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1 MANUALE DIRITTO DEL LAVORO GHERA (inclusa appendice di aggiornamento 2009) CAPITOLO PRIMO - PROFILI STORICI E DI POLITICA LEGISLATIVA Le fonti del diritto del lavoro in generale: interrelazione tra legge e contrattazione collettiva Partiamo col prendere in considerazione il sistema delle fonti del diritto del lavoro. A norma dell'art.1 disp.prel.c.c. sono fonti del diritto oggettivo le leggi, i regolamenti e gli usi. Con il R.D.L. 721/1943 e col D.Lgs. 369/1944 vi è stata l'abrogazione di un ulteriore fonte, già contemplata nel succitato art.1, ossia delle norme corporative. L'art. 5 delle preleggi individuava tra le norme corporative gli accordi economici collettivi, i contratti collettivi di lavoro, le sentenze della magistratura del lavoro e le ordinanze corporative, tutte utili come fonti del diritto del lavoro, oggi inutili in quanto fuori dall'ordinamento. Per quanto concerne le fonti, l'unica utilità proviene dall'art.2078 c.c., il quale precisa che gli "usi" hanno efficacia in mancanza di leggi o di disposizioni di contratti collettivi, ma aggiunge anche che gli usi prevalgono sulle leggi se favorevoli al prestatore di lavoro: in tal caso, quindi, si attua una deroga all'art.5 delle preleggi, il quale limita l'efficacia delle consuetudini al solo caso in cui esse siano richiamate da leggi o regolamenti. Siamo, quindi, dinanzi ad un tipico esempio d'integrazione del contratto di lavoro. Tuttavia il contenuto delle fonti del diritto del lavoro non proviene solo dalla volontà politica del legislatore, ma anche dall'intervento dell'autonomia collettiva, ossia del potere di autoregolamento degli interessi dei gruppi o delle collettività professionali, il quale molto spesso ha ispirato l'opera del legislatore. Le tecniche della "recezione, consolidazione ed estensione" sono tipiche della legislazione del lavoro, che molto spesso ha avuto una funzione ausiliaria della contrattazione collettiva (es. L.604/1966 sui licenziamenti individuali, per i quali esisteva già una disciplina collettiva). Altrettanto spesso, però, il rapporto tra legislazione e contrattazione collettiva ha seguito il modello della "legislazione di sostegno", ossia è stato lo stesso potere legislativo, nel disciplinare una materia, a lasciare ampio spazio all'operato dell'autonomia collettiva. La legislazione del lavoro, in tal caso, ha una funzione promozionale rispetto alla contrattazione collettiva, e non solamente ausiliaria. L'evoluzione storica del diritto del lavoro: la fase della legislazione sociale Volendo tracciare un percorso storico del diritto del lavoro italiano, possiamo individuare 3 fasi, intrecciate tra loro e spesso sovrapposte all'interno degli stessi periodi di tempo: la fase della legislazione sociale, periodo in cui le leggi in materia del lavoro si configurano come norme eccezionali rispetto al diritto privato; la fase dell'incorporazione delle norme sul lavoro nel diritto privato comune e quindi nella codificazione civile; la fase della costituzionalizzazione del diritto del lavoro. Nella prima fase la "legislazione sociale" si presenta come risposta dell'ordinamento alla questione sociale sorta in forza della rivoluzione industriale: i lavoratori, aggregati nelle fabbriche e divenuti operai, incominciano ad avere degli interessi specifici di classe che andrebbero tutelati, mentre il codice civile del

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MANUALE DIRITTO DEL LAVORO GHERA

(inclusa appendice di aggiornamento 2009)

CAPITOLO PRIMO - PROFILI STORICI E DI POLITICA LEGISLATIVA

Le fonti del diritto del lavoro in generale: interrelazione tra legge e contrattazione collettiva

Partiamo col prendere in considerazione il sistema delle fonti del diritto del lavoro. A norma dell'art.1

disp.prel.c.c. sono fonti del diritto oggettivo le leggi, i regolamenti e gli usi. Con il R.D.L. 721/1943 e col

D.Lgs. 369/1944 vi è stata l'abrogazione di un ulteriore fonte, già contemplata nel succitato art.1, ossia

delle norme corporative. L'art. 5 delle preleggi individuava tra le norme corporative gli accordi economici

collettivi, i contratti collettivi di lavoro, le sentenze della magistratura del lavoro e le ordinanze corporative,

tutte utili come fonti del diritto del lavoro, oggi inutili in quanto fuori dall'ordinamento.

Per quanto concerne le fonti, l'unica utilità proviene dall'art.2078 c.c., il quale precisa che gli "usi" hanno

efficacia in mancanza di leggi o di disposizioni di contratti collettivi, ma aggiunge anche che gli usi

prevalgono sulle leggi se favorevoli al prestatore di lavoro: in tal caso, quindi, si attua una deroga all'art.5

delle preleggi, il quale limita l'efficacia delle consuetudini al solo caso in cui esse siano richiamate da leggi o

regolamenti. Siamo, quindi, dinanzi ad un tipico esempio d'integrazione del contratto di lavoro.

Tuttavia il contenuto delle fonti del diritto del lavoro non proviene solo dalla volontà politica del

legislatore, ma anche dall'intervento dell'autonomia collettiva, ossia del potere di autoregolamento degli

interessi dei gruppi o delle collettività professionali, il quale molto spesso ha ispirato l'opera del legislatore.

Le tecniche della "recezione, consolidazione ed estensione" sono tipiche della legislazione del lavoro, che

molto spesso ha avuto una funzione ausiliaria della contrattazione collettiva (es. L.604/1966 sui

licenziamenti individuali, per i quali esisteva già una disciplina collettiva).

Altrettanto spesso, però, il rapporto tra legislazione e contrattazione collettiva ha seguito il modello della

"legislazione di sostegno", ossia è stato lo stesso potere legislativo, nel disciplinare una materia, a lasciare

ampio spazio all'operato dell'autonomia collettiva. La legislazione del lavoro, in tal caso, ha una funzione

promozionale rispetto alla contrattazione collettiva, e non solamente ausiliaria.

L'evoluzione storica del diritto del lavoro: la fase della legislazione sociale

Volendo tracciare un percorso storico del diritto del lavoro italiano, possiamo individuare 3 fasi, intrecciate

tra loro e spesso sovrapposte all'interno degli stessi periodi di tempo:

• la fase della legislazione sociale, periodo in cui le leggi in materia del lavoro si configurano come

norme eccezionali rispetto al diritto privato;

• la fase dell'incorporazione delle norme sul lavoro nel diritto privato comune e quindi nella

codificazione civile;

• la fase della costituzionalizzazione del diritto del lavoro.

Nella prima fase la "legislazione sociale" si presenta come risposta dell'ordinamento alla questione sociale

sorta in forza della rivoluzione industriale: i lavoratori, aggregati nelle fabbriche e divenuti operai,

incominciano ad avere degli interessi specifici di classe che andrebbero tutelati, mentre il codice civile del

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1865 non prevedeva una disciplina del contratto di lavoro, ma la sola "locazione di opere e servizi". Si

riteneva che dovesse essere l'autonomia privata a prevalere nel campo della regolamentazione del lavoro

industriale e che dovesse essere il mercato a fissare salari e condizioni di lavoro. Addirittura in Francia era

vietata la coalizione con fini di rivendicazione ed in Inghilterra venivano represse le libertà sindacali.

Verso la metà del 1800 si incomincia a capire, anche sotto la spinta del problema della questione sociale,

che bisogna intervenire, anzitutto non vietando l'operato dei sindacati, i quali iniziano a porre in essere la

propria funzione di resistenza economica e di promozione politica, e soprattutto salvaguardando tutta una

serie di diritti dei lavoratori, quali la differenziazione di trattamento dei fanciulli e delle donne o il diritto

all'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni: inizia, così, la legislazione sociale. Tuttavia vengono presi

in considerazione solo e solamente i diritti degli operai, perchè meritevoli, secondo il legislatore, di una

maggiore tutela dettata dalla loro particolare condizione. Si ha quindi una "legislazione di classe", che non

abbraccia la disciplina del contratto di lavoro, ma solo talune condizioni economico-sociali.

Al metodo legislativo si accompagnava anche quello contrattuale o dell'autotutela collettiva, grazie

all'operato dei sindacati, che portava allo sviluppo di contratti collettivi, seppur solo a livello locale:

rilevanti, quindi, divennero le consuetudini in materia di diritto del lavoro. Con la L. 295/1893, tra l'altro,

vennero istituiti i "Collegi dei probiviri" (in cui sedevano magistrati, rappresentanti degli imprenditori e

degli operai), i quali avrebbero dovuto dirimere le controversie tra lavoratori ed industriali, il che, in

assenza di una disciplina legislativa, sarebbe stato pressocchè impossibile. Per tal motivo i Collegi si

limitavano ad avere la funzione di conciliatori delle controversie, avviando però una formazione

extralegislativa del diritto del lavoro. La giurisprudenza è così diventata fonte materiale per la disciplina del

lavoro, introducendo norme che in seguito sarebbero state recepite anche dal legislatore.

La fase dell'incorporazione del diritto del lavoro nel diritto privato e nel codice del 1942

Con il passare del tempo si intuisce che la disciplina del diritto del lavoro non può più essere configurata

all'interno di norme eccezionali, ma deve essere accorpata al diritto privato. Al pari del diritto

commerciale, il diritto del lavoro diviene una disciplina fondamentale, che sebbene inserita nel codice del

1942, mantiene una propria autonomia rispetto al diritto civile ed a quello commerciale. I principi cardini

del diritto del lavoro, quali il principio della tutela del lavoratore come contraente debole che viene

rafforzato per quanto riguarda il trattamento minimo al quale egli ha diritto o il principio secondo cui il

lavoratore è subordinato all'interesse dell'impresa ed all'autorità dell'imprenditore, vengono rafforzati ed il

Codice del 1942 si configura come un punto d'arrivo importante rispetto al passato, punto al quale si

giunge soprattutto grazie alla "LEGGE SULL'IMPIEGO PRIVATO" avutasi grazie al D.Lgs. 112/1919, rafforzata

in seguito dalla più completa redazione del R.D.L. 1825/1924. Gli impiegati, infatti, per la mancanza di una

spinta sindacale simile a quella degli operai, non disponevano di contratti collettivi diffusi, sebbene

avessero dei giudici simili ai collegi dei probiviri. Le condizioni dei contratti di impiego privato erano quindi

rimesse all'autonomia individuale o ai cosiddetti "usi impiegatizi". Per tal motivo nacque l'esigenza di

tutelare i diritti degli impiegati grazie alla suddetta legge.

Altro fenomeno che portò all'incorporazione del diritto del lavoro nel Codice del 1942 fu sicuramente

quello della GIURIDIFICAZIONE DEL CONTRATTO COLLETTIVO, dapprima nella forma del "concordato di

tariffa" fondato sull'adesione volontaria di lavoratori ed imprenditori, e successivamente nella forma

pubblicistica della contrattazione collettiva corporativa, la quale fungeva da fonte del diritto grazie alla

competenza attribuita alla potestà normativa dei sindacati nell'ambito delle categorie professionali. Il

sistema corporativo fascista aveva messo fine alla libertà sindacale (L. 563/1926) ed aveva trasformato il

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contratto collettivo in un atto normativo eteronomo, proveniente dal sindacato unico fascista. La

corporazione riuniva rappresentanti sindacali delle due parti contrapposte (lavoratori ed imprenditori) e

stabiliva le norme della produzione, sotto il controllo del Ministero delle Corporazioni. Veniva, poi, affidato

alla Magistratura del Lavoro il compito di dirimere le controversie giuridiche ed economiche. I contratti

collettivi si configuravano come leggi speciali di categoria, mentre in altri Paesi si assisteva all'emanazione

dei primi codici del lavoro.

Il codice civile del 1942 non ha fatto altro che incorporare la legge sull'impiego privato ed i contratti

collettivi corporativi, sottolineando il "principio della prevalenza della norma più favorevole al lavoratore"

all'art. 2077 c.c. Il codice, tuttavia, ha incluso solo le norme generali sul lavoro, lasciando comunque a leggi

speciali l'intera disciplina.

La costituzionalizzazione del diritto del lavoro

Abbiamo visto come il legislatore del 1942 avesse inserito il diritto del lavoro tra le componenti

fondamentali del diritto privato, affiancandolo al diritto civile ed a quello commerciale. Va tenuto conto

anche del fatto che il diritto del lavoro contiene al suo interno anche elementi di diritto pubblico, e non

solo privato.

Con l'emanazione della Costituzione repubblicana il 1 gennaio del 1948, l'evoluzione storica del diritto del

lavoro subisce una notevole spinta. La carta costituzionale pone il diritto del lavoro in una posizione

preminente rispetto al diritto commerciale ed a quello civile, introducendo il concetto di dignità sociale del

cittadino, che poi abbraccerà tutti i rami del diritto. Viene ribadita la protezione del lavoratore come

soggetto-contraente più debole, ma ciò non rappresenta più, come nelle precedenti fasi, un elemento

eccezionale o speciale, una concessione del legislatore, ma un vero e proprio fondamento ideologico. E ciò

si manifesta nel fatto che il lavoro viene tutelato costituzionalmente non solo in linee generali, come

avviene nell'art. 35 per la tutela del lavoro da parte della Repubblica in tutte le sue forme o nell'art.3 per

l'uguaglianza formale e sostanziale, ma anche nella specifica garanzia di determinati istituti del diritto del

lavoro: basti pensare all'art. 36 (retribuzione proporzionata e sufficiente), all'art. 37 (parità retributiva tra i

sessi e tutela del minore lavoratore), all'art.38 (previdenza e sicurezza sociale), agli artt.39 e 40 (sindacato,

contratto collettivo e diritto di sciopero). Quindi la Costituzione oltre a perseguire il fine di tutela del

contraente-soggetto debole, tende a garantire anche quelli che vengono definiti come "diritti sociali". Va,

inoltre, sottolineata la rilevanza della costituzione economica, cioè l'insieme di norme e principi che

regolano l'assetto economico della società, contenuti all'interno della carta costituzionale.

Potremmo concludere dicendo che la Costituzione italiana rappresenta la manifestazione più significativa

dell'importanza del diritto del lavoro non più come disciplina speciale di classe, ma come punto cardine

dell'ordinamento, di cui la Costituzione stessa è il punto fondamentale.

Attuazione dei principi costituzionali per mezzo della legislazione speciale

L'ampio spazio dedicato alla materia del diritto del lavoro all'interno della Costituzione ha posto, però, non

pochi problemi per la discrepanza rispetto al Codice civile del 1942. Il ruolo delle disposizioni codicistiche è

stato del tutto ridimensionato, in quanto la carta costituzionale ha elevato ad elementi fondamentali molti

aspetti della disciplina del lavoro.

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Successivamente alla Costituzione, quindi, è possibile distinguere due fasi temporali circa l'evoluzione del

diritto del lavoro: all'interno della prima ci si è rivolti maggiormente verso un'INTEGRAZIONE DELLA

DISCIPLINA CODICISTICA, tramite un perfezionamento della tutela "minimale" del lavoratore visto come

soggetto contrattualmente debole e bisognoso di protezione (si pensi alla legge sul collocamento, sul

contratto di lavoro a termine ecc); in una seconda fase, invece, si ha una maggiore tutela del lavoratore,

considerato non più solo e solamente come un contraente debole nel rapporto di scambio, ma come un

soggetto inserito in una rapporto di produzione, nonché come appartenente ad una categoria socialmente

sottoprotetta. Emergono in tal senso temi come quello della "dignità sociale", della tutela contro la

discriminazione e della parità di trattamento.

Per garantire la dignità sociale di cui sopra vennero attuati diversi interventi, primo fra tutti quello avutosi

con la L.604/1966 inerente la disciplina del licenziamento individuale: si garantì una maggior tutela del

lavoratore tramite la limitazione dei poteri dell'imprenditore, attraverso strumenti quali l'introduzione del

giustificato motivo e la nullità dei licenziamenti intimati per rappresaglia sindacale.

Tramite, poi, lo strumento della "legislazione promozionale" si fece in modo di riequilibrare a favore dei

lavoratori non solo i rapporti di potere all'interno dell'azienda, ma anche all'interno della società civile: è

da questo presupposto che scaturì lo STATUTO DEI LAVORATORI, contenuto all'interno della L.300 del 20

maggio 1970, con la quale si garantì l'osservanza dei principi costituzionali nel rapporto tra lavoratore

dipendente e datore di lavoro, tutelando la dignità e la libertà del lavoratore, oltre a tutelare il diritto al

libero svolgimento dell'attività sindacale sul luogo di lavoro. Tutto ciò venne realizzato garantendo

l'osservanza di uno dei principi cardini costituzionali, ossia quello previsto all'interno dell'art.3 inerente il

diritto all'eguaglianza, facendo in modo di rimuovere "gli ostacoli di ordine economico e sociale che …

impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione dei lavoratori

all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".

Il diritto del lavoro della crisi e la legislazione contrattata

A partire dal 1975 si apre una nuova fase della legislazione del lavoro (si parla di "diritto del lavoro della

crisi"), caratterizzata, diversamente da ciò che era avvenuto in passato, dalla difesa e dalla crescita dei

livelli di occupazione, prevedendo l'estensione delle forme di impiego flessibile della forza-lavoro (si pensi

ai contratti di solidarietà o quelli di formazione) e la riduzione del tasso di inflazione tramite la cosiddetta

"politica dei redditi", volta al contenimento della spesa nel settore previdenziale ed al rallentamento dei

meccanismi di indicizzazione salariale. Oltre alla previsione di una deregolamentazione del mercato del

lavoro, la disciplina protettiva si trasforma da "rigida in flessibile", ampliando l'autonomia negoziale privata

e permettendo deroghe agli stessi principi imperativi della disciplina del lavoro, tramite contratti collettivi

o provvedimenti amministrativi delegati. La tutela dell'occupazione diventa maggiormente rilevante

rispetto alla tutela della posizione debole del lavoratore. Negli anni 80 la legislazione del lavoro si inquadra

in una logica di concertazione tra pubblici poteri e parti sociali (scambio politico o modello neocorporativo

nelle relazioni industriali): la legislazione in materia non è più ispirata dalla contrattazione collettiva, bensì

viene originata dalla partecipazione delle parti sociali: si ha la cosiddetta "LEGISLAZIONE CONTRATTATA".

La flessibilizzazione del mercato del lavoro, la riforma della PA e del lavoro pubblico e la riforma del

Titolo V della Costituzione

La politica del diritto del lavoro seguita nel corso degli anni 80 si è maggiormente sviluppata nel decennio

successivo, dando luogo a nuovi modelli di governo delle relazioni industriali (es. legge sullo sciopero nei

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servizi essenziali), ma anche ad una flessibilizzazione del mercato del lavoro (es. riforma del collocamento,

contratti di lavoro flessibili, lavoro degli immigranti), nonché ad uno snellimento burocratico del mercato

stesso (es. decentramento amministrativo).

Importanti interventi legislativi si sono avuti, inoltre, per rafforzare la tutela apprestata ai lavoratori da

parte di determinati istituti chiave, in forza della sottoprotezione sociale del lavoratore, per garantire una

maggiore protezione della persona-lavoratore e dei suoi diritti fondamentali: basti pensare agli interventi

riguardanti le pari opportunità, la tutela dei minori, la tutela del posto di lavoro.

Importante è stata anche, negli anni 90, la "riforma del pubblico impiego", prevista nell'ottica di

miglioramento nella distribuzione delle risorse statali e di apertura alle logiche della negoziazione privata

per quanto riguarda il lavoro pubblico: in sintesi la disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici

è stata trasferita dall'ambito del diritto pubblico, denso di privilegi, a quello del diritto civile, più incline al

settore privato.

La partecipazione all'Unione Europea prima e l'adesione alla moneta unica in un secondo momento, hanno

posto all'Italia, come agli altri Paesi, notevoli vincoli inerenti il deficit di bilancio ed il debito pubblico, il che

ha reso necessario un netto intervento dello Stato nel controllo della spesa sociale. E' stato necessario,

inoltre, rivedere il sistema previdenziale, più volte modificato.

Infine con la L.3/2001 è stata attuata una modifica al Titolo V della parte II della Costituzione, il titolo

inerente i rapporti tra Stato ed enti locali: la riforma ha introdotto il federalismo legislativo, dal quale

scaturisce la previsione all'interno dell'art.117 della carta costituzionale, di settori di competenza esclusiva

dello Stato, quali l'ordinamento civile e la previdenza sociale, settori di competenza concorrente tra Stato e

regioni, quali l'istruzione e la formazione professionale, la tutela e la sicurezza sul lavoro, la previdenza

complementare ed integrativa (in cui lo Stato fissa i principi fondamentali e le regioni intervengono nella

regolamentazione della materia) e settori di competenza residua esclusiva delle regioni.

Gli sviluppi più recenti del diritto del lavoro: crisi del modello concertativo e politiche di flessibilizzazione

del mercato del lavoro

A partire dal 2001, con l'insediamento del nuovo governo, vi sono stati importanti novità che hanno

riguardato il diritto del lavoro: la legislatura si è aperta con la pubblicazione del "Libro bianco sul mercato

del lavoro in Italia", nel quale venivano indicate le strategie quinquennali del governo, il quale si sarebbe

concentrato per lo più sulla liberalizzazione del mercato del lavoro e sul superamento del precedente

sistema di concertazione con le parti sociali, incapace, data la continua richiesta di unanimismo sindacale,

di stare al passo con il mercato globalizzato. Il governo ha da subito attuato una normativa sul contratto di

lavoro a tempo determinato ed una in materia di tempo di lavoro, entrambe collegate all'attuazione di

direttive comunitarie.

Il governo, inoltre, con il D.Lgs. 276/2003 ha emanato una riforma del mercato del lavoro, la quale ha

previsto nuove figure contrattuali di lavoro atipico e ne ha ridisciplinato delle altre già esistenti, come il

part-time e l'apprendistato, il tutto sempre al fine di flessibilizzare maggiormente il mercato.

Una nuova legge costituzionale, infine, ha sviluppato ulteriormente il processo di devoluzione di

competenze legislative alle regioni.

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N.B. il libro parla di referendum popolare a seguito della legge costituzionale, senza conoscerne l'esito. Il

referendum si è svolto il 25 ed il 26 giugno del 2006: il popolo italiano ha respinto la riforma sulla

devolution, inerente il cambiamento di diversi aspetti nell'assetto istituzionale del Paese, il che avrebbe

comportato delle conseguenze anche in materia di diritto del lavoro.

Il diritto comunitario ed i rapporti col diritto interno

Nell'ultimo decennio ha assunto sempre maggiore importanza l'ordinamento comunitario, ossia l'insieme

di norme risultanti dai Trattati e da altre fonti pari ordinate agli stessi in forza dei Trattati europei.

In base ai Trattati le istituzioni europee possono emanare direttive e regolamenti: i regolamenti hanno

portata generale, sono obbligatori in tutti i propri elementi e sono da subito validi all'interno

dell'ordinamento dello Stato membro, facendo insorgere diritti da subito tutelabili dinanzi ai giudici

nazionali; le direttive, invece, sono rivolte agli Stati membri e vincolano i vari Paesi solo negli scopi e nei

principi, lasciando un margine di discrezionalità nella scelta delle forme e dei mezzi tramite i quali dare

applicazione alla direttiva stessa. Non producono, quindi, da subito effetti all'interno dell'ordinamento,

salvo il caso in cui la direttiva risulti particolarmente dettagliata e sia scaduto il termine per l'attuazione da

parte dello Stato membro: in tal caso la direttiva ha anch'essa efficacia diretta. Tale effetto, però, si ha solo

nei rapporti verticali, tra privato e amministrazione pubblica, ma non vige nei rapporti orizzontali, tra

privati, essendo destinatari dell'atto solo gli Stati membri e non i singoli.

Ovviamente nel momento in cui sorge un contrasto tra norme interne e norme comunitarie, il principio del

primato del diritto comunitario impone al giudice nazionale di disapplicare la norma interna e dar luogo a

quella comunitaria, come ribadito dalla Corte di Giustizia e dalla stessa Corte Costituzionale italiana, salvo il

caso in cui la norma comunitaria non entri in contrasto con i principi cardini dell'ordinamento.

L'evoluzione delle politiche sociali comunitarie

Possiamo intuire, dopo quanto abbiamo detto, che l'Unione Europea ha assunto un'importanza tale da

essere determinante anche in tema di mercato del lavoro e di rapporti di lavoro all'interno dei singoli Stati.

Le originarie previsione contemplate all'interno del TCE 1957 di Roma, sono state ampiamente modificate

dai vari trattati che si sono susseguiti nel tempo, a partire soprattutto dall'AUE 1986, passando per il TUE

del 1992 sino al Trattato di Lisbona del 2007. L'art.2 del Trattato prevede, oggi differentemente dal

passato, che tra gli obiettivi dell'Unione figuri anche un elevato livello di occupazione e di protezione

sociale, oltre al miglioramento del tenore di vita e delle condizioni lavorative ed alla promozione

dell'occupazione auspicate dall'art.136.

Anche l'autonomia collettiva di livello europeo ha acquisito sempre maggiore importanza, sino a

trasformare il "dialogo sociale" e la contrattazione collettiva di livello europeo in fonte formale in materia

sociale: molto spesso è previsto che la Commissione ascolti le parti sociali obbligatoriamente. Il Trattato

prevede, inoltre, che in molti settori di politica sociale il Consiglio debba osservare la procedura di

codecisione con il Parlamento e sentita la Commissione (es. parità tra uomini e donne,miglioramento

dell'ambiente lavorativo), mentre in altri settori (es. contributi finanziari per la promozione

dell'occupazione, sicurezza e protezione sociale dei lavoratori ecc) è previsto che il Consiglio adotti le

decisione all'unanimità, semplicemente consultando il Parlamento.

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Sempre per quanto concerne le fonti, inoltre, accanto a direttive e regolamenti, per meglio garantire il

principio di sussidiarietà (il quale impone che l'Unione debba intervenire nei settori di propria competenza

solo qualora possa garantire un intervento qualitativo migliore rispetto a quello degli Stati membri), sono

stati introdotti interventi meno autoritativi e maggiormente cooperativi: si tratta del cosiddetto "soft law",

il quale individua degli obiettivi in determinati settori su cui gli Stati devono ricercare degli elementi di

coordinamento.

Importanti sono poi due clausole inerenti l'applicazione dei diritto comunitario: la clausola del FAVOR, la

quale prevede che in caso di applicazione di una normativa comunitaria, uno Stato membro che intenda

applicare una disciplina diversa che attui un maggior livello di protezione, può liberamente farlo; e la

clausola di NON REGRESSO, la quale prevede che l'attuazione di una direttiva comunitaria non possa in

alcun modo costringere uno Stato membro all'attuazione, qualora lo stesso possegga già una disciplina che

garantisce un uguale o maggiore livello di protezione.

Va segnalato, infine, che inizialmente molte materie inerenti il diritto del lavoro non erano incluse nelle

competenze dell'Unione: retribuzioni, diritto di associazione, diritto di sciopero, di serrata ed altri. La Carta

comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989 avrebbe rappresentato un buon punto

nel processo di integrazione della materia a livello comunitario, se non ci fosse stata l'opposizione da parte

del Regno Unito, la quale ha escluso una diretta efficacia vincolante dell'atto. Il progetto di Costituzione

Europea avrebbe dovuto riprodurre fedelmente la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea,

proclamata nel 2000, ma il fallimento del processo costituzionale europeo ha portato al Trattato di Lisbona

del 2007, che come ben sappiamo ha riconosciuto il suddetto documento, ma non lo ha riprodotto

fedelmente, evitando così di attribuirgli una efficacia giuridica vincolante.

N.B. il libro non è al corrente del definitivo abbandono del progetto di costituzione, essendosi fermato

all'anno 2006.

La Corte costituzionale ed il suo contributo allo sviluppo del diritto del lavoro

Abbiamo precedentemente ribadito come, a partire dalla Costituzione del 1948, il diritto del lavoro ha

assunto un'importanza pari, se non addirittura superiore, al diritto commerciale ed a quello civile. Ciò è

stato possibile anche grazie alle innumerevoli pronunce della Corte Costituzionale, la quale non solo ha

molto spesso abrogato norme in materia di diritto del lavoro contrastanti con la Costituzione ed

appartenenti a leggi speciali o addirittura al Codice civile, ma ha spesso emanato sentenze interpretative di

rigetto, ritenendo la questione di illegittimità non fondata ma fornendo l'interpretazione più conforme alla

Costituzione di un enunciato legislativo, e sentenze interpretative di accoglimento, che ritengono

illegittimo un enunciato di una determinata norma, chiarendo come vada interpretata la parte restante.

Non sono mancate, poi, sentenze di accoglimento parziale (sostitutive o additive), le quali hanno molto

spesso chiarito cosa mancasse ad una norma per essere costituzionale o cosa andasse sostituito all'interno

della stessa.

La giurisprudenza costituzionale ha quindi garantito una maggiore evoluzione del diritto del lavoro, che ha

assunto negli ultimi anni un ruolo di funzione-guida nell'ambito delle discipline privatistiche.

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CAPITOLO II - IL LAVORO SUBORDINATO

SEZIONE A: LAVORO AUTONOMO E LAVORO SUBORDINATO: PROFILI STORICI E SISTEMATICI

La collocazione del rapporto di lavoro nel libro V del Codice civile dedicato all'impresa

Il rapporto di lavoro è disciplinato all'interno del codice civile negli artt.2094 ss, all'interno del Libro V Delle

Obbligazioni, titolo II Del Lavoro nell'impresa. Quindi già da una prima lettura possiamo renderci conto di

come il rapporto di lavoro non è disciplinato all'interno del Libro IV Delle obbligazioni (e dei contratti).

Questa previsione codicistica risponde all'esigenza del legislatore del 1942 di unificare il diritto civile e

quello commerciale, senza che vi sia una distinzione tra istituti a seconda che essi vengano posti in essere o

meno all'interno di un'attività commerciale.

Il codice, inoltre, tratta il rapporto di lavoro sotto il mero punto di vista economico, caratterizzato dallo

scambio tra la retribuzione ed una prestazione manuale o intellettuale. Nello stesso Libro V sono poi

disciplinati i rapporti di lavoro che si svolgono al di fuori dell'impresa (si pensi al lavoro domestico), il che ci

fa capire che il lavoro organizzato nell'impresa è quello socialmente più rilevante, il modello normativo

tipico, intorno al quale vi sono i cosiddetti rapporti di lavoro speciali.

Il codice civile del 1865: la locazione delle opere

Il rapporto di lavoro subordinato venne disciplinato per la prima volta all'interno del codice civile del 1942.

In precedenza né il codice di commercio del 1882, per la mancanza di connessione istituzionale tra impresa

e lavoro, né il codice civile del 1865 contenevano alcuna traccia del lavoro subordinato.

Il vecchio codice del 1865 conteneva solamente la "locazione delle opere", nella quale rientravano il lavoro

subordinato (LOCATIO OPERARUM) ed il lavoro autonomo (LOCATIO OPERIS). Nell'art.1570 vi era la

definizione di locazione di opere, intesa come <<contratto per cui una parte si obbliga a fare per l'altra una

cosa mediante la pattuita mercede>>. L'art.1627 precisava, poi, i tre tipi di locazione di opere e d'industria:

quella per cui le persone obbligano la propria opera all'altrui servizio (unico caso di lavoro subordinato);

quella inerente il trasporto di cose o persone e quella inerente opere ad appalto o cottimo. Non vi era

nemmeno una netta differenziazione tra lavoro subordinato e autonomo. L'unica norma riferibile al lavoro

subordinato era quella contemplata nell'art. 1628, inerente l'impossibilità di un contratto perpetuo, senza

limiti di tempo. Questo non significa che il lavoro subordinato non esistesse o fosse poco diffuso, ma ci fa

semplicemente render conto che gli artt.1627 e 1628 rappresentavano il punto di arrivo di una tradizione

millenaria, non a casa riprendevano il codice di Napoleone del 1804 ed addirittura la tradizione giuridica

romana.

Il rischio dell'utilità del lavoro e quello dell'impossibilità del lavoro

La distinzione tra locatiooperis e locatiooperarum deriva dalle fonti romane e ci è giunta grazie alla dottrina

pandettistica del 1800/1900: essa aveva rilievo solo per stabilire la ripartizione tra le parti contrattuali dei

rischi inerenti la prestazione lavorativa. Il primo di tali rischi poteva ricadere sull'utilità del lavoro

(commodumobligationis) e riguardava il risultato della prestazione, che per motivi di qualsivoglia genere

poteva differire dal risultato voluto. Il secondo rischio ineriva all'impossibilità del lavoro

(periculumobligationis), che per ragioni di vario genere, poteva non essere portato a termine. Facciamo

qualche esempio: si ha rischio di utilità nel momento in cui il prodotto finito di un lavoro viene colpito da

un fulmine, e per tal motivo differisce dal risultato voluto, ovviamente prima della consegna al soggetto

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che ne ha fatto richiesta; si ha rischio d'impossibilità del lavoro, nel momento in cui un'inondazione

impedisce di portare a termine un lavoro agricolo.

Spiegate le definizioni, dobbiamo specificare su chi ricadesse il rischio: nel caso di impossibilità del lavoro, il

rischio ricadeva sempre sul lavoratore, che veniva esonerato dall'obbligo di eseguire la prestazione, ma che

perdeva anche il diritto alla controprestazione. Nel caso, invece, di rischio d'utilità del lavoro si aveva una

differenziazione tra locatiooperis (lavoro autonomo) e locatiooperarum (lavoro subordinato): nel primo

caso, il rischio ricadeva sempre sul lavoratore autonomo, in quanto egli era obbligato a prestare l'opus

perfectum, ossia l'opera finita, a qualunque costo; nel secondo caso, invece, il rischio ricadeva

sull'imprenditore, in quanto al lavoratore poteva essere richiesto solo e solamente di prestare le proprie

energie di lavoro.

La distinzione tra attività e risultato del lavoro e l'emersione della subordinazione contrattuale

La differenza tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, quindi, derivava dal fatto che il primo prendesse

in considerazione l'attività del lavoro, mentre il secondo (quello autonomo) il risultato del lavoro in quanto

tale. Tale distinzione però non precisava quale fosse il comportamento che il soggetto interessato dovesse

porre in essere. Per questo in un secondo momento si è fatto ricorso al criterio della dipendenza nei

confronti del conduttore, utile per capire se il soggetto abbia o meno un rapporto subordinato con l'altra

parte contrattuale.

La subordinazione come sottoposizione del lavoratore alla direzione ed al controllo del datore di lavoro

nell'impresa industriale

La figura del contratto di lavoro per antonomasia, quindi, coincide con la nozione di lavoro salariato o

dipendente: già l'art.8 della L.215/1893 demandava alla competenza dei collegi probivirali la risoluzione

delle controversie inerenti il "contratto di lavoro", riferendosi al rapporto tra industriali ed operai.

L'operaio, infatti, mettendo la propria opera al servizio dell'imprenditore, è un lavoratore subordinato e

quindi si ha un rapporto di sottoposizione del debitore-locatore, ossia l'operaio, alla direzione o controllo

del creditore-conduttore: la subordinazione è quindi identificata con il comportamento dovuto dal

lavoratore in attuazione della propria obbligazione, il che non è sufficiente ad identificare il rapporto di

lavoro dipendente.

La legge sull'impiego privato del 1924 ed il Codice del 1942: collaborazione come connotato della

subordinazione

Abbiamo visto come la nozione di subordinazione sia mutata nel tempo: dalla tradizionale distinzione tra

attività e risultato si è passati all'individuazione di un rapporto di dipendenza tra operaio ed imprenditore.

Il legislatore del 1942, ma ancor prima quello del 1924 in occasione dell'emanazione della legge sul

contratto d'impiego privato (R.D.L. 1825/1924), prendono in considerazione un ulteriore aspetto del lavoro

subordinato: lo svolgimento di un'attività professionale e l'esercizio di mansioni di "collaborazione

fiduciaria", inerendo al rapporto di fiducia all'interno dell'azienda.

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SEZIONE B: CONTRATTO E RAPPORTO DI LAVORO. QUALIFICAZIONE DEL CONTRATTO ED

INDIVIDUAZIONE DELLA FATTISPECIE TIPICA

La distinzione tra il contratto di lavoro subordinato ed il contratto di lavoro autonomo (artt.2094 e 2222)

L'art. 2094 c.c. fornisce la definizione di lavoro subordinato, specificando che si tratta di un obbligo a

collaborare nell'impresa prestando il proprio lavoro manuale o intellettuale sotto la direzione

dell'imprenditore, ovviamente dietro retribuzione. L'art. 2222 c.c. fornisce,invece, la definizione di lavoro

autonomo, precisando che manca il vincolo di subordinazione e che esso si estrinseca nel compimento di

un'attività o di un'opera con il lavoro prevalentemente proprio in cambio di un corrispettivo. Notiamo,

però, che entrambe le attività di lavoro (subordinato o autonomo) consistono in un facere

economicamente utile all'altra parte contrattuale. La differenza sta appunto nella presenza o nella

mancanza del vincolo di subordinazione, tenendo però presente che nel caso di lavoro subordinato, il

lavoratore si impegna a fornire le proprie energie per collaborare con l'imprenditore nell'attività di

quest'ultimo e sarà retribuito in base al tempo dell'attività, mentre nel caso di lavoro autonomo la variabile

del tempo viene del tutto esclusa, dovendo il lavoratore autonomo fornire una prestazione consistente in

un servizio o un'opera verso il corrispettivo di un pagamento, al di là di quale che sia il tempo necessario

per il compimento di tale opera.

I contratti di lavoro autonomo; il contratto d'opera

Abbiamo visto come il lavoratore autonomo sia tenuto alla realizzazione dell'opus perfectum, ossia

dell'opera finita, così come precisato dalla definizione generica fornita dall'art.2222 c.c. Tuttavia oltre al

contratto d'opera in linee generali, per il lavoro autonomo possiamo distinguere 4 figure fondamentali,

aventi tutte una diversa causa (che ricordiamo essere il "perché esistenziale" del contratto, la sua funzione,

uno degli elementi fondamentali del contratto): l'appalto, la cui causa la possiamo ritrovare nello scambio

di un'opera o di un servizio eseguito con la sola organizzazione dell'appaltatore, verso il corrispettivo di un

prezzo; il trasporto, la cui funzione è quella appunto del trasferimento di cose o persone; il deposito

generico, la cui funzione è la custodia di beni altrui; il mandato, incluse le sue sottospecie, in cui la causa è

rinvenibile nella gestione di affari altrui tramite la conclusione di contratti.

Ovviamente in tutti i casi sopracitati manca il vincolo di subordinazione, ma anche nel caso di lavoro

autonomo può esistere una certa sottoposizione del lavoratore al committente: quest'ultimo potrebbe

avere interesse a porre un termine per la realizzazione dell'opera o addirittura a descrivere come l'opera

debba essere eseguita. In questo caso, però, sebbene il debitore debba attenersi a quanto stabilito dal

committente, che in caso contrario potrà recedere per giusta causa ed ottenere il risarcimento del danno,

sarà solo e solamente vincolato alla direzione del committente, ma in nessun modo potrà ritenersi alle

proprie dipendenze.

La causa del contratto: la collaborazione e la sua relazione di scambio con la retribuzione

La causa, è appena il caso di ricordarlo, è la funzione del contratto individuante l'interesse meritevole di

tutela, prevista a norma dell'art.1325 c.c. come elemento essenziale richiesto a pena di nullità. Nel

contratto di lavoro subordinato tale elemento è individuato nello scambio tra le obbligazioni del prestatore

di lavoro e del datore, dunque uno scambio tra la collaborazione da un lato e la retribuzione dall'altro. La

subordinazione compare come elemento essenziale del contratto affinchè si possa parlare di lavoro

subordinato. Ovviamente la collaborazione non sussiste solo per il debitore o lavoratore, il quale deve

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conformarsi a quelle che sono le esigenze produttive, ma anche per il creditore o datore, il quale deve

collaborare all'adempimento dell'obbligazione. Non dobbiamo infatti dimenticare che l'art. 1175 c.c.

individua, nell'ambito delle obbligazioni in generale, il dovere di correttezza, presente ovviamente anche

nell'obbligazione da lavoro.

La continuità o disponibilità nel tempo della prestazione di lavoro come assetto essenziale della

collaborazione

Possiamo facilmente intuire che la presenza del vincolo di collaborazione come anche di subordinazione

del lavoratore nei confronti del datore di lavoro deve essere duraturo nel tempo, ossia la prestazione di

lavoro nell'impresa deve essere continua o disponibile. Si tratta di una continuità o disponibilità funzionale

del prestatore, in senso ideale e non materiale: il lavoratore subordinato conserva un obbligo di

prestazione nel tempo nei confronti del datore di lavoro, obbligo che non cessa di esistere (e da qui

possiamo evincere che sia ideale e non materiale) anche nel caso in cui vi siano delle pause interruttive

dell'esecuzione (ferie, riposi).

La disponibilità della prestazione di lavoro comporta per il datore anche una responsabilità oggettiva in

caso di illecito comportante danni a terzi da parte del lavoratore: ovviamente si tratta di una responsabilità

oggettiva priva di colpa, ma ben manifesta il carattere della continua subordinazione e disponibilità del

lavoratore nei confronti del datore.

Collaborazione e subordinazione nella giurisprudenza

La giurisprudenza ha sempre individuato 4 requisiti fondamentali tipici del rapporto di lavoro subordinato:

l'onerosità, la collaborazione, la continuità e la subordinazione. Questi criteri, però, sono stati giudicati col

passare del tempo come insufficienti e ad essi si sono aggiunti i cosiddetti "indici empirici", ossia una serie

di criteri sul piano concreto che permettono di distinguere il lavoro subordinato da quello autonomo anche

nei casi-limite.

Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, per la distinzione tra lavoro autonomo e subordinato

è fondamentale l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore

di lavoro, che si deve estrinsecare in un'attività di controllo, vigilanza e direzione tale da limitare

l'autonomia del lavoratore subordinato. Ovvio che elementi quali l'assenza del rischio, l'osservanza di un

onorario, la continuità della prestazione restino fondamentali per definire il lavoro subordinato.

La tesi della subordinazione come situazione di soggezione socio-economica: critica

Una parte della dottrina ha spesso sottolineato come la subordinazione sia un presupposto economico-

sociale del rapporto di lavoro subordinato, derivante dalla situazione di debolezza contrattuale del

lavoratore. Se il fatto che il lavoratore molto spesso si trovi in una situazione contrattuale debole è

sicuramente vero, al contrario non lo è sempre: la definizione potrebbe essere giusta per molti lavoratori

ed errata per tutti gli altri che si trovano in una condizione contrattualmente forte.

La posizione di inferiorità economica condiziona l'autonomia contrattuale del lavoratore, ma non sempre e

nella stessa misura, quindi non si può accettare una tale definizione di subordinazione, in quanto non

omogenea all'intera classe dei lavoratori.

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La collaborazione continuativa e coordinata all'impresa dei prestatori di lavoro autonomo come

connotato di atipicità rispetto al contratto d'opera (la parasubordinazione)

Possiamo concludere, in base a quanto precedentemente osservato, che la subordinazione si può

identificare nella collaborazione del lavoratore nell'impresa, che deve essere continuativa a livello

funzionale: non è quindi la sottoprotezione sociale ad identificare la subordinazione.

L'inserzione del lavoratore nell'organizzazione aziendale è però solo un indice presuntivo della sussistenza

della collaborazione, non un dato assoluto valevole sempre e comunque. Tale inserzione del prestatore

nell'organizzazione aziendale, infatti, sotto forma di collaborazione continuativa e coordinata si può avere

anche in caso di lavoratori autonomi: si parla in tal caso di contratto di lavoro coordinato MA NON

subordinato (c.d. parasubordinato), che molto si avvicina alla situazione del prestatore di lavoro

subordinato. Tuttavia la prestazione d'opera coordinata e continuativa non obbliga il lavoratore autonomo

ad essere a disposizione del committente, benché la propria attività sia legata al ciclo produttivo.

Inizialmente l'equiparazione tra il contratto di lavoro parasubordinato e quello di lavoro subordinato venne

attuata solo sotto il punto di vista processuale, fino a che non è stato prevista la figura della collaborazione

coordinata e continuativa "a progetto", a cui è stata dedicata una particolare disciplina che esamineremo

più avanti.

Attuale distinzione tra lavoro autonomo e subordinato: effetti diretti ed indiretti del rapporto di lavoro

subordinato

Ora possiamo intendere qual è la reale differenza tra locatiooperis (lavoro autonomo) e locatiooperarum

(lavoro subordinato): non si tratta più di distinguere due sottotipi della locazione (d'opera e delle opere),

ma bisogna differenziare due tipi di contratti con una regolamentazione diversa. Tra l'altro lo statuto

protettivo del lavoratore ha fatto in modo che all'identificazione del rapporto di lavoro subordinato,

coincidano degli effetti diretti ed indiretti che il lavoratore ha interesse a far valere.

Tra gli effetti diretti, quelli cioè inerenti il contenuto del rapporto e pertanto il rapporto contrattuale,

ritroviamo le condizioni della prestazione e delle remunerazione del lavoro (ferie, riposi, tfrecc).

Gli effetti indiretti, invece, riguardano i presupposti e le conseguenze della costituzione del rapporto, dalle

quali discendono una serie di situazioni di rilevanza previdenziale, amministrativa e talvolta anche penale.

Quindi identificare il tipo di rapporto di lavoro è utile per la tutela stessa del lavoratore.

Il rapporto di previdenza sociale. L'attuale sistema previdenziale

Effetto indiretto del rapporto di lavoro subordinato è sicuramente la costituzione obbligatoria del rapporto

di previdenza sociale, intercorrente tra i soggetti del rapporto di lavoro (prestatore e datore) ed enti

previdenziali.

La dottrina della fine del XIX secolo, sulla base del codice del 1865, aveva elaborato l'idea secondo cui il

rischio di infortuni sul lavoro dovesse ricadere sull'imprenditore, a titolo di responsabilità oggettiva priva di

colpa, al pari di ciò che avveniva per danni causati a terzi dai lavoratori di un'impresa.

In seguito, anche per la scarsa efficacia della responsabilità oggettiva di cui sopra, vennero previste le

assicurazioni obbligatorie: l'imprenditore pagava un premio (salario previdenziale) ad un istituto

assicurativo, esonerandosi così da qualsivoglia responsabilità civile. Lo stesso meccanismo venne attuato

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per meglio tutelare la situazione di sottoprotezione sociale del lavoratore, con contribuzioni minime a

carico dello stesso lavoratore.

Per quanto concerne i contributi, essi gravano tanto sul lavoratore quanto sul datore di lavoro, ma è su

quest'ultimo che ricade la responsabilità per il versamento dei contributi anche a carico del prestatore

(art.2115 c.c.).

Benché la previdenza sociale segua il modello assicurativo, quest'ultimo differisce dalle assicurazioni di

carattere privatistico per l'esistenza del PRINCIPIO DI AUTOMATICITA' DELLE PRESTAZIONI, in forza del

quale le prestazioni sono dovute dall'ente assicuratore anche qualora il datore di lavoro abbia omesso di

versare i contributi (salvo per le pensioni di vecchiaia, nel qual caso l'obbligazione contributiva può anche

prescriversi, ed il lavoratore che non riesca a raggiungere la pensione o comunque veda menomato il

proprio trattamento, potrà chiedere il risarcimento del danno al datore di lavoro).

Le assicurazioni sociali intervengono ogni volta in cui l'esercizio dell'attività lavorativa si sospende (per

malattia, maternità, invalidità, disoccupazione involontaria ecc), indennizzando il soggetto per

l'involontaria o temporanea inattività, o quando l'inattività abbia carattere definitivo (pensioni di vecchiaia

o di invalidità).

Pensioni di anzianità e vecchiaia. La tendenza espansiva del diritto del lavoro

Per quanto concerne le pensioni di anzianità e vecchiaia il sistema tuttora in vigore è quello "A

RIPARTIZIONE", in base al quale l'erogazione delle suddette dipende dalla forza lavoro attiva.

Con la L.238/1968 venne introdotta la PENSIONE RETRIBUTIVA, la cui misura era calcolata in base alla

percentuale di retribuzione corrisposta nell'ultimo periodo ti attività lavorativa (5 anni prima e 10 in

seguito). Con l'invecchiamento della popolazione italiana ed il numero sempre crescente di pensionati e

sempre inferiore di forza lavoro, la pensione retributiva rischiava di minare l'intero sistema a ripartizione:

in sintesi divenivano man mano insufficienti il numero di lavoratori per pagare le pensioni.

L'intera materia è stata rivista con la L.335/1995, che ha sostituito il sistema retributivo con quello

contributivo, molto simile al sistema con cui operano le assicurazioni private: il trattamento pensionistico

viene calcolato sull'ammontare dei contributi versati durante la vita lavorativa di un soggetto, salvo alcuni

correttivi che garantiscano una maggiore equità sociale.

Il sistema, comunque, rimane incentrato sulla solidarietà sociale: anche ai lavoratori autonomi è stata

garantita, col passare del tempo, la possibilità di accedere ad un trattamento previdenziale. Esistono

comunque notevoli differenze di tutela previdenziale: solo in caso di lavoro subordinato si ha la traslazione

del rischio sociale in capo al datore di lavoro e solo in tal caso il rapporto previdenziale si configura come

effetto indiretto del contratto di lavoro.

SEZIONE C: LAVORO GRATUITO E PRESTAZIONE DI LAVORO NEI RAPPORTI ASSOCIATIVI

Il lavoro gratuito ed il volontariato

Il contratto di lavoro è un contratto sinallagmatico, ossia a prestazioni corrispettive, in cui vi è un nesso di

reciprocità (il sinallagma appunto) è costituito da un vincolo di interindipendenza che unisce le due

obbligazioni, da un lato quella del datore di lavoro tenuto a corrispondere la retribuzione, dall'altro quella

del prestatore che deve esercitare la propria attività lavorativa.

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Si presume, quindi, che si tratti di un contratto tipicamente oneroso, essendo per sua natura a prestazioni

corrispettive. Tuttavia è possibile che una parte si obblighi ad esercitare la propria attività lavorativa

gratuitamente, il che non configura un contratto illecito, bensì un contratto lecito ma atipico, innominato,

ossia non formalmente disciplinato dal codice. Il lavoro gratuito, infatti, non può in alcun modo rientrare

nella disciplina degli artt.2094 e ss in quanto ha causa e natura diverse rispetto a quello ivi disciplinato.

Potrebbe anche sorgere il sospetto che si tratti di un contratto avente causa illecita, ossia un contratto in

frode alla legge a norma dell'art.1344 c.c., così come è anche possibile che si tratti di prestazioni lavorative

eseguite nell'adempimento di un obbligo morale o sociale (basti pensare a tutte quelle organizzazioni che a

scopo benefico o solidaristico).

Al lavoro gratuito è assimilabile anche il "volontariato", disciplinato con la L.266/1991, con la quale il

legislatore non solo è andato a disciplinare tutte quelle attività svolte senza il corrispettivo di una

prestazione, ma ha anche garantito maggiore tutela e convenienti agevolazioni fiscali a tutte quelle

organizzazioni di volontariato iscritte presso le Regioni. Ovviamente occorre che esse si avvalgano di

soggetti che volontariamente (senza mezzi di costrizione o di incentivazione) esercitano una determinata

attività, salvo che si tratti di casi in cui l'ingerenza nell'organizzazione di lavoratori subordinato o autonomi

sia necessaria al corretto svolgimento dell'attività oggetto dell'organizzazione (si pensi allo psicologo in una

comunità per tossico-dipendenti o per minori a rischio o per donne che hanno subito violenze).

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: il legislatore, in ragione dell’importanza acquisita dalle

organizzazione no profit, ha disciplina “l’impresa sociale” all’interno del D.Lgs.155/2006, in attuazione della

L.118/2005. Sono considerate imprese sociale le associazioni e fondazioni, i comitati, le società e le

cooperative che esercitino un’attività economica organizzata, in via stabile e principale, volta allo scambio

ed alla produzione di beni o servizi di UTILITA’ SOCIALE in settori individuati dalla legge o comunque volti

all’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati e disabili. Occorre l’assenza dello scopo di lucro, nonché

l’assenza di uno stato di soggezione nei confronti di imprese private e pubbliche. E’ previsto, a favore di tali

imprese, un regime derogatorio di responsabilità patrimoniale, nonché la possibilità di avvalersi di

volontari.

Il lavoro familiare e l'impresa familiare prevista dall'art.230 bis c.c.

Si può facilmente presume che il lavoro svolto all'interno dell'ambiente familiare da un coniuge, un figlio,

un fratello o sorella, ma anche da un soggetto stabilmente convivente o da un affine entro un certo grado,

sia da considerare come prestazione gratuita offerta nell'adempimento di un dovere familiare.

Tuttavia la riforma del diritto di famiglia avutasi con la L.151/1975 ha introdotto all'interno del codice

l'art.230 bis, il quale prevede che nel caso in cui il lavoro di un familiare sia prestato in modo continuativo

nell'ambito della famiglia o dell'impresa famiglia e nel caso in cui non vi sia alcun rapporto di lavoro

subordinato, il familiare che presta il proprio operato, non solo avrà diritto al mantenimento, ma altresì

potrà partecipare agli utili conseguiti anche grazie al suo lavoro, partecipare alle decisioni di maggior rilievo

ed avere diritto ad una liquidazione in denaro al termine dello svolgimento della propria attività o nel caso

di alienazione dell'impresa, oltre ad avere diritto di prelazione in quest'ultima ipotesi. E' stato in tal modo

tutelata la posizione di coloro che quotidianamente e per periodi protratti di tempo mettono la propria

attività lavorativa al servizio della famiglia.

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I rapporti associativi. La prestazione lavorativa nei contratti societari; l'associazione in partecipazione; gli

amministratori di società

Abbiamo ampiamente analizzato le differenze che esistono tra lavoro subordinato e lavoro autonomo,

accennando anche al lavoro parasubordinato offerto da lavoratori autonomi. Tuttavia queste distinzioni

non esauriscono in alcun modo le forme di organizzazione del lavoro, essendo possibile eseguire la propria

prestazione lavorativa utilizzando modelli contrattuali non solo innominati, ma anche tipici.

Partiamo dai contratti associativi: essi non sono riconducibili in alcun modo al tipico contratto di lavoro

subordinato previsto dall'art.2094 c.c. In tal caso, infatti, il socio esercita un'attività economica in comune

con altri soggetti, potendo scegliere (solo in alcuni modelli societari) di offrire a titolo di conferimento

(elemento essenziale per la partecipazione alla società) la propria prestazione d'opera (prestazione di un

servizio, si parla in tal caso di socio d'opera) o addirittura la propria prestazione lavorativa (laddove al

conferimento di beni si unisce il lavoro del soggetto a favore della società, si parla di socio lavoratore).

Il lavoratore, inoltre, può partecipare ai risultati di un'impresa anche nel caso in cui si tratti di

un'associazione in partecipazione (artt.2549-2554 c.c.), all'interno della quale l'associante gestisce

l'impresa, ma l'associato può partecipare agli utili ed alle perdite verso il corrispettivo della propria attività

lavorativa, senza però che sorga alcun vincolo di subordinazione.

Ultima ipotesi è quella dell'amministratore di società, che può essere tanto un socio quanto un terzo

estraneo alla società, in cui la posizione dello stesso può coesistere con un rapporto di lavoro subordinato

nei confronti della società amministrata.

Le cooperative di produzione e lavoro: il socio lavoratore. Le cooperative sociali. I rapporti associativi in

agricoltura

Tra i rapporti di lavoro associato, ritroviamo anche il lavoro dei soci delle cooperative di produzione e

lavoro: sappiamo bene che nelle società cooperative viene svolta un'attività economica organizzata in

comune per un fine mutualistico, consistente nella ricerca e ripartizione di occasioni di lavoro ed utili a

condizioni migliori di quelle del libero mercato, in cambio della prestazione di lavoro dei soci per

l'attuazione dello stesso scopo societario (art.2511 c.c.). La L.142/2001, inoltre, ha equiparato la posizione

del socio-lavoratore e quella del prestatore di lavoro subordinato: in particolare il socio lavoratore, oltre a

partecipare alla gestione ed al rischio d'impresa, garantisce anche la propria capacità professionale e

pertanto è titolare di due rapporti distinti nei confronti della cooperativa, uno associativo e l'altro di lavoro

(sia esso subordinato, autonomo o di qualsivoglia altra forma). Al socio lavoratore, pertanto, compete un

trattamento economico complessivo (analogo al principio della retribuzione sufficiente in tema di lavoro

subordinato) a carico del capitale sociale proporzionato alla qualità ed alla quantità del lavoro offerto,

analogo a quello garantito, per lavori dello stesso genere, dalla contrattazione collettiva nazionale del

settore o della categoria affine, o comunque incline ai compensi medi in uso per prestazioni simili. Inoltre il

socio lavoratore subordinato gode dei diritti sindacali di cui al titolo III della L.300/1970 (statuto dei

lavoratori).

Molto simili alle cooperative di lavoro, sono le cooperative sociali, istituite con la L.381/1991, le quali,

sebbene non sia necessario che escludano lo scopo mutualistico, devono perseguire l'interesse generale

alla promozione ed integrazione sociale di cittadini, gestendo servizi socio-sanitari, educativi, nonché

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svolgendo attività economiche mirate all'inserimento nel mondo del lavoro di persone svantaggiate

(tossicodipendenti, alcolisti,invalidiecc).

N.B. Tralascio i rapporti associativi in agricoltura, in quanto lo strumento dell'affitto di fondi rustici, come

precisa il libro, ha quasi definitivamente sostituito i rapporti agrari quali la colonia parziaria, la soccida e la

mezzadria.

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CAPITOLO TERZO - AUTONOMIA PRIVATA E RAPPORTO DI LAVORO. LA FORMAZIONE DEL

CONTRATTO DI LAVORO

SEZIONE A: AUTONOMIA PRIVATA E RAPPORTO DI LAVORO

Contratto e rapporto di lavoro

All'interno della disciplina codicistica viene analizzato per lo più il rapporto di lavoro, rispetto al contratto

che lo disciplina: vengono prese in considerazione le due obbligazioni del rapporto, una a carico del datore,

l'altra del prestatore.

Per quanto concerne, invece, il contenuto del contratto, per esso non si rimanda completamente

all'autonomia negoziale, quanto più che altro ad un'autonomia delle parti stretta nella morsa dei limiti

imposti dalla legge e dall'autonomia collettiva cui lo stesso legislatore fa spesso riferimento: la scelta della

retribuzione, per esempio, può essere fatta dal datore di lavoro, che però deve assicurare un trattamento

economico minimo fissato dai contratti collettivi. L'accordo tra le parti, tuttavia, è sempre necessario ed

indispensabile.

La fonte contrattuale del rapporto di lavoro

Il discorso suddetto potrebbe indurci a pensare che il rapporto di lavoro sia quasi acontrattuale, in quanto

se riprendiamo l'art.1321 c.c. e la definizione di contratto ivi contenuta, possiamo notare come

l'autonomia negoziale delle parti sia notevolmente imbrigliata da norme inderogabili imposte dal

legislatore. L'autonomia contrattuale, quindi, non viene del tutto soppressa, ma solo compressa da tali

disposizioni, in funzione della protezione che la legge attribuisce al soggetto contrattualmente più debole,

il lavoratore. Il datore di lavoro, infatti, potrà ben dimostrare che anche all'interno del contratto lavorativo

vi è un'autonomia ampia, ma potrà farlo solo e solamente a favore del lavoratore.

L'inderogabilità del regolamento contrattuale imposto dalla legge

Tutti i contratti di lavoro subordinato che violano le norme imperative imposte dalla legge, subiscono la

nullità parziale di cui all'art. 1419 comma 2 c.c., ossia sono nulli nella parte in cui differiscono dagli obblighi

di legge ed essendo il regolamento contrattuale di per sé inderogabile, vi è l'inserzione automatica, a

norma dell'art.1339 c.c., delle clausole legali. Si tratta, è giusto il caso di ripeterlo, di un'inderogabilità in

peius, ossia di una limitazione unilaterale all'autonomia contrattuale nei confronti del datore di lavoro, in

quanto ogni patto maggiormente favorevole al prestatore, sarà valido ed efficace.

Va ricordata, infine, la Convenzione di Roma del 1980 avente ad oggetto la legge applicabile alle

obbligazioni naturali, la quale si occupa all'art.6 del contratto di lavoro, specificando che qualora le parti

nulla abbiano stabilito a riguardo, il contratto sarà regolato dalla legge del Paese in cui il lavoratore svolge

principalmente la propria attività lavorativa o dalla legge del Paese in cui il lavoratore è stato assunto o

dalla legge del Paese stabilita dalle parti, sempre che quest'ultima non offra garanzie inferiori rispetto alle

suddette.

Autonomia privata e tipo contrattuale

Anche la scelta del tipo contrattuale viene influenzata dai limiti imposti dalla legge e dall'autonomia

collettiva alla volontà negoziale delle parti. L'art. 1362 c.c., inerente l'intenzione dei contraenti, ben

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specifica come nell'interpretazione del contratto bisogna indagare quale sia stata la vera intenzione delle

parti, andando oltre il significato letterale delle parole e soprattutto si deve valutare (comma 2) il

comportamento delle parti successivo alla stipulazione del contratto. Per quanto concerne il contratto di

lavoro, ciò che abbiamo detto è più che mai vero: la volontà cartolare espressa al momento del

perfezionamento del contratto ha uno scarso valore rispetto al contenuto effettivo del rapporto. Il

momento attuativo del rapporto prevale, quindi, sul momento dichiarativo e non solo ai fini

dell'interpretazione della volontà effettiva delle parti, ma anche per ciò che concerne la scelta del tipo

legale di rapporto di lavoro: diversamente da ciò che avviene negli altri contratti, dove le parti possono

optare per la scelta di contratti tipici o atipici, nel caso del contratto di lavoro subordinato le parti

dovranno obbligatoriamente associare la subordinazione con il tipo legale di contratto. Si parla in tal caso

d'indisponibilità del tipo legale, non potendo le parti esulare dalla scelta di tale tipo qualora vogliano porre

in essere quello specifico rapporto di lavoro subordinato.

Il principio del favor

L'art.1374 c.c. rubricato come "integrazione del contratto" stabilisce che lo stesso obblighi le parti non solo

a quanto in esso stabilito, ma anche a tutte le conseguenze derivanti dalla legge, o, in mancanza, dagli usi e

dall'equità. Ciò significa che il contratto di lavoro non solo obbliga le parti ad attenersi all'accordo, ma

anche ai precetti inderogabili imposti dalla legge e dall'autonomia collettiva, combinando in tal maniera

l'inderogabilità del regolamento contrattuale con il principio del FAVOR, ossia del trattamento più

favorevole per il lavoratore.

Tale principio, tuttavia, ha subito un notevole ridimensionamento in alcune ipotesi normative previste a

favore della flessibilità nel mondo del lavoro, in forza delle esigenze dell'occupazione e dell'impresa.

L'art.2126 c.c. e l'inefficacia dell'invalidità del contratto

Il contratto di lavoro, al pari di tutti i contratti, è invalido nel momento in cui viola l'art.1418 c.c. inerente le

cause di nullità o l'art.1419 c.c. inerente la nullità parziale. Solitamente l'invalidità che affligge il contratto

di lavoro è sancita con la nullità dello stesso. Gli articoli di cui sopra, però, vanno letti in concerto con

l'art.2126 c.c. inerente le prestazioni di fatto con violazione di legge: <<la nullità o l'annullamento del

contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione>>. Ciò vuol

dire che l'aver dato esecuzione ad una prestazione lavorativa da parte di un soggetto nei confronti di un

altro non costituisce di per sé il rapporto lavorativo, in quanto la nullità retroagisce al momento della

conclusione del contratto, ma tuttavia da luogo agli effetti del rapporto posto in essere in attuazione del

contratto (ricordiamo invalido) che funge da fonte del rapporto obbligatorio.

Al contrario, invece, non risulta assimilabile all'art.2126 c.c. il caso di prestazione di fatto di natura

extracontrattuale, in cui la prestazione viene eseguita dal lavoratore "invito domino" (senza il consenso) o

addirittura "prohibente domino" (contro la volontà) della controparte: è il caso di un soggetto che ha

occupato un fondo rustico esercitandoci un'attività lavorativa; in tal caso non esiste alcun contratto,

neanche invalido, e colui che ha eseguito la prestazione di fatto potrà al massimo, tra l'altro non sempre,

esperire l'azione d'ingiustificato arricchimento.

Abbiamo, quindi, visto come vengano mantenuti in vita gli effetti del contratto in valido in caso di

prestazione di fatto in violazione della legge. Tuttavia è lo stesso art.2126 comma 1 c.c. a precisare che

vengono meno anche gli effetti del contratto in valido nel caso in cui la nullità derivi dall'illiceità della causa

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o dell'oggetto. In tutti gli altri casi di nullità, invece, si può parlare d'INEFFICACIA DELL'INVALIDITA', in

quanto dal rapporto posto in essere sorgono le varie obbligazioni. Tra l'altro il comma 2 dell'art.2126 c.c.

precisa che se la nullità deriva dalla violazione di norme protettive del lavoratore, comunque quest'ultimo

avrà diritto alla retribuzione.

E' appena il caso di ricordare che, nonostante quello che abbiamo detto, vige il principio dell'irripetibilità

delle prestazioni eseguite.

SEZIONE B: LA FORMAZIONE DEL CONTRATTO DI LAVORO

La capacità del prestatore di lavoro

Prima di trattare l'argomento in questione è opportuno ricordare due definizione importanti: quella di

capacità giuridica e quella di capacità di agire.

La capacità giuridica è l'idoneità di un soggetto di essere titolare di diritti e doveri, la quale si acquista al

momento della nascita. Per capacità di agire, invece, si intende l'idoneità di un soggetto a porre in essere

autonomamente atti negoziali vincolanti con effetti nella propria sfera giuridica e patrimoniale.

L'art.2 c.c., dopo aver fissato il raggiungimento della maggiore età al compimento del 18° anno, al

raggiungimento del quale si acquista la capacità d'agire, precisa (al comma 2) che sono salve le leggi

speciali in materia di capacità a prestare il proprio lavoro. Per poter esercitare un'attività lavorativa occorre

aver concluso il periodo d'istruzione scolastica obbligatoria e comunque aver compiuto, almeno, il

quindicesimo anno di età, salvo il caso in cui la Direzione Provinciale del Lavoro abbia autorizzato il minore

infra quindicenne, col consenso di chi esercita la potestà, ad essere impiegato in attività culturali,

artistiche, sportive, pubblicitarie e di spettacolo, fatto salvo l'obbligo scolastico.

Tra l'altro il minore ultra quindicenne può stipulare autonomamente il proprio contratto di lavoro, senza

che sia necessaria la partecipazione di chi esercita la potestà parentale.

La spersonalizzazione dell'imprenditore ed il principio della continuità dell'impresa. L'infungibilità della

prestazione di lavoro

Abbiamo visto che per poter appartenere alla categoria dei lavoratori occorrono dei requisiti particolari

che differiscono da quelli generali per l’acquisizione della capacità d’agire. Per i datori di lavoro, al

contrario, i requisiti rimangono quelli della capacità giuridica e d’agire previsti dal codice.

Una notevole distinzione, invece, viene fatta tra il datore di lavoro – imprenditore e gli altri datori: al primo

è dedicata un’intera disciplina assestante, non già per il fatto che egli svolge professionalmente un’attività

economica organizzata, bensì nell’interesse dei lavoratori alle dipendenze di medio-grandi imprese.

Importante tema da affrontare è quello della “spersonalizzazione dell’imprenditore”, sia sotto il punto di

vista della formazione/conclusione del contratto, sia sotto il profilo della successione nel medesimo.

L’art.1330 c.c., rubricato come morte o incapacità dell’imprenditore, prevede che tanto la proposta quanto

l’accettazione restino valide anche in caso morte o incapacità sopravvenute prima della conclusione del

contratto. Per quanto concerne, inoltre, la successione nei contratti si attua il principio di continuità

dell’impresa contenuto all’interno dell’art.2112 comma 1 c.c., il quale prevede che in caso di trasferimento

di azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario, con i medesimi diritti precedenti al

trasferimento. Quindi con il concetto di spersonalizzazione, si intende che nel rapporto di lavoro la figura

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della persona dell’imprenditore è del tutto irrilevante. Al contrario il contratto lavorativo, per quanto

riguarda la parte del lavoratore, resta dominato dall’intuituspersonae, ossia dalla considerazione della

persona del prestatore, in quanto egli non può, ne mortis causa né tramite atto inter vivos, trasferire il

proprio debito nei confronti del datore ad un terzo, in quanto la prestazione da lui dovuta è infungibile,

ossia può essere compiuta solo e solamente dal soggetto che ha originariamente concluso il contratto di

lavoro. Non è una questione di fiducia nel lavoratore ad imporre un tal ragionamento, quanto più che altro

la necessità dell’identificazione del contraente obbligato.

Il procedimento di formazione del contratto. Il problema della forma. La rilevanza del consenso non

tanto sul contenuto quanto sulla genesi del contratto

Il procedimento di formazione del contratto di lavoro è identico a quello previsto per tutti i contratti:

occorre l’accordo tra le parti e la formazione del contratto si attua nel momento in cui vi è l’incontro tra la

proposta e l’accettazione. Per quanto concerne il momento del perfezionamento, il contratto di lavoro si

configura come un contratto di adesione particolare: se per la generalità dei contratti di adesione è

previsto che la parte contrattualmente forte determini le condizione e la controparte le accetti, per il

contratto di lavoro le condizioni generali sono predisposte bilateralmente dall’autonomia collettiva, alla

quale l’autonomia individuale può sostituirsi solo per includere condizioni maggiormente favorevoli al

lavoratore.

Per quanto concerne, inoltre, la forma ed il consenso, va sottolineato quanto questi due elementi siano

imbrigliati nei limiti imposti dalla legge per la tutela del lavoratore. Vige pur sempre il principio della libertà

di forma, ma spesso è il legislatore a prevedere che per uno svariato numero di contratti di lavoro sia

prevista la forma scritta ad substantiam (sotto pena di nullità qualora non sia rispettata): è il caso dei

contratti che appongono un termine o comunque elementi particolari al contratto, e quindi stiamo

parlando dei contratti a progetto, dei contratti d’inserimento, di formazione. Per altri contratti è prevista la

forma scritta ad probationem (quindi ai fini processuali e di prova dell’atto), ed è il caso dei contratti di

lavoro intermittente, di lavoro ripartito, a tempo parziale.

Inoltre il datore di lavoro ha l’obbligo, entro trenta giorni dall’assunzione, di comunicare al prestatore di

lavoro le principali condizioni applicabili al contratto (identità delle parti, luogo di lavoro, qualifica del

lavoratore ecc), all’interno della lettera d’assunzione o in altro documento separato.

Altro aspetto da sottolineare è inerente alla manifestazione del consenso: il momento attuativo

dell’esecuzione del contratto è sicuramente di gran lunga più rilevante rispetto al momento genetico della

formazione, non solo perché serve a qualificare (come detto nel precedente capitolo) il lavoro come

autonomo o subordinato, ma soprattutto perché funge da comportamento concludente che manifesta e

da prova dell’esistenza del contratto e della volontà reale delle parti.

Il patto di prova

Elemento accidentale del contratto di lavoro è il patto di prova, per cui l’art.2096 c.c. prevede la forma

scritta: esso serve a stabilire e dimostrare che il lavoratore stia esercitando la propria prestazione

lavorativa, ma sia in prova per un determinato periodo. In tale periodo egli potrà valutare la convenienza

del posto di lavoro, mentre il datore potrà valutare le capacità fisiche e professionali del prestatore. Data la

possibilità di recedere senza obbligo di preavviso da parte del datore, la legge ha previsto che il periodo

massimo di prova debba essere di sei mesi. Qualora, tra l’altro, non venga rispettata la forma scritta del

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patto di prova, l’assunzione risulterà come definitiva. Il periodo di prova è, comunque, a tutti gli effetti un

periodo lavorativo, pertanto deve essere non solo retribuito, ma al termine dello stesso il lavoratore ha

diritto al trattamento di fine rapporto ed alle ferie retribuite.

Vizi della volontà nella conclusione del contratto. Attitudine professionale del lavoratore

La disciplina dei contratti di lavoro, per quel che concerne i vizi della volontà che comportano

l’annullamento del contratto a norma dell’art.1427 c.c., è identica alla disciplina generale dei contratti.

Possiamo facilmente intuire che le varie compressioni dell’autonomia contrattuale imposte dal legislatore,

nonché l’esecuzione di un periodo di prova, riducono di molto le possibilità che il contratto di lavoro sia

viziato: se vi è stato un errore-vizio (anche detto errore motivo) che ha fatto in modo che la volontà

negoziale non si formasse liberamente, entrambe le parti potranno rendersene conto da subito; se vi è

stato dolo, ossia un artificio o raggiro che abbia viziato la volontà contrattuale, il soggetto leso potrà subito

rimediare, accorgendosi dell’inganno subito nello stesso periodo di prova.

L’unico vizio della volontà meritevole di attenzione è probabilmente rappresentato dall’errore sulle qualità

personali dell’altra parte contrattuale, quando queste siano determinanti per la conclusione del contratto

ed essenziali per la sua esecuzione: se per esempio ad un prestatore sono richieste determinate capacità

professionali, ovviamente l’assenza delle stesse ha un peso specifico notevole ed incide notevolmente sulla

volontà di proseguire nell’esecuzione del contratto. Ovviamente per tutti quei contratti lavorativi c.d. di

serie, dove le abilità personali e professionali del prestatore non contano, questo tipo di vizio non avrà

ragione di esistere.

Il divieto d’indagine sui fatti non rilevanti ai fini dell’attitudine professionale

L’art.8 della L.300/1970 (statuto dei lavoratori) prevede il divieto, posto a carico del datore di lavoro, di

svolgere, autonomamente o per mezzo di terzi, indagini personali sul prestatore da assumere o addirittura

già assunto. Implicitamente questo articolo prevede che il datore possa indagare sulle capacità

professionali del soggetto, ma deve farlo senza violare la riservatezza del lavoratore, garantita dallo

statuto. La violazione di tale divieto è sanzionata penalmente ed al pari di essa è sanzionata l’indagine del

datore rivolta all’accertamento della sieropositività all’infezione da HIV del lavoratore, sebbene la Corte

costituzionale abbia precisato che si può procedere in tal senso qualora possa essere messa a rischio la

salute di terzi.

Il trattamento dei dati personali

Il diritto alla riservatezza è stato definitivamente assicurato dalla L. 675/1996, poi definitivamente

integrata dal D.Lgs. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali). Oltre all’istituzione di

un’autorità indipendente, il Garante per la protezione dei dati personali, è stato previsto un soggetto abbia

diritto ad avere conoscenza su chi detiene i propri dati personali, su come li ha ottenuti e per quali scopi li

utilizza. Il consenso del soggetto non è sempre richiesto, ma al contrario è obbligatorio per i dati “sensibili”,

ossia per quelli idonei a rivelare informazioni strettamente personali (opinioni politiche, origini etniche,

orientamento sessuale ecc). La normativa in materia, inoltre, ha ribadito l’importanza degli artt. 4 e 8 della

L. 300/1970 (statuto dei lavoratori), ribadendo il divieto posto a carico del datore di lavoro di ricercare

informazioni personali non attinenti all’attiva lavorativa svolta dal prestatore. Quindi per quanto concerne

il lavoratore, questa nuova normativa va semplicemente a confermare quanto precedentemente imposto

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dallo statuto dei lavoratori, costituendo, invece, per le persone fisiche e giuridiche in generale la

consacrazione di un diritto.

La simulazione del contratto di lavoro

Abbiamo già detto che in caso di errore inteso come vizio di volontà, via sia una divergenza tra l’intenzione

di una parte e la volontà manifestata. Talune volte, invece, può accadere che tale divergenza tra volontà e

dichiarazione sia voluta dalle parti, siamo quindi dinanzi ad una “simulazione” in forza dell’art.1414 c.c. che

la disciplina. Le parti, in tal caso, possono celare dietro un determinato accordo, o un accordo totalmente

diverso (il c.d. contratto dissimulato) oppure addirittura nessun contratto. Ovviamente vanno rispettate le

previsioni codicistiche inerenti la forma del contratto simulato, la quale deve rispettare la stessa forma del

contratto voluto, oppure inerenti la liceità della causa del contratto dissimulato. Non si deve, inoltre,

concretizzare un contratto in frode alla legge: la simulazione non deve essere posta in essere per celare un

fine illecito. Qualora un contratto simulato sia posto in essere per non rispettare tutte le norme imperative

e le garanzie apposte dalla legge a favore dei lavoratori subordinati, sia il contratto simulato che quello

dissimulato saranno invalidi (es. viene posto in essere un contratto di lavoro autonomo, il quale cela il un

contratto di lavoro subordinato per aggirare le garanzie offerte da quest’ultimo) e la disciplina sarà

sostituita automaticamente con quella prevista dalla legge. Se invece ad essere illecita è proprio la causa

del contratto dissimulato, a quel punto il contratto sarà nullo definitivamente.

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CAPITOLO QUARTO – LA PRESTAZIONE DI LAVORO

SEZIONE A: POTERE DIRETTIVO E POTERE DISCIPLINARE

Il contenuto della subordinazione: la diligenza

Abbiamo visto in precedenza come la collaborazione intesa come disponibilità funzionale della prestazione

lavorativa all’organizzazione dell’impresa, sia uno dei connotati fondamentali del rapporto di lavoro

subordinato, al di là dello scambio tra la prestazione lavorativa e la retribuzione. Abbiamo poi parlato di

subordinazione, specificando che il lavoratore subordinato differisce da quello autonomo per un rapporto

di dipendenza nel tempo dal proprio datore di lavoro. La subordinazione, in realtà, consiste nella diligenza

che il lavoratore subordinato deve adoperare nell’esercizio della propria attività: l’art.1176 c.c., in tema di

obbligazioni in generale, obbliga il debitore ad usare la diligenza del buon padre di famiglia nel

soddisfacimento dell’interesse creditorio (comma 1), oltre a specificare che in caso di attività professionali,

la diligenza va valutata in base alla natura della prestazione (comma 2). L’art.2104 riprende questa

valutazione della diligenza, precisando nel suo primo comma che il prestatore di lavoro deve adoperare la

diligenza richiesta dalla natura della prestazione, dall’interesse dell’impresa e della produzione nazionale.

Con il venire meno del sistema corporativo fascista, l’ultimo presupposto dell’interesse della produzione

nazionale è venuto meno. Per natura della prestazione, tra l’altro, non si deve intendere solo la

differenziazione tra le mansioni, in quanto è ovvio che ad un dirigente sarà richiesta una diversa diligenza

rispetto a quella del suo sottoposto, ed è altrettanto normale che anche in riferimento ad una stessa

mansione, andrà prestata una maggiore attenzione nell’esecuzione di una prestazione rispetto ad un’altra

(è l’esempio del libro del muratore che oggi adopera un materiale di scarsa qualità e domani un materiale

pregiato, dovendo mostrare nel secondo caso una maggiore diligenza). Per tutti questi motivi la diligenza a

seconda della natura della prestazione dovuta si riferisce ai caratteri intrinsechi della prestazione, a quanto

attenzione il lavoratore dovrà prestare nell’esecuzione della propria attività.

Per quel che concerne, poi, il rapporto tra la diligenza richiesta al prestatore di lavoro e l’interesse

dell’impresa, non si può ingenuamente credere che ci si riferisca all’interesse dell’impresa come istituzione.

Sicuramente il riferimento è attribuibile all’interesse dell’imprenditore, anche se non come generico

interesse del creditore ad ottenere l’esatto adempimento, bensì come interesse dell’imprenditore ad

ottenere la collaborazione di cui sopra attraverso, anche, la propria organizzazione del lavoro.

L’obbedienza ed il potere direttivo del datore di lavoro

Il secondo comma dell’art.2104 c.c. inerente la diligenza del prestatore di lavoro prevede che il prestatore

di lavoro debba osservare le disposizioni impartite dal datore di lavoro e dai collaboratori dello stesso dai

quali il prestatore gerarchicamente dipende. L’obbedienza alle direttive impartite dall’imprenditore è, al

pari della diligenza, un modo di essere della subordinazione e fa da contraltare al potere direttivo del

datore di lavoro.

L’obbligo di fedeltà. Il divieto di concorrenza e le invenzioni del lavoratore. Il divieto di utilizzazione o

divulgazione dei segreti aziendali

Obbligo fondamentale a carico del prestatore di lavoro è sicuramente quello di prestare subordinatamente

la propria collaborazione nell’impresa, ma l’art.2105 c.c. identifica un obbligo accessorio rispetto

all’interesse primario del datore di lavoro a ricevere la prestazione: si tratta dell’obbligo di fedeltà. Esso, in

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corrispondenza con il dovere di buona fede generale nell’adempimento dell’obbligazione, rientra tra gli

“obblighi di protezione” a tutela del creditore ed impedisce al prestatore di lavoro, durante il periodo

lavorativo contrattualmente previsto, di svolgere attività in concorrenza con l’impresa e di divulgare o

quanto meno utilizzare notizie inerenti organizzazione e metodi dell’impresa stessa. Tale divieto di

concorrenza nulla ha a che vedere con la concorrenza sleale di cui parla l’art.2598 c.c., in quanto in

quest’ultima ipotesi non vi è alcun legale tra danneggiante e danneggiato e la concorrenza slealmente

posta in essere si verifica solo nei casi previsti dall’articolo. Inoltre anche tra il prestatore di lavoro ed il

datore può esistere un patto, che deve rispettare la forma scritta ad substantiam, che vieti al lavoratore di

entrare in concorrenza con l’impresa anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro per un periodo di

tempo pari a tre anni, cinque per i dirigenti (qualsivoglia vincolo superiore sarà sostituito da quelli previsti

dalla legge e deve essere precisato un corrispettivo per il lavoratore).

Non può in alcun modo costituire concorrenza l’attività inventiva del prestatore di lavoro. Il Codice della

proprietà industriale emanato con D.Lgs. 30/2005 ha previsto che qualora l’invenzione venga fatta dal

lavoratore nell’esecuzione del contratto (invenzione di servizio), i diritti derivanti dall’invenzione spettano

al datore, salvo il diritto di autore del lavoratore. Qualora, invece, si tratti di un’invenzione aziendale, ossia

fatta nell’adempimento del rapporto di lavoro, ma non oggetto del contratto di lavoro stesso, i diritti

derivanti dall’invenzione spettano al datore di lavoro che, qualora si veda riconosciuto il brevetto, dovrà al

lavoratore un equo premio. In ultima ipotesi può trattarsi di un’invenzione occasionale, fatta dal lavoratore

indipendentemente dal rapporto di lavoro, ma rientrante nel campo di attività dell’impresa: in tal caso i

diritti spettano al lavoratore, ma il datore ha diritto d’opzione per l’uso o per l’acquisto del brevetto (che

deve esercitare entro 3 mesi).

L’obbligo di fedeltà, in ultima analisi, può essere inteso anche in senso stretto, inerendo al divieto di

divulgare o utilizzare i “segreti aziendali”.

P.S. tutto ciò è stato analizzato durante lo studio di Diritto Commerciale 1

Il potere disciplinare

L’imprenditore esprime la propria autorità gerarchica non solo tramite il potere direttivo, di cui abbiamo

già parlato, ma anche tramite il potere disciplinare, nei casi in cui egli debba reagire all’inottemperanza ai

doveri contrattuali del prestatore, manifestatisi tramite l’inosservanza degli obblighi di diligenza,

obbedienza e fedeltà. L’imprenditore in tal caso, tenendo conto della gravità dell’infrazione, può infliggere

sanzioni quali il rimprovero verbale oppure scritto, la multa, la sospensione dal lavoro e della retribuzione e

nel peggiore dei casi il licenziamento.

Limiti sostanziali e procedurali al potere disciplinare

Fino ad ora abbiamo analizzato quelli che sono i poteri dell’imprenditore nei confronti del prestatore di

lavoro sotto il profilo codicistico. Lo Statuto dei lavoratori (L. 300/1970) contiene al suo interno tutta una

serie di norme che vanno ad integrare quanto abbiamo detto fino ad ora, tutelando in maniera più

dettagliata la libertà e la dignità del lavoratore ed introducendo notevoli limiti al potere direttivo e

disciplinare del datore di lavoro.

Partiamo dai limiti imposti al potere disciplinare, previsti dall’art.7 dello statuto. In un luogo accessibile a

tutti all’interno dell’impresa, deve essere esposto un “regolamento disciplinare” contenente le possibili

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infrazioni, le sanzioni e le procedure di contestazione (si osserva il principio “nulla poena sine lege”). Inoltre

prima di impartire una sanzione disciplinare a carico del lavoratore, il datore di lavoro deve contestare

l’addebito dell’infrazione e permettere al lavoratore di difendersi. Inoltre per quanto concerne le infrazioni,

solo il licenziamento può comportare un mutamento definitivo del rapporto; sono perciò escluse

retrocessioni o trasferimenti punitivi (anche se i trasferimenti per incompatibilità ambientale sono talvolta

previsti). La sospensione disciplinare dal lavoro e della retribuzione non può durare, inoltre, per più di 10

giorni (può essere disposta anche la sospensione cautelare per eventuali accertamenti sull’infrazione, la

quale può essere con o senza retribuzione). La multa irrogabile dall’impresa può essere pari all’ammontare

di 4 ore della retribuzione base. Tutti i provvedimenti (escluso il rimprovero verbale) possono essere

applicati solo dopo 5 giorni dalla contestazione scritta di cui sopra. Entro i 20 giorni successivi il lavoratore

può impugnare davanti ad un collegio di conciliazione ed arbitrato il provvedimento disciplinare.

Particolare attenzione merita anche la recidiva, che si ha nel momento in cui un soggetto attua

nuovamente lo stesso comportamento proibito che aveva attuato precedentemente e per cui era stato

sanzionato a livello disciplinare: non si può tener conto di una sanzione disciplinare una volta trascorsi 2

anni dalla sua applicazione (se ne può, però, tener conto se occorre un’analisi completa del soggetto e

della sua carriera lavorativa nell’impresa).

Limiti al potere di controllo: controlli per la salvaguardia del patrimonio aziendale.

Lo Statuto dei lavoratori, come abbiamo già accennato, ha poi limitato il potere di controllo e vigilanza del

datore di lavoro. L’art.2 dello Statuto dispone che l’imprenditore possa avvalersi di guardie giurate solo per

salvaguardare il patrimonio aziendale, ma esse non possono in alcun modo interferire con l’attività

lavorativa dei prestatori, neanche qualora questi ultimi pongano in essere azioni penalmente rilevanti. Le

guardie giurate, durante l’orario di lavoro, non possono avere accesso neanche ai locali in cui si svolge

l’attività lavorativa, almeno che non sia presente patrimonio aziendale da salvaguardare. Volendo

l’imprenditore può avvalersi di propri dipendenti (non guardie giurate) per vigilare sull’operato degli altri

lavoratori.

Per meglio tutelare il patrimonio aziendale possono essere previste visite di controllo all’uscita dei luoghi di

lavoro e con sistemi di selezione imparziali (art.6 dello statuto), tra l’altro solo qualora concordati con le

rappresentanze sindacali. Qualora non vi sia accordo con esse, il datore di lavoro potrà rivolgersi alla

Direzione provinciale del Lavoro, che provvederà alle visite suddette (la decisione è impugnabile entro 30

giorni dinanzi al Ministro del lavoro).

I controlli sull’attività lavorativa

I controlli, oltre che essere previsti per salvaguardare il patrimonio aziendale, possono riguardare anche

l’attività lavorativa. L’art.3 dello statuto prevede che vengano resi noti i nominativi e le mansioni del

personale di vigilanza sull’attività lavorativa (sono esclusi dirigenti e capi, che per loro definizione

esercitano un potere di controllo). L’art. 4 regola, poi, i controlli a distanza: essi non possono avere l’unico

fine di sorvegliare i lavoratori. Tuttavia, qualora siano installati per garantire la sicurezza degli stessi,

possono risultare idonei anche al controllo dell’operato dei lavoratori (quindi la norma si aggira

facilmente). Analogamente a quanto previsto per le visite personali, l’installazione di tali apparecchiature

deve essere concordata con i sindacati o decisa dalla Direzione provinciale del lavoro (l’atto è impugnabile

dinanzi al Ministro del lavoro). Le nuove tecnologie, prima fra tutte il personal computer, permettono oggi

al lavoratore di ricevere le direttive lavorative tramite i terminali informatici: ciò fa si che anche il controllo

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possa essere attuato tramite i terminali in questione. Purtroppo lo statuto non copre (e quindi non vieta)

tale tipo di controllo.

Gli accertamenti sanitari

L’art.5 dello Statuto disciplina poi gli accertamenti sanitari volti a controllare la giustificazione dell’assenza

del lavoratore in caso di infermità. Precedentemente a tale statuto il medico per il controllo dello stato di

salute del lavoratore veniva inviato dal datore di lavoro. Il suddetto articolo ha fatto in modo che ad inviare

il medico per l’accertamento sia l’istituto previdenziale tenuto all’erogazione della prestazione indennitaria

in luogo della prestazione lavorativa. Il medico curante deve inviare, telematicamente, un certificato che

rechi la propria firma e che attesti che il paziente (il lavoratore) non sia in grado temporaneamente di

esercitare l’attività lavorativa, indicando l’inizio e la presunta fine della malattia. Il lavoratore, entro due

giorni, dovrà consegnare il medesimo certificato al datore di lavoro. Quest’ultimo potrà, qualora lo ritenga

opportuno, sollecitare l’ente previdenziale ad inviare un medico convenzionato alla residenza del

lavoratore, per accertarne lo stato di salute: tale visita dovrà avvenire nello stesso giorno della richiesta da

parte del datore di lavoro, in orari stabiliti, definiti come “reperibilità”. Il lavoratore assente al momento

della visita senza giustificato motivo, perderà il diritto all’intero trattamento economico per i primi dieci

giorni ed avrà diritto alla metà dello stesso per i successivi (questa seconda parte è stata dichiarata

incostituzionale dalla Corte per la mancanza della previsione di una seconda visita). Sempre l’art.5 prevede

che l’idoneità fisica di un lavoratore possa essere accertata anche da strutture pubbliche.

Tra l’altro la L. 626/1994 obbliga il datore di lavoro ad avvalersi di un medico (professionista privato,

dipendente del datore, medico convenzionato) per l’accertamento periodico dell’idoneità dei lavoratori o

per il soccorso immediato di particolari categorie di lavoratori che esercitano un’attività che li pone in

pericolo. Ovviamente contro l’accertamento d’inidoneità parziale da parte del medico suddetto sarà

ammesso ricorso all’organo di vigilanza territorialmente competente.

La procedimentalizzazione dei poteri del datore di lavoro

Lo Statuto del lavoratore del 1970 ha, quindi, sancito indirettamente, la subordinazione solo tecnico-

funzionale del lavoratore e non della persona del lavoratore nei confronti del datore. Si è proceduto,

quindi, a procedimentalizzare il potere imprenditoriale, che appare oggi, diversamente dal passato, come

intrappolato nell’obbligo, imposto dallo Statuto e da leggi successive, di seguire determinate regole e di

osservare determinati vincoli nell’esercizio dei poteri di controllo e direttivo , solo accessori rispetto alla

pretesa imprenditoriale a ricevere la prestazione dovuta.

SEZIONE B: MANSIONI E QUALIFICA

Le mansioni e la qualifica

La prestazione lavorativa dedotta in un contratto di lavoro ha obbligatoriamente ad oggetto lo svolgimento

di un’attività, di un facere. Ovviamente tale attività deve essere individuata, al fine di rispettare uno dei

concreti requisiti del contratto, la determinazione o determinabilità dell’oggetto (art.1346 c.c.). Per

stabilire di quale attività lavorativa si tratti, si suole individuare le MANSIONI, ossia l’insieme di compiti che

il lavoratore è chiamato a svolgere e per i quali è stato assunto, e che identificano la posizione di lavoro del

soggetto. Le mansioni possono essere individuate anche senza considerare l’attività complessiva del

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lavoratore, ma indicando semplicemente la QUALIFICA, ossia l’insieme di compiti specifici che il lavoratore

è in grado di svolgere, l’insieme delle sue competenze.

Tutto ciò rientra in uno schema di divisione del lavoro, utile e necessario dopo l’avvento della rivoluzione

industriale.

La differenziazione retributiva in relazione alle mansioni

Quindi un’intera organizzazione produttiva è scomponibile in una molteplicità di mansioni che possono

essere ripartite tra i vari lavoratori di un ciclo produttivo. Ogni mansione, tuttavia, è diversa da un’altra e

per tal motivo può avere un rilievo superiore o inferiore, determinato e classificato in base al trattamento

economico riservato a quella determinata mansione. Un’attività specializzata che nel mercato pochi

soggetti conoscono e sono in grado di esercitare, non può in alcun modo essere posta sullo stesso livello di

un’attività che chiunque potrebbe svolgere, in quanto i diversi compiti (mansioni) che un soggetto è

chiamato a svolgere possono richiedere diverse abilità, una diversa preparazione e quant’altro.

L’inquadramento del prestatore di lavoro. Le categorie contrattuali

L’art. 96 comma 2 delle disposizioni attuative del Codice civile prevede che l’imprenditore abbia l’obbligo

di far conoscere al lavoratore assunto la categoria e la qualifica che gli sono state assegnate. Ciò risulta

utile per l’inquadramento individuale del lavoratore nel sistema di classificazione professionale, individuato

dall’art. 2095 c.c. per quanto concerne le CATEGORIE (operai, impiegati, quadri e dirigenti) e dai contratti

collettivi per quanto concerne le qualifiche.

Facciamo quindi una distinzione tra qualifica e categoria, specificando che ognuno di questi termini ha una

doppia accezione.

Per “qualifica” si intende SIA l’attività che un soggetto svolge nell’organizzazione produttiva, SIA l’insieme

di mansioni che individuano una figura professionale (il tornitore piuttosto che il carpentiere).

Per “categoria” si intende il livello di appartenenza all’interno dell’organizzazione produttiva di un

determinato soggetto. Qui possiamo attuare una distinzione tra categorie legali, individuate dall’art. 2095

c.c., il quale attua la differenza tra operai, impiegati, quadri e dirigenti, e categorie contrattuali, in passato

viste dalla contrattazione collettiva come delle sottocategorie di quelle legali, nate per poter attuare delle

differenziazioni tra gradi intermedi (per esempio tramite l’individuazione della figura del funzionario, a

metà strada tra il quadro ed il dirigente).

Categorie legali

La classificazione dei lavoratori è dettata, quindi, da un sistema misto in cui si incontrano le categorie

contrattuali e quelle legali. Queste ultime sono individuate dal legislatore e collegano la classificazione

professionale alla struttura gerarchica nell’impresa, specificando inoltre trattamenti diversi. Lo stesso

art.2095 c.c. sancisce, al secondo comma, che siano leggi speciali e contratti collettivi a definire i criteri di

appartenenza alle varie categorie. Inoltre la stessa contrattazione collettiva ha individuato, col passare del

tempo, una serie di categorie contrattuali dapprima inesistenti (si pensi alla figura dei funzionari). Il

sistema di classificazione dei lavoratori, tra l’altro, si è col tempo modificato notevolmente, prediligendo

una distinzione tra categorie contrattuali, piuttosto che tra categorie legali.

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28

Distinzione tra operai ed impiegati

La distinzione tra operai ed impiegati, individuata inizialmente grazie alla legge sull’impiego privato (R.D.L.

1825/1924), è mutata notevolmente col passare del tempo e con l’evolversi della società. L’art. 1 della

suddetta legge riconduceva la differenza tra gli uni e gli altri alla distinzione tra lavoro manuale e lavoro

intellettuale. L’impiegato, infatti, era visto come colui che svolge per l’imprenditore (esistendo uno stato di

subordinazione) un’attività professionale di collaborazione, di concetto o di ordine, esclusa l’attività di

manodopera. Con l’evolversi della società, però, questa distinzione è divenuta fragile: si è assistito al

proliferare di operai che operano a livello intellettuale ed alla meccanicizzazione del lavoro degli impiegati.

La dottrina, quindi, ha individuato una nuova distinzione tra le due categorie, precisando che l’operaio è

colui che collabora NELL’impresa, svolgendo un’attività produttiva, mentre l’impiegato è colui che

collabora ALL’impresa, ossia organizzando (e non svolgendo) l’attività produttiva. Ma anche tale

distinzione, considerando che in diversi settori una stessa attività potrebbe essere presa in considerazione

come operaia o impiegatizia, è venuta in un certo senso a mancare. In realtà, la vera distinzione, già

dall’origine della stessa, aveva ad oggetto il ceto sociale di appartenenza: impiegato era colui che sapeva

scrivere, leggere, contare, differente dall’operaio che poteva prestare solo un lavoro manuale, essendo

analfabeta. Il nuovo sistema di classificazione professionale, infatti, ha superato tale distinzione, non più

fondata sulla separazione tra operai ed impiegati (inquadramento unico).

L’inquadramento contrattuale

L’inquadramento unico, più volte citato, non ha solo attuato un’eliminazione nominale della distinzione tra

operai ed impiegati, ma ha creato una nuova scala di categorie contrattuali, in cui al medesimo livello

possono trovarsi tanto impiegati quanto operai. Non si attua più, in sostanza, un modello gerarchico

articolato su categorie legali, bensì una classificazione in 7/8 categorie che comportano livelli retributivi

diversi, l’appartenenza ai quali è determinata dalle definizioni delle caratteristiche dell’attività prestata

(declaratorie) e dell’elencazione di profili professionali specifici (esemplificazioni).

I dirigenti

Inizialmente i dirigenti venivano considerati solo e solamente come degli impiegati con funzione direttive,

impiegati superiori. La nascita della categoria risale all’ordinamento corporativo, che attribuì a tale

categoria un’organizzazione separata da quella degli impiegati.

La contrattazione collettiva, cui viene demandato il compito di stabilire i criteri di appartenenza a tale

categoria, ritiene dirigenti tutti quei lavoratori che ricoprono un ruolo caratterizzato da un elevato grado di

professionalità, autonomia e potere decisionale volto ad esplicare funzioni di coordinamento e gestione

utili alla realizzazione degli obiettivi dell’impresa. La contrattazione collettiva subordina l’attribuzione della

qualifica dirigenziale alla nomina da parte dell’imprenditore, al contrario della giurisprudenza, che non

ritiene necessaria tale nomina qualora il compito effettivamente svolto delinei un rapporto fiduciario con

l’imprenditore.

Vi sono poi casi in cui il dirigente non ha alcun potere direttivo, essendogli riconosciuta l’appartenenza a

tale categoria in forza soltanto di una particolare preparazione e/o esperienza, che riconduce ad un

trattamento economico più vantaggioso. Il dirigente, comunque, non può essere oggi considerato,

contrariamente da ciò che si credeva in passato, come l’alter ego dell’imprenditore, se non ai massimi

livelli dell’organizzazione produttiva (top management).

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I quadri intermedi

L’art.2095 c.c. inerente l’individuazione delle categorie legali di organizzazione produttiva attuava una

distinzione, nel suo testo originario, tra dirigenti amministrativi e tecnici, impiegati ed operai. Negli anni 70,

però, emersero figure professionali con un ruolo ben distinto rispetto agli impiegati, ma che non godevano

di rilevanza dirigenziale: una figura, quindi, a metà strada tra quella di impiegato e quella di dirigente, che

meritava di essere retribuita diversamente rispetto agli uni e agli altri.

La L.190/1985 novellò l’art.2095 c.c. introducendo la figura dei “quadri intermedi”, fornendone una

definizione ma demandando alla contrattazione collettiva nazionale (inquadramento collettivo) la

determinazione dei requisiti di appartenenza alla nuova categoria, alla quale sarebbero poi state applicate

le norme di tutela del lavoratore inerenti gli impiegati. Tuttavia ai quadri viene attribuita la rilevanza

inerente le funzioni e non le mansioni, propria dei dirigenti: essi sono lavoratori che svolgono funzioni a

carattere continuativo di rilevante importanza per lo sviluppo e l’attuazione degli obiettivi dell’impresa.

Il mutamento di mansioni. Il divieto di adibizione a mansioni inferiori. Il danno da dequalificazione.

Abbiamo visto come per “mansioni” s’intenda l’insieme dei compiti che il lavoratore è chiamato a svolgere,

oggetto dell’obbligazione contrattuale del rapporto di lavoro. Il contratto di lavoro, tuttavia, è l’unico

contratto in cui l’oggetto possa essere modificato unilateralmente da una parte, il datore di lavoro, al

contrario della generalità di contratti in cui occorre il mutuo consenso delle parti. Ciò è previsto

dall’art.2103 c.c., che nel suo testo originario prevedeva non solo la possibilità del datore di modificare le

mansioni, nell’interesse dell’impresa, per cui il lavoratore era stato assunto, ma anche l’eventualità che

fossero le parti di comune accordo a stabilire una modifica delle mansioni.

L’art.2103 c.c. è stato novellato dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori del 1970, il quale non solo ha

eliminato la differenza tra mutamento unilaterale e mutamento consensuale, ma, pur riconoscendo il

iusvariandi dell’imprenditore, ha stabilito che sia possibile una variazione di mansioni solo orizzontale o

verticale verso l’alto, essendo impossibile una dequalificazione del la lavoratore. La mobilità verso il basso

può essere attuata solo nei casi tassativamente previsti, ossia in caso di esigenze straordinarie

sopravvenute, nel caso di lavoratrici madri in quanto si è voluto assicurare l’esercizio di mansioni non

pregiudizievoli alla salute delle stesse o dei feti, nel caso di sopravvenuta inabilità allo svolgimento delle

mansioni, o nel caso in cui un accordo sindacale, in seguito ad una procedura di licenziamento, prevede il

riassorbimento di lavoratori esuberanti. Tranne che in quest’ultimo caso, si mantiene sempre la

retribuzione precedente alla variazione verso il basso della mansione. L’art.2103 c.c. precisa che “ogni

patto contrario è nullo”. In caso di dequalificazione ingiustificata, tra l’altro, il lavoratore avrà diritto al

risarcimento del danno tanto patrimoniale, quanto non patrimoniale.

Mobilità orizzontale

Si ha mobilità orizzontale nel momento in cui il lavoratore viene assegnato a mansioni equivalenti alle

ultime effettivamente svolte. L’equivalenza di cui si parla, tuttavia, non inerisce al trattamento economico,

fatto salvo già dallo stesso art.2103 c.c. sia nel vecchio che nel nuovo testo. Pertanto per equivalenza si

deve intendere un’affinità di professionalità tra le vecchie e le nuove mansioni.

Il nuovo sistema di inquadramento per aree professionali, tuttavia, prevede che in una stessa area (o

categoria) vi siano posizioni organizzative (o livelli) differentemente retribuiti, motivo per cui l’attribuzione

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di una nuova mansione che prevede un trattamento economico superiore, dovrà portare il lavoratore ad

ottenere il trattamento ad egli più favorevole.

Mobilità verso l’alto

Si ha mobilità verso l’alto nel momento in cui il lavoratore viene assegnato a mansioni superiori: in tal caso

egli avrà diritto al trattamento economico corrispondente e l’assegnazione diverrà definitiva dopo un

periodo fissato dai contratti collettivi e non superiore a tre mesi, salvo il caso in cui si stia sostituendo

momentaneamente un lavoratore assente che ha diritto alla conservazione del posto (in caso di malattia,

infortunio, gravidanza e puerperio, servizio militare). Se in questo caso il periodo massimo è di tre mesi per

l’assegnazione definitiva ad una mansione superiore, nel caso in cui si tratti di mansioni di quadro

intermedio o dirigente, il periodo MINIMO di svolgimento è di tre mesi, ma può essere stabilito un periodo

superiore dai contratti collettivi.

Quindi al lavoratore viene riconosciuto il DIRITTO ALLA PROMOZIONE, ossia il riconoscimento della

qualifica superiore per le mansioni effettivamente svolte, che non va confuso con la “promozione

automatica” prevista nei contratti collettivi, la quale riconosce che dopo un periodo di permanenza nella

mansioni di livello più basso, il lavoratore abbia diritto ad acquisire una qualifica di livello superiore.

Trasferimento del lavoratore

L’art.2103 c.c. disciplina, inoltre, il trasferimento del lavoratore ad un’altra unità produttiva. Esso può

essere disposto dal datore di lavoro in via definitiva nel caso in cui vi siano “comprovate ragioni tecniche o

organizzative, che l’imprenditore non ha solo l’onere di provare, ma anche di comunicare al lavoratore in

caso di richiesta di quest’ultimo (non contestualmente al provvedimento di trasferimento). Qualora non

siano rispettati i presupposti legali, il lavoratore potrà far accertare in giudizio la nullità del provvedimento

e rifiutarsi di ottemperare allo stesso.

E’ anche futile precisare che il trasferimento non può aver ad oggetto motivi discriminatori di qualsivoglia

tipo. Non è altrettanto scontato dire che in caso di lavoratore che assiste con continuità un parente o affine

entro il terzo grado portare di handicap o in caso di amministratori locali eletti ad esercitare funzioni

pubbliche, occorra il consenso degli interessati al trasferimento.

SEZIONE C: LA TUTELA DELLA PERSONA DEL LAVORATORE NELL’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO

L’inserimento del prestatore nell’ambiente di lavoro

Quando si parla di condizioni di lavoro non ci si riferisce solo alle mansioni del lavoratore, ma anche

all’organizzazione e all’ambiente lavorativo, che riguardano da vicino il datore di lavoro nell’esercizio del

proprio potere direttivo. Col tempo sono state fissate norme tese a tutelare le condizioni ambientali

(igiene, sicurezza) e la durata della prestazione lavorativa (orario di lavoro) per limitare il potere

dell’imprenditore e tutelare i lavoratori. La persona fisica e la propria personalità morale devono essere

tutelate anche nell’ambiente di lavoro, ossia all’interno dell’organizzazione produttiva e per tal motivo è

stato introdotto un sistema di assicurazioni sociali contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali,

riguardanti quelle particolari categorie lavorative esposte ad un notevole margine di rischio nell’esercizio

della propria attività. Il principio del “rischio professionale” tutela il datore di lavoro, esonerandolo da

qualsivoglia responsabilità in caso di eventi dannosi assicurati: sarà l’ente assicuratore ad indennizzare il

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lavoratore per la sospensione momentanea dell’attività lavorativo o addirittura ad assicurargli un rendita

qualora la sospensione non abbia carattere temporaneo.

Ad assicurare, poi, un certo grado di prevenzione sul posto di lavoro vi sono l’art.2087 c.c., l’art.9 dello

Statuto dei lavoratori e il D.Lgs. 626/1994.

Disciplina dell’art. 2087. Danno biologico e mobbing. L’art. 9 dello Statuto

L’art.2087 c.c. prevede, a carico del datore di lavoro, l’obbligo di protezione della persona fisica e delle

personalità morale del lavoratore. Il datore di lavoro, quindi, deve attuare tutte le misure idonee affinché il

lavoratore, nell’eseguire la prestazione lavorativa, non incorra in alcun pericolo per la propria integrità

psicofisica. Quindi l’imprenditore deve svolgere una vera e propria attività di prevenzione, oggetto

dell’obbligo sancito dal suddetto articolo. Nella generalità dei contratti il dovere di rispetto della persona è

implicito all’obbligo di buona fede (art.1375 c.c.) e si configura come un obbligo secondario rispetto

all’obbligo primario di prestazione. Nel caso del rapporto di lavoro, invece, tale obbligo non risulta

secondario/accessorio, bensì primario al pari dell’obbligo di prestazione.

Va sottolineato come l’art.2087 per lungo tempo sia stato evocato solo in caso di risarcimento danni,

quando il fatto si era già concretizzato, non ottemperando al proprio ruolo di prevenzione. La Corte

Costituzionale ha, inoltre, sottolineato l’importanza del cosiddetto “danno biologico”: si tratta di una

menomazione dell’integrità psico-fisica del lavoratore che va oltre la riduzione della capacità lavorativa e

per cui inizialmente il datore di lavoro veniva ritenuto responsabile, non essendo coperto da alcuna

assicurazione a riguardo. La normativa recente ha previsto che anche il danno biologico sia coperto da

assicurazione qualora sia derivante da infortunio o malattia professionale: il datore di lavoro, quindi, non

ha alcuna responsabilità civile a riguardo, responsabilità che permane al di fuori dei casi coperti

dall’assicurazione.

La giurisprudenza ha poi riconosciuto il cosiddetto “danno esistenziale”, prodotto dal comportamento

illegittimo del datore di lavoro e causante danni alla vita di relazione del lavoratore.

Di recente si è parlato molto spesso di “mobbing”, condizione che si attua nel momento in cui il soggetto

(non solo il lavoratore) viene posto in una situazione di inferiorità tramite il comportamento posto in

essere da altri soggetti (datore o colleghi): in tal caso non si ha alcun danno psico-fisico, ma un danno

morale che lede la dignità del soggetto. Le pronunce giudiziali in tema di lavoro sono ancora scarse, ma la

giurisprudenza sembra aver ben recepito la situazione di disagio in cui si può trovare il lavoratore.

Attenzione merita anche l’art.9 dello Statuto dei lavoratori, il quale attribuisce ai lavoratori, tramite le

proprie rappresentanze, di poter controllare l’applicazione delle norme anti-infortunistiche e di poter

suggerire miglioramenti e nuove misure per salvaguardare le condizioni di lavoro.

Tutela della salute nel D.Lgs. 626/1994

In tema di sicurezza del lavoro la normativa più importante emanata all’interno del nostro ordinamento è

sicuramente rappresentata dal D.Lgs. 626/1994 emanato in attuazione della direttiva-quadro europea

391/1989. Il decreto introduce importanti novità in materia: i rischi devono essere valutati e ridotti al

minimo dal datore di lavoro e deve essere attuata una prevenzione continua, la quale miri ad informare i

lavoratori dei rischi della propria attività (diritto all’informazione), obbligando il datore alla nomina di uno

o più rappresentanti per la sicurezza che conoscano l’ambiente di lavoro e contribuiscano alla riduzione

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degli stessi. Il datore di lavoro, oltre a valutare i rischi, deve elaborare un piano di sicurezza ambientale, in

cui vengano individuate le misure di prevenzione e l’attuazione delle stesse, conservato presso l’unità

produttiva. Inoltre deve esserci una sorveglianza sanitaria da parte di un medico competente per i

lavoratori esposti ad agenti che alzino il livello di rischio lavorativo. I lavoratori stessi, inoltre, devono

prendersi cura della propria salute e sicurezza, sottoponendosi ai programmi di formazione ed

addestramento organizzati dall’imprenditore e provvedendo all’osservanza di tutte le norme necessarie

per la riduzione dei rischi (adozione di tute protettive, ottemperamento ai protocolli previsti per l’uso di

determinati agenti o macchinari ecc).

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: il D.Lgs.626/1994 è stato sostituito dal TU in materia di

sicurezza del lavoro, emanato con il D.Lgs.81/2008 in attuazione della delega contenuta all’interno della

L.123/2007. Il TU ha il compito di unificare tutta la disciplina in materia di sicurezza del lavoro, nonché di

adeguarla al riparto delle competenze legislative nazionali e regionali. Esso contiene una disciplina

generale, inerente i principi comuni in materia, i quali delineano le finalità, il campo di applicazione, le

istituzioni coinvolte ed il sistema di gestione della sicurezza, ed una disciplina speciale dei singoli settori,

che integra e completa quella generale, contenente disposizioni in merito ad uso di attrezzature, cantieri

mobili, uso dei videoterminali, esposizione ad agenti fisici, chimici e biologici.

Il TU si ispira a 2 principi fondamentali, quello dell’universalità e quello dell’effettività.

Il principio di universalità impone che la normativa in materia si applichi a tutte le tipologie di lavoro. Per

questo motivo è stato previsto che la disciplina del TU si applichi anche ai lavoratori autonomi (dapprima

esclusi), sebbene limitatamente ad alcuni aspetti, oltre che ai componenti di imprese familiari ed ai piccoli

imprenditori. Inoltre ai lavoratori autonomi si estende la disciplina prevista per gli appalti, per i contratti

d’opera e di somministrazione per ciò che concerne i processi di esternalizzazione: in tutti quei casi che

portano all’affidamento a terzi di fasi lavorative e che implicano la presenza sul posto di lavoro di soggetti

dipendenti da diversi rapporti negoziali, ma la cui responsabilità degli stessi pende su un unico centro

d’imputazione. Ecco perché è necessaria la presenza, sul posto di lavoro, di un documento unico di

valutazione dei rischi. Inoltre la disciplina del TU è estesa a tutti quei casi in cui la figura del datore di lavoro

e quella dell’utilizzatore siano distinte (somministrazione e distacco), così come ai casi in cui un’attività di

collaborazione autonoma venga svolta presso un committente (collaborazione a progetto o coordinate e

continuative) ed ai casi di lavoro occasionale o accessorio. Il TU include, infine, anche le forme di lavoro

delocalizzato, come il telelavoro.

In forza del principio di effettività, invece, è stato previsto dal TU che il datore di lavoro, tramite atto in

forma scritta ad substantiam con data certa e ricevuta l’accettazione in forma scritta, possa delegare ad un

proprio sottoposto tutti i compiti in materia di sicurezza, purché il soggetto sia professionalmente idoneo a

svolgere tali compiti, sia pubblicizzata la nomina e gli siano trasferiti compiti di gestione, controllo e spesa.

In tal caso il datore di lavoro è esonerato da qualsivoglia responsabilità, anche se potrebbe rispondere

della mancata vigilanza sull’operato del responsabile per la sicurezza sul lavoro.

Il TU si è occupato, inoltre delle sanzioni in caso di violazione delle norme in esso contenute, prevedendo in

alcuni casi addirittura la pena detentiva. Qualora vengano violate le disposizioni in materia di salute e

sicurezza sul lavoro dettate dal TU e, in conseguenza di tale violazione, si configuri il reato di omicidio

colposo o lesioni gravi colpose, vi è una responsabilità penale delle persone giuridiche che avevano il

compito di far rispettare la normativa. Anzitutto sono previste sanzioni pecuniarie, oltre alle sanzioni

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amministrative di tipo interdittivo. Sanzioni sospensive sono, poi, previste in caso di utilizzo di lavoratori

irregolari, proprio al fine di contrastare il lavoro sommerso: solo la regolarizzazione degli stessi può

attenuare le sanzioni.

Per ciò che concerne, infine, la riforma del Titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001 e la conseguente

ripartizione di competenze tra Stato e regioni, è stato previsto che il TU funga da contenitore dei principi

fondamentali dettati dallo Stato in funzione della competenza concorrente riguardo alla materia della

sicurezza del lavoro. Alle Regioni spetta legiferare in materia, in coerenza con i principi del TU.

Divieti di discriminazione

Una serie d’interventi legislativi, nel corso del tempo, hanno assicurato la dignità e la libertà morale del

lavoratore nei confronti di discriminazioni di qualsiasi genere.

I primi divieti hanno riguardato discriminazioni politiche, religiose e sindacali, mentre successivamente

sono state tutelate la condizione dello straniero e la parità tra i sessi. Discriminazioni etniche o fondate

sulla razze, così come discriminazioni inerenti la religione, gli handicap, l’età e l’orientamento sessuale,

sono state vietate in maniera assoluta anche grazie ad interventi a livello europeo, poi recepiti nel nostro

ordinamento dal D.Lgs. 215/2003 e dal D.Lgs. 216/2003, i quali hanno ricompreso tra i comportamenti

vietati anche le molestie, ossia quei comportamenti che hanno lo scopo o l’effetto di violare la dignità di

una persona o di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.

Ovviamente sono state contemplate alcune deroghe ai vari divieti di discriminazione, come per esempio

quelle inerenti funzioni d’interesse pubblico in merito a determinate attività lavorative (forze armate e

servizi di polizia, di soccorso, penitenziari).

SEZIONE D: LA DURATA DELLA PRESTAZIONE

L’orario di lavoro e la determinazione della prestazione. La tutela della salute del lavoratore e l’art.36

comma 2 e 3 della Costituzione

La persona del lavoratore non va tutelata solo in merito all’ambiente di lavoro ed ai rischi ad esso connessi,

ma anche in base all’organizzazione del lavoro e della durata dello stesso. La dimensione temporale

lavorativa acquisisce importanza sia sotto il profilo di determinazione quantitativa della prestazione

lavorativa e della retribuzione, ossia quanto il prestatore deve lavorare in virtù del contratto (orario

normale contrattuale di lavoro) ed a quale retribuzione ha diritto in base alle ore lavorative, sia sotto il

profilo del limite massimo di esigibilità della prestazione lavorativa, ossia per capire quanto il lavoratore

possa essere impiegato prima che esaurisca le proprie forze (pur sempre umane e non meccaniche) e

perda lucidità e professionalità a danno di se stesso e del proprio operato. L’art.36 della carta

costituzionale stabilisce al comma 2 che la durata massima dell’attività lavorativa debba essere stabilita per

legge, mentre al comma 3 prevede che il lavoratore abbia diritto al riposo settimanale ed alle ferie annuali

retribuite, senza potervi rinunciare.

La disciplina legale dell’orario di lavoro

La disciplina dell’orario di lavoro è stata per lungo tempo contenuta negli artt.2107,2108 e 2109 c.c.,

inerenti l’orario di lavoro effettivo, il lavoro straordinario e notturno ed i periodi di riposo, nonché

all’interno di diverse leggi speciali. Nel 2003 con il D.Lgs. 66, in attuazione della direttiva europea 104/93,

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la normativa dapprima sparsa in varie fonti legislative, è stata unificata ed innovata, abrogando le

precedenti, salvo nei casi esplicitamente richiamati.

Il decreto 66 definisce l’orario di lavoro: si tratta del periodo di tempo in cui il prestatore è al lavoro, a

disposizione del datore ed eserciti la propria attività. Viene poi ribadita la differenza tra “orario normale di

lavoro”, contrattualmente previsto e fissato nel limite di 40 ore settimanali con la possibilità dei contratti

collettivi di prevedere una durata inferiore e considerare il limite come valore medio sull’arco di un anno

(si tratta del c.d. orario multiperiodale, che permette ai datori di lavoro di superare le 40 ore senza andare

incontro allo straordinario), ed “orario di lavoro straordinario”, il quale consiste nelle ore di lavoro

eccedenti l’orario normale, fissate nel limite di 250 ore annuali e retribuite diversamente e maggiormente

(da unirsi o sostituirsi a recuperi/riposi extra) rispetto alle ore normali di attività lavorativa. Le ore di lavoro

straordinario, tra l’altro, devono essere regolamentate dai contratti collettivi o, in difetto, concordate tra

datore e lavoratore.

Il limite settimanale omnicomprensivo di ore lavorative viene fissato in 48 ore ogni 7 giorni, fissato non

come valore assoluto ma come valore medio su un arco temporale di 4 mesi, salva diversa previsione dei

contratti collettivi. Il datore di lavoro che ecceda la previsione delle 48 ore/7 giorni deve comunicarlo per

iscritto, insieme alla motivazione, entro 30 giorni alla Direzione provinciale del lavoro.

E’ stato, inoltre, innalzato a 4 settimane di astensione dal lavoro il diritto alle ferie.

Sono previste, anche per l’orario lavorativo, alcune deroghe: sono esclusi dalla disciplina dell’orario

normale MA NON da limite di 48 ore/7 giorni, i lavoratori addetti alle occupazioni che richiedono un lavoro

discontinuo o di semplice attesa e custodia. Sono esclusi tanto dalla disciplina dell’orario normale, quanto

da quella delle 48 ore/7 giorni tutti i lavoratori la cui durata della prestazione non è determinata o può

essere determinata dai lavoratori stessi (dirigenti o persone con potere di decisione autonomo).

Infine con decreto ministeriale può essere innalzato il periodo di 4 mesi (fino ad un massimo di 6 mesi) su

cui spalmare le 48 ore/7 giorni, nei casi tassativamente elencati dallo stesso decreto (continuità di alcuni

servizi come quello ospedaliero, postale, televisivo, attività connesse al trasporto ecc).

INTEGRAZIONE APPENDI DI AGGIORNAMENTO: il D.Lgs.66/2003 inerente l’orario di lavoro ed il c.d. tempo

di non lavoro, è stato modificato dalla L.244/2007 e dal D.L.112/2008, il quale però non si applica ai servizi

di vigilanza privata. Il decreto ha escluso dall’applicazione del limite settimanale medio di 48 ore il

personale dirigente del Servizio Sanitario Nazionale, per garantire maggiormente tale servizio, salvo

lasciare ai contratti collettivi la previsione di come vadano recuperare le energie psico-fisiche. Non è più

necessario, inoltre, comunicare il superamento delle 48 ore settimanali per ricorso al lavoro straordinario.

Un’altra modifica ha riguardato il riposo giornaliero consecutivo di 11 ore ogni 24, il quale può essere ora

concesso non solo per coloro che esercitano attività frazionate durante la giornata, ma anche a colo che

sono soggetti a regimi di reperibilità, esclusi dirigenti e personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario

nazionale. Per quanto riguarda la materia del riposo giornaliero, nonché delle pause e della

durata/organizzazione del lavoro notturno è previsto che la contrattazione collettiva nazionale possa

attuare un regime derogatorio rispetto alle previsioni legislative; stessa cosa può fare la contrattazione

collettiva territoriale nel settore privato, senza conformità con quella nazionale. Inoltre, in riferimento al

diritto al riposo settimanale consecutivo di 24 ore ogni 7 giorni, è stato previsto che esso vada calcolato

come media in un periodo di 14 giorni, facendo di fatto slittare il riposo. Piccole modifiche sono state

previste anche per la nozione di lavoro notturno, lasciando immutata la definizione originale, ma

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prevedendo che lavoratore notturno sia anche colui che svolga una parte del suo lavoro durante il periodo

notturno secondo le modalità previste dai contratti collettivi o svolga lavoro notturno per un minimo di 80

giorni l’anno per almeno 3 ore.

Il lavoro notturno

Il decreto 66 ha modificato anche la materia del lavoro notturno, anzitutto fornendo una definizione di

periodo notturno, periodo di almeno 7 ore comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le 5 del mattino, e

di lavoratore notturno, colui che svolge almeno 3 ore dell’orario di lavoro normale durante il periodo

notturno o almeno una parte del proprio lavoro secondo le norme previste dai contratti collettivi, o che

svolge lavoro notturno per un minimo di 80 giorni l’anno.

L’introduzione del lavoro notturno deve essere stabilito in concerto con le rappresentanze sindacali e non

può superare il periodo di 8 ore di media nell’arco delle 24 ore, salvo che i contratti collettivi non abbiano

diversamente previsto. I contratti collettivi devono, poi, stabilire la retribuzione per il lavoro notturno e

fissare i requisiti che consentono l’esclusione dal lavoro notturno, accertati da strutture sanitarie

pubbliche. Vanno poi stabiliti dei controlli e delle garanzie per la sicurezza del lavoratore notturno. Non

può esercitare lavoro notturno la donna in gravidanza o in puerperio fino al compimento di un anno di età

del bambino, mentre è facoltativo il suddetto per:

• la donna madre di un figlio di età inferiore a 3 anni o per il lavoratore padre convivente con la

stessa;

• il lavoratore (lavoratrice) genitore unico affidatario di un figlio convivente di età inferiore a 12 anni;

• il lavoratore (lavoratrice) con a carico un soggetto disabile.

La pause giornaliere, il riposo settimanale, le festività infrasettimanali, le ferie annuali

Il decreto 66 del 2003 disciplina le pause, il riposo settimanale, le festività infrasettimanali e le ferie

annuali.

Per “pausa” si intende l’intervallo, stabilito dai contratti collettivi o in assenza dei quali la pausa non può

durare meno di 10 minuti, per chi esercita un’attività lavorativa di durata superiore alle 6 ore in cui il

soggetto può recuperare le proprie energie psico-fisiche e consumare il pasto.

Per il riposo giornaliero, invece, il decreto stabilisce che il lavoratore ha diritto ad 11 ore di riposo

consecutivo ogni 24 ore, salvo i casi di attività lavorative frazionate durante la giornata, nel qual caso si può

giungere a lavorare per ben 13 ore complessive tra orario di lavoro normale e straordinario.

Va sottolineato che la normativa su pause e riposi giornalieri non si applica ai lavoratori la cui durata della

prestazione non può essere predeterminata o non è misura o è scelta dal lavoratore. In materia

intervengono i contratti collettivi, in mancanza dei quali si potrà avere anche un decreto ministeriale.

Il lavoratore ha poi diritto al “riposo settimanale”, ossia a 24 ore di riposo continuativo ogni settimana (da

cumulare con i riposi giornalieri), di solito coincidenti con la domenica, ad eccezione dei lavori a turni, dei

lavori frazionati durante la giornata e del settore dei trasporti ferroviari ecc.

Il decreto 66 ha poi disciplinato un diritto costituzionalmente garantito dall’art.36, ossia quello al riposo

annuale (ferie). E’ previsto che il lavoratore abbia diritto a 4 settimana di riposo, 2 delle quali devono

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essere godute consecutivamente. La retribuzione rimane identica al periodo di lavoro e le ferie si

sospendono in caso di malattia durante il periodo di riposo annuale.

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37

CAPITOLO QUINTO – LA RETRIBUZIONE

SEZIONE A: L’OBBLIGAZIONE RETRIBUTIVA. LA RETRIBUZIONE MINIMA SUFFICIENTE

L’obbligazione retributiva. La c.d. busta paga

Abbiamo avuto modo di precisare che il contratto di lavoro è un contratto sinallagmatico, a prestazioni

corrispettive, in cui all’obbligazione di una parte di eseguire l’attività lavorativa, corrisponde l’obbligazione

dell’altra parte a retribuire il lavoratore. La materia è disciplinata dall’art.2099 c.c. il quale prevede che la

retribuzione possa essere stabilita a tempo (ti pago per 8 ore lavorative) o a cottimo (in base al lavoro

svolto, ti pago per aver prodotto X). Nella corresponsione della retribuzione il datore di lavoro deve usare

la diligenza del buon padre di famiglia e può essere obbligato al risarcimento del danno in caso di ritardo o

inadempimento ad egli imputabile. Il principio osservato è quello della post-numerazione, ossia prima si

esegue la prestazione lavorativa e poi si viene retribuiti. La retribuzione corrisponde ad un pagamento

pecuniario (anche in natura secondo quanto prevede l’art.2099 c.c.) da effettuarsi presso la sede di lavoro

ed accompagnato da un prospetto paga analitico (L.4/1953) riassumente le voci che compongono la

retribuzione.

L’orario di lavoro come criterio di commisurazione della retribuzione

L’ammontare della retribuzione viene stabilito in base al tempo lavorato. Il principio della post-

numerazione, infatti, prevede che la retribuzione sia dovuta in base all’attività svolta. Il tempo impiegato

per l’esercizio dell’attività lavorativa (retribuzione a tempo) o il risultato produttivo ottenuto tramite la

forza lavoro (a cottimo) sono determinanti per stabilire l’orario di lavoro, sulla base del quale viene

stabilita, da contratti collettivi e talune volte individuali, la retribuzione. Nella retribuzione a cottimo va

comunque calcolato il tempo lavorato per determinare la retribuzione, ossia il tempo che è servito per

produrre una determinata “quantità di grandezze” (il risultato produttivo appunto).

Retribuzione minima, contratti collettivi ed articolo 36 Costituzione

In forza dell’art.2099 c.c. secondo comma spetta ai contratti collettivi stabilire la misura della prestazione

retributiva. Compito primario ed originario dell’autonomia collettivo è, infatti, quello di stabilire la misura

minima della retribuzione (contratto collettivo = concordato di tariffa già alla fine del XIX secolo).

N.B. l’articolo parla di riferimento alle norme corporative, poi sostituite dai contratti collettivi.

Tuttavia il documento più importante in cui possiamo ritrovare una traccia per stabilire l’ammontare delle

retribuzioni è la Costituzione: i contratti collettivi devono osservare quanto disposto dall’art.36, il quale

prevede che la retribuzione (e si tratta di una norma principio, non semplicemente di una clausola generale

da completare ad opera del legislatore) sia anzitutto “proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro

svolto”, ossia vi deve essere equivalenza tra la prestazione retributiva e quella lavorativa, ed in ogni caso

“sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, ossia la misura

minima della retribuzione deve andare oltre il minimo di sussistenza, ossia deve essere adeguata alle

necessità sociali.

In caso di lavoro plurimo (dipendenza da più datori di lavoro e coesistenza di più rapporti lavorativi),

inoltre, va osservato dapprima il requisito della sufficienza, in quanto la retribuzione deve essere mezzo di

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sostentamento per il lavoratore, non un semplice corrispettivo per il lavoro svolto: la retribuzione ha,

quindi, anche una funzione sociale.

L’applicazione giurisprudenziale dell’art.36 della Costituzione

L’applicazione giurisprudenziale dell’art.36 della Costituzione è stata fondamentale all’interno del nostro

ordinamento per la fissazione dei salari minimi. La giurisprudenza ha riconosciuto come corrispondenti ai

requisiti dettati dalla Costituzione, la retribuzione equivalente a quella dei contratti collettivi, attribuendo

un’importanza vitale all’autonomia collettiva. I sindacati, infatti, non rispettando pienamente l’art.39 della

Costituzione, in quanto non registrati, non avrebbero il potere di stipulare contratti collettivi validi per

tutte le categorie professionali, ivi inclusi i non iscritti. La giurisprudenza, invece, ha previsto che le

retribuzioni minime stabilite da accordi dell’autonomia privata si applichino anche a lavoratori di quel

settore non iscritti ai sindacati stipulanti l’accordo. Nel nostro Paese, inoltre, manca una disciplina

legislativa che fissi dei minimi salariali, ma per nostra fortuna è intervenuta la giurisprudenza per la

corretta applicazione dell’art.36, che seppur costituzionale e non di disciplina legislativa in materia,

possiede comunque una funziona precettiva e perciò direttamente vincolante, non essendo un mero

principio generale.

SEZIONE B: STRUTTURA DELLA RETRIBUZIONE

I sistemi di retribuzione

L’art.2099 c.c. contempla due sistemi di retribuzione: quello a tempo, in cui il lavoratore viene retribuito in

base al periodo di tempo in cui ha prestato la propria attività lavorativa (ore, settimane, giorni) e quello a

cottimo, in cui il lavoratore viene retribuito in base al risultato del lavoro. Vi sono poi sistemi di

retribuzione alternativi contemplati dallo stesso articolo, quali la partecipazione agli utili, dove il lavoratore

riceve una parte dei profitti netti dell’impresa che si possono evincere dal bilancio ove sia previsto, la

partecipazione ai prodotti dell’impresa, in cui il lavoratore, in cambio della propria attività, riceve una parte

dei risultati materiali dell’attività imprenditoriale. Queste due ultime forme di retribuzione potrebbero

però violare, indirettamente, il requisito di sufficienze previsto dall’art.36 della Costituzione, laddove ad

esempio l’attività imprenditoriale non sia andata bene e non sia in grado di garantire utili o prodotti al

lavoratore, a causa di elementi non contemplabili dal lavoratore stesso. In tal caso è previsto comunque

che il lavoratore ottenga una retribuzione sufficiente.

Il lavoratore, inoltre, può essere anche retribuito con prestazioni in natura, ossia ricevendo dei beni, anche

se ciò avviene in casi limitati (es. portierato, dove il portiere riceve, oltre ad una somma in denaro, anche

vitto e alloggio).

Ultima ipotesi è quella della retribuzione a provvigione: in tal caso il lavoratore è tenuto (ed è questo

proprio l’oggetto della sua prestazione) alla conclusione di affari e contratti nell’interesse dell’imprenditore

e qualora egli riesca nel proprio operato, avrà diritto o ad una percentuale sull’affare o comunque ad una

retribuzione proporzionata allo stesso. Tale tipo di retribuzione può essere integrativa di una retribuzione

in denaro od anche esclusiva.

Retribuzione a tempo

Nell’ambito della retribuzione a tempo possiamo attuare una distinzione tra la retribuzione oraria, definita

come “salario”, e quella mensile, definita come “stipendio”, originariamente e tradizionalmente

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corrispondenti alla distinzione tra operai ed impiegati. Per la distinzione non rileva il termine

d’adempimento dell’obbligazione retributiva, che può essere alla fine del mese od ogni 15 giorni in

entrambi i casi, ma l’assunzione del rischio: il salario corrisponde alla somma delle ore effettivamente

lavorate, mentre per lo stipendio il datore di lavoro si assume il rischio della mancata prestazione

lavorativa non imputabile al lavoratore.

In entrambi i casi, comunque, sulla retribuzione normale (inerente l’orario normale di lavoro) si calcolano

le maggiorazioni per lavoro straordinario, il cui ammontare viene stabilito dai contratti collettivi in cui

possono essere previsti anche dei riposi compensativi, per lavoro notturno, ed anche in tal caso spetta ai

contratti collettivi stabilire i trattamenti economici indennitari per i lavoratori notturni, per le festività,

compensate con un’ulteriore retribuzione che si aggiunge a quella normale ed è stabilita dai contratti

collettivi. Per le ferie, inoltre, il lavoratore deve usufruire obbligatoriamente delle 4 settimane, non

essendo possibile indennizzarlo in denaro per ferie non godute, salvo il caso di cessazione del rapporto di

lavoro.

Elementi accessori della retribuzione e la sua struttura complessa

La retribuzione globale di un lavoratore è composta dalla retribuzione minima prevista dai contratti

collettivi o individuali per l’orario normale di lavoro (paga base) e dagli elementi accessori della

retribuzione, costituiti non solo dalle maggiorazioni per lavoro straordinario, notturno o festivo, ma anche

dai cosiddetti scatti di anzianità, previsti con frequenza biennale e di cui è stabilito un numero massimo nei

contratti collettivi, ai quali si ha diritto per il semplice permanere all’interno di una stessa qualifica per un

periodo di tempo protratto, dai cosiddetti superminimi (assegni ad personam o aumenti di merito) che

superano i minimi tariffari previsti dai contratti collettivi, dalla 13esima mensilità o gratifica natalizia. Vi

sono poi tutta una serie d’indennità previste a favore di coloro che pongono in essere un lavoro disagiato o

ad alto rischio (monetizzazione del rischio), che hanno natura corrispettiva e non risarcitoria. Inoltre, vi

sono i premi collettivi di produzione, istituiti per garantire la partecipazione del lavoratore agli utili

dell’impresa. Ultimamente, sempre più frequenti, sono i premi di presenza, rivolti a disincentivare

l’assenteismo. Un cenno merita anche l’indennità di mensa, corrisposta al lavoratore per sostituire il

relativo servizio.

Retribuzione a cottimo

Secondo sistema fondamentale di retribuzione previsto dall’art.2099 c.c. è quello a cottimo. In questo caso

non si tiene conto solo del periodo di tempo lavorativo del prestatore, ma anche del risultato ottenuto in

tale periodo di tempo. Come possiamo notare, quindi, la retribuzione a cottimo non esula dall’orario

lavorativo (come magari avviene per quella a provvigione), bensì tiene conto di un secondo fattore, il

risultato produttivo. Inizialmente questo tipo di retribuzione era prevista per i lavoratori autonomi come

corrispettivo della locazione d’opera. In seguito venne estesa anche al lavoro subordinato, ovviamente con

qualche modificazione: il cottimo a pezzo o a misura venne sostituito dal cottimo a tempo (quanto riesci a

produrre e quanto lavori nell’arco di tot ore? Tanto verrai retribuito). La retribuzione a cottimo puro o

integrale è in realtà limitata al lavoro a domicilio, mentre nei contratti collettivi viene sempre utilizzato il

cottimo misto, il quale prevede un minimo di paga base determinato a tempo ed un “utile di cottimo”,

calcolato sul lavoro eseguito (si configura quindi come una maggiorazione). Nella retribuzione a cottimo,

comunque, il rischio di mancato o insufficiente lavoro grava pur sempre sul datore, e si trasferisce a carico

del prestatore solo per ciò che concerne la quantità di retribuzione in base alle singole frazioni di risultato

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(non può essere imputabile al lavoratore il difetto o scarto della produzione). I contratti collettivi non

fanno altro che stabilire le tariffe di cottimo. Il lavoro a cottimo è previsto in tutti quei casi in cui

l’imprenditore possa aumentare il ritmo di lavoro (es. catene di montaggio) ed il legislatore impone a

quest’ultimo di aumentare anche la retribuzione.

L’art.2101 c.c. stabilisce che i sindacati possano decidere che le tariffe di cottimo non divengano da subito

effettive, ma ci sia un periodo di prova, la cosiddetta “fase sindacale”, cui segue un periodo definito come

“fase aziendale”, in cui le tariffe iniziano ad operare regolarmente, demandata all’imprenditore, che deve

rendere note le tariffe (ossia lavorazioni da eseguire e relativo compenso unitario) tramite la “bolla di

cottimo”.

La retribuzione a cottimo funge, quindi, da incentivo del rendimento, ma nei casi in cui il rendimento per

unità di tempo dipenda da macchinari con tempi prefissati, serve solo a controllare che il lavoratore

mantenga sempre uno stesso standard lavorativo.

Nozione di retribuzione

Nella definizione legislativa di retribuzione come corrispettivo del lavoro rientrano solo e solamente gli

elementi essenziali della retribuzione stessa, ossia tutti quegli elementi dovuti in via necessaria e non

eventuale. Quando un beneficio economico, un’attribuzione patrimoniale non è legata allo svolgimento

dell’attività lavorativa, e pertanto è corrisposto in via eventuale e non necessaria, allora non può far parte

della definizione omnicomprensiva di retribuzione.

Nozione di reddito da lavoro dipendente a fini contributivi

La retribuzione, oltre a rappresentare l’obbligazione corrispettiva rispetto all’attività lavorativa, è

considerata dalla legge come base imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali e come reddito

imponibile ai fini fiscali. Il vecchio art.12 della L.153/1969 considerava come “retribuzione ai fini

previdenziali” tutto ciò che veniva corrisposto dal datore di lavoro in dipendenza del rapporto di lavoro

stesso. Il D.Lgs. 317/1997 ha riformulato l’art.12, prevedendo la definizione di “reddito da lavoro

dipendente a fini contributivi”, identica alla definizione per fini fiscali dello stesso decreto che, oltre a

modificare la L. 153/1969, ha modificato anche il TU delle imposte sui redditi. Per reddito da lavoro

dipendente non s’intendono più le sole somme previste come corrispettivo dell’attività lavorativa, ma

anche quelle percepite dal prestatore a qualsiasi titolo da parte del datore di lavoro. Sono escluse dalla

tassazione fiscale e dai fini previdenziali, le somme erogate a titolo di Trattamento di fine rapporto (TFR) e

quelle erogate per incentivare l’esodo di un lavoratore.

SEZIONE C: IL TRATTAMENTO RETRIBUTIVO NELLE IPOTESI DI SOSPENSIONE DEL RAPPORTO

Contratto di lavoro e rimedi sinallagmatici

Il contratto di lavoro, non ci stancheremo di ripeterlo, è un contratto sinallagmatico: tra le obbligazioni

delle parti vi è un nesso di interdipendenza che ne fa un contratto a prestazioni corrispettive. Ovviamente

la legge, al pari degli altri contratti sinallagmatici, offre anche a quello lavorativo una serie di “rimedi

sinallagmatici”, mediante i quali il contraente viene tutelato circa il reciproco adempimento degli obblighi

contrattuali. Come rimedi ritroviamo: la risoluzione per inadempimento (artt.1453 e ss. c.c.), per

impossibilità sopravvenuta (artt.1463 e ss. C.c.), per eccessiva onerosità sopravvenuta (artt.1467 e ss.c.c.).

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Preponderante, rispetto alle suddette, è l’eccezione d’inadempimento prevista dall’art.1460 c.c.: qualora

una parte tema che l’altra non intenda adempiere, potrà mettersi al riparo invocando l’eccezione

d’inadempimento e sospendendo l’esecuzione del contratto per un giusto motivo ed evitando lo squilibrio

economico dettato dall’esecuzione della prestazione dovuta di una sola parte.

Non è raro in un rapporto lavorativo che sopraggiunga un impedimento del prestatore (che magari viene

arrestato) o un impedimento del datore (distruzione dell’azienda o disposizione dell’Autorità) e che l’uno o

l’altro siano irreversibili al punto tale da determinare la risoluzione del contratto, liberando così le parti

contrattuali. Tuttavia la retribuzione erogata per lavoro già eseguito non deve essere, è ovvio

comprenderlo, restituita, a differenza della retribuzione anticipata percepita dal lavoratore. Alla risoluzione

per inadempimento, in materia lavorativa, è tuttavia difficile giungere, per via del precedente recesso

unilaterale o della sospensione del rapporto intervenute.

Sospensione del rapporto

Abbiamo già accennato al “principio di traslazione sul datore di lavoro del rischio dell’inattività del

prestatore” nei casi d’impossibilità sopravvenuta della prestazione per cause fortuite o di forza maggiore

attinenti alla persona del lavoratore, ma a lui non imputabili. In un normale rapporto contrattuale,

l’impossibilità sopravvenuta di non poter eseguire la prestazione non imputabile al debitore darebbe luogo

alla risoluzione del contratto ed al venir meno delle rispettive obbligazioni delle parti. Nel rapporto di

lavoro il discorso è diverso proprio in forza della traslazione del rischio: se l’impossibilità sopravvenuta non

attribuibile al prestatore è solo temporanea, egli ha diritto a conservare la retribuzioni, nonché il posto di

lavoro qualora goda di una certa anzianità di servizio (periodo di irrecedibilità o, per quanto riguarda

malattia o infortunio, periodo di comporto). Il rapporto di lavoro, infatti, non si estingue automaticamente,

ma si sospende ed in questo periodo di sospensione vige un divieto di licenziamento del lavoratore: il

datore dovrà manifestare la volontà di recesso unilaterale qualora voglia far cessare il rapporto di lavoro,

ma essa avrà effetto solo dopo il decorso del periodo di tempo di conservazione del posto di lavoro.

Malattia, infortunio, gravidanza e puerperio

I casi più frequenti di sospensione dell’attività lavorativa collegate alla persona del lavoratore si hanno in

caso di malattia, infortunio, gravidanza e puerperio, riconducibili alla tutela costituzionale della salute e

della maternità. Questi casi sono contemplati dall’art.2110 c.c. e sono giustificativi dell’assenza del

lavoratore: il datore di lavoro, inoltre, è tenuto a corrispondere ugualmente la prestazione retributiva o

comunque un’indennità, salvo il caso in cui siano previste forme privatistiche di previdenza ed assistenza.

L’assicurazione contro le malattie è, nel nostro ordinamento, obbligatoria ed è posta a carico del datore di

lavoro e minimamente del prestatore. L’assistenza medica grava sul Servizio sanitario nazionale, mentre

l’indennità è corrisposta dall’INPS. Ovviamente lo stato di malattia può essere verificato in qualsivoglia

momento o su istanza del datore di lavoro (il quale potrà innescare la visita medica al domicilio del

lavoratore) o dallo stesso ente previdenziale: l’art.5 dello Statuto dei lavoratori vieta, comunque, che a

verificare quanto suddetto sia un medico di fiducia del datore di lavoro. Tra l’altro gli operai sono esclusi

dall’indennità per malattia per i primi 3 giorni lavorativi, al contrario degli impiegati che percepiscono tale

indennità sin dal primo giorno. Lo stesso discorso vale per gli infortuni sul lavoro, salvo tener conto che

l’assicurazione obbligatoria contro infortuni e malattie professionali non copre tutti i lavoratori, ma solo

quelli addetti a determinate attività individuate dalla legge.

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Diversi, invece, sono i trattamenti economici e normativi connessi a maternità, paternità ed aspettativa dal

lavoro connessa alla cura di figli con handicap grave (lo vedremo nel capitolo VI).

Altre ipotesi di sospensione del rapporto

L’art. 51 comma 3 della Costituzione prevede la tutela, per quanto concerne il mantenimento del posto di

lavoro, di tutti i soggetti chiamati a funzioni pubbliche elettive. Nello specifico: i parlamentari europei e

nazionali, nonché i membri delle assemblee regionali, hanno diritto di aspettativa (conservazione del posto

di lavoro) e vi è sospensione del rapporto di lavoro senza retribuzione. Gli amministratori di enti locali

possono optare per lo stesso trattamento oppure decidere di assentarsi giustificatamente dal posto di

lavoro per l’intera giornata in cui vi è la riunione del consiglio di appartenenza. Anche chi ricopre cariche

sindacali nazionali o provinciali ha il diritto di aspettativa. Speciali permessi sono poi previsti per i dirigenti

delle rappresentanze sindacali aziendali, così come per i lavoratori coinvolti in operazione elettorali, che

hanno diritto a maggiorazioni retributive o a riposi compensativi per i giorni festivi impegnati nello

svolgimento delle operazioni. Per ciò che concerne il servizio militare dobbiamo attuare una distinzione tra

la chiamata alle armi per adempiere gli obblighi di leva, nel qual caso è prevista la sospensione del

rapporto di lavoro senza diritto alla retribuzione, ma con conservazione dell’anzianità di servizio, e

richiamo alle armi, per cui vi è la sospensione del rapporto con diritto alla retribuzione. Al servizio militare

di leva sono equiparati il volontariato civile in Paesi in via di sviluppo ed il servizio civile degli obiettori di

coscienza.

Particolare è il caso di tossicodipendenza del lavoratore: egli, qualora voglia accedere a struttura di

riabilitazione, ha diritto all’aspettativa, con sospensione del rapporto ed il venir meno della retribuzione.

Inoltre non matura, in tal periodo, alcuna anzianità di servizio. Il periodo massimo consentito è di tre anni.

Ai lavoratori, infine, sono riconosciuti 3 giorni l’anno per problemi di natura familiare: morte o infermità

grave del coniuge o del convivente, nonché di un parente entro il secondo grado.

La mora credendi del datore di lavoro

Noi sappiamo che in un qualsivoglia rapporto obbligatorio oltre alla più frequente mora del debitore, può

sussistere anche la mora del creditore (mora credendi o accipiendi), il quale può, con un suo

comportamento, rifiutare la prestazione del debitore od impedirgli di eseguirla. E’ il caso della cosiddetta

“serrata”, che si ha nel momento in cui il proprietario di una fabbrica/azienda, insomma l’imprenditore,

chiude i locali lavorativi ed impedisce ai lavoratori di entrarvi e di esercitare le proprie prestazioni. Alla

serrata la Corte Costituzionale ha riconosciuto irrilevanza penale, ma ha attribuito rilevanza civile, in

quanto configura un’ipotesi di mora del creditore. Il creditore viene costituito in mora, essendo quella

lavorativa un’obbligazione di facere, con la sola intimazione da parte del debitore di ricevere la prestazione

o di cooperare per riceverla. Nel rapporto di lavoro, tale cooperazione prende il nome di substrato reale

della prestazione lavorativa. Ovviamente per essere costituito in mora, il creditore non deve avere un

legittimo motivo per la mancata cooperazione: in caso contrario, ossia in presenza di un motivo legittimo,

la mora è esclusa e la prestazione diviene impossibile, facendo perdere al prestatore il diritto alla

retribuzione, che invece conserva in caso di mora credendi.

In caso di mora il datore di lavoro deve il risarcimento del danno, in aggiunta alla retribuzione, oltre a

vedersi attribuito il rischio di impossibilità sopravvenuta della prestazione per cause di forza maggiore. Non

rientra nel caso di mora accipiendi l’eventualità che il datore non si avvalga della prestazione lavorativa del

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prestatore ma lo tenga a disposizione, pur garantendogli la retribuzione: in tal caso l’imprenditore sta

semplicemente esercitando il proprio potere direttivo.

L’oggettiva impossibilità temporanea della prestazione lavorativa

Oltre che dalla volontà dell’imprenditore a non cooperare per l’esecuzione della prestazione lavorativa, la

sospensione dell’attività aziendale può dipendere anche da fatti direttamente o indirettamente

riconducibili all’organizzazione produttiva dell’impresa, ma non imputabili all’imprenditore (cause di natura

tecnico-funzionale, mancanza di energia, interruzione del funzionamento di macchinari ecc). In questo caso

si determina la sospensione del rapporto che per gli operai significa mancanza di retribuzione, mentre per

gli impiegati significa o continuare a recepire la retribuzione, o risoluzione del contratto ad opera

dell’imprenditore. Le sospensioni di breve durata (soste), invece, sono disciplinate dai contratti collettivi: il

datore è obbligato a retribuirle nel limite di due ore giornaliere, ma sorpassato tale limite può mettere in

libertà i lavoratori, non dovendogli alcuna retribuzione.

La mancanza di retribuzione in tutti questi casi dovuti alla sospensione del rapporto, può, ovviamente,

essere ovviata tramite il ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni (la vedremo nel lontano capitolo XII).

Sinallagma genetico e sinallagma funzionale

In questo paragrafo vi è semplicemente un riassunto di quanto trattato nel capitolo in merito all’esistenza

residua di un sinallagma, ossia di un nesso di reciprocità, nel momento in cui la retribuzione viene

ugualmente offerta dal datore di lavoro, ma manca la prestazione lavorativa per svariati motivi (malattia,

infortunio, gravidanza e puerperio, esercizio di diritti sindacali, mancanza di connessione tra lavoro e

prestazione del datore ed è il caso del TFR).

Non credo sia determinante questo paragrafo e non credo che meriti l’attenzione dello studente ai fini del

superamento dell’esame.

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CAPITOLO SESTO – IL LAVORO DELLE DONNE E DEI MINORI

Il lavoro delle donne e dei minori. La tutela differenziata e la parità di trattamento

Il lavoratore, in linee generali, è il più delle volte tutelato per la propria condizione di sottoprotezione

sociale e di parte contrattualmente debole. Oltre a questa forma di tutela apprestata a tutti i lavoratori, il

legislatore, tanto nel codice quanto nella costituzione, si preoccupa poi di due categorie di soggetti: i

minori e le donne. La tutela apprestata, in tal caso, deriva sia dalla volontà di salvaguardare la persona

fisica e la personalità morale del minore e della donna, sia dalla volontà di non attuare alcuna

discriminazione, sia sotto il punto di vista del trattamento, sia sotto il profilo retributivo.

L’art.37 della Costituzione, norma dotata di efficacia precettiva immediata, prevede una tutela assoluta

delle due categorie in questione, sancendo non solo la parità di trattamento e la fissazione della soglia di

età lavorativa, ma salvaguardando le qualità personali di questi lavoratori. Ciò comporta che il datore di

lavoro potrà di certo applicare trattamenti differenziati per minori e donne, ma solo a loro vantaggio,

essendo impossibile discriminare negativamente le categorie.

Il lavoro minorile

Obiettivo principale è sicuramente la tutela dell’integrità psico-fisica dei minori, che si estrinseca

nell’osservanza di uno svariato numero di norme poste a tutela degli stessi. La disciplina sul lavoro minorile

è contenuta all’interno della L. 977/1967, modificata dal D.Lgs. 345/1999: è prevista una distinzione tra

“bambini”, ossia coloro che non hanno ancora compiuto il quindicesimo anno di età, e adolescenti, coloro

compresi tra 15 e 18 anni di età. Ai primi è fatto espresso divieto di esercitare un’attività lavorativa, se non

per fini culturali, artistici,sportivi, pubblicitari e tutelando comunque la propria integrità psico-fisica; agli

adolescenti, invece, è permesso l’accesso al lavoro, in quanto ultraquindicenni, ma a patto che terminino il

periodo di istruzione obbligatoria. Tra l’altro questo numero ristretto di lavoratori non può in alcun modo

esercitare attività lavorative particolarmente pericolose, faticose o insalubri e comunque sarà sottoposto

ad una visita medica volta ad accertarne la capacità psico-fisica di svolgere un lavoro. Inoltre gli adolescenti

non possono in alcun modo eccedere un determinato orario lavorativo o svolgere lavoro notturno. Il

contratto posto in essere dalle parti, in violazione delle norme imperative di legge, è nullo, in quanto

l’oggetto risulta illecito e pertanto sarà inefficace tra le parti, con l’applicazione dell’art.2126 c.c., il quale

prevede la retribuzione per la prestazione indebitamente offerta dal minore.

Tutela paritaria della donna: la L. 903/1977

La tutela paritaria ha assunto, col passare del tempo ed il susseguirsi di diversi interventi legislativi, sempre

maggiore importanza, fino ad arrivare alla completa parificazione tra i sessi in ambito lavorativo. Una

normativa determinante in tal senso è costituita dalla L. 903/1977: negli anni 70, infatti, i movimenti

femminili diedero una notevole spinta sull’argomento della condizione della donna. Il fine della legge è la

realizzazione della parità di diritti e il divieto di qualsiasi discriminazione nell’occupazione o nella

formazione, salvo i casi di mansioni particolarmente pesanti, individuate dalla contrattazione collettiva, o i

casi di attività di moda, arte e spettacolo in cui il sesso femminile è essenziale per la prestazione. Inoltre la

donna è tutelata anche sotto il punto di vista retributivo (la parità è collegata alle prestazioni richieste e

non a quelle eseguite) e dell’inquadramento professionale (potendo la donna far carriera ed acquisire

qualifiche superiori al pari dell’uomo). La legge ha modificato anche l’art.15 dello Statuto dei lavoratori che

oggi si scaglia contro qualsiasi discriminazione di sesso, razza e lingua, ponendo nel nulla qualsiasi

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contratto lavorativo in tal senso. Una parità di trattamento è stata, poi, prevista anche ai fini previdenziali,

sebbene le soglie di pensionamento delle donne siano sempre inferiori a quelle degli uomini.

Altro punto chiave della disciplina antidiscriminatoria è quello sui licenziamenti: la disciplina limitativa degli

stessi non si applica ai lavoratori in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia e la donna, essendo

in tal caso prevista una soglia inferiore per il conseguimento di questo tipo di pensione, veniva

indirettamente discriminata rispetto ai lavoratori di sesso maschile. Per questo l’art.4 della 903 previde, in

un primo momento e prima della pronuncia di illegittimità costituzionale della Corte, la possibilità di scelta

della donna di optare per il pensionamento alla stessa età degli uomini. La norma, però, fu ritenuta

incostituzionale e venne nuovamente modificata, prevedendo che la tutela contro i licenziamenti non

andasse applicata ai lavoratori ultrasessantenni, parificando in tal modo uomini e donne. Le successive

riforme pensionistiche, però, hanno innalzato i limiti di età per la pensione di vecchiaia (65 anni per gli

uomini e 60 per le donne), attuando quindi una nuova discriminazione e rendendo necessaria

l’interpretazione che del vecchio testo dell’art.4 aveva dato la Corte costituzionale: la tutela contro i

licenziamenti delle donne si estende fino alla stessa età prevista per il pensionamento degli uomini, senza

che la donna manifesti alcuna volontà.

Infine la L. 903/1977, riconoscendo alcuni diritti al padre lavoratore, ha in un certo senso alleggerito il

costo del lavoro femminile, data l’eventuale gravidanza della donna, in quanto solo alla stesa inizialmente

venivano riconosciuti diritti legati alla prole, il che comportava un sacrificio notevole per il datore di lavoro.

La tutela differenziata delle donne: le lavoratrici madri

La tutela fisica ed economica della lavoratrici madri è contenuta in diversi documenti legislativi che si sono

succeduti nel tempo, da ultimo il D.Lgs. 151/2001.

Anzitutto è sancito il divieto di licenziamento dal momento d’inizio della gravidanza fino al compimento di

un anno di età del bambino, salvo taluni casi:

• giusta causa dovuta a colpa grave della lavoratrice;

• cessazione dell’attività aziendale;

• ultimazione della prestazione per cui la lavoratrice era stata assunta o scadenza del termine

contrattuale;

• esito negativo della prova.

La donna tra l’altro non può svolgere l’attività lavorativa nei due mesi precedenti al parto e nei 3 mesi

successivi. Può optare per lo spostamento di tale periodo, da un mese prima del parto sino a 4 mesi dopo

lo stesso (periodo protetto). Ha comunque sempre diritto alla retribuzione, pagata nella misura del 80%,

ma dall’INPS e non dal datore. Questo periodo di sospensione lavorativa viene definito come CONGEDO DI

MATERNITA’ e viene computato ai fini dell’anzianità di servizio.

La donna non può comunque svolgere lavori faticosi, insalubri e pericolosi per se stessa e per il bambino e

qualora già li svolgesse, avrà diritto ad un cambio momentaneo di mansione per tutta la gravidanza e fino a

7 mesi dopo il parto.

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Disciplina paritaria dei congedi

Recenti discipline legislative hanno introdotto una nuova forma di parificazione sociale dei sessi,

prevedendo una serie di diritti legati alla figura di genitori anche a favore dei lavoratori di sesso maschile.

Inoltre si è attuata una sostanziosa tutela di salvaguardia delle relazioni affettive tra genitori e figli.

L’astensione obbligatori dal lavoro della donna, infatti, persegue lo scopo di tutelare la salute della madre e

del figlio nel periodo di gravidanza e puerperio. Accanto ad essa è stata prevista una forma di astensione

facoltativa, tanto a favore del padre quanto della madre, definita come CONGEDO PARENTALE. Può essere

goduto nei primi 8 anni di età del bambino e può riguardare un periodo di astensione (continuativo o

frazionato) di 6 mesi per la madre e 7 per il padre (10 mesi se vi è un unico genitore), con il limite

complessivo di 10 mesi, elevato ad 11 se il padre ha fruito di almeno 3 mesi. Fino al terzo anno di età del

bambino e per un periodo complessivo di non oltre 6 mesi, il genitore ha diritto al 30% della retribuzione;

dai 3 mesi all’ottavo anno di età si ha diritto a tale retribuzione solo se il reddito individuale è inferiore a

2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione. Il datore di lavoro, tra l’altro, per fronteggiare i

congedi parentali può assumere con contratto a termine un lavoratore in sostituzione, avendo diritto a

degli sgravi contributivi.

Al padre, inoltre, è stato garantito il cosiddetto CONGEDO DI PATERNITA’, ossia il diritto ad astenersi dal

lavoro nei primi tre mesi di vita del figlio in determinati casi:

• morte o grave infermità della madre;

• abbandono del bambino da parte della madre;

• affidamento esclusivo al padre.

Al padre che ne fruisca è garantita un’indennità pari al 80& della retribuzione a carico dell’INPS, la tutela

contro il licenziamento fino ad un anno di età del bambino ed il computo del periodo di astensione

nell’anzianità di servizio.

I genitori, inoltre, possono assentarsi anche per malattia del bambino di età inferiore ai 3 anni, mentre dai

3 agli 8 anni di età il limite è di 5 giorni l’anno per ciascun genitore. Non è prevista alcuna indennità.

I lavoratori che usufruiscono di tutte queste astensioni hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro

per i periodi previsti, nonché a rientrare nelle mansioni precedenti a tali periodi.

E’ previsto, in aggiunta, un periodo di 3 giorni l’anno per morte o infermità grave del coniuge o del

convivente, o di un parente entro il secondo grado.

Può essere richiesto anche un congedo non retribuito per un periodo di addirittura 2 anni, in cui non si

matura alcuna anzianità di servizio e previdenziale, ma si ha diritto alla conservazione del posto.

Parità tra i sessi e speciali occasioni di tutela delle donne

Il passaggio dalla L.1204/1971 all’attuale disciplina ha quindi posto sullo stesso piano, per ciò che attiene ai

figli, il padre e la madre. Il genitore di sesso maschile, infatti, non è più visto come accessorio nella cura

della prole, ma come soggetto che si occupa dei figli al pari della madre.

Le recenti discipline di matrice comunitaria, inoltre, hanno rafforzato la tutela della madre in relazione ai

lavori pericolosi ed al lavoro diurno, che può essere legittimamente rifiutato dalla stessa.

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Azioni positive e pari opportunità tra i sessi

Abbiamo visto come la L.903/1977 abbia inciso notevolmente sulla parificazione tra uomini e donne

all’interno della disciplina legislativa. A tale legge, però, non sono seguiti effetti nel mondo reale del lavoro

altrettanto significativi, tanto che si è reso necessario l’intervento del legislatore, il quale ha modificato la

903 con la L.125/1991. Il problema da risolvere è quello della sottorappresentazione delle donne, il quale si

pone nel momento in cui in un ambiente lavorativo la percentuale di donne al lavoro non corrisponde alla

percentuale di donne nel mercato del lavoro che abbiano quei requisiti professionali. Per risolvere tale

problema, sono state promosse delle misure apposite, note come “azioni positive”. La donna lavoratrice in

realtà non ha alcuna pretesa, in quanto le azioni positive rappresentano una facoltà incentivata del datore

di lavoro, non un obbligo. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, tra l’altro, ha chiarito come tutte

queste normative a favore della donna non debbano finire con la discriminazione dell’uomo nell’accesso ai

posti di lavoro, ossia non si deve attuare una discriminazione al contrario pur di favorire a tutti i costi la

donna.

Rafforzamento della tutela antidiscriminatoria

La disciplina della L. 125/1991 (modificativa a sua volta della 903/1977) ha subito ulteriori variazioni nel

corso degli anni per rafforzare sempre più la disciplina antidiscriminatoria. Per discriminazione s’intende

qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici

o i lavoratori in ragione del proprio sesso o attuando un trattamento meno favorevole rispetto ad un

lavoratore o ad una lavoratrice che si trovi in una posizione analoga. Si ha discriminazione “indiretta”

qualora un atto, patto o comportamento, pur non perseguendo formalmente lo scopo di cui sopra, attua

comunque una diversità in tal senso, ponendo un soggetto in una posizione di svantaggio. Nell’ambito

delle discriminazioni, inoltre, sono state ricomprese le molestie, tanto quelle che violino la dignità della

persona, tanto quanto quelle sessuali.

Anche in ambito processuale sono stati apportati dei miglioramenti in materia di discriminazioni: il

lavoratore o la lavoratrice ricorrente, infatti, vede attenuato l’onere della prova a suo carico, in quanto lo

stesso ricade sul convenuto nel momento in cui vengano forniti elementi di fatto, supportati da dati

statistici, che facciano nascere in qualsivoglia modo la presunzione di una discriminazione legata al sesso.

E’ prevista inoltre una procedura processuale d’urgenza, simile a quella inerente la repressione delle

condotte antisindacali, per qualsiasi forma di discriminazione: il lavoratore o la lavoratrice possono essere

assistiti dai Consiglieri di parità istituiti presso le varie sedi delle Commissioni per le politiche del lavoro.

L’accertamento di comportamenti discriminatori collettivi, inoltre, può dar luogo alla revoca dei benefici

finanziari di cui gode l’imprenditore o alla risoluzioni di contratti di appalto con enti pubblici.

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CAPITOLO SETTIMO – L’ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

SEZIONE A: L’ESTINZIONE IN GENERALE

Modi di estinzione del rapporto di lavoro. L’impossibilità sopravvenuta della prestazione

Il rapporto di lavoro, come ogni vicenda umana, ha un inizio ed anche una fine. L’effetto estintivo può

essere riconducibile ad un solo contraente (recesso unilaterale, dimissioni o licenziamento) o alla volontà

di entrambi (risoluzione consensuale). Ma i rapporti obbligatori possono anche risolversi per effetto di una

impossibilità sopravvenuta della prestazione che abbia carattere definitivo o quanto meno così tanto

temporaneo da essere assimilato a quello definitivo. Tale disciplina riguarda tanto il rapporto obbligatorio

in linea generale, quanto il rapporto di lavoro seppur con notevoli accorgimenti. Anzitutto la prestazione

del datore di lavoro, ossia quella retributiva, è molto improbabile, proprio per sua natura, che divenga

impossibile. Tutti i casi, invece, che potrebbero indurci a pensare che si abbia una risoluzione per

impossibilità sopravvenuta nel caso del lavoratore, vanno analizzati nel dettaglio: non è detto che

un’inidoneità fisica permanente del lavoratore porti a ciò, essendo possibile un cambio di mansioni magari

esercitabili dal lavoratore; non è detto neanche che il perimento di uno stabilimento porti alla risoluzione,

essendo possibile l’assegnazione ad altro stabilimento. Come vediamo, quindi, nulla è scontato, neanche in

caso di vis maior (forza maggiore) o factum principis (provvedimento delle Autorità), in quanto in tal caso

dobbiamo distinguere tra “eventi concernenti l’impresa” (distruzione dei locali aziendali, requisizione

dell’azienda), non l’imprenditore, ed eventi concernenti la persona del lavoratore (detenzione definitiva,

assoluta incapacità permanente, morte del prestatore).

Risoluzione consensuale. Risoluzione giudiziale per inadempimento

Primo modo di estinzione del rapporto lavorativo che andiamo ad analizzare è quello riconducibile alla

volontà ed all’autonomia negoziale dei contraenti, ossia la “risoluzione consensuale”. Le parti, così come si

sono obbligate reciprocamente, possono decidere di dismettere il proprio rapporto e liberarsi dalle relative

obbligazioni. Ovviamente ciò non deve configurare un negozio in frode alla legge, pertanto nullo,

sostitutivo del licenziamento, posto in essere per allontanare il lavoratore.

Inoltre, avendo il codice civile previsto il recesso unilaterale del contraente adempiente nei confronti di

quello inadempiente, non è ipotizzabile pensare che sia ammissibile il ricorso alla “risoluzione giudiziale per

inadempimento”: essa tutela, in maniera più macchinosa, lo stesso interesse del recesso di cui sopra e

pertanto risulterebbe inutile.

Recesso nel rapporto di lavoro: interessi in gioco

Il recesso è un negozio giuridico unilaterale, posto in essere cioè da una sola parte contrattuale, recettizio,

per la cui validità occorre la comunicazione all’altra parte contrattuale e l’effettiva conoscenza da parte

della stessa. Con il recesso il contraente fissa un termine a decorrere dal quale il rapporto cesserà di

esistere (la c.d. disdetta) dando luogo alla risoluzione unilaterale. Ovviamente occorre un preavviso dato

alla controparte con cui si configuri il recesso anche contro la volontà di quest’ultima. In questo caso

ampiamente descritto stiamo parlando pur sempre di “recesso ordinario”, il quale differisce da quello

straordinario, il quale si configura in presenza di anomali funzionali del rapporto obbligatorio e può essere

intimato senza preavviso e con effetto immediato.

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Nel rapporto di lavoro il recesso può provenire tanto dal lavoratore (dimissioni), quanto dal datore di

lavoro (licenziamento): occorre però prestare attenzione al fatto che il lavoratore appartenga ad una

categoria di per sé sottoprotetta e contrattualmente debole, come stabilito dalla carta costituzionale.

Il recesso ad nutum e l’obbligo del preavviso

Il codice civile, riprendendo il R.D.L. 1825/1924 sull’impiego privato, ha confermato la libera recedibilità (ad

libitum, ad nutum, per decisione arbitraria di una parte) di entrambe le parti dal contratto di lavoro,

prevedendo, però, che la parte recedente debba dare un preavviso a seconda di quanto previsto dai

contratti collettivi, o in mancanza secondo gli usi. La ratio del preavviso la ritroviamo nel fatto che la

cessazione del rapporto causi alla parte avversa danni di vario genere. Infatti qualora una parte ometta di

dare preavviso, dovrà l’indennità di mancato preavviso, corrispondente alle retribuzioni che sarebbero

spettate per il periodo di preavviso. Tale indennità, però, è risarcitoria e non sostitutiva del preavviso: il

datore non è chiamato a scegliere.

Recesso per giusta causa

Il recesso, inoltre, può essere esercitato da un contraente anche senza preavviso, a norma dell’art.2119 c.c.

nel momento in cui sussista una “giusta causa” che non consenta la prosecuzione del rapporto.

Ovviamente la giusta causa deve essere reale e non fittizia, altrimenti dovrà essere ugualmente corrisposta

l’indennità di mancato preavviso.

SEZIONE B: IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE

Disciplina limitativa dei licenziamenti e progressiva estensione

La disciplina che abbiamo descritto inerente il recesso unilaterale con o senza preavviso è da considerarsi

come valida ed efficace solo per ciò che concerne le dimissioni, ossia il recesso unilaterale esercitato dal

lavoratore.

Per quanto riguarda il datore di lavoro, in ottemperanza agli articoli della Costituzione che individuavano

nei lavoratori una categoria socialmente sottoprotetta, vi sono stati diversi interventi legislativi volti ad

eliminare il recesso volontario (ad nutum) dell’imprenditore ed a favorire il prestatore tramite

l’introduzione del concetto di recesso vincolato.

Già gli accordi interconfederali, recepiti poi all’interno della L. 604/1966 sui licenziamenti individuali,

prevedeva una tutela obbligatoria a favore del lavoratore licenziato senza giusta causa: il lavoratore

doveva essere reintegrato o in alternativa avrebbe dovuto ricevere un pagamento a titolo di risarcimento

del danno.

L’art.18 della L. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) ha del tutto stravolto tale materia, prevedendo una

forma di tutela reale del lavoratore: egli, qualora sia licenziato senza giusta causa, non solo ha diritto al

reintegro, ma anche ad un risarcimento del danno. L’art. 35 dello Statuto limitava l’applicazione dell’art.18

alle imprese con almeno 15 dipendenti. La L.108/1990 ha fatto, poi, in modo che il principio della

giustificazione del licenziamento si applicasse anche alle unità produttive con meno di 15 dipendenti.

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Il licenziamento ad nutum: da regola ad eccezione

Andiamo a vedere in quali casi si continua ad applicare la disciplina codicistica del recesso ad nutum

esercitato dal datore di lavoro.

Anzitutto nel caso di lavoratori domestici e di sportivi professionisti, i quali non ricevono né tutela reale

(reintegro e risarcimento), né tutela obbligatoria (reintegro o indennità).

Altra categoria è quella dei lavoratori in prova: per essi non c’è neanche bisogno del preavviso, almeno che

non fosse stato stabilito un periodo minimo di prova, in quanto in tal caso il recesso non può essere

esercitato prima della scadenza di tale periodo. Tuttavia il periodo di prova può giungere sino a 6 mesi,

dopo i quali il prestatore in prova è soggetto alla tutela contro i licenziamenti, in quanto considerato come

definitivo.

Il recesso ad nutum opera, inoltre, nei confronti dei lavoratori anziani che abbiano compiuto il 65esimo

anno di età ed abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia (NON di anzianità): ciò vale, in forza di

una pronuncia della Corte costituzionale di cui abbiamo già parlato, anche per le donne, nonostante il

requisito inferiore di età previsto dalla legge per la pensione di vecchiaia (60 anni), in quanto in materia di

licenziamenti devono essere equiparate agli uomini.

Il recesso ad nutum vale poi per i dirigenti apicali, ossia per coloro ai vertici dell’impresa, in forza di un

rapporto fiduciario diretto con l’imprenditore. Ad essi il preavviso va dato per iscritto ed opera la tutela

contro il licenziamento discriminatorio. Tuttavia i contratti collettivi dei dirigenti hanno previsto un obbligo

di giustificazione da parte dell’imprenditore ed il pagamento di un’indennità supplementare qualora si

accerti, dinanzi ad un collegio arbitrale, che il licenziamento fosse ingiustificato.

Ipotesi di limitazione temporale del licenziamento: infortunio, malattia, gravidanza e puerperio, servizio

militare e funzioni pubbliche elettive

Il licenziamento, secondo quanto dispone l’art. 2110 c.c., incontra un limite temporale in caso di

sospensione dell’attività lavorativa e conservazione del posto dovuta a cause riconducibili, ma non

imputabili, alla persona del lavoratore. Stiamo parlando di tutti casi quali la gravidanza ed il puerperio,

l’infortunio, la malattia, il servizio militare e l’esecuzione di funzioni pubbliche. In tutti questi casi è

ammesso solo il licenziamento per giusta causa. Il licenziamento ad nutum, in realtà, non è invalido, ma

temporaneamente inefficace: ciò vuol dire che trascorso il periodo di comporto, il licenziamento sarà

operativo (ad eccezione delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri, per cui un licenziamento di tal genere

non è inefficace, ma del tutto nullo).

Limiti al licenziamento: principio di giustificazione e recesso vincolato

L’art.1 della L.604/1966 stabilisce che, affinché il licenziamento sia legittimo, occorre obbligatoriamente

una giusta causa o un giustificato motivo, che quindi legittimano il recesso del datore di lavoro. In questo

modo il potere di recedere è del tutto imbrigliato, dando seguito ad una sempre maggiore stabilità del

rapporto di lavoro. Sparisce, quindi, la differenziazione tra recesso ordinario e recesso straordinario, solo

per quanto riguarda il recesso del datore di lavoro: abbiamo, infatti, detto che il recesso ordinario

prevedeva il preavviso, mentre per quello straordinario occorreva un’anomali funzionale del rapporto,

ossia una giusta causa. Essendo ora sempre necessaria la giusta causa, il recesso ordinario e quello

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straordinario si trovano a coincidere. Il preavviso, invece, è necessario solo per il licenziamento per

giustificato motivo.

Nozione di giustificato motivo soggettivo e oggettivo

Le due nozioni di giustificato motivo e di giusta causa sono contenute all’interno di documenti legislativi

diversi. La nozione di giusta causa la ritroviamo all’interno dell’art.2119 c.c., mentre quella di giustificato

motivo nasce all’interno dell’art.3 L.604/1966. Partiamo da quest’ultima.

Anzitutto è doveroso attuare una differenza tra giustificato motivo subiettivo (o soggettivo) e giustificato

motivo obiettivo (od oggettivo).

Il primo inerisce ad un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore

(intendendosi per “notevole” un inadempimento di rilevante importanza); sono i contratti collettivi ad

individuare tutta una serie di infrazioni che possono dar luogo al licenziamento, che comunque non

vincolano il giudice nella propria decisione. Abbiamo già detto, inoltre, che in materia di lavoro, essendo

possibile il recesso della parte adempiente per inottemperanza ai propri doveri della controparte, non

risulta operativa la risoluzione per inadempimento. Tuttavia, è ad essa che possiamo rifarci per

comprendere che l’inadempimento e la sua gravità devono essere valutati nell’interesse del creditore. La

giurisprudenza, inoltre, in tema di giusta causa ha affermato che il licenziamento comminato in base ad

essa debba essere notificato entro un termine congruo (requisiti dell’immediatezza e della tempestività).

Tale regola giurisprudenziale vale anche per il giustificato motivo soggettivo.

Il secondo tipo di giustificato motivo, quello oggettivo, si realizza quando vi siano ragioni inerenti all’attività

produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa. Quindi non si configura in

nessuna maniera un inadempimento del lavoratore, ma prevale sul suo diritto alla conservazione del posto

di lavoro l’interesse primario dell’impresa (non dell’imprenditore). Il giudice, tra l’altro, dovrà verificare

solo la sussistenza del giustificato motivo addotto dall’imprenditore, non svolgere un controllo di merito, e

dovrà verificare che il licenziamento costituisse l’extrema ratio, ossia che il datore di lavoro non avesse

alternative per impiegare diversamente l’attività del prestatore, neanche ricorrendo a mansioni diverse.

Anche la sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni svolte, al di là di quella che sia la causa

(infortunio o altro), può fungere da giustificato motivo oggettivo: tuttavia deve essere impossibile il

reimpiego in altre mansioni del lavoratore per giustificare il licenziamento. Il giustificato motivo, inoltre,

ricorre anche quando vi è un periodo di comporto a lungo protratto nel tempo: è vero che il lavoratore

conserva il proprio posto di lavoro e che il rapporto risulta solo sospeso, ma è altrettanto vero che

l’impossibilità temporanea non deve assumere carattere definitivo. In tal caso il licenziamento potrà essere

comminato per tal motivo.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: il TU in materia di sicurezza del lavoro introdotto dal

D.Lgs.81/2008 ha previsto che in caso di sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni specifiche, il

datore di lavoro, anche modificando l’assetto aziendale, ha l’obbligo di adibirlo ad altre mansioni cui risulti

idoneo, non solo equivalenti o inferiori con conservazione della retribuzione, ma anche superiori con

diritto di acquisire il definitivo inquadramento nella qualifica superiore.

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Nozione di giusta causa

La nozione codicistica di “giusta causa”, contenuta all’interno dell’art.2119 c.c., vedeva la stessa come un

accadimento che non consentisse la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro e più

specificatamente come un fatto che giustificasse la mancanza di preavviso del recesso.

Ovviamente dopo la L. 604/1966 e l’introduzione del giustificato motivo soggettivo, inerente

l’inadempimento del lavoratore, le cose sono cambiate.

Anche la giusta causa è riconducibile ad un inadempimento del lavoratore, ma si deve trattare di un

inadempimento ben più grave rispetto a quello del giustificato motivo soggettivo, e questo non in termini

qualitativi (facendo riferimento alla nozione di fiducia), bensì quantitativi. La contrattazione collettiva ha

individuato, inoltre, dei casi in cui si configura una giusta causa (furto, rissa sul posto di lavoro,

danneggiamento volontario dei macchinari ecc.), che comunque non sono vincolanti per il giudice. Inoltre

nel caso di licenziamento per giusta causa non è necessario il preavviso, benché il licenziamento debba

essere tempestivo ed immediato, senza far trascorrere troppo tempo.

Ipotesi di nullità del licenziamento

Sono nulli, secondo la legge, il licenziamento adottato per motivi discriminatori, per causa di matrimonio e

quello delle lavoratrici madri.

Si ha licenziamento discriminatorio nel momento in cui il recesso unilaterale del datore di lavoro sia dovuto

a ragioni di razza, lingua, handicap, sesso, religione o appartenenza ai sindacati, indipendentemente dalla

motivazione adottata. In tali casi è sempre applicabile la tutela reale (reintegro e risarcimento), ed a tali

casi è equiparato il licenziamento per ritorsione, ossia in base a comportamenti sgraditi al datore.

Anche i licenziamento per matrimonio è nullo, essendo già inapplicabili ad un contratto lavorativo clausole

di nubilato: esso è nullo se intimato dal giorno delle pubblicazioni inerenti il matrimonio sino ad un anno

dopo lo stesso, anche se il datore di lavoro ha la possibilità di dimostrare che ricorra una delle condizioni,

legittimanti il licenziamento, previste per la lavoratrice gestante o puerpera. Anche le dimissioni della

lavoratrice presentate in tal periodo, se non confermate entro un mese alla Direzione provinciale del

lavoro, sono nulle.

Sono nulli, inoltre, i licenziamenti delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri che abbiano ad oggetto

proprio la condizione di genitore.

Forma del negozio di licenziamento

Ulteriore requisito del licenziamento, oltre alla giusta causa o al giustificato motivo e fatta eccezione per le

ipotesi di nullità sopra descritte, è quello della forma del negozio. Il licenziamento va comunicato per

iscritto, mentre le motivazioni dello stesso non devono essere comunicate contestualmente, perché il

lavoratore potrebbe aver interesse affinché non vengano rese pubbliche. Il lavoratore ha 15 giorni dalla

comunicazione del recesso per richiederne i motivi ed il datore provvederà nei successivi 7 giorni

obbligatoriamente, perché è proprio nelle motivazioni che possiamo rinvenire l’effettività del

licenziamento. Tra l’altro le motivazioni non possono essere in alcun modo modificate in un secondo

momento dal datore di lavoro. Qualora non vengano osservati gli adempimenti formali, il licenziamento è

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inefficace, ma non in senso stretto (inopponibilità degli effetti negoziali), bensì in merito alla nullità dello

stesso. Il datore di lavoro potrà comunque riformulare, con effetti solo futuri, il licenziamento.

Impugnazione del licenziamento e termine di decadenza. L’onere della prova.

L’art. 5 della L. 604/1966 pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova inerente l’esistenza della

giusta causa o del giustificato motivo.

Ovviamente il licenziamento può essere impugnato dal lavoratore, ma non solo tramite ricorso giudiziale,

bensì anche tramite una comunicazione scritta al datore di lavoro, l’operato dei sindacati o tramite

comunicazione di espletamento della procedura di conciliazione obbligatoria. Tutto ciò deve essere fatto

entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento o dalla comunicazione dei motivi. Il termine si

applica anche in caso di licenziamento ritorsivo o discriminatorio, ma non negli altri casi di nullità

(matrimonio, mancanza di forma scritta, caso dei lavoratori-genitori).

Art. 18 dello Statuto e tutela reale del posto di lavoro

I rimedi contro il licenziamento illegittimo, al di là di quale sia la causa, tengono in considerazione le

dimensioni aziendali. L’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, infatti, prevede un forma di tutela reale, che

comporta la reintegrazione obbligatoria del lavoratore, solo a favore delle imprese con più di 15 dipendenti

all’interno della stessa unità produttiva o dello stesso comune (5 dipendenti per le imprese agricole), o

comunque con almeno sessanta dipendenti totali . In caso contrario si ha una tutela obbligatoria: il datore

di lavoro può scegliere tra la riassunzione ed il pagamento di una penale. Nel computo dei dipendenti utili

per raggiungere i limiti sopra citati, rientrano tutti i lavoratori occupati, compresi dirigenti, lavoratori con

contratto di formazione e lavoro (non più stipulabile), a tempo indeterminato parziale. Sono esclusi,

invece, i lavoratori assunti con contratto di reinserimento, quelli assunti sulla base di un contratto di

somministrazione, con contratto di apprendistato o di inserimento, e sono, inoltre, esclusi il coniuge ed i

parenti entro il secondo grado del datore di lavoro.

Entro questi limiti il licenziamento nullo, discriminatorio o altrimenti vietato, quello annullabile, per

mancanza di giusta causa o giustificato motivo, e quello inefficace, per mancata osservanza dei requisiti di

forma, il datore di lavoro è condannato alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno

subito dal lavoratore.

Il diritto alla reintegrazione ed al risarcimento si prescrive in 10 anni (diversamente dalle singole azioni di

nullità e annullamento in linee generali, l’una imprescrittibile, l’altra quinquennale).

L’incoercibilità dell’obbligo di reintegrazione: la prosecuzione del vinculumiuris

La sentenza di condanna di reintegrazione obbliga il datore di lavoro alla reintegrazione del prestatore. Il

datore deve semplicemente rivolgere un invito al lavoratore a riprendere l’attività e qualora non lo faccia,

versa in una situazione di mora credendi, dovendo comunque la retribuzione al lavoratore. Quest’ultimo,

però, deve riprendere l’attività lavorativa entro 30 giorni, altrimenti il rapporto si considera risolto per

dimissioni.

La reintegrazione, quindi, configura un obbligo di fare infungibile (può farlo solo il datore di lavoro) ed

incoercibile. Il legislatore ha però previsto, accanto alla reintegrazione, un’indennità a titolo di risarcimento

del danno, non inferiore a cinque mensilità di retribuzione, per il periodo compreso tra il licenziamento e

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l’effettiva reintegrazione. Inoltre il datore di lavoro dovrà versare per tutto questo periodo i contributi

previdenziali ed assistenziali.

L’art.18 dello Statuto dei lavoratori prevede, inoltre, che il lavoratore di cui è stato previsto la

reintegrazione, opti per un’indennità risarcitoria pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto: si

configura quindi un diritto potestativo che permette al lavoratore la scelta tra reintegrazione ed

indennità/risoluzione del rapporto.

Reintegrazione nel posto di lavoro e procedure d’urgenza: art. 700 c.p.c. ed art.28 dello Statuto

Per la tutela del licenziamento illegittimo è prevista una procedura giudiziale che acceleri i tempi della

decisione: si tratta del procedimento cautelare d’urgenza previsto dall’art. 700 del c.p.c: il lavoratore ha

l’onere di dimostrare l’illegittimità del licenziamento e più precisamente la NON MANIFESTA

INFONDATEZZA del diritto vantato (fumus bon iuris) e l’esistenza di un pregiudizio irreparabile ed

imminente per sé ed i familiari (periculum in mora).

Per i casi di licenziamento discriminatorio antisindacale è previsto un apposito strumento dall’art.28 dello

Statuto dei lavoratori: il giudice del tribunale, infatti, può decidere da subito per un reintegro del soggetto

e qualora il datore di lavoro non ottemperi, va incontro alle conseguenze previste dall’art.650 del codice

penale.

N.B. la pagina 201, almeno soggettivamente, non è comprensibile o almeno non si presenta dettagliata ed

esaustiva. La lettura dell’art.28 dello Statuto peggiora la situazione, non aiutando nell’interpretazione.

La tutela obbligatoria e l’alternativa tra riassunzione e pagamento di una penale

Nei casi esclusi dall’art.18 dello Statuto dei lavoratori e, in linee generali, nei casi che non rientrano nella

tutela reale, si attua una tutela obbligatoria. Il datore di lavoro è comunque obbligato a giustificare il

licenziamento, ma qualora non lo faccia ha dinanzi a se due alternative: reintegrare entro tre giorni il

lavoratore o corrispondergli un’indennità in base alla scelta del giudice e relativa all’anzianità di servizio del

lavoratore. Si va da un minimo di 2,5 mensilità di retribuzione fino a 14 mensilità in caso di lavoratore con

almeno 20 anni di anzianità di servizio. Il licenziamento, comunque, è in tal caso illegittimo, ma NON

annullabile, semplicemente illecito: il rapporto di lavoro si estingue in ogni caso, almeno che il datore non

disponga la riassunzione del prestatore.

Licenziamento disciplinare ed applicabilità dell’art.7 dello Statuto dei lavoratori

Il licenziamento per motivi disciplinari deve conformarsi all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, il quale, come

abbiamo avuto modo di dire nel capitolo IV, sottopone il potere disciplinare a vincoli procedurali (affissione

del codice disciplinare, contestazione degli addebiti ecc).

N.B. se sei incerto rivedi il paragrafo, forse sei stanco e non riesci a fare mentalmente i diversi

collegamenti. O forse il libro riporta un testo in aramaico tradotto di merda.

Tutela del lavoratore nelle altre ipotesi di invalidità del licenziamento

Abbiamo visto come, per i casi contemplati dall’art.18 dello Statuto dei lavoratori, valga la regola della

reintegrazione del lavoratore e del risarcimento del danno in caso di licenziamento inefficace per ragioni

formali, annullabile per difetto di giusta causa o giustificato motivo, nullo per motivi discriminatori. La

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Corte costituzionale ha, poi, ribadito che tale applicazione va estesa anche a casi di licenziamento non

contemplati dalla L. 604. Tuttavia abbiamo avuto modo di precisare che l’art.18 incontra dei limiti dovuti

alle dimensione dell’impresa per ciò che concerne la tutela reale. Tra l’altro l’alternativa tutela obbligatoria

può applicarsi, in forza dell’art.8 della L. 604/1966, solo nei casi di licenziamento in cui difetta il giustificato

motivo o la giusta causa.

Ma che succede quando il licenziamento è invalido per ragioni diverse dal difetto di giustificazione o

quando si concretizza in rapporti soggetti al regime di libera recedibilità?

Anzitutto quando il licenziamento è discriminatorio è sempre sanzionato con la reintegrazione (art. 3 della

L. 108/1990).

In caso, invece, di licenziamento della lavoratrice madre (o del lavoratore padre), di licenziamento intimato

in base alla richiesta di fruizione dei congedi per motivi di cura familiare e di licenziamento per causa di

matrimonio, si deve ritenere che, tanto in caso di tutela obbligatoria quanto di libera recedibilità, vi siano

comunque i comuni effetti civilistici, ossia il rapporto continua e vi è la mora credendi del datore di lavoro.

In caso di licenziamento inefficace, e pertanto nullo, per mancanza di forma, in caso di tutela obbligatoria,

esso è da considerarsi come tamquam non esset, ossia come se non esistesse, anche se è rinnovabile per il

futuro (ex nunc) secondo le forme previste. La suddetta L.108/1990 ha previsto, inoltre, l’obbligo di

comunicazione in forma scritta per i dirigenti, che come sappiamo rientrano nell’area della libera

recedibilità: ciò vuol dire che anche in tutti gli altri casi appartenenti alla medesima area, l’obbligo di

comunicazione (rispetto della forma) è essenziale, onde evitare che esso venga considerato come “non

posto in essere”.

Nell’ipotesi, invece, di licenziamenti intimati in violazione dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, e quindi in

violazione delle garanzie procedurali, essendo essi parificati al licenziamento ingiustificato, nell’area della

tutela obbligatoria andrà applicato l’art. 8 della L. 604/1966, mentre nell’area della libera recedibilità sarà

dovuta esclusivamente l’indennità di mancato preavviso.

Le c.d. organizzazioni di tendenza

Per organizzazioni di tendenza s’intendono quelle organizzazioni che perseguono fini ideologici, senza

scopo di lucro, di natura politica, culturale, sindacale, di istruzione, di religione o di culto.

Tali organizzazioni, in forza dell’art. 4 della L. 108/1990, sfuggono all’applicazione dell’art. 18 L. 300/1970

anche in caso di rispetto dei requisiti dimensionali. Ad esse si applica una tutela obbligatoria, salvo i casi di

dirigenti, lavoratori in prova o anziani in età pensionabile, soggetti tutti alla libera recedibilità. Ovviamente

l’organizzazione non deve svolgere attività d’impresa, altrimenti sarà soggetta all’applicazione dell’art. 18.

Il tentativo obbligatorio di conciliazione

Prima della L.108/1990 l’esperimento del tentativo di conciliazione era facoltativo.

Con l’art. 5 della 108 il tentativo di conciliazione diventa necessario, nell’area della sola tutela obbligatoria,

per poter accertare giudizialmente l’illegittimità del licenziamento. Il giudice che nel corso della prima

udienza rilevi che non è stato esperito il tentativo di conciliazione, decreta l’improcedibilità della domanda,

sospende il giudizio e fissa un termine di 60 giorni per proporre il tentativo di conciliazione.

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Il D.Lgs. 80/1998 ha reso l’esperimento del tentativo di conciliazione, condizione necessaria di procedibilità

della domanda in tutte le controversie di lavoro, quindi anche in caso di tutela reale.

SEZIONE C: TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO

Dall’indennità di anzianità al trattamento di fine rapporto

Abbiamo precedentemente sottolineato in più occasioni come la retribuzione sia il corrispettivo

dell’attività lavorativa di un soggetto. Per ciò che concerne gli effetti patrimoniali al momento della

cessazione del rapporto di lavoro, la L. 287/1982 ha sancito la sostituzione della c.d. indennità di anzianità,

prevista dal testo originario (oggi modificato) dell’art. 2120 c.c., con il trattamento di fine rapporto (t.f.r.),

consistente in un somma di denaro, da corrispondere al lavoratore da parte del datore di lavoro, al

momento della conclusione del rapporto contrattuale. L’obbligazione, quindi, nasce al momento della

cessazione. Già la precedente “indennità di anzianità” aveva subito notevoli modifiche col passare del

tempo, dovute ad una variazione della sua funzione da riparatoria-previdenziale, in quanto vista come

un’indennità per il lavoro prestato, a retributiva-previdenziale, da corrispondere in qualsiasi caso di

cessazione del rapporto lavorativo. Il legislatore ha previsto l’istituzione di un fondo di garanzia presso

l’INPS, il quale assicura l’effettivo godimento del t.f.r. da parte del prestatore.

Mentre l’indennità di anzianità veniva calcolata tramite il prodotto (ricalcolo) di una quota dell’ultima

retribuzione per il numero di anni di servizio, il t.f.r. viene determinato dalla somma delle quote di

retribuzione accantonate annualmente.

Disciplina del t.f.r. e maturazione del diritto al t.f.r.

La disciplina del t.f.r. è contenuta nel novellato art.2120 c.c., il quale prevede che esso spetti al lavoratore

al momento della cessazione del rapporto, senza interesse verso la causa della cessazione e viene calcolato

in base agli anni di servizio. Più precisamente possiamo dire che si vanno a sommare le quote di

retribuzione accantonate annualmente, le quali si ricavano prendendo in considerazione la “retribuzione

annua” e dividendola per 13,5.

Va chiarito che non vi è un obbligo di accantonamento annuale del t.f.r. (salvo che per le s.p.a.) , ma una

quota annua viene vincolata nell’interesse del lavoratore, formando un conto a parte. Il lavoratore non può

goderne fino alla cessazione del rapporto di lavoro, ma può aver interesse a farne accertare, anche

giudizialmente, l’importo.

Base di calcolo, frazionabilità intro-annuale ed indicizzazione del t.f.r.

Per ciò che riguarda la base di calcolo del t.f.r. l’art. 2120 c.c. precisa che, per determinare la retribuzione

annua, vadano prese in considerazione tutte le somme che il datore di lavoro ha corrisposto al prestatore,

escluse quelle di carattere occasionale (rimborsi spese) ed incluse, invece, le prestazioni in natura, di cui si

computa l’equivalente in denaro. Il principio dell’omnicomprensività della retribuzione (secondo cui la

retribuzione include tutto ciò che a carattere predeterminato è corrisposto dal datore di lavoro) può essere

derogato solo dai contratti collettivi.

Va sottolineato, inoltre, il principio della “frazionabilità introannuale” del t.f.r., il quale prevede che la

quota di retribuzione annua venga ridotta per le frazioni di anno, in quanto vengono computati come mesi

interi solo le frazioni di mese uguali o superiori a 15 giorni.

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In tutti i casi di sospensione momentanea del rapporto di lavoro (malattia, infortunio e maternità, nonché il

caso di sospensione totale o parziale per la quale sia prevista l’integrazione salariale) debba essere

computato nella retribuzione annua l’equivalente a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto qualora fosse

stato in servizio.

La quota annua va poi incrementata, alla scadenza dell’anno stesso, dell’1,5% più il 75% dell’aumento

dell’indice ISTAT dei prezzi di consumo.

Diritto all’anticipazione del t.f.r.

L’art. 2120 c.c. prevede, inoltre, la possibilità per i lavoratori con almeno 8 anni di servizio a chiede

un’anticipazione del t.f.r. di importo non superiore al 70% del t.f.r. fino a quel momento maturato.

L’anticipazione può essere richiesta una sola volta durante tutto il rapporto di lavoro e deve essere

giustificata da comprovati motivi di necessità di cure mediche o per l’acquisto della prima casa, nonché per

le spese da sostenere da parte del genitore lavoratore nei primi 8 anni di vita del bambino. Tra l’altro, il

datore di lavoro, non è obbligato a corrispondere l’anticipazione, in quanto legittimati all’anticipazione

sono solo il 10% degli aventi titolo per raggiungimento degli 8 anni di servizio e comunque non più del 4%

dei dipendenti di un’impresa. Tra l’altro l’impresa che versi in una condizione di crisi non potrebbe

fronteggiare il pagamento anticipato di t.f.r. e ne è esonerata.

I contratti collettivi, ma anche quelli individuali, possono prevedere condizioni di miglior favore per quanto

concerne i limiti soggettivi ed oggettivi imposti all’erogazione dell’anticipazione.

Indennità per causa di morte

L’art. 2122 c.c. prevede che in caso di morte del lavoratore, il t.f.r. sino ad allora maturato deve essere

corrisposto ai superstiti del lavoratore: coniuge, figli e, se viventi a suo carico, parenti entro il terzo grado

ed affini entro il secondo, dipendentemente dal bisogno di ciascuno. Insieme ad esso va corrisposta anche

una somma PARI all’indennità di mancato preavviso.

Un orientamento recente della dottrina e della giurisprudenza ha previsto che tali somme siano corrisposte

a titolo di successione, ed una prova è data dal fatto che il lavoratore può nel testamento specificare come

vadano attribuite in caso di mancanza dei soggetti aventi diritto, e non iure proprio ai soggetti indicati

dall’art. 2122 c.c., come invece credeva una parte della dottrina e la stessa giurisprudenza in precedenza.

Campo di applicazione della nuova disciplina. Efficacia assolutamente inderogabile

L’art. 4 della L.297/1982 ha previsto che la disciplina del t.f.r. si applichi a tutti i rapporti di lavoro

subordinato, ivi compresi quelli del personale navigante aereo e marittimo. In precedenza era escluso il

settore del pubblico impiego, ma dopo la privatizzazione dello stesso, la disciplina in questione si è estesa

anche ai lavoratori pubblici.

Viene meno, in materia di t.f.r., il principio del favor, il quale prevede che la contrattazione collettiva o

individuale possa prevedere trattamenti migliori per il lavoratore: in questo caso la disciplina fin qui

esaminata ha EFFICACIA ASSOLUTAMENTE INDEROGABILE, tanto in peggio quanto in meglio.

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Forme volontarie e complementari di previdenza

Accanto alle forme obbligatorie di previdenza previste dalla legge, sono previste forme volontarie di

previdenza che l’imprenditore può realizzare tramite l’ausilio e la partecipazione dei propri dipendenti, al

fine di erogare prestazioni economiche in caso di eventi e bisogni del lavoratore: sono vere e proprie forme

di retribuzione differita in funzione previdenziale. L’art. 2123 c.c. consente al datore di lavoro di farsi

carico, accanto all’erogazione del t.f.r., di prestazioni SOSTITUTIVE O INTEGRATIVE in caso di sospensione

dell’attività lavorativa.

Sono, inoltre, nati col passare del tempo e soprattutto con il ridimensionamento del sistema previdenziale

pubblico per far fronte alla spesa pubblica, forme pensionistiche complementari: il lavoratore, oggi, nel

termine di 6 mesi dall’assunzione, può scegliere se destinare il proprio t.f.r. a fondi pensione

complementari, istituiti dalle stesse imprese o da altre imprese private, rinunciando così alla totalità

dell’ammontare del t.f.r. o ad una percentuale dello stesso, per poter godere, una volta cessato il rapporto

di lavoro, oltre che della propria pensione anche di una pensione integrativa. Ciò può essere realizzato non

solo tramite il t.f.r., ma anche tramite pagamenti dello stesso lavoratore a favore di tali fondi: il lavoratore,

infatti, può liberamente scegliere di lasciare il t.f.r. al suo posto, godendone alla cessazione del rapporto di

lavoro e senza destinarlo a fondi pensionistici complementari, ma partecipando tramite il proprio apporto

individuale a fondi pensionistici alternativi. Va sottolineato che il termine di 6 mesi è abbastanza

importante: in assenza di una dichiarazione espressa del lavoratore, il t.f.r. verrà automaticamente

destinato alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi, oppure a quella alla

quale l’azienda abbia aderito con il maggior numero di lavoratori, o in mancanza di accordo tra le parti e di

una forma pensionistica collettiva, ad una forma pensionistica complementare presso l’INPS.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: la L.296/2006 (finanziaria 2007) ha previsto che il

lavoratore debba scegliere se destinare il TFR ad una forma di previdenza complementare o lasciarlo

presso il datore di lavoro entro 6 mesi dall’assunzione. Qualora non effettui alcuna scelta, esso convoglierà

inevitabilmente presso la forma pensionistica collettiva. Tra l’altro, qualora l’azienda abbia più di 50

dipendenti, il datore di lavoro dovrà trasferire il TFR maturando lasciatogli dal lavoratore ad un fondo

apposito dell’INPS.

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CAPITOLO OTTAVO – GARANZIE DEI DIRITTI DEI LAVORATORI

Il sistema delle garanzie dei diritti del prestatore di lavoro

Per “garanzia”, sia essa costituzionale, giurisdizionale o patrimoniale, s’intende un rafforzamento della

tutela di un interesse o di un diritto soggettivo, già protetto all’interno dell’ordinamento perché meritevole

di tutela. I diritti dei lavoratori, in particolare, sono circondati da una serie di norme poste a garanzia di tali

diritti e che godono di inderogabilità, non potendo l’autonomia privata, in alcun modo, discostarsene.

SEZIONE A: LE GARANZIE DEL CREDITO E DEI DIRITTI DEI LAVORATORI

Garanzia generale patrimoniale e cause legittime di prelazione; azione di rivalsa; privilegio generale sui

mobili

Partiamo, nell’analisi delle garanzie poste a tutela dei lavoratori, da quelle inerenti il diritto di credito che il

lavoratore vanta nei confronti del datore di lavoro.

L’art.2740 c.c., in tema di responsabilità, prevede che il debitore risponda dell’adempimento

dell’obbligazione con tutti i suoi beni presenti e futuri. Quindi il datore di lavoro può arrivare a rispondere

con i suoi beni dell’obbligazione nei confronti dei lavoratori.

L’art. 2741 c.c. al comma 2 prevede che siano cause legittime di prelazione, per cui quindi alcuni creditore

si possano rifare prima degli altri sul debitore, il privilegio, il pegno e l’ipoteca. Il prestatore di lavoro può

vantare, nei confronti del datore di lavoro, un privilegio in considerazione della causa del credito: in

particolare si tratta di un privilegio generale sui mobili del debitore (il datore di lavoro) disposto

dall’art.2751 bis c.c., il quale prevede che tale privilegio gravi sui beni mobili in funzione delle “retribuzioni

dovute ai lavoratori subordinati, delle indennità dovute per effetto della cessazione del rapporto

lavorativo, dei danni conseguenti alla mancata corresponsione di contributi previdenziali ed assicurativi,

nonché del risarcimento del danno subito per effetto di licenziamento inefficace, nullo o annullabile”.

L’art.2777 comma 2 c.c. prevede che tale privilegio sia secondo solo a quello per spese di giustizia. Ancora

l’art. 2776 c.c. prevede che qualora i beni mobili siano insufficienti per soddisfare i relativi crediti

privilegiati esistenti, ci si potrà rifare sui beni immobili del datore di lavoro, dando precedenza ai crediti

relativi al t.f.r. ed all’indennità di mancato preavviso, in secundis ai crediti di lavoro, ed in ultima ipotesi ai

crediti dello Stato e dei creditori chirografari (ricordiamo, quelli che non godono di prelazione).

L’art. 1676 c.c. tutela, inoltre, il lavoratore, tramite un’azione diretta di rivalsa, nell’ipotesi di prestazione

del lavoro a favore di un appaltatore: in tal caso il lavoratore potrà rifarsi anche sul committente nei limiti

di quanto dovuto dallo stesso all’appaltatore. Tale tutela è stata rafforzata dall’introduzione della

responsabilità solidale dell’appaltante e dell’appaltatore, entro il limite temporale di un anno dalla

cessazione dell’appalto, per ciò che concerne i debiti retributivi e previdenziali: passato un anno continua

ad applicarsi il solo art.1676 c.c.

Tutela dei crediti di lavoro nelle procedure concorsuali. Garanzia per t.f.r. e altri crediti di lavoro

Le norme suddette sui privilegi valgono anche in caso di fallimento o di altre procedure concorsuali.

E’ previsto che in caso di esercizio provvisorio dell’attività d’impresa, i crediti maturati dai lavoratori siano

considerati crediti di massa e pertanto collocati al primo posto nella distribuzione delle somme ricavate

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dalla liquidazione dell’attivo. Tuttavia, nella maggior parte dei casi l’attivo scaturito dalla liquidazione è

insufficiente a sanare i debiti dell’impresa nei confronti dei lavoratori. In materia sono intervenute due

direttive dell’Unione Europea (allora Comunità), e precisamente la 987/1980 e la 74/2002, le quali hanno

previsto la tutela dei crediti di lavoro in tutte le ipotesi di procedure concorsuali. Per dare attuazione alla

prima di queste direttive, la 987/1980, nel 1982 venne istituito un fondo di garanzia presso l’INPS,

alimentato dal contributo delle aziende, il quale si sarebbe sostituito al datore di lavoro in caso

d’insolvenza o di semplice inadempienza di quest’ultimo nella corresponsione del t.f.r.

Dopo ben 10 anni trascorsi dall’emanazione della direttiva, lo Stato italiano non aveva ancora dato

applicazione integrale al documento di matrice europea, non avendo previsto una tutela nell’ambito delle

procedure concorsuali di tutti gli altri crediti di lavoro diversi dal t.f.r e pertanto venne condannato a

rispondere dei danni derivanti dalla mancata attuazione della direttiva. In seguito venne emanata una

disciplina apposita.

Torniamo per il momento al primo intervento legislativo italiano, quello del 1982, inerente l’istituzione del

fondo di garanzia. Lo stesso legislatore ha inteso tutelare i lavoratori tanto in caso di insolvenza del datore

di lavoro accertata in sede di procedura concorsuale, quanto in caso di inadempienza del datore di lavoro

non assoggettabile a procedure concorsuali a norma dell’art.1 della legge fallimentare. Nella prima ipotesi

il lavoratore, entro 15 giorni dal deposito dello stato passivo o dalla sentenza di omologazione del

concordato preventivo, può far domanda per il pagamento del t.f.r. da parte del Fondo. Nella seconda

ipotesi, invece, il lavoratore è tenuto prima ad esperire l’esecuzione forzata e solo nel caso in cui essa

risulti insufficiente per l’erogazione del t.f.r., può rivolgersi al Fondo. In ogni caso il Fondo di garanzia deve

eseguire il pagamento entro 60 giorni dalla richiesta, surrogandosi nella posizione di creditore privilegiato

del lavoratore.

Per quanto concerne il secondo intervento legislativo italiano di completa attuazione della direttiva

287/1980, possiamo dire esso si è avuto con il D.lgs. 80/1992, il quale ha previsto che il Fondo di garanzia si

occupi, anche, degli altri crediti da lavoro spettanti ai prestatori, nel limite però relativo agli ultimi 3 mesi di

rapporto di lavoro ed entro un massimale predeterminato. Il lavoratore, per questi crediti, può chiedere

l’intervento del Fondo in tutti i casi di procedure concorsuali. Qualora il datore non sia assoggettato alle

stesse in previsione della legge fallimentare, occorrerà, come abbiamo visto per il t.f.r., l’insufficienza

dell’esecuzione forzata per potersi rivolgere al Fondo. Gli “ultimi tre mesi” vanno calcolati o dalla data del

provvedimento di apertura della procedura concorsuale, o dalla data d’inizio dell’esecuzione forzata, o

dalla data di cessazione del rapporto lavorativo, o dalla data di cessazione dell’esercizio provvisorio o di

messa in liquidazione dell’impresa. La garanzia offerta dal Fondo si prescrive entro un anno ed il

pagamento non è cumulabile con il trattamento di CIG fruito nei 12 mesi precedenti la procedura

concorsuali, né tanto meno è cumulabile con l’indennità di mobilità corrisposto nei 3 mesi successivi alla

risoluzione del rapporto di lavoro.

La nuova direttiva 75/2002, invece, ha previsto una tutela a favore dei lavoratori le cui imprese siano

presenti in 2 Stati europei differenti e costituite nello Stato diverso da quello di appartenenza del

lavoratore.

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Vincoli alla destinazione del credito

Il credito che il lavoratore vanta in forza della propria attività lavorativa non è tutelato dalla legge solo nei

confronti del debitore, per cui abbiamo visto le cause di prelazione, ma anche nei confronti dei creditori

del lavoratore: gravano, sul credito da lavoro subordinato, dei vincoli alla destinazione. La legge stabilisce

l’assoluta indisponibilità degli assegna familiari, i quali però hanno carattere previdenziale e non

retributivo, mentre per i crediti da stipendio o salario e per le indennità di anzianità è previsto che essi

siano pignorabili, sequestrabili e soggetti a compensazione o cessione di credito nella misura di un quinto

(molto spesso si sente parlare della cessione del quinto dello stipendio: è proprio a questa misura che si fa

riferimento; il lavoratore vincola un quinto della sua retribuzione per aver accesso a prodotti finanziari).

Anche i fondi speciali di previdenza, predisposti dall’imprenditore a favore dei lavoratori, sono vincolati

nella loro destinazione, costituendo patrimonio separato sul quale i creditori non possono rifarsi.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: va aggiunto, a quanto appena detto, che le somme

percepite dal lavoratore a titolo di retribuzione o di qualsivoglia indennità, su provvedimento del giudice

competente per materia, possono essere pignorate per crediti alimentari. Il pignoramento è previsto,

anche, nella misura di 1/5 per i debiti da tributi dovuti allo Stato, alle Province ed ai Comuni.

Volontariamente, infine, il lavoratore può cedere 1/5 del proprio credito da retribuzione ai propri creditori

o al datore di lavoro per debiti con lo stesso.

Trasferimento d’azienda: tutela dei crediti di lavoro e dell’occupazione. Profili generali.

Un’ulteriore forma di garanzia dei crediti, accanto ai vincoli alla destinazione ed alle cause di prelazione, è

quella offerta dall’art.2112 c.c., il quale va a disciplinare gli effetti del trasferimento d’azienda sui rapporti

di lavoro, tutelando l’interesse non solo ai diritti di credito dei lavoratori, ma anche alla conservazione del

posto di lavoro.

Il trasferimento d’azienda è stato oggetto di ben 3 direttive europee, la 77/187, la 98/50 ed infine la

2001/23. L’Italia, come spesso avviene, è risultata inottemperante all’adeguamento dell’ordinamento

interno ed all’attuazione della direttiva. Inoltre gli interventi di attuazione in seguito posti in essere, sono

risultati confusionari, novellando dapprima una parte dell’art.2112 c.c. ed in seguito, per ben due volte,

l’intero articolo del codice, nonché l’art.47 della L.428/1990, attuativo delle direttive europee.

Nozione di trasferimento d’azienda. Concetto di entità economica organizzata

Per capire quale sia il campo di applicazione della disciplina legale che tutela i lavoratori, dobbiamo fornire

una definizione di “trasferimento d’azienda”, contenuta principalmente all’interno dell’art. 2112 c.c.

comma 5: per trasferimento d’azienda s’intende un’operazione volta al cambiamento della titolarità di

un’attività economica organizzata, per mezzo di fusione o cessione, preesistente al trasferimento e che

conserva nel trasferimento la propria identità, al di là di quale sia la tipologia negoziale o il provvedimento

che determina il trasferimento. Rientrano, quindi, in tale definizione tutti mutamenti della persona

dell’imprenditore, purché persista un’attività economica organizzata.

La seconda parte del comma 5 prevede, poi, che possano essere trasferite anche parti d’azienda, intese

come articolazioni funzionalmente autonome di un’attività economica organizzata, individuate come tali

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AL MOMENTO DEL TRASFERIMENTO, e non precedentemente come invece pretendeva la prima parte del

comma in questione. Ciò è stato previsto per garantire la cessione di parti d’azienda prive di una propria

autonomia funzionale prima del trasferimento.

Per la Corte di giustizia dell’Unione Europea, inoltre, si considera trasferimento d’azienda anche il semplice

mutamento di soggetti nello svolgimento di un’attività, senza che sia necessario il trasferimento di

elementi patrimoniali materiali o immateriali. Per uniformare il diritto comunitario, il legislatore europeo

ha dovuto emanare la direttiva 98/50, per fare in modo che quanto previsto dalla Corte di giustizia fosse

inglobato anche nel testo della vecchia direttiva 77/187.

Uno degli interventi legislativi italiani in materia, il D.Lgs. 276/2003, ha previsto che l’acquisizione di

personale già impiegato in un appalto, a seguito del subentro di un nuovo appaltatore, non sia da

considerarsi come trasferimento d’azienda o di parte di essa. Il testo di tale decreto sembrerebbe in

contrasto con l’interpretazione della Corte di Giustizia e con la direttiva comunitaria che ne ha recepito il

volere, almeno che non si interpreti in senso limitativo il disposto del legislatore italiano, ossia nel senso

che il mero trasferimento di personale non possa essere considerato come integrante la fattispecie del

trasferimento di un’attività economica organizzata.

P.S. a mio parere la dottrina e l’autore del libro hanno cercato una giustificazione al dettato legislativo, che

si presenta nettamente in contrasto con la direttiva.

Principio della continuità del rapporto di lavoro e cessione di parti o fasi dell’attività produttiva

Uno degli interessi principali del lavoratore in caso di trasferimento d’azienda è la conservazione del posto

di lavoro, senza tra l’altro mutamenti nelle proprie condizioni lavorative. L’art. 2558 c.c., in tema di

successione nei contratti in caso di cessione d’azienda, prevede il subentro dell’acquirente in tutti i

contratti dell’alienante, salvo patto contrario con lo stesso alienante. In tema di rapporti di lavoro la norma

è inderogabile, nel senso che non può esistere un tale accordo tra cedente e cessionario, salva la possibilità

del recesso giustificato del cedente. Si tende quindi a tutelare i rapporti di lavoro preesistenti rispetto al

trasferimento. Il consenso dei lavoratori non è in alcun modo richiesto, ma essi hanno comunque diritto,

nei tre mesi successivi al trasferimento e qualora riscontrino una variazione delle condizioni lavorative, a

rassegnare le dimissioni per giusta causa, avendo così diritto all’indennità di mancato preavviso.

La tutela apprestata dall’art. 2112 c.c. è però vantaggiosa solo nel caso di trasferimento totale dell’azienda,

mentre in caso di trasferimento di parti autonomamente o meno funzionali, i lavoratori potrebbero

trovarsi dinanzi a contratti collettivi meno favorevoli o alla mancata attuazione dell’art. 18 dello Statuto dei

lavoratori per evidenti limiti dimensionali e quindi alla mancanza di applicazione della tutela reale.

Tutela individuale e collettiva del lavoratore nel trasferimento. Trasferimento d’azienda in caso di

procedure concorsuali e crisi aziendali

A tutela del lavoratore l’art.2112 comma 2 c.c. prevede la solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti

retributivi e contributivi vantati dai lavoratori prima del trasferimento: il cedente, quindi, rimane obbligato

insieme al cessionario, solidalmente appunto, per il pagamento degli stessi, salvo liberazione del cedente

tramite procedure conciliative. Se tra cedente e cessionario, inoltre, è previsto un contratto d’appalto a

seguito del trasferimento d’azienda, per i trattamenti retributivi e contributivi è prevista la responsabilità

solidale dell’alienante e dell’acquirente per il periodo di un anno dalla cessazione dell’appalto.

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I lavoratori, inoltre, in seguito al trasferimento dell’azienda, devono conservare i trattamenti economici e

normativi previsti dai contratti collettivi.

Per quanto riguarda la consultazione sindacale, che tutela collettivamente i lavoratori, l’art. 47 della

L.428/1990 prevede che sia cedente che cessionario, se l’azienda di cui si vuole perfezionare il

trasferimento ha più di 15 dipendenti, devono comunicare in forma scritta la volontà di addivenire ad una

cessione alle r.s.u. o r.s.a. o comunque ai sindacati di categoria, almeno 25 giorni prima della conclusione

dell’atto di trasferimento, inserendo tutte le informazioni inerenti i motivi del trasferimento e le

conseguenze economiche, giuridiche e sociali per i lavoratori. Entro 7 giorni le rappresentanze sindacali

possono far richiesta di un “esame congiunto della situazione” ed il cedente ed il cessionario dovranno

provvedervi entro 7 giorni dalla richiesta. L’accordo dovrà essere raggiunto entro 10 giorni, altrimenti

l’esame congiunto si riterrà esaurito. La violazione degli obblighi fin qui previsti viene considerata come

condotta antisindacale.

Qualora si tratti di azienda in crisi o sottoposta a procedura concorsuali, impossibilitata nella continuazione

dell’esercizio di un’attività economica organizzata, la legge favorisce il trasferimento d’azienda, anche

qualora questo porti ad una conservazione parziale dell’occupazione. I lavoratori licenziati avranno diritto

di precedenza nelle assunzioni fatte entro un anno dall’acquirente dell’azienda, essendo inoperante per

essi, come per i lavoratori non licenziati, l’art. 2112 c.c., ossia il diritto al mantenimento dei diritti

precedenti al trasferimento d’azienda.

SEZIONE B: LE RINUNZIE E LE TRANSAZIONI. LA CERTIFICAZIONE.

Compressione della facoltà di disposizione dei diritti del prestatore di lavoro

E’ facile immaginare come un lavoratore, al quale norme inderogabili contenute in leggi o in contratti

collettivi attribuiscano dei diritti, possa essere portato a privarsene tramite una compressione, o

addirittura tramite una soppressione, della propria facoltà di disposizione. L’art. 2113 c.c., novellato dalla

L.533/1973 sulla riforma del processo di lavoro, prevede infatti l’invalidità delle rinunzie e delle transazioni

del lavoratore in tali casi.

Origini della limitazione della facoltà di disposizione, l’originario 2113 c.c. e la riforma del 1973

La tutela del lavoratore per quanto concerne la limitazione della facoltà di disposizione, in origine partiva

dal fatto che la volontà del lavoratore, nel porre in essere una rinunzia od una transazione, fosse viziata da

un timore reverenziale, assimilabile ad una violenza morale, del lavoratore nei confronti del proprio datore

di lavoro. Ciò portò ad una distinzione tra i negozi di disposizione antecedenti o susseguenti alla cessazione

del rapporto di lavoro, ritenendo invalidi i primi e validi i secondi.

Il codice civile accolse quanto appena detto solo parzialmente all’interno dell’art.2113, in quanto equiparò

i negozi di disposizione antecedenti e successivi alla cessazione del rapporto di lavoro, ma fissò un termine

di tre mesi (dal negozio o dalla cessazione) entro il quale proporre la domanda giudiziale di annullamento

del negozio di disposizione. In un certo senso, quindi, partendo dalla cessazione del rapporto di lavoro, i

negozi successivi sarebbero risultati invalidi, mentre quelli precedenti, qualora fossero trascorsi i tre mesi,

sarebbero rimasti validi.

Il nuovo testo dell’art.2113 c.c., come novellato dalla L.533/1973, ha semplicemente prolungato il termine

per l’impugnazione da 3 a 6 mesi, rendendo la stessa stragiudiziale e non giudiziale. La norma è stata,

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inoltre, estesa ai lavoratori autonomi la cui opera prevalentemente personale abbia carattere continuativo

e coordinato all’impresa del datore di lavoro.

Invalidità delle rinunzie e transazioni del lavoratore

L’art.2113 c.c. dispone che siano invalide le rinunzie e le transazioni diritti del prestatore di lavoro derivanti

da norme inderogabili di legge o da contratti/accordi collettivi concernenti rapporti di lavoro subordinato o

autonomo ed associato. Sono, quindi, esclusi i casi di lavoratori autonomi titolari d’impresa o che abbiano

con l’impresa un rapporto discontinuo.

L’invalidità può essere fatta valere tramite impugnazione stragiudiziale per iscritto: si tratta di un negozio

unilaterale recettizio, in quanto la comunicazione della volontà di non dare effetto alla rinunzia od alla

transazione deve pervenire al datore di lavoro, entro il termine di 6 mesi dalla cessazione del rapporto o

dal negozio dispositivo, in caso di atto successivo alla cessazione. Tuttavia dovrà sempre essere un giudice

con sentenza costitutiva ad accertare l’invalidità dell’atto, in quanto esso si configura come annullabile e

non come nullo, con tutte le conseguenze del caso. L’azione si prescrive in 5 anni dalla data

d’impugnazione stragiudiziale, che rimane presupposto della suddetta azione giudiziaria. I termini previsti

tutelano tanto il lavoratore, quanto il datore di lavoro.

Inderogabilità delle norme di legge e dei contratti collettivi ed i limiti all’autonomia dispositiva del

lavoratore

La ratio dell’art.2113 c.c. non è da ricercare nella volontà del legislatore di privare totalmente il lavoratore

del potere di disposizione dei propri diritti, bensì nella volontà di aiutare una categoria socialmente

sottoprotetta come quella dei prestatori di lavoro. Il lavoratore, infatti, non può disporre dei diritti a lui

attribuiti OLTRE certi limiti previsti dall’ordinamento: oltre quindi il minimo inderogabile di trattamento

economico e normativo. Inoltre lo stesso art.2113 comma 4 del codice, prevede che siano VALIDE le

rinunzie e le transazioni avvenute in sede di conciliazione delle controversie individuali, in cui la

disposizione dei diritti avviene con l’assistenza dell’organo conciliatore. Ad esse, inoltre, sono equiparate le

sedi di CERTIFICAZIONE, introdotte dal D.Lgs. 276/2003. Tutto ciò dimostra come non ci sia una carenza del

potere di disposizione del lavoratore inerente i propri diritti, bensì una limitazione di tale potere nel suo

stesso interesse.

Per ciò che concerne le transazioni collettive poste in essere dai sindacati, esse necessitano della ratifica

dei lavoratori coinvolti, in quanto devono essere manifestazione del volere del lavoratore.

Il negozio di rinunzia ed il contratto di transazione. Le c.d. quietanze a saldo. La rinunzia tacita

Diamo (finalmente) una definizione di rinunzia e di transazione.

La rinunzia è un negozio unilaterale recettizio tendente alla dismissione, da parte del titolare, di un diritto

soggettivo. La transazione (art.1965 c.c.) è un contratto mediante il quale le parti, tramite reciproche

concessioni, prevengono o risolvono una lite. La transazione, in realtà, può ben celare una rinunzia: è per

tal motivo che l’art.2113 c.c. accomuna i due casi. In una lite esistente o nella prevenzione di una

eventuale, infatti, il peso specifico del lavoratore è di gran lunga inferiore a quello del datore di lavoro, il

che potrebbe portare alla realizzazione di pretese del datore di lavoro, più che a concessioni reciproche

proprie della transazione.

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Particolare è il caso delle quietanze a saldo o quietanze liberatorie, ossia dichiarazione del prestatore di

lavoro con cui egli asserisce, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, di aver ricevuto quanto gli

spettava e di non aver diritto a nient’altro da parte del datore di lavoro, rinunciando così a future pretese.

Esse sono semplici dichiarazioni di scienza, non idonee a dar luogo ad un negozio giuridico.

Altra ipotesi meritevole di attenzione è quella della rinunzia tacita, ossia della possibilità, da parte del

lavoratore, di manifestare la volontà di dismettere un proprio diritto tramite un comportamento

concludente. Per i negozi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro, una simile ipotesi è impossibile,

in quanto il termine di decadenza decorre dalla data del negozio, e quindi implicitamente è richiesta la

forma scritta. Per le transazioni, addirittura, è lo stesso art.1965 c.c. a richiedere ad probationem la forma

scritta. Per i rapporti in corso, invece, è ritenuta insufficiente la mera inerzia o tolleranza del lavoratore per

manifestare la dismissione di un proprio diritto.

Certificazione

La certificazione è uno strumento finalizzato all’identificazione degli effetti del contratto ed alla

qualificazione a stregua delle c.d. tipologie di rapporto previste: le parti hanno l’onere di indicare

sull’istanza quali effetti civili, amministrativi, previdenziali o fiscali intendono far accertare. Gli effetti della

certificazione permangono non solo tra le parti, ma anche verso terzi (istituti previdenziali, autorità

pubbliche in genere ecc.).

Vi è poi l’individuazione degli organi competenti alla certificazione dei contratti di lavoro: commissioni

istituite presso Direzioni provinciali del lavoro, Università, Province, Direzione generale della tutela delle

condizioni di lavoro del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, enti bilaterali (organismi costituiti

grazie ad una o più associazioni dei prestatori di lavoro, soggetti quindi creati dall’autonomia collettiva).

Le commissioni di certificazione svolgono, poi, un ruolo di consulenza ed assistenza delle parti, sia in fase di

attuazione del rapporto di lavoro, sia in fase di stipulazione, per la determinazione di obblighi e diritti futuri

tra le parti. Il Ministro del lavoro ha, inoltre, il compito di stabilire con proprio decreto “codici di buone

pratiche” per individuare quali siano clausole indisponibili inerenti trattamenti economici e normativi da

accertare in face di certificazione.

Per contestare la certificazione occorre un ricorso al giudice del lavoro, dopo aver esperito tra l’altro un

tentativo obbligatorio di conciliazione dinanzi alla stessa commissione di certificazione. L’atto di

certificazione può, inoltre, essere impugnato per violazione procedurale o per eccesso di potere dei

soggetti legittimati al ricorso ordinario.

SEZIONE C: PRESCRIZIONE E DECADENZA

Prescrizione dei diritti dei lavoratori

In linee generali, i diritti del prestatore di lavoro (crediti retributivi) sono soggetti alla prescrizione

quinquennale disposta dall’art.2948 c.c., consistendo in un pagamento periodico ad anno o in termini più

brevi e non alla prescrizione ordinaria decennale. Tuttavia, ad essa sono riconducibili tutti quei diritti

diversi dalla retribuzione (diritto alla qualifica superiore, risarcimento del danno contrattuale, risarcimento

per mancato versamento dei contributi assicurativi che decorre dalla perdita della prestazione

previdenziale e non dall’inadempimento).

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La prescrizione, è appena il caso di ricordarlo, non può riguardare diritti indisponibili della persona, e

quindi anche del lavoratore, quali quello all’integrità fisica ed alla sicurezza del lavoro.

Diversa dalla prescrizione estintiva di diritti è la prescrizione presuntiva, la quale ammette prova contraria,

sebbene solo tramite confessione giudiziale o giuramento decisorio, fornita dalla controparte del

pagamento del debito. Essa è di un anno per il diritto dei prestatori a retribuzioni corrisposte a periodi non

superiori ad un mese ed a tre anni per quelle corrisposte a periodi di oltre un mese.

Condizione necessaria per il decorso del periodo di prescrizione è l’inerzia del titolare del diritto. Il regime

della prescrizione è inderogabile, oltre che irrinunciabile.

L’effetto estintivo della prescrizione è in qualche modo accomunabile all’effetto dismissivo della rinunzia e

della transazione di cui all’art.2113 c.c.

Decadenza. Clausole di decadenza nei contratti collettivi

La decadenza, disciplinata dall’art.2964 c.c., prende anch’essa, al pari della prescrizione, in considerazione

il decorso del tempo ed in tal caso l’esercizio di un diritto viene sottoposto ad un termine perentorio.

Diversamente dalla prescrizione, però, essa non produce la perdita del diritto a favore di un diverso

titolare, ma semplicemente la preclusione dall’esercizo del diritto.

Essa può essere tanto legale, quanto contrattuale, ossia apposta dalla legge o dall’autonomia delle parti.

E’,infatti, molto diffusa nei contratti collettivi, specie in tema di instaurazione delle controversie di lavoro.

Intervento della Corte costituzionale in materia di prescrizione

Prescrizione e decadenza, secondo quanto abbiamo detto, producendo la perdita o la preclusione

dell’esercizio del diritto, di fatto realizzano quanto previsto dalla rinunzia o dalla transazione: il lavoratore

perde una situazione di vantaggio, un vero e proprio diritto soggettivo. Questo avrebbe dovuto portare,

secondo una parte della dottrina, a decretare l’imprescrittibilità e l’indisponibilità dei diritti del prestatore

di lavoro. La Corte costituzionale, con la sentenza 63/1966, è intervenuta in materia dichiarando

l’illegittimità di alcuni articoli del codice (2948 n.4, 2955 n.2 e 2956 n.1) nella parte in cui prevedono che la

prescrizione del diritto alla retribuzione decorra in pendenza del rapporto di lavoro. Il diritto alla

retribuzione è un diritto costituzionalmente garantito, al pari della situazione soggettiva di sottoprotezione

sociale del lavoratore, il quale, nel timore di un eventuale licenziamento, potrebbe non agire, rimanendo

così inerte, per far valere il proprio diritto alla retribuzione. La Corte ha previsto il differimento del termine

per la prescrizione alla fine del rapporto: solo da quel momento acquista rilievo l’inerzia del prestatore.

Stessa cosa vale per la decadenza.

Si tratta di un vero e proprio esempio di giurisprudenza creativa ed innovativa, configurandosi la suddetta

sentenza come “manipolativa di illegittimità parziale”.

Giurisprudenza costituzionale in tema di prescrizione dopo il 1966

Nelle pronunce successive a quella del 1966, la Corte costituzionale è tornata sui suoi passi, sostenendo

che con l’art.18 dello Statuto dei lavoratori, la resistenza al licenziamento è divenuta più forte, rendendo

così inutile il mancato decorso della prescrizione in pendenza del rapporto di lavoro, decisa nella sentenza

63 proprio in ragione del timore di licenziamento del lavoratore. La Corte è stata criticata ampiamente

dalla dottrina, per non aver tenuto conto che il datore di lavoro può manifestare la propria posizione di

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strapotere nei confronti del lavoratore anche tramite vie diverse dal licenziamento. La Corte, comunque,

interrogata svariate volte sulla questione, è rimasta ferma al pensiero che la prescrizione possa decorrere

anche durante il rapporto di lavoro, ridando vita così ad una norma dapprima ritenuta estranea

all’ordinamento.

La prescrizione, quindi, non decorre durante il rapporto di lavoro solo nei casi di libera recedibilità o nei

rapporti tutelati da stabilità obbligatoria.

SEZIONE D: TUTELA GIURISDIZIONALE DIFFERENZIATA DEL LAVORATORE

Composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro: conciliazione ed arbitrato

Per garantire strumentalmente i diritti del prestatore di lavoro, è previsto che la composizione delle

controversie individuali possa avvenire sia informa giudiziale che stragiudiziale.

Partiamo dalla “conciliazione”. Essa può essere sia:

• Giudiziale, ed in tal caso può essere tentata in ogni momento del processo dal giudice, il quale deve

tentarla sin dall’inizio. Qualora venga raggiunta va redatto il processo verbale, che è considerato

titolo esecutivo;

• Stragiudiziale, esperibile in sede sindacale, prevista dagli accordi collettivi, o in sede amministrativa,

sempre per mezzo dei sindacati, dinanzi ad apposite commissione della Direzione provinciale del

lavoro.

Inizialmente non era prevista l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione. La legge 108/1990 introdusse

tale obbligatorietà per le sole ipotesi di tutela obbligatoria, imponendo il tentativo di conciliazione come

presupposto necessario di procedibilità in giudizio della domanda di riassunzione del lavoratore

ingiustamente licenziato. La privatizzazione del pubblico impiego portò all’applicazione della suddetta

obbligatorietà anche nei confronti di coloro alle dipendenze delle pubbliche amministrazione. Infine nel

1998 venne introdotta per tutte le controversie di lavoro quale condizione necessaria di procedibilità della

domanda giudiziale.

Il D.Lgs. 276/2003 ha, inoltre, previsto che in caso di ricorso contro certificazione, debba essere esperito il

tentativo di conciliazione obbligatorio dinanzi alla commissione che ha emesso l’atto di certificazione.

Ulteriore strumento di tutela giurisdizionale del lavoratore è “l’arbitrato”, istituto tramite il quale le parti

deferiscono la decisione di una controversia ad un terzo. Tale deferimento può essere contenuto tanto in

un compromesso, vero e proprio negozio di deferimento del potere decisorio, tanto in una clausola

compromissoria appositamente apposta al contratto.

Possiamo da subito attuare una distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale.

L’arbitrato rituale, la cui disciplina codicistica è stata modificata nel 2006, ha i medesimi effetti di una

decisione giurisdizionale, non potendo, però, inerire a diritti indisponibili. In materia di controversie di

lavoro, tra l’altro, il ricorso all’arbitrato rituale è possibile solo qualora sia previsto dalla legge o dai

contratti collettivi, quindi anche il compromesso o la clausola compromissoria che lo prevedano devono

essere inclini alle previsioni normative.

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In generale nell’arbitrato rituale la decisione degli arbitri può avvenire secondo diritto o secondo equità,

qualora le parti abbiano previsto quest’ultima ipotesi: in materia di lavoro, però, è prevista la sola

pronuncia secondo diritto. La decisione è incorporata nel “lodo”, il quale diviene equiparabile ad una

sentenza tramite un’omologazione del giudice, il quale si attiene semplicemente ad un controllo di

regolarità formale. Dinanzi alla Corte d’Appello è possibile impugnare il lodo per nullità, revocazione o per

opposizione di un terzo ed è sempre ammessa, per le controversie di lavoro, l’impugnazione per violazione

delle regole di diritto.

L’arbitrato irrituale (libero) quando le parti, sempre per mezzo di compromesso o clausola compromissoria,

prevedano che un terzo (l’arbitro) si pronunci sulla controversia in via negoziale e non giurisdizionale, ossia

per ciò che è attinente la natura e gli effetti del contratto. Anche l’arbitrato irrituale è possibile solo in caso

di previsione legislativa (arbitrato irrituale legalmente nominato) o dei contratti collettivi, che devono,

però, prevedere anche le norme procedurali per giungere al lodo, il quale è impugnabile dinanzi al giudice

del lavoro, la cui decisione non sarà a sua volta impugnabile se non in Cassazione. Dopo 30 giorni dal lodo,

salva accettazione preventiva delle parti per iscritto o rigetto del ricorso del tribunale, il lodo viene

depositato presso la cancelleria del Tribunale e viene dichiarato esecutivo con decreto.

La sostanziale differenza tra arbitrato rituale ed irrituale la ritroviamo nel fatto che quello rituale può

essere alternativo alla giurisdizione secondo una previsione vincolante in via preventiva delle parti.

Disciplina processuale delle controversie di lavoro

In materia di diritto del lavoro, considerata la situazione di sottoprotezione sociale del lavoratore e di parte

contrattualmente debole, vi è un rafforzamento della tutela giurisdizionale, in quanto il prestatore di

lavoro viene considerato parte debole non solo per ciò che attiene al rapporto, ma anche all’interno della

controversia. La L.533/1973, modificando il Titolo IV del Codice di procedura civile dedicato alle controversi

di lavoro, ha modificato tutta la disciplina del processo di lavoro.

La tutela differenziata dei lavoratori subordinati è stata estesa, inoltre, anche ai lavoratori associati nei

contratti agrari, nonché a quelli autonomi che svolgano un lavoro prettamente personale coordinato e

continuato nei confronti di un’impresa: non si tratta di una parificazione, in questo ambito, dei lavoratori

subordinati e di quelli autonomi, ma semplicemente di un’eguale tutela dei lavoratori autonomi in

posizione di subordinazione.

Le controversie di lavoro vengono decise da un giudice monocratico del Tribunale, in funzione di giudice

del lavoro, il quale, essendo necessaria l’osservazione dei principi dell’immediatezza (tempi più brevi del

processo), della concentrazione (difese precise ed indicazione dei mezzi di prova sin dall’inizio del

processo) e dell’oralità (interrogatorio delle parti e discussione orale), risolve la controversia all’interno di

un’unica udienza, pronunciando la sentenza al termine della stessa e leggendone il dispositivo. Solo nel

caso in cui sia necessaria la risoluzione di una questione inerente l’efficacia, la validità o l’interpretazione di

clausole apposte in un contratto collettivo, il giudice deve sospendere l’udienza e decidere con sentenza su

tale questione, contro la quale si può ricorrere in Cassazione nel termine di 60 giorni, attendendo in tal

caso la pronuncia della Corte.

Le norme del codice di procedura civile (artt.432, 431, 423, 429), inoltre, assicurano una forte tutela al

lavoratore: il giudice, per quanto riguardo i crediti di retribuzione, deve effettuare una valutazione

equitativa dell’ammontare della prestazione dovuta, disponendone la liquidazione quanto sia certo il

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diritto da cui essa nasce; la sentenza di condanna per i crediti di lavoro è munita della clausola di

provvisoria esecuzione; inoltre l’esecuzione forzata in favore del lavoratore può essere iniziata in forza del

solo dispositivo della sentenza e può essere sospesa, su istanza di parte, qualora superi le vecchie 500.000

lire se ciò apportasse un gravissimo danno alla parte soccombente; infine, senza che il lavoratore sia

gravato dall’onere di dimostrare il maggior danno subito, il datore di lavoro, in conseguenza del ritardato

pagamento, deve anche il risarcimento del maggior danno derivante da svalutazione monetaria dei crediti

di lavoro: si ha un effetto non solo rafforzativo della tutela del credito di lavoro, ma anche punitivo dello

stesso datore soccombente.

Depenalizzazione delle sanzioni previste per violazione di norme di lavoro. Vigilanza ed ispezioni

Negli anni 90 si è assistito ad un processo di depenalizzazione delle sanzioni per illeciti in materia di diritto

del lavoro. La L.449/1993 ha conferito al Governo il potere di revisione delle sanzioni corrisposte in

violazione di norme protettive del lavoro ed i vari decreti che si sono susseguiti nel tempo hanno portato a

termine tale processo. Tuttavia si è conservata la rilevanza penale di tutte quelle condotte che possano

pregiudicare l’integrità psico-fisica del lavoratore (far svolgere lavori pericolosi a donne in gravidanza o

puerpere o a minori), mentre negli altri casi il legislatore ha ritenuto sufficiente la sola sanzione

amministrativa, sempre o quasi sempre pecuniaria, a carico del datore di lavoro.

Il D.Lgs.124/2004 ha, poi, innovato la disciplina legislativa in materia di servizi ispettivi del Ministero del

lavoro e delle politiche sociali, garantendo una maggiore efficienza degli stessi (tramite una

riorganizzazione territoriale) ed una maggiore efficacia dell’azione di vigilanza (revisione degli strumenti

giuridici conferiti agli ispettori: prescrizione obbligatoria, ed in tal caso l’ispettore ha rilevato violazioni di

carattere penale, punibile con l’arresto o l’ammenda, ma non sanabili, e diffida, prevista se l’ispettore,

benché abbia rilevato delle violazioni, le ritenga sanabili). Particolare attenzione merita la conciliazione

monocratica presso le Direzioni provinciali del lavoro, strettamente collegata all’attività ispettiva. Con essa

si giunge ad una soluzione conciliativa della controversia.

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CAPITOLO NONO – RAPPORTI SPECIALI DI LAVORO

Introduzione. La specialità come differenza per l’attuazione di una diversa tutela del lavoratore

Accanto al modello normativo-tipo contrattuale del rapporto di lavoro subordinato, esistono dei sottotipi

qualificabili come rapporti “speciali” di lavoro. Bisogna tener presente, infatti, le differenze esigenze di

tutela del lavoratore, attuate tramite i contratti o accordi collettivi che vanno a disciplinare queste forme

speciali di lavoro, nonché da parte del legislatore, talune volte in sostituzione della stessa autonomia

collettiva insufficiente o del tutto assente. Numerose discipline speciali, ultimamente, al fine di favorire

l’occupazione, hanno introdotto rapporti lavorativi “flessibili o atipici”, attenuando le tutele in materia di

lavoro subordinato, proprio per salvaguardare interessi pubblici o collettivi.

SEZIONE A: RAPPORTI SPECIALI CARATTERIZZATI DALLA TIPICITA’ DEGLI INTERESSI PUBBLICI COINVOLTI

Rapporto di lavoro dei marittimi e della gente in aria

Primo rapporto di lavoro speciale che esaminiamo è quello inerente il personale addetto alla navigazione

marittima e della gente dell’aria. Tale rapporto è disciplinato all’interno del Codice di navigazione, fonte

esclusiva della disciplina dell’intera materia nautica e quindi anche per ciò che concerne i rapporti di

lavoro. La disciplina speciale dedicata a questa categoria di lavoratori è dovuta a ragioni di interesse

pubblico riguardanti la sicurezza e la regolarità della navigazione, nonché la conservazione del patrimonio

navigante. Per il personale marittimo l’assunzione deve avvenire tramite atto pubblico dinanzi all’autorità

marittima per il contratto di arruolamento, mentre per il personale di volo occorre solo la forma scritta del

contratto di lavoro. Inoltre entrambe le categorie di lavoratori sono iscritte in appositi albi e registri, dai

quali si evince la propria idoneità al servizio o abilitazione professionale.

I crediti lavorativi dei lavoratori marittimi e dell’aria sono assistiti da privilegio speciale sulla nave o

sull’aeromobile e nel loro caso la prescrizione non può decorrere in costanza del rapporto di lavoro. Inoltre

i marittimi hanno diritto alla retribuzione in ogni caso di sospensione del servizio per malattia o lesione,

oltre a dover essere mantenuti a bordo della nave se il proprio diritto di credito sia rimasto insoddisfatto,

con la continuazione della stessa retribuzione.

E’ prevista, inoltre, per queste due categorie speciali di lavoratori, una deroga alla L.300/1970 (statuto dei

lavoratori), la quale afferma che pur essendo prevista un’applicazione generale dello Statuto, si rinvia alla

contrattazione collettiva in materia (principio di cui è stato ridotto il rilievo dalla Corte costituzionale in

materia di licenziamento e sanzioni disciplinari).

Pubblico impiego. Origini storiche

Un altro esempio di rapporti di lavoro speciale ci viene offerto da quei particolari rapporti che intercorrono

tra le amministrazione pubbliche (prima fra tutte lo Stato, nonché gli enti territoriali) ed i prestatori di

lavoro. Tali rapporti, fino agli anni 90, venivano definiti come “di pubblico impiego”. Originariamente tale

figura nacque per disciplinare il lavoro dei c.d. funzionari, i quali rappresentavano l’amministrazione

pubblica e dipendevano dal potere politico. L’impiegato pubblico intratteneva con l’amministrazione un

duplice rapporto: uno organico, o d’ufficio, in base al quale egli era legittimato ad esercitare i poteri

connessi al proprio ufficio, ed uno di servizio, dal quale dipendevano diritti ed obblighi tanto

dell’amministrazione, quanto del lavoratore. Il rapporto organico, tuttavia, prevaleva notevolmente su

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quello di servizio, tanto che la materia era disciplinata dal diritto pubblico amministrativo, il quale

imprimeva al rapporto una supremazia ed un carattere autoritario da cui scaturivano diverse conseguenze:

• Il rapporto non prevedeva contratto, ma solo un “provvedimento di nomina”;

• Il rapporto era disciplinato interamente da leggi e regolamenti in tutti i suoi aspetti;

• La subordinazione era gerarchica, connessa alla struttura degli uffici, e non tecnico-funzionale, ossia

connessa all’adempimento della prestazione lavorativa;

• Il giudice competente era quello amministrativo (TAR in primo grado e Consiglio di Stato in appello).

Tale configurazione, col tempo, ha riguardato sempre più soggetti non investiti di una pubblica funzione

(come invece avveniva per i funzionari) e si applicava anche ai dipendenti di “enti pubblici economici”,

ossia enti che svolgevano un’attività d’impresa in settori in seguito privatizzati (poste, banche, energia).

Solo negli anni 70 la situazione è mutata, coinvolgendo anche l’operato dei sindacati ed attribuendo

rilevanza all’autonomia collettiva.

La L.93/1983, definita come legge-quadro sul pubblico impiego, ha stravolto la materia, distinguendo il

pubblico impiego dal lavoro privato, ma avvicinando notevolmente le due categorie.

Le due fasi della riforma del pubblico impiego e la contrattualizzazione del rapporto

Sono individuabili due fasi nel processo di riforma del pubblico impiego: una avviatasi con la L.421/1992, la

quale ha conferito al Governo la delega per riformare la materia del pubblico impiego, cui sono seguiti

interventi normativi notevoli; l’altra ripresa con la L. 59/1997, la quale ha riaperto il termine della delega

per riformare il lavoro pubblico ed equipararlo maggiormente a quello privato, per giungere ad una

riduzione degli sprechi gestionali e ad un recupero di efficienza nel settore pubblico.

La prima fase ha fatto in modo che venisse “contrattualizzato il rapporto di pubblico impiego”,

programmando un abolizione della giurisdizione amministrativa in materia a favore del giudice ordinario

per quanto riguardava le controversie di lavoro dei pubblici dipendenti. La L.421/1992 ha mantenuto la

distinzione tra lavoro pubblico e privato, riservando al lavoro pubblico lo status di rapporto di lavoro

speciale, anche se di natura privatistica. Inoltre la legge suddetta ha lasciato alla sola disciplina di norme di

legge e di regolamento ben sette materie, inerenti aspetti dell’organizzazione burocratica, organizzazione

degli uffici, ruoli e dotazioni organiche, responsabilità giuridica dei singoli operatori.

La seconda fase, invece, ha previsto anzitutto una delega legislativa in tema di contrattazione collettiva e

rappresentatività sindacale nell’area del lavoro pubblico, nonché un’estensione completa al lavoro

pubblico delle disposizioni del Codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro privato nell’impresa. Oltre a

ciò è stata disposto il completo trasferimento di competenza al giudice ordinario di tutte le controversie

relative al rapporto di lavoro.

Va sottolineato che sotto la disciplina del codice civile non rientrano alcune categorie: magistrati, avvocati

e procuratori dello Stato, personale militare e forze di polizia, personale delle carriere diplomatiche e

prefettizie.

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Profili fondamentali di specialità del rapporto pubblico. Disciplina della dirigenza pubblica

La riforma del lavoro pubblico, pur avendo assoggettato il rapporto in questione all’autonomia privata

individuale e collettiva, non ha eliminato i profili di specialità in riferimento alla prevalenza di un interesse

pubblico. Analizziamoli nel dettaglio.

1. Emerge una prima manifestazione di specialità per quanto concerne il “sistema delle fonti” di

disciplina del lavoro pubblico: la contrattazione collettiva non deve essere continuamente

modificata e stravolta da successivi interventi del legislatore. Per tal motivo i rapporti regolati

contrattualmente, pur essendo modificabili da leggi e regolamenti, permangono in tale stato di

modificazione sino ad un nuovo intervento del contratto collettivo. Gli incrementi retributivi,

inoltre, introdotti dal legislatore, sono in vigore sino a nuova disposizione dei contratti collettivi.

Infine è previsto che la disciplina del lavoro pubblico sotto il profilo retributivo sia derogabile

contrattualmente, ma nel rispetto di quanto previsto dai minimi retributivi imposti dalla

contrattazione collettiva;

2. Un’altra forma di specialità si evince nella definizione della qualifica dirigenziale e delle relative

responsabilità del dirigente. Egli ha sia una responsabilità di indirizzo politico, dovendo attenersi

alle linee guida imposte dal potere politico, sia una responsabilità di direzione amministrativa,

dovendo garantire l’efficienza della P.A. anche per quanto riguarda i rapporti di lavoro.

L’organizzazione dell’apparato a cui è preposto il dirigente e la gestione dei rapporti di lavoro dello

stesso, sono di competenza del dirigente in questione: egli, oltre ad essere responsabili per

l’attuazione dei programmi politici, deve far in modo che la macchina organizzativa funzione e sia

quanto più efficiente ed efficace. Il ruolo dirigenziale si presenta oggi articolato in due fasce: il

passaggio dalla seconda alla prima fascia costituisce un premio ed un’incentivazione al lavoro svolto

dal dirigente, in quanto egli, per potersi attuare il passaggio, deve aver ricoperto per almeno 3 anni

un incarico di direzione di uffici generali, senza essere incorso in alcuna responsabilità dirigenziale.

L’attribuzione di tali incarichi non può avere durata inferiore a tre anni e superiore a cinque. Benché

il rapporto di lavoro dei dirigenti sia stato contrattualizzato, esso non individua le funzioni

dirigenziali, le quali sono previste in un provvedimento di conferimento di incarico, che vada a

specificare oggetto dell’incarico, obiettivi e durata. Gli altri dirigenti, invece, svolgono un ruolo di

ricerca, consulenza e studio, nonché funzioni ispettive od altre funzioni previste dall’ordinamento.

Per evitare l’avvicendarsi continuo di dirigenti in base ai cambiamenti al governo di schieramenti

politici, è previsto il sistema dello “spoilsystem”, secondo cui possono variare solo i vertici apicali

decorsi 90 giorni dalla fiducia data al nuovo Governo: cessa l’incarico, non il rapporto di lavoro, dei

dirigenti uscenti;

3. Un’altra connotazione speciale del lavoro pubblico la possiamo ritrovare nell’intervento del

legislatore in merito ad alcuni istituti di particolare rilievo inerenti il rapporto di lavoro in questione.

Se è vero, infatti, che lo Statuto dei lavoratori si applica anche alle pubbliche amministrazioni

indipendentemente dal numero di dipendenti e che il rapporto di lavoro pubblico è oggi disciplinato

dalle disposizioni codicistiche e dai contratti collettivi, non di meno bisogna sottolineare come il

legislatore sia intervenuto in svariati casi:

• L’assunzione in posti di lavoro pubblico avviene tramite concorso, come costituzionalmente

previsto, ma in due modi diversi: laddove per il posto di lavoro sia richiesta la sola scuola

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dell’obbligo, il reclutamento avverrà tramite i Centri per l’impiego; nel momento in cui,

invece, sono richiesti particolari requisiti, si svolgerà una vera e propria prova di verifica

della professionalità (concorsi), adeguata ai criteri di pubblicità ed imparzialità, nonché a

meccanismi oggettivi di valutazione e rispetto delle pari opportunità;

• Nel lavoro pubblico l’istituto del part-time può essere realizzato solo su richiesta del

lavoratore e concesso dall’amministrazione per cui lavora. Qualora residui il 50% della

prestazione normale, il lavoratore potrà esercitare anche altro lavoro autonomo o

subordinato ed essere iscritto ad albi professionali. L’amministrazione può negare la

concessione del part-time in base a proprie esigenze. La riforma del mercato del lavoro

attuata tramite il D.Lgs.276/2003 non si applica alle pubbliche amministrazioni;

• Anche le amministrazioni pubbliche possono avvalersi di tipologie contrattuali di lavoro

flessibile, ma essendo state escluse dall’applicazione del D.Lgs.276/2003, non possono

utilizzare il contratto a progetto, ma solo e solamente contratti a tempo determinato,

contratti di formazione e lavoro, somministrazione a tempo determinato e contratti di

collaborazione continuativa e coordinata, e tra l’altro solo per esigenze temporanee ed

eccezionali;

• Per ciò che concerne il potere disciplinare e la responsabilità del lavoratore, è previsto un

sistema analogo a quello dell’art.7 dello Statuto dei lavoratori, il quale predilige una sorta di

patteggiamento secondo il quale, in presenza dell’accordo delle parti, il lavoratore viene

sanzionato in misura ridotta rinunciando all’impugnazione delle sanzione stessa. Inoltre le

funzioni del collegio di conciliazione e dell’arbitrato sono devolute allo specifico collegio di

conciliazione per le controversie dei lavoratori pubblici;

• Per quanto riguarda le mansioni, inoltre, va segnalato come il dipendente debba essere

adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a mansioni equivalenti, mentre

l’assegnazione temporanea a mansioni superiori è possibile solo per un periodo di 6 mesi

per carenza di organico, prorogabile a 12 mesi per sostituire un lavoratore che abbia diritto

alla conservazione del posto. L’attribuzione a mansioni superiore, benché dia diritto alla

retribuzione superiore per quel periodo, non costituisce presupposto del diritto alla

promozione;

• Va poi analizzato il caso di eccedenze di personale, disciplinato in maniera totalmente

diversa rispetto al lavoro privato. I lavoratori in eccedenza, infatti, vengono collocati in

“disponibilità” per un periodo massimo di 24 mesi con retribuzione a carico della stessa

amministrazione e pari all’80% della retribuzione base, ma a differenza di ciò che avviene

per la mobilità, la disponibilità non risolve il rapporto di lavoro, in quanto nella maggior

parte dei casi il lavoratore verrà riutilizzato diversamente con il consenso dello stesso.

4. Ultimo profilo di specialità è rinvenibile nella disciplina delle controversie relative al rapporto di

lavoro pubblico. Abbiamo già precisato che tali controversie devono essere, oggi, risolte dal giudice

ordinario ed è stato reso necessario anche il tentativo di conciliazione. Rimangono di competenza

del giudice amministrativo le sole controversie inerenti le assunzioni in seguito a concorso pubblico

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(quelle senza concorso sono competenza del giudice ordinario) e quelle relative ai rapporti non

contrattualizzati.

Contrattualizzazione del lavoro pubblico ed interessi generali

Nonostante per molti aspetti il lavoro pubblico sia stato parificato, in termini di disciplina, a quello privato,

trasformandosi così da rapporto di impiego in contratto di lavoro, permane un collegamento funzionale

NECESSARIO tra il rapporto e l’interesse istituzionale della pubblica amministrazione all’organizzazione dei

propri uffici, che si estrinseca nel potere negoziale per le micro-organizzazioni dei rapporti di lavoro,

pertanto simili all’organizzazione del lavoro privato, ma nella natura pubblicistica o istituzionale delle

macro-organizzazione inerenti gli atti generali di organizzazione. La potestà di autorganizzazione della

pubblica amministrazione prevale, quindi, sui connotati privatistici della disciplina del rapporto e dei poteri

del datore di lavoro.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: il Governo Berlusconi entrato in carica nel 2008 ha

deciso di riformare nuovamente la disciplina del lavoro pubblico, per rendere la macchina pubblica italiana

maggiormente efficiente tramite un’opera di risanamento e ristrutturazione. Un primo intervento è stato

attuato dal D.L.112/2008, con cui si opera una riduzione della spesa pubblica attuando uno specifico piano

in tema di reclutamento, di alcuni istituti del rapporto di lavoro e di relazioni sindacali. Anzitutto è stato

arrestato il turn-over inerente le assunzioni, in quanto le pubbliche amministrazioni devono adeguare

l’organico di cui dispongono alle proprie funzioni. Per far fronte all’assenteismo, inoltre, è stato previsto un

nuovo regime di giustificazioni in caso di assenze per malattia, oltre all’intensificazione dei controlli ed alla

previsione che nei primi 10 giorni di malattia venga corrisposto il solo trattamento economico

fondamentale.

Altro istituto ad essere toccato dalla riforma è stato quello del lavoro part-time pubblico: non è più diritto

del lavoratore chiedere la trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale, ma si tratta di

una concessione dell’amministrazione. Inoltre l’accesso all’assunzione part-time è ora più agevole per la

PA: sebbene per le esigenze ordinarie essa sia tenuta ad assumere a tempo indeterminato, per le esigenze

secondarie a carattere temporaneo essa può, al pari delle imprese private, far ricorso all’istituto del lavoro

part-time, nonché ad altre forme contrattuali di lavoro flessibile, utilizzando il medesimo lavoratore con

più tipologie contrattuali, sebbene per un limitato periodo di tempo (3 anni in un quinquennio).

Anche la materia della cessazione del rapporto di lavoro è stata profondamente innovata:

• E’ stato introdotto l’esonero dal servizio, il quale può essere richiesto dai lavoratori a cui manchino

5 anni al raggiungimento del 40esimo anno di contribuzione: l’amministrazione può concedere, a

sua discrezione, tale esonero, retribuendo per 5 anni il lavoratore al 50% della sua retribuzione

economica e garantendogli il 100% di quella contributiva, in modo tale che il lavoratore accederà

alla pensione come se avesse lavorato normalmente in quei 5 anni;

• Sono state apportate modifiche per il trattenimento in servizio: il lavoratore può farne richiesta un

anno prima del compimento dell’età massima prevista dal proprio ordinamento; l’amministrazione

ha la facoltà di negare o concedere il trattenimento, salvo il caso di soggetti che non siano ancora in

possesso dei requisiti pensionistici;

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• Indipendentemente dall’età anagrafica, inoltre, la PA può risolvere il contratto qualora il lavoratore

abbia raggiunto i 40 anni di servizio, dando un preavviso di almeno 6 mesi.

Si è ribadita, inoltre, la responsabilità dei dirigenti per violazione di norme imperative nella costituzione di

rapporti di lavoro (che non danno mai vita, nella PA, alla costituzione del rapporto di lavoro a tempo

indeterminato, ma che danno diritto al risarcimento del danno per il lavoratore).

La L.15/2009, poi, al fine di migliorare la produttività del lavoro pubblico e l’efficienza, oltre che la

trasparenza, delle pp.aa., ha concesso una delega al Governo per intervenire su alcuni aspetti del lavoro

pubblico, quali:

• il sistema delle fonti in materia di lavoro pubblico, per cui è stato previsto che la deroga concessa ai

contratti collettivi in materia può operare solo per espressa previsione di legge;

• la disciplina della dirigenza: il dirigente deve essere indipendente del tutto dalla politica e dai

sindacati; deve avere una responsabilità maggiore, rispondendo anche economicamente del

proprio operato; deve accedere alla prima fascia dirigenziale tramite concorso. E’ limitato, inoltre, il

ricorso a dirigenti esterni;

• il miglioramento del sistema di valutazione delle pp.amm, dei loro dirigenti e dipendenti, con

l’introduzione di un’Autorità indipendente che garantisca trasparenza dei sistemi di valutazione,

affidata alla Corte dei conti ed agli stessi cittadini/utenti;

• il sistema disciplinare, il quale deve mirare al miglioramento dell’efficienza dei vari uffici,

potenziandone la produttività e combattendo l’assenteismo. Sono state precisate, infatti, alcune

tipologie di infrazioni suscettibili di licenziamento.

SEZIONE B: RAPPORTI SPECIALI DI LAVORO CARATTERIZZATI DALLA TIPICITA’ DELLA POSIZIONE DEL

DATORE E/O PRESTATORE DI LAVORO

Cenni generali

Si procede con l’analisi di tutti quei rapporti di lavoro qualificati come “speciali” non in forza di un interesse

pubblico, bensì della posizione del datore e/o del prestatore di lavoro. Tuttavia non è la semplice diversità

normativa a caratterizzare il rapporto di lavoro speciale, in quanto occorre che tale diversità incida su

elementi del rapporto di lavoro subordinato tipico (collaborazione, subordinazione, retribuzione) indicato

dall’art. 2094 c.c., come avviene per il lavoro subordinato a domicilio, per il lavoro sportivo e per diversi

altri.

Lavoro subordinato a domicilio: definizione e caratteristiche

La nozione di lavoratore subordinato a domicilio la ritroviamo all’interno dell’art.1 della L.877/1973, dove è

previsto che si per lavoratore a domicilio si intenda “chiunque, con vincolo di subordinazione, nel proprio

domicilio o in locale di cui abbia la disponibilità, anche con l’aiuto di membri familiari conviventi e a carico,

ma esclusi apprendisti o manodopera salariata, eserciti un lavoro retribuito per conto di uno o più

imprenditori, utilizzando materie prime ed attrezzature proprie o dello stesso imprenditore”. Quindi,

anzitutto vediamo come il legislatore abbia voluto evitare la condotta, in passato molto spesso posta in

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essere, di quegli imprenditori che, per sfruttare il lavoro a domicilio, utilizzavano la prestazione di

manodopera esterna all’azienda, regolando il rapporto come lavoro autonomo o come appalto.

Il comma 2 del suddetto articolo precisa, poi, la distinzione tra lavoratore subordinato a domicilio e

lavoratore autonomo, prevedendo e sottolineando il vincolo di subordinazione esistente nel primo caso, il

quale obbliga il lavoratore ad attenersi alle direttive dell’imprenditore nell’esecuzione della prestazione. Si

tratta, è appena il caso di dirlo, di una subordinazione tecnico-funzionale per cui è sufficiente attenersi al

potere direttivo dell’imprenditore, senza esserne alle dirette dipendenze.

Ovviamente è necessario che il committente, nel caso di cui stiamo trattando, sia un imprenditore,

altrimenti si tratta di lavoro autonomo, così come è necessario che l’attività venga svolta in locali

direttamente riconducibili al prestatore di lavoro.

Nel lavoro subordinato a domicilio si realizza un vero e proprio decentramento dell’attività di impresa,

collocando all’esterno una parte di essa, sebbene il prestatore, in tal caso, goda di un determinato potere

di gestione.

Disciplina del lavoro subordinato

La prestazione oggetto del contratto di lavoro subordinato a domicilio non può, in alcun modo, riguardare

attività che comportino l’impiego di sostanze nocive o pericolose, così di fatto escludendo la possibilità di

violare le norme di tutela sul posto di lavoro. E’ vietato, inoltre, affidare lavoro a domicilio per la durata di

un anno, a tutte quelle aziende che abbiano disposto licenziamenti, così salvaguardando l’impiego della

manodopera nelle imprese.

Per quanto riguarda, invece, la durata del lavoro e la retribuzione, essendo inipotizzabile un controllo sulla

durata effettiva dell’attività lavorativa, il prestatore di lavoro a domicilio potrà essere retribuito solo a

cottimo, ossia in funzione del risultato produttivo, ed in nessun caso a tempo. Le tariffe per la retribuzione

a cottimo pieno, inoltre, dovranno evincersi dalla contrattazione collettiva di categoria.

Particolare è la disciplina della concorrenza tra imprenditore e lavoratore: se il primo ha affidato al

secondo una quantità di lavoro tale da procurargli una prestazione lavorativa corrispondente all’orario

normale di lavoro, il secondo non potrà in alcun modo entrare in concorrenza con l’impresa.

L’impiego di lavoratori a domicilio, inoltre, è consentito solo previa comunicazione di un’apposita richiesta

agli organi istituiti dalle Regioni (la materia è stata modificata dalla riforma dei servizi per l’impiego).

Imprenditore e lavoratore, infine, sono tenuti alla conservazione di una documentazione scritta dalla quale

si possa evincere, in qualsivoglia momento, l’oggetto della prestazione, la durata e la retribuzione, nonché

(solo per l’imprenditore) l’individuazione dei prestatori di lavoro subordinato a domicilio.

Il lavoro domestico

Il lavoro domestico è caratterizzato da una prestazione eseguita nell’abitazione del datore di lavoro o, per

meglio dire, in convivenza con lo stesso. La disciplina è contenuta all’interno degli artt.2240 al 2246 c.c. ed

all’interno della L.339/1958, che non ha sostituito gli articoli codicistici, in quanto ha ad oggetto solo

prestazioni continuative e di almeno 4 ore giornaliere.

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La contrattazione collettiva in materia si è avuta solo recentemente, in quanto l’art.2068 comma 2 c.c.,

oggi abrogato, non permetteva alla stessa di disciplinare il lavoro domestico.

Contenuto ed oggetto del lavoro domestico sono i medesimi del lavoro subordinato in genere. Va aggiunto

che nel calcolo della retribuzione sono inclusi il vitto e l’alloggio del prestatore, in quanto convivente con il

datore di lavoro, che deve provvedere, in caso di malattia del prestatore, alle cure ed all’assistenza medica

dello stesso. E’ esclusa, dato l’ambito familiare in cui si attua questo tipo di lavoro, la tutela obbligatoria

tanto quanto quella reale contro i licenziamenti. Il datore di lavoro deve, al pari delle situazioni generali,

garantire il riposo settimanale, nonché quello giornaliero e notturno.

Per ciò che concerne durata del periodo di prova e ferie, il legislatore attua una distinzione tra lavoratori

con mansioni impiegatizie e prestatori d’opera manuale, riservando un trattamento di minor favore ai

secondi per ciò che concerne l’indennità di mancato preavviso.

Il lavoro sportivo

Il lavoro sportivo configura un altro rapporto speciale di lavoro subordinato, all’interno del quale figurano

come datore di lavoro una società sportiva e come prestatore uno sportivo professionista, intendendosi

con tale definizione gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici che esercitano

l’attività sportiva a titolo oneroso per un periodo di tempo continuativo nell’ambito di discipline regolate

dal CONI ed avendo conseguito tale qualificazione dalle federazioni sportive nazionali con l’osservanza di

direttive stabilite dal CONI per la differenziazione tra attività dilettantistica e professionistica.

La subordinazione, nel caso di lavoro sportivo, ricorre solo se l’attività sportiva è esercitata

continuativamente ed il rispetto di uno dei tre requisiti che andiamo adesso ad elencare, presuppone

l’assenza della subordinazione stessa, configurando il lavoratore come autonomo. I requisiti sono i

seguenti: svolgimento dell’attività nell’ambito di una sola manifestazione o di poche manifestazioni in un

breve periodo di tempo; mancanza del vincolo contrattuale di osservanza di sedute di preparazione e

allenamento; prestazione continuativa sportiva che non superi le 8 ore settimanali, i 5 giorni mensili o i 30

giorni annuali.

I contratti sportivi devono rispettare la forma scritta secondo i contratti tipo predisposti dalle federazioni

nazionali mediante accordo triennale; ogni clausola peggiorativa della condizione dell’atleta è

automaticamente sostituita da quella dei contratti-tipo. I contratti individuali devono essere depositati

dalla società stipulante presso la federazione per essere convalidati. Per rispettare, poi, il vincolo di

subordinazione, l’atleta deve essere tenuto all’osservanza degli scopi agonistici e delle istruzioni tecniche

impartitegli.

Non si applica la disciplina limitativa dei licenziamenti individuali. Il contratto può avere durata massima di

5 anni, rinnovabile alla scadenza. Frequente è, inoltre, la cessione del contratto da una società sportiva ad

un’altra prima della scadenza contrattuale, previo consenso dell’atleta. E’ stato, inoltre, abolito il vincolo

sportivo, consentendo allo sportivo professionista di recedere unilateralmente dal contratto. Unico vincolo

si ha per gli atleti il cui addestramento e la cui formazione tecnica sono stati assicurati da una società

sportiva, che ha il diritto di stipulare con lo stesso il primo contratto professionistico.

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SEZIONE C: I CONTRATTI DI LAVORO CON FINALITA’ FORMATIVA

Origini del contratto di apprendistato

Il contratto di apprendistato, dal Codice definito come tirocinio e disciplinato negli artt.2130 al 2134 c.c.,

risale agli statuti corporativi del Medioevo: già all’epoca, infatti, esisteva l’apprendista, colui che, tramite

un tirocinio d’arte o una professione inquadrata nella corporazione, mirava a diventare maestro o socio

dell’artigiano, per poter esercitare il mestiere. Quindi l’apprendistato, per propria definizione, fa in modo

che un soggetto impari un mestiere ed acquisisca delle competenze professionali utili nell’esercizio della

propria attività e questo è ciò che per lungo tempo è avvenuto, anche in epoca moderna. Infatti giovani

bisognosi, col passare del tempo ed attraverso un tirocinio, hanno acquisito una qualifica professionale che

gli ha assicurato un posto di lavoro.

Con l’evolversi della società e l’alternarsi dell’organizzazione taylorista e fordista all’industria tecnologica,

l’apprendistato ha conosciuto un netto periodo di crisi, in quanto la maggior parte delle mansioni sono

risultate per diverso tempo troppo elementari e per altrettanto tempo troppo complicate. Oggi non è

sufficiente un semplice addestramento o tirocinio, ma occorre una formazione professionale adeguata,

ecco perché il contratto di apprendistato è stato notevolmente rivisto, dopo essere stato utilizzato solo e

solamente nell’artigianato, mentre la medio grande impresa prediligeva il contratto di formazione e lavoro.

Il D.Lgs. 276/2003 ha previsto un nuovo apprendistato, distinto in tre diverse specie, che ha abbracciato

anche uno dei tipi del vecchio c.f.l., mentre il secondo tipo si è trasformato nel contratto di inserimento, il

quale più che mirare alla formazione di un soggetto, mira all’occupazione di lavoratori appartenenti a fasce

deboli.

Le tre specie di contratto di apprendistato

Abbiamo detto che esistono tre tipologie di apprendistato:

1. Qualificante: serve ad espletare il diritto-dovere di istruzione e formazione, ossia a conseguire una

qualifica professionale da parte di soggetti che abbiano compiuto il 15esimo anno di età e può

durare al massimo 3 anni;

2. Professionalizzante: serve ad acquisire una qualificazione attraverso la formazione sul lavoro, ed è

destinato ai giovani tra i 18 ed i 29 anni. Può durare da un minimo di 2 anni ad un massimo di 6,

anche se la durata è stabilita dai contratti collettivi;

3. Specializzante: serve per l’acquisizione di titoli di studio secondari ed universitari, nonché di alta

formazione o di specializzazione tecnica superiore. E’ rivolto ai giovani tra i 18 ed i 29 anni. Durata e

regolamentazione sono rimesse alle Regioni per quanto concernente la formazione. Fino

all’emanazione delle leggi regionali, tale disciplina è rimessa alla contrattazione collettiva.

Profilo causale. Fonti di regolazione del nuovo apprendistato

Il vecchio contratto di apprendistato disciplinato all’interno del Codice civile prevedeva che il datore di

lavoro si avvalesse della prestazione lavorativa dell’apprendista, impartendogli l’insegnamento necessario

per diventare un lavoratore qualificato e corrispondendogli una retribuzione per il lavoro svolto.

La situazione, con il nuovo apprendistato diviso in tre tipologie, non è mutata. Si mira sempre alla

formazione dell’apprendista ed alla sua retribuzione, sebbene la prima funga da obbligazione primaria del

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datore di lavoro. Il problema è nella disciplina, in quanto il D.Lgs.276/2003 non ha regolamentato, se non

sotto i profili essenziali, la materia. Si ritiene che debba applicarsi la disciplina del contratto di lavoro

subordinato a tempo indeterminato.

Disciplina contrattuale e del rapporto di lavoro nelle tre specie di apprendistato

Il D.Lgs.276 detta una serie di principi valevoli per le tre tipologie di apprendistato. Anzitutto il numero di

apprendisti alle dipendenze di un datore di lavoro non può superare il 100% dei lavoratori qualificati già

dipendenti. Se il datore non ha lavoratori o ne ha meno di tre, potrà assumere 3 apprendisti. Inoltre gli

apprendisti non possono avere una categoria di inquadramento di oltre 2 livelli inferiore rispetto ai

lavoratori addetti a mansioni che richiedono le qualificazioni che l’apprendista raggiungerà al termine della

formazione. Sono previsti degli incentivi di carattere normativo ed economico a favore di imprese che

accoglieranno apprendisti al proprio interno.

Il decreto in questione, inoltra, fissa dei principi comuni per ciò che riguarda l’apprendistato qualificante e

quello professionalizzante, lasciando escluso e privo di disciplina il terzo tipo, quello specializzante. Per i

primi due è previsto che il contratto rispetti la forma scritta ad substantiam e che contenga la prestazione

lavorativa oggetto dello stesso contratto ed un piano di formazione individuale per il soggetto con

individuazione della relativa qualifica. L’apprendista, inoltre, deve essere retribuito a tempo e non a

cottimo. Il datore di lavoro, al termine dell’apprendistato può liberamente recedere dal contratto,

dandone preavviso, mentre in costanza del rapporto non può recedere se non per giusta causa o

giustificato motivo. I periodi di apprendistato del primo tipo possono sommarsi a quelli del secondo tipo

per il raggiungimento dell’obiettivo formativo del secondo, ossia per il riconoscimento di una qualifica

professionale.

Formazione professionale nelle 3 forme di apprendistato

Spetta alle leggi regionali stabilire la disciplina relativa ai tre tipi di apprendistato. Se, però, per quanto

concerne il terzo tipo non vi è alcun vincolo previsto dal decreto 276, per il primo e secondo tipo di

apprendistato sono previsti dei criteri direttivi, che limitano l’operato delle Regioni.

Uno di questi limiti è costituito da un tetto di ore minimo di formazione esterna o interna all’azienda,

congruo al raggiungimento della qualifica (per l’apprendistato del secondo tipo deve essere di almeno 120

ore annue).

Per entrambe le forme di apprendistato, inoltre, l’apprendista ha diritto a conseguire la qualifica

professionale inerentemente al percorso di formazione interna o esterna all’impresa, la quale deve essere

registrata su un libretto formativo. L’apprendista deve essere affidato ad un tutor aziendale che abbia

competenze adeguate.

La materia, comunque, resta di competenza concorrente tra Stato e Regioni.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: La L.133/2008 di conversione del D.L.112/2008, sulla

scorta di un precedente Protocollo tra Governo e Parti sociali del 2007, ha modificato la materia

dell’apprendistato del secondo (professionalizzante) e del terzo tipo (specializzante), lasciando inutillizabile

il primo.

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Per l’apprendistato professionalizzante è stato prevista la soppressione della durata minima di 2 anni,

lasciando inalterata la durata massima di 6 e rimettendo alla contrattazione collettiva la decisione circa la

durata dello stesso. Sotto il profilo della formazione è stato introdotto un canale parallelo di formazione

interamente previsto dalla contrattazione collettiva, con l’esclusione della competenza regionale.

Per l’apprendistato specializzante è stato previsto che esso possa essere utilizzato per conseguire il titolo di

dottore di ricerca in ambito universitario. Tale tipologia di apprendistato, inoltre, tramite una convenzione

tra Università e datore di lavoro, può operare anche in assenza di regolamentazioni regionali. Infine è stata

estesa anche all’apprendistato specializzante la disciplina di quello professionalizzante per ciò che

concerne gli incentivi ed i principi disciplinanti (forma scritta, compenso NON a cottimo ecc).

Inoltre la nuova disciplina ha abrogato, a grandi linee, gran parte della vecchia inerente l’apprendistato

(visita sanitaria preassuntiva degli apprendisti, informativa semestrale alla famiglia, comunicazione alla

Regione degli apprendisti e dei relativi tutori aziendali per la formazione esterna).

Contratto d’inserimento. Progetto individuale d’inserimento

Il D.Lgs.276 disciplina il contratto di inserimento, un nuovo tipo di contratto che, tramite l’adattamento

delle competenze professionali del lavoratore ad un determinato contesto lavorativo, mira a favorire

l’inserimento di lavoratori appartenenti alle c.d. fasce deboli del mercato. Anche qui si ha una finalità

formativa, su cui però è preponderante l’inserimento del lavoratore.

Per quanto riguarda i lavoratori, possono accedere alla stipulazione di un contratto d’inserimento:

• Giovani di età compresa tra i 18 ed i 29 anni;

• Disoccupati di lunga durata di età compresa tra i 29 ed i 32 anni;

• Lavoratori con più di 50 anni di età privi di posto di lavoro;

• Donne di qualsiasi età appartenenti ad aree geografiche il cui tasso di occupazione femminile sia

inferiore del 20% rispetto a quello maschile, o il cui tasso di disoccupazione femminile sia superiore

del 10% rispetto a quello maschile;

• Lavoratori che vogliono riprendere l’attività lavorativa e che non lavorino da almeno 2 anni;

• Soggetti affetti da grave handicap fisico, psichico o mentale.

Per ciò che concerne i datori di lavoro, invece, possono stipulare il contratto d’inserimento:

• Enti pubblici economici;

• Imprese e consorzi;

• Gruppi di imprese;

• Associazioni professionali, sportive e socio-culturali;

• Fondazioni;

• Enti di ricerca pubblici e privati;

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• Organizzazioni ed associazioni di categoria.

Sono esclusi i datori di lavoro che non abbiano mantenuto in servizio almeno il 60% dei lavoratori il cui

contratto di inserimento sia scaduto nei 18 mesi precedenti, salvo che si tratti di un solo contratto scaduto.

Per la validità del contratto il datore di lavoro deve aver predisposto, d’accordo con il lavoratore, un

progetto di inserimento individuale. I piani individuali possono scaturire, anche, da contratti collettivi

nazionali o territoriali. La formazione eventualmente maturata deve essere registrata sul libretto

formativo.

Disciplina del contratto d’inserimento e del rapporto di lavoro. Incentivi economici

Per il contratto d’inserimento è prevista la forma scritta ad substantiam, oltre alla previsione del piano

individuale d’inserimento: in mancanza dell’osservanza di queste regole, il lavoratore si considera assunto

a tempo indeterminato.

Il contratto stesso non può avere durata inferiore ai 9 mesi e superiore ai 18 (36 per portatori di handicap).

Il rinnovo del contratto è vietato, ma è concessa la proroga di altri 18 mesi (36 per i portatori di handicap).

Si applica la disciplina del contratto a tempo determinato così come prevista dal D.Lgs.368/2001, salvo che

i contratti collettivi non stabiliscano diversamente.

Analogamente a quanto previsto per l’apprendistato, il lavoratore, durante il rapporto, non può avere una

categoria d’inquadramento inferiore di più di due livelli a quella dei lavoratori regolarmente assunti le cui

mansioni corrispondano alla qualifica che il lavoratore vuole conseguire.

I lavoratori assunti con contratto d’inserimento non possono essere computati nei limiti numerici previsti

da leggi o contratti collettivi per l’applicazione di determinate normative. Inoltre i datori di lavoro hanno

diritto ad incentivi economici per la stipulazione di contratti d’inserimento, che perdono in caso di gravi

inadempienze nella realizzazione del progetto individuale di inserimento.

Il contratto di formazione e lavoro (c.f.l.)

Il contratto di formazione e lavoro è stato totalmente vietato, all’interno del settore privato, dalla riforma

del mercato del lavoro del 2003. Tuttavia, essendo ancora possibile stipularlo da parte delle pubbliche

amministrazioni, è doverosa una trattazione dell’argomento, ricordando che la riforma suddetta non ha

riguardato il settore pubblico.

Con il c.f.l. possono essere assunti lavoratori tra i 16 ed i 32 anni ed esistono due tipologie di c.f.l.: una

destinata all’acquisizione di professionalità intermedie o elevate, nella quale prevale una finalità formativa,

l’altra volta ad agevolare l’inserimento professionale del giovane dopo un adeguamento delle proprie

capacità professionali, in cui prevale appunto l’inserimento occupazionale. Come possiamo notare, la

prima tipologia di c.f.l. assomiglia all’apprendistato, mentre la seconda è quasi identica al contratto di

inserimento.

Il c.f.l. di primo tipo può avere durata massima di 24 mesi, mentre quello di secondo tipo può durare 12

mesi. Inoltre le amministrazioni interessate devono predisporre un progetto formativo (un po’ come

avviene per l’inserimento), da sottoporsi all’approvazione preventiva di competenti organi individuati dalle

regioni, salvo che il progetto non sia conforme a quanto previsto dall’autonomia collettiva.

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Anche in caso di c.f.l. vi sono, poi, dei tetti orari di formazione teorica oltre all’attività lavorativa: 20 ore per

la seconda tipologia ed 80 e 130 per la prima.

Il contratto di formazione e lavoro deve essere stipulato in forma scritta ad substantiam e copia del

contratto deve essere consegnata al lavoratore. La disciplina contrattuale è quella del rapporto di lavoro

subordinato in generale, almeno per le parti non derogate da leggi speciali.

Alle amministrazioni pubbliche che stipulano questo tipo di contratti vengono garantiti incentivi economici,

consistenti in una ridotta contribuzione previdenziale, che la Commissione Europea ha ritenuto, in alcuni

casi, configurare l’ipotesi di aiuti di Stato alle imprese, pertanto vietati. Ecco perché il c.f.l. è stato vietato

per quanto concerne il settore privato.

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CAPITOLO DECIMO – TUTELA DEL LAVORATORE NEL MERCATO DEL LAVORO

Tutela del lavoratore nel mercato del lavoro: diritto al lavoro

L’art.4 della Costituzione italiana del 1948 sancisce il diritto al lavoro di qualsiasi cittadino, sottolineandone

l’importanza, al comma 2, anche dal punto di vista del dovere. Il diritto al lavoro contempera due interessi

diversi: quello del cittadino a poter accedere ad un’attività lavorativa tramite la quale esprimere le proprie

capacità e quella del soggetto a poter percepire, in cambio proprio dell’attività lavorativa, una retribuzione

che funga da mezzo di sostentamento dell’individuo. Se, infatti, il lavoratore è visto come appartenente ad

una categoria socialmente sottoprotetta e parte debole a livello contrattuale già all’interno del rapporto di

lavoro, dal punto di vista sociale il singolo soggetto bisognoso di un’attività lavorativa è di per sé debole, in

quanto necessita di un’attività lavorativa per poter ricavare un reddito.

Da un diverso punto di vista, l’art.41 comma 1 della Costituzione garantisce la libertà d’iniziativa

economica privata (vincolata alla sicurezza, libertà e dignità della persona, nonché all’utilità sociale), la

quale esprime la possibilità del soggetto di poter esercitare un’attività d’impresa.

La tutela del diritto al lavoro si scontra obbligatoriamente con le decisioni economiche delle imprese: per

questo motivo la disciplina del mercato del lavoro deve regolare le relazioni di interdipendenza tra

DOMANDA ed OFFERTA. Ruolo preminente, in tal senso, assume l’attività dei pubblici poteri, i quali devono

garantire da un lato politiche economiche volte a far crescere le attività e gli investimenti produttivi, e

dall’altro devono combattere la disoccupazione. Quest’ultima, tra l’altro, determina non solo la perdita del

reddito, ma anche l’esclusione sociale di tutti coloro che ne sono colpiti, ed è per tal motivo che contro la

disoccupazione si è mossa anche l’Unione Europea, promuovendo lo sviluppo del livello occupazione come

proprio obiettivo e cercando di garantire, tramite l’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri, un

sistema europeo in grado di accogliere i lavoratori di qualsiasi cittadinanza.

SEZIONE A: I SERVIZI ALL’IMPIEGO

Le origini dell’istituto del collocamento

Ruolo preminente, tra i servizi all’impiego, spetta sicuramente all’istituto del collocamento, per mezzo del

quale si realizza un primo incontro tra domanda ed offerta nel mercato di lavoro, antecedente

all’instaurazione dei vari rapporti lavorativi. Con esso il legislatore mira a contrastare tanto la

disoccupazione strutturale, quanto quella frizionale, ossia derivata dall’andamento ciclico dell’economia.

Nel periodo corporativo le leggi del tempo introdussero il monopolio pubblico del collocamento: nessun

intermediario privato avrebbe potuto fungere da tramite tra domanda ed offerta. Tale principio, tra l’altro,

è stato mantenuto anche all’interno della prima legge successiva alla caduta del sistema corporativo, la

L.264/1949, la quale ha previsto che il collocamento vada a realizzare l’equa ripartizione delle occasioni di

lavoro mediante la c.d. richiesta numerica: le imprese indicano di quanto personale e di quali categorie

necessitano, mentre è il collocamento ad occuparsi dell’avviamento della forza lavoro.

Dal controllo pubblico sull’incontro tra domanda ed offerta di lavoro alle politiche attive per

l’occupazione

Durante il periodo del boom economico italiano, avvenuto tra gli anni 50 e 60 del secolo scorso, e

soprattutto in seguito ad esso, la disciplina dei servizi per l’impiego è risultata sempre più insufficiente e

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carente. Occorreva trasformare la semplice struttura amministrativa in una vera e propria attività per

garantire l’incontro tra domanda ed offerta.

Il collocamento, rimasto d’attualità solo nell’area delle assunzioni obbligatorie, si è dimostrato insufficiente

per realizzare un sempre crescente impiego e per tal motivo si è trasformato, nel corso del tempo, in un

sistema integrato di servizi per favorire la crescita del livello occupazionale: in un primo momento si è

passati dalla richiesta numerica alla richiesta nominativa (le imprese indicavano il nome del lavoratore da

assumere) ed in seguito addirittura all’assunzione diretta, svuotando di significato lo stesso collocamento.

Inoltre quest’ultimo ha perso il carattere monopolistico che aveva in precedenza, per lasciar spazio ad

operatori privati con identico ruolo d’intermediazione nel mercato del lavoro.

Sono nati, proprio per attuare una politica attiva della manodopera, sistemi formativi per garantire che le

imprese trovino lavoratori professionalmente pronti per essere impiegati nella forza lavoro.

Riforma del mercato del lavoro operata dal decentramento amministrativo

La normativa in materia di servizi per l’impiego è stata ampiamente modificata in seguito alla riforma del

titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001.

Prima di essa, tuttavia, nel 1997 si era attuato un sistema decentrato, con l’attribuzione alle Regioni di un

notevole numero di competenze, in sostituzione di un sistema centralizzato non più in grado di rispondere

alle esigenze ed all’evoluzione del mercato del lavoro.

Il decentramento amministrativo ha previsto la costituzione, a livello provinciale, di Centri per l’impiego, in

sostituzione dei precedenti uffici del collocamento, ed ha soppresso la Commissione centrale per l’impiego,

sostituendola con la Conferenza Stato-Regioni per i relativi compiti.

Molte introduzioni a livello regionale attuate dal decentramento, inoltre, sono state col tempo dichiarate

illegittime dalla Corte costituzionale, in quanto configgenti con l’autonomia delle Regioni, già riconosciuta

in determinate materie prima della riforma costituzionale del 2001.

Un’importante innovazione è stata costituita dal Servizio Informativo Lavoro (SIL), il quale ha posto in

essere una rete di governo del mercato del lavoro, introducendo una sezione anagrafica nella quale

iscrivere i lavoratori in cerca di occupazione, con le relative schede professionali, in modo tale da garantire

tanto agli intermediari quanto alle aziende un database a loro disposizione.

La riforma costituzionale

La L.Cost.3/2001, la quale ha riformato il Titolo V della seconda parte della Costituzione, ha continuato

nell’opera di decentramento attuata in precedenza, facendo rientrare la materia di “tutela e sicurezza del

lavoro”, e quindi anche la disciplina dei servizi all’impiego, nella competenza concorrente tra Stato e

Regioni, laddove è previsto che lo Stato fissi i principi fondamentali e la Regione, attenendosi ad essi,

disciplini la materia nel dettaglio. Questa previsione ha permesso alle Regioni di attuare un decentramento

dei servizi e degli uffici, dapprima impossibile, introducendo anche strumenti di formazione utili per la

preparazione dei lavoratori ad operare nelle imprese.

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Disciplina dei servizi per l’impiego. Le politiche sociali comunitarie.

Le discipline normative contenute nel provvedimento di decentramento amministrativo e di riforma

costituzionale, hanno portato all’abrogazione delle norme contenute nella legge del 1949 sul

collocamento, oggi non più visto come struttura di regolazione dell’incontro tra domanda e offerta, ma

come servizio per l’impiego. L’unico operatore monopolistico del collocamento, è stato sostituito dalle

agenzie per il lavoro, operatori privati che si occupano di gestire il mercato del lavoro, iscritti in appositi

albi ed a cui è imposto il divieto di percepire compensi dal lavoratore che vanno ad aiutare, salvo specifici

casi (lavoratori altamente professionalizzati e specifici servizi). Il D.Lgs.276 ha previsto 5 tipi di agenzie per

il lavoro:

• Agenzie di somministrazione del lavoro, adibite a svolgere i compiti previsti dall’art.20;

• Agenzie di somministrazione a tempo indeterminato, adibite a svolgere una sola funzione prevista

dall’art.20;

• Agenzie di intermediazione;

• Agenzie di ricerca e selezione del personale;

• Agenzie di supporto alla ricollocazione del personale.

Le agenzie di somministrazione del lavoro possono svolgere anche attività di intermediazione, di ricerca e

selezione del personale e di supporto alla ricollocazione dello stesso. Le agenzie di intermediazione

possono svolgere anche attività di ricerca e selezione, nonché di ricollocazione del personale.

Le agenzie che percepiscano compensi dai lavoratori, in cambio dei propri servizi, sono soggette a sanzione

penale ed a cancellazione dall’albo.

Anche altri soggetti possono affiancarsi alle agenzie: università pubbliche e private, associazioni di datori di

lavoro e lavoratori più rappresentative che stipulino contratti collettivi, associazioni nazionali di tutela ed

assistenza degli imprenditori, del lavoro e della disabilità, così come le camere di commercio, i comuni, le

scuole medie superiori, fondazioni volte a tal scopo.

Le competenze provinciali sono rimaste intatte così come previsto dal D.Lgs.469/1997, ritenute dalla Corte

costituzionale legittime purché operanti in continuità con le regioni.

E’ stata istituita, inoltre, la Borsa continua nazionale del lavoro, un sistema aperto di incontro tra domanda

ed offerta di lavoro, a cui possono accedere tanto imprenditori quanto lavoratori in cerca di occupazione o

di un cambio di occupazione. Esso è stato affiancato al SIL e la diffusione dei dati immessi deve essere

autorizzata dai soggetti che vi accedono.

Inoltre, è stato ribadito dal D.Lgs.276/2003 il principio di non discriminazione nell’effettuare indagini,

trattamento di dati o preselezione di lavorato: queste operazioni, infatti, non possono essere svolte sulla

base di discriminazioni di qualsivoglia genere, se non nel caso di attività lavorativa per cui sia necessaria

una determinata situazione (religiosa, culturale o di altro tipo).

I Centri per l’impiego istituiti presso le Province hanno oggi il mero ruolo di accertamento dello stato di

occupazione/disoccupazione, utile per l’erogazione di sussidi.

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Quindi, nell’ottica delle modificazioni apportate dai vari interventi legislativi, il disoccupato deve assumere

un atteggiamento attivo nella ricerca di un lavoro, onde evitare di permanere nel suo stato di inattività. Lo

stato di disoccupazione viene meno nel momento in cui il soggetto inizia a lavorare o non si presenti, senza

giustificato motivo, ad una convocazione del Centro per l’impiego oppure rifiuti una congrua offerta di

lavoro nell’ambito del bacino territoriale di appartenenza.

Sui datori di lavoro grava, poi, l’obbligo di comunicazione ai Centri per l’impiego in caso di modificazione

delle originarie condizioni di assunzione di un lavoratore, per sopravvenute modifiche contrattuali.

Il servizio offerto dalle amministrazioni locali, quindi, si configura come un servizio pubblico a sostegno

dell’occupazione, in concorrenza con quello offerto dai privati ed in base alle discipline regionali che si

vanno moltiplicando in materia.

Il problema dell’arresto della crescita occupazionale riguarda tutta l’Unione Europea, il che ha giustificato

l’inserimento, da parte del Trattato di Amsterdam, del raggiungimento di un elevato livello occupazionale e

di protezione sociale da parte, all’interno degli obiettivi dell’UE previsti nell’art.2 TUE.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: già all’interno del testo, al di là dell’appendice, si è

avuto modo di precisare che il datore di lavoro è obbligato, nella maggior parte dei rapporti lavorativi

(subordinati o autonomi in forma coordinata e continuativa, anche a progetto o nel caso di socio

lavoratore di cooperativa e di associato in partecipazione con apporto lavorativo), a dare comunicazione

dell’instaurazione di un rapporto lavorativo un giorno prima della stessa al Servizio per l’impiego

competente a livello territoriale. Inoltre ogni datore di lavoro era obbligato a tenere il libro paga ed il libro

matricola, unificati dal D.L.112/2008 (convertito con L.133/2008) all’interno del LIBRO UNICO, il quale deve

contenere informazioni retributive, previdenziali, fiscali ed assicurative di tutti i lavoratori. Sono obbligati

ad averlo tutti i datori di lavoro privati, ad eccezione di quelli domestici, ed all’interno dello stesso vanno

iscritti tutti i lavoratori subordinati, anche a domicilio, i collaboratori continuativi e coordinati, anche quelli

a progetto, nonché gli associati in partecipazione con apporto di lavoro, anche misto. Solo collaboratori di

imprese familiari, coadiuvanti di imprese commerciali e soci lavoratori di attività commerciale e di imprese

in forma societaria sono esclusi. Il libro può essere conservato presso la sede legale dell’impresa, presso lo

studio del consulente del lavoro o presso le associazioni di categorie delle imprese artigiane e delle piccole

imprese.

Va precisato che i rapporti di lavoro devono rientrare nell’ambito della legalità ed il legislatore, infatti, si è

scagliato contro il lavoro in nero, ossia contro il lavoro esercitato da quei soggetti che non risultano da

alcuna scrittura o da altra documentazione obbligatoria. Per i datori di lavoro che si avvalgono del lavoro in

nero è prevista una sanzione amministrativa da €1500,00 sino a €12.000 per ciascun lavoratore,

maggiorata di € 150,00 per ogni giornata di lavoro effettivo e comminata dalla Direzione provinciale del

lavoro. E’ prevista, inoltre, la sospensione dell’attività d’impresa in caso di reiterate violazioni o nel caso in

cui si riscontri che il 20% almeno del totale dei lavoratori sia “a nero”.

Collocamento in agricoltura. Collocamenti speciali. Lavoratori italiani disponibili a lavorare in Paesi

extra-comunitari e lavoratori extra-comunitari

La riforma del mercato del lavoro ha riguardato, oltre al collocamento ordinario, anche il collocamento in

agricoltura, nonché i collocamenti speciali dapprima previsti. In tema di agricoltura, infatti, il collocamento

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concepito come incontro tra la domanda e l’offerta, aveva fallito nel proprio compito, specie con

riferimento alle regioni meridionali.

Sono stati, pertanto, soppressi gli uffici del Ministero del lavoro per il collocamento in agricoltura, le cui

competenze sono passate ai Centri per l’impiego e la cui disciplina deve essere emanata dalle Regioni.

Anche gli altri sistemi di collocamento speciale sono venuti meno o comunque sono stati ricondotti alla

disciplina delle Regioni: lavoratori dello spettacolo e lavoratori a domicilio.

Presso le regioni, tuttavia, vi sono delle speciali liste per ciò che concerne i lavoratori italiani disposti a

svolgere la propria attività all’estero in Paesi extra-comunitari, a cui continua ad applicarsi una disciplina

speciale.

Per ciò che riguarda, al contrario, i lavoratori extra-comunitari nel nostro Paese, è previsto un controllo dei

flussi migratori tramite la previsione annuale del Governo delle quote massime di stranieri che possono

lavorare nel nostro Paese, tenuto conto delle quote-flussi, misure di protezione temporanea volte ad

occupare più lavoratori italiani. Inoltre il cittadino extra-comunitario che voglia lavorare all’interno dello

Stato italiano necessita di un contratto di soggiorno per lavoro subordinato a tempo determinato o

indeterminato, o per lavoro stagionale: in tale contratto è previsto che il datore di lavoro si faccia garante

della disponibilità di un alloggio, che deve rispettare determinati standard, per il lavoratore, nonché delle

spese per il ritorno del lavoratore nel Paese d’origine. Un’integrazione socio-economica è, invece, prevista

per i lavoratori regolarmente immigrati, nei confronti dei quali non si deve applicare alcuna

discriminazione.

SEZIONE B: IL COLLOCAMENTO DEI DISABILI

Dal collocamento obbligatorio al collocamento mirato dei disabili

La disciplina del collocamento originaria, benché agevolasse l’incontro tra domanda ed offerta, non

vincolava, per la generalità dei lavoratori, l’autonomi privata dei datori di lavoro in alcun modo. Per gli

invalidi di guerra, ed in seguito per un numero sempre crescente di categorie di disabili, era prevista,

invece, un’ulteriore tutela, dovuta alla più ampia debolezza sociale e contrattuale dei soggetti in questione.

Era posto a carico dei datori di lavoro l’obbligo a contrarre nei confronti di queste categorie in cambio di

agevolazioni di vario tipo: il datore di lavoro che non avesse ottemperato a tale obbligo sarebbe andato

incontro a sanzioni amministrative e per la PA anche penali.

La disciplina è stata modificata dalla L.68/1999, la quale prevede un sistema di sostegno e collocamento

mirato dei disabili coordinato con il sistema dei servizi all’impiego: sono le Regioni a doversi occupare

dell’intera disciplina in materia, prevedendo anche dei nuovi servizi per l’impiego che vadano a sostituire le

vecchie commissioni provinciali per il collocamento obbligatorio.

Inserimento al lavoro dei disabili

Rientrano nella disciplina della L.68/1999 le “persone disabili”, una volta accertata la propria situazione di

disabilità, secondo criteri stabiliti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, la quale deve stabilire anche

come effettuare il controllo di permanenza di tale stato invalidante.

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I datori di lavoro pubblici e privati che abbiano alle proprie dipendenze più di 15 dipendenti, devono

impiegare anche un numero variabile di disabili: 1 disabile se occupano dai 15 ai 35 dipendenti, 2 disabili se

occupano dai 36 ai 50 dipendenti, il 7% dei lavoratori impiegati se occupano più di 50 dipendenti.

In queste quote, definite come quote di riserva, non rientrano i lavoratori già dipendenti divenuti inabili

con una riduzione della capacità lavorativa di almeno il 60% qualora tale inabilità sia dovuta a malattia o

infortunio o, comunque, quando l’inabilità sia dovuta all’inottemperanza delle regole di sicurezza sul lavoro

da parte dell’imprenditore. Non sono, inoltre, computabili nelle quote di riserva i lavoratori a tempo

determinato assunti per un periodo inferiore a 9 mesi, i disabili già occupati dal datore di lavoro ed i

dirigenti, nonché gli apprendisti e coloro assunti con contratto d’inserimento o di formazione e lavoro nel

caso di PA.

Tra l’altro sono esclusi dall’assumere disabili le agenzie di somministrazione ed alcuni soggetti (partiti

politici e sindacati) per cui l’obbligo non è eliminato, ma temperato. E’ sospeso, ovviamente, tale obbligo

per le imprese per cui è in corso la CIG o una procedura di mobilità. Sulla base di un’apposita richiesta, i

datori di lavoro possono ripartire i lavoratori disabili tra più unità produttive, oppure chiedere l’esonero

parziale in quanto impossibilitati ad assumere, pagando un piccolo contributo per ogni disabile non

occupato.

Presso i Centri per l’impiego si trovano appositi elenchi di disoccupati disabili da poter impiegare ed il

Ministero del lavoro pretende, entro determinati periodi, che i datori di lavoro presentino dei prospetti dai

quali si evinca quanti lavoratori disabili sono occupati, nonché i posti di lavoro disponibili per gli stessi.

Se la quota d’obbligo di un’impresa risulti scoperta, entro 60 giorni il datore di lavoro deve presentare, al

Centro per l’impiego di riferimento, una richiesta di avviamento del disabile, tramite richiesta nominativa e

numerica per i privati, solo numerica per la PA.

Le imprese, anche qualora non siano vincolate ed obbligate, possono stipulare delle convenzioni per

l’inserimento dei lavoratori disabili, in cambio di agevolazioni di vario genere.

Oltre che con l’assunzione del disabile, il datore di lavoro può coprire la propria quota d’obbligo tramite

una commessa di lavoro a favore di una cooperativa sociale.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: la disciplina dell’inserimento al lavoro dei disabili ha

subito alcune modificazione che meritano di essere evidenziate. La L.247/1997 ha previsto che per le

convenzioni di inserimento lavorativo temporaneo con finalità formativa, si instauri un rapporto trilaterale

tra imprenditore obbligato all’assunzione, soggetti ospitanti (per tali intendendosi le cooperative sociali di

tipo b) o imprese sociali e disabile: il datore di lavoro/imprenditore affida delle commesse ai soggetti

ospitanti che faranno lavorare il disabile e contestualmente quest’ultimo viene assunto dall’imprenditore,

così risultando nella quota di riserva.

Diverso è il caso delle convenzioni di inserimento lavorativo definitivo, all’interno delle quali sussiste

sempre il rapporto trilaterale, ma il disabile viene assunto dai destinatari, non dagli imprenditori obbligati,

che si limitano a conferire le commesse ai destinatari (è possibile solo in caso di imprese con più di 50

dipendenti e nel limite del 10% della quota di riserva, nonché per un periodo massimo di 3 anni,

rinnovabile una sola volta per altri 2, al termine del quale il datore può chiedere il rinnovo o assumere il

lavoratore disabile). La L.247/1997 ha poi previsto che siano le Regioni e le Province autonome a stabilire

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gli incentivi a favore di imprese che adoperino disabili. Tutte le modifiche della L.247/1997 sono state

apportate alla L.68/1999, di cui abbiamo parlato.

Tutela del disabile nel rapporto di lavoro

Nei confronti del lavoratore disabile assunto obbligatoriamente non devono essere poste in essere

condotte discriminatorie, in quanto egli ha diritto al trattamento retributivo e normativo disposto dalle

leggi e dai contratti collettivi, oltre a non poter essere impiegato in modo incompatibile con la propria

disabilità.

Qualora la disabilità di un soggetto si aggravi, egli ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di

lavoro fino a che l’aggravamento persiste. Tuttavia se l’aggravamento, ovviamente accertato da apposite

commissioni, si presenta come definito, il datore di lavoro può ottenere la risoluzione del rapporto, tramite

esercizio del diritto di recesso, ossia per mezzo di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il

disabile, inoltre, può essere licenziato anche per giusta causa o giustificato motivo al pari di ogni altro

lavoratore che non attenga alla sua condizione personale di inabilità, o anche per riduzione del personale,

sempre che non si leda la quota di riserva, in quanto in tal caso il licenziamento è annullabile. Comunque il

datore di lavoro dovrà sostituirlo con altro disabile.

La Corte costituzionale, tra l’altro, prima dell’emanazione della L.68/1999 aveva previsto che l’assunzione

obbligatoria prevista a favore dei disabili non è anticostituzionale, in quanto garantisce l’osservanza

dell’art.38 comma 3 della Costituzione, secondo cui gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed

all’avviamento professionale.

SEZIONE C: FORMAZIONE PROFESSIONALE

Formazione professionale e trasformazioni economiche. L’alternanza scuola-lavoro

La misura di politica attiva del lavoro sicuramente più idonea a garantire l’incremento dell’occupabilità e

quindi un crescente numero della forza lavoro qualificata è offerta dalla “formazione professionale”, intesa

come l’insieme di interventi finalizzati ad agevolare l’ingresso, il reingresso e la permanenza nel mercato

del lavoro, in quanto la sempre maggiore evoluzione tecnologica e la conoscenza di essa non permette solo

ai disoccupati di accedere a nuove attività lavorative, ma anche ai già occupati di mantenere il proprio

posto di lavoro senza che l’imprenditore necessiti di nuovo personale maggiormente qualificato.

Inoltre la crisi del contratto di lavoro a tempo indeterminato e l’agevolazione, consecutiva, di forme di

lavoro subordinato flessibili (o atipiche) ha permesso il moltiplicarsi di offerte di lavoro diversificate, in cui

è richiesta, volta per volta, una formazione professionale diversa.

La materia della formazione professionale è, in forza dell’art.117 della Costituzione dopo la riforma del

2001, di competenza esclusiva delle regioni: ciò significa che solo a tali enti territoriali, e non più al sistema

centralizzato dello Stato, è permesso intervenire in materia, salvo casi eccezionali di mancanze da parte

delle Regioni.

Tra l’altro la stessa Unione Europea ha posto la formazione professionale tra i propri obiettivi per garantire

un livello crescente di occupazione, all’interno di un sistema in cui il mercato del lavoro sembra in crisi

continua.

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Tra l’altro la formazione professionale deve sposarsi anche con l’istruzione obbligatoria prevista dalla

legge, innalzata di recente al compimento del diciottesimo anno di età. Tuttavia può essere prevista una

forma di alternanza tra istruzione e formazione professionale, dettata da un’organizzazione del sistema: le

scuole medie superiori possono prevedere l’avvicendarsi di orari scolastici e periodi di apprendimento in

situazioni lavorative.

Inserimento dei giovani nel mondo del lavoro: gli stages in azienda

Il legislatore ha previsto la possibilità, per garantire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, di poter

realizzare un’alternanza tra tirocini formativi e studio scolastico all’interno delle scuole superiori. Oltre a

questo, però, è stata prevista la possibilità, anche per coloro che abbiano già assolto l’obbligo scolastico, di

poter effettuare degli stages di orientamento e preparazione all’interno di aziende, affiancati da un tutor

preparato e competente: questo strumento permetterebbe ai giovani non solo di entrare in contatto col

vero mondo del lavoro, ma anche di avere una maggiore conoscenza delle scelte professionali alle quali

potrebbero andare incontro.

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CAPITOLO UNDICESIMO - LA DISCIPLINA DELLA DOMANDA DI LAVORO C.D. FLESSIBILE

Dalla legislazione antifraudolenta alla flessibilità controllata

Per lungo tempo, nonostante le pressioni provenienti dal mercato e dalle imprese, il legislatore italiano ha

ritenuto opportuno imporre una legislazione antifraudolenta in difesa del lavoratore, assicurando allo

stesso continuità e stabilità dell’occupazione. A partire dagli anni 70, tuttavia, si è assistito ad un

ampliamento delle ipotesi in cui è consentita la stipulazione di contratti a tempo determinato,

consentendo alla contrattazione collettiva di allentare i limiti imposti alla flessibilizzazione. Nel 1997, con la

disciplina del lavoro temporaneo o interinale, dando luogo a forme di flessibilità controllata e negoziata, si

è assistito ad un’altra tappa della graduale liberalizzazione del ricorso a forme di lavoro flessibile. Nel 2001,

poi, è stata emanata una disciplina legislativa che permette le assunzioni a tempo determinato per ragioni

oggettive e nel 2003, il già più volte citato D.Lgs.276, ha disciplinato nuovamente il lavoro interinale,

definito ora come somministrazione di lavoro, rendendo la disciplina meno vincolistica per le imprese.

Ovviamente tutti questi interventi normativi hanno reso la sicurezza di un posto sicuro sempre più lontana

dalle aspettative di un giovane che si affaccia sul mondo del lavoro.

SEZIONE A: CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO

Evoluzione della disciplina legislativa a partire dal codice civile

Il contratto di lavoro a tempo determinato è caratterizzato dall’apposizione di un termine di scadenza del

rapporto di lavoro fissato dalle parti o comunque sui cui le parti sono d’accordo, il quale si conclude in quel

momento senza necessità di alcuna dichiarazione.

Il codice civile, all’interno dell’art.2097 c.c., guardava con sfavore a tale tipo di contratto, vedendolo in

sostanza come potenzialmente fraudolento e teso ad eludere le norme in materia di contratto a tempo

indeterminato. Per tale motivo, l’articolo prevedeva che, nel caso in cui non fosse stata rispettata la forma

scritta ad substantiam o nel caso in cui si fosse dimostrata l’intenzione fraudolenta del datore di lavoro, il

contratto sarebbe stato considerato come a tempo INDETERMINATO. Ovviamente l’onere di dimostrazione

gravava in capo al lavoratore, per il quale sarebbe stato abbastanza difficile dimostrare una tale volontà da

parte del datore di lavoro.

Per tal motivo il legislatore ha emanato la L.230/1962, con la quale non solo ha abrogato l’art.2097 c.c., ma

ha riformato l’intera materia, guardando al contratto di lavoro a tempo determinato come un’ipotesi di

eccezionalità nei casi espressamente previsti dalla legge o nel caso di dirigenti, e prevedendo un forte

sistema sanzionatorio.

La normativa è stata sostituita dal D.Lgs.368/2001, che ha attuato, anche in forza di previsioni di matrice

europea, una liberalizzazione controllata della materia, mutando il proprio indirizzo politico originario.

Direttiva europea e nuova disciplina del D.Lgs.368/2001. Requisiti per l’apposizione del termine; forma e

onere di prova

In attuazione della Direttiva comunitaria 99/70, contenente l’accordo quadro sul lavoro a tempo

determinato concluso tra le organizzazioni sindacali a livello comunitario, il Governo italiano ha emanato il

D.Lgs.368/2001, che ha riformato la disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, abrogando

totalmente la L.230/1962 e le norme ad essa collegate, fatta eccezione per le ipotesi di assunzione a

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termine dei lavoratori in mobilità e per quelli assunti in sostituzione di lavoratori in congedo parentale, di

maternità e paternità.

In linea con la precedente L.230, anche il decreto suddetto prevede che il contratto di lavoro a tempo

determinato debba recare delle causali, ma priva esse del carattere della “tassatività”, prevedendo che

debbano semplicemente rispondere a ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo.

Vengono, quindi, rimossi i limiti all’eccezionalità del rapporto di lavoro a tempo determinato, consentendo

all’autonomia contrattuale di prevedere una moltitudine di casi in cui è permesso stipulare questo tipo di

contratto. Ovviamente la causa giustificatrice deve realmente esistere ed anche nella nuova disciplina è

previsto che il contratto sia stipulato per iscritto ad substantiam, anche se il carattere di norma aperta

permette al datore di lavoro di trovare una qualsivoglia giustificazione alla conclusione di un contratto a

tempo determinato in luogo di uno a tempo indeterminato.

Il contratto deve specificare la causa e la scadenza del termine ed essere consegnato entro 5 giorni

lavorativi dall’inizio della prestazione al lavoratore, altrimenti perderà di efficacia e verrà considerato come

contratto a tempo indeterminato. Il giudice, tra l’altro, che si dovesse ritrovare dinanzi all’impugnazione di

un siffatto contratto, potrà, senza entrare nel merito, verificare la sussistenza effettiva della causa

giustificatrice.

Divieti; esclusioni; discipline speciali

L’apposizione del termine è vietata e pertanto il contratto si considera come a tempo indeterminato nei

casi di:

• Sostituzione di lavoratore in sciopero;

• Unità produttive dove sono stati licenziati collettivamente lavoratori adibiti alle medesime funzioni,

salvo che si tratti di sostituzione di lavoratori assenti, assunzione di lavoratori in mobilità o di

contratti di durata inferiore a tre mesi;

• Unità produttive interessate da riduzione di orario o sospensioni di lavoro con diritto

all’integrazione salariale per lavoratori adibiti alle medesime funzioni di quelli da assumere;

• Imprese inadempienti agli obblighi di sicurezza e tutela della salute dei lavoratori sul posto di lavoro

L’interesse dell’imprenditore, in questi casi, non merita la tutela del legislatore, dato il contrapporsi

d’interessi con alto valore sociale.

Sono esclusi, inoltre, dall’applicazione della disciplina del D.Lgs.368/2001 il contratto di formazione e

lavoro, il contratto di apprendistato, il contratto di lavoro temporaneo (poi reintegrato nella disciplina ad

opera del D.Lgs.276/2003 che ha previsto la somministrazione di lavoro in luogo del lavoro temporaneo), il

rapporto di lavoro degli operai a tempo determinato nell’agricoltura, nonché i rapporti a termine instaurati

con aziende di esportazione, importazione ed commercio all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli, ed i c.d.

rapporti a giornata di durata inferiore a 3 giorni.

Discipline speciali sono poi dedicate a determinate categorie di lavoratori. Per i dirigenti è previsto che il

contratto non superi la durata di 5 anni, che non debba prevedere obbligatoriamente la forma scritta, che

dia la facoltà al dirigente di recedere dopo un triennio, sebbene con preavviso, e che l’apposizione del

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termine è libera. Tutto ciò in ragione della maggiore facilità con cui il dirigente può spostarsi nel mercato

del lavoro.

Altra disciplina speciale è quella inerente il settore del trasporto aereo e dei servizi aeroportuali, per cui è

libera l’apposizione del termine.

Proroga del termine e successione di più assunzioni a tempo indeterminato

La proroga (continuazione) e la reiterazione (successione di più stipulazioni) del contratto di lavoro a

tempo determinato non sono vietate all’interno del D.Lgs.368/2001, ma semplicemente vincolate al

rispetto di determinati termini o periodi di tempo, il cui mancato rispetto comporta uno o più effetti

sanzionatori nei confronti del datore di lavoro.

In caso di proroga il termine fissato all’interno del contratto può essere liberamente (senza forma scritta)

prorogato solo se la durata del contratto stesso è inferiore a tre anni e se la proroga è resa necessaria da

una causa sopravvenuta, anche identica a quella del contratto originario. Inoltre la proroga è ammessa una

sola volta e comunque la durata totale del rapporto, in forza della proroga, non può essere superiore a tre

anni (ciò vuol dire che se nel contratto era previsto un termine di 2 anni e 11 mesi, la proroga potrà essere

di un solo mese). In mancanza, tra l’altro, della prova della necessità della proroga, il contratto si considera

a tempo indeterminato a partire dalla scadenza del termine.

Diversa dalla proroga è la continuazione del rapporto di lavoro oltre il limite contrattuale: in tal caso è

prevista una maggiorazione della retribuzione del 20% per i primi 10 giorni e del 40% per i successivi entro

il limite di 20 giorni per i contratti di durata inferiore a 6 mesi e 30 giorni per i contratti di durata superiore

a 6 mesi. Se il rapporto prosegue oltre i limiti dei periodi di tolleranza (20 o 30 giorni a seconda della durata

del contratto), il contratto diventa a tempo indeterminato a partire dalla scadenza dei termini.

Diversa ancora è la reiterazione o successione di più assunzioni a termine del medesimo lavoratore. Essa

non è vietata, ma tra la scadenza di un contratto a tempo determinato e la stipulazione del successivo

devono decorrere alcuni periodi di tempo: 10 giorni se il contratto aveva durata inferiore a 6 mesi e 20

giorni se aveva durata superiore a 6 mesi. Se tali periodi di tempo non vengono rispettati, il contratto

diventa a tempo indeterminato.

Disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinato

Al rapporto di lavoro a tempo determinato si applica la medesima disciplina, in un’ottica di non

discriminazione, del lavoro a tempo indeterminato: il lavoratore ha diritto allo stesso trattamento

economico e normativo, oltre che alle ferie, alla tredicesima mensilità, al t.f.r. e ad ogni altro trattamento

di cui gode il lavoratore assunto a tempo indeterminato. Ovviamente tutti i trattamenti si devono riferire al

periodo lavorativo del soggetto, in forza del termine apposto al proprio contratto. L’inosservanza di tutti

questi obblighi da parte del datore di lavoro, legittima una responsabilità per inadempimento di

quest’ultimo, con le relative sanzioni amministrative pecuniarie.

I lavoratori a tempo determinato, qualora il contratto abbia durata superiore a 9 mesi, sono computabili ai

fini numerici per l’applicazione della disciplina d’attività sindacale. Anche tali lavoratori, tra l’altro, hanno

diritto ad una formazione professionale che, aumentandone capacità e preparazione, possa farli integrare

definitivamente nell’impresa in cui lavorano o in altra impresa.

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Per ciò che concerne lo scioglimento ante tempus del contratto è escluso il recesso unilaterale, data

l’apposizione del termine, se non nel caso di giusta causa che non permette la prosecuzione, neppure

temporanea, del rapporto. E’ escluso il giustificato motivo.

Limitazioni quantitative all’apposizione del termine; esenzioni; diritto di precedenza

Abbiamo visto come il D.Lgs.368/2001 abbia aperto all’individuazione da parte dell’autonomia individuale

della cause giustificatrici del contratto a tempo determinato, eliminando la tassatività prevista dalla

L.230/1962 inerente le stesse. Tuttavia il decreto ha rimesso all’autonomia collettiva ed ai contratti

nazionali di lavoro stipulati dai sindacati più rappresentativi l’individuazione di limitazione quantitative

dell’uso del contratto a tempo determinato. Si tratta delle c.d. clausole di contingentamento che, a

secondo di diversi criteri (numero di lavoratori, numero di lavoratori con una specifica mansione, numero

di lavoratori in un determinato territorio), limitano l’uso diffuso del contratto in questione. Lo stesso

decreto, però, ha previsto tutta una serie di casi, contenuti all’interno dell’art.7, esenti dalla limitazioni

quantitative:

• Avvio di nuove attività limitatamente a periodi definiti;

• Attività stagionali e ragioni di carattere sostitutivo;

• Intensificazione dell’attività in determinati periodi (punte periodiche);

• Specifici spettacoli o programmi televisivo-radiofonici;

• Esecuzione di opera o servizio a carattere straordinario o occasionale;

• Contratti di inserimento di giovani dopo un tirocinio o stage, o di lavoratori con più di 55 anni di età;

• Contratti di durata non superiore a 7 mesi (o altra durata stabilita dall’autonomia collettiva).

Inoltre il lavoratore che esercita attività stagionali o in determinati periodi dell’anno, entro 3 mesi (termine

di decadenza) dalla cessazione del rapporto di lavoro, può manifestare la propria volontà ad esercitare il

diritto di precedenza nel caso in cui l’impresa volesse porre in essere un’assunzione. Tale diritto di

precedenza si estingue entro un anno dalla cessazione del rapporto (prescrizione estintiva breve).

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO DELL’INTERA SEZIONE A: La L.247/2007 ha modificato

notevolmente la normativa in materia di lavoro a tempo determinato contenuta nel D.Lgs.368/2001. Oggi

è previsto che, in presenza di più contratti a termine ed indipendentemente da quale sia l’arco di tempo

trascorso tra i vari contratti, qualora il rapporto nel complesso superi i 36 mesi non è ammessa alcuna

reiterazione ed il rapporto stesso diviene a tempo indeterminato. Un ulteriore contratto a termine può

essere stipulato solo dinanzi alla Direzione provinciale del lavoro con l’assistenza di un rappresentante

sindacale che coadiuvi il lavoratore. La durata massima sarà stabilita da “avvisi comuni” adottati dalle parti

sociali. Sono esclusi dal limite di 36 mesi le attività stagionali e quelle eventualmente individuate dai

contratti collettivi nazionali e dagli avvisi comuni, nonché i dirigenti (ai quali la disciplina sul contratto a

termine non si applica) ed i contratti somministrazione a tempo determinato, di apprendistato e quelli con

finalità formative.

Altre modifiche sono state previste per ciò che concerne il diritto di precedenza dei lavoratori a tempo

determinato: è previsto che essi, qualora abbiano lavorato per almeno 6 mesi, hanno precedenza nelle

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assunzione a tempo indeterminato effettuate nei successivi 12 mesi dall’imprenditore. Stesso diritto hanno

i prestatori di lavoro di attività stagionali. La volontà di esercitare il diritto di precedenza deve essere

comunicata entro 6 mesi dalla cessazione del rapporto nel caso di assunzioni a tempo indeterminato ed

entro 3 mesi nel caso di attività stagionali.

SEZIONE B: LA SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO. DISCIPLINA DEGLI APPALTI E DEL COMANDO O

DISTACCO

Intermediazione ed interposizione nel rapporto di lavoro. Decentramento produttivo ed

esternalizzazioni

Il fenomeno dell’interposizione ed intermediazione nel rapporto di lavoro, configurabile per mezzo di

diverse forme giuridiche (somministrazione, appalto ecc), prevede la presenza di un soggetto terzo,

intermediario tra i prestatori di lavoro e l’imprenditore. In sostanza un’impresa, senza la necessità di

assumere personale, si rivolge ad un intermediario, che gli procurerà la manodopera necessario per

l’esercizio dell’attività lavorativa e che si accollerà il rischio economico e giuridico della gestione della forza-

lavoro, tutto ciò per ricavare, dalla differenza tra il monte-salari ed il costo sopportato dall’impresa, un

proprio guadagno.

Ovviamente ciò comporta una minore tutela del lavoratore: un qualsivoglia evento potrebbe condurre alla

decisione dell’impresa di non necessitare più della forza-lavoro, il che lascerebbe i lavoratori tutelati

inferiormente rispetto a quanto lo sarebbero se fossero stati assunti dall’impresa stessa.

Per tal motivo il legislatore del 1960 guardava con sfavore a questa tipo di rapporto lavorativo, ponendo un

divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro.

Diversamente dalla mediazione codicistica, che agevola la formazione e la conclusione di un contratto,

l’intermediazione nei rapporti di lavoro è finalizzata al soddisfacimento dell’interesse delle imprese.

Al di là della semplice intermediazione, inoltre, ritroviamo altre fattispecie interpositorie che attuano un

decentramento produttivo, il quale prevede una dislocazione all’esterno dell’azienda principale di

segmenti del complessivo processo produttivo (esternalizzazione o outsourcing). Il fenomeno in questione

utilizza diversi tipi contratti sia sotto il profilo commerciale (appalto, franchising ecc), sia lavorativo (lavoro

autonomo, subordinato, parasubordinato).

Divieto di intermediazione ed interposizione nel rapporto di lavoro. Il lavoro temporaneo

La L.1369/1960 aveva introdotto un divieto assoluto di intermediazione ed interposizione nel rapporto di

lavoro, vietando in sostanza tanto la fornitura di manodopera reclutata dall’assuntore interposto e messa

al servizio dell’imprenditore interponente (somministrazione di lavoro), quanto l’appalto di manodopera

utilizzata dall’interponente sotto la direzione dell’imprenditore (pseudo-appalto, differente dall’appalto in

quanto si fornisce solo una prestazione di lavoro, senza organizzazione dello stesso e gestione d’impresa a

proprio rischio). In caso di violazione delle norme previste dalla L.1369 erano previste sanzioni penali,a

carico dell’imprenditore e dell’intermediario, e sanzioni civili, in quanto i prestatori di lavoro venivano

considerati come dipendente dell’imprenditore.

La L.1369, inoltre, dettava una nuova disciplina propria degli appalti leciti, distinguendo tra appalti interni,

inerenti il normale ciclo produttivo dell’impresa committente, ed appalti esterni, estranei al normale ciclo

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produttivo della stessa. Era prevista un’uniformità di trattamento normativo e retributivo, nel caso di

appalto interno, tra i dipendenti dell’appaltante e quelli dell’appaltatore.

La L.1369, impedendo la somministrazione di manodopera, lasciava l’Italia fuori da un quadro normativo

pressoché unico dei Paesi industrializzati, europei e non.

La L.196/1997 introdusse il lavoro interinale (fornitura di lavoro temporaneo), il quale configurava un

rapporto trilaterale in forza del quale un’agenzia intermediatrice (o impresa fornitrice) inviava

temporaneamente la forza lavoro, da essa assunta, presso un terzo (utilizzatore) per effettuare una

prestazione lavorativa a favore di quest’ultimo. Venivano alla luce, quindi, due rapporti distinti: quello di

fornitura, intercorrente tra l’intermediario fornitore e l’imprenditore-utilizzatore, e quello di lavoro,

stipulato tra l’agenzia fornitrice ed i prestatori di lavoro. Va sottolineato come i lavoratori, pur essendo

dipendenti del fornitore, obbedivano al potere direttivo e di controllo dell’utilizzatore. La disciplina, però,

appariva molto rigida: solo le agenzie autorizzate dal Ministero del lavoro, in quanto società di capitali o

cooperative con unico scopo sociale la fornitura, potevano ricorrere al lavoro interinale ed esercitare

attività di fornitura. Inoltre l’utilizzatore doveva avvalersi del lavoro interinale solo per esigenze

temporanee, individuate tassativamente dai contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi.

La L.1369/1960, tra l’altro, non risultava abrogata dalla L.196/1997 e continuava ad operare per il pseudo-

appalto.

Somministrazione di lavoro: ipotesi di ricorso alla somministrazione

Il D.Lgs.276/2003, in attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla

L.30/2003 (Legge Biagi), ha abrogato definitivamente la L.1369/1960 inerente il divieto di intermediazione

ed interposizione, nonché gli artt.1 al 11 della L.196/1997 in tema di lavoro interinale, introducendo una

nuova disciplina normativa in tema di somministrazione del lavoro.

Essa permette ad agenzie per il lavoro, autorizzate dal Ministero del Lavoro in base a requisiti di

professionalità ed affidabilità e distinte tra agenzie abilitate alla somministrazione a tempo determinato ed

agenzie abilitate alla somministrazione a tempo indeterminato, di esercitare l’attività di somministrazione.

La somministrazione a tempo determinato, unica ipotesi possibile in caso di pubbliche amministrazioni, è

consentita solo in caso di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo riferibili

all’ordinaria attività dell’utilizzatore (art.20 comma 4). Limiti quantitativi a questo tipo di somministrazione

possono essere previsti dai contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi.

La somministrazione a tempo indeterminato (art.20 comma 3) è consentita nei casi TASSATIVAMENTE

elencati dalla legge, in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo ed organizzativo:

• Per servizi di consulenza/assistenza nel settore informatico;

• Per servizi di custodia, portineria e pulizia;

• Per servizi di trasporto persone, merci e macchine da e per lo stabilimento;

• Per la gestione di parchi, biblioteche, musei, archivi, magazzini;

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• Per attività di consulenza direzionale, ricerca e selezione del personale, gestione dello stesso,

programmazione delle risorse;

• Per attività di marketing, analisi del mercato;

• Per la gestione di call-center;

• Per l’avvio di iniziative imprenditoriali previste dall’Unione Europea in zone ad alta disoccupazione;

• Per costruzioni edilizie in stabilimenti, per installazioni/smontaggio di macchinari ed impianti, per

particolari attività produttive legate all’edilizia e cantieristica navale;

• Altre ipotesi contemplate da contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi.

La somministrazione, sia essa a tempo determinato o indeterminato, è vietata per la sostituzione di

lavoratori in sciopero, per imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi, per lavoratori

adibiti ad unità produttive interessate da licenziamenti collettivi o da intervento della CIG.

Disciplina del contratto di somministrazione

Il contratto di somministrazione deve essere stipulato in forma scritta e contenere una serie di elementi

fondamentali, che andranno comunicati anche al lavoratore, per iscritto, al momento della stipulazione del

contratto o al momento dell’invio presso l’utilizzatore, e sono:

• Gli estremi dell’autorizzazione rilasciata al somministratore;

• Il numero dei lavoratori da somministrare;

• Le ragioni che giustificano la somministrazione;

• I rischi per la salute del lavoratore;

• Data di inizio e durata del contratto;

• Mansioni alle quali adibire il lavoratore;

• Luogo, orario e trattamento economico/normativo delle prestazioni lavorative;

• Assunzione da parte del somministratore dell’obbligazione del pagamento del trattamento

economico e degli onere previdenziali al lavoratore;

• Assunzione da parte dell’utilizzatore dell’obbligo di rimborsare al somministratore le somme di cui

sopra;

• Assunzione dell’utilizzatore dell’obbligo del pagamento diretto al lavoratore, qualora il

somministratore sia inadempiente, salvo il diritto di rivalsa.

Disciplina del contratto e del rapporto dei lavoratori soggetti a somministrazione

Anzitutto dobbiamo specificare che il D.Lgs.276/2003 non disciplina palesemente il contratto di lavoro dei

prestatori soggetti a somministrazione, ma gli elementi principali sono rinvenibili all’interno del decreto.

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E’ previsto, infatti, che la somministrazione possa essere tanto a tempo determinato, ed in tal caso andrà

applicata la disciplina del D.Lgs.368/2001 sul lavoro a tempo determinato, quanto a tempo indeterminato,

applicando in questo caso la disciplina generale dei rapporti di lavoro.

Ovviamente le discipline legislative si applicano laddove siano compatibili. In caso di somministrazione a

tempo determinato, per esempio, non si applicano le norme contenenti il divieto di riassunzione del

lavoratore laddove non siano trascorsi 10 o 20 giorni: per il lavoratore assunto ai fini della

somministrazione, infatti, è previsto che il contratto possa essere prorogato con il consenso del prestatore

e per iscritto, nei casi stabiliti dai contratti collettivi.

Un altro esempio di disciplina speciale per la somministrazione lo ritroviamo nel caso di assunzione a

tempo indeterminato: qualora i prestatori di lavoro non stiano esercitando la propria attività presso alcun

utilizzatore, essi dovranno percepire un’indennità mensile di disponibilità salvo che, per giustificato motivo

o giusta causa, non operi una risoluzione del contratto. Inoltre nel caso di fine dei lavori relativi alla

somministrazione, non si applicano le norme in materia di procedura di mobilità, ma quelle previste nel

caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Per ciò che concerne, poi, il rapporto di lavoro è previsto che i prestatori di lavoro nel caso di

somministrazione, benché dipendano da un’agenzia, operano sotto la direzione ed il controllo

dell’utilizzatore, ma non sotto il suo potere disciplinare, anche se quest’ultimo potrà esercitarlo

indirettamente, rivolgendosi all’agenzia di fornitura. I prestatori, comunque, hanno diritto allo stesso

trattamento retributivo e normativo dei dipendenti dell’utilizzatore, nonché a svolgere le mansioni per cui

sono stati assunti, in quanto qualora vengano assegnati a mansioni superiori, dovranno ricevere, loro così

come l’agenzia di somministrazione, una comunicazione da parte dell’utilizzatore, che altrimenti

risponderà in via esclusiva per le differenze di retribuzione e per l’eventuale risarcimento del danno.

Ovviamente il prestatore di lavoro in caso di somministrazione gode anch’egli dei diritti sindacali previsti

dallo Statuto dei lavoratori, che potrà esercitare presso l’utilizzatore. R.s.a. ed r.s.u., inoltre, devono essere

informate del numero dei lavoratori somministrati di cui si avvale l’utilizzatore, nonché delle motivazioni

per cui se ne avvale, così come ogni 12 mesi devono essere informate degli eventuali contratti di

somministrazione conclusi.

L’apparato sanzionatorio

Qualora il contratto di somministrazione non rispetti la forma scritta è nullo, ritenendo che il prestatore sia

alle dipendenze dell’utilizzatore. La violazione degli altri requisiti formali da luogo, inoltre, a sanzioni

amministrativo pecuniarie, cui vanno incontro tanto l’utilizzatore, quanto l’agenzia di somministrazione. A

carico di questi ultimi, infine, sono previste sanzioni penali nel caso di attività di somministrazione

illegittima, in quanto non autorizzata.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO DELL’INTERA DISCIPLINA DELLA SOMMINISTRAZIONE:

la L.247/2007 ha abolito il contratto di somministrazione a tempo indeterminato e quindi tutte le norme in

materia contenute nel D.Lgs.276/2003 (e quindi tutta la trattazione del libro di testo). E’ stata modificata

anche la disciplina della somministrazione a tempo determinato, prevedendo che si applichi la disciplina

del contratto a tempo determinato, laddove compatibile, con l’esclusione però dell’ apparato

sanzionatorio previsto per la violazione delle norme in materia di riassunzioni a termine, della disciplina in

tema di successione di contratti a termine (che ha fissato un limite temporale massimo di 36 mesi) e del

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diritto di precedenza del lavoratore sia nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di

lavoro nei successivi dodici mesi, sia con riferimento alle nuove assunzioni a termine nei lavori stagionali.

Inoltre il nuovo Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro ha disposto che tutti gli obblighi di

prevenzione e protezione sono a carico dell’utilizzatore.

Va sottolineato, infine, che i lavoratori somministrati devono essere iscritti sia nel Libro unico dell’agenzia

di somministrazione, sia in quello dell’utilizzatore (solo dati identificativi).

Disciplina degli appalti

Dopo l’emanazione del D.Lgs.276/2003, venendo meno la L.1369/1960, anche la disciplina dell’appalto è

mutata. Si ritiene lecito il c.d. “appalto di manodopera”, in forza del quale in relazione alla particolare

natura e modalità dell’opera o servizio oggetto dell’appalto, l’organizzazione dei mezzi da parte

dell’appaltatore, richiesta dall’art.1655 c.c., si risolva nella mera organizzazione delle prestazioni dei

lavoratori utilizzati. Vietato, al contrario, rimane lo pseudo-appalto, vera ipotesi di interposizione illecita,

che si configura nel momento in cui la natura e la modalità dell’opera o servizio oggetto dell’appalto non

giustifichino una tale semplificazione dell’organizzazione della sola manodopera. Nel caso in cui si configuri

una tale situazione, il lavoratore potrà richiedere giudizialmente l’instaurazione di un rapporto di lavoro

alle dipendenze del soggetto che ha utilizzato la sua prestazione, al quale andrà notificato il ricorso

giudiziale a norma dell’art.414 c.p.c.

Inoltre va sottolineato come il committente imprenditore (non persona fisica che non eserciti attività

d’impresa) e l’appaltatore siano obbligati in solido, nel limite di un anno dalla cessazione dell’appalto, a

corrispondere ai lavoratori trattamenti retributivi e previdenziali.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: anzitutto interventi normativi più recenti hanno

previsto che sia raddoppiato da uno a due anni dalla cessazione dell’appalto il termine di decadenza entro

il quale i dipendenti dell’appaltatore possono far valere la responsabilità solidale tra committente e

appaltatore. Inoltre, la suddetta disciplina è stata estesa anche ai dipendenti del subappaltatore. La

responsabilità solidale riguarda anche il versamento delle ritenute fiscali sui redditi da lavoro dei

dipendenti addetti all’appalto ed al subappalto ed al risarcimento danni non indennizzati dall’INAIL. Tale

regime di solidarietà è inderogabile, anche da parte dei contratti collettivi.

Le catene di appalti, specie dopo l’abolizione della somministrazione a tempo indeterminato, risultano

fondamentali per i processi di esternalizzazione, anche se il legislatore si disinteressa dell’uniformità di

trattamento tra dipendenti di appaltatori e subappaltatori.

Va ricordato, infine, che ai licenziamenti derivanti da una cessazione dell’appalto, pur in presenza dei

requisiti numerici, dimensionali e temporali, non si applica la procedura prevista per i licenziamenti

collettivi, a condizione che il datore di lavoro subentrante riassuma tutti i lavoratori e offra condizioni

economico – normative previste dai contratti collettivi nazionali di settore stipulati dalle organizzazioni

sindacali comparativamente più rappresentative.

Vale la pena ricordare che a far data dal 1° luglio 2007, tutti i benefici sia normativi che contributivi,

previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale sono subordinati al possesso, da parte

dei datori di lavoro, del documento unico di regolarità contributiva (DURC). Il rilascio del DURC è inoltre è

necessario negli appalti privati in edilizia soggetti al rilascio di concessione, ovvero a denuncia di inizio

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attività (DIA) e costituisce un requisito per la partecipazione a gare per appalti pubblici di servizi e

forniture.

Il documento attesta la regolarità dei versamenti dovuti agli istituti previdenziali e per i datori di lavoro

nell’edilizia, la regolarità dei versamenti dovuti alle casse edili. Possono rilasciare il DURC, l’INPS, l’INAIL

nonché gli altri istituti previdenziali che gestiscono forme di assicurazione obbligatoria previa stipulazione

di apposita convenzione con gli enti predetti.

Il comando o distacco

L’istituto del comando (o distacco) del lavoratore da un’azienda ad un’altra è stato per lungo tempo

disciplinato solo dalla giurisprudenza, la quale prevedeva che qualora un datore di lavoro decidesse di far

beneficiare un altro soggetto della prestazione lavorativa di un proprio dipendente, egli avrebbe dovuto

avere un interesse al distacco, in mancanza del quale lo stesso sarebbe stato considerato come ipotesi di

interposizione vietata dalla L.1369/1960.

L’art.30 del D.Lgs.276/2003 ha modificato la materia, in realtà tramutando in legge quelle che erano le

previsioni giurisprudenziali: il datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone

temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto per l’esecuzione di una

determinata attività lavorativa; vediamo quindi come la temporaneità e l’interesse del datore di lavoro

siano essenziali affinché, nonostante l’abrogazione della L.1369, non si configuri un’ipotesi di

interposizione vietata e non si dia luogo al ricorso giudiziale, attuato dal lavoratore a norma dell’art.414

c.p.c., per far costituire un rapporto di lavoro tra lui e l’utilizzatore della propria prestazione, ossia il

beneficiario del comando.

Il datore di lavoro rimane, in ogni caso, responsabile del trattamento retributivo e normativo dei lavoratori

distaccati. Egli, inoltre, può attuare un comando che comporti il trasferimento ad unità produttiva distante

più di 50 km da quella a cui è adibito il lavoratore, solo in caso comprovate ragioni tecniche, produttive ed

organizzative o per evitare licenziamenti.

Il comando può configurarsi anche come uno strumento di scambio di personale tra diverse società

collegate, secondo la definizione che delle stesse offre l’art.2359 c.c.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: in forza delle nuove disposizioni in materia di sicurezza

sul lavoro, è previsto che gli obblighi di prevenzione e protezione gravino sul distaccatario, mentre sono a

carico del distaccante gli obblighi di informazione e formazione del lavoratore sui rischi connessi all’attività

che andrà a svolgere.

Nel Libro Unico del distaccante devono risultare a tutti gli effetti i lavoratori comandati, mentre in quello

del distaccatario devono risultare solo a fini indicativi.

Distacco di lavoratori in una prestazione di servizi transnazionale

Data la continua crescita di società multinazionali operanti in diversi Stati europei, l’UE ha emanato la

direttiva 96/71 in materia di distacco di lavoratori nel quadro di una prestazione di servizi transnazionali. Il

D.Lgs.72/2000 ha dato applicazione a tale normativa comunitaria, prevedendo un’uniformità di

trattamento tra i lavoratori stranieri operanti all’interno del territorio italiano in forza di un contratto di

appalto o di fornitura di servizi ed i lavoratori comparabili normalmente operanti in tal ambito.

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SEZIONE C: IL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO PARZIALE E LE ALTRE TIPOLOGIE CONTRATTUALI AD

ORARIO FLESSIBILE

Direttiva 97/81 e D.Lgs.61/2000. Modifiche introdotte dal D.Lgs.276/2003

Il rapporto di lavoro a tempo parziale (part-time) è il tipico esempio di strumento di flessibilità dell’impiego

con riferimento al tempo: esso è caratterizzato da un orario di lavoro ridotto rispetto a quello

normalmente previsto, al fine di incentivare l’occupazione e fornire una migliore conciliazione tra tempi di

vita e tempi di lavoro.

Della materia si è occupata l’UE con l’emanazione della direttiva 97/81, alla quale ha fatto seguito il

D.Lgs.61/2000 di attuazione della stessa, dettando una nuova normativa in tema di lavoro part-time, tesa

ad incentivare la diffusione dello stesso. In materia è poi intervenuto anche il D.Lgs.276/2003, per garantire

la diffusione all’interno del nostro ordinamento dello strumento del part-time, il quale però si applica solo

ai privati e non alle pubbliche amministrazione, alle quali continua ad applicarsi il D.Lgs.61/2000.

Disciplina del rapporto di lavoro a tempo parziale

Il D.Lgs.61/2000 sancisce che nel rapporto di lavoro subordinato l’assunzione può avvenire tanto a tempo

“pieno” quanto a tempo parziale”. Individuiamo, quindi, le rispettive nozioni. Per “tempo pieno” si intende

l’orario normale di lavoro previsto dalla legge o dagli specifici contratti collettivi; per “tempo parziale”

(part-time) si intende l’orario fissato dal contratto individuale di lavoro, ridotto rispetto all’orario normale.

All’interno della categoria del tempo parziale, ritroviamo poi altre definizioni: per part-time orizzontale

s’intende una riduzione del tempo di lavoro, rispetto all’orario normale, su scala giornaliera, mentre per

part-time verticale s’intende una riduzione del tempo di lavoro su scala settimanale, mensile o annuale,

essendo previsto, all’interno della giornata, un orario normale di lavoro; per part-time misto, infine,

s’intende una riduzione dell’orario di lavoro data dalla combinazione tra il part-time orizzontale e quello

verticale. Inoltre i contratti collettivi, o addirittura le r.s.a o r.s.u. aziendali, possono prevedere riduzioni

dell’orario lavorativo del tutto assestanti.

Il contratto part-time deve rispettare la forma scritta ad probationem, ossia per poter essere provato in

giudizio, e deve contenere l’indicazione della durata dell’attività lavorativa e delle relativa ripartizione

dell’orario di lavoro. Annualmente, tra l’altro, l’impresa deve rendere noto l’andamento delle assunzioni

part-time ai rispettivi sindacati.

Sia la normativa comunitaria, quanto quella italiana, prevedono che sia adottato, nei confronti dei

lavoratori a tempo parziale, il principio di non discriminazione (o uniformità di trattamento) secondo cui

alcuna diversità di trattamento, rispetto ai lavoratori a tempo pieno della stessa categoria e con le stesse

mansioni, deve essere posta in essere nei confronti dei lavoratori part-time, se non quella inerente la

diversa retribuzione e proporzione dei diritti (es.ferie).

Il lavoratore, inoltre, può optare per il lavoro a tempo parziale, qualora in quel momento lavori a tempo

pieno, o addirittura fare il contrario in alcune ipotesi. In alcun modo, però, il rifiuto del lavoratore di

cambiare da part-time a pieno o viceversa, potrà costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

Potrà, però, figurare come giustificato motivo oggettivo in caso di importanti esigenze produttive e

organizzative dell’impresa. Qualora un lavoratore accetti di passare dal tempo pieno a quello parziale, egli

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dovrà convalidare la sua scelta presso la Direzione provinciale del lavoro ed avrà un diritto di precedenza

rispetto alle nuove assunzioni, per ciò che concerne il ritorno al tempo pieno.

La disciplina del tempo di lavoro; clausole elastiche, lavoro supplementare e straordinario

Abbiamo già detto che il D.Lgs.276/2003 ha modificato la disciplina del lavoro part-time (almeno per i

privati) rispetto al D.Lgs.61/2000. Una delle modificazioni ha riguardato il lavoro supplementare e

straordinario e le c.d. clausole elastiche.

Per lavoro supplementare s’intende il lavoro svolto oltre l’orario di lavoro concordato ed entro il limite del

tempo pieno ed esso è applicabile solo e solamente al part-time orizzontale (es. lavoro giornalmente per 4

ore: il lavoro supplementare sarà costituito da un numero di ore superiore a 4 e fino ad 8, che di solito

configurano il tempo pieno). Ai contratti collettivi, in caso di lavoro supplementare, è rimesso il compito di

stabilire un numero massimo di ore di lavoro supplementare e l’obbligo di corresponsione di una

maggiorazione retributiva. In presenza di un contratto collettivo, non occorre il consenso del lavoratore,

che però potrà legittimamente rifiutarsi, non costituendo ciò giustificato motivo di licenziamento.

Per lavoro straordinario, invece, s’intende il lavoro svolto oltre il normale orario di lavoro giornaliero, in

caso però di part-time verticale o misto, dove abbiamo visto che durante l’arco della giornata si lavoro lo

stesso numero di ore dei lavoratori a tempo pieno, mentre la riduzione dell’orario avviene su scala

settimanale, mensile o annuale.

Inoltre nei contratti di lavoro a tempo parziale, dopo le modifiche apportate dal decreto 276, è possibile

apporre specifiche clausole flessibili, che comportino la modificazione unilaterale della collocazione

temporale dell’attività lavorativa (es. lavoravi la mattina, lavorerai la sera), così come è possibile apporre

clausole elastiche, che comportino un aumento della durata della prestazione lavorativa nel suo insieme a

seguito di una scelta da parte del datore di lavoro, che deve comunicarlo ai prestatori almeno due giorni

prima. L’accordo tra le parti sull’inserzione di clausole flessibili e di clausole elastiche deve essere

contemplato in un atto scritto, ed il rifiuto di stipulare il patto non costituisce giustificato motivo di

licenziamento.

Normativa incentivante ed apparato sanzionatorio

La normativa in materia di lavoro part-time ha sempre avuto, come obiettivo primario, la promozione

dell’occupazione, per realizzare la quale il legislatore ha previsto delle incentivazioni di carattere

economico a favore dei datori di lavoro che vedremo più avanti.

Altra forma d’incentivazione all’assunzione part-time da parte delle imprese la ritroviamo prendendo in

considerazione la consistenza dell’organico delle stesse: i lavoratori part-time vengono computati nel

numero complessivo dei dipendenti in relazione all’orario svolto rapportato al tempo pieno e

l’arrotondamento opera per le frazioni di orario eccedenti la somma degli orari individuati a tempo parziale

corrispondente ad unità intere di orario a tempo pieno.

Sotto il profilo previdenziale, inoltre, è previsto il riproporzionamento tra tempo lavorato e contribuzione

previdenziale.

Oltre ad un apparato incentivante, inoltre, è previsto un sistema sanzionatorio per tutelare il rapporto di

lavoro part-time. Anzitutto abbiamo detto che la forma scritta del contratto è richiesta solo ad

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probationem, quindi ai fini della prova giudiziale dell’esistenza dello stesso: il legislatore ha sancito che la

prova per testimoni è ammessa solo in caso di perdita senza colpa dell’atto scritto (art.2725 c.c.),

aggiungendo che, in difetto di tale prova, il lavoratore potrà chiedere che venga accertata l’esistenza di un

rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dal momento in cui il giudice ha accertato che manchi la prova

scritta. Se manca, poi, l’indicazione della durata all’interno del contratto, il giudice potrà dichiarare

l’esistenza di un rapporto a tempo pieno a partire dalla sentenza. Qualora manchi, invece, l’indicazione

della collocazione temporale della prestazione, questa sarà determinata dal giudice, secondo i contratti

collettivi o secondo equità.

Inoltre nel caso di violazione del diritto di precedenza del lavoratore part-time nell’ipotesi di nuove

assunzioni a tempo pieno, egli avrà diritto al risarcimento del danno, calcolato tramite la differenza tra la

propria retribuzione e quella che avrebbe conseguito se fosse passato a tempo pieno, moltiplicata per sei

mesi (tale diritto non opera automaticamente, dopo il decreto 276 deve essere inserito nel contratto

individuale).

Specialità del rapporto di lavoro a tempo parziale e ruolo della contrattazione collettiva

Il rapporto di lavoro part-time si configura come un rapporto speciale, volto a rispondere all’esigenza di

flessibilità dei datori di lavoro con la forza-lavoro disponibile a lavorare ad orario ridotto. Si tratta, quindi,

di un rapporto che garantisce la crescita occupazionale.

In precedenza un ruolo di riferimento era detenuto dalla contrattazione collettiva, che avrebbe dovuto,

nell’interesse generale, derogare ed integrare la normativa in materia. Il decreto 276/2003 sembra non

avere riconosciuto un tal ruolo all’autonomia collettiva, ponendo in risalto l’autonomia individuale.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: mentre in precedenza abbiamo detto che l’autonomia

individuale poteva introdurre clausole elastiche e flessibili, la L.247/2007 ha previsto che tale introduzione

non sia più consentita in assenza di una disciplina collettiva. Il periodo di preavviso dato al lavoratore in

funzione dell’aumento della durata della prestazione o della diversa collocazione temporale della stessa

viene aumentato da 2 a 5 giorni lavorativi.

Il lavoratore che da rapporto a tempo pieno sia passato al rapporto a tempo parziale ha diritto di

precedenza nelle assunzioni a tempo pieno, SENZA CHE SIA UN ACCORDO INDIVIDUALE A DOVER

PREVEDERE TALE DIRITTO.

Infine, anche ai lavoratori del settore pubblico affetti da patologie oncologiche è riconosciuto il diritto alla

trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, salvo tornare automaticamente al

lavoro a tempo pieno su richiesta dello stesso soggetto.

Il lavoro intermittente

Una forma particolare di contratto a tempo parziale si ha con il lavoro intermittente o, anche detto, a

chiamata. Esso è stato disciplinato ed introdotto dal D.Lgs.276/2003. Con il contratto di lavoro

intermittente il lavoratore mette le proprie energie a disposizione del datore di lavoro, il quale, qualora ne

necessiti, contatta il prestatore per usufruirne, retribuendolo per il periodo effettivamente lavorato e

riconoscendogli un’indennità di disponibilità per il periodo di attesa. Lo svolgimento delle prestazioni è

quindi discontinuo ed è la disciplina collettiva ad individuare per quali attività sia consentito il lavoro a

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chiamata (in assenza si osserva il R.D.2657/1923, contenente l’elenco delle occupazioni che richiedono

lavoro discontinuo).

Possono concludere il contratto di lavoro a chiamata solo giovani sotto i 25 anni di età o lavoratori con più

di 45 anni, anche pensionati. E’ vietato il ricorso al lavoro intermittente per sostituire lavoratori in sciopero,

o lavoratori licenziati collettivamente o posti in CIG.

Per tale contratto è richiesta la forma scritta ad probationem, la quale deve provare una serie di elementi

inerenti il rapporto di lavoro a chiamata, ossia la durata, il luogo, le modalità di disponibilità del lavoratore

e la consecutiva indennità, le modalità di preavviso del prestatore (il quale deve avvenire almeno un giorno

prima), tempi e modalità di pagamento, nonché tutte le indicazioni previste dalla contrattazione collettiva.

Il prestatore di lavoro intermittente viene computato nell’organico dell’impresa in proporzione all’orario di

lavoro svolto nell’arco di 6 mesi.

Abbiamo visto come il lavoratore soggetto ad un tal tipo di rapporto debba prestare la propria

disponibilità, affinché il datore di lavoro, qualora ne necessiti, possa avvalersi della sua prestazione.

Legittimo motivo di rifiuto della chiamata è la malattia o un evento che renda impossibile la prestazione,

ma in ogni caso si perde l’indennità di disponibilità. Qualsiasi altra giustificazione addotta dal lavoratore

può rappresentare un motivo di risoluzione del contratto.

Nessuna discriminazione deve essere posta in essere nei confronti del lavoratore a chiamata, né indiretta

né diretta, né tanto meno dovuta al particolare contratto di lavoro, in quanto nei periodi di attività

lavorativa, il prestatore a chiamata ha diritto ad una retribuzione e ad un trattamento normativo pari a

coloro che svolgono le medesime mansioni a tempo pieno. Ovviamente è intuibile che il lavoratore avrà

diritto ad trattamento retributivo, previdenziale e normativo proporzionati alla quantità del proprio lavoro,

ma sarà ugualmente tutelato in caso di malattia, infortunio sul lavoro, maternità, malattia professionale.

Quindi notiamo come una gran parte del contratto a chiamata sia stabilita non dalle parti, ma dal solo

datore di lavoro, il che potrebbe condurre la Corte costituzionale a pronunciarsi contro la legittimità di una

tale previsione legislativa.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: la disciplina del lavoro intermittente è stata abrogata

all’interno della L.247/2007, per poi essere ripresa ripristinata del tutto dal D.L.112/2008. La disciplina

rimane, pertanto, immutata.

Il lavoro ripartito

Un altro tipo di contratto a lavoro parziale è costituito dal contratto di “lavoro ripartito”, introdotto

dall’art.41 del decreto 276, in forza del quale due lavoratori assumono solidalmente l’adempimento

dell’obbligazione di lavoro nei confronti del datore. Entrambi rispondono per l’intera obbligazione,

concordando autonomamente la ripartizione del lavoro, ma l’impossibilità di uno dei due ricade anche

sull’altro e la risoluzione del rapporto causata da uno, si ripercuote anche sull’altro lavoratore, almeno che

il datore di lavoro non chieda al prestatore non colpevole di assumere su di se l’intera obbligazione.

Il contratto deve rispettare la forma scritta per provare una serie di elementi, quali la misura e la

collocazione temporale della prestazione di ogni lavoratore, nonché il trattamento economico e normativo

spettante ad ognuno.

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SEZIONE D: I CONTRATTI PARASUBORDINATI

Il lavoro a progetto ed il lavoro occasionale

A partire dagli anni 80 si è assistito ad un continuo proliferare delle collaborazioni coordinate e

continuative. Il D.Lgs.276/2003 ha ridisegnato la fattispecie, al fine di differenziare i rapporti di

collaborazione autonoma da quelli che mascherano un lavoro subordinato, ha introdotto una nuova

disciplina inerente il lavoro autonomo coordinato e continuativo “a progetto”. Per alcune attività

lavorative, tuttavia, rimane in vigore la figura tradizionale della collaborazione continuativa e coordinata:

• Rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale;

• Professioni intellettuali per le quali è richiesta l’iscrizione in appositi albi o elenchi;

• Collaborazioni rese da amministratori, sindaci di società, soggetti che percepiscono la pensione di

vecchiaia;

• Settore della PA, escluso palesemente dall’applicazione dell’intero decreto.

Il contratto di lavoro a progetto sembra configurare un sottotipo del contratto d’opera previsto

dall’art.2222 c.c. Tale contratto, infatti, deve OBBLIGATORIAMENTE prevedere un “progetto specifico, un

programma di lavoro o una fase dello stesso”, ma mentre per il progetto specifico potremmo pensare che

occorra una particolare professionalità e competenza, il concetto di programma di lavoro o fase di lavoro

potremmo ricondurlo ad una qualsiasi attività, anche elementare, per cui non è richiesta alcuna particolare

preparazione. Il progetto o programma, comunque, definisce l’oggetto della prestazione lavorativa, nonché

il limite di durata del contratto: eseguito lo stesso, infatti, il contratto può ritenersi risolto.

Il contratto deve rispettare la forma scritta ad probationem, proprio per poter provare alcuni degli

elementi fondamentali del rapporto, quali la durata determinata o quanto meno determinabile dettata

dalla realizzazione del progetto o programma. Si tratta comunque di un rapporto parasubordinato, in

quanto benché permanga un autonomia del prestatore nel compimento del programma/progetto/fase di

lavoro, egli rimane pur sempre dipendente dalla necessità del committente, suo datore di lavoro. E’

tutelata comunque l’attività inventiva del collaboratore, al quale viene riconosciuta la proprietà

intellettuale delle invenzioni realizzate in costanza del rapporto. In caso di impossibilità temporanea della

prestazione, il prestatore ha diritto ad una sospensione non retribuita del rapporto in caso di gravidanza,

malattia ed infortunio, ma solo in gravidanza tale sospensione è garantita per un periodo di 180 giorni,

mentre per malattia o infortunio non si ha proroga del termine contrattuale, della durata contrattuale,

cosicché il contratto si estingue alla scadenza, ed anzi il committente prima della scadenza del termine se la

sospensione si protrae per oltre 30 giorni o oltre 1/6 della durata contrattuale. Il contratto, comunque,

come abbiamo già detto, si estingue al momento della realizzazione del progetto o programma, anche se è

consentito il recesso ante tempus per giusta causa o con preavviso nei casi stabiliti dalla contrattazione

collettiva o dalle parti.

Il contratto a progetto è un contratto a causa rigida, in quanto la mancata previsione di uno specifico

progetto o programma o fase di lavoro, da luogo alla conversione in contratto di lavoro subordinato a

tempo indeterminato, anche se la conversione non opera automaticamente, ma può essere decisa solo e

solamente dal giudice, che potrà optare anche per altre soluzioni e tipologie contrattuali.

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Sono escluse dalla tipologia del contratto a progetto le prestazioni di lavoro occasionali, che non eccedono

i 30 giorni annui di lavoro ed i 5000 euro di compenso. In caso contrario, ossia in caso di travalicamento dei

limiti fissati, si applicano le disposizioni sul lavoro a progetto.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: la recente disciplina legislativa ha avvicinato il lavoro

autonomo coordinato e continuativo a progetto al lavoro subordinato: il compenso per la prestazione a

progetto deve essere uguale a quello corrisposto per prestazioni di analoga professionalità sulla base dei

contratti collettivi di riferimento. Una speciale indennità è stata prevista per i casi di malattia, ed alle

donne assunte con contratto a progetto è stato riconosciuto di non poter lavorare durante la gravidanza ed

il puerperio e di aver diritto al congedo di maternità. Sono state, inoltre, modificate le norme che

limitavano a 180 giorni la durata del periodo di sospensione del rapporto per gravidanza ed escludevano

l’erogazione del corrispettivo in caso di malattia e di infortunio. Resta salva la possibilità del committente,

qualora il periodo di sospensione sia superiore a 30 giorni o ad 1/6 della durata contrattuale, di recede

ante tempus.

Una pronuncia di illegittimità costituzionale ha travolto la previsione secondo cui si dovevano conservare i

contratti di collaborazione continuativa e coordinata preesistenti alla riforma SOLO PER IL PERIODO DI UN

ANNO: essi proseguono fino alla scadenza originaria.

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CAPITOLO DODICESIMO – ECCEDENZE DI PERSONALE E TUTELA DELL’OCCUPAZIONE

Introduzione: eccedenze di personale e processi di riaggiustamento industriale

Nell’ambito della disciplina dei rapporti di lavoro e della tutela dell’occupazione dobbiamo prendere in

considerazione due interessi coesistenti e talvolta confliggenti all’interno del mercato e della società:

quello all’occupazione ed al mantenimento del posto di lavoro e quello alla continuazione dell’esecuzione

dell’attività economica da parte degli imprenditori. L’andamento ciclico dell’economia, la concorrenza con

Paesi in cui la manodopera ha un costo nettamente inferiore e la necessità dei processi di

ammodernamento della produzione, delle tecnologie e dei sistemi organizzativi, spesso conducono ad un

eccedenza del personale all’interno delle imprese e ad una conseguente riduzione dello stesso. Non fa

piacere sottolinearlo, ma tale riduzione spesso è necessaria per la stessa sopravvivenza di un’impresa

all’interno del mercato, in quanto la stessa potrebbe ritrovarsi a non potere sostenere i costi di una

consistente manodopera. Importanti, in tal senso, sono stati gli interventi legislativi volti, in certi casi, ad

un supporto economico delle imprese nei processi di riaggiustamento industriale ed altrettante volte ad un

sostegno dei lavoratori coinvolti nella riduzione del personale.

Evoluzione storica della disciplina delle eccedenze di personale

Gli interventi legislativi, cui abbiamo accennato nel paragrafo precedente, ha subito un’evoluzione storica

all’interno della quale distinguiamo 3 fasi.

La prima fase, immediatamente successiva al dopoguerra, prevede l’introduzione della “gestione ordinaria

della CIG, Cassa Integrazione Guadagni” e la soppressione del blocco ai licenziamenti. La CIG viene

configurata come un mezzo transitorio al quale i datori di lavoro possono fare ricorso in caso di eventi

eccezionali, in maniera tale da non dover licenziare i propri dipendenti.

La seconda fase, successiva alla L.604/1966 sui licenziamenti individuali, vede l’introduzione della “gestione

straordinaria della CIG”, che configura la CIG come intervento non più transitorio, ma di lunga durata a

favore dei lavoratori ed a sostegno del proprio reddito. Vengono introdotti, inoltre, la disciplina della

mobilità interaziendale dei lavoratori in esubero, ed altri strumenti a sostegno dei lavoratori licenziati.

Nella terza fase, aperta con la L.223/1991 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di

disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni

in materia di mercato del lavoro), i licenziamenti collettivi tornano ad essere lo strumento “normale” da

utilizzare in caso di eccedenze di personale e la CIG viene ridisegnata come strumento anch’esso da

utilizzare in maniera transitoria, a sostegno della ristrutturazione industriale e non direttamente del

reddito dei lavoratori.

Nel corso degli anni 90, inoltre, è stato previsto che possano essere introdotti nuovi ammortizzatori sociali,

quali strumenti di garanzia del reddito di tipo privatistico e non esclusivamente pubblicistico.

SEZIONE A: LA CASSA INTEGRAZIONE GUADAGNI

L’intervento ordinario della Cassa integrazione guadagni (CIG)

Per sostenere le imprese, del settore industriale, in brevi periodi di contrazione dell’attività produttiva è

previsto l’intervento ordinario della CIG, ossia di sospensioni del lavoro o riduzioni dell’orario lavorativo

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dovute ad eventi transitori non imputabili al datore o ai prestatori, o a determinate situazioni temporanee

del mercato (cause integrabili), per sostenere il reddito dei lavoratori coinvolti.

L’intervento è finanziato da:

• Contributi statali;

• Contributi di tutte le imprese;

• Contributi dell’impresa coinvolta.

L’ammontare del trattamento corrisponde, per i primi sei mesi, all’80% della retribuzione, ma dopo il

primo semestre non può superare un tetto massimo, che comunque viene incrementato annualmente

nella misura dell’80% dell’aumento dei prezzi di consumo secondo l’ISTAT.

La procedura per giungere alla CIG prevede la consultazione dei sindacati da parte dell’imprenditore, nel

caso in cui si renda necessaria una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario lavorativo: egli deve

comunicare alle r.s.a. o, in mancanza, agli organismi provinciali, la durata prevedibile della

contrazione/sospensione del lavoro ed il numero di prestatori coinvolti.

Successivamente all’informazione e consultazione sindacale, l’impresa deve fare richiesta di CIG alla sede

provinciale dell’INPS, laddove se non lo facesse sarebbe obbligato a corrispondere egli stesso la somma

pari all’importo di integrazione non percepita.

La durata massima dell’integrazione ordinaria è di 3 mesi, tuttavia prorogabile in casi eccezionali sino ad un

anno. Qualora si tratti di un’integrazione discontinua, non può comunque superare il periodo di 12 mesi in

un biennio.

L’intervento della CIG è stato esteso anche ai settori dell’edilizia e dell’agricoltura, in cui fronteggia la

discontinuità dell’occupazione e non le difficoltà dell’impresa.

Intervento straordinario della Cassa integrazione guadagni (CIGS). Le fattispecie causali; procedure per la

concessione del trattamento; durata dell’integrazione e meccanismi di rotazione tra i lavoratori

L’intervento straordinario della CIG, valevole per il settore industriale, assicura, attraverso la sospensione

dei rapporti di lavoro, sia la continuità del reddito e dell’occupazione dei lavoratori, sia la limitazione dei

licenziamenti, per garantire all’impresa di conservare il proprio patrimonio di professionalità. Se, però,

l’intervento ordinario mira a far fronte a situazioni di tipo congiunturale, quello straordinario tende a

fronteggiare situazioni di tipo strutturale, cioè di durevole eccedenza di personale.

L’intervento straordinario della CIG è finanziato nella medesima maniera dell’intervento ordinario e la

disciplina è contenuta all’interno della L.164/1975, nonché all’interno della L.223/1991 che l’ha

ridisegnata, aprendo la terza fase di cui si è parlato in precedenza.

Sono cause integrabili in presenza della quali può essere concessa l’integrazione straordinaria:

• Ipotesi di ristrutturazione, riorganizzazione e conversione aziendale;

• Crisi aziendale di particolare rilevanza sociale in merito alla situazione produttiva del settore o a

quella occupazione locale;

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• Ipotesi di procedura concorsuale;

• Ipotesi di contratto di solidarietà interna.

Nelle prime 2 ipotesi l’obiettivo della CIGS è quello di permettere all’impresa in difficoltà di continuare ad

operare sul mercato senza ricorrere a licenziamenti. Nella terza ipotesi la CIGS ha il compito di evitare che

gli organi incaricati dell’amministrazione ricorrano ai licenziamenti. Della quarta ipotesi si parlerà in

seguito.

L’integrazione salariale straordinaria spetta ad operai, impiegati e quadri intermedi con un’anzianità di

almeno 90 giorni, ed a quelle imprese che nei 6 mesi precedenti la richiesta di CIGS abbiano occupato

mediamente almeno 15 dipendenti, inclusi apprendisti ed ipotesi di contratto di formazione e lavoro.

La procedura di consultazione sindacale, già descritta per l’intervento ordinario della CIG, deve essere

obbligatoriamente esperita nelle prime 2 ipotesi di cause integrabili sopra descritte (ristrutturazione…e

crisi). Richiesta di ammissione all’intervento in cui si attesti l’avvenuta consultazione sindacale e

programma di risanamento vanno, poi, consegnati al Ministro (nelle ipotesi di crisi aziendale) o alla

Direzione provinciale del lavoro (nelle altre ipotesi). La presentazione tardiva da luogo alla responsabilità

dell’imprenditore, che dovrà corrispondere egli stesso l’integrazione.

Il programma, tra l’altro, va approvato dal Ministro del lavoro, previa istruttoria di un apposito comitato

tecnico sulla base di criteri generali fissati dal Comitato Interministeriale di Programmazione Economica

(CIPE) e tocca al Ministro concedere, con decreto, l’intervento straordinario di integrazione salariale.

L’intervento può durare, in caso di ristrutturazione, riorganizzazione e conversione aziendale, al massimo 2

anni, salvo che l’impresa, previo confronto con le r.s.a. o comunque con le organizzazione sindacali, non ne

chieda una modificazione: il Ministro potrà autorizzare massimo 2 proroghe, del periodo di 12 mesi l’una,

qualora il programma di risanamento presenti delle difficoltà di attuazione.

In caso, invece, di crisi aziendale, l’intervento ha una durata limitata a 12 mesi, non prorogabile ed una

nuova concessione, per la medesima causa integrabile, può essere stabilita solo dopo un periodo pari ai

2/3 di quello relativo alla prima concessione.

Abbiamo accennato a come la CIGS, nella seconda fase, fosse divenuta un surrogato dell’indennità di

disoccupazione, potendosi prolungare per periodo indefiniti. La L.223/1991, rispristinando la funzione

originaria della CIGS, ha previsto un periodo massimo di trattamento straordinario pari a 36 mesi in un

quinquennio per ogni unità produttiva, al di là della causa di concessione e salvo proroghe o casi in cui la

CIG sia stata concessa in forza di un contratto di solidarietà interna, secondo le condizioni stabilite dal

Ministro. Tra l’altro dopo il primo trimestre, l’erogazione del trattamento avviene per periodi semestrali,

qualora sia stata verificata la regolare attuazione del programma da parte dell’impresa, che tra l’altro non

potrà chiedere l’intervento straordinario per le unità produttive per cui ha richiesto quello ordinario.

In forza del generale divieto di discriminazione diretta o indiretta dei lavoratori, per quanto concerne

l’individuazione dei lavoratori da collocare in CIGS non deve essere attuata alcuna discriminazione o

distinzione per sesso o per altro motivo. L’impresa, tra l’altro, per continuare ad operare nel mercato,

potrebbe non adottare meccanismi di rotazione tra i lavoratori, così di fatto sfavorendo quelli collocati in

CIGS e favorendo quelli rimasti a lavoro: essa deve indicarne i motivi all’interno del programma di

risanamento, ma il Ministro del lavoro è competente a verificarne la fondatezza e qualora egli ritenga che il

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meccanismo di rotazione debba operare ugualmente, può tentare per 3 mesi di promuovere un accordo

tra le parti; in mancanza di un accordo, stabilisce egli stesso il meccanismo di rotazione da attuare, ed in

caso d’inottemperanza dell’impresa, è previsto un inasprimento del contributo addizionale per

disincentivare il comportamento sfavorito.

I lavoratori collocati in CIGS, inoltre, non possono rifiutarsi di partecipare e frequentare a corsi di

formazione o riqualificazione, in quanto decadrebbero dal trattamento d’integrazione, almeno che la

propria residenza non disti più di 50km dal luogo del corso o che non sia raggiungibile lo stesso con mezzi

pubblici in 80 minuti.

Intervento della CIG nelle ipotesi di procedure concorsuali

Abbiamo detto che anche le imprese sottoposte a procedure concorsuali possono far richiesta di CIGS nel

caso in cui vi sia stata dichiarazione di fallimento, provvedimento di liquidazione coatta amministrativa,

sottoposizione alla procedura di amministrazione straordinaria, ammissione a concordato preventivo con

cessione di beni ed ammesso che NON SIA STATA DISPOSTA O SIA CESSATA LA CONTINUAZIONE

DELL’ATTIVITA’ PRODUTTIVA. Se, infatti, l’attività continua il curatore, il liquidatore o il commissario

possono ugualmente far richiesta di CIGS, ma per “cause integrabili diverse” ed avendo diritto ad un

periodo di trattamento integrativo superiore rispetto ai 12 mesi previsti in caso di procedure concorsuali

(aumentabili a 18 se sussistano prospettive di continuazione o ripresa dell’attività, tramite anche una

cessione a qualsiasi titolo).

Contratti di solidarietà interna: nozione e disciplina legislativa

L’intervento straordinario della CIG può essere collegato anche ad un contratto di solidarietà interna,

introdotto nel 1985 al fine di salvaguardare l’occupazione. Tramite tale contratto viene stabilito, in caso di

crisi o di ristrutturazione aziendale, un sacrificio che coinvolge tutti i lavoratori, ossia viene distribuito tra

gli stessi il tempo di lavoro disponibile, con conseguente diminuzione dell’orario lavorativo e calo della

retribuzione per tutti. Questo permette all’impresa di continuare ad operare senza ricorrere a

licenziamenti dei dipendenti. Tale contratto può riguardare tanto le imprese industriali, quanto quelle

appaltatrici di servizi di mensa e ristorazione, quanto le imprese editoriali, nonché quelle commerciali con

più di 1000 (oggi 200) dipendenti. In tutti questi casi può essere fatta richiesta di un trattamento di

integrazione salariale, pari al 60% della retribuzione perduta per effetto della riduzione dell’orario di

lavoro, che può essere corrisposto per un periodo di 24 mesi, rinnovabile per altri 24 (36 per il meridione).

Agevolazione contributive sono previste per un biennio per i datori di lavoro. La CIG deve essere

autorizzata dal Ministro del lavoro, su parere favorevole dell’amministrazione regionale.

Estensione progressiva dell’ambito di applicazione dell’intervento straordinario della CIG

Il trattamento straordinario d’integrazione salariale è stato inizialmente concepito per le sole imprese

industriali, mentre in seguito è stato esteso a:

• Imprese industriali addette alla commercializzazione dei prodotti delle imprese aventi diritto alla

CIGS;

• Imprese appaltatrici di servizi di mensa e ristorazione, nonché di servizi di pulizia, che esercitino il

proprio lavoro presso un’impresa in crisi e soggetta a sua volta a CIGS;

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• Imprese commerciali con più di 200 (inizialmente dovevano essere 1000) addetti;

• Imprese artigiane su cui un’altra impresa industriale o commerciale, che abbia dato luogo ad

intervento straordinario della CIG, abbia un “influsso gestionale prevalente”: occorre che l’impresa

artigiana dipenda, per più del 50% del proprio fatturato, dalle commesse dell’impresa industriale o

commerciale;

• Soci di cooperative di produzione e lavoro;

• Imprese operanti nel settore dell’informazione e dell’editoria;

• Personale, anche navigante, di vettori aerei.

Nel settore agricolo l’intervento ordinario della CIG si ha anche in situazione che nel settore industriale

diano luogo all’intervento straordinario.

Inoltre, anche dopo l’emanazione della L.223/1991 e dei limiti rigidi da essa imposti, la CIGS è stata spesso

utilizzata anche in ambiti esclusi dal suo campo d’applicazione.

CIG e sospensione del rapporto di lavoro: disciplina speciale e principi generali di diritto civile

Abbiamo avuto modo di precisare, nel corso dei precedenti capitoli, che il contratto di lavoro è un

contratto a prestazioni corrispettive, in quanto alla prestazione lavorativa di una parte corrisponde quella

retributiva dell’altra. Abbiamo anche sottolineato come, al di fuori dei casi di oggettiva impossibilità

sopravvenuta della prestazione, l’imprenditore che rifiuti la prestazione lavorativa, sospendendo di fatto il

lavoro, è da considerarsi in mora credendi. E’ quindi ipotizzabile che, se dovessimo attenerci alle regole

generali, dovremmo osservare che in molti casi in cui può essere richiesta la CIG, sia ordinaria che

straordinaria, non sussista realmente un’impossibilità sopravvenuta della prestazione retributiva, ma

semplicemente una maggiore difficoltà nell’eseguirla, che non attribuisce all’imprenditore il potere di

sospendere il rapporto unilateralmente. La verità è che alla base della sospensione del rapporto di lavoro vi

è un accordo, sia pure implicito, tra le parti, in forza del quale il lavoratore, dovendo scegliere tra la

continuità del rapporto o le dimissioni per giusta causa, decide di accettare la sospensione dell’attività

produttiva, che sta alla base del procedimento amministrativo di concessione dell’integrazione salariale.

N.B. trattasi di paragrafo inutile ai fini dell’esame, ma utile per capire il diritto in quanto tale.

SEZIONE B: I LICENZIAMENTI COLLETTIVI

I licenziamenti collettivi per riduzione di personale. Disciplina collettiva ed elaborazione

giurisprudenziale

A partire dal secondo dopoguerra sino all’inizio degli anni 90, il legislatore si è più volte dedicato alla

disciplina dei licenziamenti individuali, di cui abbiamo abbondantemente parlato, escludendo sempre e

comunque che a tale disciplina fosse accomunabile quella inerente i licenziamenti collettivi, in quanto

espressione del potere di organizzazione dell’imprenditore, in grado di essere attuato in caso di esigenze di

riduzione o trasformazione di attività o di lavoro. Neanche la L.604/1966, che pure ha introdotto limiti

sostanziosi al potere di licenziamento individuale, ha saputo far corrispondere un parallelo accrescimento

della tutela dell’interesse collettivo. A tutelare lo stesso è dovuta, più volte, intervenire la giurisprudenza,

in assenza di una specifica disciplina legislativa.

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La funzione suppletiva della giurisprudenza e le sua contraddizioni. La disciplina comunitaria

Oltre agli accordi interconfederali, quindi, all’interno del sistema italiano non si sono avuti, fino agli anni

90, interventi legislativi inerenti il licenziamento collettivo. Per anni la giurisprudenza ha cercato di

indirizzare il legislatore, dapprima prevedendo che, in mancanza di consultazione sindacale, il

licenziamento collettivo venisse considerato come una somma di licenziamenti individuali; in seguito

prevedendo che la riduzione o trasformazione di attività o lavoro fosse un requisito per dar luogo al

licenziamento collettivo, non essendo possibili licenziamenti dovuti ad altre motivazioni, come quelli

tecnologici, scaturiti cioè dall’ammodernamento degli impianti. In seguito la giurisprudenza è tornata sui

propri passi, includendo tra le motivazioni possibili dei licenziamenti collettivi, anche la riduzione

dell’attività produttiva (purché definitiva). Insomma la giurisprudenza, per molto tempo, è stata unica

fonte della disciplina dei licenziamenti collettivi, seppur spesso sia entrata in contraddizione.

Nel 1975 venne emanata, dal Consiglio delle Comunità Europee, la direttiva 75/129 in materia di

licenziamenti collettivi, che lo Stato italiano lasciò inattuata per anni, fino ad un richiamo della Corte di

Giustizia nel 1985. Nel 1991 lo Stato italiano ha dato applicazione alla disciplina comunitaria, tramite la

L.223. Tuttavia la direttiva comunitaria è stata modificata altre 2 volte da altre due direttive, la 92/56 e la

98/59, di cui lo Stato italiano non ha tenuto conto, in quanto la disciplina interna è stata ritenuta

sufficiente ad integrare le due direttive successive. La Corte di Giustizia, comunque, ha richiamato

all’attenzione dello Stato italiano che la L.223/1991 non contempla il caso dei datori di lavoro non

imprenditori, inclusi invece nella disciplina comunitaria, alche il legislatore italiano è dovuto nuovamente

intervenire.

La disciplina delle riduzioni di personale introdotta dalla L.223/1991

La tanto auspicata disciplina sui licenziamenti collettivi è arrivata nel 1991 con la L.223. Essa, oltre a

regolare la fattispecie dell’eccedenza temporanea di personale, tramite la previsione della CIG, ha regolato

anche l’ipotesi di eccedenza definitiva di personale, distinguendo tra “collocamento in mobilità”, nel caso

in cui l’eccedenza si manifesti nel corso di un processo di ristrutturazione o di crisi aziendale per cui sia

stato concesso l’intervento della CIGS, e “licenziamento collettivo per riduzione del personale”, quando la

decisione dell’imprenditore prescinde dall’intervento o meno della CIGS.

A dire la verità la disciplina in materia si può ritenere unitaria, al di là della differenza terminologica tra le

due ipotesi, in quanto il legislatore, nella normativa inerente il licenziamento collettivo per riduzione del

personale, molto spesso rinvia al caso di collocamento in mobilità. Va sottolineato, inoltre, come il

licenziamento collettivo per riduzione del personale possa essere attuato anche in caso di applicazione

della CIGS quando l’impresa voglia ugualmente licenziare collettivamente al di fuori dell’intervento della

Cassa.

La disciplina, tra l’altro, dal 2004 si applica anche ai datori di lavoro non imprenditori, in quanto il

legislatore italiano, per ottemperare alle previsione giurisprudenziale della Corte di Giustizia, ha previsto

tale innovazione.

Va notato, infine, come il collocamento in mobilità possa intervenire solo per le unità produttive con più di

15 dipendenti, in quanto esse devono aver fatto ricorso alla CIGS, alla quale, come abbiamo già detto,

possono ricorrere solo le imprese con un tal numero di prestatori di lavoro.

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La procedura di collocamento in mobilità

Abbiamo visto come, in tema di CIGS, sia necessario che il datore di lavoro proponga un piano di

risanamento dell’impresa per poter avere accesso al trattamento integrativo e per evitare il licenziamento

dei lavoratori. Qualora, nel corso dell’attuazione di tale piano, l’imprenditore si renda conto di non poter

evitare in alcun modo il licenziamento di tutto o di parte del personale, egli deve avviare una procedura di

collocamento in mobilità. Nello specifico la procedura di mobilità prevede che:

• L’imprenditore ha l’obbligo di informare immediatamente ed analiticamente le r.s.a. ed i rispettivi

sindacati di categoria della situazione di difficoltà, indicando i motivi che determinano l’eccedenza

ed impediscono il ricorso a soluzioni alternative, specificando il numero di lavoratori interessati e le

relative mansioni;

• Copia della comunicazione deve essere inviata alla pubblica autorità, in particolare ai relativi uffici

competenti regionali;

• Le r.s.a. e le associazioni di categoria, entro 7 giorni dal ricevimento della comunicazione, possono

richiedere un esame congiunto della situazione per cercare, insieme all’impresa, una soluzione che

eviti il licenziamento (procedura di consultazione);

• Se entro 45 giorni dalla consultazione non si trovano soluzioni reali al problema, il responsabile

dell’Ufficio regionale competente, ricevuta comunicazione dell’esito dell’incontro, tenta una

mediazione tra le parti (sindacati ed impresa) che deve esaurirsi entro 30 giorni (se i lavoratori

interessati sono meno di 10, i termini diventano rispettivamente di 23 e di 15 giorni).

Va specificato che il legislatore, pur di impedire il licenziamento dei lavoratori, permette alle parti di

concordare anche cambiamenti di mansioni, in deroga all’art.2103 c.c., così come distacchi di più lavoratori

presso altre imprese, seppur momentanei.

Collocamento in mobilità dei lavoratori eccedenti. Aspetti formali del recesso. Sanzioni per

licenziamento illegittimo.

Esaurita la procedura di mobilità, anche in assenza di accordo con i sindacati l’imprenditore può procedere

al collocamento in mobilità ed all’esercizio del proprio diritto di recesse, tramite la risoluzione del rapporto

di lavoro per ciò che concerne i lavoratori in esubero.

Ovviamente il legislatore ha previsto che dei criteri di scelta siano fissati in concerto con i sindacati più

rappresentativi, ma in assenza di un accordo di tal genere, l’imprenditore dovrà osservare altri criteri:

dovrà tener conto dei carichi di famiglia, dell’anzianità e delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative

dell’impresa. In ogni caso la percentuale di disabili da licenziare dovrà equivalere alla percentuale dei

disabili in caso di assunzione; inoltre dovrà essere mantenuto il rapporto percentuale tra manodopera

femminile e maschile, tenendo presente sempre le esigenze dell’impresa. Alcuna discriminazione, diretta o

indiretta, potrà essere posta in essere nel collocamento in mobilità.

La comunicazione del licenziamento dovrà essere individuale e rispettare la forma scritta, altrimenti sarà

inefficace, non producendo alcun effetto. Dovrà, inoltre, essere rispettato l’obbligo di preavviso ed una

comunicazione con l’elenco dei soggetti da licenziare dovrà pervenire agli Uffici regionali competenti, con

l’indicazione dei criteri di scelta. La violazione dei criteri di scelta, tra l’altro, comporterà non l’inefficacia,

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bensì l’annullabilità del licenziamento, con la conseguente reintegrazione, a norma dell’art.18 dello Statuto

dei lavoratori, nel posto di lavoro. Il licenziamento sarà impugnabile entro il termine di 60 giorni, anche in

forma stragiudiziale, a pena di decadenza dal diritto all’impugnazione. Se uno o più licenziamenti vengono

annullati per violazione dei criteri di scelta, l’imprenditore, nel rispetto degli stessi, potrà licenziare un

numero pari di lavoratori, comunicandolo semplicemente alle r.s.a.

Lo statuto dei lavoratori in mobilità: indennità di mobilità ed iscrizione nelle liste di mobilità.

Cancellazione dalle liste di mobilità

I lavoratori collocati in mobilità, qualora possano vantare un periodo di anzianità aziendale di almeno 12

mesi di cui 6 effettivi (inclusi i periodi di infortunio, ferie e festività), hanno diritto all’indennità di mobilità

per un periodo di 12 mesi pari al trattamento d’integrazione salariale goduto prima del licenziamento,

elevabile a 24 qualora il prestatore abbia compiuto 40 anni ed a 36 qualora ne abbia già compiuti 50. Nei

mesi successivi ai primi 12, comunque, l’indennità diviene pari all’80% di quella precedentemente goduta,

tuttavia aumentata in base alla rivalutazione annuale dell’ISTAT. L’indennità, comunque, non può essere

corrisposta per un periodo superiore a quello di anzianità aziendale (se per esempio il lavoratore ha

un’anzianità aziendale di 18 mesi ed ha compiuto i 40 anni, non potrà ricevere l’indennità per 24 mesi, ma

solo per 18). Tra l’altro se un soggetto ha maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia non ha diritto alla

corresponsione dell’indennità di mobilità; stessa cosa nel caso in cui percepisca una pensione di invalidità,

incompatibile con la mobilità, al pari del sussidio di disoccupazione. I periodi di corresponsione

dell’indennità di mobilità vengono computati anche ai fini pensionistici. Un soggetto, tra l’altro, può

chiedere la corresponsione in un’unica soluzione, qualora egli abbia dei fini imprenditoriali. Dovrà, però,

restituire le somme percepite qualora, nel termine di 24 mesi, venga assunto e riprenda l’attività

lavorativa.

I lavoratori collocati in mobilità, inoltre, vengono iscritti in una “lista di mobilità”, la quale attribuisce loro il

diritto di precedenza rispetto alle nuove assunzioni effettuate dalla stessa azienda nel termine di 6 mesi dal

licenziamento; la legge, inoltre, assicura alle altre imprese degli incentivi economici e contributivi qualora

assumano a tempo indeterminato un lavoratore in mobilità. Medesimi diritti hanno anche coloro che non

percepiscono l’indennità di mobilità per mancanza dei requisiti di anzianità aziendale: essi, di fatto, sono

esclusi solo dagli interventi previdenziali a tutela del reddito.

La cancellazione dalle liste di mobilità avviene alla scadenza dei periodi massimi per i quali è prevista la

corresponsione dell’indennità di mobilità, anche per coloro che non ne hanno diritto. Ovviamente la

cancellazione segue anche alla cessazione dello stato di disoccupazione, qualora il soggetto venga assunto

da qualsivoglia impresa. La cancellazione, inoltre, può avere anche un fine sanzionatorio, qualora il

soggetto si sia rifiutato di prendere parte ad un corso di formazione o abbia rifiutato un’offerta lavorativa

professionalmente equivalente e che dai contratti collettivi risulti inquadrarlo in un livello retributivo solo

del 20% inferiore rispetto a quello delle mansioni di provenienza. Il soggetto può legittimamente rifiutarsi,

senza incorrere nella cancellazione dalla lista di mobilità, qualora il corso di formazione o l’offerta

lavorativa propinatagli si svolgano in un luogo lontano più di 50 km dalla propria residenza o non

raggiungibile, tramite mezzi pubblici, in 80 minuti.

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Licenziamento collettivo per riduzione di personale: estensione delle norme sulla procedura, indennità

ed iscrizione nelle liste di mobilità

Prima di trattare il licenziamento collettivo per riduzione di personale, dobbiamo ricordarci che

l’imprenditore che rientri nel campo di applicazione della CIGS e per cui ricorra una delle cause che

potrebbero dar luogo all’intervento straordinario della CIGS, non obbligatoriamente deve ricorrere alla

stessa, potendo da subito optare per una riduzione del personale, qualora la stessa risulti definitiva da

subito. Dobbiamo, infatti, tener conto della necessità di un programma di risanamento per poter accedere

alla CIGS, che l’imprenditore non potrebbe mai porre in essere qualora sia convinto che la riduzione debba

essere definitiva, anche se l’evenienza che egli opti per la riduzione del personale può verificarsi anche in

costanza della CIGS. In attuazione, quindi, della normativa comunitaria, il legislatore italiano, all’interno

dell’art.24 della L.223/1991, ha disciplinato il “licenziamento collettivo per riduzione di personale,

stabilendo che:

• Si applichi alle imprese con almeno 15 dipendenti;

• Si applichi in conseguenza di una “riduzione o trasformazione di attività o di lavoro”;

• Si applichi ad almeno 5 dipendenti nell’arco di 120 giorni in un’unica unità produttiva;

• Si applichi a licenziamenti riconducibili tutti alla medesima “riduzione o trasformazione”;

• Si applichi in caso di cessazione totale e definitiva dell’attività.

L’esistenza di tali requisiti va riscontrata nella fase di attivazione della procedura, non in quella conclusiva: i

sindacati possono anche convincere l’imprenditore a licenziare un numero inferiore di lavoratori, ma ciò

non cambia la situazione, in quanto si permane all’interno della disciplina del licenziamento collettivo.

Un eventuale controllo giudiziario, inoltre, può riguardare solo la sussistenza di una riduzione o

trasformazione di attività o di lavoro, ma non entrare nel merito delle scelte imprenditoriali; ovviamente

occorre, anche, che vi sia un nesso di causalità tra scelta imprenditoriale e licenziamento.

Per ciò che concerne il rispetto dei criteri di scelta, del preavviso e dei vincoli formali, nonché tutti gli

aspetti procedurali, si fa espresso rinvio all’art.4 della L.223/1991 in materia di collocamento in mobilità.

Stessa cosa per il regime di inefficacia ed annullabilità del licenziamento.

La legge, tuttavia, nulla prevede in caso di mancanza del nesso di causalità tra licenziamento collettivo e

scelta imprenditoriale di riduzione o trasformazione. C’è chi pensa che il licenziamento collettivo sia

soggetto a differente disciplina, in quanto considerato come somma dei licenziamenti individuali. C’è chi

crede che sia invalido per vizio procedurale e che quindi sia invalido e vada applicato l’art.18 dello Statuto

dei lavoratori. Va detto, comunque, che il licenziamento in tal caso presenta un’anomalia, anche se non

sono chiare le conseguenze della stessa. Il giudice, comunque, che ravvisi che dei licenziamenti individuali

fondati su una riduzione o trasformazione di attività o lavoro possano rientrare nell’applicazione

dell’art.24, può statuire che essi siano inefficaci per inosservanza dei vincoli procedurali, dando così la

possibilità di operare all’art.18 dello Statuto.

Qualora, tra l’altro, il licenziamento collettivo per riduzione di personale riguardi imprese che avrebbero

potuto beneficiare dell’intervento straordinario della CIG, è previsto che i lavoratori licenziati abbiano

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diritto all’indennità di mobilità ed all’iscrizione nelle liste di mobilità (senza indennità per coloro che

manchino del requisito di anzianità di 12 mesi). Il diritto all’iscrizione nelle liste di mobilità è stato previsto

anche per i lavoratori dipendenti da datori di lavoro non imprenditori, così come per quelli che abbiano

subito un licenziamento collettivo ai sensi dell’art.24 da imprese non soggette alla disciplina della CIGS.

Oneri economici posti a carico delle imprese

Il datore di lavoro che opti per una riduzione del personale e che sia soggetto alla disciplina della CIGS va

incontro ad oneri economici sostanziosi, ossia al c.d. “contributo di mobilità”. Per ogni lavoratore licenziato

secondo la procedura descritta dall’art.4 L.223/1991 (collocamento in mobilità), l’impresa deve

corrispondere all’INPS, in 30 rate mensili, un contributo pari a 6 volte il trattamento mensile iniziale di

mobilità; deve corrispondere, invece, un contributo pari a 9 volte qualora abbia eseguito i licenziamenti

secondo l’art.24 della L.223 (licenziamento collettivo per riduzione di personale). Quindi, come possiamo

notare, viene incentivato il ricorso alla CIGSS, proprio per una maggior tutela dei lavoratori. Nel caso in cui

ci sia stato un accordo sindacale, gli oneri sono ridotti ad una somma pari a 3 volte il trattamento di

mobilità; l’imprenditore ha diritto ad una riduzione degli oneri anche qualora si sia attivato per cercare

occasioni di lavoro per i lavoratori licenziati. Dalla somma complessiva da versare all’INPS, inoltre,

l’imprenditore può detrarre l’anticipazione (una mensilità del trattamento massimo di CIGS per ogni

lavoratore) versata prima della comunicazione dell’attivazione della procedura di mobilità, che recupererà,

tra l’altro, qualora rinunci alla mobilità o licenzi meno persone.

L’imprenditore vede aggravarsi l’onere a proprio carico qualora il collocamento in mobilità avvenga tra la

fine del 12esimo mese dalla concessione della CIG e la fine del 12esimo mese successivo al completamento

del programma di risanamento (l’importo viene maggiorato del 5% per ogni mese di ritardo).

Procedure concorsuali, collocamento in mobilità e licenziamento per riduzione di personale

Nel caso in cui sia stata avviata una procedura concorsuale, gli organi della procedura (curatore, liquidatore

o commissario) possono optare per diverse scelte, a seconda che sia stata o meno disposta la cessazione

dell’attività. Se la continuazione dell’attività non è possibile, l’art.3 della L.223/1991 prevede che essi

possano scegliere di ricorrere al licenziamento collettivo, oppure possono richiedere, laddove sia possibile,

l’intervento straordinario della CIG per procedura concorsuale, nel cui ambito attivare il collocamento in

mobilita. Qualora, invece, l’esercizio dell’attività continui, essi, operando come un qualunque

imprenditore, possono scegliere la procedura di licenziamento per riduzione del personale in forza

dell’art.24 L.223, oppure richiedere l’intervento straordinario della CIG, stavolta utilizzando come causa

integratrice la ristrutturazione, riorganizzazione e conversione dell’impresa o la crisi aziendale, optando per

il collocamento in mobilità.

Il legislatore, riconoscendo la particolare situazione di imprese soggette a procedura concorsuale, esonera

le stesse dal contributo di mobilità, oltre a prevedere tempi più brevi per la consultazione sindacale.

Dobbiamo sottolineare che, laddove sia attuato un trasferimento d’azienda o di parte di essa, il

trasferimento in se stesso non costituisce giustificato motivo di licenziamento, fermo restando il diritto

dell’alienante, o anche dell’acquirente dopo la cessione, di attuare licenziamenti secondo la disciplina

generale.

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Licenziamento collettivo in caso di datori di lavoro privati non imprenditori

Si è già accennato al fatto che l’Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia per mancato

ottemperamento alle direttive comunitaria, in quanto con la L.223/1991 non aveva incluso nella disciplina i

datori di lavoro NON imprenditori. Ovviamente il legislatore italiano si è conformato alla scelta della Corte

nel 2004, integrando la L.223. Oggi, quindi, la disciplina contenuta nell’art.24, inerente il licenziamento

collettivo per riduzione del personale, si applica anche ai datori di lavoro non imprenditori, fermo restando

che essi non debbano corrispondere il contributo di mobilità (e quindi neanche l’anticipo in sede durante

l’avvio della procedura) e che i propri lavoratori licenziati non abbiano diritto all’indennità di mobilità (in

quanto non rientranti nel campo della CIGS), ma solo all’iscrizione nelle liste di mobilità con i diritti che ne

conseguono. Le sanzioni per licenziamento illegittimo sono le medesime previste per gli imprenditori, ossia

inefficacia in taluni casi ed annullabilità in altri, con conseguente tutela reale a favore dei lavoratori

prevista dall’art.18 dello Statuto. Una sola eccezione è prevista per le organizzazioni di tendenza (datori di

lavoro non imprenditori che svolgono attività di natura politica, culturale, sindacale, d’istruzione o

religione, senza fini di lucro): in caso di inefficacia o annullabilità del licenziamento opera solo e soltanto

una tutela obbligatoria e non reale.

Residua area di operatività della disciplina interconfederale del 1965

La disciplina degli accordi interconfederali, unica disciplina (ricordiamo politica ma non legislativa) sul

licenziamento collettivo presente prima della L.223, continua ad operare solo nel caso di licenziamenti

collettivi sotto il punto di vista sindacale ma NON legale, o perché adottati da imprese con meno di 16

dipendenti o perché privi di requisiti numerici, temporali e spaziali.

Interventi di carattere transitorio ed eccezionale in materia di mobilità. Prepensionamenti e mobilità

lunga

Così come per la CIGS, anche in materia di mobilità il legislatore è spesso intervenuto a favore dei

lavoratori, attuando una disciplina non presente nella normativa a riguardo.

Per esempio, molto spesso, si è concessa la cosiddetta “mobilità lunga” a favore di quei lavoratori anziani

di difficile ricollocazione all’interno del mercato del lavoro: a loro favore veniva prevista l’indennità di

mobilità, per un periodo protratto di tempo, che li accompagnasse fino al compimento dell’età

pensionabile. Praticamente una forma di prepensionamento o se vogliamo di mobilità con

accompagnamento alla pensione.

Altrettanto spesso, inoltre, si è assistito all’estensione, da parte del legislatore, del regime di mobilità nei

confronti di lavoratori licenziati da imprese con meno di 15 dipendenti.

SEZIONE C: SOSTEGNO ED INCENTIVAZIONE DELL’OCCUPAZIONE

Contratti di solidarietà esterna ed altre misure analoghe

Il continuo processo di terziarizzazione e le profonde modificazioni del sistema economico ed industriale,

hanno fatto in modo, col passare del tempo, che si creasse una vera e propria crisi occupazionale, sia per i

lavoratori già occupati, sia per i giovani non ancora occupati.

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118

Per tali motivi si sono resi necessari degli interventi legislativi volti ad incentivare l’occupazione da parte

delle imprese, tramite nuovi sistemi:

• Il contratto di solidarietà ESTERNA che, diversamente da quello di solidarietà interna non tende ad

evitare il licenziamento di lavoratori già occupati, ma tramite un accordo con i sindacati più

rappresentativi, tende a promuovere l’occupazione di nuovi lavoratori, con conseguente riduzione

dell’orario lavorativo e della retribuzione per i lavoratori già occupati, che non beneficiano, tra

l’altro, di alcuna indennità integrativa da parte dello Stato. Le imprese, invece, beneficiano di

incentivi finanziari. Solo i lavoratori più anziani che accettino di lavorare a tempo parziale

beneficiano di incentivi previdenziali;

• Nel 1991 è stato previsto un altro tipo di contratto aziendale volto ad evitare i licenziamenti: tra

un’impresa beneficiaria dell’intervento straordinario della CIG da più di 24 mesi ed i sindacati più

rappresentativi, può essere stipulato un accordo in forza del quale, per favorire l’occupazione di

nuovi lavoratori o evitare licenziamenti, i lavoratori di età inferiore di non più di 5 anni a quella

prevista per la pensione di vecchiaia e che abbiano almeno 15 anni di contribuzione, possono

chiedere la trasformazione del contratto da tempo pieno a part-time, godendo temporaneamente

della retribuzione e del trattamento pensionistico;

• Nel 1994 sono stati concessi notevoli incentivi alle imprese che stipulino contratti part-time per

incrementare gli organici esistenti, proprio a favore, quindi, dell’occupazione.

L’esperienza dei lavoratori socialmente utili

Prima di parlare dei lavoratori socialmente utili, è necessario specificare la distinzione esistente tra un

sistema di welfare ed uno di workfare. Welfare significa “benessere, assistenza, sussidio pubblico, aiuto

sociale” ed indica un sistema che tenda ad aiutare un lavoratore bisognoso tramite interventi previdenziali

ed assistenziali. Il concetto di workfare, invece, è diverso: in cambio dell’aiuto sociale, del sussidio,

dell’intervento previdenziale ed assistenziale, il ricevente deve eseguire un’attività di assistenza, di utilità

sociale.

Il concetto di lavoro socialmente utile, introdotto dal D.Lgs.468/1997 proprio per promuovere

l’occupazione di nuovi lavoratori o occupare temporaneamente quelli che godono di trattamenti

previdenziali (indennità di mobilità o di disoccupazione, CIGS), prevede che il soggetto venga impegnato in

un’attività di utilità sociale, all’interno di progetti predisposti da soggetti pubblici e privati. L’esperienza dei

l.s.u. avrebbe dovuto dare un contributo al sistema occupazione, riqualificando alcuni e collocandone altri,

cosa che, invece, non è accaduta. Il D.Lgs.81/2000 ha soppresso buona parte delle tipologie di l.s.u.

Promozione delle cooperative di produzione e lavoro a fini occupazionali. Inserimento e reinserimento

dei lavoratori nel mercato del lavoro

Sempre nell’ottica di promuovere l’occupazione, il legislatore ha previsto, con la L.49/1985, l’introduzione

delle cooperative di produzione e lavoro, attraverso le quali si attua una mutualità imprenditoriale tra i

lavoratori, molto spesso provenienti da aziende in crisi. Tali cooperative vengono incentivate dal

legislatore, tramite un privilegio nei finanziamenti.

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Altri interventi hanno riguardato incentivi economici per le imprese che assumono lavoratori disoccupati o

collocati in CIGS: gli incentivi consistono in aiuti economici, in sgravi fiscali o contributivi, o in erogazioni

una tantum.

Anche il D.Lgs.276/2003 che ha riformato il mercato del lavoro è intervenuto in materia, prevedendo che le

agenzie di somministrazione possano prevedere piani individuali d’inserimento o reinserimento di

lavoratori svantaggiati nel mercato del lavoro, e che venga meno, in tali casi, il principio di parità di

trattamento tra lavoratori somministrati e lavoratori dipendenti dall’utilizzatore, potendo quest’ultimo

attuare una diversa disciplina retributiva. Il soggetto che gode di un’indennità di disoccupazione, decade da

tale diritto qualora rifiuti un’offerta in tal senso.

Forme negoziali di sostegno al lavoro: contratto di reinserimento; lavoro accessorio; contratto di

inserimento

Per favorire ulteriormente l’occupazione, il legislatore del 1991 e del 2003 ha previsto altri tipi di rapporto

di lavoro:

• Contratto di reinserimento, introdotto dalla L.223/1991, destinato a lavoratori che fruiscano da

almeno 12 mesi del trattamento speciale di disoccupazione (poi venuto meno) o della CIGS. Essi

possono essere assunti con tale contratto da imprese che nell’anno precedente non abbiano dato

luogo a licenziamenti e che non abbiano, al momento dell’assunzione, in corso una CIG. Il contratto

deve rispettare la forma scritta ed essere inviato, in copia, all’INPS ed alla Direzione provinciale del

lavoro. I datori di lavoro che danno luogo a tale rapporto ricevono delle agevolazione contributive;

• Lavoro accessorio, introdotto dal D.Lgs.276/2003, destinato a categorie di soggetti a rischio di

esclusione sociale o non ancora entrati nel mondo del lavoro o in procinto di uscirne, come dice la

stessa disciplina. Si tratta di casalinghe, disoccupati da oltre un anno (che non perdono tale status),

studenti, pensionati, disabili e soggetti in comunità di recupero, lavoratori extracomunitari che

abbiano perso il lavoro da almeno 6 mesi. Essi potranno svolgere prestazioni di tipo accessorio

qualora comunichino la propria disponibilità ai servizi per l’impiego, che rilascerà loro una tessera

magnetica che attesti la loro condizione. Potranno svolgere attività meramente occasionali

(insegnamento privato, pulizia e manutenzione di edifici e monumenti, lavoretti in impresa

familiare, piccoli lavori domestici e cose del genere). Il soggetto potrà soddisfare le esigenze di

qualsiasi committente, purché non riceva da ognuno di essi compensi superiori a 5000 euro.

Sembra configurarsi, quindi, una fattispecie di lavoro autonomo. Il pagamento dagli

utilizzatori/committenti ai soggetti esercenti lavoro accessorio dovrà avvenire tramite specifici

buoni, che il committente acquisterà presso le rivendite autorizzate e che il lavoratore tramuterà in

denaro presso il concessionario. I buoni sono esenti da imposizione fiscale, ma grava sul

concessionario l’obbligo di versamento contributivo all’INPS ed all’INAIL, una volta trattenute le

proprie competenze. INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: è da segnalare che con

specifico riguardo alle attività agricole non integrano in ogni caso un rapporto di lavoro autonomo o

subordinato le prestazioni svolte, da parenti e affini sino al quarto grado, in modo meramente

occasionale o ricorrente di breve periodo, a titolo di aiuto, mutuo aiuto, obbligazione morale senza

corresponsione di compensi, salvo le spese di mantenimento e di esecuzione dei lavori.

Concludendo, va precisato come l’applicazione di questo istituto sia ancora in fase sperimentale

perché la sua diffusione dipende in buona parte dalla costituzione di una rete informativa tra i

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diversi soggetti coinvolti nella gestione del sistema. In ogni caso è utile distinguere tra il lavoro

accessorio reso nei confronti delle famiglie e quello reso nei confronti delle imprese. Quest’ultimo,

infatti, presenta maggiori rischi di utilizzazione fraudolenta ed a tal fine sono stati individuati

particolari limiti procedurali in sede di applicazione della normativa. Per tutti coloro che vogliano

utilizzare il lavoro accessorio è necessaria la registrazione anagrafica presso l’INPS, ma solo per i

lavori in agricoltura e nei settori del commercio, turismo e servizi sono necessarie alcune

comunicazioni: le indicazioni anagrafiche relative al lavoratore e al periodo di svolgimento

dell’attività occasionale, sono immesse telematicamente ed è necessaria la comunicazione

preventiva all’INAIL.

• Contratto di inserimento, con finalità formative, di cui abbiamo già parlato.

Incentivi all’occupazione. Sostegno all’autoimprenditorialità ed all’autoimpiego

Vi sono, infine, interventi diretti a fronteggiare la disoccupazione tramite la promozione dell’iniziativa

imprenditoriale e dell’autoimpiego (lavoro autonomo) nelle aree ad alta disoccupazione e per garantire

un’eguaglianza sostanziale tra i sessi. Tipico esempio è la L.215/1992.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO DELL’INTERA SEZIONE C: abbiamo già accennato a come

gli ammortizzatori sociali siano spesso intervenuti, date le continue crisi di molti settori sia a livello

nazionale che territoriale, al di fuori del proprio campo di applicazione ed a favore di imprese che non

hanno mai contribuito finanziariamente a questo sistema previdenziale. E per tal motivo che spesso si è

parlato di “ammortizzatori sociali in deroga”. Nell’anno 2009, a causa della crisi mondiale che assale anche

lo Stato italiano, è stata riconosciuta al Ministro del lavoro, di concerto con il Ministro dell’economia e

delle finanze, la facoltà di concedere e prorogare trattamenti di cassa integrazione guadagni, mobilità e

disoccupazione speciale, con riferimento a particolari settori produttivi o a particolari aree geografiche,

sulla base di specifici accordi governativi e per un periodo massimo di 12 mesi. Ai lavoratori non rientranti

nell’ambito della CIGS, poi, è stata riconosciuta l’indennità di disoccupazione ordinaria, a condizione che il

20% di tale indennità sia corrisposto dagli enti bilaterali istituiti dalla contrattazione collettiva.

Infine, sperimentalmente per il biennio 2009-2011, anche ai lavoratori coordinati e continuativi, se in

regime di monocommittenza e solo in caso di fine lavoro, è stata riconosciuta un’indennità pari al 10% del

reddito percepito nell’anno precedente.

Ovviamente, nel caso di ammortizzatori in deroga, il lavoratore deve sottoscrivere una dichiarazione di

immediata disponibilità al lavoro o ad un percorso di riqualificazione professionale.

FINE

N.B. per gli studenti: quest’opera non è solo un riassunto del GHERA (anche), ma una rielaborazione

personale dei temi in esso trattati. Aver scartato alcune parti e sottolineato l’importanza di altre, non fa di

me un docente, ma semplicemente uno studente che fa delle valutazioni personali. Dal canto mio, con una

minima vena di vanto ed arroganza, possono dirvi che le mie rielaborazioni mi hanno sempre portato a

conseguire voti non inferiori al 27. Tuttavia è doveroso, da parte mia, precisare che ognuno di noi è

portatore di una singolarità che gli permette di recepire le informazioni in maniera diversa, migliore o

peggiore che sia. Quello che posso assicurare è che, all’interno della mia rielaborazione, non ho trascurato

nulla di rilevante, ma pur sempre dal mio punto di vista, che potrebbe differire da quello degli assistenti e

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del docente. Vi invito, pertanto, ad integrare gli argomenti trattati con il libro di testo, scritto da un

docente e luminare in materia, qualora l’esposizione non vi abbia soddisfatti, o anche a confrontare la mia

rielaborazione con quella di altri colleghi. Mi scuso in anticipo, inoltre, qualora doveste riscontrare errori

grammaticali, dovuti, vi assicuro, alla stanchezza ed al peso specifico della materia. Rielaborare non è mai

semplice, per questo motivo in alcune parti ritroverete pari pari le parole del testo, magari selezionate a

mia discrezione, magari ricopiate e basta. In altre, invece, troverete elementi di diritto privato (o anche

commerciale) che il testo da per scontato che voi abbiate appreso, ma che io ho voluto ricordarvi

ugualmente.

Spero davvero che questa mini-opera possa esservi d’aiuto.

Vi auguro di prendere un buon voto all’esame!!!

Foxshark