano 2004, volume I, pag. 10
59
Mentre in passato non veniva di norma prevista la possibilità, a favore dell’assicurato, di
indicare o designare legali o tecnici di sua fiducia senza la preventiva autorizzazione della
compagnia assicuratrice, le più recenti formulazioni contrattuali prevedono, per alcune
tipologie di imprese, tale facoltà, anche al fine di contemperare gli interessi propri
dell’assicurato e dell’assicuratore.
Esaurita la fase istruttoria, qualora si ravvisino elementi che determinino l’inoperatività
della garanzia è opportuno che l’assicuratore, in applicazione dei principi di correttezza
nell’adempimento delle obbligazioni e di buona fede (artt. 11175 e 1375 c.c., proceda ad
una formale contestazione all’assicurato e all’abbandono della gestione della lite155, onde
evitare possibili pregiudizi e, nel caso della compagnia assicuratrice, un’accusa di mala
gestio.156
E’ il caso, ad esempio, in cui il valore del danno accertato superi il massimale previsto
dalla garanzia. L’assicuratore provvede, di norma, a comunicare espressamente
all’assicurato la messa a disposizione del massimale, con il suo conseguente ritiro dalla
gestione della lite. Sarà l’assicurato che valuterà, a questo punto, se proseguire
giudizialmente o se cercare una transazione con la parte danneggiata, eventualmente
integrando l’importo posto a sua disposizione.
E’ prassi comunemente seguita, in presenza di un’eccezione di garanzia formulata
dall’assicuratore, che l’assicurato, tramite suo procuratore, provveda alla chiamata in
causa della società, al fine di ottenere una sentenza che faccia stato anche nei confronti di
quest’ultima (sia in punto an che in punto quantum), indipendentemente dalla preventiva
valutazione della fondatezza della domanda attorea.
Ex art. 1917 4° comma cod. civ., la facoltà di chiamare in causa l’assicuratore compete al
solo assicurato “L’assicurato, convenuto dal danneggiato, può chiamare in causa
l’assicuratore”157
155 giacché la sua costituzione (su delega dell’assicurato) costituisce, come rilevato dalla sent. Cass. 30/6/1969 una circostanza valutabile come espressione di una volontà transattiva 156 E’ l’ipotesi di una gestione non condotta in applicazione dei principi generali, arrecando un pregiudizio al proprio assicurato e non adempiendo alla propria obbligazione di tenerlo indenne. Cfr. cass. 24/3/1983 n. 2064, 28/11/1995 n. 12302 157 sebbene sembra possibile che, in caso di inerzia dell’assicurato l’attore-danneggiato possa procedere autonomamente in via surrogatoria, sempre che ne ricorrano i presupposti (R. Cavallo Borgia “L’assicurazione di responsabilità civile …” cit. pag. 169
60
La chiamata in garanzia è considerata da dottrina e giurisprudenza dominante, nel caso di
specie, come impropria, poiché il collegamento tra l’obbligazione indennitaria e la causa
principale è meramente occasionale e estrinseco.
In effetti il titolo in base al quale il convenuto-danneggiante può chiamare in causa il
proprio assicuratore si fonda su un rapporto in cui l’attore danneggiato è terzo estraneo e
che deve essere distinto dal diverso rapporto sul quale si fonda l’obbligazione
extracontrattuale oggetto della sua domanda.
Gli effetti che la giurisprudenza prevalente fa discendere da tale qualificazione possono
così riassumersi:
� La sentenza che conclude il giudizio di risarcimento non può disporre la condanna
dell’assicuratore a pagare l’indennizzo direttamente al danneggiato, ma il mero
accertamento dell’obbligazione in capo all’assicuratore.
� Non è applicabile la norma contenuta nell’art. 106 c.p.c., per cui la causa principale
di risarcimento e quella di garanzia sono scindibili ed indipendenti. In caso di
decisione in unica sentenza, se l’assicurato non abbia impugnato, non è ammissibile
l’appello proposto dall’assicuratore nei confronti del danneggiato.
� Le ammissioni delle parti del primo giudizio, così come per l’ipotesi di
confessione, non potranno considerarsi vincolanti nei confronti dell’assicuratore
� Non essendo in presenza di litisconsorzio necessario, l’azione di garanzia può
essere promossa anche in un giudizio autonomo da quello del risarcimento.158
4.2 l’assicurazione della responsabilità civile verso prestatori di lavoro
Una particolarità che distingue, sin dalle prime formulazioni, la polizza di responsabilità
civile dall’assicurazione obbligatoria è che il contratto produce i suoi effetti, oltre che alla
normale condizione dell’avvenuto pagamento del premio, in via anticipata, al fatto che in
relazione al lavoratore colpito la posizione assicurativa con l’INAIL sia regolarmente
accesa. La ragione di tale limitazione sta nella natura stessa del negozio giuridico
sinallagmatico del contratto assicurativo, per cui ad entrambe le parti contraenti viene
richiesto il puntuale adempimento degli obblighi.159
158 R. Cavallo Borgia “L’assicurazione di responsabilità….” Cit., pag. 170 159 D. De Stroebel “L’assicurazione di responsabilità civile” Milano, 2004, pag. 595
61
La garanzia R.C.O. (responsabilità civile operai) rappresenta una peculiare forma di
assicurazione, il cui oggetto ha subito sostanziali modifiche nel corso dell’ultimo
ventennio, adeguandosi alle forti innovazioni che hanno investito il settore.
La formulazione normalmente in vigore sino agli anni ’90 mirava a garantire il datore di
lavoro dal rischio, in caso di infortunio sul lavoro, di dover far fronte prevalentemente160 a
richieste avanzate dall’INAIL mediante l’azione di regresso ed il testo “base” era il
seguente: “ La società si obbliga a tenere indenne l’assicurato di quanto questi sia tenuto
a pagare (capitali, interessi e spese) quale civilmente responsabile, ai sensi degli artt. 10 e
11 del DPR 30/6/1965 n. 1124, per gli infortuni (escluse le malattie professionali) sofferti
da prestatori di lavoro da lui dipendenti. L’assicurazione è efficace alla condizione che, al
momento del sinistro, l’assicurato sia in regola con gli obblighi per l’assicurazione di
legge”.
L’obiettivo della norma contrattuale era dunque quello di tenere indenne il datore di
lavoro (assicurato) dalle conseguenze patrimoniali degli infortuni sul lavoro qualora non
scattasse l’esonero previsto dal T.U.
Modificata la formulazione originaria degli artt. 10 e 11 T.U. ed introdotta, grazie
all’evoluzione giurisprudenziale ed alla già ricordata sentenza Corte Cost. 485 del
27/12/1991, la c.d. “scomposizione” del danno, all’INAIL non veniva più consentita la
possibilità di agire in regresso per il danno biologico (di pertinenza del solo lavoratore).
In sede ANIA (Associazione Nazionale delle Imprese di Assicurazioni) emerse una viva
preoccupazione per un presumibile ulteriore appesantimento dello specifico settore (anche
a causa della risonanza degli innovativi orientamenti della Consulta) per cui alla
prestazione assicurativa venne affiancata un’ulteriore ipotesi, estendendo così l’impegno :
“Ai sensi del Codice civile a titolo di risarcimento di danni non rientranti ella disciplina
del DPR 30/6/1965 n. 1124, cagionati i prestatori di lavoro per morte e per lesioni
personali dalle quali sia derivata un’invalidità permanente non inferiore all’11%,
calcolato sulla base delle tabelle di cui agli allegati al DPR 30/6/1965 n. 1124.
L’assicurazione RCO è efficace alla condizione che al momento del sinistro l’assicurato
sia in regola con gli obblighi dell’assicurazione di legge. Da tale assicurazione sono
comunque escluse le malattie professionali. Tanto l’assicurazione responsabilità civile
verso terzi, quanto l’assicurazione responsabilità civile verso prestatori di lavoro valgono
160 sebbene la responsabilità del DPR (art. 10 e 11) non riguardasse solo il regresso dell’INAIL, ma l’intera obbligazione risarcitoria a carico del datore di lavoro, in applicazione delle comuni norme. Cfr. in tal senso Cass. 21/11/2001 n.1114
62
anche in relazione alle azioni di rivalsa esperite dall’INPS ai sensi dell’art. 14 della legge
12 giugno 1984 n. 222”.
La formulazione ora descritta, assai ricorrente (ma non condivisa unanimemente dalle
Compagnie di Assicurazione) garantiva al datore di lavoro, dietro il pagamento di un
sovrappremio, di ricevere una tutela anche nelle ipotesi in cui non si fosse in presenza di
violazione di norme anti-infortunistiche o per le quali non si versasse in ipotesi di reato
perseguibile d’ufficio. Tale tutela poteva essere integrale o, come nel testo riprodotto,
sottoposta ad una franchigia (11% sulla invalidità permanente, pari alla soglia che
determinava il riconoscimento da parte dell’INAIL di una rendita).
La polizza “tipo” prevedeva, tra i soggetti destinatari di risarcimento per gli infortuni e le
malattie professionali i soli prestatori d’opera dipendenti dal datore di lavoro assicurato ed
in regola con gli obblighi dell’assicurazione di legge161. Tra coloro che non potevano
essere considerati “terzi” ai fini della garanzia (e pertanto esclusi) venivano annoverate le
persone che “essendo in rapporto di dipendenza con l’assicurato subiscano il danno in
occasione di lavoro o di servizio; i subappaltatori ed i loro dipendenti, nonché tutti coloro
che, indipendentemente dalla natura del loro rapporto con l’assicurato, subiscano il
danno in conseguenza della loro partecipazione manuale alle attività cui si riferisce
l’assicurazione”.162
Solo con l’introduzione di condizioni aggiuntive espressamente richiamate (con l’esborso
di un ulteriore corrispettivo) il datore di lavoro poteva essere tenuto indenne da eventuali
infortuni subiti dai subappaltatori e loro dipendenti (ma solo per morte e lesioni personali
gravi o gravissime) o da dipendenti dell’assicurato non soggetti all’obbligo di
assicurazione INAIL (per le sole lesioni corporali – escluse le malattie professionali – da
questi subite in occasione di lavoro o di servizio).
In recepimento della sentenza della Corte Costituzionale 30/12/1985 n. 369 che ha,
confermato l’applicabilità dell’impianto normativo di cui al T.U. 1124 anche ai lavoratori,
161 qualche perplessità poteva aversi in ordine al ritenere o meno inclusi in garanzia gli impiegati ma, dopo la sentenza Corte Cost. 221/1986, con la quale si ritenne operante l’obbligo di assicurazione previsto dal DPR 1124 anche in presenza di rischio minimo, l’INAIL estese la copertura assicurativa a chiunque risultasse addetto alle macchine in genere (comprese quindi calcolatrici, macchine da scrivere elettriche, ecc., anche si fosse trattato di personale impiegatizio. 162 Come rilevato da D. De Stroebel “L’assicurazione…” cit., ciò si verifica qualora possano sussistere concomitanti interessi tra danneggiato e danneggiante e, in conseguenza, il rischio assume aspetti particolari, tali che l’assicuratore non si sente di accollarsi la garanzia, quasi si trattasse di un rischio in assicurabile.
63
dipendenti di imprese italiane, che operano all’estero163, la garanzia opera di norma per il
mondo intero.
Novità sostanziali sono poi ravvisabili a partire dal 2000, a seguito delle rilevanti
modifiche introdotte nel mercato del lavoro con la legge 196/1997 cd. “legge Treu” e del
rinnovamento del sistema indennitario pubblicistico a seguito del D. Lgs. 38/2000.
Ne è conseguito un adeguamento delle previsioni contrattuali che così hanno modificato la
struttura base prevista per le imprese:
� Nelle ipotesi di risarcimento danni non rientranti nella disciplina del TU e dello
stesso D.Lgs. 38, la franchigia normalmente pattuita passa dall’11 al 6%
� Viene introdotta esplicita tutela a tutti i lavoratori para-subordinati (che tuttavia
saranno oggetto di apposita regolazione del premio)
� compare il concetto della “buona fede INAIL”: la garanzia sugli infortuni sarà
valida anche a beneficio dei dipendenti che per errata interpretazione delle norme di
legge non siano stati assicurati secondo il DPR (fatta eccezione, ovviamente, per la
volontaria inosservanza).
Per quanto attiene le malattie professionali, esse hanno per un lungo periodo ricevuto una
previsione del tutto separata dagli infortuni, essendo prevista la loro tutela solo quale
possibile estensione della tutela RCO.
Con l’avvenuta abrogazione dei principi di tabellarità, al fine di salvaguardare totalmente il
datore di lavoro, la garanzia si estese ad ogni tipo di affezione morbosa contratta, a patto
che ne fosse provato il nesso di causa con l’attività lavorativa prestata e, pertanto, a (tutte)
le malattie professionali riconosciute dall’INAIL (fatta eccezione, solitamente, per le
malattie professionali connesse alla lavorazione dell’amianto e per i casi di contagio da
virus HIV).
Venne tuttavia mantenuto il criterio di “temporalità”, garantendo la tutela solo per quelle
malattie che si fossero manifestate successivamente alla stipula della polizza e comunque
entro un arco temporale (solitamente un anno) dalla cessazione del rapporto di lavoro.
In ogni caso, così come per gli infortuni professionali, la garanzia non opera qualora le
malattie professionali siano riconducibili alla volontà dell’assicurato e dunque a causa di:
a) intenzionale mancata osservanza delle disposizioni di legge da parte dei rappresentanti
dell’impresa;
163 la dottrina è tuttavia tuttora divisa circa l’individuazione della legge applicabile nel caso di specie, se cioè l’illecito debba determinarsi secondo le leggi dello Stato italiano o secondo la legislazione straniera.
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b) intenzionale mancata prevenzione del danno, per omessa riparazione o adattamento dei
mezzi predisposti per prevenire o contenere fattori patogeni, da parte dei rappresentanti
legali dell’impresa.
Per quanto attiene il danno risarcibile, va invece evidenziato che molte pattuizioni
escludono il risarcimento di danni non rientranti nella disciplina del DPR 1124/1965
(danno biologico o danno alla salute).
Come rilevabile dalla lettura dei testi “tipo” qui riprodotti e succedutisi negli anni, ben si
può rilevare come, a fronte di una primitiva costruzione che si sviluppava in modo
parallelo all’impianto dell’assicurazione obbligatoria, limitandosi alla tutela dei soli
infortuni verificatisi per responsabilità datoriale accertata giudizialmente (e quindi limitata
ai soli reati perseguibili d’ufficio), la portata attuale è di assai ampio respiro, essendosi
adeguata all’evoluzione dell’intero sistema e mirando ad una tutela il più possibile
completa per l’impresa.164
164 Ne è esempio la recente introduzione della garanzia a favore del RSPP esterno, le conseguenze del cui operato ricadono comunque sul datore di lavoro: “L’assicurazione vale anche per la responsabilità civile personale imputabile al responsabile del servizio di prevenzione e protezione che non sia dipendente dell’assicurato ai sensi dell’art. 8 del D. Lgs. 626/1994. L’assicurazione è prestata limitatamente all’attività svolta per l’azienda assicurata; è inoltre prestata nei limiti, modi e termini previsti nella presente polizza. I limiti stabiliti in polizza per il danno relativo alla domanda di risarcimento restano, ad ogni effetto, unici, anche in caso di corresponsabilità di più assicurati tra di loro”.
65
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