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«... E molti ricordano quEl simpatico gruppo di “dolomitici” – Prati, Videsott, Miori, Ortelli – che sotto i por- tici di piazza Carlo Felice, davanti alla Ca- sa del Caffè, tutti i giorni dall’una al- le due iniziavano i rustici alpinisti to- rinesi ai dolci segreti del canto co- rale alla “trentina”; poi alla dome- nica andavano a cercarsi un fac- simile, riveduto e peggiorato in quanto a qualità della roccia, del- le loro montagne». Così Massi- mo Mila ricorda – certamente il ragazzino torinese, già innamo- rato della montagna e della musi- ca, era presente a quegli eventi quo- tidiani, verso gli anni venticinque del secolo scorso – nel suo scritto I cento an- ni del cai, Club Alpino Italiano 1963, riedi- to in occasione del centenario della sua nasci- ta da Vivalda editore con il titolo L’altra faccia del- la mia persona. Ortelli era proprio il Toni Ortelli autore della «Monta- nara», che nasceva allora durante le escursioni sulle mon- tagne piemontesi. Era studente universitario emigrato all’ateneo torinese al pari degli altri tre: facevano parte di quel gruppo di ragazzi che, attorno ai fratelli Pedrot- ti di Trento, avevano incominciato a cantare in un modo tutto loro, assolutamente originale, sottovoce, i canti po- etici della loro terra, che narrano di pastori, di angioline, di villanelle, ma anche della fatica del lavoro e delle pene della guerra. Sensibilità care a Mila. Stava per nascere il Coro della sat: ufficialmente il 25 maggio 1926, con il mi- tico primo concerto a Trento nel castello del Buonconsiglio. Certamente il giovanissimo Mila ne rimase incantato. Non dimen- ticò più quelle emozioni: diven- ne amico del coro trentino e lo fu fino alla fine dei suoi giorni. Ne scrisse a più riprese, in arti- coli e recensioni, su giornali e ri- viste, sempre senza tradire un ap- proccio serio e schietto, scevro da piaggeria o esaltazioni acritiche o enfasi esagerata, così come era nel suo carattere di instancabile fre- quentatore di montagne e di mu- sicologo rigoroso, esente da re- torica inutile, dotato di ironia e leggerezza. Il Coro della sat ( sosat allo- ra, sezione operaia della sat, ma per poco: il nuovo regime non tollerò quell’aggettivo) nel 1933 iniziò a registrare per la Columbia i suoi canti, quasi tutti rigorosamente a orec- chio, compresa quella «Montanara» di Ortelli. Ne rimase impressionato Luigi Dallapiccola. Certamente il giovane Mila si accorse di quella musicalità spontanea così inedi- ta nell’invenzione di armonie non banali, di fraseggi ric- chi di fantasia e di poesia. Già nelle registrazioni del 1935 molti furono i canti armonizzati da Luigi Pigarelli – ma- gistrato trentino, musicologo, ricercatore e compositore – e da Antonio Pedrotti, che sarà grande direttore d’or- chestra. Entrò allora nel repertorio anche un can- to piemontese, «La sposa morta», tratto dalla raccolta del Sinigallia, e armonizzato dal Pedrotti (omonimia con i quattro fra- telli fondatori). Nel 1937 e 1938 il coro sat fu in- vitato a Torino al Conservatorio «Giuseppe Verdi», ma a Massimo Mila non fu possibile ascoltarli: era già nel carcere di Regina Coe- li, condannato a sette anni per an- tifascismo. Verrà liberato nel ’40. Intanto l’Italia era entrata nel tun- nel della guerra. I giovani del coro ne vennero coinvolti. Enrico e Al- do Pedrotti entrarono nelle formazio- ni partigiane, vennero incarcerati e ri- schiarono la vita. Non sappiamo se anche questa fratellanza di ideali contribuì ad avvi- cinare il torinese Mila ai quattro fratelli trentini: Mila non accenna mai nei suoi scritti all’esperienza par- tigiana e anche questo corrisponde alla sua proverbia- le discrezione. Il 24 ottobre 1948 esce sull’«Unità» (edizione piemonte- se) un articolo a firma di Massimo Mila: Canzoni di monta- gna. Nell’occasione della pubblicazione del volume Can- ti di Montagna edito dai fratelli Pedrotti, con le armoniz- zazioni di molti altri canti a opera di Pigarelli e Pedrotti e corredato da un imponente apparato fotografico trat- to dalla loro attività, Mila inaugura i suoi numerosi inter- venti sul coro. È la sensibilità del frequentatore di rifu- gi alpini quella che si riscontra in questo bellissimo scrit- to: si apre infatti con la descrizione di un evento cui oggi è ormai raro assistere. Alcuni giovani attorno a un tavo- lo accordano le voci. Inizia il canto. Il silenzio attorno è assoluto. È un canto sommesso, educato, frutto di studio e dedizione. Sono alcuni appartenenti al coro sat o loro emuli. E qui è il musicologo che traspare con la sua atten- zione discreta ma infallibile. Alla fine Mila così rispon- de all’amico Pavese che probabilmente, a voce o in qual- che scritto che non sono riuscito a rintracciare (in quel momento Pavese si dedicava allo studio dell’espressione popolare), verosimilmente aveva criticato la stima per il coro sat, non ritenendolo adeguato alla purezza filologi- ca che le sue ricerche esigevano: «Sono un mezzo, queste canzoni, d’incontrare il nostro popolo e di scoprire noi stessi, e di conoscere attraverso questo gradino aspetti eterni ed elementari dell’uomo. E se è giusto prestare at- tenzione alle primitive leggende dei Bantù e dei Beciua- na dell’Africa equatoriale, come recentemente ci esortava a fare l’amico Pavese, non è male riconoscere l’importan- za di espressioni che, per essere più storicamente formate e situate in un costume che ci tocca più da vicino, non la cedono in freschezza primitiva alle favole sconclusionate di quei lontani selvaggi. Massimo Mila (1910-1988) è stato un illustre musicologo e critico mu- sicale italiano. Tra i suoi variegati ed eterogenei interessi si inserisce anche la passione per il canto co- rale, come testimonia – nel centenario della nascita del- lo scrittore – questo intervento di Piero De Martini, au- tore del bel libro Il Conservatorio delle Alpi (Bruno Mondadori, Milano 2009), recensito qualche tempo fa su queste pagine da Giuseppina La Face Bianconi (cfr. VMeD n. 33, p. 54). Lo stesso Martini il 27 giu- gno scorso ha parlato del rapporto tra Mila e la sat al festival LetterAltura di Verbania, all’inter- no di un ciclo curato insieme ad Andrea Gherzi e intitolato «Le stagioni di Massimo Mila». Massimo Mila e il «Conservatorio delle Alpi» di Piero De Martini 60 — cose di musica cose di musica

60 — cose di musica Massimo Mila e il «Conservatorio delle ... 37 pagine 60... · so non può che rivelarsi effimero, non raggiunge alcu-na meta duratura. «Il modo di cantare

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Page 1: 60 — cose di musica Massimo Mila e il «Conservatorio delle ... 37 pagine 60... · so non può che rivelarsi effimero, non raggiunge alcu-na meta duratura. «Il modo di cantare

«...E molti ricordano quEl simpatico gruppo di “dolomitici” – Prati, Videsott, Miori, Ortelli – che sotto i por-

tici di piazza Carlo Felice, davanti alla Ca-sa del Caffè, tutti i giorni dall’una al-le due iniziavano i rustici alpinisti to-rinesi ai dolci segreti del canto co-rale alla “trentina”; poi alla dome-nica andavano a cercarsi un fac-simile, riveduto e peggiorato in quanto a qualità della roccia, del-le loro montagne». Così Massi-mo Mila ricorda – certamente il ragazzino torinese, già innamo-rato della montagna e della musi-ca, era presente a quegli eventi quo-tidiani, verso gli anni venticinque del secolo scorso – nel suo scritto I cento an-ni del cai, Club Alpino Italiano 1963, riedi-to in occasione del centenario della sua nasci-ta da Vivalda editore con il titolo L’altra faccia del-la mia persona.

Ortelli era proprio il Toni Ortelli autore della «Monta-nara», che nasceva allora durante le escursioni sulle mon-tagne piemontesi. Era studente universitario emigrato all’ateneo torinese al pari degli altri tre: facevano parte di quel gruppo di ragazzi che, attorno ai fratelli Pedrot-ti di Trento, avevano incominciato a cantare in un modo tutto loro, assolutamente originale, sottovoce, i canti po-etici della loro terra, che narrano di pastori, di angioline, di villanelle, ma anche della fatica del lavoro e delle pene della guerra. Sensibilità care a Mila. Stava per nascere il Coro della sat: ufficialmente il 25 maggio 1926, con il mi-

tico primo concerto a Trento nel castello del Buonconsiglio.

Certamente il giovanissimo Mila ne rimase incantato. Non dimen-ticò più quelle emozioni: diven-ne amico del coro trentino e lo fu fino alla fine dei suoi giorni. Ne scrisse a più riprese, in arti-coli e recensioni, su giornali e ri-

viste, sempre senza tradire un ap-proccio serio e schietto, scevro da

piaggeria o esaltazioni acritiche o enfasi esagerata, così come era nel suo carattere di instancabile fre-

quentatore di montagne e di mu-sicologo rigoroso, esente da re-torica inutile, dotato di ironia e leggerezza.

Il Coro della sat (sosat allo-ra, sezione operaia della sat, ma per poco: il nuovo regime non tollerò quell’aggettivo) nel 1933 iniziò a registrare per

la Columbia i suoi canti, quasi tutti rigorosamente a orec-chio, compresa quella «Montanara» di Ortelli. Ne rimase impressionato Luigi Dallapiccola. Certamente il giovane Mila si accorse di quella musicalità spontanea così inedi-ta nell’invenzione di armonie non banali, di fraseggi ric-chi di fantasia e di poesia. Già nelle registrazioni del 1935 molti furono i canti armonizzati da Luigi Pigarelli – ma-gistrato trentino, musicologo, ricercatore e compositore – e da Antonio Pedrotti, che sarà grande direttore d’or-

chestra. Entrò allora nel repertorio anche un can-to piemontese, «La sposa morta», tratto dalla

raccolta del Sinigallia, e armonizzato dal Pedrotti (omonimia con i quattro fra-

telli fondatori).Nel 1937 e 1938 il coro sat fu in-vitato a Torino al Conservatorio «Giuseppe Verdi», ma a Massimo Mila non fu possibile ascoltarli: era già nel carcere di Regina Coe-li, condannato a sette anni per an-tifascismo. Verrà liberato nel ’40. Intanto l’Italia era entrata nel tun-nel della guerra. I giovani del coro

ne vennero coinvolti. Enrico e Al-do Pedrotti entrarono nelle formazio-

ni partigiane, vennero incarcerati e ri-schiarono la vita. Non sappiamo se anche

questa fratellanza di ideali contribuì ad avvi-cinare il torinese Mila ai quattro fratelli trentini:

Mila non accenna mai nei suoi scritti all’esperienza par-tigiana e anche questo corrisponde alla sua proverbia-le discrezione.

Il 24 ottobre 1948 esce sull’«Unità» (edizione piemonte-se) un articolo a firma di Massimo Mila: Canzoni di monta-gna. Nell’occasione della pubblicazione del volume Can-ti di Montagna edito dai fratelli Pedrotti, con le armoniz-zazioni di molti altri canti a opera di Pigarelli e Pedrotti e corredato da un imponente apparato fotografico trat-to dalla loro attività, Mila inaugura i suoi numerosi inter-venti sul coro. È la sensibilità del frequentatore di rifu-gi alpini quella che si riscontra in questo bellissimo scrit-to: si apre infatti con la descrizione di un evento cui oggi è ormai raro assistere. Alcuni giovani attorno a un tavo-lo accordano le voci. Inizia il canto. Il silenzio attorno è assoluto. È un canto sommesso, educato, frutto di studio e dedizione. Sono alcuni appartenenti al coro sat o loro emuli. E qui è il musicologo che traspare con la sua atten-zione discreta ma infallibile. Alla fine Mila così rispon-de all’amico Pavese che probabilmente, a voce o in qual-che scritto che non sono riuscito a rintracciare (in quel momento Pavese si dedicava allo studio dell’espressione popolare), verosimilmente aveva criticato la stima per il coro sat, non ritenendolo adeguato alla purezza filologi-ca che le sue ricerche esigevano: «Sono un mezzo, queste canzoni, d’incontrare il nostro popolo e di scoprire noi stessi, e di conoscere attraverso questo gradino aspetti eterni ed elementari dell’uomo. E se è giusto prestare at-tenzione alle primitive leggende dei Bantù e dei Beciua-na dell’Africa equatoriale, come recentemente ci esortava a fare l’amico Pavese, non è male riconoscere l’importan-za di espressioni che, per essere più storicamente formate e situate in un costume che ci tocca più da vicino, non la cedono in freschezza primitiva alle favole sconclusionate di quei lontani selvaggi.

Massimo Mila (1910-1988) è stato un illustre musicologo e critico mu-

sicale italiano. Tra i suoi variegati ed eterogenei interessi si inserisce anche la passione per il canto co-

rale, come testimonia – nel centenario della nascita del-lo scrittore – questo intervento di Piero De Martini, au-tore del bel libro Il Conservatorio delle Alpi (Bruno Mondadori, Milano 2009), recensito qualche tempo fa su queste pagine da Giuseppina La Face Bianconi (cfr. VMeD n. 33, p. 54). Lo stesso Martini il 27 giu-gno scorso ha parlato del rapporto tra Mila e la sat

al festival LetterAltura di Verbania, all’inter-no di un ciclo curato insieme ad Andrea

Gherzi e intitolato «Le stagioni di Massimo Mila».

Massimo Milae il «Conservatorio delle Alpi»

di Piero De Martini

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In mezzo al prato gh’è tre sorelleuna di quellemi voi sposar;no l’è la primanè la secondama l’è la bionda che mi ha ferì.

Abbi pazienza, caro Pavese, ma tutte le storie dei Bosci-mani e degli Ottentotti (pitture rupestri comprese) te le cedo volentieri per il geniale traslato di quella rima che, esaltata da uno slancio della melodia, improvvisamente ti sostituisce all’astratta numerazione la concretezza so-stanziosa di quella “bionda” in mezzo al prato».

Stupenda prosa, impareggiabile ironia.Lo stesso scritto verrà ripreso ed ampliato il 30 mar-

zo del 1954 sulla rivista «Lo Smeraldo» di Sigurtà farma-ceutica, a commento della terza edizione del volume sat con le foto dei fratelli Pedrotti. E anche Mila qui si pone in contrasto con gli estremisti della filologia, con coloro che vorrebbero che i canti venissero proposti «come era-no veramente all’origine». E qui ci dona un aforisma in-

dimenticabile: «Tra una canzone cantata dalla sat e la le-zione folcloristicamente “pura” di quella medesima can-zone, c’è la stessa differenza che passa tra una bella far-falla che vola sui prati del Pordoi e la stessa farfalla mor-ta, infilzata nell’album di un entomologo».

L’interesse per il coro della sat è trait-d’union tra i due mondi di Massimo Mila, ambedue frequentati con iden-tica passione, competenza e serietà: sono queste le qua-lità che riconosce in quel gruppo di ragazzi che negli an-ni cinquanta iniziavano a riempire i teatri e a vincere con-corsi internazionali. Il loro successo risiedeva in quel mo-do di cantare, dove la bellezza e l’emozione delle esecu-zioni scaturiva dalla serietà, dalla disciplina, che imbri-gliavano la naturale spontaneità, la impagabile fantasia. In quei ragazzi, in gran parte suoi coetanei, studenti, ope-rai, impiegati, artigiani, si rispecchiava per il rigore con il quale l’alpinista affronta le sue scalate o il musicista le difficili partiture, senza il quale un momentaneo succes-so non può che rivelarsi effimero, non raggiunge alcu-na meta duratura. «Il modo di cantare della sat è il mo-do di cantare di una generazione la quale ha appreso che la spontaneità è una bella cosa, sì, ma senza la disciplina conclude poco: è un modo di cantare da alpinisti: di gen-te, cioè, che sa il peso dei propri atti e ne assume la re-sponsabilità. [...] Gente che l’improvvisazione la tiene a freno e la governa, pur senza soffocarla» (Massimo Mila,

Cantare in montagna , «Lo Smeraldo», 1954).Dalla prima recensione di un concerto al Conservatorio

torinese sull’«l’Unità» del 29 aprile 1950 all’ultima sulla «Stampa» del 12 ottobre 1986 per il concerto del sessante-simo del coro – in tutto furono dodici i concerti della sat a Torino cui Mila potè assistere – la sua attenzione si tra-sferì impercettibilmente dall’universo montano a quello musicale: da un gruppo di alpinisti straordinari cantori, quasi per caso su un palcoscenico di città, a un fenome-no musicale di primaria importanza, come lui stesso ri-conosce. In una lettera all’amico Silvio Pedrotti (per cin-quant’anni direttore del coro) del 24 agosto 1972 infat-ti scrive: «Siete sempre i più bravi, occorre dirlo? Ma so-prattutto state veleggiando verso una classicità magistra-le e siete ormai maturi per qualunque interpretazione ri-gorosa di canti popolari. Rileggendo quelle righe mie che avete voluto riportare nelle testimonianze – sulla coper-tina del disco Sui monti Scarpazi che i Pedrotti gli avevano inviato in omaggio, nda – mi accorgo che ora siete andati molto oltre lo stadio che in quelle righe si riflette».

Il concerto al Conservatorio «Giuseppe Verdi» del pri-mo dicembre 1956 fu molto importante: per la prima vol-ta vennero eseguite alcune novità che destarono l’atten-zione del critico. Mila affidò all’«L’Unità» del 2 dicembre

una lunga recensione: «Il concerto di ieri sera [...] presen-tava [...] anche alcune novità. Tra queste le armonizzazio-ni di due celebri canzoni valdostane, fatte da Teo Usuel-li per la colonna sonora del film Italia K 2, e sei armoniz-zazioni di canti piemontesi, lombardi e trentini, dovute nientemeno che ad Arturo Benedetti Michelangeli: uno appunto di quei musicisti d’altissima statura che seguono con interesse il lavoro del coro trentino. Queste armoniz-zazioni del famoso pianista sono senz’altro dei ghiottissi-mi bocconcini, pieni di particolari preziosi e condotti con rara raffinatezza. Una, quella della “Pastora e il lupo”, è un piccolo capolavoro: un poemetto pieno di gusto, dove si rispecchiano gli aspetti medioevali del nostro Piemon-te. Nell’esecuzione di ogni numero il coro ha tirato fuori tutti i segreti del suo virtuosismo (che è stato acquistato e vien mantenuto a costo di una esemplare disciplina di la-voro artistico, rubando le ore allo svago, e magari perfino al sonno, per le settimanali sedute di studio a Trento ogni sabato sera): sonorità organistiche di prolungate note bas-se, accordi strappati come di chitarra, pizzicato di celli e bassi, anticipi, ritardi, contrattempi, giochetti di bravura

A fronte, in basso: Massimo Mila.Sopra: Il Coro della sat. Concerto al Teatro dell’Arte

del 26 settembre 1964: i quattro fratelli Pedrotti sono il primo, il secondo, il terzo e il settimo da destra (foto di Rolly Marchi).

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che infiorano i canti più lievi; mentre quelli di maggior so-stanza musicale vengono giustamente eseguiti nel rispet-to della loro linea più pura». Quei «giochetti di bravura» il critico della «Stampa» li avrà certamente notati nell’esecu-zione senza partitura scritta – cosa che il coro sat non fa-ceva mai in concerto: il rigore del direttore Silvio Pedrotti non lo permetteva – di una marcetta degli alpini, «LaMo-rena», imparata da ragazzi nel primo dopoguerra e canta-ta fuori concerto con virtuosistiche imitazioni degli stru-menti della banda. Ci fu un bis di quella serata e ci è perve-nuta la registrazione amatoriale. Credo sia stata una delle pochissime esecuzioni in concerto, se non l’unica, in tut-ta la storia del coro.

Nel maggio del ’57 Mila invia ai fratelli Pedrotti la raris-sima raccolta dei canti popolari piemontesi di Costantino Nigra che Silvio Pedrotti avrebbe gelosamente conserva-to nella raccolta del suo archivio. Per il Nata-le ’59 è lo stesso Pedrotti che gli invia un pacco di dischi sat. Mila risponde, il 22 dicembre: «Caro Pedrotti [...] è un Natale memorabile, questo, che passiamo in compagnia di voi altri. Anche mia mo-glie, che è una vostra fana-tica ammiratrice, è feli-ce del superbo regalo e si unisce a me per dir-le la nostra vivissima gratitudine». Mila rin-grazia anche invian-do una delle prime copie del suo nuovo libro Cronache musica-li, 1955-1959 (Einaudi 1959). Il libro, con de-dica ai fratelli Pedrot-ti, raccoglie circa 150 articoli scritti per il set-timanale «L’Espresso» con un excursus attraver-so tutta la storia della mu-sica, da Gesualdo da Venosa alla musica elettronica. È que-sto un atto di stima cui i desti-natari non rimangono indifferenti: «Carissimo Maestro [...] non le possia-mo nascondere che siamo orgogliosi del-la sua amicizia».

Nel 1972 il coro sat mette in cantiere un volume di cin-quanta armonizzazioni inedite, illustrate dalle consuete stupende foto dei Fratelli Pedrotti. Il titolo è quello dell’ul-tima armonizzazione di Antonio Pedrotti, Sui monti Scarpa-zi, già sulla copertina del disco rca appena uscito e inviato come dono all’amico torinese. In seguito alle entusiastiche parole di ringraziamento, Silvio chiede a Massimo Mila di redigere la prefazione del nuovo libro. È il 14 ottobre 1972. Mila accetta. Nei mesi successivi è tutto un andirivieni tra Trento e Torino di bozze, modifiche, consigli, anche sco-modi. Come quello del 18 Aprile 1973: «Carissimo Silvio, tre mesi per rispondere alla tua del 20 gennaio. Soltanto ora ho potuto guardare i cinque canti armonizzati da Ar-turo Benedetti Michelangeli (Uno, molto bene: “Che fai bella pastora”. Uno con straordinaria raffinatezza: “Sera-fin”. Uno con una semplicità a dir poco sconcertante: “La

figlia di Ulalia”). Ho ritoccato un poco il mio testo per no-minarli, almeno quelli trentini. Ho taciuto dei due lombar-di, dei quali, quando tu mi scrivevi, era ancora incerta la disponibilità (della Ricordi, nda). Se anche non te li conce-desse, non mi sembra che sarebbe una gran perdita. Sono così ravviati, così ben educati, così “romanza da salotto”, che non mi sembra si addicano molto a una raccolta che è in prevalenza di cose originali ed insolite». I canti cui fa ri-ferimento sono «Io vorrei» e «I lamenti di una fanciulla». Sincerità disarmante. Ma non per i Pedrotti, che tirarono diritto. Ricordi diede il permesso. I due canti entrarono nel repertorio pubblicato e in seguito registrato.

È questo l’intervento di Mila attinente al coro sat, qui de-finito «Il conservatorio delle Alpi», più importante musi-calmente, frutto di lunga e minuziosa elaborazione: «Non ci sono più confini alla bravura del coro sat, e la ricerca-

tezza delle armonizzazioni contenute in questo volume prova che, se volesse, potrebbe ci-

mentarsi con la grande polifonia classi-ca (si vedano, per esempio, le diffi-

coltà di ritmo e d’intonazione di “Ama chi t’ama”, con le sue en-

trate distanziate, ed i suoi in-tervalli tutt’altro che como-di: oppure la preziosissi-ma e ardua realizzazione di “Serafin”. La grande ombra di Brahms è evo-cata nell’ultimo can-to della raccolta, il go-liardico “Gaudeamus igitur”, che fa le spese dell’“Ouverture Acca-demica”. Un accosta-mento illuminante: per un banale divario di mezzo secolo la Storia

della Musica ha perduto un incontro che sarebbe

stato fecondo. Se Brahms avesse potuto ascoltare il

coro della sat, lo avrebbe ag-giunto al numero delle gioie ar-

tistiche che gli dava l’Italia: il coro avrebbe arricchito la galleria dei suoi

ammiratori illustri, e ci avrebbe sicu-ramente rimediato qualche preziosa armo-

nizzazione delle canzoni austriache che il com-positore amburghese andava amorevolmente raccoglien-do». (E forse, chissà, come Mila a più riprese, Johannes sa-rebbe stato raggiunto da una graditissima cassetta di Te-roldego inviatagli come ringraziamento da Aldo, il più gio-vane dei Pedrotti, che, oltre a essere bravissimo fotogra-fo e basso fenomenale del coro, era un vero esperto del settore).

Nel 1976 viene pubblicata dalle Arti Grafiche Saturnia di Trento una ricerca di Silvio Pedrotti realizzata nelle val-li del trentino, con il titolo Canti popolari trentini raccolti da Silvio Pedrotti. Il frutto di questa indagine, condotta alla fi-

Concerto al Teatro Nazionale di Praga del 12 marzo 2007(foto di Luca Pedrotti).

Tutte le immagini sono tratte da: Piero De Martini, Il Conservatorio delle Alpi, Bruno Mondadori, Milano 2009.

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Page 4: 60 — cose di musica Massimo Mila e il «Conservatorio delle ... 37 pagine 60... · so non può che rivelarsi effimero, non raggiunge alcu-na meta duratura. «Il modo di cantare

ne degli anni cinquanta con l’aiuto di un registratore, sta in una serie di nastri, oggi riversati su compact disc, dai quali il direttore del coro sat trasse le melodie dei canti ri-prodotte, con i testi, sulla pubblicazione. Alcune di que-ste melodie successivamente furono affidate ai musicisti Michelangeli e Dionisi perché venissero armonizzate, ed entrarono nel repertorio del coro. Massimo Mila fece una recensione di quella interessante pubblicazione che uscì sulla «Nuova rivista musicale Italiana» edita da Eri – Edi-zioni Rai Radiotelevisione Italiana nello stesso 1976. Così si conclude, dopo una disamina dotta sulla ricerca etno-musicologica e la dialettalità dei testi: «L’insieme costitu-isce un panorama incantevole di vita e cultura popolare: il carattere di una regione, nei suoi tratti scherzosi, tragi-ci, appassionati e candidi, il tutto gustosamente assecon-dato dalle riproduzioni di antiche stampe locali che orna-no il volume». Silvio Pedrotti ringraziò con una lettera da Trento, il primo novembre, di cui conserviamo la minu-ta: «Carissimo (Massimo – cancellato e sostituito come sempre da:) Maestro, [...] non ti nascondo di aver provato un piacere particolare, misto a una punta di orgoglio, nel vedermi “criticato” in una pubblicazione così specializ-zata e da una firma come la tua. Ti sono infinitamente ri-conoscente per quanto hai scritto ma anche per l’affetto che ancora una volta mi hai dimostrato. Grazie, grazie». Questi erano i rapporti tra il direttore del coro sat e Mas-simo Mila. Per Silvio, che adottò ben presto l’amichevole e ricambiato «tu», Mila rimase sempre il «caro Maestro».

Ancora una volta il nome di Brahms compare nell’ul-timo scritto di Mila che ci è pervenuto sul coro sat: la presentazione del libretto del sessantesimo del comples-so trentino, nel 1986. Brahms gli è fratello anche per la costanza con cui arranca sulle montagne, dell’Austria o dell’Oberland bernese, da vero Wanderer: Brahms dei ghiac-ciai, così intitola uno dei suoi Scritti di montagna (Einaudi, 1992). Non casualmente qui citato assieme a Schubert: «E adesso [...] la civiltà musicale [...] di Schubert e Brahms rifluiva sulle naturali attitudini canore della popolazione, trasformandone le abitudini ed insegnando, a un popolo di cantori da melodramma, le virtù della musica da came-ra: l’equilibrio, la disciplina, l’omogeneità, il senso collet-tivo del canto corale nella rinuncia alla sopraffazione in-dividualistica per amore del risultato di assieme».

L’ultimo concerto del coro cui Mila fu presente nella sua Torino fu quello dell’11 ottobre 1986. Ne redas-se una breve nota sulla «Stampa» del 12 otto-bre: «L’università del canto popolare. È il coro alpino che ha ottenuto l’ammirazione di mu-sicisti come Dallapiccola e Benedetti Miche-langeli. Torino li ha accolti con gioia e li ha avvolti in un affettuoso arrivederci». L’archivio di Silvio Pedrotti dedi-cato a Mila si ferma qui. L’anzia-no direttore Silvio lascerà il suo compito qualche tempo dopo la morte dell’amico Massimo. Uno straordinario rapporto umano fatto di consonan-ze e affinità si chiuse, la-sciando in eredità quel-le ultime parole certa-mente condivise: equi-librio, disciplina, amo-re del risultato d’assieme. ◼

l’Età psicologica può EssErE definita come l’età de-sunta dal comportamento del soggetto a prescin-dere da quella anagrafica. È usuale definire «vec-

chio» chi si atteggia come tale, pur avendo un’età non an-cora elevata. Esiste una differenza fondamentale tra vec-chio e anziano: «vecchio» è colui che ha un modo di agire e di pensare corrispondente a un’età avanzata mentre an-che un anziano può essere considerato psicologicamen-te «giovane», perché ragiona e si comporta come se aves-se ancora molti anni davanti a sé.

Spesso la nostra mente e il nostro corpo sono in conflit-to tra loro, ci sono situazioni nelle quali ci troviamo im-plicati e coinvolti in una condizione che non riusciamo ad accettare proprio perché non la sentiamo corrispondente al nostro modo di vivere. Da qui nascono molti contrasti che spesso sfociano anche in gravi patologie. Il rimedio può essere trovato cercando di compiere un compromes-so, una progressiva distinzione tra corpo – che inesora-bilmente decade – e mente che, in alcuni casi, può mante-nersi più giovane. L’amore per la vita, lo slancio verso gli altri, l’attrazione nei confronti delle novità, ma soprattut-to la curiosità, la voglia di conoscere, sono l’alimento ne-cessario e indispensabile per tenere in allenamento e vi-va la mente, mentre il corpo deve soggiacere a una legge biologica dalla quale è impossibile sottrarsi.

La frase «ai miei tempi» può sembrare del tutto norma-le in una persona in avanti con gli anni, ma se la si ana-lizza bene, scopriamo che rivela anche un parziale rifiuto del tempo attuale e delle evoluzioni tecnologiche e socia-li che negli anni sono avvenute. Consideriamo ad esem-pio il «fenomeno internet»: molti lo hanno rifiutato per un blocco psicologico, altri lo hanno accettato solamen-te per lavoro, altri ancora lo utilizzano divertendosi e lo usano nella sua piena potenzialità.

Le innovazioni tecnologiche sono entrate a far parte dell’uso comune, destinate alle grandi masse, sono un in-dice eloquente per datare l’età psicologica di un indivi-duo. Sono sfide alla mente che, se vuole mantenersi gio-

vane, deve adeguarsi con impegno e cu-riosità a queste continue «provocazio-

ni» che la mettono a dura prova. L’utilizzo del navigatore satellita-re, del cellulare con tutte le sue funzioni, di skipe, del digita-

le terrestre ecc, rendono la vi-ta di un individuo più facile e divertente, o estremamen-

L’età psicologicae le scelte musicali

di Cecilia Dolcetti

Tiziano Vecellio,Le tre etàdell'uomo(particolare,

c. 1512,National Gallery

of Scotland,Edinburgh;

www.wga.hu).

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Page 5: 60 — cose di musica Massimo Mila e il «Conservatorio delle ... 37 pagine 60... · so non può che rivelarsi effimero, non raggiunge alcu-na meta duratura. «Il modo di cantare

te più complicata, dipende sempre dall’età psicologica che ha, dalla sua capacità di superare , o no, quel «blocco» che rifiuta l’innovazione e quindi fa invecchiare.

L’Architettura, l’Arte, il Teatro e, naturalmente, la Mu-sica sono molto significativi per datare psicologicamen-te un individuo. Ci sono appassionati di musica classica o lirica che non seguono l’evolversi che la musica ha avuto nell’ultimo secolo. Non la conoscono neppure, perché non accettano di ascoltarla, di comprendere il messaggio che vuol comunicare. Alcuni suoni sembrano stridenti, metal-lici, molto diversi e lontani dalle melodie che normalmente conosciamo. Possono sicuramente non piacere, ma chi ha la curiosità di ascoltarli, chi cerca di coglierne il significato, a volte riesce ad apprezzarli, anche ad appassionarsi, superando l’ostilità che «il nuovo» sempre rappresenta.

La musica del ventesimo secolo è in genere vissuta con diffidenza mi-sta a disagio. Eppure qualunque mu-sica agisce sugli ascoltatori attraver-so le medesime leggi acustiche: fa-cendo vibrare l’aria e suscitando for-ti sensazioni. Il significato musica-le è vago, mutevole, personale, biso-gna poterlo cogliere con predisposi-zione, quasi con umiltà perché possa essere apprezzato.

In un secolo di grandi eventi, co-me è stato il ventesimo, quale sia la reale influenza della storia sulla mu-sica credo sia motivo di acceso di-battito. Tuttavia, anche se la storia non potrà mai spiegarci esattamen-te il senso della musica, quest’ultima è sicuramente in grado di dirci qual-cosa della storia perché ne è effetto e conseguenza.

La musica del ventesimo secolo per alcuni è solamente «rumore», riempie di sconforto un pub-blico «vecchio» con un impatto quasi impercettibile sul mondo esterno. Per altri questa musica assomiglia al «ru-more» proprio perché è volutamente rumore, non suono armonioso e armonico.

martina avEva vEnt’anni quando Dario le chiese di en-trare a far parte della Sound Machine. Non aveva mai can-tato Rythm and Blues, ma accettò questa proposta come una sfida su se stessa in un momento particolarmente dif-ficile della vita. La incuriosiva l’idea di sperimentare pez-zi «vecchi», ma nuovi per lei, così diversi, così lontani dal-la musica ossessiva e battente che era abituata ad ascolta-re e ad accompagnare, cantando tra amici o in discoteca. Guardava Dario mentre suonava il sax ed era affascinata dalla precisione e, nello stesso tempo, dalla passione che emetteva il suo strumento.

«Ho scoperto vecchie canzoni, autori oggi un po’ dimen-ticati, ma che hanno saputo scrivere parole e note capa-ci di farmi sentire meno sola, meno “unica” nel prova-re certi turbamenti. Mi sono chiesta come fosse possibi-le provare oggi le stesse sensazioni di tanto tempo fa. Ho capito che, anche se il tempo passa, la musica, può rap-presentare e far condividere certi stati d’animo perché possiede un linguaggio universale, capace di dare rispo-ste a domande anche quando è difficile fornire solamen-

te un vago parere. È stato rassicurante per me scoprire che le stesse“prove”, le stesse difficoltà esistono da sempre, le canzoni di quell’epoca mi hanno aiutata a risolverle, o quantomeno ad accettarle cercando di superarle».

paolo, da sEmprE appassionato di musica lirica, non ha mai mancato di ascoltare le opere, quando se ne presenta-va l’occasione e la possibilità. Verdi soprattutto è il suo pre-diletto, perché la sua forza, la sua passionalità ben si addi-cono al temperamento di Paolo, vigoroso e audace come l’esaltazione e l’entusiasmo che trapelano nelle opere del grande compositore. La sua passione lo ha portato a spe-cializzarsi, fino a diventare uno stimato intenditore, inter-

pellato anche come critico ed esperto.Paolo, nei suoi anni giovanili, ha fatto la resistenza in

trincea, ha vissuto i drammi della fine del periodo fasci-sta e della guerra, e ha ancora nelle orecchie gli scoppi del-le bombe e i fischi delle sirene che incutevano terrore e annunciavano sempre una perdita, un lutto, spesso una strage.

Nessuno dei suoi familiari e amici poteva comprendere come Paolo si appassionasse sempre più alla musica con-temporanea. Il perché si commuovesse con la stessa parte-cipazione, ascoltando Verdi oppure Schoenberg, o Nono. Quella musica nuova non gli piaceva, ma lo emozionava moltissimo. Quel rumore, quei suoni metallici, quei sibi-li, così diversi, così in antitesi con le melodie alle quali era abituato erano però capaci di suscitare sentimenti rimossi, di rievocare sensazioni che non poteva aver dimenticato.

Si ascolta musica non solo per deliziarsi del piacere del suono, ma anche per Ri-trovare qualcosa. Per Con-vive-re e Ri-vivere emozioni e turbamenti. Tutto ciò che è sen-timento è vita. L’amore per gli altri, per qualche interes-se, per qualcuno in particolare, possiede la formula ma-gica della longevità (almeno di quella della mente). ◼

Valentin de Boulogne, Le quattro età dell'uomo (1626-1628 olio su tela, 96 x 134 cm, National Gallery, London; www.wga.hu).

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