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Giovanni Anceschi L’aeroporto: il design della scena multimodale All’ inizio – per così dire – c’è l’esperienza dell’aeroporto con la sua base di ansietà 1 . Un’ansietà che è legata certo alla carica simbolica che caratterizza l’esperienza del viaggio, ma che è determinata anche da particolari condizioni ambientali. Perdersi in aeroporto, quando non sia un piccolo aeroporto, è cosa abbastanza normale. Gli ambienti sono smisurati, niente appare immediatamente a portata d’occhio o di orecchio, ma soprattutto siamo immersi in una foresta di segnalazioni, di richiami, di comunicati. Nell’aeroporto c’è una stratificazione complessa dei corredi di artefatti comunicativi. Una stratificazione che dipende dalla presenza di molteplici mittenti di messaggi (l’istituzione aeroporto, le compagnie aeree, i titolari dei servizi al passeggero, in generale le infinite marche di merci e servizi che in un modo o nell’altro vi hanno cittadinanza). L’aeroporto, a partire da un certo momento coi duty free shop e poi dilagando in tutti gli ambienti possibili, è diventato anche un importante luogo del consumo (è anche un mall), che sfrutta il passaggio di milioni di acquirenti potenziali. La realizzazione di strumenti per decifrare il proprio percorso dentro ad una simile stratificazione informativa non era ai primi inizi indispensabile. Crescendo la complessità la sistematizzazione della segnaletica diventa norma. Il primo aeroporto a adottare un sistema segnaletico coordinato è stato lo Schipol di Amsterdam negli anni ’60, ad opera di Total Design uno studio progettuale programmaticamente multimodale (diremmo noi oggi) e composto da grandi personalità (da Wim Crouwel, Benno Wissing, Friso Kramer, Paul e Dick Schwartz e dal giovane Hartmut Kowalke, che proveniva dalla Hochschule für Gestaltung di Ulm). La visione teorica di un design totale s’inquadra nelle prospettive tipiche degli anni ’60, che sono molto importanti per nascita della disciplina design della comunicazione. Due sono i testi fondamentali e fondativi: il primo è Design coordination and corporate Image di Henrion e Parkin sull’immagine coordinata, 2 e l’altro è A Sign System Manual”, di Crosby, 1 Richard Saul Wurman, Information anxiety. Doubleday, New York, 1989. 2 Henrion FHK & Parkin A., Design Coordination and Corporate Image, Studio Vista/Reinhold, London-New York 1967. 1

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1 Richard Saul Wurman, Information anxiety. Doubleday, New York, 1989. 2 Henrion FHK & Parkin A., Design Coordination and Corporate Image, Studio Vista/Reinhold, London-New York 1967. 1

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Giovanni AnceschiL’aeroporto: il design della scena multimodale

All’ inizio – per così dire – c’è l’esperienza dell’aeroporto con la sua basedi ansietà1. Un’ansietà che è legata certo alla carica simbolica checaratterizza l’esperienza del viaggio, ma che è determinata anche daparticolari condizioni ambientali. Perdersi in aeroporto, quando non sia unpiccolo aeroporto, è cosa abbastanza normale. Gli ambienti sono smisurati,niente appare immediatamente a portata d’occhio o di orecchio, masoprattutto siamo immersi in una foresta di segnalazioni, di richiami, dicomunicati. Nell’aeroporto c’è una stratificazione complessa dei corredi diartefatti comunicativi. Una stratificazione che dipende dalla presenza dimolteplici mittenti di messaggi (l’istituzione aeroporto, le compagnieaeree, i titolari dei servizi al passeggero, in generale le infinite marche dimerci e servizi che in un modo o nell’altro vi hanno cittadinanza).L’aeroporto, a partire da un certo momento coi duty free shop e poidilagando in tutti gli ambienti possibili, è diventato anche un importanteluogo del consumo (è anche un mall), che sfrutta il passaggio di milioni diacquirenti potenziali.La realizzazione di strumenti per decifrare il proprio percorso dentro aduna simile stratificazione informativa non era ai primi inizi indispensabile.Crescendo la complessità la sistematizzazione della segnaletica diventanorma. Il primo aeroporto a adottare un sistema segnaletico coordinato è stato loSchipol di Amsterdam negli anni ’60, ad opera di Total Design uno studioprogettuale programmaticamente multimodale (diremmo noi oggi) ecomposto da grandi personalità (da Wim Crouwel, Benno Wissing, FrisoKramer, Paul e Dick Schwartz e dal giovane Hartmut Kowalke, cheproveniva dalla Hochschule für Gestaltung di Ulm).La visione teorica di un design totale s’inquadra nelle prospettive tipichedegli anni ’60, che sono molto importanti per nascita della disciplinadesign della comunicazione. Due sono i testi fondamentali e fondativi: ilprimo è Design coordination and corporate Image di Henrion e Parkinsull’immagine coordinata, 2 e l’altro è A Sign System Manual”, di Crosby,

1 Richard Saul Wurman, Information anxiety. Doubleday, New York, 1989. 2 Henrion FHK & Parkin A., Design Coordination and Corporate Image,Studio Vista/Reinhold, London-New York 1967.

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Fletcher e Forbes, che riguarda i nuovi strumenti e metodologie delprogetto grafico.3

Design coordination avanza una nozione decisamente di base e ricca diconseguenze: gli enti e le aziende possano essere interpretati come“persone artificiali” nel senso di organismi che si dotano di strumenti eattrezzature che servono a intrattenere relazioni comunicative con il mondoche li circonda. Il controllo dello scambio informativo e comunicativo coni pubblici – per così dire - circostanti è l’immagine coordinata. Icompetitori (rispetto all’ideologia progettuale dell’image), in quanto formadell’organizzazione del progetto di comunicazione diversa dallo studio didesign grafico, è l’agenzia pubblicitaria che - a partire da metà ottocento -aveva sviluppato metodologie determinanti, ad esempio: la divisione dellavoro fra account e creativi, il basare il progetto su un nucleo concettuale(un enunciato forte), che venne poi chiamato strategy, ma soprattuttol’idea di campagna, importata dall’universo militare con cui la pubblicitàlavorò gomito a gomito per la propaganda bellica nel 15-18. La forza dellapubblicità è sempre stata quella di avere la capacità di agireopportunamente nel tempo proprio grazie a questa formula dellacampagna. Una sequenza di azioni convergenti (scelta dei canali e deimedia, modulazione retorica dei messaggi e standardizzazione tecnico-produttiva dei vari strumenti, ma soprattutto ripetizione dei comunicati),puntano a realizzare un obiettivo.Contro lo strapotere budgettario dell’agenzia i grafici e i designersvilupparono, proprio negli anni ’60, una concezione in grado diconcorrere con questo procedere strategico. Lo studio grafico (di scuolaeuropea), alleatosi con le ricerche sociologiche americane delle Publicrelations4, fece una scoperta massmediologica epocale, le cui conseguenzea lungo raggio sono andate ben oltre ogni previsione, come vienericonosciuto e contemporaneamente stigmatizzato da NoLogo5. Lascoperta è consistita nell’accorgersi che l’ente, l’azienda non è solo unapersona artificiale, è essa stessa un medium - potremmo dire oggi -multimediale e multimodale. Con l’idea di immagine coordinata eaziendale, oggi ribattezzata – con una buona dose di wishful thinking -

3 Theo Crosby, Alan Fletcher e Colin Forbes, A Sign System Manual., Praeger Publishers, London, 1970.4 Che sulle orme di Edward L. Bernays (1891-1995) ebbe un grande sviluppo nel secondodopoguerra, proponendo l’idea del ventaglio composito delle relazioni aziendali.5Naomi Klein, NoLogo, Baldini e Castoldi, Milano, 2001

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identità visiva6, il visual design ha inventato un nuovo strumento checontrobilanciava la capacità di agire sulla temporalità della pubblicità, inquanto sostituiva l’azione nel tempo della campagna annuale conun’azione continua di costruzione dell’apparenza. La costanza dell’azioned’immagine aggiunge progressivamente negli anni elemento su elementosenza ‘buttar via tutto’ come avviene alla fine di ogni campagna.A Gui Bonsiepe si deve poi la distinzione fra immagine naturale eartificiale (costruzione delle apparenze)7. Ogni persona, fisica o artificiale,possiede un’immagine. Anche la ragazza acqua e sapone rilasciaun’immagine, e ad ogni incontro con lei noi aggiungiamo un tratto a quelritratto interiore, a quel suo simulacro portatile che ci siamo fatti di lei.Una questione problematica è la rappresentata dalla corrispondenza fraimmagine e identità: una promessa esaltante a cui corrisponderipetutamente una risposta deludente, non regge e il patrimonio di prestigiosi sgretola e scompare8.Il secondo libro fondativo Sign system manual è un doppiamente unmanuale. Da un lato è un trattato che insegna le nozioni e tecniche e lemetodologie del visual e graphic design, e dall’altro è un esempio dellostrumento principe dell’immagine coordinata: il manual, inventato dalleaziende petrolifere agli inizi del 900. Peter Beherens negli anni ’10, avevasviluppato in modo esemplare l’immagine coordinata per le AEG(Allgemeine Elektrizität Gesellschaft. Nel caso AEG, anche se sonopresenti strumenti già molto maturi di codifica del progetto, non si puòperò ancora parlare di manual, anche se una serie di linee di indirizzomolto precise possono essere facilmente desunte. Il Manual è il libro della legge comunicativa dell’azienda. È un codiceche raccoglie il lessico dell’immagine e la grammatica della suaproduzione. Da un lato ne determina il ventaglio degli elementi costitutivi(marchio-logotipo, colori di bandiera, carattere tipografico, ecc)stabilendone con precisione proporzioni e rapporti, ecc., e dall’altro fissain regole esplicitamente formulate e scritte ciò che va rispettato nelleapplicazioni.

6 In qualche manuale si critica come non abbastanza trendy e postmoderna la nozione di immaginecoordinata, ma davvero incautamente, in quanto nel termine coordination (come avvenivaovviamente nell’espressione art direction) è contenuta in nuce l’idea di una registica dellacomunicazione.7 Gui Bonsiepe,Teoria e pratica del disegno industriale, Feltrinelli, Milano,19758Un punto di vista più recente: Kenneth J. Roberts, Managing Image in a Dynamic CorporateEnvironment, Lippincott Mercer, http://www.lippincottmercer.com/publications/roberts03.shtml

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La storia del design della comunicazione e della grafica ci mostra duepolarità metodologiche: una formula che possiamo chiamare hard, cioèuna concezione spiccatamente centralista che col manual si propone lacreazione di un’immagine – per così dire – una volta per tutte, el’immagine cosiddetta soft9, la quale, assumendo come indispensabileun’elasticità dell’image nei confronti di un contesto che cambia perdefinizione, lavora per linee d’indirizzo e adattamenti senza rigidità.L’estremo paradigma della formula hard è rappresentato dalla compattezzad’immagine delle società totalitarie. Il Nazismo è un esempio dicoordinazione d’immagine, perfetto per efficienza comunicativa10. Delresto è proprio nella dimensione del pubblico e non nel privato che vannoricercate le radici del sapere che si svilupperà nell’immagine coordinata, ecioè nella dimensione storica del socioculturale. Del resto si potrebbe direche gli artefatti comunicativi rappresentano la materializzazione dellerelazioni e dei contenuti culturali presenti nella società. Si pensi allasapienza simbolica ma anche segnaletica e comunicativa di due istituzionicome la chiesa e l’esercito. Le chiese: si pensi ai loro emblemi, ai codicicromatici, ma anche all’abbigliamento, alle regole di comportamento, airiti, ale cerimonie, etc. Gli eserciti: oltre che alle insegne e ai gradi, sipensi al fatto che la lingua stessa chiama l’abbigliamento militare divisama la chiama anche uniforme. “Divisa”, da divisare, cioè distinguere, inaltri termini, “ciò che esercita, cioè, la funzione disgiuntiva” e “uniforme”,“che esercita invece la funzione coesiva”).Le due funzioni sono quelle che sviluppa ogni emblema in quanto rendeoggetti e uomini appartenenti al medesimo insieme o comunità e alcontempo li rende distinguibili da ogni altro insieme o comunità, si pensialla marchiatura del bestiame o all’imposizione della ‘cimice’, comeveniva soprannominato lo scudetto del partito fascista.La patria dell’immagine soft è l’Italia. Il paradigma è quell’aziendamondialmente leader nella comunicazione che è stata l’Olivetti. L’Olivettiha avuto un regista eccezionale in Adriano che come un buon direttored’orchestra concertava l’azione di un vasto ventaglio di solisti.11Io sono

9 Giovanni Anceschi, Il punto sull'immagine coordinata 2. Etologia dell'image, in: "LineaGrafica",n.2 (mar), 1985.10 Taylor, B. and van der Wil, W. (eds), The Nazification of Art. Art, Design, Music Architectureand Film in the Third Reich, Winchester, The Winchester Press, 1990, molto interessante JeremyAynsley, Marianne Lamonaca, “Print, Power and Persuasion, graphic design in Germany, 1890–1945”, mostra tenuta al Rhode Island Museum, 2002.11 Questi autori non componevano la 'corte del principe, come ha detto qualcuno'; al contrario,furono assunte per sviluppare le proprie competenze specialistiche: dalle relazioni interne (Franco

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convinto che la stessa IBM di Paul Rand (il marchio forse più stabile ecostante di tutti e per tutti) sia stata influenzata dall’immagine Olivetti diGiovanni Pintori. Quella che si definisce immagine soft, invece di usare una strumentazionecoercitiva (codice, regole), le sostituisce un atteggiamento registico:usando un ventaglio di strumenti notazionali e normativi molto vasto chenon si limita al manual, ma che orchestra una pluralità di interventi,Un esempio molto calzante di immagine coordinata soft può essere ancheil primo Fiorucci (assistito dal giovane Pieracini, che andrà poi più tardiproprio in Olivetti). L’immagine stava miracolosamente insiemepoggiando su Mickey Mouse di Walt Disney e, contemporaneamente, suicherubini di Raffaello (elaborati da Italo Lupi). Un immagine riconoscibilenon per l’omogeneità degli ingredienti ma per la coerenza flessibile delmodo di accostarli.In qualche modo l’immagine, cioè l’apparenza diventa così una messa inscena e un si prolunga in una successione di eventi. Insomma cambia ilcriterio principale della progettazione. Non è più l’artefatto, ma ilprocesso, la sua guida, la sua modulazione che diventano protagonisti. Equesto anche perché non c’è solo l’aspetto identitario nella comunicazioneistituzionale e aziendale, ma ci sono anche altri aspetti sostanziali, come adesempio non esiste solo la comunicazione persuasiva e pubblicitaria maanche quella funzionale e informativa.L’aeroporto può essere pensato come un’identità, come persona artificialema anche la percezione di questa identità come luogo di servizi, soprattuttoinformativi, la maggior parte di ciò che viene influenzata, se nondeterminata, dall’efficienza dei servizi che vi vengono erogati e dallaqualità delle loro prestazioni.Non sono convinto che la nozione di contenitore ci aiuti molto a questoproposito. La metafora contenitore ci fa pensare a un involucro (unascatola, dove sono passivamente impacchettati una serie di oggetti magaridi forma differente). Magari potremmo pensarlo piuttosto come una sortadi pipeline lungo il quale abbiamo stazioni di pompaggio, di stoccaggio, di

Momigliano) alla comunicazione (Leonardo Sinisgalli, Ignazio Weiss, Carlo Brizzolara, LiberoBigiaretti, Renzo Zorzi ), dall'elaborazione dei testi pubblicitari (Franco Fortini, Giorgio Soavi edaltri) alla grafica pubblicitaria (Xanti Schawinsky, Costantino Nivola, Salvatore Fiume, EgidioBonfante e così via), dal design dei prodotti (Aldo Magnelli, Marcello Nizzoli ed i loro successori),alle architetture olivettiane (Figini e Pollini, e ancora Nizzoli), al design degli stand Olivetti nelleprincipali fiere internazionali e all’allestimento dei negozi Olivetti (GianAntonio Bernasconi, UgoSissa, Carlo Scarpa, BBPR, Leo Lionni e Giorgio Cavaglieri).

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drenaggio, ecc., almeno sarebbe fatto salvo un carattere fondamentale, ilcinetismo la dinamica, il tempo e le sue ansie.Quella di servizio è un’idea molto forte. Sta emergendo nella cultura deldesign, accanto a quella originaria di design del prodotto l’idea di designdel servizio. In un primo tempo concepiti come parte dematerializzata delprodotto stesso (i servizi di manutenzione, ecc) e poi come temi autonomi.Anzi quasi rovesciando la prospettiva sono gli artefatti d’uso e gli artefatticomunicativi a diventare gli attrezzi di scena, i requisit della performancedi servizio. Fino ad arrivare al pensiero che a essere venduta non è piùl’automobile ma un certo numero di migliaia di chilometri di “car service”.Quella della progettazione dei servizi è una questione di grandissimorilievo in una società nella quale la terziarizzazione assume dimensionideterminanti.Un esempio: ho conosciuto direttamente il caso di Bolzano, dove PieroMaccioni, economista di formazione, padroneggiando quindi ladimensione finanziaria e gestionale ed orchestrando un ventaglio dicompetenze specifiche fra cui quelle urbanistiche (pianificazione deitrasporti), e quelle di design della comunicazione (immagine coordinata einfodesign), ha istituito il nuovo sistema integrato dei trasporti regionali.Ma anche un tema diversissimo, come la famosa Estate Romana, con lestraordinarie sessioni di massa di lettura poetica e di happening, ideata daRenato Niccolini a metà dei lontani anni settanta, rappresenta una formulaoriginale di servizio ai loisirs. Il design dell’effimero, come si dicevaallora, consiste nel porgere a un pubblico di destinatari e di consumatoripotenziali di cultura, non una merce ma un servizio, secondo modalitàefficienti quanto stimolanti. È la sostanza dell’offerta, oltre che l’immagine, a contare. La nozione diinterfaccia, che mutuiamo dall’universo informatico e web, trova qui unimpiego molto appropriato: la segnaletica, le mappe, i tabelloni, i monitordistribuiti, ma anche i check-in, le biglietterie elettroniche, i puntiinformativi fattuali e virtuali ecc., rappresentano precisamente l’interfacciamultimodale di quel megaservizio alla mobilità che è l’aeroporto12.

12 “In altri termini neanche il design industriale è esauriente. Il baricentro delfenomeno delle interfacce non è infatti tanto la tridimensionalità. Essenziale è ilcoinvolgimento della dimensione temporale, attraverso i movimenti del corpo e losvolgimento dialogico. In effetti il progettista di interfacce deve possedere unaprofessionalità che è molto prossima a quella del regista. La sua attività si configuracome la messa in scena e comprende tra l'altro la coreografia. Laddove il primotermine si connota più staticamente (anche il set del fotografo è il luogo della messa

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E ancora: la questione stessa dell’identità, cioè la sostanza dell’immaginecomplessiva della persona-artificiale-aeroporto, si può poi a sua voltadebitamente articolare. Di fatto l’aeroporto è un’immagine che contienemolte immagini variamente stratificate.Come abbiamo accennato il problema diventa qui non quello di istaurareun’immagine singola nella sua purezza, ma di orchestrare una pluralità diimmagini, di apparenze, all’interno di un’immagine comune.A questo punto, è venuto il momento di varare una proposta di naturateorica. E’ opportuno proporre una sostanziosa aggiunta, un nuovo pezzodi terminologia adeguato ad investire questo ambito della progettazione digrandi scene/pipeline della comunicazione e dell’informazione. Ipersonaggi che si occupavano finora di queste cose erano grafici, adessobisogna chiamare in soccorso le terminologie di discipline limitrofe nonpiù solo dello spazio e della sua percezione ma del tempo (o dello spazio-tempo) e della sua fruizione (regia e più in dettaglio coreografia da un lato,scenografia e stage design dall’altro). A dire il vero l’idea di totalità èinscritta nella disciplina da lungo tempo (come abbiamo visto, lo studioche ha progettato il primo Shipol aveva voluto chiamarsi Total design): iltema è quello di rendere riconoscibile, e praticabile una determinata entitàe dall’altro consiste nella capacità di pilotare il comportamento degliutilizzatoriIn questo la branca della disciplina che si occupa di quella scena/pipelinevirtuale che è il web, è andata molto avanti: una importante figura elladisciplina, qualcuno dice una guru della materia, che si chiama BrendaLaurel, ha scritto un libro che si intitola Computer as theatre, nel quale,come strumento concettuale per capire come montare, viene usata quellaparte della la retorica di Aristotele dove si parla di unità d’azione, di tempoe di luogo13.Non è un caso che uno dei più interessanti studiosi del designdell’interfaccia, sia Ken Friedman che ha un passato come artista delmovimento Fluxus anni ’60-’70, un periodo di grande interesse,sperimentazione e anticipazione. La nuova istituzione artistica promossada Fluxus, cioè l’happening (che vuol dire evento), diventa una metaforapiù appropriata ancora che il teatro, in quanto il teatro è uno spettacolochiuso, dove lo spettatore è passivo, mentre negli spazi-tempi

in scena), mentre la coreografia va intesa come scrittura del movimento scenico”.Anceschi, G., (a cura di), Il progetto delle interfacce. Oggetti colloquiali e protesi virtuali, DomusAcademy, Milano, 199213 Laurel, Brenda. Computers as Theatre, Reading, MA, Addison-Wesley, 1993.

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dell’interazione (virtuali come i siti e fattuali come l’aeroporto) lospettacolo o meglio la fruizione deve essere deve essere aperto.14

E qui impiego una nozione, quella di opera aperta sviluppata da UmbertoEco negli anni Sessanta15. L’dea di Eco è che l’opera d’arte non è conclusasenza la cooperazione proiettiva, interpretativa del lettore/spettatore: iquadri di Pollock funzionano - per così dire, anche - in modo analogo aitest di psicologia proiettiva di Rorschach, nelle cui macchie lo spettatorelegge scene aggressive o erotiche. L’opera accoglie i contenuti e gliatteggiamenti timici prodotti dallo spettatore. Con l’happening l’aperturanon è più solo ermeneutica-proiettiva, ma fattualmente ad opera deipartecipanti può succedere una cosa o un’altra. Resta però un tratto chenon consente neppure all’happening di essere la metafora perfetta degliambienti dell’interazione: come evento ha un inizio e una fine, e questadelimitazione è costitutiva. Alla complessità strutturale e interpretativa e alla apertura fattuale si deveaggiungere quindi un carattere ulteriore. L’ambiente interattivo deve essereun’apparecchiatura in qualche modo reattiva, lì – per così dire - in attesa,come potrebbe essere una trappola. O precisamente una la mostra.Tutto l’exhibition design (che non voglio chiamare allestimento, proprioperché questo termine tipico del discourse architettonico, come del restoquello di arredamento, pensa la mostra come uno spazio senza tempo,comunicazione e interazione) è l’archetipo disciplinare corretto. La mostraè il luogo del pilotaggio del comportamento, anche cognitivo, dellospettatore, attraverso artifici che ho chiamato figure di regia.16

Nell’aeroporto le sequenze di azioni e movimenti provocate dallasegnaletica presso l’utente destinatario, presentano forti analogie con laprocessualità dei comportamenti propri dell’exhibition design. Anche quiil progettista/regista opera una scelta vantaggiosa delle figure dicomportamento dello spettatore/attore e le mette in sequenza secondo unalogica di scrittura scenica (con andamenti e temperature teimiche dianticlimax e climax). Potrebbe essere davvero sensato pensareall’aeroporto come a una mostra, come a un canale comunicativo di cuivanno disegnare o meglio modulate e plasmate in funzione delle diverse14 Ken Friedman, The Wealth and Poverty of Networks,http://www.newcastle.edu.au/journal/poetics/issue-02/ken-2.htm15 Eco, Umberto, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee,Milano, Bompiani, 1962,16 Giovanni Anceschi, Retorica verbo-figurale e registica visiva, in: Eco U. e al., Le ragioni dellaretorica, Modena, Mucchi ed., 1986; id., Visibility in progress, in “Design Issues”, vol. 12, n. 3(autumn), 1996.

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esigenze le diverse modalità espressivo/comunicative e la loroorchestrazione complessiva. La realtà multimodale delle diverse fasi e deidiversi comportamenti trova riscontro nella realtà tencnologica dellamacchina aeroporto: anzi più che una macchina siamo di fronte (anche) aun gigantesco apparato multimediale, a un proteo mediatico fattuale, aisuoi diversi canali e registri. E in effetti sulla Grande Scena Aeroportualeconvivono infiniti apparati della canalizzazione (elettronica e altro)dell’informazione, come anche della presentazione e rappresentazionedella comunicazione, come infine del colloquio interattivo.Il dibattito sul“silent aeroport”, ad esempio, è il risultato del problema dell’interferenza edel disturbo reciproco fra canali mediatici (e fra registri sensoriali):lasciare vuoto il canale sensoriale auditivo per favorire la comunicazionevisiva.La dimensione tecnologica, cioè il ragionare in termini di canali e di(multi)media, essendo il luogo delle effettive manipolazioni emodificazioni e rappresentando la fonte e il supporto di ogni stimolazione,è fondamentale nel senso che fissa dei vincoli e offre delle opportunità, manon va dimenticato che – se si potesse dire così – ancora più fondamentaleè ciò che viene definito la struttura del destinatario, in terminisomatico/sensoriali, percettivo/cognitivi. La comunicazione ai ciechi si fain braille o comunque attraverso messaggi trasportati da veicoli segnicitattili, e in generale vanno scelti registri, codici e lessici adeguati a quellidel destinatario.Il regista multimodale è il regista degli effetti attuali (e sensati) che

saranno prodotti da differenze e modulazioni fattuali tecnicamenterealizzate17.

17 Uso l’opposizione actual/factual come l’ha proposta Josef Albers, nel suo Interaction of Color,New Haven and London, Yale University Press, 1971, che ricalca la distinzione scolastica fra inacto e de factu.

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