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Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia Facoltà di Economia “Marco Biagi” Master Universitario di I Livello “Mercati del lavoro, Intermediazione, Prevenzione e Sicurezza” Anno Accademico 2005/2006 “La responsabilità civile del datore di lavoro in tema di infortuni sul lavoro e malattie professionali” Relatore Prof. Francesco Basenghi Candidata dott.ssa Rosa Pinneri

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Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

Facoltà di Economia “Marco Biagi”

Master Universitario di I Livello

“Mercati del lavoro, Intermediazione,

Prevenzione e Sicurezza”

Anno Accademico 2005/2006

“La responsabilità civile del datore di lavoro in tema

di infortuni sul lavoro e malattie professionali”

Relatore

Prof. Francesco Basenghi

Candidata

dott.ssa Rosa Pinneri

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INDICE

Introduzione pag. 3

PARTE I : L’OBBLIGO DI SICUREZZA

capitolo 1: Cenni storici pag. 4

capitolo 2: natura giuridica dell’obbligazione di sicurezza pag. 11

2.1 terorie extracontrattualistiche e pubblicistiche pag. 11

2.2 teorie contrattualistiche pag. 13

2.3 carattere bifrontale dell’art. 2087 c.c. pag. 14

Capitolo 3: Il contenuto dell’obbligazione pag. 15

Capitolo 4: I soggetti pag. 19

4.1 Il datore di lavoro pag. 20

4.2 Dirigenti e preposti pag. 23

4.3 Il lavoratore pag. 25

PARTE II RESPONSABILITÀ E RISARCIMENTO

Capitolo 1: Lo speciale regime di responsabilità: il principio del parziale

esonero

1.1 Il rischio professionale pag. 27

1.2 l’art. 10 del D.P.R. 1124/1965 pag. 31

Capitolo 2: Il danno pag. 34

2.1 Il danno risarcibile pag. 34

2.2 l’assicurazione obbligatoria: oggetto e prestazioni pag. 42

Capitolo 3: Le azioni di risarcimento pag. 48

3.1 Le azioni di rivalsa dell’INAIL: regresso e surroga pag. 48

6.2 Le azioni del lavoratore pag. 51

Capitolo 4: Il ruolo dell’assicuratore privato pag. 57

4.1 il contratto di responsabilità civile pag. 57

4.2 l’assicurazione della responsabilità civile verso

prestatori di lavoro pag. 60

BIBLIOGRAFIA pag. 65

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INTRODUZIONE La tematica della responsabilità civile per infortunio sul lavoro si inserisce a pieno titolo

nella materia della sicurezza del lavoro che vive, nel nostro Paese, alterne vicende.

L’anno appena trascorso si è chiuso con un bilancio assai pesante per il mondo del lavoro,

che ha contato oltre un milione di infortuni e più di mille morti. Queste cifre, davvero

inquietanti, hanno indotto il Capo dello Stato, nel tradizionale messaggio di fine anno, ad

un monito forte, con il quale ha ribadito che “…una società più giusta, libera e aperta può

anche essere più sicura, attraverso il richiamo severo, che non deve mancare, al rispetto

delle leggi, delle regole, dei doveri…”.

E’ un messaggio assai significativo, che induce a sperare che la sicurezza sul lavoro inizi

ad essere intesa non solo come costo, ma come valore. In questo senso pare di poter

leggere lo schema di disegno di legge presentato il 17/2/2007 recante “Delega al Governo

per l’emanazione di un testo unico per il riassetto normativo e la riforma della salute e

sicurezza sul lavoro” con il quale il Governo, “ in conformità all’art. 117 della

Costituzione e garantendo l’uniformità della tutela dei lavoratori sul territorio nazionale..”

proceda ad un riordino dell’ intera normativa (penale, civile, amministrativa) della

Sicurezza sul lavoro.

L’approccio giuridico qui affrontato non ha sicuramente la pretesa di essere esaustivo di

un tema multidisciplinare e dalle mille sfaccettature, che coinvolge le diverse forze sociali

ed il sistema produttivo nel suo insieme, ma può aiutare, seppure nella sintesi che il lavoro

impone, a comprendere i sostanziali mutamenti che il nostro ordinamento ha approntato

(spesso con sovrapposizioni normative di dubbia interpretazione) per arginare il fenomeno

infortunistico e per riconoscere il ristoro dei pregiudizi subiti dai lavoratori.

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PARTE I - L’OBBLIGO DI SICUREZZA

Capitolo 1. Cenni storici

In ossequio al principio della lex aquilia, cardine dell’ordinamento romano, per cui non vi

è responsabilità in assenza di colpa, sino alla fine del 1800 il lavoratore che si trovava a

subire un infortunio sul lavoro poteva ottenere un indennizzo a titolo di risarcimento solo

qualora avesse dimostrato la ricorrenza di due fattori: la responsabilità civile del datore di

lavoro e l’esistenza di un danno. 1

Al fine di contenere i rilevanti effetti sociali di tale impianto normativo, si pervenne, da

parte della dottrina, all’elaborazione della teoria del c.d. “rischio professionale”2, ritenendo

che il datore di lavoro, così come si avvantaggiava del lavoro altrui, dovesse sostenere i

costi subiti dal lavoratore nello svolgimento dell’attività lavorativa. Ciò comportò

dapprima l’ampliamento delle ipotesi di risarcimento da parte dell’imprenditore e,

successivamente, con l’approvazione della legge 17/03/1898 n. 70 - che ha rappresentato

nel nostro ordinamento il primo, importante impulso normativo previdenziale -

l’obbligatorietà dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro.

L’ambito di operatività, seppur limitato (venivano corrisposte le sole prestazioni

economiche e la tutela previdenziale era subordinata al carattere contrattuale del rapporto

assicurativo) rappresentava una significativa innovazione, poiché si estendeva la tutela agli

infortuni determinati da caso fortuito, forza maggiore o colpa (non grave) del lavoratore, a

differenza di quanto avveniva con il tradizionale schema assicurativo della responsabilità

civile per danni.

Dopo vari interventi, attuatisi nel corso degli anni ed aventi per oggetto alcuni particolari

settori produttivi, l’introduzione nel nostro ordinamento del nuovo codice civile ed in

particolare dell’art. 2087, rappresentò una vera e propria svolta, poiché si impose

all’imprenditore un comportamento di tipo dinamico, teso ad adeguare la propria attività

alle esigenze di tutela della salute dei lavoratori.

Si pervenne pertanto all’esplicitazione di un vincolo a carico del datore, di un obbligo

generale di sicurezza nei confronti dei propri dipendenti e, conseguentemente, ad

1 G. Alibrandi “ Infortuni sul lavoro e malattie professionali” Milano, 2002, p. 32 2 Dell’argomento si tratterà più diffusamente nel seguito del lavoro

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organizzare l’attività predisponendo tutti i mezzi e gli accorgimenti idonei ad evitare il

verificarsi di eventi nocivi.

Il dovere di sicurezza divenne perciò parte integrante dell’oggetto dell’intera prestazione,

che doveva potersi svolgere in un ambiente di lavoro sicuro, condizionando e

ridimensionando i poteri del datore in ordine all’organizzazione del lavoro.

Tuttavia, nonostante l’ampio respiro conferito a questa norma, definita dai più “norma di

chiusura dell’intero sistema prevenzionale” 3, nella realtà l’efficacia del disposto

normativo si rivelò piuttosto limitata.

Va infatti considerato come l’art. 2087 c.c. non abbia espletato il ruolo di norma

prevenzionale, ma sia stata per lo più invocata in occasione dell’esercizio di un’azione di

risarcimento ad opera del lavoratore 4.

La necessità di rendere in concreto più specifiche, applicabili ed esigibili le disposizioni

contenute nell’art. 2087 c.c. si tradusse, tra gli anni 50 e 60, nell’approvazione di alcuni

decreti tuttora vigenti, che forniscono elementi concreti per l’esplicitazione dell’obbligo di

sicurezza.

Si ricordano, tra i più importanti:

� D.P.R. 27/4/1955 n. 547 recante norme per la prevenzione degli infortuni sul

lavoro e integrato dal D.P.R. 302/1956, contenente norme integrative per situazioni

di elevato grado di pericolosità

� D.P.R. 19/3/1956 N. 303, recante norme per l’igiene del lavoro

� D.P.R. 7/1/1956 n. 164, disciplinante la prevenzione infortuni nelle costruzioni

Queste disposizioni hanno rappresentato il quadro normativo di riferimento per gli

operatori della prevenzione fino all’emanazione del D. Lgs. 19/9/1994 n. 626 ed ancora

oggi costituiscono un importante strumento, elaborato avendo quale obiettivo la “tutela

integrale” dell’ambiente di lavoro, da realizzarsi attraverso l’imposizione di obblighi e

divieti intesi a preservare sia la salute che la sicurezza dei lavoratori dagli effetti dei

fattori di nocività presenti negli ambienti di lavoro.

3 In tal senso, anche di recente, la Corte di Cassazione, 27/2/2004 n. 4075. Nella precedente sentenza 22/7/1999 n. 9328 ha affermato che l’art. 2087 cod.civ., pur non contenendo prescrizioni come quelle rinvenibili nelle leggi organiche per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, non si risolve in una mera norma di principio, ma deve considerarsi inserito a pieno titolo nella legislazione antinfortunistica, di cui costituisce norma di chiusura. 4 L. Montuschi “Diritto alla salute e organizzazione del lavoro” Milano, 1989, p. 49

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Il principio della tutela del lavoro, sino ad allora dal carattere assai generale (l’art. 35 della

Costituzione sanciva la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni e l’art. 2087

c.c. faceva genericamente riferimento ai prestatori di lavoro) subì una ridefinizione,

stabilendo l’art. 1 del D.P.R. 27/4/1955 un preciso ambito di operatività delle disposizioni

ivi contenute: “tutte le attività alle quali siano addetti lavoratori subordinati o ad essi

equiparati, comprese quelle esercitate dallo Stato o dagli Enti pubblici”5.

La decretazione si caratterizzò per la puntualizzazione, talvolta estrema, di prescrizioni

impartite al datore di lavoro (il D.P.R. 547/1955 si suddivide in 13 titoli e 406 articoli

recanti disposizioni generali), attuando una prevenzione di tipo “tecnologico”, determinata

dalla volontà di creare un ambiente oggettivamente sicuro.

L’analiticità, che rappresentò in effetti uno dei presupposti della decretazione di quegli

anni, offriva la possibilità di affidare l’azione prevenzionale a mezzi tecnici, in grado di

garantire una tutela anche in ipotesi di imperizia, negligenza o imprudenza degli stessi

addetti.6 E, sebbene la puntuale indicazione dei suoi precetti impedisse alla normativa di

decretazione di auto-adeguarsi all’evoluzione del processo produttivo, la presenza nel testo

normativo di termini quali “per quanto possibile”, “compatibilmente”, ne ha consentito

l’applicazione sino ai giorni nostri.

Altro importante principio introdotto è identificabile nel concetto di condivisione

dell’obbligo di sicurezza, che veniva ripartito attraverso l’applicazione del principio di

effettività. E’ a tali decreti che si deve l’introduzione, nel nostro ordinamento, della

legislazione penale del lavoro: le norme ivi inserite si componevano per lo più di un

precetto e di una sanzione, i cui destinatari erano soggetti identificati in relazione alla

funzione rivestita (datore di lavoro, dirigente, preposto, ecc)7.

E’ a tali norme che si può far derivare inoltre il principio di condivisione dell’obbligo di

sicurezza, da ripartirsi attraverso il criterio di effettività.8

Grazie a queste imposizioni dal carattere tassativo, alcune aziende iniziarono a

riorganizzare i propri servizi di medicina aziendale e l’attenzione delle OO.SS. si fece via

5 Smuraglia C. “La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale” Milano, 1974, pag. 52 6 Celestino L “Infortuni sul lavoro: responsabilità civile e penale” Milano, 1989 p. 46 7 Tacconi G. “ Le responsabilità penali in materia di sicurezza sul lavoro” Torino, 2004 p. 8 8 cass. Pen. Sez IV 14/11/1967 n. 1658, cass. Pen. Sez VI 17/3/1970 n. 681

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via sempre più viva, con un costante impegno alla sensibilizzazione sul tema della salute

nei luoghi di lavoro, affrontando anche i problemi legati all’organizzazione aziendale.9

Tale fase culminò con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori in cui, all’art. 9, venne

introdotto il diritto per i lavoratori di attivarsi per la proposizione di nuove misure di tutela

e sicurezza e di poter controllare, per mezzo di proprie rappresentanze, l’applicazione delle

norme poste a prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali.

Si trattava di un principio innovativo, di un diritto di controllo da esercitarsi

collettivamente, avendo attribuito alla rappresentanza (collettiva) dei lavoratori la

legittimazione a difendere il contenuto di un diritto la cui titolarità, tuttavia, permaneva in

capo al singolo lavoratore.

A tale diritto fu collegato l’obbligo, per il datore di lavoro, di assoggettarsi ai controlli

richiesti dalle rappresentanze dei lavoratori, rendendoli possibili. Un eventuale

inadempimento venne da alcuni autori considerato comportamento antisindacale e pertanto

sanzionabile, ai sensi del disposto di cui all’art. 28 della legge 300/1970 10.

Nonostante l’art. 9 facesse riferimento a generiche “rappresentanze”, queste furono, anche

a seguito di interventi della Suprema Corte, ben presto identificate con le rappresentanze

sindacali di cui all’art. 19 della stessa legge 300 e pertanto la possibilità di creare entità

autonome, avulse dalla contrattazione e con il compito di gestire in totale autonomia il

tema del diritto alla salute e della sua tutela in azienda, non venne coltivata .11

Va poi ancora osservato come, sia per l’opera di mediazione, tipica dell’organizzazione

sindacale, quanto per la contingenza politico/sociale che caratterizzava quegli anni, il

ricorso ad un’azione giudiziaria volta a garantire, di volta in volta, la soddisfazione di

un’attività prevenzionale fu di fatto impedito e l’attività sindacale si indirizzò sul consueto

binario della contrattazione, ove il tema della sicurezza nei luoghi di lavoro non

rappresentava di norma il fulcro della piattaforma rivendicativa.

9 Di notevole interesse lo studio “avanguardista” della FIOM di Torino risalente al 1964 che suddivideva in quattro macrosettori gli elementi di nocività presenti nell’ambiente di lavoro: 1) fattori presenti anche in ambito extra lavorativo: luce, temperatura, rumore, umidità, ventilazione; 2) fattori tipici dell’ambiente di lavoro: polveri,fumi,gas, vapori; 3) fatica: fisica, mentale; 4) effetti stancanti: monotonia, tempi di lavoro insostenibili, ritmi di lavoro eccessivi, ansia, responsabilità, disagio Riportato in Montuschi “Diritto alla salute….” Cit., pag. 194 10 Treu T. “Atti discriminatori e condotta antisindacale” Milano, 1994, pag. 70 11 Galantino L. in AA.VV. “ La sicurezza del lavoro – commento ai decreti legislativi 19/9/1994 n. 626 e 242/1996”, Milano, 1996, pag. 9

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Le innovazioni legislative e contrattuali del periodo vennero riprese dalla legge 23/12/1978

n. 833, istitutiva del SSN, i cui principi ispiratori vennero direttamente attinti dalla Carta

Costituzionale (l’art. 1 al 1° comma riproduce testualmente il contenuto dell’art. 32 Cost.)

L’intero settore subì un mutamento sostanziale:

� venne introdotta la previsione di sanzioni penali in caso di violazioni;

� venne prevista la costituzione dell’ISPSEL e la contemporanea soppressione

dell’ENPI, istituto spesso contestato dalle rappresentanze dei lavoratori per

l’ambiguità del ruolo rivestito;

� al titolo III vennero disciplinate le funzioni e le sfere di competenza delle USL alle

quali, nel rispetto di condizioni e garanzie valide per l’intero territorio nazionali,

vennero affidati i compiti di individuazione, accertamento e controllo dei fattori di

nocività, pericolosità e deterioramento degli ambienti di lavoro.

Anche il controllo sullo stato di salute dei lavori, sino ad allora esercitato dall’Ispettorato

del Lavoro, venne affidato alle USL, mentre altre attività, quali gli accertamenti medico

legali e le certificazioni, rimasero di competenza dell’INAIL.

� Al SSN veniva quindi, tra le altre, attribuita la finalità di perseguire la sicurezza del

lavoro, con la partecipazione dei lavoratori e delle OO.SS., con la volontà di

imprimere un forte impulso all’attività prevenzionale, da gestire non in via

generale, ma sulla base delle esigenze in concreto verificate, congiuntamente alle

organizzazioni sindacali e datoriali.12 Non pochi furono i problemi di

coordinamento tra i diversi organismi preposti ai

ruoli di garanzia e controllo, ingenerando per un lungo periodo sovrapposizioni e, talvolta,

lacune, alcune delle quali ancora non colmate.13

12 Montuschi L.: “Diritto alla salute…” cit. pag. 221 13 Interessanti spunti al proposito possono trarsi dalla “piattaforma sindacale nazionale unitaria per il rilancio, la qualificazione ed un assetto stabile dell’attività di prevenzione nei luoghi di lavoro”, ove si fa esplicito riferimento alla necessità avvertita di ridefinire ed aggiornare il “mandato” dei servizi di Prevenzione delle ASL, sulla base della nuova, forte domanda, proveniente dagli organi paritetici e RLS e che ha per oggetto oltre all’esecuzione dei compiti istituzionalmente previsti, anche l’esercizio di altre attività, quali la formazione qualificata.

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Verso la fine degli anni ’70 si assistette ad una sensibilizzazione a livello europeo, sul tema

della sicurezza sul lavoro ed alla conseguente emanazione di alcune direttive comunitarie,

miranti all’armonizzazione della legislazione dei singoli Stati.

Si citano, quale esempio:

� direttiva 576/1977 sulla segnaletica di sicurezza nei luoghi di lavoro,

� direttiva quadro 1197/1980 contro i rischi derivanti dall’esposizione ad agenti

chimici, fisici e biologici durante il lavoro

� direttiva 501/1982 sui rischi da incidenti rilevanti connessi a determinate attività

industriali.

In particolare, la Carta Comunitaria dei diritti sociali, approvata il 9/12/1989, ribadì il

diritto dei lavoratori ad operare in un ambiente sicuro e la necessità, per gli Stati membri,

di adottare norme adeguate, tali da rendere armonica, tra i diversi paesi, la gestione della

sicurezza. Tale armonizzazione si rendeva ancora più necessaria in considerazione del fatto

che il differente costo della gestione della sicurezza avrebbe potuto creare un’alterazione

degli equilibri tra gli stati membri in tema di concorrenza sul mercato.14

In tema di responsabilità civile va evidenziato che, all’art. 5, venivano previsti due

differenti regimi, da recepire, integralmente o in parte, a cura di ogni stato membro: a)

una responsabilità assoluta, che non incontrava alcun limite (neanche nell’ipotesi di caso

fortuito); b) una responsabilità oggettiva, che prevedeva, quale limite, il verificarsi di

alcuni fatti-eventi (con la conseguente esclusione / graduazione della responsabilità civile

dei datori di lavoro nell’ipotesi di fatti o circostanze a loro estranee, eccezionali ed

imprevedibili).15

Le direttive comunitarie si caratterizzarono per la previsione di elementi generali di tutela,

quali la prevenzione soggettiva (il singolo lavoratore incide nel processo produttivo e

pertanto deve essere adeguatamente informato e formato) e l’individuazione di procedure

(valutazione dei rischi) attraverso le quali, organicamente, intervenire; vennero individuati

nuovi ruoli, rivestiti da soggetti che con la loro opera coadiuvavano il datore di lavoro nella

gestione della sicurezza.

14 Galantino L., “Commento….” cit., pag. 11 15 Franco M.: “Diritto alla salute e responsabilità civile del datore di lavoro”, Milano, 1995 pag. 85

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Dopo anni di dibattiti parlamentari venne emanato il D. Lgs. 626/1994, che finalmente,

anche nel nostro ordinamento, recepiva le principali otto direttive in materia di sicurezza

sul lavoro - ultima delle quali la direttiva quadro 391/1989 - prescrivendo misure per la

tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nell’ambito di tutti i settori produttivi.

Per riformare i limiti presenti nell’impianto normativo sino ad allora in vigore, vennero

introdotte importanti novità, che manifestarono i propri effetti non tanto sul contenuto

dell’obbligo di sicurezza – che sembrava aver subito piuttosto specificazioni che non

innovazioni – quanto sulle modalità gestionali di tale obbligo.16

L’intento del legislatore di attribuire a questo decreto una portata generale è ravvisabile

nelle disposizioni contenute nel titolo I, che consentono di predisporre concretamente le

necessarie condizioni di tutela e della sicurezza dei lavoratori e di offrire tanto un valido

ausilio interpretativo, quanto un’efficace possibilità di auto-adeguamento al variare della

realtà tecnico-produttiva.17

In particolare l’art. 3, con la sua lunga elencazione di misure necessarie ad assicurare la

tutela della salute e della sicurezza, può costituire una sorta di direttiva alla quale il datore

di lavoro deve conformare la propria azione, sia per quanto riguarda l’adempimento delle

prescrizioni contenute nel decreto stesso che per l’adozione delle misure contenute nella

legislazione precedente.

Si può correttamente parlare di un’organizzazione del sistema sicurezza, che per la sua

complessità giustificava la nuova previsione di uno staff, il Servizio di Prevenzione e

Protezione, che avrebbe affiancato e coadiuvato il datore di lavoro nella gestione e nella

programmazione di tutti quegli interventi ritenuti necessari a garantire la sicurezza

dell’ambiente lavorativo.

Venivano inoltre previste, in concreto, le modalità, le procedure per mezzo delle quali tale

obbligo dovesse realizzarsi, adottando strumenti di assoluta novità per il nostro

ordinamento ed il cui fine era quello di garantire efficacia alla programmazione

16 Galantino L. “Commento…” cit., pag. 11 17 Romei P. “Il campo di applicazione del d.lgs. n. 626 del 1994 e i soggetti” in AA.VV. “Ambiente, salute e sicurezza” cit. pag. 60; M. Franco “Diritto alla salute e responsabilità civile del datore di lavoro” Milano, 1995, pag. 69 ss.

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(valutazione dei rischi e redazione del relativo documento, riunione periodica)18, attraverso

una gestione partecipata. Ne conseguiva il coinvolgimento di tutte le risorse umane

presenti nell’ambito dell’azienda, compresi gli stessi lavoratori che sono “tenuti a

contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti, ai preposti, all’adempimento di tutti gli

obblighi previsti “.(art. 5 D. Lgs. 626/1994).

Capitolo 2. Natura giuridica dell’obbligazione di sicurezza

Il problema della natura, aquiliana o contrattuale, della responsabilità del datore di lavoro,

è stato lungamente dibattuto in dottrina ed il fulcro della disamina è stato rappresentato,

prevalentemente, dall’art. 2087 c.c., che ha svolto (e svolge) un ruolo di assoluto rilievo

nell’ambito del sistema prevenzionale, rappresentandone un punto di inizio – per la

qualità intrinseca di norma assolutamente elastica – e di chiusura, supportando la

legislazione tecnica esistente in tema di infortuni e malattie sul lavoro e costituendo altresì

un costante riferimento giurisprudenziale ai fini della valutazione della responsabilità del

datore di lavoro 19.

Tale norma, come autorevolmente sostenuto20, è stata oggetto di un fenomeno che ha

caratterizzato la definizione di molte altre norme peculiari del diritto del lavoro ad opera

della dottrina: il tentativo di “costringere” la disposizione in uno schema privatistico o in

uno schema di tipo pubblicistico.

18 A tale proposito Romei “Il campo di applicazione ….” cit., pag. 67 evidenzia come l’impostazione fosse radicalmente mutata rispetto al passato, quando era il legislatore che provvedeva, caso per caso, ad individuare i rischi connessi all’impianto o al tipo di produzione, indicando anche gli adempimenti necessari ad evitarli o a ridurre gli effetti negativi. 19 Così M. Lai “Flessibilità e sicurezza del lavoro” Torino, 2006, pag. 7; P. Romei “Il campo di applicazione del D. Lgs. 626 in AA.VV. “Ambiente, salute e sicurezza” Torino 1997 evidenzia come il D. Lgs. 626, pur esplicitandone e talvolta anche innovandone i contenuti, sembra tuttavia presupporre una norma di carattere generale come l’art. 2087 c.c. , che conserva perciò la funzione di norma di chiusura dell’intero sistema 20 C. Smuraglia “La sicurezza nel lavoro e la sua tutela penale” Torino, 1974 pag. 81

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2.1 Teorie “extra contrattualistiche” e pubblicistiche

I primi commentatori ravvisarono nella norma un carattere pubblicistico, evidenziando

come il contenuto della disposizione non faccia esclusivo riferimento all’interesse

personale del creditore, ma soddisfi anche interessi ed obiettivi più generali (tutela

dell’ambiente di lavoro) . Secondo tale teoria, pertanto, l’art. 2087 cod. civ. non attribuisce

al lavoratore un diritto soggettivo, ma una mera “situazione di vantaggio, classificabile

come interesse legittimo, in quanto connessa alla tutela di un pubblico e, quindi, di più

ampio interesse”21.

Anche in seguito all’introduzione nel nostro ordinamento della Carta Costituzionale, tale

interpretazione non mutò sostanzialmente e, pur riconoscendo una stretta correlazione tra

l’art. 2087 C.C. e l’art. 32 Cost., si giunse alla conclusione che il diritto alla sicurezza altro

non è che un’estrinsecazione di un principio generale e pertanto, rientrando il diritto alla

salute tra i diritti della personalità, non può essere confinato nel ristretto ambito

contrattuale.22

Dal che conseguirebbe, in caso di inadempimento del datore di lavoro, l’applicazione del

generale principio del neminem laedere, di cui all’art. 2043 cod. civ.

Un’evoluzione della teoria pubblicistica pose poi in evidenza come, coordinando le

disposizioni contenute all’art. 2087 cod. civ. e l’art. 40 2° cod. pen. (non impedire un

evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo), il principio

generale del neminem laedere assumerebbe, per il datore di lavoro, connotati del tutto

particolari, traducendosi non solo in un obbligo negativo (non fare), ma anche in un

obbligo positivo (attuazione di una tutela preventiva del bene giuridicamente protetto,

coincidente con la salubrità dell’ambiente di lavoro).23

21 D’Eufemia I pag. 14 22 Di opposto parere L. Montuschi “diritto alla salute e organizzazione del lavoro” Milano 1986, pag. 55, il quale reputa la tesi dell’appartenenza del dovere di sicurezza alla sfera del diritto pubblico “politicamente pericolosa e giuridicamente discutibile” 23 Con la sentenza 29/9/2006 n. 32286 la Cass. Penale rimarca tale posizione, affermando che il datore di lavoro è garante dell’incolumità fisica e della personalità morale del prestatore di lavoro dal che deriva che, in caso di inadempimento del suo obbligo di tutela, l’evento lesivo gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall’art. 40 2° comma cod. pen. M. Franco “Diritto alla salute…” cit., pag. 354 sostiene che la salubrità dell’ambiente di lavoro può essere considerata, in linea di principio, un bene giuridicamente rilevante, che ha per oggetto una situazione di vantaggio per la collettività dei lavoratori.

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Tale tesi, come osservato, è di interesse, poiché “consente di estendere gli obblighi di

sicurezza anche nei confronti di soggetti non legati da un vincolo di subordinazione con il

datore di lavoro, ma solo temporaneamente inseriti nell’organizzazione produttiva”24.

Secondo tale teoria, inoltre, la sola violazione dell’obbligo in astratto considerato - e non

già il verificarsi dell’evento lesivo ed il conseguente danno al lavoratore - consentirebbe al

lavoratore di poter agire per la tutela del proprio interesse.

2.2 Le tesi contrattualistiche

Di contro, la dottrina e la giurisprudenza prevalente hanno attribuito all’art. 2087 c.c. una

valenza preminentemente contrattualistica e pertanto un’applicazione pressoché indiscussa

nell’ambito del contratto di lavoro subordinato.25

Nell’ambito dell’elaborata teoria “contrattualistica”, le interpretazioni sono tuttavia

tutt’altro che univoche.

Secondo taluni va ravvisato un obbligo di protezione 26, riconducendo il contenuto dell’art.

2087 c.c. agli obblighi di correttezza e buona fede cui il datore di lavoro è tenuto ex art.

1175 e 1375 cod. civ. Il rapporto di lavoro veniva quindi valutato come struttura

complessa, composta da alcuni obblighi principali ed altri, quali quello di sicurezza,

meramente accessori, la violazione dei quali non avrebbe pregiudicato l’obbligazione

principale.

Di diverso avviso altra parte della dottrina, il cui pensiero viene ricondotto nell’ area della

cooperazione creditoria: il datore di lavoro deve rendere possibile al proprio dipendente, in

totale sicurezza, l’esecuzione della propria prestazione lavorativa . 27

Qualora il datore di lavoro fosse inadempiente, l’obbligazione di lavoro ne rimarrebbe

fortemente influenzata, sul presupposto “ che il debito trova la sua misura ed incontra il

24 M. Lai “La sicurezza del lavoro tra legge e contrattazione collettiva” Torino, 2002, pag. 7 25 Cass. 18/11/1976 n. 4318 26 L. Mengoni “Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi” in Riv. Dir. Comm. 1954, I, p. 185 ss. E, per una nota bibliografica accurata si rimanda a M. Lai “La sicurezza…” cit. p. 3 27 M. Franco “Diritto alla salute e responsabilità civile del datore di lavoro” Milano, 1995 pag. 31, secondo il quale la responsabilità contrattuale del datore deriva anzitutto dal legame sussistente tra l’art. 2087 cc. Ed il precetto costituzione, ritenendo che il danno alla salute venga a coincidere con quel danno che l’art. 1218 c.c. fa gravare sul debitore che non esegue la prestazione.

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suo limite nel rispetto pregiudiziale della persona del debitore stesso”28, con la conseguente

giustificazione del rifiuto del lavoratore ad operare in un ambiente di lavoro riconosciuto

insalubre o insicuro.

Va osservato tuttavia che, qualora si accogliesse senza riserve la tesi sopra esposta, al

creditore di sicurezza spetterebbe solo una facoltà di natura non processuale, cioè il diritto

di rifiutare sì la prestazione lavorativa senza subire per tale ragione alcuna sfavorevole

conseguenza giuridica 29, ma nessun diritto a pretendere il corretto ed esatto adempimento

dell’obbligazione sub specie di una modificazione dell’organizzazione del lavoro. 30

Soprattutto a seguito dell’introduzione dello Statuto dei lavoratori, molti interpreti non si

limitarono a considerare una predominanza, all’interno del rapporto di lavoro,

dell’interesse del datore di lavoro, ma ritennero che l’aver ricondotto l’art. 2087 c.c.

nell’ambito delle obbligazioni principali avrebbe consentito di individuare non più un

mero onere, ma un dovere di sicurezza a carico del datore di lavoro, cui corrispondeva un

diritto soggettivo di credito. 31

Si poteva quindi affermare che il contenuto dell’art. 2087 c.c., penetrando e condizionando

il rapporto di lavoro, di fatto modella il sinallagma contrattuale32.

2.3 Carattere bifrontale dell’art. 2087 codice civile

Altri interpreti, coniugando alcune delle tesi sopra esposte, hanno riconosciuto all’art. 2087

cod. civ. un carattere “bifrontale”: pur concordando sulla rilevanza civilistica e contrattuale

dell’art. 2087 cod. civ., ne hanno evidenziato anche il profilo pubblicistico.

Taluni hanno poi evidenziato come sia poco corretto, riduttivo, definire la sicurezza mero

obbligo a carico del datore di lavoro, ritenendo assai più appropriato parlare di “dovere”,

28 L. Montuschi “ Diritto alla salute..” cit. p. 71 29 Spagnuolo Vigorita: pag. 453 M. Franco “Diritto alla salute..” cit., pag. 107 30 L. Montuschi “Diritto …” cit., p. 53 31 M. Lai “ La sicurezza…” cit. , p. 6 , Bianchi D’Urso F. “Profili giuridici della sicurezza nei luoghi di lavoro” Napoli, 1980, pag. 57 , Cass. 18/11/1976 n. 4318 32 L. Montuschi: “Diritto alla salute…” cit. pag. 75

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facendo derivare da tale accezione un comportamento di obbedienza astratto da un

rapporto giuridico identificato e non necessariamente correlato ad un diritto soggettivo .33

Si andrebbe dunque a configurare una situazione nella quale il dovere di sicurezza permane

in capo ad un singolo soggetto (datore di lavoro), mentre il corrispettivo credito viene

ripartito tra due soggetti: lo Stato (quale titolare di un interesse pubblico collettivo) ed il

lavoratore.

L’astrazione dal rapporto giuridico individuato – contratto di lavoro dipendente –

offrirebbe inoltre la possibilità di garantire l’applicazione delle disposizioni a tutti i casi in

cui fosse comunque rilevabile una prestazione lavorativa34.

Tale interpretazione, che estende la tutela infortunistica a “tutti gli addetti”, ben si potrebbe

coniugare con il contenuto dell’art 7 del D. Lgs. 626/1994, che integra il dettato della

norma civilistica. 35

Vanno tuttavia valutati l’importanza e gli effetti che la considerazione dell’obbligo di

sicurezza quale bifrontale sortirebbe, ad esempio per quanto concerne l’agibilità dei mezzi

reattivi ai quali è possibile ricorrere in caso di inadempimento ( infra, pag 49).36

Capitolo 3. Il contenuto dell’obbligazione

L’evoluzione del dibattito sulla natura delle posizioni soggettive ha condotto a considerare

indiscusso il contenuto prevenzionistico dell’art. 2087 c.c. e, di conseguenza, a ritenere

superate le posizioni volte a circoscriverne la portata in senso esclusivamente risarcitorio37

33 Smuraglia “La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale” p. 47 34 Lai “La sicurezza..” cit., p. 9 e M. Franco “L’obbligo di sicurezza del datore di lavoro nell’età corporativa e dopo, i Riv. It. Dir. Lav. 1993, I pag. 114 35 In tal senso Cass. 22/3/2002 n. 4129 che, ritenendo che l’art. 2087 c.c. integri le disposizioni in materia di prevenzione degli infortuni previste da leggi speciali e sia applicabile anche nei confronti del committente, tenuto al dovere di provvedere alle misure di sicurezza dei lavoratori (anche se non suoi dipendenti) ove si assuma i poteri tecnico-organizzativi dell’opera da eseguire. La pronuncia va nel senso di una responsabilità solidale tra committente ed appaltatore (datore di lavoro “titolare”degli infortunati), in base alla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. 36 Così L. Montuschi “Diritto alla salute…” cit., p. 53 37 Natullo “La tutela..” cit. pag. 22

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Come più volte ricordato, l’art. 2087 c.c. rappresenta una norma di chiusura del sistema

antinfortunistico nel senso che, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva,

la suddetta disposizione impone al datore di lavoro di adottare comunque le misure

generiche di prudenza, diligenza e l’osservanza delle norme tecniche e di esperienza.38

L’estrema elasticità della norma determina di fatto un ampio vincolo a carico del datore di

lavoro circa le modalità di adempimento del suo obbligo di sicurezza: essendogli affidata

l’indagine circa la potenzialità e la probabilità di un danno e, in conseguenza, circa la

sussistenza concreta di un pericolo, questi dovrà comportarsi utilizzando una diligenza

non comune, bensì qualificata, ex art. 1176 2° c.c.

Il datore di lavoro è infatti tenuto ad adottare tutte le misure “necessarie” a tutelare

l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro secondo i parametri della

particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica.39

Il concetto di particolarità del lavoro è estremamente ampio e comprende tutte le attività,

anche quelle definibili come preparatorie o complementari.

Secondo alcuni, l’ambito di applicazione non può limitarsi alle attrezzature, ai macchinari

o ai servizi, ma va esteso a tutte le condizioni ambientali e cioè a quel complesso di

condizioni di pericolo, di disagio e di faticosità che sono insite nelle caratteristiche

peculiari di ogni specifica attività lavorativa 40, andando a coinvolgere l’intera gestione

dell’attività nella sua fase dinamica 41.

I termini esperienza e tecnica sono pressoché unanimemente considerati dalla dottrina 42

parametri “esterni”, sulla base dei quali individuare le misure di carattere preventivo

adeguate alla particolarità del lavoro. Il datore di lavoro dovrà quindi, nel predisporre le

misure prevenzionali, riferirsi alle conoscenze messe a disposizione dal progresso tecnico

scientifico e, nel fare ciò, non potrà subordinare l’adozione di misure di sicurezza a criteri

38 Cassazione 9/5/1998 n. 4721. Nello stesso senso anche la pronuncia Cass. 29 marzo 1995, n. 3738 secondo cui 'art. 2087 c.c. costituisce norma di chiusura del sistema antinfortunistico, la cui operatività non è esclusa, bensì rafforzata dalla sussistenza di norme speciali che dispongano l'adozione di particolari cautele.

39 Lai “La sicurezza..” cit. pag. 15, Bianchi D’Urso “Profili giuridici.. cit., pag. 41 40 Smuraglia, “La sicurezza…”cit. pag. 85 41 Cass. 20/04/1998 n. 4012 e Cass. 6/9/1988 n. 5048 Per la Corte, che si trovava a giudicare se nel caso di specie (aggressione di dipendenti bancari ad opera di malviventi), si è espressa nel senso che, una volta che un determinato tipo di attività lavorativa venga a trovarsi, nei fatti, esposto a rischi prima inesistenti, il datore di lavoro dovrà adoperarsi affinché, in concreto, per mezzo dell’organizzazione del lavoro, i rischi possano essere prevenuti. 42 V. per tutti, Natullo G. “La tutela dell’ambiente di lavoro” Torino 1995, pag. 25

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di fattibilità economica o produttiva (massima sicurezza ragionevolmente praticabile), ma

dovrà tendere al raggiungimento, in concreto, della massima sicurezza tecnologicamente

possibile43.

Il concetto di esperienza va anch’esso inteso, secondo un autorevole autore 44 in senso lato,

per cui diviene penalmente perseguibile il datore di lavoro che non abbia usato quelle

misure e quei rimedi preventivi che in altre lavorazioni dello stesso tipo si siano rivelati

idonei a prevenire i sinistri.45

Se da un lato il datore di lavoro è tenuto ad adottare, secondo la giurisprudenza costante,

tutte le misure di prevenzione espressamente indicate 46, si è altresì considerato come,

qualora le norme specialistiche siano di fatto obsolete, il datore di lavoro dovrà rapportarsi

alle nuove conoscenze acquisite47 .

La legislazione italiana, con l’approvazione del D. Lgs. 626/1994, si è di fatto rivelata una

tra le più “garantiste” nei confronti del lavoratore48, attuando e talvolta superando i criteri

assunti dalla legislazione comunitaria dell’epoca. 49

43 Marino F. “La responsabilità del datore per infortuni e malattie del lavoro” Milano 1990, pag. 71 rileva, a proposito dell’art. 2087 c.c. , come “pur antecedente alla carta costituzionale la norma si appalesa come un vero gioiello di modernità e si pone come strumento attuativo degli articoli 32 e 41, laddove negano che l’attività economica possa svolgersi in contrasto con le esigenze di dignità e sicurezza umana e quindi con il primario diritto alla salute”. Conforme Cass. 29/3/1995 n. 3738. La Cass. Penale con sent. 29/9/2006 n. 32286 ha ribadito come un’eventuale indisponibilità dello strumentario di sicurezza, dipendente da qualsiasi causa, non può assurgere ad esimente, considerando che il diritto alla salute è un diritto fondamentale dell’individuo che non può ammettere eccezioni. 44 Smuraglia, cit. pag. 85

45 La Cassazione civile, con sentenza 29 marzo 1995, n. 3738 ha esteso tale concetto, imponendo al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge per la specifica attività, ma anche alle altre misure che si rendano necessaria in base alla particolarità dell’attività lavorativa, all’esperienza ed alla tecnica, misure per l’individuazione delle quali può farsi riferimento, ove sussista identità di ratio, anche ad altre norme dettate ad altri fini, ancorché peculiari ad attività diverse da quella dell’imprenditore.

46 Al proposito va ricordata la decisione della corte costituzionale 25/7/1996 n. 312 che, pronunciandosi su una questione di legittimità avente per oggetto la genericità del contenuto dell’art. 41 comme 1° D. Lgs. 277/1991 (riduzione al minimo dei fattori di rischio da rumore “in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, i rischi derivanti dall’esposizione al rumore mediante misure tcniche, organizzative e procedurali, concretamente attuabili, privilegiando gli interventi alla fonte”) rispetto alla previsione dell’art. 25 comma 2° Costituzione (necessaria determinazione delle previsioni della legge penale), ha evidenziato la necessità di ridurre l’ambito dell’interpretazione, valutando volta per volta se il comportamento del datore di lavoro deriva dagli standard i sicurezza acquisiti per le diverse produzioni. 47 Cass. Pen. 24/6/2000; Cass. 30/08/2004 n. 17314 48 Romei “Il campo di applicazione..” cit. pag. 63 49 Il rapporto tra obbligo di sicurezza ed acquisizioni scientifiche è così qualificato dalla Sentenza della Corte di Giustizia Europea 15/11/2001: “i rischi professionali che devono essere oggetto di una valutazione

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L’art. 3, in particolare, pur non contenendo alcun richiamo al principio di esperienza che

nell’art. 2087 c.c. assolve alla funzione di individuare un criterio di normalità tecnica,

introduce una “direttiva di ragionevolezza nell’adozione delle misure di sicurezza, verso il

raggiungimento di un (difficile) equilibrio tra il principio della massima sicurezza

tecnologicamente possibile ed il rispetto della funzionalità dell’organizzazione

produttiva”50.

Va infatti rammentata la tendenza della giurisprudenza e di parte della dottrina a fornire

una interpretazione estensiva del contenuto della norme prevenzionistiche e dell’art. 2087

c.c. in particolare, che si ritiene contenga non solo un dovere di tipo positivo (adozione

delle misure di sicurezza necessarie), ma anche un dovere di tipo negativo, individuato

all’art. 3 D. Lgs. 626/1994 nel rispetto dei principi ergonomici, nella definizione dei

metodi di lavoro e produzione, al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo.51

E’ in ogni caso accolto dalla giurisprudenza e dalla dottrina prevalente il concetto secondo

il quale dal verificarsi dell’evento lesivo non derivi una responsabilità oggettiva a carico

del datore di lavoro. Si ritiene infatti che dal dovere di prevenzione non possa desumersi

un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ma che, al fine dell’attribuzione di

responsabilità debba accertarsi, oltre che il verificarsi di un danno, anche la colpa del

da parte dei datori di lavoro non sono stabiliti una volta per tutte, ma si evolvono costantemente in funzione, in particolare, del progressivo sviluppo delle condizioni di lavoro e delle ricerche scientifiche in materia di rischi professionali”. Ne consegue, per il datore di lavoro un obbligo “di tenersi aggiornato e di tenere conto di quanto risulta da acquisizioni tecniche e scientifiche che abbiano un margine sufficienti di solidità, di sperimentazione e di effettiva possibilità di conoscenza al di là del mondo scientifico strictu sensu considerato” 50 Romei, ibidem pag. 66 51 Natullo “La tutela..” cit. pag. 27 e, in tema di incidenza dell’obbligo di sicurezza sull’organizzazione del lavoro, Smuraglia, “La sicurezza..” cit pag. 87 e segg. osservava ..”e’ chiaro che tra i doveri di sicurezza del datore vi è anche quello di occuparsi dell’intera organizzazione aziendale… ogni cura deve essere posta nella scelta del lavoratori da adibire ai singoli reparti e specialmente a quelli in cui si svolgono lavorazioni pericolose o nocive; da essi devono essere allontanati i prestatori che manifestino predisposizione alle malattie…” . Lai “sicurezza..” cit., pag. 30 evidenzia inoltre come il dovere di sicurezza venga ad incidere anche sul potere di assegnazione o modifica delle mansioni, indicazione prima implicitamente dedotta dal 2087 c.c. ed ora espressamente oggetto di obbligo ai sensi dell’art. 4 comma 5 D.Lgs. 626/94. La S.C. con sentenza sez. lav., 30 agosto 2000, n. 11427 ha comunque negato il diritto del lavoratore, in caso di sopravvenuta inidoneità, ad essere adibito a mansioni del tutto diverse da quelle per le quali è stato assunto, con la necessaria adozione da parte del datore di lavoro di modifiche dell'assetto organizzativo implicanti ampliamenti di organico o innovazioni strutturali.

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datore di lavoro per violazione di obblighi di comportamento (derivanti sia da leggi che

suggeriti dalla tecnica e/o dall’esperienza) concretamente individuati. 52

Capitolo 4. I SOGGETTI

Il modello della ripartizione intersoggettiva degli obblighi di sicurezza è adottato dal nostro

ordinamento sin dagli anni ’50, quando i D.P.R. 547/1957 e 303/1956 ed il D. Lgs.

277/1991 hanno introdotto la possibilità di una ripartizione degli obblighi in capo a più

soggetti - datore di lavoro, dirigenti e preposti - ai quali veniva fatto carico di attuare le

misure di sicurezza previste. Veniva quindi legittimata la delega, cioè la traslazione di

poteri, responsabilità e funzioni da parte del datore di lavoro, che poteva così sgravarsi

di tutti o di alcuni dei suoi obblighi, affidandoli ad un suo sottoposto.

Al fine di evitare “la creazione di zone di extraterritorialità penale mediante ripartizioni di

funzioni di carattere fraudolento”53, la Giurisprudenza introdusse una serie di limitazioni,

avendo come riferimento costante l’organizzazione dell’impresa e la ripartizione delle

incombenze effettuata in concreto tra quanti sono chiamati a collaborare con

l’imprenditore e ad assumere in sua vece l’onere della tutela delle condizioni di lavoro54.

Altri elementi ritenuti di assoluta rilevanza erano riconducibili a: la presenza di

un’organizzazione produttiva complessa55, l’esistenza di una autonomia decisionale e di

spesa del dirigente delegato56, l’idoneità tecnica del delegato a rivestire l’incarico

affidatogli 57, gli specifici contenuti della delega e la sua accettazione.58

52 Cfr. per tutti, P. Rossi in AA.VV. “Il sistema di tutela degli infortuni e delle malattie professionali” a cura di F. Facello pag. 238 . Cass. 10/5/2000 n. 6018 Cass. 23/07/2004 n. 13887 e Cass. 1/6/2004 n. 10510 53 Marino “cit “ pag. 139 54 Cass. Pen sez. IV 24/1/1962 n. 761 55 Contra Cass. Pen. 12/04/2005 n. 26122, che ammette la delega anche all’interno delle strutture non complesse 56 Cass. Pen. 23/02/1993 57 Cass. Pen. 26/10/1985 e, più recentemente, Cass. Pen. 1/04/2004 n. 27857 58 A tale proposito va comunque evidenziato che, qualora dirigenti e preposti siano investiti di responsabilità ex lege, ininfluente sarà l’eventuale delega attribuita (Cass. Pen. 1/4/2004 n. 24055 e Cass. Pen. 31/3/2006 n. 11351)

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Non può infatti considerarsi legittima una delega di fatto priva dei contenuti o dei poteri

necessari alla concreta attuazione degli obblighi gravanti sul delegante.59

Fedele a questo modello che consentiva di raggiungere un obiettivo di sicurezza diffusa 60

il D. Lgs. 626/94 ripropose una suddivisione del carico prevenzionistico tra tutti coloro

che, ai vari livelli, sono titolari di poteri di intervento o di influenza sull’ambiente di

lavoro61.

4.1 Il datore di lavoro

Il datore di lavoro, quale primo garante del debito prevenzionistico, trova la sua formale

definizione per la prima volta nel nostro ordinamento all’art. 2 lettera b) del D. Lgs.

626/94 (come modificato dal D. Lgs. 242/1996) ove viene qualificato come “il soggetto

titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il

tipo dell’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa, ovvero

dell’unità produttiva…in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa”. 62

La norma ricomprende pertanto anche i soggetti che, pur non formalmente titolari del

rapporto di lavoro, abbiano però la responsabilità dell’impresa o di una sua unità

produttiva. Viene quindi a configurarsi, accanto ad un datore di lavoro “formale”, un

datore di lavoro “sostanziale”, identificato con colui che, considerate le particolari

59 Cass. 22/6/2000 n. 9343 60 Basenghi F. “La ripartizione intersoggettiva degli obblighi prevenzionistici nel nuovo quadro legale” in AA.VV. “La sicurezza del Lavoro – commento….” cit.pag. 61 61 Ibidem 61 62 Come osservato da F. Basenghi “La ripartizione ...” cit., pag. 66 e seg., la definizione inizialmente contenuta nel d. lgs. 626/94 era stata oggetto di seri problemi interpretativi poiché la trasposizione della direttiva comunitaria qualificava datore di lavoro “qualsiasi persona fisica o giuridica o soggetto pubblico…titolare del rapporto di lavoro … e che abbia la responsabilità dell’impresa o dello stabilimento”. La definizione presentava aspetti di incompatibilità con l’assenza di attribuzione alla persona giuridica, nel nostro ordinamento, di capacità giuridica in ambito penale. Altro elemento di critica veniva dalla considerazione che la necessità – che la norma sembrava richiedere – del cumulo delle due condizioni di titolare del rapporto di lavoro e di responsabile dell’impresa o dello stabilimento – era assai difficilmente riscontrabile nella realtà (cfr. Romei “ Il campo di applicazione.. “ cit, pag. 76) e, paradossalmente, applicando letteralmente la disposizione, “lo status datoriale non avrebbe dovuto invece spettare all’amministratore delegato plenipotenziario che avesse avuto la responsabilità dell’intera impresa costituita in forma societaria. Su tale soggetto, infatti, non si sarebbe imputata la titolarità dei rapporti correnti con i dipendenti dell’impresa gestita”

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modalità organizzative dell’intera impresa o di un suo ramo appare provvisto dei relativi

poteri operativi e gestionali.63

Si determina dunque un effetto diffusivo del debito, con la possibilità di identificare più

datori di lavoro (e come tali anche i dirigenti che abbiano la responsabilità dell’impresa o

di una unità produttiva) ai fini della sicurezza in un’impresa articolata in più unità

produttive,64 ove per unità produttiva va intesa un’articolazione dell’azienda, dotata di

autonomia tecnico funzionale, cioè una struttura dotata di una propria identità da un punto

di vista produttivo, spaziale e organizzativo65

Mentre nelle aziende meno strutturate il datore di lavoro sostanziale potrà essere

agevolmente identificato nella persona fisica che concretamente risulti titolare dei più ampi

poteri di gestione e amministrazione dell’azienda, nelle strutture più complesse,

normalmente società, il ruolo va attribuito solitamente agli amministratori, previa tuttavia

una verifica circa l’entità dei poteri e delle prerogative ad essi attribuite.66

Per tale verifica non si potrà prescindere dal canone della c.d. “effettività”, unanimemente

accolto in dottrina ed in giurisprudenza, che individua nella concreta e reale assegnazione

di compiti e poterei a ciascun soggetto nell’ambito dell’organizzazione aziendale il criterio

che consente di scomporre il debito prevenzionistico.67

Per quanto attiene la Pubblica Amministrazione, per l’individuazione del datore di lavoro

viene fatto riferimento al “dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il

funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto

ad un ufficio avente autonomia gestionale”. Tale individuazione è, ai fini formali piuttosto

agevole, poichè pressoché tutte le amministrazioni hanno proceduto all’individuazione, al

63 Franco, “La responsabilità…”cit. pag. 257 64 Montuschi “Diritto…” cit. pag. 45, Ferraro in “Il datore di lavoro e l’obbligazione di sicurezza: attribuzione di compiti e delegabilità di funzioni nel complessivo quadro dei nuovi adempimenti” in AA.VV. “Ambiente, lavoro…” cit. pag. 112 65 Romei “Il campo di applicazione…” cit. pag. 78 . Conforme Cass. 5892/1999 66 Basenghi “ La ripartizione…” cit. pag. 64 In tema di operatività della delega di funzioni in azienda, la recente sentenza Cass. Pen. Sez. III 4/4/2006 ha stabilito che rientra tra i compiti dell’amministratore della società l’organizzazione dell’impresa e la vigilanza sull’intero andamento aziendale all’interno di una struttura semplice, atteso che in tali ipotesi non sussiste la necessità di decentrare, in funzione partecipativa, l’esercizio dei poteri di direzione e controllo dell’attività produttiva. 67 Montuschi “Diritto…” cit. pag. 102 Per riferimenti alla indispensabile valutazione di merito sui criteri endoaziendali di ripartizione dei compiti si rimanda alla trattazione di Basenghi, cit. pag. 57 e segg.

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loro interno, dei soggetti da qualificare quali datori di lavoro, in applicazione al disposto di

cui all’art. 30 D. Lgs. 242/1996.

L’autonomia gestionale cui si è fatto riferimento, soprattutto a seguito delle ripetute

riforme del settore pubblico, si ritiene non possa limitarsi ad un mero potere di indirizzo,

ma debba coniugarsi ad una capacità gestionale di natura patrimoniale.68 In ogni caso, la

responsabilità dell’organo di vertice o di governo non può essere totalmente esclusa,

poiché questi debbono, tra l’altro, formulare obiettivi e programmi anche in tema di

sicurezza, predisponendo nel bilancio le necessarie risorse e vigilando sulla corretta

attuazione delle misure prestabilite.

Si può parlare quindi di una contrapposizione tra una responsabilità derivante da carenze

strutturali, addebitabile ai vertici dell’ente e una responsabilità derivante da deficienze

nell’ordinario funzionamento, cui rispondono, secondo il consolidato principio

dell’effettività, i soggetti istituzionalmente preposti 69

Una particolare fattispecie di responsabilità del datore di lavoro in tema di sicurezza si

realizza nell’ipotesi dell’appalto.

Secondo la definizione fornita dall’art. 1655 c.c., tale tipologia contrattuale si caratterizza

per l’autonomia gestionale ed organizzativa che l’appaltatore utilizza per il compimento di

un’opera o di un servizio. Il committente, pertanto, dovrebbe essere considerato terzo

rispetto alla tutela del personale dell’appaltatore, al quale dovrebbero invece far capo tutti

gli obblighi prevenzionali. Tuttavia, qualora tale autonomia non fosse di fatto

compiutamente realizzata, si potrebbe incorrere in una co-responsabilità del committente.

Ciò si verifica quando quest’ultimo attui un’ingerenza nell’attività dell’appaltatore

attraverso modalità di tipo funzionale-direttivo (andando oltre il normale e legittimo

potere di controllo) o di tipo tecnico-operativo (quando l’appaltatore utilizzi mezzi e

strumenti messi a sua disposizione dal committente - che, ai sensi dell’art. 6 D.Lgs.

626/1994 dovranno essere del tutto conformi alle riposizioni sulla sicurezza). In caso di

infortunio la responsabilità penale dell’imprenditore ai fini della sicurezza non esclude

l’esistenza di una colpa concorrente (talvolta anche esclusiva) dell’interposto, a seconda

del ruolo rivestito di fatto nei confronti dell’imprenditore e del personale da lui reclutato 70

68 Guariniello “Obblighi e responsabilità” pag. 550 . Conforme Cass. Pen. 28/7/2000 e Cass. Pen 15/1/2001 69 Lai “ La sicurezza…” cit. pag. 128 e seguenti 70 Marando “Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro” Milano, 2003 pag. 154

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23

L’art. 7 D.Lgs. 626/1994 prevede infatti una serie di oneri (verifica dell’idoneità tecnico-

professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi, formazione,

informazione, cooperazione e coordinamento con l’appaltatore) che gravano sul datore di

lavoro committente in relazione ai lavoratori autonomi ed ai dipendenti degli appaltatori

che eseguono lavori all’interno dell’azienda.

Situazione più gravosa si aveva per l’appalto di manodopera, sino al 2003 vietato dal

nostro ordinamento. Ove si fosse verificato tale illecito, i prestatori di lavoro, occupati in

violazione, erano a tutti gli effetti considerati alle dipendenze dell’imprenditore-utilizzatore

(art. 1 legge 1369/1960), pure tenuto a tutti gli obblighi connessi al rapporto assicurativo-

previdenziale (art. 9 T.U. 1124).

La legge 30/2003 ha fortemente rinnovato tale settore, derogando il divieto di appalto di

manodopera con il riconoscimento della possibilità di collocamento della stessa a società di

intermediazione autorizzate. L’art. 29 del D.Lgs. 276/2003 individua nell’assunzione del

rischio di impresa e nell’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore la

distinzione tra appalto (anche d’opera) e somministrazione.

Per quanto attiene la sicurezza, gli obblighi di prevenzione di cui al D.Lgs. 626/1994

gravano sull’utilizzatore, il quale deve tutelare i lavoratori a lui affidati alla stregua di

propri dipendenti.71

Il contratto di somministrazione può inoltre prevedere che alla formazione, informazione e

addestramento all’uso delle attrezzature debba provvedere l’utilizzatore anzichè l’agenzia

fornitrice e, in tal caso, l’atto dovrà contenere anche l’indicazione della presenza di

eventuali rischi per la salute e l’integrità dei lavoratori addetti, nonché delle misure di

sicurezza adottate.

4.2 Dirigenti e preposti

Mentre sino agli anni ’90 gli obblighi di sicurezza potevano, in presenza di valida

delega72, competere indifferentemente al datore di lavoro, ai dirigenti o ai preposti, il D.

71 Marando “Il sistema vigente della sicurezza del lavoro” Milano, 2006 pag. 142 72 Per la cui sussistenza dovevano coesistere alcune caratteristiche, così riassunte da Basenghi in “ La ripartizione… “ cit. pag. 91 e segg. : a) l’assenza di ingerenza del delegante sull’operato del delegato, b) l’insussistenza di una integrale attribuzione dell’obbligo di sicurezza, permanendo in ogni caso a carico del lavoro l’obbligo di vigilanza e di programmazione, c) l’idoneità tecnico-professionale del delegato

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Lgs. 626 introduce una limitazione, escludendo espressamente la possibilità di delegare

una serie di adempimenti, previsti all’art. 4 commi 1– 2- 4a) e all’art. 11 (valutazione del

rischio, elaborazione del relativo documento, designazione del responsabile del servizio di

prevenzione e protezione, autocertificazione per le imprese familiari o sino a 10 addetti,

dell’avvenuta valutazione del rischio e degli obblighi relativi).

Alcuni autori hanno posto in rilievo la non assoluta coincidenza tra gli obblighi sopra

indicati ed il contenuto, più ampio, dell’art. 89, ove vengono previste sanzioni a carico del

solo datore di lavoro qualora vi sia un inadempimento di alcune altre disposizioni. Da ciò

si è considerato derivare l’impossibilità, per tutte le fattispecie ivi indicate, di delegare ad

altri l’adempimento73 o, al più, la facoltà di delegarne la mera esecuzione materiale.74

Individuato il dirigente come il soggetto cui spetta il compito di dirigere il lavoro altrui con

una notevole discrezionalità e con ampio margine di autonomia e che, nell’ambito della

sicurezza deve non solo predisporre le misure specifiche nell’ambito delle direttive

generali ricevute, ma anche individuare e adottare, di volta in volta, quelle misure che

l’esecuzione della lavorazione venga via via rivelando come necessarie75, va tuttavia

rilevato che, facendo la normativa riferimento alla qualifica sostanziale e non formale, il

dirigente, come già accennato, potrebbe essere qualificato come datore di lavoro ai fini

della sicurezza.

Anche per la figura del dirigente, come già evidenziato per quella del datore di lavoro, si

potrebbe realizzare una dissociazione tra la figura elaborata ai fini prevenzionistici e

quella individuata all’art. 2095 c.c. per cui, a prescindere dalla formale attribuzione, il

dirigente che ai fini della sicurezza diviene l’alter ego del datore di lavoro, sarà

responsabile di una cospicua parte degli obblighi a quest’ultimo attribuiti; d’altro canto

un’investitura solo formale da parte del datore di lavoro, senza il conferimento di

autonomi poteri decisionali e di spesa, non sarà sufficiente a determinare un’eventuale

responsabilità del dirigente.76 Anche in questo caso, la guida alla corretta identificazione

73 Lai “La sicurezza…” cit., pag. 9 74 Franco “Diritto alla salute..” cit., pag. 276. Il Ferraro in “Il datore di lavoro…” cit. pag.126 ritiene invece che alcuni adempimenti, specie di natura tecnica, quali la valutazione del rischio, possano essere dal datore di lavoro delegati a persone di fiducia e qualificate, pur permanendo la responsabilità penale in capo al primo. 75 Smuraglia “La sicurezza..” cit. pag. 112 76 Lai “ La sicurezza …” cit., pag.132 Cass. Pen. Sez. IV 9/1/1963 n 678 in cui si evidenzia come la individuazione del soggetto penalmente responsabile per la mancata attuazione deve essere effettuata, più che attraverso la qualificazione giuridica

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del debitore in prevenzione verrà fornita dal criterio di effettività che, valutando la concreta

determinazione dei poteri gestionali - anche di ordine economico - a questi riferibili e

suscettibili di condurre a tale identificazione sostanziale.

Per quanto attiene il preposto, in assenza di una definizione codicistica, questi veniva

identificato, sino alla fine degli anni ’50, con il soggetto che aveva funzioni sia di

supervisione del lavoro, sia di controllo diretto sulle modalità di esecuzione della

prestazione, attraverso una relazione diretta con i suoi sottoposti 77. La sua attività di

vigilanza è stata definita come sussidiaria, riferendosi esclusivamente agli sviluppi

esecutivi dell’opera ed essendo la sua autonomia costituita dallo stesso grado di cognizioni

tecniche in suo possesso, nonché dal ruolo assunto all’interno dell’organizzazione

dell’impresa.78

Con il D. lgs. 626/94 le responsabilità attribuite al preposto divengono agevolmente

desumibili dalle sanzioni poste a suo carico dall’art. 90 qualora non ottemperi ai compiti

definiti dall’art. 4 (quali ad esempio l’obbligo di aggiornamento delle misure di

prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che abbiano rilevanza ai

fini della sicurezza o la fornitura ai lavoratori dei necessari ed idonei DPI) ma, anche in

questo caso, così come avviene per gli altri soggetti debitori della sicurezza, andrà

verificata, in concreto, la reale autonomia decisionale necessaria ad adempiere agli

obblighi di cui è destinatario 79 e la qualificazione soggettiva80.

dei rapporti esistenti tra i diversi soggetti che si inseriscono nel ciclo produttivo, tenendo conto delle mansioni reali di ciascuno di essi, disimpegnate per incarico ricevuto o anche di propria iniziativa. Cass. 23/2/1994 n. 1806 e Cass. 9/9/2003 n. 13191, ove il dirigente viene identificato come colui che, pur in presenza di direttive programmatiche del datore di lavoro è preposto a dirigere l’intera organizzazione aziendale o un settore della stessa. 77 Lai “La sicurezza…”, cit. pag. 133, Marino “La responsabilità del datore…” cit., pag. 143 78 Smuraglia “La sicurezza..” cit. pag. 121 79 Cfr., quale esempio, la sentenza Cass. Pen. 29/10/2003 n. 49492, nella quale si afferma il principio secondo il quale il preposto è responsabile per la vigilanza ed il controllo nei confronti dei lavoratori. Di recente la Cass. Pen., sez. III con la sentenza 15/4/2005 n. 14017 ha individuato, quale specifica competenza prevenzionale del preposto “quella di controllare la ortodossia antinfortunistica della esecuzione delle prestazioni lavorative, cioè di assolvere agli obblighi specificamente indicati nell’art. 4 comma 5…..” Tra questi obblighi rientra quello di aggiornare le misure prevenzionali in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi, “ma sempre nell’ambito delle sue limitate attribuzioni., che attengono alla organizzazione delle modalità lavorative e non alla scelta dei dispositivi di sicurezza o dei macchinari conformi alle norme antinfortunistiche…” 80 Ai fini della validità della delega, il preposto dovrà essere persona tecnicamente capace e dotata dei necessari poteri (Cass. Pen., sez. III, 20/12/2002 )

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4.3 Il lavoratore

Successivamente agli anni ’50 la giurisprudenza prevalente ha ritenuto che le norme di

prevenzione contro gli infortuni non avessero come unici soggetti debitori il datore di

lavoro, i dirigenti ed i preposti, ma che, seppure in misura contenuta, anche al lavoratore,

dovesse essere richiesta una partecipazione attiva alla gestione del sistema.

Con il D. Lgs. 626 il ruolo del lavoratore ha sicuramente subito consistenti modificazioni,

trasformandosi da titolare del credito di sicurezza o, al più, destinatario passivo di precetti

da eseguire, a soggetto attivo e responsabile della sicurezza propria e altrui nell’ambito

dell’ambiente lavorativo.81

La decretazione prevedeva infatti solo alcuni doveri a carico dei lavoratori, in

contrapposizione ad obblighi previsti invece per il datore di lavoro, i dirigenti ed i

preposti82, mentre secondo l’attuale ordinamento anche il lavoratore è destinatario di

obblighi, la cui violazione è sanzionata penalmente.

L’avvenuta riqualificazione della sua posizione obbligatoria non va tuttavia attribuita

automaticamente, non potendo prescindere dalla congiunta verifica dell’applicazione, in

concreto, delle nuove prerogative (informazione e formazione) delle quali il lavoratore è

investito e che rappresentano uno strumento non solo per la realizzazione dell’interesse del

lavoratore stesso (tutela della sua salute), ma anche per il corretto adempimento degli

obblighi posti a suo carico.83

La bivalente responsabilità attribuita determina il superamento della visione individuale

dell’attività lavorativa, collocandola all’interno di una determinata organizzazione

produttiva84. Ne deriva che il comportamento del lavoratore che non ottemperi alle

previsioni dell’art. 5, assume un valore ancora più rilevante e pertanto potrà essere non

solo sanzionato penalmente nelle fattispecie espressamente indicate, ma potrà condurre, 81 Lai “Flessibilità e sicurezza”.. cit pag. 87 82 Alcuni autori, tra i quali V. Marino “ “ cit. pag. 145 hanno considerato che l’inclusione del lavoratore tra i co-obbligati della sicurezza, avvenuta con il DPR 303/1956 trovava la sua ragion d’essere nel riconoscimento dell’onere di cooperazione che grava sul lavoratore. Valorizzando la natura pubblicistica della tutela, si è quindi ritenuto che la violazione delle norme poteva indurre a conseguenze sia in ambito disciplinare che in ordine alla ripartizione della responsabilità, qualora un evento dannoso si fosse realizzato. In ogni caso la responsabilità del lavoratore sarebbe stata completamente esclusa qualora il datore di lavoro non avesse per primo adempiuto al proprio obbligo di sicurezza. 83 R. Del Punta “Diritti e obblighi del lavoratore: informazione e formazione” in AA. VV. “Ambiente….” Cit. pag. 158 84 Lai “ Flessibilità..” cit. pag. 89

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in caso di insuccesso di tutti gli altri percorsi (informazione, formazione, richiami) a

sanzioni disciplinari, sino al licenziamento, ovviamente da proporzionarsi all’entità della

violazione.85

85 Cass. 26/1/1994 n. 774 e Cass. 27/2/2004 n. 4050

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PARTE II – RESPONSABILITA’ E RISARCIMENTO

Capitolo 1. Lo speciale regime di responsabilità: il principio del parziale esonero

1.1 Il rischio professionale

Verso la fine del 1800 il grande sviluppo del settore industriale produsse, accanto ad un

forte sviluppo economico, un consistente aumento del fenomeno infortunistico, con

conseguenze sociali di altissimo rilievo. La situazione, di grande drammaticità, costrinse

l’intera collettività a confrontarsi con il problema inerente il risarcimento dovuto agli

infortunati o ai loro superstiti, acquisendo la consapevolezza che si rendeva necessaria una

particolare protezione verso i soggetti colpiti (all’epoca chi subiva un infortunio sul lavoro

veniva aiutato, alla stregua di tutti gli altri indigenti, dagli istituti di assistenza e

beneficenza).

La dottrina e la giurisprudenza, in applicazione alle disposizioni comuni previste agli artt.

1151 e seguenti del vigente codice civile del 1865, ricondussero inizialmente il

fondamento dell’indennizzabilità degli infortuni ad una responsabilità extra contrattuale.

L’infortunio sul lavoro era considerato un illecito comune, sottoposto pertanto alle generali

regole in ordine all’onere della prova: il soggetto leso era tenuto a dimostrare la

colpevolezza del datore di lavoro (o di terzi) nel determinismo dell’evento e rimaneva

privo di qualsiasi riparazione tutte le volte in cui l’evento dannoso fosse imputabile al

soggetto stesso o a forza maggiore.86

Come intuibile, l’inadeguatezza della tutela offerta al lavoratore - derivante essenzialmente

dalle esigue possibilità di accertare la responsabilità datoriale (anche in assenza di norme

specifiche per la prevenzione degli infortuni), dai lunghi tempi processuali e dalle forti

implicazioni psicologiche della lite si palesò rapidamente - e, con il costante sviluppo del

settore industriale, parte della dottrina si avviò verso un’interpretazione di segno opposto,

individuando nella responsabilità contrattuale il fondamento del risarcimento al prestatore

d’opera, con una totale inversione dell’onere della prova, stavolta a carico del datore di

86 Per un’approfondita analisi del fenomeno v., tra gli altri, Marando G. “Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro” Milano 2003, pag. 104 e segg.

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lavoro87. Nonostante l’attribuzione di questa responsabilità “aggravata”, va osservato che,

qualora il datore di lavoro avesse dimostrato l’utilizzo dell’ordinaria diligenza al fine di

evitare il danno, sarebbe stato considerato non responsabile dell’evento lesivo, con

conseguente inefficacia dell’azione promossa dal lavoratore.

Ci si rese tuttavia conto che anche quest’interpretazione, peraltro non condivisa da molte

parti, - soprattutto in virtù del fatto che, nel completo silenzio della legge non potesse

desumersi a carico del datore di lavoro un’obbligazione di protezione e sicurezza - non era

di per sé sufficiente a tutelare l’alto numero di soggetti infortunatisi in occasione di lavoro.

Si fece strada la convinzione che gli infortuni, se considerati nel loro complesso,

apparivano non più imprevedibili, ma come accessori inevitabili e ricorrenti,88

individuando un vero e proprio rischio professionale.

Nell’ambito della dottrina venne pertanto sempre maggiormente in considerazione l’idea

che “l’imprenditore, il quale spera di ricavare lucro dall’azione combinata di tutti gli

strumenti necessari per la produzione, debba anche sopportare i rischi per i danni che

fortuitamente, in causa o occasione dell’industria, possa colpire quegli elementi”89.

Si aprì dunque un importante dibattito che portò all’emanazione della legge 17/03/1898 n.

80, che tradusse il principio del rischio professionale in una forma transattiva, costituendo

la prima legge di tipo “sociale” del nostro ordinamento, non solo per i suoi contenuti, ma

anche per la sua forma.

Il contenuto del compromesso elaborato in dottrina venne dunque tradotto in legge,

divenendo applicabile nei confronti di alcuni soggetti (la tutela non si estese a tutti gli

operai, ma solo a coloro che erano addetti ad attività industriali ritenute particolarmente

pericolose sia per la loro natura intrinseca che per l’utilizzo di macchine “mosse da agenti

inanimati o da animali”), che venivano finalmente indennizzati anche per gli infortuni che

fossero derivati da forza maggiore, caso fortuito o dalla stessa colpa del lavoratore,

fattispecie sino ad allora completamente escluse dalla tutela (tale indennizzo era tuttavia

87 Nonostante l’attribuzione di questa responsabilità “aggravata”, va osservato che, qualora il datore di lavoro avesse dimostrato l’utilizzo dell’ordinaria diligenza al fine di evitare il danno, sarebbe stato considerato non responsabile dell’evento lesivo, con conseguente inefficacia dell’azione promossa dal lavoratore. Tra gli altri, Di Cerbo “L’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali nella giurisprudenza” Milano, 1998 p. 124 88 G. Marando “Responsabilità, danno …” cit., pag. 113 89 Fusinato “Gli infortuni sul lavoro e il Diritto civile” in Riv. It. Scienze giur. 1887 III p. 209, riportato in De Matteis-Giubboni “Infortuni sul lavoro e malattie professionali” Milano, p.38

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determinato in forma prestabilita, normalmente inferiore al risarcimento che sarebbe

spettato secondo i comuni criteri civilistici) 90.

Dal canto suo il datore di lavoro traeva un indubbio vantaggio poiché, accollandosi il

pagamento del premio assicurativo, si liberava di qualsiasi responsabilità nei confronti

dell’operaio.

L’attuazione del principio del rischio professionale presentava un carattere di forte

originalità, disciplinando la tutela infortunistica in modo del tutto differente da quanto

avvenisse per le altre assicurazioni sociali, poichè teneva in considerazione soprattutto il

nesso eziologico al lavoro ed il suo complesso e peculiare determinismo91.

Si era dunque, seppur con una soluzione compromissoria, riusciti a coniugare l’esigenza di

garantire la tutela infortunistica (evitando il rigoroso sistema probatorio prima in capo al

prestatore d’opera) e l’esonero, seppur entro determinati limiti, del datore di lavoro dalla

responsabilità civile.

Rimanevano a questo punto privi di tutela gli infortunati nel solo caso in cui, in mancanza

di regolare copertura assicurativa, il datore di lavoro risultasse insolvibile.

Tale lacuna venne sanata dal Regio Decreto 17/8/1935 n. 1765, con l’affidamento delle

funzioni assicurative ad un ente di diritto pubblico e con l’introduzione dell’automatismo

assicurativo, grazie al quale anche qualora la procedura amministrativa non fosse stata

regolarmente avviata, il lavoratore avrebbe comunque potuto fruire, in tutta la loro portata,

delle prestazioni previste per legge.92

Al regime di eccezione che, rispetto al diritto comune, era disposto in favore del datore di

lavoro, vennero apportate critiche dopo l’emanazione del codice civile del 1942 ed una

parte della dottrina ritenne che l’art. 2087 C.C., con il suo ampio respiro, avesse abrogato

l’art. 4 del R.D. 1765/19635, posizione che venne respinta dalla giurisprudenza e dalla

dottrina dominante.

90 De Matteis Giubboni, cit. p.48 91 Alibrandi “Infortuni sul lavoro e malattie professionali” Milano 2002, p. 163

92 De Strobel D. “L’assicurazione di responsabilità civile” Milano, 2004, pag. 585

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1.2 L’ART. 10 DEL D.P.R. 30/06/1965 n. 1124

Il D.P.R. 1124 del 30/06/1965 (TU delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria

contro gli infortuni e le malattie professionali) accolse tutti questi principi e sviluppò

ulteriormente l’automatismo assicurativo, garantendo al lavoratore infortunato un

indennizzo da parte dell’ente pubblico sul presupposto oggettivo di un rapporto di lavoro,

indipendentemente dall’avvenuto adempimento da parte del datore di lavoro.

Anche dopo l’approvazione di tale legge, vennero ribaditi alcuni dubbi sulla

costituzionalità di tale automatismo, rilevando un’ipotesi di illegittimità costituzionale del

sistema indennitario ove, non sottoponendo il datore di lavoro alle comuni disposizioni in

materia di responsabilità civile, si sarebbe sottratto al lavoratore infortunato il diritto al

risarcimento del danno.

La Corte Costituzionale, con la sentenza 9/3/1967 n. 22 ritenne non fondata la questione in

riferimento agli invocati artt. 3, 35 e 38 della Costituzione, argomentando che la peculiarità

del sistema assicurativo garantisce al lavoratore infortunato una tutela “più ampia di quella

consentita dal diritto comune, indennizzandolo per il danno professionale subito anche

nelle ipotesi di caso fortuito o colpa”. La Corte ritenne invece costituzionalmente

illegittimi:

1. l’art. 4 3° comma dell’art. 4 RD 1765/1935, nella parte in cui limitava la

responsabilità datoriale al solo fatto commesso dai dirigenti e dai preposti e non

anche dagli altri dipendenti del cui fatto dovesse rispondere, ai sensi dell’art. 2049

Cod. Civ.

2. l’art. 4 comma 5° nella parte in cui consentiva al giudice civile di accertare che il

fatto che aveva cagionato l’infortunio costituiva reato soltanto nelle ipotesi di

estinzione dell’azione penale per morte dell’imputato o per amnistia, senza

considerare quella di prescrizione del reato (che opera con la stessa efficacia delle

altre ipotesi invece espressamente considerate)

3. l’art. 10 T.U. 1124/1965, comma 3° e 5°, poiché riproducevano integralmente le

due ipotesi sopra indicate.

La Giurisprudenza costante, uniformandosi a tale criterio, ha pertanto ridisegnato la sfera

di applicazione della regola del parziale esonero, per cui si è in presenza di una

responsabilità civile del datore di lavoro non solo quando sussista, in ordine al fatto che ha

dato luogo all’infortunio, “la responsabilità penale di lui o di persona che egli abbia

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incaricato della direzione o della sorveglianza del lavoro, ma anche quando una

responsabilità penale venga accertata a carico di un altro suo dipendente, del cui fatto egli

debba rispondere secondo le norme del Codice civile (artt. 2043 e seguenti c.c.)”93.

Tale ampliamento comporta, in sé, una corrispondente estensione del diritto di regresso

dell’istituto assicuratore, del quale la responsabilità civile costituisce un presupposto.94

Il citato articolo 10 è stato oggetto di altre due importanti pronunce della Corte

Costituzionale, la quale

� con sentenza 102 del 29/4/1981 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del

comma 5° della disposizione nella parte in cui non consente che l’accertamento

del fatto-reato possa essere svolto dal giudice civile anche nei casi in cui il

procedimento penale si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria o vi

sia procedimento di archiviazione (la pronuncia aveva per oggetto l’esercizio

del diritto di regresso dell’INAIL, che era stato precluso)95

� con sentenza 118 del 24/4/1986, riaffermando il contenuto della sentenza 102,

ha stabilito che l’accertamento della responsabilità civile in seguito ad

infortunio sul lavoro deve seguire gli stessi criteri, tanto per l’INAIL, quanto

per l’infortunato stesso. L’accertamento del fatto-reato può essere oggetto di

giudizio civile anche nei casi in cui, non essendo stata promossa l’azione penale

nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente, vi sia procedimento di

archiviazione e quando il procedimento penale nei confronti del datore o di un

suo dipendente si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria.

L’intero quadro di questi rapporti è stato modificato dalla Corte Costituzionale e riadattato

dal c.p.p., che ha superato il principio della pregiudizialità penale, accentuando la

93 F. de Compandri/ P. Gualtierotti “L’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali” Milano, 2002, pag. 808. V. in tal senso, la pronuncia della S.C. Cass. 24/1/1990 n. 906, 94 Alibrandi “Infortuni sul lavoro…2 cit. pag. 736 95 Fino al 1981 - in applicazione della disciplina dei rapporti tra giudicato penale e procedimento civile dettata dalle norme del previdente c.p.p. - qualora la responsabilità civile dovesse risultare da un giudicato penale di condanna, un’ eventuale pronuncia di assoluzione avrebbe precluso l’azione civile. Ne deriva che se il datore di lavoro fosse stato prosciolto in fase istruttoria o avesse ottenuto un’assoluzione dibattimentale, si sarebbe affermato il suo totale esonero da responsabilità e alcuna azione in sede civile (di rivalsa da parte dell’Ente o da parte del lavoratore) sarebbe stata proponibile.

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differenza tra i due procedimenti.96

Secondo il 5° comma dell’art. 10 TU, è dunque il giudice civile, su domanda proposta a

pena di decadenza 97 dagli interessati entro tre anni dal passaggio in giudicato della

sentenza penale, a decidere se, per il fatto che avrebbe costituito reato, sussiste

responsabilità civile a carico del datore di lavoro. Il giudice civile dovrà pertanto accertare:

se il fatto da cui è derivato l’infortunio costituisca un reato perseguibile d’ufficio, se per

tale reato si sarebbe dovuta emettere sentenza penale di condanna ove non fossero

intervenute le ipotesi di amnistia, morte dell’imputato.

Nell’effettuare tale accertamento il giudice dovrà attenersi al principio della causalità

materiale (art. 40 c.p. e 41 c.p. nell’ipotesi di concause) disciplinato nel codice penale.98

Passando ora ad esaminare, in relazione all’indennizzo spettante al lavoratore, i

comportamenti del datore di lavoro (o di un terzo) che abbiano avuto un’efficacia causale

rispetto all’infortunio, va osservato come, più volte evidenziato, che l’art. 10 del TU

riafferma il principio del parziale esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile

conseguente agli infortuni dei propri dipendenti.

Si tratta di una norma speciale ed in quanto tale non suscettibile di estensione analogica.

Non è dunque applicabile nei confronti di un terzo responsabile ed è invocabile dal datore

di lavoro (compresa la Pubblica Amministrazione), per il sopra espresso automatismo,

anche qualora questi non abbia provveduto a regolare il premio assicurativo 99

Va in ultimo rilevato che il parziale esonero dalla responsabilità civile opera erga omnes e

non soltanto nei rapporti tra lavoratore e datore di lavoro. Ne consegue “che il terzo

corresponsabile dell’infortunio non può agire in rivalsa contro il datore di lavoro per la

96 Sino ad allora, gli articoli 25, 27 e 28 c.p. stabilivano la preminenza della giurisdizione penale su quella civile, attribuendo validità erga omnes al giudicato penale. Il giudizio civile rimaneva fortemente condizionato da un eventuale giudizio penale, non potendosi infatti modificare la fase di accertamento già avvenuta in tale sede. Tuttavia tale principio era stato ripetutamente oggetto di pronuncia da parte della Corte Costituzionale, che con le sentenze 22/3/1971 n. 55, 27/6/1973 n. 99 e 26/6/1975 n. 165, aveva stabilito l’illegittimità del vincolo posto dall’accertamento penale nei confronti di soggetti non presenti nel precedente giudizio o per impossibilità giuridica (assenza di legittimazione, come ad esempio nel caso dell’ente mutualistico che, non essendo né direttamente né indirettamente qualificabile come “persona” offesa dal reato, non può partecipare al giudizio penale) o perché non posti in condizione di partecipare (mancanza di cognizione legale del processo). 97 trattandosi di azione a tutela degli interessi individuali, la decadenza è rinunciabile, l’eccezione non può essere rilevata d’ufficio né essere eccepita per la prima volta nel giudizio di cassazione 98 Alibrandi “Infortuni sul lavoro…” cit., pag. 732 99 Cassazione 21/10/1961 n. 2324)

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quota di responsabilità di questi; al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 10 T.U. manca,

infatti, il titolo della responsabilità civile del datore di lavoro e quindi anche della sua

corresponsabilità ex art. 2055 c.c.”.100

Si può quindi concludere, come autorevolmente affermato, che il meccanismo presuntivo

derivante dal combinato disposto degli artt. 2087 e 1218 c.c. (giusta il quale incombe al

datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le misure necessarie, secondo

l’esperienza e la tecnica, ad evitare l’evento dannoso) può, dunque, operare solo al di fuori

dell’ambito di applicazione della garanzia assicurativo sociale e, quindi, della regola di cui

all’art. 10 TU la quale subordina, appunto, il riconoscimento della responsabilità civile del

datore all’accertamento - in sede penale o, eventualmente, di una colpa in ogni caso

effettiva. 101

Capitolo 2. Il danno

Nell’ambito di applicazione dell’art. 10 del TU, perchè possa darsi luogo ad un

risarcimento, è necessario che il giudice adito riconosca che l’entità del danno subito dal

lavoratore, a causa di infortunio sul lavoro o malattia professionale, corrisponda ad un

importo superiore a quanto già indennizzato dall’INAIL.

Al fine dunque di determinare in cosa consiste questo danno “differenziale”, è opportuno

identificare, seppure in estrema sintesi - come imposto dalla trattazione in questa sede -

la composizione del danno il cui ristoro compete al lavoratore infortunato e quali siano le

prestazioni erogate dall’INAIL.

2.1 Danno risarcibile

Il codice civile aveva racchiuso il concetto di danno risarcibile nella dicotomia disciplinata

agli articoli 2043 e 2059 c.c., le cui previsioni individuavano rispettivamente il danno

100 Alibrandi “infortuni.. cit pag. 734 101 S. Giubboni “La responsabilità civile del datore di lavoro” in AA. VV. “ Dottrina e giurisprudenza sistematica di diritto della previdenza sociale” (a cura di M. Cinelli) Torino 1995, pag. 688

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patrimoniale ed il danno morale.

Danno patrimoniale

E’ identificabile in un pregiudizio di carattere meramente economico, che può distinguersi,

a seconda della relazione, diretta o indiretta con l’evento, in danno emergente (perdita di

reddito ed esborso di somme) e lucro cessante (perdita di un futuro vantaggio).

Mentre il danno emergente deve essere liquidato secondo l’equo apprezzamento del

giudice, ex art. 2056, il lucro cessante è da quantificarsi ex art. 1223 c.c. secondo le

circostanze del caso.

Per lungo tempo il risarcimento del danno alla persona veniva in considerazione per la

sola patrimonialità delle conseguenze e pertanto valutato secondo il concetto astratto di

“capacità lavorativa generica”, cioè in relazione alla perdita, causata dalla lesione subita, di

una generica capacità di produrre reddito. Venivano così risarciti tutti quei pregiudizi che

diminuivano il valore della persona senza tuttavia intaccarne il reddito e, proprio per tale

motivo, ne erano destinatari tutti i soggetti, indipendentemente dallo svolgimento di

un’attività lavorativa in senso proprio (studenti, casalinghe, ecc.)

Per la liquidazione di tale danno il giudice poteva procedere all’assegnazione di una

somma, alla determinazione di una rendita o ad una capitalizzazione del mancato guadagno

in relazione alla presunta durata della vita lavorativa.

La prassi che andò tuttavia consolidandosi utilizzava il metodo della capitalizzazione

anticipata. Ipotizzando che la percentuale di invalidità accertata si ripercuotesse in egual

misura sulla generica capacità lavorativa si procedeva alla valutazione del futuro

pregiudizio attraverso un calcolo che teneva in considerazione il guadagno, la percentuale

di menomazione e l’età. Tale quantificazione non poteva tuttavia ipotizzarsi come equa,

risarcendo allo stesso modo anche soggetti che, in concreto, non avevano subito lo stesso

pregiudizio.

Danno morale

L’art. 2059 c.c. venne considerato, dalla sua introduzione, come norma legittimante il

riconoscimento del solo danno morale soggettivo, cioè di quel patema d’animo e quella

sofferenza di origine psichico che il leso è costretto a sopportare in conseguenza

dell’illecito. Il risarcimento veniva infatti qualificato come pretium doloris e veniva

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36

inscindibilmente collegato all’art. 185 c.p., limitandone quindi il riconoscimento alle sole

ipotesi di fatto-reato indipendentemente dalla componente volontaria dell’azione e

dall’esistenza di una condanna penale. La previsione di una condanna al pagamento di una

somma era riconducibile, nelle intenzioni del legislatore, alla volontà di rafforzare la

sanzione principale.

Titolari del diritto al risarcimento del danno morale sono il danneggiato stesso ed i suoi

familiari, iure proprio , mentre i legittimati passivi sono, in solido, l’autore dell’illecito ed

il responsabile civile (nel caso di sinistro stradale, ad esempio, il conducente, il proprietario

del veicolo e l’assicuratore).

Il danneggiato non è tenuto a quantificare il pregiudizio arrecatogli ma gli sarà sufficiente,

ai fini risarcitori, dare prova del fatto che ha prodotto le lesioni.102

A seguito di alcune importanti sentenze della Corte di Cassazione risalenti al 2003103, al

danneggiato è stato inoltre riconosciuto il diritto al riconoscimento del danno morale

anche qualora si fosse in presenza di una mera presunzione di colpa (es. art. 2054 2°

comma). Tale orientamento è stato avallato dalla Corte Costituzionale che con la sentenza

11.7.2003 n. 233, ha ricompreso “la fattispecie corrispondente nella sua oggettività

all’astratta previsione di una figura di reato, con la conseguente possibilità che, ai fini

civili, la responsabilità sia ritenuta per effetto di una presunzione di legge”

Il giudice civile può autonomamente procedere al riconoscimento ed alla successiva

liquidazione del danno morale, ma l’accertamento del fatto è imprescindibile e va attuato

secondo i criteri che governano il procedimento penale. La liquidazione del danno morale

compete al giudice e viene affidata alla sua concreta valutazione; potrà, ai fini della

quantificazione, utilizzare criteri “tabellati” (normalmente ancorati ad una frazione del

danno biologico – da ¼ ad ½ a seconda della gravità del caso), ma dovrà apportare i

correttivi necessari a valorizzare la specificità del caso.104

102 La Corte di cassazione con la sent. 10/1/2007 n. 238 conferma, in tema di risarcibilità del danno non patrimoniale, che in presenza di una fattispecie contrattuale, quale il contratto di lavoro, non può sussistere alcuna incompatibilità tra responsabilità contrattuale e risarcimento del danno morale, atteso che la fattispecie astratta di reato è configurabile anche nei casi in cui la colpa sia addebitata al datore di lavoro per non aver fornito la prova liberatoria richiesta dall'art. 1218 cod. civ. 103 N. 7281-7282 – 7283 del 12/5/2003 104 Cass. 12/5/2006 n. 11039

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37

Diverso dal danno morale è il danno psichico, vera e propria malattia (ed in quanto tale

componente autonoma del danno alla salute) che consiste nella rinuncia ad attività

esistenziali ed è accertabile solo attraverso un giudizio medico legale.

Danno biologico

In antitesi al vecchio sistema risarcitorio previsto dal nostro codice, la giurisprudenza di

merito avvertì l’esigenza di valutare il soggetto leso nella totalità della sua persona e non

solo per la sua capacità economica e, in conseguenza, vennero in considerazione altri

elementi che connotavano il danno realmente subito. A partire dal 1974 si individuò un

tertium genus, che traeva la sua origine dall’art. 32 Cost. ed è identificabile con l’integrità

psico-fisica di per sé considerata, la cui lesione è comune ad ogni soggetto e va

indennizzata in modo equanime, rapportando l’entità del danno ad un parametro

uniforme.105

L’ipotesi del c.d. tertium genus venne presto abbandonata e l’obbligo del risarcimento del

danno biologico venne ricondotto al vasto contenuto dell’art. 2043 c.c., che contempla

l’obbligo generale di risarcimento del danno ingiusto, cioè della lesione di un interesse

giuridicamente tutelato. La rinnovata interpretazione si fondava sull’immediata precettività

dei diritti primari ed assoluti – quali il diritto alla salute – nell’ambito dei rapporti

intersoggettivi, così come confermato dalla stessa Corte Costituzionale.106

Parte della magistratura riteneva tuttavia che sussistesse comunque un dubbio di

costituzionalità, ex art. 2059 c.c., considerando come tale norma potesse comunque

limitare la già affermata posizione soggettiva direttamente tutelata dalla Costituzione.

La corte Costituzionale, con la sentenza 14/7/1986 n. 184, dichiarò infondata la questione,

riconducendo la risarcibilità del danno biologico al combinato disposto degli artt. 32 Cost.

e 2043 c.c..

La motivazione della sentenza era assai articolata e, in sintesi, si affermava che l’art. 2059

c.c. è da riferirsi al solo danno morale soggettivo, mentre l’art. 2043 c.c. è da considerarsi

come rappresentazione di una sanzione per chi provoca ad altri un danno ingiusto, ma

giacchè non indica espressamente le ipotesi in cui ciò si verifica, affinché queste possano

esplicitarsi, dovrà essere fatto riferimento ai diritti soggettivi inviolabili che la Carta

105 Le prime sentenze in tal senso furono emanate dal Tribunale di Genova, sent. 25/5/1974 e 20/10/1975 106 Che con la sentenza 26/7/1979 n. 88 ha incluso, tra gli interessi meritevoli di tutela, ex art. 2043 c.c., anche quelli protetti dalla Costituzione.

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38

Costituzionale individua. Veniva quindi effettuata un’importante distinzione tra il “danno

evento”, identificato nel danno biologico, in quanto indipendente dagli arrecati pregiudizi

patrimoniali e morali, questi ultimi identificati invece come “danni conseguenze”, dal

carattere eventuale ed esterni al fatto illecito.

Dopo tale pronuncia la Corte Costituzionale continuò a valorizzare la sussistenza e

l’importanza del danno biologico, seppure con modalità non del tutto lineari, così

riassumibili: “ con la sentenza del 1979 la fonte di tutela della salute è ravvisata nell’art.

2059 c.c., nel 1986, per evitare l’abbattimento di tale norma, il risarcimento del danno

biologico è affidato all’art. 2043 c.c. combinato con l’art. 32 Cost.; infine nel 1994 e 1996

si adotta un sistema misto, con riferimento all’ipotesi di danno biologico per il decesso del

congiunto”.107

Tali pronunce in realtà non fecero che confermare la tendenza espressa dalla S.C., ormai

orientata verso la risarcibilità del danno biologico come componente del “danno

ingiusto”di cui all’art. 2043 c.c.

In un primo momento, sull’esempio della scuola genovese, il danno biologico veniva

calcolato utilizzando quale parametro il triplo della pensione sociale, ma ben presto si

ritenne questo metodo incongruo poiché, come evidenziato dalla S. C. 108, esso assumeva

comunque come parametro un reddito, impedendo una personalizzazione del risarcimento.

L’evoluzione di tale orientamento portò all’elaborazione delle tabelle di Pisa e quindi di

quelle di Milano che adottarono il criterio del cosiddetto “punto variabile”. La liquidazione

del danno assumeva quale base la media del valore risarcito nei procedimenti giudiziari del

distretto, rettificato secondo criteri stabiliti non solo in base al sesso ed all’età, ma anche

in relazione all’accertato grado di invalidità permanente residuato. Il valore del punto si

modifica, dunque, in misura più che proporzionale all’aggravarsi della lesione, mentre

diminuisce in misura proporzionale all’età del soggetto. L’importo ottenuto poteva poi

essere dal giudice equitativamente aumentato, in considerazione della specificità del caso.

107 G. Marando “Responsabilità…” cit. pag. 375. Con la sentenza 372/1994 la Consulta si pronunciò in merito al diritto al risarcimento del danno biologico ai familiari anche nell’ipotesi di lesioni non mortali del congiunto (danno conseguenza); con l’ordinanza 22/7/1996 n. 293 precisò il contenuto della sentenza appena richiamata, chiarendo che il danno morale non è considerabile lesione della salute psico-fisica (oggetto era una particolare ipotesi di somatizzazione in capo ai congiunti della vittima) e pertanto si era proceduto a parificare il trattamento delle due figura ex art. 2059 c.c. 108 Sentenza 13/1/1993 n. 357

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39

Conformandosi pienamente alle indicazioni della Consulta109, il metodo del punto variabile

venne adottato in modo pressoché uniforme dalla magistratura.

Va tuttavia rilevato che il principio innovatore di un’autonoma categoria di danno, che

andava a risarcire il pregiudizio indipendentemente dalla condizione sociale o dalla

capacità produttiva del singolo, si scontrò con la sua concreta applicazione, a causa degli

innumerevoli criteri valutativi che i vari tribunali elaborarono e che, ben presto, produssero

risultati di assoluta disuguaglianza.110

Sebbene la necessità di fornire regole comuni alla determinazione del danno biologico sia

assai sentita, il legislatore non ha ancora provveduto ad una disciplina organica sul danno

biologico, realizzando solo alcuni interventi in settori specifici.

L’art. 13 del D. Lgs. 38/2000, di cui si parlerà più diffusamente nel seguito, fornisce la

prima definizione del danno biologico: “In attesa della definizione di carattere generale di

danno biologico e dei criteri per la determinazione del relativo risarcimento, il presente

articolo definisce, in via sperimentale, ai fini della tutela dell'assicurazione obbligatoria

conto gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali il danno biologico come la lesione

all'integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona. Le

prestazioni per il ristoro del danno biologico sono determinate in misura indipendente

dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato”, mentre il D.L. 28/3/2000 n. 70

(disposizioni urgenti per il contenimento delle spinte inflazionistiche) non convertito in

legge e con la successiva legge 5/3/2001 n. 57 che riprende buona parte del suo contenuto,

fornisce, all’art. 5, una definizione assai simile: “.. lesione dell’integrità psico-fisica della

persona suscettibile di accertamento medico legale, il danno biologico è risarcibile

indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito del

danneggiato”. (unica differenza è ravvisabile nella valutazione, piuttosto che

nell’accertamento medico legale).

Al fine di raggiungere l’auspicata valorizzazione soggettiva, viene introdotta la possibilità

per il giudice di deliberare un aumento non superiore ad un quinto, “con equo e motivato

apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato”.

109 Che con la sentenza 184/1986 raccomandava di adeguare la liquidazione alla peculiarità del caso concreto, evitando il pericolo di una liquidazione che tendesse ad un eccessivo livellamento o che di fatto duplicasse il risarcimento. 110 Basti pensare, ai diversi criteri elaborati dai Tribunali, limitrofi, di Reggio Emilia, Modena (che applicava le tabelle Milanesi) e Bologna dove la medesima lesione riceveva risarcimenti assai diversi

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L’operatività della disposizione è limitata al settore dell’assicurazione obbligatoria RCA ed

ha per oggetto, oltre alla inabilità temporanea, le sole cosiddette micropermanenti, ossia le

invalidità permanenti accertate in misura inferiore al 9%.

Qualora l’entità della lesione superi tale soglia, in attesa dell’elaborazione della tabella

prevista dall’art. 32 della legge 273/2002, ci si continuerà ad affidare alla comune prassi

giudiziaria.

Danno esistenziale

Mentre l’introduzione del concetto di danno biologico ha consentito di superare la

dicotomia tra danno patrimoniale e danno morale, l’evoluzione giurisprudenziale del

concetto di danno ha condotto, negli anni, all’individuazione di nuove tipologie di

pregiudizi per la persona che necessitavano di tutela.

La genesi di tale processo è da far risalire alla storica sentenza della Corte Costituzionale

17/7/1986 n. 184 con la quale, al fine di consentire una piena tutela del diritto alla salute

evitando le “strettoie” previste dall’art. 2059 cod. civ. 111, si confermò il principio di stretto

collegamento tra l’art. 2043 cod. civ. e l’art. 32 della Costituzione.

Estendendo le ipotesi del realizzarsi del danno non patrimoniale, venne gradualmente

identificato il pregiudizio identificato come danno esistenziale, risarcibile secondo la

giurisprudenza di merito, in base al combinato disposto dell’art. 2043 cod. civ. e articoli 2

e 29 della Costituzione, applicando il medesimo procedimento giuridico a suo tempo

utilizzato per riconoscere l’esistenza del danno biologico.

Nella sfera del danno esistenziale vanno contemplati tutti i casi che non possano ricondursi

alle fattispecie del danno biologico (inteso come lesione psico-fisica oggetto di

accertamento medico legale), del danno morale (pretium doloris) e del danno patrimoniale,

che si concretizzano, in definitiva “nella perdita di un’attività dell’esistenza

rappresentativa di un interesse tutelato dall’ordinamento, la cui lesione crea un danno

ingiusto e quindi risarcibile, per l’art. 2043 cod. civ.”112

111 G. Marando “Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro” Milano, 2003 pag. 453 112 G. Marando, ibidem, pag. 459 Tra le tipologie di pregiudizi ricondotti a danno esistenziale si possono ricordare le forzose rinunce alla svolgimento di attività non remunerative, quali ad esempio attività biologiche familiari ed affettive, associative, sportive e ricreative.

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Questa nuova figura riassumerebbe dunque in sé tutti i pregiudizi ulteriori rispetto al danno

biologico e morale, prevedendo ciò che il nostro ordinamento di fatto non contempla, cioè

la risarcibilità, in senso generale, di qualsivoglia pregiudizio di carattere non patrimoniale.

Come intuibile, l’accoglimento senza riserve di tale orientamento condurrebbe ad un

coacervo di situazioni non direttamente connesse all’ambito normativo.

La Corte di Cassazione, recepito il rischio di questa indeterminatezza e la spinta ad

un’esasperata risarcibilità, ha puntualizzato la necessità di accertare, in concreto, se la

persona abbia subito un danno a causa di un comportamento incidente su diritti inviolabili (

ed in quanto tali ben specificati nell’ambito del nostro ordinamento)113.

Ma, mentre le sentenze della Cassazione non nominano esplicitamente la figura di danno in

oggetto 114, la Consulta, con la sentenza 223 del 2003, “rileggendo” l’art. 2059 cod. civ.,

vi ricomprende ogni danno di natura non patrimoniale derivante dalla lesione di valori

inerenti alla persona, riferendosi tanto al danno biologico in senso stretto quanto al “danno

(spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza esistenziale) derivante dalla lesione di

(altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”.115

Come autorevolmente osservato, la corretta identificazione degli interessi di rango

costituzionale assume dunque un ruolo di assoluta centralità, poiché “il rischio, assai

concreto, è infatti quello di una costituzionalizzazione strisciante ed indiscriminata di ogni

aspetto della personalità sotto il comodo riparo offerto dalla previsione contenuta nell’art.

2 Costituzione, specie se intesa come norma aperta”116

Correttamente, dunque, il danno esistenziale può essere definito come un “danno di

carattere non patrimoniale e che attinge a beni ed interessi costituzionalmente tutelati,

113 Cass. 3/4/2001 n. 4881 e 10/5/2001 n. 6507 Come evidenziato da Zivit in “Il danno non patrimoniale” in AA. VV. “La responsabilità civile” (a cura di Cendon) vol. VII Torino, 1998, pag. 372 tali decisioni furono pronunciate per la necessità sopravvenuta di evitare che la magistratura di merito, al fine di offrire ristoro alle più svariate tipologie di lamentate lesioni, individuino (o addirittura creino) ex post, un diritto soggettivo di rilievo costituzionale in capo al danneggiato. 114 Cass. 8827 e 8828 del 2003 115 La sent. Cass. 15/7/2005 n. 15022 riafferma il principio secondo il quale le norme costituzionali, che attengono a valori inviolabili della persona umana non solo hanno efficacia precettiva nei confronti dello Stato, ma sono immediatamente efficaci nei rapporti privatistici. 116 S. Giubboni “ Infortuni e malattie professionali” Milano 2005, pag. 996

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42

inerenti l’esistenza dei singoli e la qualità alla vita o comportanti la lesione di vari beni

immateriali”.117

2.2 L’assicurazione obbligatoria: oggetto e prestazioni

Come già evidenziato nel corso della trattazione, l’ente pubblico è stato chiamato a

svolgere nel nostro ordinamento una funzione indennitaria, che “rappresenta, come è noto,

l’eliminazione del danno, non il risarcimento di esso in senso tecnico”118 nei confronti di

tutti quei lavoratori che abbiano subito un infortunio sul lavoro o abbiano contratto un

malattia professionale.

Oggetto della copertura assicurativa è la tutela degli infortuni e delle malattie professionali.

Infortunio professionale

L’art. 2 T.U. 1124/1965 offre una definizione di infortunio professionale, qualificando

come tale l’infortunio “avvenuto per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia

derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero

un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per più di tre

giorni”.

I requisiti essenziali affinché all’evento possa conseguire un indennizzo da parte

dell’assicuratore sociale sono dunque rappresentati dall’esistenza di una lesione, dalla

causa violenta e dall’occasione di lavoro. Più precisamente:

� per lesione deve intendersi ogni alterazione, sia esterna che interna, apparente o no,

anatomica o funzionale, sofferta dall’organismo fisio-psichico del lavoratore119

� Per causa violenta veniva inizialmente inteso qualunque fattore esterno che in

modo subitaneo, concentrato nel tempo ed imprevedibile, arrecava al lavoratore una

lesione. Successive pronunce della suprema corte hanno invece esteso la portata di

117 Buffa “Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro” Torino, 2005, pag. 42 118 Alibrandi “Infortuni…” cit. pag. 145, cui si rimanda per un’approfondita analisi della natura e della funzione giuridica dell’assicurazione infortuni sul lavoro e malattie professionali e sulla qualificazione dell’assicurazione sociale come “sollievo dal bisogno” attraverso l’organizzazione di un servizio pubblico. 119 Circolare INAIL 7/67 del 15/2/1988

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43

tale concetto, tanto da valutare violenta anche quella causa che non sia determinata

da un fattore esterno, ma dall’attività normalmente svolta dal lavoratore120

� L’occasione di lavoro condiziona il carattere professionale dell’evento, in quanto

ne rappresenta la particolare eziologia e si configura in presenza del cosiddetto

“rischio specifico”: l’infortunio diviene cioè indennizzabile solo quando l’evento

lesivo risulti direttamente relazionabile agli elementi che costituiscono le

condizioni oggettive dell’attività realizzata. Vi rientrano pertanto tutti i fatti

verificatisi nell’ambiente lavorativo, anche a causa di macchine e/o persone

presenti (inclusi i terzi).

Se di norma il verificarsi del cosiddetto rischio generico – definibile come il

rischio comune a tutti gli individui, cioè indipendente dalle peculiari condizioni

lavorative - si ritiene interrompa il nesso di causa, va segnalata qualche pronuncia

giurisprudenziale che valuta in modo estensivo il concetto di “occasione di lavoro”,

facendovi rientrare anche quegli eventi in cui possa rilevarsi un rischio aggravato e

quelli verificatisi durante un’azione prodromica o consequenziale alla propria

attività lavorativa121

L’infortunio in itinere rappresenta una particolare situazione, da ricondursi ad un

“generico” rischio della strada, che incombe certamente non solo sul lavoratore. Tuttavia

tale rischio può essere aggravato da elementi che possono di fatto strettamente collegarlo al

concetto di occasione di lavoro. Sul tema gli orientamenti circa l’indennizzabilità erano

tutt’altro che univoci e, a dirimere la questione, è intervenuto il D. Lgs. 38/2000 che

comprende gli infortuni subiti dalle persone assicurate durante il normale tragitto di

andata/ritorno dall’abitazione al luogo di lavoro (e, in assenza di servizio mensa, anche

nella pausa del pranzo, per il tragitto compreso tra il luogo di lavoro e quello ove si

120 Cit. ad es., le sentenze di seguito indicate che annoverano, nell’ambito infortunistico, alcune situazioni del tutto particolari. Sent. 10/01/2003 n. 239 in tema di “sforzi” e sollecitazioni che il lavoratore si trova a dover compiere e cass. 27/9/2000 n. 12798 e 27/10/00 n. 14085 in relazione all’infarto che aveva colpito il lavoratore sottoposto a turni troppo gravosi o ad eccessivi impegni. 121 Si pensi, quale ipotesi di rischio aggravato, alla folgorazione, cui sicuramente è maggiormente esposto, rispetto alla comunità degli individui, un lavoratore che operi in prossimità di alberi ad alto fusto o tralicci elettrici. Tra le altre, la Sent. Cass. 7/4/2000 n. 4433, che riconosceva l’indennizzabilità anche nell’ipotesi di una caduta aggravata dalla presenza di attrezzi da lavoro sul pavimento

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consuma il pranzo) anche utilizzando un mezzo di trasporto privato, purchè necessitato. 122

Non rientrano in ogni caso tra gli infortuni in itinere, ma sono al contrario inquadrabili

come infortuni sul lavoro quegli eventi che, pur originati dal rischio stradale, accadano

nell’arco di spazio e di tempo riferibili alla normale prestazione lavorativa ed in

collegamento con la stessa.

Malattia professionale

L’indennizzo della malattia professionale, cioè di ogni alterazione dello stato di salute non

dipendente da infortunio, è prevista dagli art 3 e 211 T.U.

Il T.U. prevede un “numero chiuso” di malattie professionali e l’allegato 4 specifica, per le

sole attività di tipo industriale, le patologie che godono di tutela ed il periodo massimo

della loro indennizzabilità dalla data di cessazione del lavoro (la medesima disciplina si

applica per il settore agricolo, ex art. 211 e tabella 5 del T.U.).

L’assicurazione contro le malattie professionali opera dunque a condizione che la patologia

sia insorta e si sia sviluppata a causa dell’esercizio dell’attività lavorativa tutelata.

La tecnopatia si caratterizza e si differenzia rispetto all’infortunio, fra l’altro, anche per la

natura del rapporto eziologico, poiché non è sufficiente al suo manifestarsi, un rapporto di

occasionalità tra lavoro ed evento, ma è necessario un rapporto di causalità. Ulteriore

differenza si ha in relazione alle modalità in cui si verifica la lesione: nell’infortunio la

causalità ha una manifestazione violenta (subitanea, concentrata nel tempo), mentre nella

tecnopatia il tratto caratteristico è dato dall’esposizione al rischio ripetuta nel tempo.

La sentenza della Corte Costituzionale 18/2/1988 n. 179 ha dichiarato, in riferimento

all’art. 38 e 3 della Costituzione, l’illegittimità costituzionale degli artt. 3 e 211 T.U., nelle

parti in cui non veniva prevista la tutela di quelle malattie che, pur non essendo incluse

nelle tabelle allegate al T.U., erano comunque state causate da lavorazioni soggette a tutela

INAIL. Veniva dunque così introdotto nel nostro ordinamento il c.d. “sistema misto”, che

prevede una diversa procedura per la richiesta del riconoscimento di un indennizzo per 122 Tale requisito era, già anteriormente al D. Lgs. 38/2000 univocamente richiesto dalla Giurisprudenza della S.C. al fine dell’indennizzabilità dell’evento. Si cita, ad esempio, la sent. Cass. 21/04/1999 n. 3970, con la quale veniva chiarito come il rischio generico della strada può diventare rischio specifico di lavoro quando al primo si accompagni un elemento aggiuntivo e qualificante, per il quale l’infortunio su strada viene a trovarsi in rapporto di stretta e necessaria connessione con gli obblighi lavorativi. Di recente, con la sentenza 27/7/2006 n. 17176 si è chiarito che non possono farsi rientrare nel rischio coperto dalle garanzie previste dalla normativa infortuni quelle situazioni che, senza rivestire carattere di necessità, rispondano invece ad aspettative, pur legittime, di comodità o minor disagio. Tali ultime situazioni non rivestirebbero infatti uno spessore tale da giustificare un intervento di tipo solidaristico a carico della collettività. Sono in ogni caso esclusi dalla tutela gli infortuni direttamente cagionati a seguito di violazione di norme di legge (abuso di alcolici, di sostanze stupefacenti o psicofarmaci, nonché la mancata abilitazione alla guida).

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aver contratto una malattia professionale, a seconda che si tratti di una malattia “tabellata”

(cioè inclusa tra le patologie espressamente indicate nelle tabelle di legge, causata dalle

lavorazioni ivi indicate) o di una malattia“non tabellata”. In quest’ultimo caso, non

sussistendo alcuna presunzione legale d’origine, il lavoratore potrà vedersi riconosciuta

qualsiasi malattia contratta a causa delle lavorazioni protette di cui al T.U., ma solo nel

caso in cui egli dia prova dell’origine professionale di tale patologia.123

Tale prova deve essere valutata in termini di ragionevole certezza; può essere cioè

ravvisata solo in presenza di un elevato grado di probabilità (e non di mera possibilità), da

accertarsi caso per caso124

Il D. Lgs. 38/2000, anche in adempimento alle raccomandazioni CEE degli ultimi anni, ha

previsto, all’art. 10, l’istituzione di una commissione scientifica per l’elaborazione e la

revisione periodica dell’elenco delle malattie professionali (con decreto del Ministero del

Lavoro e della Previdenza Sociale, di concerto con il ministero della Sanità, sentite le

OO.SS. nazionali di categoria maggiormente significative).

Il D.M. 27/4/2004 ha introdotto un elenco delle malattie professionali per le quali è

obbligatoria la denuncia per ogni medico che ne riconosca l’esistenza e lo suddivide in tre

liste, a seconda che l’origine lavorativa sia di elevata o limitata probabilità, oppure

possibile.

Nell’ambito delle nuove patologie denunciate all’ente al fine del riconoscimento della

malattia professionale, particolare rilievo assume il fenomeno definito Mobbing.

Va operata al proposito una preliminare definizione del Mobbing in senso proprio, che

deve intendersi come un’organizzazione volontaria lesiva che pone in essere atti e

123 Permane l’onere della prova a carico del lavoratore anche per l’ipotesi di malattie tabellate qualora queste non vengano denunciate nei termini massimi di indennizzabilità previsti dalla legge per cui, se il lavoratore dimostra che la malattia si è manifestata entro i suddetti termini, si applica la presunzione legale, mentre, in assenza della richiesta dimostrazione, il lavoratore avrà anche l’onere di provare la natura professionale della malattia. 124 In particolare, a proposito dell’ipoacusia, la S.C., con la sentenza 24/3/2003 n. 4292 ha ritenuto valida, pur in assenza di una causa certa, la prova della probabilità, valutata in ragione dell’esposizione professionale al rumore prolungata nel tempo e nell’intensità, tale da svolgere un rapporto causale. Sul tema l’INAIL, con la circolare 1672/06, evidenzia un radicale mutamento dei caratteri delle malattie professionali spesso a genesi multifattoriali e dal lento decorso. Seguendo l’orientamento giurisprudenziale adotta, per il riconoscimento della tecnopatia quale malattia professionale – qualora non sia possibile un riscontro certo delle condizioni esistenti – la possibilità di desumere tali condizioni “con un elevato grado di probabilità, dalla tipologia delle lavorazioni svolte, dalla natura dei macchinari presenti nell’ambiente di lavoro e dalla durata della prestazione lavorativa” La valutazione finale dell’esposizione al rischio è rimessa alla funzione medico-legale, poiché richiede un giudizio di sintesi che tenga conto non soltanto dell’entità dei fattori di nocività presenti nell’ambiente di lavoro, ma anche della variabilità della sensibilità dello specifico soggetto che agli stessi è stato esposto”.

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comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo a danno di lavoratori da parte

del datore di lavoro (bossing) o di colleghi, attuati in forma persecutoria ed aventi effetto

sulla psiche.125

Diversa sotto il profilo della volontà è la costrittività organizzativa, che si realizza

attraverso un insieme di azioni che inducono sì sofferenza emotiva nel lavoratore, ma

senza predeterminazione.

Entrambe le situazioni sono oggetto di tutela, ex art. 2087 c.c.,in quanto si individua in

capo al datore di lavoro l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare la

personalità morale del prestatore di lavoro 126 ma, al fine di distinguere le due tipologie di

sofferenza psichica realizzata in ambiente lavorativo, l’INAIL ha individuato una serie di

parametri che ne consentano l’esatta qualificazione (frequenza, durata, tipo di azione,

l’andamento secondo fasi successive – modello di EGE- l’intento persecutorio).127

Altrettanto pacifica è l’estensione di responsabilità civile del datore, oltre che per l’ipotesi

di bossing anche nel caso in cui il comportamento vessatorio sia imputabile ai suoi

collaboratori (ex art. 1228 c.c.), superiori gerarchici del lavoratore, a prescindere dalla

conoscenza e persino dalla conoscibilità delle condotte realizzate dagli ausiliari e dalla

diligenza profusa per controllarne l’operato.128

Le prestazioni erogate dall’INAIL, ai sensi dell’art. 66 del T.U. sono costituite da:

� un’indennità giornaliera per inabilità temporanea,

� una rendita per inabilità permanente qualora l’invalidità accertata fosse superiore

all’11% (ora modificata dal D.Lgs. 38/2000),

� un assegno per assistenza personale continuativa, una rendita ai superstiti una

tantum in caso di morte

� cure mediche e chirurgiche (compresi gli accertamenti clinici)

125 Può realizzarsi,come affermato dalla S.C. con sent. 6/3/2006, con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato. 126 Smuraglia “La sicurezza del…” cit., pag. 86 127 La sentenza del TAR del Lazio 4/7/2005 n. 5454 ha statuito che il mobbing non può essere trattato alla stregua di una malattia tabellata, poiché indispensabile è la dimostrazione del nesso di causalità 128 M. T. Carinci “Il mobbing: alla ricerca della fattispecie” in “Mobbing, organizzazione, malattia professionale – quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni industriali” Torino, 2006, pag.. 45, cui si rimanda per un’approfondita analisi del tema

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47

� la fornitura di apparecchi di protesi.

Mentre alcune forme indennitarie non hanno subito sostanziali modificazioni, il sistema

infortunistico pubblico, che si ricollega al diritto comune sotto i due profili della

responsabilità e del danno attraverso le azioni dell’Istituto e dell’infortunato (artt. 10 e 11

T.U.),129 non poteva restare indifferente alla problematica del danno biologico, il cui

riconoscimento si era via via consolidato nella prassi quotidiana.

Con il citato D. Lgs. 38/2000 si è pertanto provveduto ad un radicale riassetto del sistema

indennitario, anche alla luce della vasta elaborazione di dottrina e giurisprudenza ed in

particolare della sentenza della Corte Costituzionale 15/2/1991 n. 87.130

E’ ora previsto un indennizzo base per il danno biologico qualora venga accertata una

lesione dell’integrità psicofisica pari o superiore al 6%. Tale indennizzo è determinato

senza alcun riferimento alla retribuzione del soggetto leso e ad esso andrà cumulato, in

caso di invalidità permanente pari o superiore al 16%, una quota anche a titolo di danno

patrimoniale.

Quindi, ove si accerti una invalidità permanente biologica inferiore al 6% nulla viene

corrisposto oltre all’indennità per la inabilità temporanea e le eventuali spese; nella fascia

valutativa dal 6 al 16% viene erogata un’indennità in capitale (e pertanto in un’unica

soluzione) per il solo danno biologico; oltre la soglia del 16% viene corrisposta una rendita

il cui importo è calcolato integrando il danno biologico con un quid di danno patrimoniale

determinato in modo automatico, in via presuntiva, senza una verifica reale della diminuita

capacità lavorativa.131

Il sistema, che segna la fine di un’epoca durata circa un secolo, ristora un danno tenendo in

considerazione l’individuo non più solo per la sua capacità di produrre reddito, ma anche

129 G. Marando, “Responsabilità..” cit., pag. 440 130 Con la sentenza citata la Consulta sottolineava la necessità che l’assicurazione infortuni comprendesse, tra le sue garanzie, anche il rischio della menomazione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, legata casualmente all’esercizio della propria attività lavorativa ed indipendentemente dalle conseguenze ulteriori che ne dovessero derivare. 131 L’art. 13 rinviava, per la determinazione delle indennità, ad apposite tabelle, poi approvate con D.M. 12/07/2000 ed annualmente revisionabili. Le tabelle sono quattro e riguardano: 1) L’entità delle menomazioni, che ha costituito il primo barème per la valutazione delle lesioni; 2) il valore del punto di invalidità per la liquidazione del danno biologico dal 6 al 15%. E’ stato adottato il cosiddetto “punto variabile”, differenziato per sesso e direttamente proporzionale alla percentuale di invalidità permanente riscontrata; 3) valore della rendita annua per il danno biologico a partire dal 16%; 4) i coefficienti di riduzione del reddito da applicarsi, presuntivamente, nel caso di riscontrata invalidità pari o superiore al 16%.

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sotto il profilo della integrità e validità. Da ciò trae beneficio non solo il lavoratore, ma

indirettamente anche il datore di lavoro, che vede ampliata l’area di esonero dalla comune

responsabilità civile.

Capitolo 3. Le azioni di risarcimento

La profonda trasformazione del concetto di danno risarcibile, che aveva come obiettivo il

ristoro integrale dei pregiudizi subiti dalla persona lesa ha di fatto provocato, come

illustrato, duplicazioni e talvolta un raddoppio degli indennizzi.

Il legislatore ha tentato, con alcuni interventi (v. l’introduzione del danno biologico con il

D.Lgs. 38/2000 tra le prestazioni dell’INAIL), di avvicinare i due sistemi, civile e

previdenziale, ma i criteri che li sovrintendono non sono ancora sovrapponibili e pertanto

viene determinato un diverso ammontare dei risarcimenti.

Mentre in linea generale in ambito civilistico il soggetto leso deve essere integralmente

risarcito nella sua individualità, l’assicurazione obbligatoria ha il fine di liberare dal

bisogno l’infortunato ed ottiene tale risultato applicando criteri automatici, di rapida

individuazione.

Proprio al fine di evitare le incongruenze rilevabili nella gestione del sinistro verificatosi in

ambito lavorativo, la giurisprudenza, con un ormai consolidato orientamento, ha chiarito

la necessità di evitare duplicazioni del danno e perciò ha attribuito al soggetto leso la

possibilità di agire solo per la quota di danno “differenziale” che residua dalla

quantificazione civilisticamente dopo la soddisfazione del credito vantato dall’INAIL.132

3.1 Le azioni di rivalsa dell’INAIL: regresso e surroga

All’istituto competono due distinte azioni da esercitare nei confronti del responsabile

dell’infortunio o della malattia professionale, genericamente definite azioni di rivalsa.

132 V. da ultimo, la sentenza Cass. 15/7/2005 n. 15022

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Si distinguono, a seconda del soggetto passivo, in:

� Azione di regresso, esercitabile nei confronti del datore di lavoro, anche per

persone delle quali debba rispondere

� Azione di surroga, prevista nei confronti del terzo responsabile, estraneo al

rapporto di lavoro

L’azione di regresso, il cui il tratto distintivo è dato dalla possibilità, per chi ha pagato il

debito di un altro soggetto, di agire nei confronti di quest’ultimo per il recupero

dell’importo, è limitata nel nostro ordinamento ad ipotesi ben determinate e tassative.

Trova, per il settore del quale ci si occupa, il suo fondamento nell’art. 11 del TU 124/1965

ove si è conservato, accanto alla funzione tipica dell’assicurazione infortuni di tutela del

lavoratore, l’effetto “riflesso di un parziale esonero da responsabilità quale corrispettivo

dell’integrale onere dei premi imposto al datore”133

L’ente pubblico, anche se obbligato da un rapporto previdenziale nei confronti

dell’assistito, in sostanza paga un debito che in realtà competerebbe al datore in presenza

del versamento di un premio che, va ricordato, non va a coprire il rischio di infortunio

derivante dal concretarsi di un fatto-reato.134

Si può pertanto individuare la fattispecie costitutiva del regresso nella sussistenza degli

stessi elementi che vanno ad annullare l’esonero: la responsabilità civile del datore di

lavoro per un fatto-reato commesso da questi o da un suo collaboratore, la perseguibilità

d’ufficio del reato ed il verificarsi di un infortunio sul lavoro (art. 2 T.U.); condizione di

esercizio per l’azione è l’avvenuto pagamento delle prestazioni all’assicurato-infortunato.

Le decisioni della Corte Costituzionale risalenti agli anni ’90 (87/1991-356/1991-

485/1991) hanno rappresentato una svolta decisiva in merito alla scindibilità del danno

risarcibile, ridimensionando le possibili richieste dell’ente.

Mentre sino a quel momento l’INAIL poteva surrogarsi nei diritti del proprio assicurato

verso il terzo fino alla concorrenza dell’intera indennità erogata, ai sensi dell’art. 1916 c.c.,

dopo i citati interventi della Consulta venne dalla giurisprudenza prevalente considerato

come, non riconoscendo l’Ente alcun danno biologico ai propri assistiti, solo questi ultimi

potevano vantare il diritto, nei confronti del terzo, a vedersi riconoscere questa parte di

133 Marando “Responsabilità..” cit. pag. 281 134 La Corte Costituzionale, con sentenza 22/6/1971 n. 134 ha chiarito che le prestazioni previdenziali, pure ammesso che trovino un autonomo titolo (nel rapporto assicurativo) si effettuano in sostituzione delle erogazioni che, a causa del medesimo evento dannoso sono poste a carico del datore di lavoro, assumendo perciò un carattere di anticipazione rispetto all’assolvimento dell’obbligo a carico del responsabile.

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danno. In conseguenza, l’INAIL avrebbe potuto agire nei confronti del terzo, entro i limiti

del danno civilisticamente risarcibile, per il solo danno patrimoniale.

Con l’introduzione del D. Lgs. 38/2000, come sopra precisato, l’INAIL eroga, in caso di

invalidità permanente accertata pari o superiore al 6%, un importo a titolo di danno

biologico, con la conseguente cessazione della necessità di scindere i diversi componenti

dell’importo complessivamente erogato in caso di rivalsa nei confronti del responsabile

civile.

A seguito della “rivoluzione” introdotta dal d. Lgs. 38, il problema dell’esperibilità e

dell’oggetto della rivalsa dell’INAIL si è proposto in misura importante.

Ci si è infatti chiesto se, qualora l’INAIL corrisponda una rendita per menomazioni

valutate oltre il 16% di invalidità permanente (in relazione alla diminuita integrità psico-

fisica), questi possa agire in rivalsa nei confronti del responsabile civile per l’intero

ammontare delle sue erogazioni o se, qualora non venisse riscontrata un’effettiva

limitazione della capacità lavorativa, le sue richieste debbano trovare il limite del solo

danno non patrimoniale riconosciuto. Sulla questione, di non poco valore, poiché

dall’oggetto dell’azione esercitata dall’INAIL dipenderà, ovviamente, l’entità del danno

“differenziale” da riconoscere al lavoratore, non si è ancora determinata una corrente di

pensiero prevalente.

La surroga

L’azione viene esercitata qualora l’infortunio sia cagionato, in tutto o in parte da un terzo

estraneo al rapporto assicurativo e l’ente abbia provveduto ad indennizzare il proprio

assistito.

In tal caso l’Istituto è legittimato alla successione del diritto di credito del leso, ex art. 1916

cod. civ., ma per l’esercizio di tale azione è tenuto a comunicare al responsabile,

esattamente come nell’ipotesi di cessione del credito di cui all’art. 1264 cod. civ., il

pagamento dell’indennizzo e la propria volontà di surrogarsi.

Ne deriva che eventuali atti dell’assicurato possano pregiudicare il diritto di rivalsa

dell’Istituto solo qualora gli stessi siano stati compiuti anteriormente all’avvenuta

comunicazione di surroga. 135

135 Qualora infatti l’assicuratore non si avvalga tempestivamente di tale facoltà ed il danneggiato (pur avendo già ricevuto l’indennità prevista dalla legge) agisca nei confronti del responsabile, ottenendo il completo risarcimento, il terzo potrà opporre (validamente) all’istituto la totale soddisfazione del debito.

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51

I termini per l’esercizio dell’azione sono i medesimi applicabili generalmente per il

danneggiato:

2 anni nel caso di responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli,

5 anni per l’ipotesi di responsabilità extra contrattuale e

10 anni per la responsabilità contrattuale

Sottostando ai principi applicabili in tema di risarcimento del danno, il debitore non può

opporre al creditore che le eccezioni che avrebbe potuto sollevare nei confronti del

creditore originario (il terzo non può dunque eccepire all’Istituto l’insussistenza dei

requisiti necessari per la qualificazione dell’evento come infortunio sul lavoro, trattandosi

di un’eccezione contrattuale relativa ad un rapporto in cui non è parte).

Tra le eccezioni che più frequentemente il danneggiante oppone all’Istituto vi è

sicuramente l’eventuale concorso di colpa dell’infortunato. Questi, con la sua azione,

concausa dell’evento, viene a limitare l’altrui responsabilità ed il conseguente risarcimento,

in ossequio al principio generale sancito all’art. 1227 1° comma, secondo cui “se il fatto

colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito

secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che sono derivate”. Tale

eccezione può ovviamente applicarsi alle sole azioni esperite nei confronti del responsabile

al fine dell’ottenimento di un risarcimento del danno, a differenza di quanto avviene in

ambito pubblicistico, ove non si dà alcun rilievo ad un eventuale concorso di colpa o ad

altrui responsabilità prima di erogare la prestazione assicurativa (fatta eccezione per i soli

fatti intenzionali, dovuti cioè a dolo e rischio elettivo).136

Ne consegue che, in caso di corresponsabilità del soggetto leso, l’Istituto non potrà che

surrogarsi nei diritti del danneggiato verso il responsabile civile, fino alla concorrenza

dell’indennità pagata, ma sempre entro i limiti del danno civilisticamente quantificato.137

136 Il dolo del lavoratore non rientra nel rischio assicurato per espressa volontà del legislatore (artt. 11 3° comma e 65 del TU) in ossequio al principio generale dettato dall’art. 1900 cod. civ., per il quale l’assicuratore non risponde dei sinistri cagionati dal dolo del contraente. Diversa è l’ipotesi del rischio elettivo, in cui il lavoratore volontariamente crea un rischio che non ha alcun rapporto con lo svolgimento del suo lavoro e che, magari, può essere in contrasto con questo o con le disposizioni che lo disciplinano. In questo caso l’evento non può essere considerato indennizzabile, poiché espressione non del rischio professionale assicurato, ma di quello selettivamente posto in essere dall’assicurato stesso. 137 Pertanto, ipotizzando che l’Istituto avesse erogato una rendita pari a 1000, che l’ammontare del danno civilisticamente accertato fosse pari a 1200 ed un concorso di colpa addebitabile al leso per una quota del 25%, l’Ente potrebbe agire in surroga per l’importo complessivo di 900 (75% di 1200).

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52

3.2 Le azioni del lavoratore.

L’autotutela Indipendentemente dal diritto di richiedere un intervento giudiziale, il lavoratore può

tutelare autonomamente il diritto allo svolgimento della sua prestazione senza rischio per la

sua salute.

Già in passato la dottrina maggioritaria aveva individuato il diritto del lavoratore di

astenersi dalla propria prestazione in presenza di un inadempimento del datore di lavoro

che non avesse rispettato gli standards previsti in tema di sicurezza.138

Un eventuale sciopero, sicuramente legittimo, potrebbe qualificarsi tecnicamente corretto

solo qualora il suo scopo sia quello di aumentare il livello di sicurezza generalmente

presente mentre, qualora la rivendicazione sia una reazione ad un preciso inadempimento

dell’obbligo del datore, sarebbe più opportuno qualificare l’astensione lavorativa come

una vera e propria eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c.139 che, tuttavia, non

prevede il diritto alla controprestazione. Per ovviare a tale limite, un orientamento ha

individuato nella retribuzione dovuta dal datore di lavoro per il periodo di astensione

lavorativa un’obbligazione secondaria di natura risarcitoria140

Vi è poi chi giustifica il comportamento del lavoratore come un effetto della mora in cui il

datore di lavoro, inadempiente sotto il profilo della predisposizione di un ambiente sicuro,

incorrerebbe automaticamente.141 Al fine di tutelare il lavoratore da un’eventuale richiesta

formale di prestazione, con conseguente messa in mora del datore di lavoro, sarebbe

sufficiente la disponibilità (presenza sul luogo) del prestatore di lavoro ad adempiere non

appena vengano eliminate le condizioni che rendono insicuro l’ambiente di lavoro.

Altra parte della dottrina, aderendo alla teoria secondo la quale il contenuto dell’art. 2087

c.c. è identificabile con un diritto soggettivo perfetto del lavoratore, ipotizza la possibilità

di azionare, accanto al rifiuto della prestazione, la richiesta di adempimento in forma

specifica ex art. 1453 c.c. 142. Ne deriverebbe, sul piano processuale, conseguente alla

contrattualità dell’azione, l’onere della prova a carico del datore convenuto.

138 V. Bianchi D’Urso “Profili..” cit. pag. 86 139 Bianchi d’Urso ibidem, pag. 88, Marino “La responsabilità..” cit. pag. 75 140 G. Natullo “La tutela…” cit. pag. 113 141 Montuschi “Diritto…” cit. pag. pag. 73 segg. 142 Montuschi “Diritto …” cit., p. 76 . In relazione al fumo passivo, v. Pretura Torino 8/2/1993

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53

Tale azione, da esperirsi non con l’ordinario processo di cognizione, ma ex art. 700

c.p.c.143 -vista l’urgenza dell’accertamento- avrebbe quale fine l’ottenimento di una tutela

inibitoria, di carattere preventivo e quindi indipendente dall’avvenuto verificarsi di una

lesione del diritto alla salute 144.

A tale teoria si è comunque opposta la considerazione che, non sussistendo nel nostro

ordinamento una tutela inibitoria generale diretta a paralizzare il comportamento illecito e

da identificarsi come precipuo strumento di protezione dei diritti a contenuto e funzione

non patrimoniale, al lavoratore non rimarrebbe, quale efficace tecnica di autotutela

preventiva (ed a fini meramente protettivi) che l’abbandono del posto di lavoro in caso di

pericolo grave o immediato e che non può essere evitato (art. 14 d. lgs. 626/1994) -

assimilabile allo stato di necessità - o il rifiuto della prestazione lavorativa.145

L’autotutela, in quanto tale, non è condizionata dall’accertamento giudiziale, ma ne è

sicuramente agevolata. Spetterà pertanto al lavoratore decidere, di volta in volta, in

considerazione della gravità dell’illecito del datore e delle conseguenti probabilità di

definitiva vittoria in giudizio, se attuare o no in difesa dei propri beni personali una

tempestiva autotutela, eventualmente sulla scorta di un provvedimento d’urgenza

favorevole.146

Sul tema va segnalata un’interessante sentenza della S.C. (7/11/2005 n. 21479) la quale si

è pronunciata sul caso di un casellante di una società autostradale che, essendo stato

oggetto di ripetute aggressioni a scopo di rapina, aveva più volte segnalato al datore di

143 Bianchi d’Urso “Profili…” cit., pag 106 144 tuttavia val la pena di evidenziare che, pur se tale azione fosse esperita dal singolo lavoratore avanti l’organo giudiziario civile, il problema della sicurezza è sempre da considerarsi di portata collettiva e strettamente legato alla dimensione organizzativa dell’azienda . D’altro canto, nonostante la previsione dell’art. 9 dello Statuto dei Lavoratori, si è giustamente evidenziato come sussista uno scarto tra i poteri di controllo di idoneità dell’ambiente e la tutela dell’integrità psico fisica, che rimane di stretta competenza individuale e conseguente legittimazione ad agire riservata (nel caso di lesione dell’interesse) al singolo lavoratore (Marino “La responsabilità…” cit., pag. 251) 145 V. A. Vallebona “responsabilità civile dell’imprenditore. Appalti. Responsabilità dei progettisti, fabbricanti, fornitori e installatori” in AA.VV. “Ambiente, salute e sicurezza – per una gestione integrata dei rischi da lavoro” Torino, p. 208 il quale sostiene che, “…del resto nel nostro ordinamento manca una inibitoria generale, comunque inutile in assenza di espresse misure coercitive indirette per la sua osservanza, mentre anche la condanna all’adempimento di obblighi di fare o di non fare infungibili, come sono quelli inerenti alla attività di impresa (art. 41 Cost.), non è assistita da alcuna tecnica esecutiva, tanto che dalla incoercibilità si fa perfino derivare, secondo un’opinione diffusa seppur non priva di dissensi, l’inammissibilità di questo tipo di condanna per la sua inutilità 146 A. Vallebona, “responsabilità civile dell’imprenditore…” cit., p. 211

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54

lavoro la necessità di provvedere ad un miglioramento delle condizioni di sicurezza.

Nonostante tale richiesta, nessun provvedimento venne adottato e, a seguito di un’ulteriore

aggressione nella quale il dipendente venne ferito con un’arma da fuoco, questi comunicò

all’azienda che si sarebbe astenuto dalla prestazione lavorativa sino a quando le condizioni

non fossero state adeguate. L’azienda gli intimò il licenziamento, che il lavoratore

impugnò. Evidenzia la S.C., nell’accogliere il ricorso che “….In particolare con

riferimento al contratto di lavoro l'ipotesi del sopravvenuto venir meno in modo totale o

parziale della prestazione lavorativa tale da giustificare il licenziamento ex art. 18 l.

300/1970 per giusta causa o per giustificato motivo ai sensi dell'art. 3 l. 604/1996 non è

ravvisabile se il mancato o non completo adempimento del lavoratore trova giustificazione

nella mancata adozione da parte di datore di lavoro delle misure di sicurezza che, pur in

mancanza di norme specifiche, il datore è tenuto ad osservare a tutela dell'integrità fisica e

psichica del prestatore di lavoro e se quest'ultimo prima dell'inadempimento secondo gli

obblighi di correttezza informa il datore di lavoro circa le misure necessarie da adottare a

tutela dell'integrità fisica e psichica del lavoratore, sempre che tale necessità sia evidente o,

comunque, accertabile o accertata”

L’azione di risarcimento verso il responsabile civile

Il datore di lavoro, nonostante l’esistenza di un rapporto assicurativo sociale, rimane

civilmente responsabile per il danno subito dal lavoratore a seguito di infortunio

professionale o malattia se il fatto da cui questo è derivato integri gli estremi di un reato

perseguibile d’ufficio.

Va qui evidenziato come, mentre la depenalizzazione realizzata con la legge 689 del

1981 ha subordinato l’azionabilità per il risarcimento di ogni danno derivante da lesioni

colpose a querela di parte, gli infortuni sul lavoro continuano a godere di una tutela del

tutto particolare, garantita dall’ultimo comma dell’articolo 90 c.p., ove si riafferma la

procedibilità d’ufficio per le lesioni colpose gravi o gravissime subite in occasione di

lavoro per violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e per le

malattie professionali.

Mentre, dunque, per le tecnopatie non si rileva alcun mutamento rispetto al passato, la

procedibilità d’ufficio per gli infortuni viene limitata all’ipotesi di violazione di norme

antinfortunistiche.

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55

La giurisprudenza, valorizzando il disposto ora illustrato, ha adottato un indirizzo costante,

affermando che anche l’art. 2087 cod. civ. deve essere considerata una vera e propria

norma di prevenzione, così che la sua inosservanza integra la fattispecie di reato

prevista.147

Con la sentenza penale di condanna il giudice è tenuto, per effetto della costituzione di

parte civile del soggetto leso, a pronunciarsi sulla domanda di risarcimento, che potrà avere

per oggetto il solo danno “differenziale” di cui all’art. 10 T.U.. Solo qualora le prove

acquisiste non consentissero la liquidazione del danno, le parti potranno essere rimesse al

giudice civile.

L’oggetto della richiesta di risarcimento da parte del lavoratore viene limitata, dai commi 6

e 7 dell’art. 10 T.U. al solo danno differenziale, cioè alla sola differenza tra danno

civilistico e indennità pubblicistica erogata. Come già osservato a proposito

dell’esperibilità dell’azione di rivalsa dell’ente pubblico, tale differenza non viene più

determinata sulla base di una semplice operazione aritmetica, ma dovrà aversi riguardo ai

vari elementi che compongono il danno, distinguendo tutte quelle spettanze risarcibili in

sede civile e non contemplate in ambito pubblicistico148 (ad esempio il danno morale e

l’inabilità temporanea biologica). Può poi verificarsi l’ipotesi in cui, pur se l’evento può

rientrare a pieno titolo nelle ipotesi disciplinate dal T.U., rimane in capo al lavoratore un

diritto esclusivo, come nel caso del danno biologico inferiore al 6% e pertanto non

indennizzato dall’Ente.

Qualora si tratti di fatto imputabile al datore di lavoro opererà la disciplina “speciale”,

mentre qualora la condotta lesiva non sia riconducibile alle ipotesi di esonero o sia

attribuibile ad un terzo, il danneggiato dovrà agire in forza dei principi civilistici ed in tal

caso verrà sicuramente in considerazione una sua eventuale responsabilità nella causazione

dell’evento lesivo.

Sino agli anni ’80 l’orientamento giurisprudenziale era teso a riconoscere la responsabilità

civile a carico del datore di lavoro anche qualora l’evento si fosse verificato a causa di un

comportamento negligente o imprudente del lavoratore, in considerazione del fatto che le

norme anti-infortunistiche avevano, tra l’altro, lo scopo di superare tali comportamenti.

147 Cass. 19/8/1996 n. 7636, 12/2/2000 n. 1579 148 L’insieme di tali componenti viene definito dal Marando “responsabilità..” cit. pag. 518 quale danno complementare. L’autore distingue infatti tra danno differenziale, il cui riconoscimento è condizionato nell’an dall’esistenza di un reato infortunio delle cui conseguenze civili il datore debba rispondere; mentre il danno complementare è basato sulla colpa civile, presunta o effettiva.

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56

Successivamente, anche a seguito del nuovo ruolo che il lavoratore è stato chiamato a

rivestire dal D. Lgs. 626/1994 – che all’art. 93 prevede espressamente sanzioni per i

lavoratori al fine di non permettere che con il loro comportamento possano compromettere

l’effettività della tutela – si è proceduto a puntualizzare tale concezione, nel senso di

valorizzare quale esimente (totale o parziale) della responsabilità civile datoriale, la

condotta del lavoratore che possa essere qualificata come abnorme o assolutamente

imprevedibile, da valutarsi anche in considerazione dell’esperienza lavorativa del

dipendente149.

Ovviamente, al fine di valutare se un lavoratore era tenuto ad un determinato

comportamento, in svolgimento del generale dovere di cura, andrà preliminarmente

accertato se lo stesso aveva ricevuto una adeguata formazione e se gli erano stati impartite

adeguate istruzioni.150

La vigilanza del datore di lavoro va dunque rapportata in concreto al lavoro da svolgere,

all’ubicazione del medesimo, all’esperienza ed alla specializzazione del lavoratore, nonché

alla sua autonomia151.

La prova della condotta anomala o abnorme è a carico del datore di lavoro e deve essere

rigorosa. Solo dopo tale accertamento si potrà verificare in quale misura la condotta vada

in concreto ad incidere sulla responsabilità civile del datore.

Ugualmente, non viene considerata di per sé esimente della responsabilità del datore la

condotta del dipendente che omette di utilizzare le idonee misure protettive, gravando

comunque sul datore l’obbligo di accertare e vigilare152 affinché queste misure vengono di

149 Cass. 13/10/00 n. 13690 e 28/2/2003 n. 9291, Cass. civ., sez. lav., 12 aprile 2000, n. 4708 In tema di infortuni sul lavoro, il comportamento del lavoratore diventa idoneo ad escludere il rapporto causale fra inadempimento datoriale ed evento infortunistico solo quando sia autosufficiente nella determinazione dell'evento, cioè quando abbia il carattere dell'abnormità (nel caso in esame la S.C. ha rigettato il ricorso avverso la sentenza di merito che aveva riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro, in relazione al comportamento del lavoratore che aveva inserito il braccio nell'apertura laterale al carter della macchina priva di protezione e destinata all'asportazione degli sfridi di lavorazione, toccando con la mano il sensore che determinava la discesa delle lame).

150 R. Del Punta “ Diritti e obblighi…”cit. pag. 170. Cfr. Cass. 7/10/2002 n. 14323 151 Frigenti “La responsabilità civile del lavoratore” in AA. VV. “Il sistema di tutela degli infortuni e delle malattie professionali: soggetti, funzioni, procedure” (a cura di F. Facello) pag. 236 152 Cfr. Cass. 29/5/1997 n. 4782 ove si statuisce l’obbligo del datore di lavoro sussiste anche in relazione a eventuali comportamenti volontari del dipendente e pregiudizievoli per la sua stessa sicurezza.

Utente
Rettangolo
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57

fatto utilizzate, ma anche in questo caso l’esonero potrà ottenersi qualora venga provata

l’abnormità o l’imprevedibilità del comportamento.153

Capitolo 4. IL RUOLO DELL’ASSICURATORE PRIVATO

4.1. Il contratto di responsabilità civile

Il contratto di assicurazione della responsabilità civile è regolato dall’art. 1917 1° comma

c.c. che così stabilisce: “ Nell’assicurazione della responsabilità civile l‘assicuratore è

obbligato a tenere indenne l’assicurato di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto

durante il tempo dell’assicurazione, deve pagare a un terzo, in dipendenza della

responsabilità dedotta nel contratto. Sono esclusi i danni derivanti da fatti dolosi” .

L’ampia formula usata dal legislatore ricomprende sia la responsabilità per fatto proprio

che per fatto di terzo, derivante da ogni forma di illecito, fatta eccezione per i soli atti

dolosi, espressamente esclusi dalla copertura assicurativa. Va tuttavia osservato che molti

contratti comprendono, tra i rischi assicurati, anche l’ipotesi di responsabilità civile che

possa derivare all’assicurato da un fatto doloso di persone delle quali debba rispondere.

L’assicuratore sarà dunque tenuto a rifondere le somme che l’assicurato è tenuto a

corrispondere, quale responsabile, ai sensi di legge, al terzo, per i danni a quest’ultimo

involontariamente cagionati.

Si può quindi individuare un, pur se implicito, vincolo di destinazione dell’indennità

assicurata – che è oggetto del diritto di credito dell’assicurato – al risarcimento del danno

153 Cass. civ., sez. lav., 7 aprile 1992, n. 4227 esclude la responsabilità civile del datore di lavoro nell'ipotesi in cui venga accertata la volontaria disattivazione da parte del lavoratore di misure di cautela (nella specie, cuffia di protezione di sega circolare, prevista dall'art. 109 d. p. r. 27 aprile 1955, n. 547 per evitare il contatto incidentale del lavoratore con la lama ed intercettare le schegge), ove non si configuri una violazione dell'obbligo del datore medesimo di assicurare al dipendente la sicurezza del posto di lavoro, con riguardo all'imprevedibilità di un'elusione cosciente e determinata delle norme di sicurezza da parte di un lavoratore esperto, per il quale non si richieda una sorveglianza assidua e costante. Cass. 12/9/2006 n. 30039:dell'infortunio occorso al dipendente, non risponde penalmente il datore di lavoro, laddove la condotta di quest'ultimo interrompe il nesso causale e presenta i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive organizzative ricevute.

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al terzo.154 Un eventuale rimborso all’assicurato potrà aversi solo dietro dimostrazione che

il terzo sia già stato effettivamente risarcito.

Trattandosi di un rapporto contrattuale volontario, il terzo, a differenza di quanto avviene

ad esempio in ambito R.C.A., non ha la possibilità di agire direttamente contro

l’assicuratore: le due obbligazioni assicuratore/assicurato e assicurato/terzo rimangono del

tutto autonome, per cui la facoltà dell’assicuratore di pagare direttamente il terzo è mera

conseguenza della richiesta dell’assicurato.

Qualificandosi l’assicurazione r.c. come assicurazione del patrimonio, in tale tipologia

contrattuale l’interesse preminente mira alla conservazione dell’integrità del patrimonio

esposto al rischio.

Non potendosi tuttavia aprioristicamente determinare tale entità, si è ricorso, sotto il profilo

tecnico, all’individuazione di un massimale, che rappresenta in caso di sinistro la copertura

dell’assicuratore e sulla base del quale viene stabilito un premio.

Proprio in considerazione dell’aleatorietà del contratto e dei mutamenti che nel corso

dell’annualità assicurativa possono subentrare (soprattutto per le imprese di medio-grandi

dimensioni), accanto ad un premio base, da pagarsi anticipatamente alla scadenza

dell’annualità assicurativa, si procede al cosiddetto “regolamento premio”, cioè alla

determinazione, a consuntivo, di un ulteriore importo (sia positivo che negativo) sulla base

di alcuni elementi variabili (numero dei dipendenti, mercedi, ecc).

I termini per procedere a questo conguaglio sono espressamente indicati in polizza ed il

loro mancato rispetto produce, di norma, la sospensione della garanzia fino alle ore 24 del

giorno in cui l’assicurato adempia ai propri obblighi, salvo il diritto per la società

assicuratrice di agire giudizialmente o di recedere dal contratto.

Altro oggetto di preciso patto contrattuale è la disciplina della gestione delle vertenze di

danno.

Sin dalla fase stragiudiziale l’assicuratore, per mezzo della sua struttura organizzativa,

provvede a raccogliere gli elementi utili all’istruttoria del caso, ad effettuare la stima dei

danni e la conseguente valutazione del danno arrecato al terzo.

Potrà avvalersi, per tali incombenze, di dipendenti o collaboratori, la cui direzione ed il cui

costo rimarrà a suo esclusivo carico.

154 R. Cavallo Borgia “L’assicurazione di responsabilità civile” in “Trattato della responsabilità civile” Milano 2004, volume I, pag. 10

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Mentre in passato non veniva di norma prevista la possibilità, a favore dell’assicurato, di

indicare o designare legali o tecnici di sua fiducia senza la preventiva autorizzazione della

compagnia assicuratrice, le più recenti formulazioni contrattuali prevedono, per alcune

tipologie di imprese, tale facoltà, anche al fine di contemperare gli interessi propri

dell’assicurato e dell’assicuratore.

Esaurita la fase istruttoria, qualora si ravvisino elementi che determinino l’inoperatività

della garanzia è opportuno che l’assicuratore, in applicazione dei principi di correttezza

nell’adempimento delle obbligazioni e di buona fede (artt. 11175 e 1375 c.c., proceda ad

una formale contestazione all’assicurato e all’abbandono della gestione della lite155, onde

evitare possibili pregiudizi e, nel caso della compagnia assicuratrice, un’accusa di mala

gestio.156

E’ il caso, ad esempio, in cui il valore del danno accertato superi il massimale previsto

dalla garanzia. L’assicuratore provvede, di norma, a comunicare espressamente

all’assicurato la messa a disposizione del massimale, con il suo conseguente ritiro dalla

gestione della lite. Sarà l’assicurato che valuterà, a questo punto, se proseguire

giudizialmente o se cercare una transazione con la parte danneggiata, eventualmente

integrando l’importo posto a sua disposizione.

E’ prassi comunemente seguita, in presenza di un’eccezione di garanzia formulata

dall’assicuratore, che l’assicurato, tramite suo procuratore, provveda alla chiamata in

causa della società, al fine di ottenere una sentenza che faccia stato anche nei confronti di

quest’ultima (sia in punto an che in punto quantum), indipendentemente dalla preventiva

valutazione della fondatezza della domanda attorea.

Ex art. 1917 4° comma cod. civ., la facoltà di chiamare in causa l’assicuratore compete al

solo assicurato “L’assicurato, convenuto dal danneggiato, può chiamare in causa

l’assicuratore”157

155 giacché la sua costituzione (su delega dell’assicurato) costituisce, come rilevato dalla sent. Cass. 30/6/1969 una circostanza valutabile come espressione di una volontà transattiva 156 E’ l’ipotesi di una gestione non condotta in applicazione dei principi generali, arrecando un pregiudizio al proprio assicurato e non adempiendo alla propria obbligazione di tenerlo indenne. Cfr. cass. 24/3/1983 n. 2064, 28/11/1995 n. 12302 157 sebbene sembra possibile che, in caso di inerzia dell’assicurato l’attore-danneggiato possa procedere autonomamente in via surrogatoria, sempre che ne ricorrano i presupposti (R. Cavallo Borgia “L’assicurazione di responsabilità civile …” cit. pag. 169

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La chiamata in garanzia è considerata da dottrina e giurisprudenza dominante, nel caso di

specie, come impropria, poiché il collegamento tra l’obbligazione indennitaria e la causa

principale è meramente occasionale e estrinseco.

In effetti il titolo in base al quale il convenuto-danneggiante può chiamare in causa il

proprio assicuratore si fonda su un rapporto in cui l’attore danneggiato è terzo estraneo e

che deve essere distinto dal diverso rapporto sul quale si fonda l’obbligazione

extracontrattuale oggetto della sua domanda.

Gli effetti che la giurisprudenza prevalente fa discendere da tale qualificazione possono

così riassumersi:

� La sentenza che conclude il giudizio di risarcimento non può disporre la condanna

dell’assicuratore a pagare l’indennizzo direttamente al danneggiato, ma il mero

accertamento dell’obbligazione in capo all’assicuratore.

� Non è applicabile la norma contenuta nell’art. 106 c.p.c., per cui la causa principale

di risarcimento e quella di garanzia sono scindibili ed indipendenti. In caso di

decisione in unica sentenza, se l’assicurato non abbia impugnato, non è ammissibile

l’appello proposto dall’assicuratore nei confronti del danneggiato.

� Le ammissioni delle parti del primo giudizio, così come per l’ipotesi di

confessione, non potranno considerarsi vincolanti nei confronti dell’assicuratore

� Non essendo in presenza di litisconsorzio necessario, l’azione di garanzia può

essere promossa anche in un giudizio autonomo da quello del risarcimento.158

4.2 l’assicurazione della responsabilità civile verso prestatori di lavoro

Una particolarità che distingue, sin dalle prime formulazioni, la polizza di responsabilità

civile dall’assicurazione obbligatoria è che il contratto produce i suoi effetti, oltre che alla

normale condizione dell’avvenuto pagamento del premio, in via anticipata, al fatto che in

relazione al lavoratore colpito la posizione assicurativa con l’INAIL sia regolarmente

accesa. La ragione di tale limitazione sta nella natura stessa del negozio giuridico

sinallagmatico del contratto assicurativo, per cui ad entrambe le parti contraenti viene

richiesto il puntuale adempimento degli obblighi.159

158 R. Cavallo Borgia “L’assicurazione di responsabilità….” Cit., pag. 170 159 D. De Stroebel “L’assicurazione di responsabilità civile” Milano, 2004, pag. 595

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La garanzia R.C.O. (responsabilità civile operai) rappresenta una peculiare forma di

assicurazione, il cui oggetto ha subito sostanziali modifiche nel corso dell’ultimo

ventennio, adeguandosi alle forti innovazioni che hanno investito il settore.

La formulazione normalmente in vigore sino agli anni ’90 mirava a garantire il datore di

lavoro dal rischio, in caso di infortunio sul lavoro, di dover far fronte prevalentemente160 a

richieste avanzate dall’INAIL mediante l’azione di regresso ed il testo “base” era il

seguente: “ La società si obbliga a tenere indenne l’assicurato di quanto questi sia tenuto

a pagare (capitali, interessi e spese) quale civilmente responsabile, ai sensi degli artt. 10 e

11 del DPR 30/6/1965 n. 1124, per gli infortuni (escluse le malattie professionali) sofferti

da prestatori di lavoro da lui dipendenti. L’assicurazione è efficace alla condizione che, al

momento del sinistro, l’assicurato sia in regola con gli obblighi per l’assicurazione di

legge”.

L’obiettivo della norma contrattuale era dunque quello di tenere indenne il datore di

lavoro (assicurato) dalle conseguenze patrimoniali degli infortuni sul lavoro qualora non

scattasse l’esonero previsto dal T.U.

Modificata la formulazione originaria degli artt. 10 e 11 T.U. ed introdotta, grazie

all’evoluzione giurisprudenziale ed alla già ricordata sentenza Corte Cost. 485 del

27/12/1991, la c.d. “scomposizione” del danno, all’INAIL non veniva più consentita la

possibilità di agire in regresso per il danno biologico (di pertinenza del solo lavoratore).

In sede ANIA (Associazione Nazionale delle Imprese di Assicurazioni) emerse una viva

preoccupazione per un presumibile ulteriore appesantimento dello specifico settore (anche

a causa della risonanza degli innovativi orientamenti della Consulta) per cui alla

prestazione assicurativa venne affiancata un’ulteriore ipotesi, estendendo così l’impegno :

“Ai sensi del Codice civile a titolo di risarcimento di danni non rientranti ella disciplina

del DPR 30/6/1965 n. 1124, cagionati i prestatori di lavoro per morte e per lesioni

personali dalle quali sia derivata un’invalidità permanente non inferiore all’11%,

calcolato sulla base delle tabelle di cui agli allegati al DPR 30/6/1965 n. 1124.

L’assicurazione RCO è efficace alla condizione che al momento del sinistro l’assicurato

sia in regola con gli obblighi dell’assicurazione di legge. Da tale assicurazione sono

comunque escluse le malattie professionali. Tanto l’assicurazione responsabilità civile

verso terzi, quanto l’assicurazione responsabilità civile verso prestatori di lavoro valgono

160 sebbene la responsabilità del DPR (art. 10 e 11) non riguardasse solo il regresso dell’INAIL, ma l’intera obbligazione risarcitoria a carico del datore di lavoro, in applicazione delle comuni norme. Cfr. in tal senso Cass. 21/11/2001 n.1114

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62

anche in relazione alle azioni di rivalsa esperite dall’INPS ai sensi dell’art. 14 della legge

12 giugno 1984 n. 222”.

La formulazione ora descritta, assai ricorrente (ma non condivisa unanimemente dalle

Compagnie di Assicurazione) garantiva al datore di lavoro, dietro il pagamento di un

sovrappremio, di ricevere una tutela anche nelle ipotesi in cui non si fosse in presenza di

violazione di norme anti-infortunistiche o per le quali non si versasse in ipotesi di reato

perseguibile d’ufficio. Tale tutela poteva essere integrale o, come nel testo riprodotto,

sottoposta ad una franchigia (11% sulla invalidità permanente, pari alla soglia che

determinava il riconoscimento da parte dell’INAIL di una rendita).

La polizza “tipo” prevedeva, tra i soggetti destinatari di risarcimento per gli infortuni e le

malattie professionali i soli prestatori d’opera dipendenti dal datore di lavoro assicurato ed

in regola con gli obblighi dell’assicurazione di legge161. Tra coloro che non potevano

essere considerati “terzi” ai fini della garanzia (e pertanto esclusi) venivano annoverate le

persone che “essendo in rapporto di dipendenza con l’assicurato subiscano il danno in

occasione di lavoro o di servizio; i subappaltatori ed i loro dipendenti, nonché tutti coloro

che, indipendentemente dalla natura del loro rapporto con l’assicurato, subiscano il

danno in conseguenza della loro partecipazione manuale alle attività cui si riferisce

l’assicurazione”.162

Solo con l’introduzione di condizioni aggiuntive espressamente richiamate (con l’esborso

di un ulteriore corrispettivo) il datore di lavoro poteva essere tenuto indenne da eventuali

infortuni subiti dai subappaltatori e loro dipendenti (ma solo per morte e lesioni personali

gravi o gravissime) o da dipendenti dell’assicurato non soggetti all’obbligo di

assicurazione INAIL (per le sole lesioni corporali – escluse le malattie professionali – da

questi subite in occasione di lavoro o di servizio).

In recepimento della sentenza della Corte Costituzionale 30/12/1985 n. 369 che ha,

confermato l’applicabilità dell’impianto normativo di cui al T.U. 1124 anche ai lavoratori,

161 qualche perplessità poteva aversi in ordine al ritenere o meno inclusi in garanzia gli impiegati ma, dopo la sentenza Corte Cost. 221/1986, con la quale si ritenne operante l’obbligo di assicurazione previsto dal DPR 1124 anche in presenza di rischio minimo, l’INAIL estese la copertura assicurativa a chiunque risultasse addetto alle macchine in genere (comprese quindi calcolatrici, macchine da scrivere elettriche, ecc., anche si fosse trattato di personale impiegatizio. 162 Come rilevato da D. De Stroebel “L’assicurazione…” cit., ciò si verifica qualora possano sussistere concomitanti interessi tra danneggiato e danneggiante e, in conseguenza, il rischio assume aspetti particolari, tali che l’assicuratore non si sente di accollarsi la garanzia, quasi si trattasse di un rischio in assicurabile.

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dipendenti di imprese italiane, che operano all’estero163, la garanzia opera di norma per il

mondo intero.

Novità sostanziali sono poi ravvisabili a partire dal 2000, a seguito delle rilevanti

modifiche introdotte nel mercato del lavoro con la legge 196/1997 cd. “legge Treu” e del

rinnovamento del sistema indennitario pubblicistico a seguito del D. Lgs. 38/2000.

Ne è conseguito un adeguamento delle previsioni contrattuali che così hanno modificato la

struttura base prevista per le imprese:

� Nelle ipotesi di risarcimento danni non rientranti nella disciplina del TU e dello

stesso D.Lgs. 38, la franchigia normalmente pattuita passa dall’11 al 6%

� Viene introdotta esplicita tutela a tutti i lavoratori para-subordinati (che tuttavia

saranno oggetto di apposita regolazione del premio)

� compare il concetto della “buona fede INAIL”: la garanzia sugli infortuni sarà

valida anche a beneficio dei dipendenti che per errata interpretazione delle norme di

legge non siano stati assicurati secondo il DPR (fatta eccezione, ovviamente, per la

volontaria inosservanza).

Per quanto attiene le malattie professionali, esse hanno per un lungo periodo ricevuto una

previsione del tutto separata dagli infortuni, essendo prevista la loro tutela solo quale

possibile estensione della tutela RCO.

Con l’avvenuta abrogazione dei principi di tabellarità, al fine di salvaguardare totalmente il

datore di lavoro, la garanzia si estese ad ogni tipo di affezione morbosa contratta, a patto

che ne fosse provato il nesso di causa con l’attività lavorativa prestata e, pertanto, a (tutte)

le malattie professionali riconosciute dall’INAIL (fatta eccezione, solitamente, per le

malattie professionali connesse alla lavorazione dell’amianto e per i casi di contagio da

virus HIV).

Venne tuttavia mantenuto il criterio di “temporalità”, garantendo la tutela solo per quelle

malattie che si fossero manifestate successivamente alla stipula della polizza e comunque

entro un arco temporale (solitamente un anno) dalla cessazione del rapporto di lavoro.

In ogni caso, così come per gli infortuni professionali, la garanzia non opera qualora le

malattie professionali siano riconducibili alla volontà dell’assicurato e dunque a causa di:

a) intenzionale mancata osservanza delle disposizioni di legge da parte dei rappresentanti

dell’impresa;

163 la dottrina è tuttavia tuttora divisa circa l’individuazione della legge applicabile nel caso di specie, se cioè l’illecito debba determinarsi secondo le leggi dello Stato italiano o secondo la legislazione straniera.

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b) intenzionale mancata prevenzione del danno, per omessa riparazione o adattamento dei

mezzi predisposti per prevenire o contenere fattori patogeni, da parte dei rappresentanti

legali dell’impresa.

Per quanto attiene il danno risarcibile, va invece evidenziato che molte pattuizioni

escludono il risarcimento di danni non rientranti nella disciplina del DPR 1124/1965

(danno biologico o danno alla salute).

Come rilevabile dalla lettura dei testi “tipo” qui riprodotti e succedutisi negli anni, ben si

può rilevare come, a fronte di una primitiva costruzione che si sviluppava in modo

parallelo all’impianto dell’assicurazione obbligatoria, limitandosi alla tutela dei soli

infortuni verificatisi per responsabilità datoriale accertata giudizialmente (e quindi limitata

ai soli reati perseguibili d’ufficio), la portata attuale è di assai ampio respiro, essendosi

adeguata all’evoluzione dell’intero sistema e mirando ad una tutela il più possibile

completa per l’impresa.164

164 Ne è esempio la recente introduzione della garanzia a favore del RSPP esterno, le conseguenze del cui operato ricadono comunque sul datore di lavoro: “L’assicurazione vale anche per la responsabilità civile personale imputabile al responsabile del servizio di prevenzione e protezione che non sia dipendente dell’assicurato ai sensi dell’art. 8 del D. Lgs. 626/1994. L’assicurazione è prestata limitatamente all’attività svolta per l’azienda assicurata; è inoltre prestata nei limiti, modi e termini previsti nella presente polizza. I limiti stabiliti in polizza per il danno relativo alla domanda di risarcimento restano, ad ogni effetto, unici, anche in caso di corresponsabilità di più assicurati tra di loro”.

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