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CAPITOLO I: Le fonti del diritto del lavoro Per il diritto del lavoro, l’unica particolarità è l’art. 2078 del Codice Civile secondo il quale “gli usi prevalgono sulle norme dispositive di legge, se più favorevoli al prestatore di lavoro” (è un’integrazione e non una modifica). Il diritto del lavoro non deriva soltanto dal legislatore, ma anche dalla volontà politica: il diritto del lavoro ha una funziona solo ausiliaria della contrattazione collettiva. In certi ambiti, quali la legislazione di sostegno dell’attività sindacale, il diritto del lavoro ha, invece, una funzione promozionale (di incentivazione). L’autonomia collettiva è il potere di autoregolamento delle collettività professionali, che influenza la fonte di produzione legislativa. Le tecniche tipiche della contrattazione collettiva sono: recezione consolidazione estensione Esistono tre fasi storiche del diritto del lavoro: legislazione sociale incorporazione costituzionalizzazione 1. La legislazione sociale Si sviluppa dopo il 1750, con le rivoluzioni industriali, e prevede norme eccezionali rispetto al diritto privato. Già il Codice Civile del 1865 prevedeva una disciplina (solo) della “locazione delle opere e dei servizi”. Per esempio, sanciva il divieto di stipulare contratti di lavoro a vita, per evitare il ritorno alla servitù. La regolamentazione del lavoro industriale, invece, era lasciata all’autonomia privata, in conseguenza del liberalismo, ispirata alla al principio fondamentale della libertà di concorrenza, secondo cui doveva essere il mercato a fissare i salari e in generale le condizioni di lavoro. Tuttavia, nel corso del XIX secolo, in seguito all’estendersi del processo d’industrializzazione e all’aggravarsi della questione sociale lo stato iniziò ad intervenire in tutta EU, introducendo una legislazione speciale che si limitò inizialmente a disciplinare alcuni aspetti particolarmente gravosi delle condizioni di lavoro attraverso norme di ordine pubblico. Contestualmente cadevano i divieti di organizzazione sindacale, mentre il sindacato scopriva la sua funzione di resistenza economica. In tal modo, alla fine del XIX secolo, si sviluppano disposizioni in deroga ai principi del Codice Civile, per la tutela del lavoratore quale contraente più debole (c.d. legislazione sociale): in Italia, ad es., si ha: Tutela del lavoro delle donne e del fanciullo; Primi interventi in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro; Leggi sul riposo settimanale e festivo; Divieto del lavoro notturno nell’industria di panificazione; Assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria. Queste norme tutelano esclusivamente gli operai in quanto svolgono prestazioni prevalentemente manuali e industriali. Si sottolineava l’esigenza di tutelare maggiormente i lavoratori salariati, poiché più esposti agli effetti negativi della sovrabbondanza dell’offerta di lavoro manuale rispetto a quella di lavoro intellettuale. Inoltre, al metodo legislativo si accompagnava quello contrattuale o dell’autotutela collettiva. Trae origine da ciò il fenomeno della rilevanza delle consuetudini, in quanto applicazioni degli accordi collettivi. In Italia lo sviluppo dei sindacati portò all’elaborazione della disciplina del contratto di lavoro operaio, specie in seguito all’istituzione dei Collegi dei Probiviri nel 1893 (tendenza liberale): collegi con la funzione di regolare le controversie tra le parti sociali, che, tuttavia, si limitavano a conciliarle sulla base delle regole dettate dalla prassi (formazione extra legislativa del diritto del lavoro). 1

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CAPITOLO I: Le fonti del diritto del lavoro

Per il diritto del lavoro, l’unica particolarità è l’art. 2078 del Codice Civile secondo il quale “gli usi prevalgono sulle norme dispositive di legge, se più favorevoli al prestatore di lavoro” (è un’integrazione e non una modifica).Il diritto del lavoro non deriva soltanto dal legislatore, ma anche dalla volontà politica: il diritto del lavoro ha una funziona solo ausiliaria della contrattazione collettiva. In certi ambiti, quali la legislazione di sostegno dell’attività sindacale, il diritto del lavoro ha, invece, una funzione promozionale (di incentivazione). L’autonomia collettiva è il potere di autoregolamento delle collettività professionali, che influenza la fonte di produzione legislativa. Le tecniche tipiche della contrattazione collettiva sono:

• recezione• consolidazione• estensione

Esistono tre fasi storiche del diritto del lavoro:• legislazione sociale• incorporazione• costituzionalizzazione

1. La legislazione socialeSi sviluppa dopo il 1750, con le rivoluzioni industriali, e prevede norme eccezionali rispetto al diritto privato.Già il Codice Civile del 1865 prevedeva una disciplina (solo) della “locazione delle opere e dei servizi”. Per esempio, sanciva il divieto di stipulare contratti di lavoro a vita, per evitare il ritorno alla servitù. La regolamentazione del lavoro industriale, invece, era lasciata all’autonomia privata, in conseguenza del liberalismo, ispirata alla al principio fondamentale della libertà di concorrenza, secondo cui doveva essere il mercato a fissare i salari e in generale le condizioni di lavoro.Tuttavia, nel corso del XIX secolo, in seguito all’estendersi del processo d’industrializzazione e all’aggravarsi della questione sociale lo stato iniziò ad intervenire in tutta EU, introducendo una legislazione speciale che si limitò inizialmente a disciplinare alcuni aspetti particolarmente gravosi delle condizioni di lavoro attraverso norme di ordine pubblico. Contestualmente cadevano i divieti di organizzazione sindacale, mentre il sindacato scopriva la sua funzione di resistenza economica. In tal modo, alla fine del XIX secolo, si sviluppano disposizioni in deroga ai principi del Codice Civile, per la tutela del lavoratore quale contraente più debole (c.d. legislazione sociale): in Italia, ad es., si ha:

• Tutela del lavoro delle donne e del fanciullo;• Primi interventi in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro;• Leggi sul riposo settimanale e festivo;• Divieto del lavoro notturno nell’industria di panificazione;• Assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria.

Queste norme tutelano esclusivamente gli operai in quanto svolgono prestazioni prevalentemente manuali e industriali. Si sottolineava l’esigenza di tutelare maggiormente i lavoratori salariati, poiché più esposti agli effetti negativi della sovrabbondanza dell’offerta di lavoro manuale rispetto a quella di lavoro intellettuale. Inoltre, al metodo legislativo si accompagnava quello contrattuale o dell’autotutela collettiva. Trae origine da ciò il fenomeno della rilevanza delle consuetudini, in quanto applicazioni degli accordi collettivi. In Italia lo sviluppo dei sindacati portò all’elaborazione della disciplina del contratto di lavoro operaio, specie in seguito all’istituzione dei Collegi dei Probiviri nel 1893 (tendenza liberale): collegi con la funzione di regolare le controversie tra le parti sociali, che, tuttavia, si limitavano a conciliarle sulla base delle regole dettate dalla prassi (formazione extra legislativa del diritto del lavoro).

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2. L’incorporazioneDal punto di vista formale, questo processo si è realizzato attraverso il ridimensionamento dello strumento della legge speciale, cui viene assegnato un ruolo integrativo, e con il passaggio all’inserzione del diritto del lavoro nella codificazione unificata del diritto privato: si parla di incorporazione del diritto del lavoro nel diritto privato, infatti tale incorporazione non ha fatto venir meno l’autonomia dei principi fondamentali propri del diritto del lavoro (in particolare, il principio della tutela dl lavoratore come contraente debole viene generalizzato e rafforzato sotto il profilo delle condizioni minime di trattamento e della garanzia dell’inderogabilità ed indisponibilità delle stesse).La prima legge sull’impiego privato risale al 1919, sostituita poi dal più completo R.D.L. del 1924, n.1825 che distingueva il lavoro manuale da quello intellettuale. Un altro fenomeno riconducibile alla questione dell’incorporazione del diritto del lavoro nel diritto privato fu quello della giuridificazione del contratto collettivo: questo fenomeno si è presentato, prima, nella forma privatistica del concordato di tariffa fondato sull’adesione volontaria dei singoli imprenditori e lavoratori; e poi nella forma pubblicistica della contrattazione collettiva e corporativa. Il contratto collettivo corporativo non era espressione dell’autonomia collettiva, ma della competenza del sindacato unico (fascista) che, di fatto, aveva negato la libertà sindacale. Quindi, mente il corporativismo era un istituto del fascismo, i probiviri erano una componente del liberalismo. Con la L. 1926, n. 563, il legislatore corporativo aveva posto fine alla libertà sindacale e aveva trasformato il contratto collettivo in un atto dotato di efficacia erga omnes e proveniente dal sindacato unico fascista, sabato sulla (quest’ultimo) sulla rappresentanza legale della categoria professionale e sulla contribuzione obbligatoria dei singoli lavoratoti e imprenditori. Le eventuali controversie avrebbero dovuto essere decise con sentenze della Magistratura del Lavoro. Su queste basi, il Codice del ’42 ha potuto realizzare l’inserzione della legge sull’impiego privato e dei contratti collettivi corporativi nel corpo del diritto privato.

3. La costituzionalizzazioneIl Codice Civile del 1942 prevede 3 componenti fondamentali del diritto privato:

• diritto civile• diritto commerciale• diritto del lavoro

ma il diritto del lavoro non si esaurisce nel solo diritto privato, ne troviamo delle componenti anche nel diritto pubblico: con l’entrata in vigore della Costituzione nel 1948, inizia una nuova fase storica del diritto del lavoro.La Costituzione si occupa non solo dei rapporti tra gli organi dello Stato tra loro e di quelli tra il cittadino e lo Stato, ma anche dei rapporti tra i cittadini. Ovviamente, anche la materia del diritto civile e commerciale ha subito delle modificazioni dovute all’introduzione del nuovo concetto di dignità sociale del cittadino. Il carattere prevalente della normativa è quello originario della protezione del lavoratore come soggetto-contraente più debole: la protezione del lavoratore come singolo appartenente ad una determinata categoria sociale non è più espressione di un favor eccezionale, ma di un’istanza di trasformazione della posizione professionale e sociale del lavoratore stesse nel contesto che lo circonda.

• Art.1: Repubblica fondata sul lavoro• Art. 3: uguaglianza formale: pari dignità sociale• Art. 3: uguaglianza sostanziale: rimuovere gli ostacoli di ordine economico e • sociale che, di fatto, limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini;• Art.4: promozione delle condizioni di piena occupazione• Art.35: tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni• Art.36: retribuzione proporzionata e sufficiente• Art.37: parità retributiva tra uomini e donne e tutela del lavoro minorile e femminile• Art.38: previdenza e sicurezza sociale

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• Art.39 e 40: libertà sindacale, contratti collettivi, diritto di sciopero• Art.41: garantisce l’iniziativa privata non dimenticando di introdurre l’utilità • sociale, la dignità, la libertà etc.• Art.42: garantisce la proprietà privata salvaguardandone la funzione sociale.

La tutela del soggetto contraente debole è quindi la finalità, la ratio legis di tutte queste norme, ma non si tratta di una finalità esclusiva: ad essa si aggiunge quella della garanzia dei diritti sociali.

L’attuazione dei principi costituzionali per mezzo della legislazione specialeLa Costituzione del 1948, ha, tuttavia, introdotto degli elementi di contraddizione, determinati soprattutto dal mancato adeguamento della preesistente legislazione ordinaria del 1942, ai principi fissati dalla Costituzione stessa. Si è per questo giunti ad una progressiva erosione dell’area della disciplina del lavoro nel Codice Civile e dalla sua sempre più larga sostituzione con le norme delle leggi speciali e dei contratti collettivi. Durante la storia, si sono evolute due linee di tendenza:

• nella prima, si ha un’integrazione della disciplina codicistica, volta alla tutela c.d. minimale del lavoratore come contraente debole;• la successiva vede una tutela più ampia del lavoratore non più solo come contraente debole nell’ottica del rapporto di scambio, ma anche nella sua duplice qualità di: • soggetto inserito in un rapporto di produzione;• appartenente ad una classe socialmente sotto protetta.In tal modo, la tutela non è più limitata alle condizioni minime di trattamento, ma si estende alla dignità sociale e quindi alla persona del lavoratore.

Un primo intervento si ha con la disciplina dei licenziamenti individuali (L. 1966, n.604) che prevede:

• giustificato motivo come limite al potere di recesso dell’imprenditore;• nullità dei licenziamenti per motivi politici e sindacali.

Sulla medesima linea troviamo la legge n.300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori) con lo scopo di riequilibrare i rapporti di potere, a favore dei lavoratori, attraverso lo strumento della legislazione promozionale. Esso è denominato legislazione promozionale, poiché promuove l’attività sindacale e la contrattazione collettiva, mirando ad attribuire efficacia immediata ai principi costituzionali ed a garantire il libero svolgimento dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro.

Il diritto del lavoro della crisi e la legislazione contrattataPer diritto del lavoro della crisi s’intendono quelle leggi che, a partire dal 1975, per affrontare la recessione e poi l’evoluzione del mercato del lavoro, si sono poste in misura prevalente l’obiettivo di favorire la difesa e la crescita dell’occupazione (prevedendo contratti a tempo parziale, di formazione, contratti di solidarietà ed una c.d. politica dei redditi per la riduzione del tasso d’inflazione).In questa situazione, la tutela dell’occupazione prevale sulla tutela della posizione contrattuale debole del lavoratore, pur sempre nel rispetto della dignità sociale: è il c.d. garantismo flessibile, caratterizzato da un significativo rafforzamento dei poteri del sindacato e di taluni diritti individuali del lavoratore. Va cmq rilevato che questo tipo di legislazione assolve anche una funzione di governo dell’economia in quanto persegue obiettivi di politica industriale e di politica dei redditi. In tale situazione, la produzione legislativa ha assunto la caratteristica di non esser meramente frutto della recezione dei contenuti della contrattazione collettiva, ma di essere stata originata essa stessa dalla partecipazione delle parti sociali: si parla di legislazione contrattata,ovvero la produzione legislativa originata dalle parti sociali.

Flessibilizzazione, riforma della P.A. e del lavoro pubblico. Riforma del titolo V della Costituzione.Negli anni ’90 si sono avuti interventi legislativi orientati verso nuovi modelli di governo delle relazioni industriali, ma anche di flessibilizzazione e snellimento burocratico del mercato del lavoro:

• sul primo versante: legge sullo sciopero nei servizi essenziali;

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• sul secondo versante: normativa in materia di licenziamenti collettivi e di governo delle eccedenze di personale, sulla riforma del collocamento, sui contratti di lavoro flessibili, sul lavoro degli immigrati, sul trasferimento d’azienda.• Sul terzo versante: normativa che ha ridisegnato la struttura degli uffici periferici del Ministro del Lavoro e quella sul decentramento amministrativo.

Da ricordare sono anche gli interventi legislativi miranti al rafforzamento della protezione della persona del lavoratore e dei suoi diritti fondamentali.

Va poi segnalata la riforma del pubblico impiego, basata sulla c.d. contrattualizzazione dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni e sulla loro sottoposizione alle norma del Codice Civile e delle leggi speciali. Ciò ha comportato una modificazione dello status giuridico dei pubblici dipendenti, il cui rapporto di lavoro è stato trasferito dall’area del diritto pubblico a quella del diritto civile, aperta alle negoziazioni private, dunque più razionale ed efficiente, secondo anche un criterio di adeguamento all’UE.

La riforma del Titolo V della Costituzione introdotta nel 2001 prevede una forma di federalismo legislativo (art. 117 Cost.). Attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato le seguenti materie:

• ordinamento civile;• determinazione dei l ivelli essenziali delle prestazioni di diritto civile e sociale;• previdenza sociale.

Affida, invece, alla competenza concorrente tra Stato e Regioni:• istruzione e formazione professionale;• tutela e sicurezza del lavoro;• previdenza complementare e integrativa.

La riforma ha suscitato dubbi sull’ambigua espressione “tutela e sicurezza del lavoro”, che, secondo una certa dottrina, lascia alle Regioni l’intera regolamentazione del rapporto di lavoro. Secondo una lettura preferibile, invece, sarebbero loro affidate solo la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro.

Il diritto del lavoro nell’ultimo decennioImportanti novità hanno caratterizzato il diritto del lavoro nei primi anni del decennio trascorso.Le nuove politiche del lavoro sono state rivolte soprattutto a soddisfare le esigenze di una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro, nonché una rivalutazione del ruolo dell’autonomia individuale rispetto a quella collettiva nella definizione delle condizioni di lavoro. L’azione governativa si è tradotta nella riforma della normativa sul contratto a tempo determinato e di quella in materia di tempo di lavoro (orario, ferie, etc.), entrambe collegate all’attuazione di direttive comunitarie.Nel 2003 si attuava la riforma del lavoro, con la quale si accentua la liberalizzazione delle attività di mediazione del lavoro iniziata negli anni ’90: sono state introdotte nuove figure contrattuali di lavoro c.d. atipico (ad es. il part-time e l’apprendistato).Più significativi sono stati gli interventi effettuati in materia di ammortizzatori sociali, del lavoro pubblico e della tutela dei diritti dei lavoratori.

Il diritto comunitario ed i suoi rapporti con quello internoÈ da segnalare l’importanza assunta dagli anni ‘90 in poi, dalle fonti provenienti dal diritto comunitario: per quanto riguarda il sistema delle fonti derivante dal Trattamento sul Funzionamento dell’UE; le istituzioni dell’UE possono emanare regolamenti e direttive nelle materie attribuite dalle norme del Trattato alla loro competenza. Importante è la questione dell’applicazione delle norme:

• se le norme sono dotate di applicabilità diretta, il giudice nazionale deve disapplicare la norma interna incompatibile;• se la norma comunitaria non è dotata di applicabilità diretta, il giudice nazionale dovrà tentare di interpretare il proprio diritto nazionale secondo la lettera e lo scopo della norma comunitaria, in modo da raggiungere cmq il risultato desiderato.

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Si è affermato il c.d. primato del diritto comunitario sul quello interno e a questo principio si è adeguata anche la Corte costituzionale italiana sulla base degli art.11 e 117 Cost.

L’evoluzione delle politiche sociali comunitariePossiamo intuire, dopo quanto abbiamo detto, che l'Unione Europea ha assunto un'importanza tale da essere determinante anche in tema di mercato del lavoro e di rapporti di lavoro all'interno dei singoli Stati.

• Le originarie previsione contemplate all'interno del Trattato di Roma, sono state ampiamente modificate dai vari trattati che si sono susseguiti nel tempo, a partire soprattutto dall'Atto Unico Europeo del 1986, passando per il Trattato Maastricht, per il Trattato di Amsterdam del 1997, per il Trattato di Nizza del 2001 e dal Trattato di Lisbona del 2007. Il Trattato riconosce al dialogo sociale, e alla contrattazione collettiva di livello europeo, la natura di vera e propria fonte formale in materia sociale: molto spesso è previsto che la Commissione ascolti le parti sociali obbligatoriamente. Il Trattato prevede, inoltre, che in molti settori di politica sociale il Consiglio debba osservare la procedura di codecisione con il Parlamento e sentita la Commissione (es. parità tra uomini e donne, miglioramento dell'ambiente lavorativo), mentre in altri settori (es. contributi finanziari per la promozione dell'occupazione, sicurezza e protezione sociale dei lavoratori etc.) è previsto che il Consiglio adotti le decisione all'unanimità, semplicemente consultando il Parlamento.Sempre per quanto concerne le fonti, inoltre, accanto a direttive e regolamenti, per meglio garantire il principio di sussidiarietà (il quale impone che l'Unione debba intervenire nei settori di propria competenza solo qualora possa garantire un intervento qualitativo migliore rispetto a quello degli Stati membri), sono stati introdotti interventi meno autoritativi e maggiormente cooperativi: si tratta del c.d. soft law, il quale individua degli obiettivi in determinati settori su cui gli Stati devono ricercare degli elementi di coordinamento.Importanti sono poi due clausole inerenti l'applicazione dei diritto comunitario: la clausola del favor, la quale prevede che in caso di applicazione di una normativa comunitaria, uno Stato membro che intenda applicare una disciplina diversa che attui un maggior livello di protezione, può liberamente farlo; e la clausola di non regresso, la quale prevede che l'attuazione di una direttiva comunitaria non possa in alcun modo costringere uno Stato membro all'attuazione, qualora lo stesso possegga già una disciplina che garantisce un uguale o maggiore livello di protezione.• Va segnalato, infine, che inizialmente molte materie inerenti il diritto del lavoro non erano incluse nelle competenze dell'Unione: retribuzioni, diritto di associazione, diritto di sciopero, di serrata ed altri. A questo proposito, la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989 avrebbe rappresentato un buon punto nel processo di integrazione della materia a livello comunitario, se non ci fosse stata l'opposizione da parte del Regno Unito, la quale ha escluso una diretta efficacia vincolante dell'atto. Questo processo evolutivo ha portato alla firma, a Nizza nel 2001 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. Il nuovo Trattato di Lisbona del 2007, non solo ha previsto per la prima volta il diritto di recedere dall’unione da parte dei singoli stati membri, ma ha attribuito alla Carta lo stesso valore giuridico dei trattati. la Carta assume, per il diritto del lavoro, un rilievo peculiare in quanto disciplina…

• liberta di associazione sindacale;• diritto dei lavoratori all’informazione ed alla consultazione nell’ambito dell’impresa;• diritto dei lavoratori e dei datori “di negoziare e concludere contratti collettivi” anche per la difesa dei loro interessi;• diritto ad accedere ad un servizio di collocamento gratuito;• diritto alla tutela contro i licenziamenti ingiustificati;• divieto del lavoro minorile, stabilendo l’età minima e l’obbligo di concludere l’istruzione obbligatoria…

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• Infine va ricordato che il nostro Paese segue una particolare procedura legislativa per adeguare il proprio ordinamento ai principi europei. Stiamo parlando della legge La Pergola, che ha introdotto la figura delle c.d. leggi comunitarie, la cui emanazione è prevista con cadenza annuale al fine di dare periodica attuazione alle direttive, mediante delega legislativa al governo oppure mediante l’autorizzazione all’impiego dello strumento regolamentare.Tale legge è stata di recente modificata dalla L.n.11/2005 al fine di tener conto delle competenze legislative che la riforma federalista ha attribuito alle regioni.

La Corte Costituzionale ed il suo contributo allo sviluppo del diritto del lavoroLe sentenze della Corte rilevano come atti produttivi dell’annullamento delle norme illegittime, attraverso il canale della c.d. interpretazione adeguatrice delle leggi ordinarie o della c.d. interpretazione evolutiva.In molti casi la Corte costituzionale ha pronunciato sentenze esclusivamente interpretative dichiarando la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale e chiarendone la motivazione. Questa attività, come da diritto pubblico, è vincolante nel giudizio a quo(per la sola fattispecie), ma non pone alcun vincolo d’osservanza ai giudici che devono pronunciarsi successivamente su simili fattispecie.Diverso è il caso in cui la Corte dichiari l’illegittimità: in questo caso si ha la pronuncia di una sentenza interpretativa di accoglimento che, individuando l’enunciato normativo conforme alla Costituzione, modifica sostanzialmente il contenuto precettivo della disposizione lasciando immutato il resto. Essa dispone, così, l’annullamento della norma, con efficacia erga omnes. Altri tipi di sentenze sono:

• di accoglimento parziale;• sostitutive;• additive;

Secondo alcuni, il diritto del lavoro assume una sorta di funzione-guida nell’ambito delle discipline privatistiche. Ma questa rilevanza costituzionale del diritto del lavoro, sicuramente, non implica alcuna modificazione nella gerarchia delle fonti normative.

CAPITOLO II: Il lavoro subordinato

Sez. A: Lavoro autonomo e lavoro subordinato: profili storici e sistematiciIl rapporto di lavoro nel libro V del Cod.CivileIl libro V del Codice civile regola, dagli artt. 2094 in poi, il rapporto di lavoro. L’unificazione del diritto civile con il diritto co mmerciale ha portato alla c.d. commercializzazione del diritto civile.Per quanto attiene al rapporto individuale di lavoro, il Codice vigente ne riafferma la natura

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contrattuale e la sostanza giuridica ed economica tradizionale, caratterizzata dallo scambio tra retribuzione e prestazione, intellettuale o manuale. Nello stesso libro V sono collocate, accanto alle norme relative al lavoro nelle imprese, quelle riguardanti i rapporti di lavoro che si svolgono al di fuori dell’impresa (lavoro autonomo o domestico). Tuttavia, il lavoro organizzato nell’impresa è considerato come modello normativo tipico del rapporto di lavoro.

Il Codice del 1865: la locazione delle opereNota che nella locazione delle opere erano compresi:

• il lavoro subordinato = locatio operarum• il lavoro autonomo = locatio operis

L’art. 1570 definiva la locazione delle opere come “il contratto per cui una delle parti si obbliga a fare per l’altra una cosa mediante la pattuita mercede”. Questa definizione tralascia, quindi, la distinzione tra lavoro subordinato e autonomo, collocandola all’interno della figura della locazione delle opere considerata, in contrapposizione alla locazione di cose, quale tipo unitario del contratto di lavoro. In tale ambito, la disciplina del contratto di locazione delle opere si occupava soprattutto del lavoro autonomo contemplato nelle sue forme tipiche del trasporto e dell’appalto. L’unica norma specificamente riferibile al lavoro subordinato era l’art. 1628, dove si disponeva che “nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo o per una determinata impresa”, con ciò vietando la perpetuità del contratto (rischio di ritorno alla schiavitù). La locatio operarum era lasciata all’autonomia della volontà privata.

Rischi del lavoro • Il primo rischio è quello incidente sull’utilità prodotta dalla prestazione di lavoro (commodum obligationis): è l’alea (incertezza) che incide sul risultato produttivo dell’erogazione delle energie di lavoro e dipende dalla difficoltà tecnico-economica del risultato stesso. Il rischio, in poche parole, ricade sempre sul lavoratore autonomo (datore di lavoro o imprenditore), che si obbliga all’opus perfectum (lavoro finito), mai sul prestatore del lavoro subordinato, che si limita a sopportare soltanto il “periculum” della mancanza di lavoro.• Il secondo è quello dell’impossibilità o mancanza del lavoro per caso fortuito o per forza maggiore (periculum obligationis): è l’alea incidente sulla perdita totale o parziale del corrispettivo da parte del lavoratore. Il debitore è esonerato dall’obbligo di eseguire la prestazione divenuta impossibile, ma perde il diritto alla controprestazione.

Distinzione tra attività e risultato del lavoro; la subordinazione contrattuale• L’attività del lavoro è l’oggetto della locazione delle opere → cioè del lavoro subordinato.• Il risultato del lavoro è l’oggetto della locazione dell’opera → cioè del lavoro autonomo.

Resta, tuttavia, una grave incertezza sotto il profilo oggettivo e funzionale. Si spiega così il successivo ricorso al criterio della subordinazione o dipendenza verso il conduttore che, attraverso l’utilizzazione della categoria della locazione delle opere, fa maturare il distacco del contratto di lavoro subordinato dall’originario tronco comune.

La subordinazione come sottoposizione del lavoratore alla direzione ed al controllo del datore dilavoro nell’impresa industrialeIl legislatore tende a far coincidere la figura del contratto di lavoro con la nozione di lavoro manuale salariato o dipendente per eccellenza: in passato, la legge del 1893, n.215, demandava alla competenza dei Collegi dei Probiviri tutte le controversie relative al contratto di lavoro tra industriali e operai. La subordinazione veniva individuata sulla base del collegamento tra la prestazione e l’azienda industriale. Era assente, tuttavia, in quel periodo, una definizione positiva della subordinazione: si definiva operaio “chiunque […] è occupato nel lavoro fuori della propria abitazione”. È stata la giurisprudenza ad utilizzare la nozione del rapporto di servizio come criterio distintivo dell’obbligazione del lavoratore a sottoporsi alle determinazioni dell’imprenditore per ciò che

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riguarda sia l’organizzazione del lavoro sia la disciplina aziendale.In questi termini, la subordinazione tendeva ad identificarsi con il comportamento dovuto dal lavoratore in attuazione della propria obbligazione, avendo diritto al salario per tutto il tempo in cui è rimasto a disposizione dell’imprenditore.

La legge sull’impiego privato del ’24 e il Codice Civile del ’42: la collaborazioneLa legge sul contratto d’impiego (R.D.L. 1924, n° 1825) ha ravvisato nell’attività professionale e nell’esercizio di mansioni di collaborazione il connotato specifico della subordinazione dell’impiegato.Nel Codice Civile l’art. 2094 identifica la collaborazione con il risultato tecnico-funzionale della prestazione di lavoro alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore, resa dal lavoratore in cambio della retribuzione. L’elemento della collaborazione è stato inserito nel Codice Civile quale omaggio alle ideologie dominanti al tempo della sua emanazione; ma può ritenere tutt’ora attuale, in quanto indicativo dell’istituzionalizzazione del vincolo sussistente tra il datore e il prestatore di lavoro nella loro qualità di parti di un rapporto obbligatorio.

Sez.B: Contratto e rapporto di lavoro.La distinzione tra lavoro subordinato e il contratto di lavoro autonomoLa definizione di lavoratore subordinato si ha in due modi:

• In positivo: l’art. 2094 definisce lavoratore subordinato “colui che si obbliga a collaborare all’impresa prestando il proprio lavoro manuale o intellettuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. Da tale definizione legislativa è desumibile la nozione della subordinazione come dipendenza del prestatore dalla direzione del datore nell’esecuzione dell’attività di lavoro nell’impresa.• In negativo: l’art. 2222 rileva l’assenza della subordinazione, nel rapporto di lavoro autonomo.

Il concetto di subordinazione è ambiguo, in quanto sottoposto è chiunque si trovi in una situazione di soggezione ad un potere altrui. Di qui l’esigenza di precisare il ruolo della subordinazione del prestatore nel rapporto di lavoro: la subordinazione è stata identificata con la dipendenza o sottoposizione del debitore al potere del creditore del lavoro e all’autorità dell’imprenditore; il prestatore è, infatti, vincolato all’osservanza delle direttive e delle altre disposizioni per la disciplina e l’esecuzione del lavoro impartite dal datore nella sua qualità di titolare del potere direttivo e disciplinare. In questo modo però, la subordinazione si identifica con il contenuto tipico dell’obbligazione di lavoro: si tratta della situazione soggettiva del lavoratore di fronte all’autorità dell’imprenditore.Non sembra quindi possibile ritenere la struttura dell’obbligazione di lavoro autonomo diversa da quella di lavoro subordinato: in entrambi i casi, l’oggetto dell’obbligazione è il lavoro come prestazione di facere e quindi di attività personale economicamente utile. Tale connotato è comune sia all’obbligazione del lavoratore autonomo, sia all’obbligazione del lavoratore subordinato; mentre l’elemento differenziale è dato proprio dall’assenza del vincolo della subordinazione. La prestazione:

• nel contratto d’opera è un facere finalizzato al compimento dell’attività da parte del lavoratore; • nel lavoro subordinato il facere è finalizzato alla collaborazione.

Esempio: un sarto artigiano al quale sia commissionato un abito è autonomo, un altro che si obblighi a lavorare per una sartoria è subordinato.

I contratti di lavoro autonomo; il contratto d’operaLa finalizzazione al risultato dell’opera finita (opus perfectum) è il connotato tipico che contraddistingue la categoria dei contratti di lavoro autonomo. Essa comprende:

• l’appalto• il trasporto• il deposito• il mandato (cioè la gestione di affari nell’altrui interesse)

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Vale la pena aggiungere che il committente (il cliente dell’impresa che richiede il lavoro) può stabilire nel contratto le condizioni per l’esecuzione dell’opera pattuita, fissando anche il termine entro il quale il prestatore è tenuto a conformarsi alle stesse, pena il recesso per giusta causa ed il diritto del committente al risarcimento del danno. Il lavoratore autonomo, cmq, può essere vincolato alla direzione ma non può essere alle dipendenze del committente.

La causa del contrattoÈ uno degli elementi essenziali del contratto che, richiesto a pena di nullità, ne individua la funzione economica, quindi l’interesse meritevole di tutela. Nel contratto di lavoro subordinato la causa è lo scambio tra le obbligazioni del prestatore e del datore di lavoro e quindi tra collaborazione e retribuzione. La subordinazione, invece, è l’effetto giuridico essenziale del contratto: s’identifica con la prestazione di lavoro alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore ed insieme si presenta come il contenuto del vincolo obbligatorio strumentale alla realizzazione del risultato della prestazione.Nella struttura dell’obbligazione di lavoro, l’elemento oggettivo è rappresentato non dalla subordinazione ma dalla collaborazione. Questa sottolinea l’importanza dell’aspettativa del creditore al risultato della prestazione e, quindi, del suo interesse al coordinamento e quindi all’organizzazione dell’attività lavorativa del debitore. Non si tratta però del risultato finale dell’organizzazione produttiva nel suo complesso, ma del risultato dell’attività prestata dal lavoratore nell’adempimento della sua obbligazione.La collaborazione nell’impresa si identifica, quindi, con lo scopo tipico della prestazione.

La continuità o disponibilità come aspetto essenziale della collaborazioneIntesa come disponibilità al coordinamento della prestazione nello spazio e nel tempo, la continuità qualifica la subordinazione come dipendenza dal controllo dell’imprenditore: trattasi dell’eterodirezione.La durata attiene alla struttura della prestazione ed incide sul modo di esecuzione e sulla determinazione quantitativa e qualitativa della stessa: essa si deve intendere in senso non materiale ma ideale, come dipendenza o disponibilità funzionale del prestatore all’impresa altrui. Tale disponibilità s’identifica con persistenza nel tempo dell’obbligazione, persino durante le pause interruttive (intervalli giornalieri, riposi, ferie) dell’esecuzione, pur non essendo tenuto alla stessa.

Collaborazione e subordinazione nella giurisprudenzaSecondo la giurisprudenza la subordinazione si concretizza nell’eterodirezione e cioè nella sottoposizione del prestatore al potere di direzione del datore di lavoro, mentre la collaborazionesi concretizza nella disponibilità delle energie lavorative messe al servizio dell’imprenditore. Come elementi costitutivi del lavoro subordinato la giurisprudenza è solita indicare 4 requisiti:

• onerosità• collaborazione• continuità• subordinazione

E ne precisa il contenuto:• l’oggetto, identificato non con li risultato prodotto dal lavoratore, ma con l’applicazione delle energie lavorative messe a disposizione del datore di lavoro;• la collaborazione, intesa come inserimento del lavoratore nell’organizzazione produttiva dell’impresa;• la continuità, cioè la durata nel tempo del vincolo di disponibilità funzionale del lavoratore all’impresa;• l’incidenza del rischio sul datore di lavoro.

Tutti questi criteri non sono ancora, tuttavia, sufficienti e sono integrati da una serie di c.d. indici empirici : si tratta di criteri presuntivi (o c.d. indiziari) da analizzare nelle singole fattispecie, cioè

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di caso in caso.Secondo la Corte di Cassazione, ai fini della distinzione tra rapporto di lavoro subordinato ed autonomo rimane fondamentale l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che si estrinseca nell’emanazione di ordini specifici, nell’esercizio di un’assidua attività di vigilanza e controllo sull’esecuzione della prestazione e che deve essere concretamente apprezzato con riferimento alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore. È da tale assoggettamento che deriva una limitazione dell’autonomia del lavoratore. Inoltre, la Cassazione sottolinea spesso come tale assoggettamento possa diventare poco significativo dell’esistenza della subordinazione a seguito dell’evolversi dei sistemi di organizzazione del lavoro (si pensi alle tecnologie, internet etc.).

Critica alla teoria della subordinazione come soggezione socio-economica.Non vi è coincidenza tra subordinazione e condizione di alienazione rispetto alla proprietà o controllo dei mezzi di produzione. Se si può ammettere che la posizione d’inferiorità economica del lavoratore ne condizioni l’autonomia contrattuale e ne caratterizzi la posizione sociale, tale effetto condizionante non è sempre generatore di disuguaglianza effettiva, in quanto non è omogeneamente distribuito all’interno della classe dei lavoratori.La ratio (la motivazione) dell’art. 2222, infatti (come già esplicitato), ravvisa nel lavoro prestato senza vincolo di subordinazione, l’elemento tipico del rapporto di lavoro autonomo.

La collaborazione continuativa e coordinata (c.d. parasubordinazione). Lavoro a progettoSi può concludere che la collaborazione del prestatore nell’impresa qualifica la subordinazione come vincolo finalizzato all’obiettivo dell’organizzazione del lavoro sotto il controllo e la responsabilità dell’imprenditore e funge da criterio per l’identificazione della causa del contratto. Per qualificare il rapporto di lavoro come subordinato oppure autonomo, occorre verificare se sussiste o meno il requisito della continuità. Si può convenire che l’inserzione del prestatore nell’organizzazione aziendale sia un sicuro indice della sussistenza della collaborazione (ad es.: osservanza degli orari di lavoro), ma non che tale presunzione abbia valore assoluto: l’inserzione del prestatore nell’organizzazione aziendale si può avere sotto forma di collaborazione coordinata e continuativa anche nel lavoro autonomo: il c.p.c. ha disposto l’equiparazione dei rapporti di lavoro autonomo al rapporto di lavoro subordinato limitatamente alla disciplina processuale e della composizione anche stragiudiziale delle controversie di lavoro, quando la prestazione d’opera di presenti caratterizzata da un’attività prevalentemente personale continuativa e coordinata ma non subordinata di collaborazione ad un’impresa. Il legislatore ha, quindi, riconosciuto l’inserzione del lavoratore nell’impresa come elemento tipico ma non esclusivo della subordinazione. Tutte le volte che il lavoro autonomo si presenta finalizzato alla produzione di un risultato, anche il contratto d’opera si caratterizza sul piano economico e giuridico per la sua funzione di durata e per prestazione rivolta al soddisfacimento di un interesse durevole del creditore. Nel contratto di lavoro coordinato ma non subordinato viene soddisfatto un interesse dell’imprenditore. Questo interesse:

• è continuativo sul piano della reiterazione nel tempo delle singole prestazioni di risultato;• è discontinuo sul piano della disponibilità del lavoratore: infatti, nella prestazione d’opera coordinata e continuativa, il lavoratore non è vincolato a tenersi a disposizione del committente (ovvero dopo una prestazione può cambiare datore).

Questo contratto permette all’impresa maggiore flessibilità.

Gli effetti del rapporto di lavoro subordinatoLocatio operis e locatio operarum hanno regolamentazione molto differenziata. Lo Statuto protettivo del lavoratore subordinato tende alla tutela degli interessi del lavoratore: si capisco come il lavoratore abbia interesse a domandare il riconoscimento del vincolo della subordinazione. Da questa tutela discendono due tipi di effetti:

• Effetti diretti: incidono sul contenuto del rapporto (es.: retribuzione equa, ferie, TFR, diritti sindacali);

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• Effetti indiretti: incidono sui presupposti e sulle conseguenze della stipulazione del contratto di lavoro (ha rilevanza previdenziale, amministrativa e penale).

Il sistema previdenzialeTra i più rilevanti effetti indiretti derivanti dalla costituzione dl rapporti di lavoro subordinato abbiamo la costituzione obbligatoria del c.d. rapporto di previdenza sociale, intercorrente tra datore, lavoratore ed enti previdenziali. In passato, il Codice civile del 1865, stabiliva la presunzione assoluta di colpa dell’imprenditore nei confronti dei terzi per il fatto dei dipendenti, in base al quale anche il rischio degli infortuni sul lavoro doveva gravare sull’imprenditore a titolo di responsabilità oggettiva.Il passo successivo è stato il ricorso all’istituto dell’assicurazione obbligatoria, che ha traslato il rischio professionale in capo ad un istituto assicurativo. Questo sistema assicurativo è stato in seguito utilizzato per far fronte ad altre situazioni di bisogno collegabili alla posizione di sottoprotezione del lavoratore nella società (c.d. rischio sociale), con contribuzione di solito posta anche a carico del lavoratore. La disciplina delle assicurazioni sociali è demandata dall’art. 2114 c.c. alle leggi speciali. Esistono, tuttavia, alcuni scostamenti. Tra essi vi è il principio dell’automaticità delle prestazioni (art. 2116 c.c.), in virtù del quale le prestazioni sono dovute dall’istituto assicuratore in tutti casi in cui l’evento assicurato si verifichi, indipendentemente dal concreto versamento dei contributi da parte dell’imprenditore. Un’eccezione si ha per le pensioni di vecchiaia: qualora, a causa del mancato versamento dei contributi da parte del datore, il lavoratore non consegua il diritto alla pensione, egli ha diritto al risarcimento del danno da parte del datore di lavoro (art.2116, co. 2, c.c.).Attualmente, le assicurazioni sociali intervengono a garanzia del reddito del lavoratore tutte le volte che la sua capacità di lavoro e quindi di guadagno sia menomata in conseguenza di eventi collegati non solo agli infortuni sul lavoro ed alle malattie professionali, ma anche alla malattia comune, alla maternità, all’invalidità, alla vecchiaia e alla morte, alla tubercolosi, alla disoccupazione involontaria e a quella parziale o temporanea. Alla base dell’intervento assicurativo c’è la valutazione della situazione di bisogno del lavoratore o della sua famiglia e la conseguente erogazione di prestazioni economiche rivolte ad indennizzarlo nei periodi d’involontaria e temporanea inattività per una parte della retribuzione, oppure per la retribuzione intera se l’inattività ha carattere definitivo.

La pensione di anzianità e di vecchiaia. La tendenza espansiva del dirittoIl sistema delle pensioni di anzianità è stato sottoposto a riforma con la legge n.335 del 1995. Per questo istituto vige un sistema c.d. a ripartizione, in base al quale la copertura finanziaria per l’erogazione delle pensioni è assicurata dai contributi dei lavoratori in servizio; mentre prima vigeva il sistema c.d. retributivo, in base al quale la pensione era calcolata in percentuale alle retribuzioni corrisposte nell’ultimo periodo lavorativo. Con la legge n.335, al sistema retributivo si è sostituito il sistema contributivo, simile a quello assicurativo (calcolato sull’ammontare dei contributi versati nel corso della vita lavorativa). Il nuovo sistema, comunque, è sempre ispirato dalla solidarietà sociale; proprio per questo si ha la natura espansiva del diritto del lavoro, che attribuisce un trattamento previdenziale anche a lavoratori autonomi ed ai piccoli imprenditori (cioè ai non subordinati). Tuttavia, soltanto nel lavoro subordinato si ha la traslazione del rischio sociale dal prestatore al datore ed il rapporto previdenziale si configura quale effetto diretto del contratto.

Sez. C: Lavoro gratuito e prestazione di lavoro nei rapporti associativiIl lavoro gratuito, il volontariato e l’impresa socialeIl sinallagma (nesso di corrispettività tra retribuzione e attività lavorativa) conferisce al contratto di lavoro la sua fisionomia di contratto a carattere oneroso e con prestazioni corrispettive. La giurisprudenza ha più volte affermato che anche se la causa tipica del contratto è lo scambio oneroso, una prestazione di lavoro può anche essere a titolo gratuito. Da ciò deriva il fatto che il contratto di lavoro gratuito è lecito ma innominato: non si tratta del contratto previsto all’art. 2094, ma di un contratto con causa diversa (es.: sindacati si avvalgono di prestazioni gratuite). La prestazione gratuita può dare luogo a sospetti di frode alla legge, ma questo non significa che il

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contratto di lavoro gratuito non possa essere tutelato giuridicamente. Infatti, può essere che le prestazioni gratuite siano rese in adempimento di doveri morali o sociali; vi sono poi le organizzazioni a scopo benefico.Al lavoro gratuito, infatti, può essere avvicinato il volontariato, disciplinato dalla legge quadro del ’91 n. 266, con la quale se ne riconosce il valore sociale, disponendo agevolazioni fiscali ed incentivi per le organizzazioni iscritte nei registri delle Regioni. Esse possono assumere lavoratori, ma esclusivamente nei limiti necessari al loro funzionamento (es.: psicologo in una comunità).In relazione all’importanza del settore no profit, inoltre, il legislatore è intervenuto a disciplinare l’impresa sociale: ovvero quelle associazioni e fondazioni che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale, e che abbiano i requisiti essenziali indicati dalla legge (utilità sociale, assenza di scopo di lucro, assenza di soggezione da parte di imprese). Tra i vantaggi riconosciuti all’impresa sociale troviamo: la possibilità di avvalersi di volontari.Infine, un’ipotesi tipica di lavoro gratuito è quella prevista dall’art 74 del D.Lgs. n. 276/2003 nell’ambito delle attività agricole, in cui rientrano le prestazioni svolte da parenti e affini fino al quarto grado a titolo di aiuto per brevi periodi.

Il lavoro familiare e l’impresa familiare prevista dall’art. 230 bis c.c.Con la riforma del diritto di famiglia si è ormai superato il concetto di gratuità del lavoro familiare: “il lavoro prestato in modo continuativo nell’ambito della famiglia o dell’impresa familiare ” è un rapporto di tipo associativo “salvo che sia configurabile diversamente”. All’attività di lavoro familiare corrisponde:

• il diritto al mantenimento• il diritto alla partecipazione agli utili dell’impresa in proporzione al lavoro prestato• l’equivalenza uomo-donna• diritto di partecipazione alle decisioni da parte dei familiari che collaborano all’impresa;• diritto alla liquidazione alla cessazione• diritto di prelazione sull’alienazione dell’azienda

Con queste posizioni si è in parte superata la tradizionale presunzione di gratuità del lavoro familiare, poiché la legge riconosce il diritto ad un compenso per il lavoro svolto.

I rapporti associativiLa prestazione di lavoro può essere impiegata ed offerta utilizzando modelli contrattuali diversi dal lavoro subordinato, non solo innominati (lavoro gratuito e lavoro volontario) ma anche nominati (ipotesi in cui un’obbligazione di facere finalizzata alla collaborazione nell’impresa venga inserita nello schema tipico dei contratti associativi). Simili rapporti di lavoro c.d. associativi, non sono riconducibili alla subordinazione, in quanto è assente l’elemento causale dallo scambio tra prestazione e retribuzione; tuttavia, sotto il profilo economico presentano una situazione di sottoprotezione sociale del prestatore di lavoro associato analoga a quella solitamente riferibile al lavoratore subordinato. Questi rapporti sono caratterizzati dall’obiettivo di cointeressare il lavoratore ai risultati dell’impresa associandolo all’esercizio dell’attività economica. Tale obiettivo può essere perseguito utilizzando il contratto di società di persone nei suoi diversi tipi legali e perciò attraverso il conferimento in società di una prestazione di opera. Nella società di capitali, invece, è escluso il conferimento di prestazioni d’opera, ma l’atto costitutivo può stabilire l’obbligo dei soci di eseguire prestazioni accessorie non consistenti in denaro con compenso non inferiore alle norme applicabili ai rapporti aventi per oggetto le stesse prestazioni, quindi, a quello previsto dai contratti collettivi per rapporti aventi a oggetto le stesse prestazioni.La figura del socio d’opera è disciplinata dall’art 2263, co. 2, c.c., secondo cui, qualora il socio partecipi alla società mediante conferimento della propria opera, la parte a lui spettante nella ripartizione dei guadagni e delle eventuali perdite, è stabilita dal giudice secondo equità. L’obiettivo di cointeressare il lavoratore ai risultati dell’impresa può essere perseguito anche attraverso lo schema dell’associazione in partecipazione, in cui la gestione dell’impresa o

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dell’affare aspetta all’associante mentre l’associato partecipa agli utili dell’impresa, verso il corrispettivo di un determinato apporto che può anche consistere in un’attività lavorativa prestata senza vincolo di subordinazione, avendo diritto anche al c.d. rendiconto.Abbiamo infine gli amministratori di società, che possono o meno essere dei soci, ma sempre titolari di un rapporto organico con la società e la cui posizione può coesistere con un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della società stessa.

Le cooperative (cooperative di produzione e lavoro, cooperative sociali, rapporti associativi in agricoltura)La prestazione di lavoro viene svolta nell’ambito di società cooperative costituite allo scopo di svolgere un’attività economica organizzata per il mercato mediante l’utilizzazione del lavoro dei soci, i quali sono obbligati alla prestazione in adempimento del patto sociale e per l’attuazione dello scopo mutualistico proprio dell’impresa cooperativa in generale.Allo scopo di assicurare ai soci delle cooperative di lavoro un trattamento equiparabile a quello dei lavoratori subordinati, ha inteso assimilare la posizione del socio lavoratore a quella del prestatore di lavoro subordinato. A tal fine la nuova legge fa riferimento alle cooperative nelle quali il rapporto mutualistico abbia ad oggetto la prestazione di attività lavorativa da parte del socio e su tale premessa definisce la figura del socio lavoratore, investendolo della titolarità di due rapporti:

• associativo• di lavoro

Secondo la legge 142 del 2001, il socio lavoratore, oltre a partecipare alla gestione ed al rischio d’impresa, mette a disposizione la propria capacità professionale “anche in relazione allo stato dell’attività svolta, nonché alla quantità delle prestazioni di lavoro disponibili”. In analogia con il principio di retribuzione sufficiente applicabile ai lavoratori subordinati, le cooperative sono tenute a corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e cmq non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine. Ai soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato si applicano i diritti sindacali: anche il recesso dal rapporti di lavoro è regolato, escludendo l’applicabilità delle norme sui licenziamenti individuali. Infine, le controversie tra socio e cooperativa vengono sottratte alla competenza del giudice del lavoro ed affidate a quella del tribunale ordinario. Sulla scia della legge quadro sul volontariato, la legge del 1991 prevede le cooperative sociali, il cui scopo, come la legge stessa cita, è “la promozione e l’integrazione sociale dei cittadini” (es.: tossici, invalidi, etc.) attraverso la gestione dei servizi socio sanitari ed educativi, nonché lo svolgimento di attività economiche finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Infine, meritano un cenno i rapporti associativi in agricoltura i quali presentano, invece, un valore ormai quasi esclusivamente storico, in quanto sono stati sostituiti nella pratica, e nella legislazione stessa, dall’affitto di fondi rustici. Con le leggi del ’64 e dell’82 sono scomparsi la colonìa parziaria, la soccida e la mezzadria.

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CAPITOLO III: Autonomia privata e rapporto di lavor o; la formazione del contratto di lavoro

Contratto e rapporto di lavoroIl profilo del rapporto prevale su quello del contratto di lavoro subordinato, anche sul piano dell’esecuzione del contratto e della concreta attuazione delle obbligazioni che ne scaturiscono, in quanto la legge impone, attraverso il rinvio alle norme dei contratti collettivi, tutta una serie di precise limitazioni al contenuto del contratto: ad es. per la determinazione della durata, delle mansioni o della retribuzione.In altre parole, la legge disciplina il rapporto nel suo svolgimento effettuale, mentre l’accordo delle parti è compresso da una serie di limiti sia legali che convenzionali (provenienti dall’autonomia collettiva).

La fonte contrattuale del rapporto di lavoroSecondo l’art. 1321 c.c. “il contratto è l’accordo tra due o più parti per mezzo del quale si costituisce un rapporto giuridico patrimoniale, se ne disciplina la struttura e se ne regolano gli effetti”. Il suo contenuto è determinato in gran parte dalla legge e dai contratti collettivi. Tuttavia, il fatto che la maggior parte del contenuto delle obbligazioni derivanti dal contratto di lavoro è espressione di regolamento di interessi sovraordinati all’autonomia individuale, non implica l’a-contrattualità del rapporto di lavoro. Il contratto è una disciplina inderogabile che, però, può essere derogata dall’autonomia privata, con disposizioni di favore per il lavoratore.

L’inderogabilità del regolamento contrattuale imposto dalla leggeI limiti imposti all’autonomia negoziale nel rapporto di lavoro subordinato, sono sanciti a pena di nullità e mirano all’inderogabilità del regolamento contrattuale: le clausole volute dai contraenti in difformità sono sostituite di diritto (art. 1419 c.c. sulla sostituzione legale automatica). Al meccanismo della sostituzione legale, va accomunato quello dell’inserzione automatica, nel contratto, dei precetti legali come effetto ulteriore dell’inderogabilità delle norme imperative.

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Tutto ciò avviene in considerazione della tutela inderogabile degli interessi del lavoratore disposta dalle norme che devono essere osservate, malgrado ogni patto contrario.Infatti, nel rapporto di lavoro l’autonomia contrattuale è ripartita in modo diseguale a causa della debolezza contrattuale del lavoratore: proprio a correzione di questa disparità è finalizzato l’intervento del sindacato e la limitazione dell’autonomia privata imposta dalla disciplina imperativa legale. Inoltre, tale disciplina imperativa è caratterizzata dall’unilateralità o flessibilità verso l’alto che le deriva dalla validità dei patti più favorevoli al prestatore (inderogabilità in peius). Merita un cenno anche la Convenzione di Roma del 1980 la quale prevede che, in mancanza di scelta delle parti, il contratto sia regolato:

• dalla legge del paese in cui il lavoratore compie abitualmente il suo lavoro anche se è invitato temporaneamente in un altro paese;• dalla legge del paese in cui si trova la sede che ha proceduto all’assunzione del lavoratore, qualora questi non compia abitualmente il suo lavoro in uno stesso paese.

Autonomia privata e tipo contrattualeAnche il problema dell’interpretazione del contratto e della qualificazione del rapporto come di lavoro subordinato o autonomo viene a collocarsi sul terreno dell’autonomia contrattuale e dei limiti cui questa va incontro. Innanzitutto, per qualificare il rapporto occorre prima interpretare il contratto che lo ha instaurato e lo regola: è necessario se c’è la volontà di stabilire un rapporto di lavoro subordinato oppure autonomo. Tuttavia, nella pratica si perviene all’interpretazione del contratto di lavoro muovendo soprattutto dalla rilevazione della situazione materiale determinata dal loro comportamento, cioè dal rapporto considerato nella fase della sua attuazione.Di qui l’esigenza di orientare l’indagine rivolta all’interpretazione e alla qualificazione del rapporto di lavoro al comportamento tenuto dai contraenti anche posteriori alla conclusione del contratto e quindi all’accordo ed all’effettività della subordinazione.Ciò implica che la qualificazione attribuita dall’accordo delle parti non ha valore determinante rispetto al contenuto effettivo del rapporto. In questo modo, la sottoposizione del lavoratore al potere organizzativo e di controllo viene in rilievo non solo come comportamento esecutivo del vincolo obbligatorio, ma anche come comportamento dotato di valore presuntivo sul piano negoziale ai fini dell’individuazione della causa e cioè dell’interesse concretamente perseguito dalle parti nel contratto e del contenuto della collaborazione. La prevalenza del momento attuativo su quello dichiarativo dell’accordo non è solo un’operazione per l’accertamento presuntivo della volontà delle parti: tale prevalenza implica innanzitutto la compressione dell’autonomia individuale. Di qui la disciplina imperativa dello statuto protettivodel lavoratore come contraente debole.La giurisprudenza della Corte costituzionale si è pronunciata sulla c.d. indisponibilità del tipo contrattuale del lavoro subordinato e ha puntualizzato come i principi dell’inderogabilità e della eteronomia della tutela del lavoro subordinato abbiano rango costituzionale, e non può essere consentito all’autonomia contrattuale di autorizzare le parti ad escludere direttamente o indirettamente l’applicabilità della disciplina inderogabile prevista a tutela dei lavoratori, a rapporti che abbiano contenuto e modalità di esecuzione propri del rapporto di lavoro subordinato. Inoltre, ha precisato che la subordinazione in senso stretto è un concetto diverso dalla subordinazione. La differenza è data dalla presenza i due elementi che negli altri casi non sono mai congiunti:

• l’alienità del risultato per il cui conseguimento la prestazione di lavoro è utilizzata;• l’alienità dell’organizzazione produttiva in cui la prestazione si inserisce.

Quando la subordinazione presenta questa doppia alienità, si ha l’incorporazione della prestazione di lavoro in una organizzazione produttiva sulla quale il lavoratore non ha alcun potere di controllo.In questo modo il contratto di lavoro sembra distaccarsi dal modello civilistico dei contratto come regolamento di interessi dominato dalla libertà contrattuale e quindi dalla volontà delle parti. Ed invero, in quel modella la volontà comune si manifesta attraverso l’accordo e può determinare liberamente il contenuto del contratto, scegliendo gli elementi del concreto regolamento di

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interessi indipendentemente dallo schema in cui tale operazione dovrà essere inquadrata dal giudice. In generale, l’autonomia privata può determinare la concreta qualificazione del contratto nell’uno o nell’altro dei tipi dominati oppure in nessuno dei tipi previsti dalla legge. Viceversa, nel contratto di lavoro, alla volontà delle parti è vietato separare la subordinazione dallo statuto protettivo. Proprio per questo si parla d’indisponibilità del tipo legale.

Il principio del favorLa compressione dell’autonomia negoziale serve alla correzione del contenuto contrattuale piuttosto che alla sua riduzione. Il principio dell’inderogabilità si combina, poi, con il principio della prevalenza del trattamento più favorevole al lavoratore (c.d. favor), lasciando all’autonomia privata individuale solo la possibilità patti o clausole, anche taciti, migliorativi dei trattamenti normativi ed economici fissati. È questo il caso degli usi aziendali.La c.d. legislazione della flessibilità riconosce il potere di introdurre anche modifiche sfavorevoli in funzione delle esigenze dell’impresa: è un’eccezione alla regola del favor e quindi un’espansione della disciplina posta dai contratti collettivi, chiamati a dettare il regolamento imperativo del rapporto in alternativa alla legge.In definitiva, l’efficacia inderogabile della disciplina del contratto di lavoro opera attraverso il meccanismo della sostituzione legale della clausole difformi e trae fondamento dal principio dell’effettività della tutela degli interessi del lavoratore. Quindi, la violazione delle norme imperative viene sanzionata a pena di nullità. Ma, diversamente dagli altri contratti, in quello di lavoro subordinato la nullità è finalizzata all’effettività della tutela dell’interesse del prestatore di lavoro al trattamento economico e normativo determinato dalle norme legislative o collettive applicabili, quindi sancita in funzione dell’inderogabilità del regolamento contrattuale.

Inefficacia dell’invalidità del contrattoL’invalidità è sancita solitamente nella specie della nullità ed è l’effetto dell’inosservanza dei limiti legali. L’art. 2126 dispone che “la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetti per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione”. La norma sancisce, quindi, l’irretroattività delle vicende tendenti all’eliminazione del negozio invalido, che comporta l’efficacia del regolamento di interessi determinato dal contratto invalido limitatamente al periodo di esecuzione del rapporto. La norma salvaguarda la situazione del soggetto che, nonostante l’invalidità del contratto, ha prestato la propria attività: dall’esecuzione del contratto invalido (c.d. prestazione di fatto) deriva non la costituzione del rapporto di lavoro, ma soltanto la conservazione degli effetti. Viceversa, l’art. 2126 esclude l’ipotesi della prestazione si fatto di natura extracontrattuale, in cui la prestazione viene eseguita dal lavoratore "invito domino" (senza il consenso) o addirittura "prohibente domino" (contro la volontà) della controparte: è il caso di un soggetto che ha occupato un fondo rustico esercitandoci un'attività lavorativa; in tal caso non esiste alcun contratto, neanche invalido, e colui che ha eseguito la prestazione di fatto potrà al massimo, tra l'altro non sempre, esperire l'azione d'ingiustificato arricchimento.Abbiamo, quindi, visto come siano mantenuti in vita gli effetti del contratto in valido in caso di prestazione di fatto in violazione della legge. Tuttavia è lo stesso art. 2126, comma 1, c.c. a precisare che vengono meno anche gli effetti del contratto invalido nel caso in cui la nullità derivi dall'illiceità della causa o dell’oggetto. In tutti gli altri casi di nullità, invece, si può parlare d'inefficacia dell’invalidità, in quanto, dal rapporto posto in essere, sorgono le varie obbligazioni. Tra l'altro il comma 2, dell'art. 2126 c.c., precisa che se la nullità deriva dalla violazione di norme protettive del lavoratore, comunque quest'ultimo avrà diritto alla retribuzione.E' appena il caso di ricordare che, nonostante quello che abbiamo detto, vige il principio dell'irripetibilità delle prestazioni eseguite.

Sez. B: La formazione del contratto di lavoro

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La capacità del prestatore di lavoro.Prima di trattare l'argomento in questione è opportuno ricordare due definizione importanti: quella di capacità giuridica e quella di capacità di agire.La capacità giuridica è l'idoneità di un soggetto di essere titolare di diritti e doveri, la quale si acquista al momento della nascita. Per capacità di agire, invece, s’intende l'idoneità di un soggetto a porre in essere autonomamente atti negoziali vincolanti con effetti nella propria sfera giuridica e patrimoniale.L'art.2 c.c., dopo aver fissato il raggiungimento della maggiore età al compimento del 18° anno, al raggiungimento del quale si acquista la capacità d'agire, precisa (al comma 2) che sono salve le leggi speciali in materia di capacità a prestare il proprio lavoro. Per poter esercitare un'attività lavorativa occorre aver concluso il periodo d'istruzione scolastica obbligatoria e comunque aver compiuto, almeno, il quindicesimo anno di età. Questa disposizione va coordinata con la norma che impone un periodo di studi obbligatorio per almeno dieci anni e sancisce che l’età per l’accesso al lavoro è elevata da quindici a sedici anni. Inoltre, il minore, previa autorizzazione della Direzione Provinciale del Lavoro e col consenso di chi esercita la potestà, può essere impiegato anche in età inferiore in attività culturali, artistiche, sportive, pubblicitarie e di spettacolo, fatto salvo l'obbligo scolastico.In conclusione, data la coincidenza tra capacità giuridica e capacità d’agire, non vi è spazio per l’intervento del genitore o di altro rappresentante legale nella stipulazione del contratto, salvo nei casi indicati dalla legge.

Spersonalizzazione dell’imprenditore; principio della continuità dell’impresa; infungibilità della prestazione.Per ciò che concerne il datore, invece, non sono previsti requisiti soggettivi speciali: ha rilevanza solo la differenza tra gli imprenditori ed i datori di lavoro titolari di attività prive di fini lucrativi, visto che si impongono obblighi e limiti particolari soltanto ai datori-imprenditori. In questo paragrafo analizziamo alcuni principi fondamentali:

• Principio della spersonalizzazione dell’imprenditore: la qualità dell’imprenditore è rilevante per gli effetti:• Della formazione: al lavoro subordinato si applica l’art. 1330 c.c. stabilisce che la proposta o l’accettazione da parte di un imprenditore restano ferme anche in caso di morte o di sopravvenuta incapacità prima della conclusione del contratto;• Della conclusione: sotto questo profilo si rileva il principio della continuità dell’impresa;• Della successione: si vedano il principio della infungibilità soggettiva della prestazione e della irrilevanza della persona dell’imprenditore• Principio della continuità dell’impresa, base della successione dell’imprenditore nel contratto di lavoro. Secondo l’art. 2112, 1° co., c.c. “in caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano”.Questo principio si rifà ad un altro principio, c.d. della normale irrilevanza della persona dell’imprenditore ai fini della successione anche mortis causa nel contratto di lavoro.• Principio della infungibilità soggettiva della prestazione: al contrario il contratto di lavoro, per quanto riguarda la parte del lavoratore, resta dominato dall’intuitus personae, ossia dalla considerazione della persona del prestatore, in quanto egli non può, ne mortis causa né tramite atto inter vivos, trasferire il proprio debito nei confronti del datore ad un terzo, in quanto la prestazione da lui dovuta è infungibile, ossia può essere compiuta solo e solamente dal soggetto che ha originariamente concluso il contratto di lavoro. Non è una questione di fiducia nel lavoratore ad imporre un tal ragionamento, quanto la necessità dell’identificazione del contraente obbligato.

Procedimento di formazione del contratto. La forma e la rilevanza del consenso sulla genesi.Il procedimento di formazione del contratto di lavoro è identico a quello previsto per tutti i contratti: occorre l’accordo tra le parti e la formazione del contratto si attua nel momento in cui vi è l’incontro tra la proposta e l’accettazione.

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• Per quanto riguarda il consenso, il contratto è l’effetto della volontà delle parti, quindi la sua formazione dipende dall’incontro fra proposta e accettazione. Il problema è stabilire quando si verifica l’esatta corrispondenza tra esse: se per la generalità dei contratti di adesione è previsto che la parte contrattualmente forte determini le condizione e la controparte le accetti, per il contratto di lavoro le condizioni generali sono predisposte bilateralmente dall’autonomia collettiva, alla quale l’autonomia individuale può sostituirsi solo per includere condizioni maggiormente favorevoli al lavoratore. • Per quanto riguarda la forma, vige il principio della libertà della forma, facendo eccezione:

• i contratti di arruolamento marittimo (conclusi addirittura con atto pubblico); • i contratti di lavoro a tempo parziale, di lavoro intermittente, di lavoro ripartito, per i quali è prevista la forma scritta ad probationem (quindi ai fini processuali e di prova dell’atto)• i contratti di inserimento, per i quali è prevista la forma scritta ad substantiam (sotto pena di nullità qualora non sia rispettata)• per quanto riguarda poi il contratto di apprendistato e di formazione e lavoro(ormai per le sole pubbliche amministrazioni), è prevista la forma scritta, da ritenersi ad substanziam.

Tuttavia, in mancanza di un’espressa disposizione, prevale la forma scritta ad probationem per attestare l’esistenza del progetto ed il suo contenuto. Altro aspetto da sottolineare è inerente alla manifestazione del consenso: il momento attuativodell’esecuzione del contratto è sicuramente di gran lunga più rilevante rispetto al momento genetico della formazione, non solo perché serve a qualificare il lavoro come autonomo o subordinato, ma soprattutto perché funge da comportamento concludente che manifesta eda prova dell’esistenza del contratto e della volontà reale delle parti.

Gli adempimenti formali del datore di lavoroLa Direttiva 1991 n. 91/553, attuata con il D.Lgs. del ’97 n. 152, impone al datore di lavoro l’obbligo, entro trenta giorni dall’assunzione, di comunicare al prestatore di lavoro le principali condizioni applicabili al contratto (identità delle parti, luogo di lavoro, qualifica del lavoratore etc.), all’interno della lettera d’assunzione o in altro documento separato.Quest’obbligo di informazione non costituisce una deroga al principio della libertà della forma, ma è un obbligo autonomo di informazione. Inoltre, prima dell’inizio dell’attività di lavoro, il datore deve effettuare la comunicazione obbligatoria di assunzione entro 24 ore dal giorno precedente l’inizio del rapporto di lavoro. Per quanto riguarda il datore di lavoro privati, esso deve consegnare al lavoratore una copia della comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro, anche prima dell’inizio dell’attività lavorativa; per quanto riguarda il datore di lavoro pubblico, invece, la consegna deve avvenire entro in ventesimo giorno successivo alla data di assunzione.Tutto ciò per maggiore trasparenza: mentre prima, però il datore era obbligato a tenere una serie di documenti tra cui il libro paga e il libro matricola (che conteneva tutti i dati personali dei dipendenti), ora l’art.39 del D.L.2008/112 li ha eliminati e sostituiti con il Libro Unico del Lavoro.

Il periodo di provaL’art. 2096, al primo comma, prevede che “salvo diversa disposizione delle norme corporative, l’assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare per atto scritto”. Se privo di forma scritta, richiesta ab substantiam, il patto è nullo e l’assunzione è da considerarsi definitiva. Al comma 3 prosegue: “durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto senza obbligo di preavviso. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine”. Per quanto riguarda il tempo massimo, invece, il legislatore è intervenuto limitandolo a sei mesi. La posizione del lavoratore in prova, cmq, è equiparata a quella derivante dall’assunzione definitiva, quindi anche alla fine di una prova al lavoratore spettano il TFR e le ferie retribuite e, qualora assunto, il periodo è valido per gli scatti di anzianità.

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I vizi della volontàLa disciplina dei contratti di lavoro, per quel che concerne i vizi della volontà che comportano l’annullamento del contratto a norma dell’art.1427 c.c., è identica alla disciplina generale dei contratti.Hanno rilievo ridotto le ipotesi di violenza morale e del dolo, le quali influiscono sulla divergenza tra la volontà ipotetica e la dichiarazione, in quanto le varie compressioni dell’autonomia contrattuale imposte dal legislatore, nonché l’esecuzione di un periodo di prova, riducono di molto le possibilità che il contratto di lavoro sia viziato:

• se vi è stato un errore-vizio (anche detto errore motivo) che ha fatto in modo che la volontà negoziale non si formasse liberamente, entrambe le parti potranno rendersene conto da subito; • se vi è stato dolo, ossia un artificio o raggiro che abbia viziato la volontà contrattuale, il soggetto leso potrà subito rimediare, accorgendosi dell’inganno subito nello stesso periodo di prova.

L’unico vizio della volontà meritevole di attenzione è probabilmente rappresentato dall’ipotesi di errore essenziale sull’oggetto o sul contenuto del contratto di lavoro. Tale rilevanza è strettamente connessa alla considerazione soggettiva della persona (intuitus personae) dell’obbligato (prestatore), in relazione alle caratteristiche della prestazione dovuta. È possibile affermare, dunque, che la considerazione soggettiva della persona del lavoratore sia un elemento essenziale del contratto, ma che sia, nella pratica, la sua esecuzione ad essere motivo di impugnativa.

Il divieto di indagine su fatti non rilevantiL’art.8 della L. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), vieta al datore di raccogliere informazioni non rilevanti ai fini della valutazione professionale del lavoratore (c.d. indagini personali), prima e durante lo svolgimento del rapporto (e implicitamente permette le indagini sull’idoneità lavorativa).Implicitamente questo articolo prevede che il datore possa indagare sulle capacità professionali del soggetto, ma deve farlo senza violare la riservatezza del lavoratore, garantita dallo statuto.All’art. 38, inoltre, vieta le indagini per l’accertamento della sieropositività all’infezione da HIV del lavoratore, sebbene la Corte abbia ammesso indagini sanitarie allo scopo di prevenire rischi per la salute dei terzi. Qualora violate, queste misure per la parità di trattamento implicano una sanzione penale.

Il trattamento dei dati personaliIl diritto alla riservatezza (anche) del lavoratore è stato definitivamente assicurato dalla L. 675/1996, poi sostituito dal D.Lgs. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali). Oltre all’istituzione di un’autorità indipendente, il Garante per la protezione dei dati personali, con compiti di controllo e poteri sanzionatori, sono stati riconosciuti a tutte le persone interessate i c.d. diritti informatici. Essi consistono nel diritto di avere conoscenza preventiva su chi detiene i propri dati personali, su come li ha ottenuti e per quali scopi li utilizza. Il consenso del soggetto non è sempre richiesto, ma al contrario è obbligatorio per i dati “sensibili”, ossia per quelli idonei a rivelare informazioni strettamente personali (opinioni politiche, origini etniche, orientamento sessuale etc.). questi dati possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso dell’interessato sulla base della preventiva autorizzazione del Garante. La normativa in materia, inoltre, ha ribadito l’importanza degli artt. 4 e 8 della L. 300/1970 (statuto dei lavoratori), ribadendo il divieto posto a carico del datore di lavoro di ricercare informazioni personali non attinenti all’attiva lavorativa svolta dal prestatore (opinioni politiche, origini etniche, orientamento sessuale). Quindi per quanto concerne il lavoratore, questa nuova normativa va semplicemente a confermare quanto precedentemente imposto dallo statuto dei lavoratori, costituendo, invece, per le persone fisiche e giuridiche in generale la consacrazione di un diritto.

La simulazione nel contratto di lavoroAbbiamo già detto che in caso di errore inteso come vizio di volontà, vi sia una divergenza tra l’intenzione e la volontà concretamente manifestata dalla parte. Talune volte, invece, può accadere

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che tale divergenza tra volontà e dichiarazione sia voluta dalle parti: siamo dinanzi ad una “simulazione” in forza dell’art. 1414 c.c. che la disciplina. Le parti, in tal caso, possono celare dietro un determinato accordo, o un accordo totalmente diverso (il c.d. contratto dissimulato) oppure addirittura nessun contratto. Ovviamente vanno rispettate le previsioni codicistiche inerenti la forma del contratto simulato, la quale deve rispettare la stessa forma del contratto voluto, oppure inerenti la liceità della causa del contratto dissimulato. La simulazione, in realtà, non si concretizza necessariamente nella frode alla legge: la simulazione non deve essere posta in essere per celare un fine illecito. Qualora un contratto simulato sia posto in essere per non rispettare tutte le norme imperative e le garanzie apposte dalla legge a favore dei lavoratori subordinati, sia il contratto simulato che quello dissimulato saranno invalidi (es. viene posto in essere un contratto di lavoro autonomo, il quale cela il un contratto di lavoro subordinato per aggirare le garanzie offerte da quest’ultimo) e la disciplina sarà sostituita automaticamente con quella prevista dalla legge. Se invece ad essere illecita è proprio la causa del contratto dissimulato, a quel punto il contratto sarà nullo definitivamente.

CAPITOLO IV: La prestazione di lavoro

Sez. A: Potere direttivo e potere disciplinareIl contenuto della subordinazione: la diligenzaAbbiamo visto in precedenza come la collaborazione intesa come disponibilità funzionale della prestazione lavorativa all’organizzazione dell’impresa, sia uno dei connotati fondamentali del rapporto di lavoro subordinato, al di là dello scambio tra la prestazione lavorativa e la retribuzione. Abbiamo poi parlato di subordinazione, specificando che il lavoratore subordinato differisce da quello autonomo per un rapporto di dipendenza nel tempo dal proprio datore di lavoro. L’obbligazione assunta dal lavoratore lo vincola a sottoporsi alle direttive del datore, il quale non è titolare di una semplice pretesa alla prestazione, ma anche di un potere direttivo sulla sua esecuzione.L’art. 2104 sotto la rubrica “diligenza del prestatore di lavoro” fissa due requisiti caratteristici della prestazione:1. La diligenza2. L’obbedienzaL’art. 2104 stabilisce che “il prestatore di lavoro deve adoperare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta”. Si tratta di una specificazione del principio generale fissato dall’art. 1176 c.c., secondo il quale “nell’adempiere all’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia” e “nell’adempimento professionale la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”.Nell’obbligazione di lavoro, il cui risultato della prestazione s’identifica essenzialmente con il comportamento del debitore, il rinvio al criterio della natura della prestazione impone un riferimento alle mansioni, che non sono altro che il criterio di determinazione qualitativa dell’oggetto della prestazione di lavoro: infatti, il comma 1 dell’art. 2104 ha previsto che la diligenza possa differenziarsi secondo il tipo di lavoro e quindi di mansioni. Per natura della prestazione dovuta, tra l’altro, non si deve intendere solo la differenziazione tra le mansioni, in quanto è ovvio che ad un dirigente sarà richiesta una diversa diligenza rispetto a quella del suo sottoposto, ed è altrettanto normale che anche in riferimento ad una stessa mansione, andrà prestata una maggiore attenzione nell’esecuzione di una prestazione rispetto ad un’altra (è l’esempio del libero del muratore che oggi adopera un materiale di scarsa qualità e domani un materiale pregiato, dovendo mostrare nel secondo caso una maggiore diligenza). Per tutti questi motivi la diligenza a seconda della natura della prestazione dovuta si riferisce ai caratteri intrinseci della prestazione, a quanto attenzione il lavoratore dovrà prestare nell’esecuzione della propria attività.Altri due criteri per la valutazione della diligenza sono:

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• l’interesse superiore della produzione nazionale: formula che rinvia all’ideologia corporativa dello statalismo economico, secondo cui tutte le attività economiche e professionali dovevano tendere ad un fine comune definito dalla Carta del lavoro come l’interesse superiore della nazione. • L’interesse dell’impresa: il prestatore di lavoro, al pari di ogni altro debitore, è tenuto ad adempiere la propria obbligazione eseguendo la prestazione con la dovuta diligenza, volta all’interesse del creditore, e quindi dell’impresa.

Nel comma 2 dell’art. 1176, si ricava che la natura della prestazione dovuta non è altro che la natura dell’attività esercitata dal debitore. Per quel che concerne, poi, il rapporto tra la diligenza richiesta al prestatore di lavoro e l’interesse dell’impresa, non si può ingenuamente credere che ci si riferisca all’interesse dell’impresa come istituzione. Sicuramente il riferimento è attribuibile all’interesse dell’imprenditore, anche se non come generico interesse del creditore ad ottenere l’esatto adempimento, bensì come interesse dell’imprenditore ad ottenere la collaborazione di cui sopra attraverso, anche, la propria organizzazione del lavoro.

L’obbedienzaIl secondo requisito dell’obbligazione di lavoro è quello dell’obbedienza: il comma 2 dell’art. 2104 c.c. prevede che il prestatore di lavoro debba osservare le disposizioni impartite dal datore di lavoro e dai “collaboratori dello stesso, dai quali il prestatore gerarchicamente dipende”. L’obbedienza alle direttive impartite dall’imprenditore è, al pari della diligenza, un modo di essere della subordinazione e fa da contraltare al potere direttivo del datore di lavoro.Per quanto riguarda l’esecuzione e la disciplina del lavoro, essi sono l’estrinsecazione del potere direttivo e quindi rappresentano il lato attivo della situazione passiva del lavoratore. I comandi dell’imprenditore possono essere di due tipi:

• attinenti all’organizzazione del lavoro, cioè al modo di rendere utilizzabile la prestazione resa dal lavoratore e quindi ai necessari controlli sull’esecuzione della prestazione del lavoro;• attinenti alla disciplina del lavoro, cioè alla regolamentazione della convivenza della comunità formata da coloro che collaborano all’impresa.

L’obbligo di fedeltà, il divieto di concorrenza e le invenzioni. Il divieto di divulgazione di segreti aziendaliObbligo fondamentale a carico del prestatore di lavoro è sicuramente quello di prestare subordinatamente la propria collaborazione nell’impresa, ma l’art. 2105 c.c. identifica un obbligo accessorio rispetto all’interesse primario del datore di lavoro a ricevere la prestazione: si tratta dell’obbligo di fedeltà. Esso, in corrispondenza con il dovere di buona fede generale nell’adempimento dell’obbligazione, rientra tra i c.d. obblighi di protezione a tutela del creditore e consiste nel divieto, da parte del prestatore di lavoro e durante il periodo lavorativo contrattualmente previsto, di svolgere attività in concorrenza con l’impresa e di divulgare o quanto meno utilizzare notizie inerenti organizzazione e metodi dell’impresa stessa, tale da poter arrecarle pregiudizio. Tale divieto di concorrenza nulla ha a che vedere con il divieto di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c., poiché in quest’ultima ipotesi non vi è alcun rapporto contrattuale tra danneggiante e danneggiato e la concorrenza slealmente attuata si verifica solo nei casi previsti dall’articolo stesso. Tuttavia, l’art. 2125 c.c. ha previsto la possibilità di stipulare un patto di concorrenza anche per un periodo successivo alla cessazione del rapporto (per un periodo di tempo pari a tre anni, cinque per i dirigenti). In ogni caso però, è richiesta la forma scritta ad substantiam.Non costituisce, invece, concorrenza l’attività inventiva del lavoratore. Al riguardo, il Codice della proprietà industriale emanato con D.Lgs. 30/2005 ha previsto che qualora l’invenzione venga fatta dal lavoratore nell’esecuzione del contratto (invenzione di servizio), i diritti derivanti dall’invenzione eventualmente fatta dal lavoratore nell’adempimento del contratto spettano al datore, salvo il diritto di autore del lavoratore. Qualora, invece, si tratti di un’invenzione aziendale, ossia fatta nell’adempimento del rapporto di lavoro, ma non oggetto del contratto di

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lavoro stesso, i diritti derivanti dall’invenzione spettano al datore di lavoro che, qualora si veda riconosciuto il brevetto, dovrà al lavoratore un equo premio. In ultima ipotesi può trattarsi di un’invenzione occasionale, fatta dal lavoratore indipendentemente dal rapporto di lavoro, ma rientrante nel campo di attività dell’impresa: in tal caso i diritti spettano al lavoratore, ma il datore ha diritto d’opzione per l’uso o per l’acquisto del brevetto (che deve esercitare entro 3 mesi).Diverso dall’obbligo di concorrenza è l’obbligo di fedeltà: tale obbligo consiste nel divieto di divulgare o di utilizzare i c.d. segreti aziendali, attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione della stessa, con conseguente pericolo di pregiudizi per l’impresa. Infatti, il segreto aziendale è tutelato anche in sede penale.

Il potere disciplinareSecondo l’art. 2106 c.c., l’inadempimento della responsabilità contrattuale del lavoratore (la disobbedienza, l’infedeltà o la non diligenza) può essere sanzionata, in proporzione alla gravità dell’infrazione e in conformità delle norme dei contratti collettivi, mediante le seguenti sanzioni disciplinari :

• rimprovero, verbale o scritto;• multa;• sospensione dal lavoro e della retribuzione;• il licenziamento (la massima sanzione).

L’imprenditore esprime la propria autorità gerarchica non solo tramite il potere direttivo, di cui abbiamo già parlato, ma anche tramite il potere disciplinare: il suo fondamento è infatti nella responsabilità contrattuale del prestatore.Va detto, inoltre, che il criterio di proporzionalità tra infrazione e sanzione (art. 2106 c.c.) costituisce un limite generico del potere disciplinare e di conseguenza la sua applicazione può risultare particolarmente elastica e soggettiva. Di qui l’importanza di introdurre ulteriori limiti in materia da parte dello Statuto dei lavoratori.

Limiti sostanziali e procedurali al potere disciplinareFino ad ora abbiamo analizzato quelli che sono i poteri dell’imprenditore nei confronti del prestatore di lavoro sotto il profilo codicistico. Lo Statuto dei lavoratori (L. 300/1970) contiene al suo interno tutta una serie di norme che vanno ad integrare quanto abbiamo detto fino ad ora, tutelando in maniera più dettagliata la libertà e la dignità del lavoratore ed introducendo notevoli limiti al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro.Partiamo dai limiti imposti al potere disciplinare, previsti dall’art.7 dello statuto. In un luogo accessibile a tutti all’interno dell’impresa, deve essere esposto un regolamento disciplinarecontenente le possibili infrazioni, le sanzioni e le procedure di contestazione (ciò in analogia col principio nulla poena sine lege).Inoltre, prima di impartire una sanzione disciplinare a carico del lavoratore, il datore di lavoro deve contestare l’addebito dell’infrazione e permettere al lavoratore di difendersi anche a mezzo di rappresentanti sindacali. Inoltre, per quanto concerne le infrazioni, solo il licenziamento può comportare un mutamento definitivo del rapporto; sono perciò escluse retrocessioni o trasferimenti punitivi (anche se i trasferimenti per incompatibilità ambientale sono talvolta previsti). La norma ha previsto anche limiti massimi all’entità delle sanzioni irrogabili:

• la sospensione disciplinare dal lavoro e della retribuzione non può durare per più di 10 giorni (può essere disposta anche la sospensione cautelare per eventuali accertamenti sull’infrazione, la quale può essere con o senza retribuzione). • La multa irrogabile dall’impresa può essere pari all’ammontare di 4 ore della retribuzione base. • Tutti i provvedimenti (escluso il rimprovero verbale) possono essere applicati solo dopo 5 giorni dalla contestazione scritta di cui sopra.

Entro i 20 giorni successivi il lavoratore può cmq impugnare davanti ad un collegio di conciliazione ed arbitrato il provvedimento disciplinare.Particolare attenzione merita anche la recidiva, che si ha nel momento in cui un soggetto attua nuovamente lo stesso comportamento proibito che aveva attuato precedentemente e per cui era

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stato sanzionato a livello disciplinare: non si può tener conto di una sanzione disciplinare una volta trascorsi 2 anni dalla sua applicazione (se ne può, però, tener conto se occorre un’analisi completa del soggetto e della sua carriera lavorativa nell’impresa).

Limiti al potere di controllo: I controlli per la salvaguardia del patrimonio aziendaleLo Statuto dei lavoratori, come abbiamo già accennato, ha poi limitato il potere di controllo e vigilanza del datore di lavoro. L’art.2 dello Statuto dispone che l’imprenditore possa avvalersi di guardie giurate solo per salvaguardare il patrimonio aziendale, ma esse non possono in alcun modo interferire con l’attività lavorativa dei prestatori, neanche qualora questi ultimi pongano in essere azioni penalmente rilevanti. Le guardie giurate, durante l’orario di lavoro, non possono avere accesso neanche ai locali in cui si svolge l’attività lavorativa, a meno che non sia presente un patrimonio aziendale da salvaguardare. Volendo, l’imprenditore può però avvalersi di propri dipendenti (non guardie giurate) per vigilare sull’operato degli altri lavoratori.Per meglio tutelare il patrimonio aziendale possono essere previste visite personali di controlloall’uscita dei luoghi di lavoro e con sistemi di selezione imparziali (art.6 dello statuto), tra l’altro solo qualora concordati con le rappresentanze sindacali. Qualora non vi sia accordo con esse, il datore di lavoro potrà rivolgersi alla Direzione provinciale del Lavoro, che provvederà alle visite suddette (la decisione è impugnabile entro 30 giorni dinanzi al Ministro del lavoro).

I controlli sull’attività lavorativaI controlli, oltre che essere previsti per salvaguardare il patrimonio aziendale, possono riguardare anche l’attività lavorativa. L’art.3 dello Statuto prevede che vengano resi noti i nominativi e le mansioni del personale di vigilanza sull’attività lavorativa (sono esclusi dirigenti e capi, che per loro definizione esercitano un potere di controllo). L’art. 4 regola, poi, i c.d. controlli a distanza: essi non possono avere l’unico fine di sorvegliare i lavoratori. Tuttavia, qualora siano installati per garantire la sicurezza degli stessi, possono risultare idonei anche al controllo dell’operato dei lavoratori (quindi la norma si aggira facilmente). Analogamente a quanto previsto per le visite personali, l’installazione di tali apparecchiature deve essere concordata con i sindacati o decisa dalla Direzione provinciale del lavoro (l’atto è impugnabile dinanzi al Ministro del lavoro). Le nuove tecnologie, prima fra tutte il personal computer, permettono oggi al lavoratore di ricevere le direttive lavorative tramite i terminali informatici: ciò fa si che anche il controllo possa essere attuato tramite i terminali in questione. Purtroppo lo statuto non copre (e quindi non vieta) tale tipo di controllo.

Gli accertamenti sanitariL’art. 5 dello Statuto disciplina gli accertamenti sanitari, e a riguardo vengono in rilievo in primo luogo quelli diretti a controllare la giustificazione dell’assenza del lavoratore in caso di infermità. Precedentemente a tale statuto, il medico per il controllo dello stato di salute del lavoratore veniva inviato dal datore di lavoro. Il suddetto articolo ha fatto in modo che ad inviare il medico per l’accertamento sia l’istituto previdenziale tenuto all’erogazione della prestazione indennitaria in luogo della prestazione lavorativa. Il medico curante deve inviare, telematicamente, un certificato che rechi la propria firma e che attesti che il paziente (il lavoratore) non sia in grado temporaneamente di esercitare l’attività lavorativa, indicando l’inizio e la presunta fine della malattia. Il lavoratore, entro due giorni, dovrà consegnare il medesimo certificato al datore di lavoro. Quest’ultimo potrà, qualora lo ritenga opportuno, sollecitare l’ente previdenziale ad inviare un medico convenzionato alla residenza del lavoratore, per accertarne lo stato di salute: tale visita dovrà avvenire nello stesso giorno della richiesta da parte del datore di lavoro, in orari stabiliti, definiti come “reperibilità”. Il lavoratore assente al momento della visita senza giustificato motivo, perderà il diritto all’intero trattamento economico per i primi dieci giorni ed avrà diritto alla metà dello stesso per i successivi (questa seconda parte è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte per la mancanza della previsione di una seconda visita). Sempre l’art. 5, al 3° co., prevede che l’idoneità fisica di un lavoratore possa essere accertata anche da strutture pubbliche.

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Tra l’altro la L. 626/1994 obbliga il datore di lavoro ad avvalersi di un medico competente(professionista privato, dipendente del datore, medico convenzionato) per l’accertamento periodico dell’idoneità dei lavoratori o per il soccorso immediato di particolari categorie di lavoratori che esercitano un’attività che li pone in pericolo. Ovviamente contro l’accertamento d’inidoneità parziale da parte del medico suddetto sarà ammesso ricorso all’organo di vigilanza territorialmente competente.Quindi, mente l’art. 5, 3° co. regola l’accertamento della dì generica idoneità fisica di tutti i lavoratori, il D.Lgs. 2008, n.81 disciplina i controlli medici riferiti a specifiche mansioni cui sono addetti i lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria.

La procedimentalizzazione dei poteri di lavoroLo Statuto del lavoratore del 1970 ha sancito indirettamente la subordinazione solo tecnico-funzionale del lavoratore e non della persona del lavoratore nei confronti del datore. Si è proceduto, quindi, a procedimentalizzare il potere imprenditoriale, che appare oggi, diversamente dal passato, come intrappolato nell’obbligo, imposto dallo Statuto e da leggi successive, di seguire determinate regole e di osservare determinati vincoli nell’esercizio dei poteri di controllo e direttivo, solo accessori rispetto alla pretesa imprenditoriale a ricevere la prestazione dovuta.Tale procedimentalizzazione, prevede la tendenza della giurisprudenza ad un’applicazione estensiva degli obblighi generali di correttezza e buona fede quali limiti esterni all’esercizio dei poteri organizzativi dell’imprenditore.Nella stessa prospettiva, non va trascurato l’art. 1 dello Statuto sulla libertà di espressione delle opinioni del lavoratore nei luoghi di lavoro: al diritto del lavoratore di manifestare liberamente il proprio pensiero politico, religioso, e sindacale corrisponde un limite esterno all’esercizio del potere imprenditoriale e tale limite è sanzionato dalla nullità degli atti o patti diretti a discriminare il lavoratore nel rapporto di lavoro prevista dall’art. 15 dello Statuto.La libertà di espressione, tuttavia, non si potrà svolgere in contrasto con il diritto del datore di ricevere la prestazione.

Sez. B: Mansioni e qualificaLe mansioni e la qualificaLa prestazione di lavoro consiste nello svolgimento di un’attività (facere) alle dipendenze dell’imprenditore. Per individuare concretamente tale attività e soddisfare il requisito della determinazione dell’oggetto del contratto (art. 1346 c.c.), si fa riferimento alle mansioni, ossia l’insieme di compiti che il lavoratore è chiamato a svolgere e per i quali è stato assunto, e che identificano la posizione di lavoro del soggetto. Le mansioni possono essere individuate anche senza considerare l’attività complessiva che deve essere svolta, ma indicando quest’ultima per mezzo di una qualifica riferita al lavoratore addetto a quella mansione.In sostanza, le mansioni e la qualifica costituiscono termini per indicare lo stesso oggetto, ovvero la prestazione lavorativa dedotta in contratto. Va segnalata, infine, la divisione del lavoro in relazioni funzionali: i processi ed i contenuti delle mansioni, grazie alle innovazioni informatiche e tecnologiche, si stanno differenziando dai precedenti modelli fordisti e tayloristi, e ciò non è privo di rilievo ai fini della determinazione della retribuzione stessa, come vedremo nel prossimo paragrafo.

La differenziazione retributiva in relazione alle mansioni.Un altro aspetto della divisione del lavoro è la differenziazione delle retribuzioni in relazione alle mansioni nelle quali è scomponibile un’organizzazione produttiva. Ogni mansione, quindi, è diversa da un’altra e per tal motivo può avere un rilievo superiore o inferiore, determinato e classificato in base al trattamento economico riservato a quella determinata mansione. Un’attività specializzata che nel mercato pochi soggetti conoscono e sono in grado di esercitare, non può in alcun modo essere posta sullo stesso livello di un’attività che chiunque potrebbe svolgere, in quanto i diversi compiti (mansioni) che un soggetto è chiamato a svolgere possono richiedere

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diverse abilità, una diversa preparazione e quant’altro.La valutazione delle mansioni, nella generalità dei casi, è affidata alla contrattazione collettiva, la quale opera una classificazione su una scala (c.d. ventaglio) per far corrispondere ad ogni livello un trattamento economico e normativo adeguato.

L’inquadramento del prestatore di lavoro. Le categorie contrattualiIl secondo comma dell’art. 96 delle disposizioni attuative del Codice Civile stabilisce che “l’imprenditore deve fare conoscere al lavoratore, al momento dell’assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in relazione alle mansioni per cui è stato assunto”. L’assegnazione delle mansioni è il presupposto per il c.d. inquadramento individuale del prestatore di lavoro nel sistema di classificazione professionale, individuato dall’art. 2095, 1° co., c.c. per quanto concerne le categorie (operai, impiegati, quadri e dirigenti) e al 2° co., per quanto riguarda il rinvio ai contratti collettivi.Facciamo quindi una distinzione tra qualifica e categoria, specificando che ognuno di questi termini ha una doppia accezione.Per “qualifica” s’intende sia l’attività che un soggetto svolge nell’organizzazione produttiva e sia l’insieme di mansioni che individuano una figura professionale (il tornitore piuttosto che il carpentiere).Per “categoria” s’intende il livello di appartenenza all’interno dell’organizzazione produttiva di un determinato soggetto. Qui possiamo attuare una distinzione tra categorie legali, individuate dall’art. 2095 c.c., il quale attua la differenza tra operai, impiegati, quadri e dirigenti, e categorie contrattuali, in passato viste dalla contrattazione collettiva come delle sottocategorie di quelle legali, nate per poter attuare delle differenziazioni tra gradi intermedi (per esempio tramite l’individuazione della figura del funzionario, a metà strada tra il quadro ed il dirigente). Con l’introduzione dell’inquadramento unico, il termine categoria viene ormai riferito non più alle sotto articolazioni delle categorie legali, ma ai c.d. livelli di inquadramento.

Le categorie legaliLa classificazione dei lavoratori è dettata, quindi, da un sistema misto in cui s’incontrano le categorie contrattuali e quelle legali. Queste ultime sono individuate dal legislatore e collegano la classificazione professionale alla struttura gerarchica nell’impresa, specificando inoltre trattamenti diversi. Al fine di individuare nel concreto la distinzione tra le categorie di cui all’art.2095 c.c., la stessa norma, al secondo comma, prevede che le leggi speciali e le norme corporative determinino i criteri di appartenenza alle varie categorie. Per il settore impiegatizio, tali requisiti sono fissati dall’art.1 della legge sull’impiego privato (R.D.L. del 1924 n° 1825), ma in via sussidiaria della contrattazione collettiva, che può costruire e definire proprie categorie. Inoltre la stessa contrattazione collettiva ha individuato, col passare del tempo, una serie di categorie contrattuali dapprima inesistenti (si pensi alla figura dei funzionari). Il sistema di classificazione dei lavoratori, tra l’altro, si è col tempo modificato notevolmente, prediligendo una distinzione tra categorie contrattuali, piuttosto che tra categorie legali.

La distinzione tra operai ed impiegatiLa distinzione tra operai ed impiegati, individuata inizialmente grazie alla legge sull’impiego privato (R.D.L.1825/’24), è mutata notevolmente col passare del tempo e con l’evolversi della società. L’art. 1 della suddetta legge riconduceva la differenza tra gli uni e gli altri alla distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. L’impiegato, infatti, era visto come chi svolge “al servizio dell’azienda” (esistendo uno stato di subordinazione) un’attività professionale “con funzione di collaborazione, di concetto e di ordine, esclusa l’attività di manodopera”.Con l’evolversi della società, però, questa distinzione è divenuta fragile: si è assistito al proliferare di operai che operano a livello intellettuale ed alla meccanicizzazione del lavoro degli impiegati.La dottrina, quindi, ha individuato una nuova distinzione tra le due categorie, precisando che l’operaio è colui che collabora NELL’impresa, svolgendo un’attività produttiva, mentre l’impiegato è colui che collabora ALL’impresa, ossia organizzando (e non svolgendo) l’attività produttiva.

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Ma anche tale distinzione, considerando che in diversi settori una stessa attività potrebbe essere presa in considerazione come operaia o impiegatizia, è venuta in un certo senso a mancare. In realtà, la vera distinzione, già dall’origine della stessa, aveva ad oggetto il ceto sociale di appartenenza: impiegato era colui che sapeva scrivere, leggere, contare, differente dall’operaio che poteva prestare solo un lavoro manuale, essendo analfabeta. Proprio perché ormai obsoleta, il nuovo sistema di classificazione professionale ha superato tale distinzione, non più fondata sulla separazione tra operai ed impiegati (inquadramento unico).

L’inquadramento contrattuale c.d. unico.L’inquadramento unico, più volte citato, non ha solo attuato un’eliminazione nominale della distinzione tra operai ed impiegati, ma ha creato una nuova scala di categorie contrattuali, in cui al medesimo livello possono trovarsi tanto impiegati quanto operai. Non si attua più, in sostanza, un modello gerarchico articolato su categorie legali, bensì una classificazione in 7/8 categorie che comportano livelli retributivi diversi, l’appartenenza ai quali è determinata dalle definizioni delle caratteristiche dell’attività prestata (declaratorie) e dell’elencazione di profili professionali specifici (esemplificazioni).

I dirigentiInizialmente i dirigenti venivano considerati solo e solamente come degli impiegati con funzione direttive, impiegati superiori. La nascita della categoria risale all’ordinamento corporativo, che attribuì a tale categoria un’organizzazione separata da quella degli impiegati.La contrattazione collettiva, cui è demandato il compito di stabilire i criteri di appartenenza a tale categoria, ritiene dirigenti tutti quei lavoratori che “ricoprono nell’azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale volto ad esplicare funzioni di coordinamento e gestione utili alla realizzazione degli obiettivi dell’impresa”. La contrattazione collettiva subordina l’attribuzione della qualifica dirigenziale alla nomina da parte dell’imprenditore, al contrario della giurisprudenza, che non ritiene necessaria tale nomina qualora il compito effettivamente svolto delinei un rapporto fiduciario con l’imprenditore.Vi sono poi casi in cui il dirigente non ha alcun potere direttivo, essendogli riconosciuta l’appartenenza a tale categoria in forza soltanto di una particolare preparazione e/o esperienza, che riconduce ad un trattamento economico più vantaggioso. Il dirigente, comunque, non può essere oggi considerato, contrariamente da ciò che si credeva in passato, come l’alter egodell’imprenditore, se non ai massimi livelli dell’organizzazione produttiva (top management).

I quadri intermediL’art. 2095 c.c., inerente l’individuazione delle categorie legali di organizzazione produttiva, attuava una distinzione, nel suo testo originario, tra dirigenti amministrativi e tecnici, impiegati ed operai. Negli anni 70, però, emersero figure professionali con un ruolo ben distinto rispetto agli impiegati, ma che non godevano di rilevanza dirigenziale: una figura, quindi, a metà strada tra quella di impiegato e quella di dirigente, che meritava di essere retribuita diversamente rispetto agli uni e agli altri.La L.190/1985 novellò l’art.2095 c.c. introducendo la figura dei “quadri intermedi”, fornendone una definizione, ma demandando alla contrattazione collettiva nazionale (inquadramento collettivo) la determinazione dei requisiti di appartenenza alla nuova categoria, alla quale sarebbero poi state applicate le norme di tutela del lavoratore inerenti gli impiegati. Tuttavia, nonostante l’applicabilità ai quadri intermedi della disciplina prevista per gli impiegati, la definizione della categoria dei quadri intermedi ha in comune con quella dei dirigenti la rilevanza attribuita alle funzioni e non alle mansioni svolte dal prestatore: sono da considerare quadri, infatti, i lavoratori che “svolgono funzioni a carattere continuativo di rilevante importanza per lo sviluppo e l’attuazione degli obiettivi dell’impresa”.Nell’ipotesi in cui sia assente la contrattazione collettiva, è, comunque, sempre possibile rifarsi al principi dell’adeguatezza e della proporzionalità sanciti dall’art. 36 della Costituzione.

La disciplina del mutamento di mansioni. Il divieto di adibizione a mansioni inferiori. Il danno da dequalificazione

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Abbiamo visto come per “mansioni” s’intenda l’insieme dei compiti che il lavoratore è chiamato a svolgere, oggetto dell’obbligazione contrattuale del rapporto di lavoro. Il contratto di lavoro, tuttavia, è l’unico contratto in cui è previsto il potere di modificare unilateralmente la prestazione di lavoro, al contrario della generalità di contratti in cui occorre il mutuo consenso delle parti. Ciò è previsto dall’art.2103 c.c., che nel suo testo originario prevedeva non solo la possibilità del datore di modificare le mansioni, nell’interesse dell’impresa, purchè ciò avvenisse senza un mutamento sostanziale della sua posizione e senza diminuzione della retribuzione. Inoltre, fermi restando questi limiti, per l’esercizio del potere unilaterale dell’imprenditore di variazione delle mansioni non si escludeva il potere dell’autonomia contrattuale di stabilire consensualmente il mutamento di mansioni. L’art. 2103 c.c. è stato novellato dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, il quale ha dettato una disciplina fortemente innovativa delle mansioni e dell’inquadramento dei lavoratori. La parte prima dell’art. 2103 stabilisce che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione”; inoltre, “nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione dl posto, dopo un periodo fossato dai contratti collettivi, e cmq non superiore a tre mesi”.L’art. 2103 c.c. ha eliminato la precedente diversità di disciplina tra mutamento unilaterale e mutamento consensuale delle mansioni. La norma infatti riconosce in linea generale la possibilità di un’adibizione del lavoratore a mansioni diverse da quelle originariamente convenute, essendo riconosciuta una certa mobilità del lavoratore. Essa però può svilupparsi solo in senso orizzontale (mansioni equivalenti) o verticale (mansioni superiori), essendo impossibile una mobilità verso il basso e quindi una dequalificazione del la lavoratore. La mobilità verso il basso può essere attuata solo nei casi tassativamente previsti:

• in caso di esigenze straordinarie sopravvenute, • nel caso di lavoratrici madri in quanto si è voluto assicurare l’esercizio di mansioni non pregiudizievoli alla salute delle stesse o dei feti, • nel caso di sopravvenuta inabilità allo svolgimento delle mansioni,• nel caso in cui un accordo sindacale, in seguito ad una procedura di licenziamento, prevede il riassorbimento di lavoratori esuberanti.

Tranne che in quest’ultimo caso, si mantiene sempre la retribuzione precedente alla variazione verso il basso della mansione. L’art. 2103 c.c. precisa che “ogni patto contrario è nullo”. In caso di dequalificazione ingiustificata, tra l’altro, il lavoratore avrà diritto al risarcimento del danno tanto patrimoniale, quanto non patrimoniale.

La mobilità orizzontaleL’art. 2103 permette la c.d. mobilità orizzontale, nel momento in cui il lavoratore viene assegnato a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte. Un problema che si pone riguarda la c.d. garanzia retributiva, prevista dall’art.2103 c.c., secondo il quale l’equivalenza non si riferisce necessariamente anche alla parità di trattamento economico. Pertanto, per equivalenza si deve intendere un’affinità di professionalità tra le vecchie e le nuove mansioni.In conclusione, il nuovo sistema d’inquadramento per aree professionali prevede che in una stessa area (o categoria) vi siano posizioni organizzative (o livelli) differentemente retribuiti, motivo per cui l’attribuzione di una nuova mansione che prevede un trattamento economico superiore, dovrà portare il lavoratore ad ottenere il trattamento ad egli più favorevole.

La mobilità verso l’altoSecondo l’art. 2103 c.c., si ha mobilità verso l’alto nel momento in cui il lavoratore viene assegnato a mansioni superiori: in tal caso egli avrà diritto al trattamento economico corrispondente e l’assegnazione diverrà definitiva dopo un periodo fissato dai contratti collettivi

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e non superiore a tre mesi, salvo il caso in cui si stia sostituendo momentaneamente un lavoratore assente che ha diritto alla conservazione del posto (in caso di malattia, infortunio, gravidanza e puerperio, servizio militare). Se in questo caso il periodo massimo è di tre mesi per l’assegnazione definitiva ad una mansione superiore, nel caso in cui si tratti di mansioni di quadro intermedio o dirigente, il periodo minimo di svolgimento è di tre mesi, ma può essere stabilito un periodo superiore dai contratti collettivi.Quindi al lavoratore viene riconosciuto il diritto alla promozione, ossia il riconoscimento della qualifica superiore per le mansioni effettivamente svolte, che non va confuso con la promozione automatica prevista nei contratti collettivi, la quale riconosce che dopo un periodo di permanenza nella mansioni di livello più basso, il lavoratore abbia diritto ad acquisire una qualifica di livello superiore.

Il trasferimento del lavoratoreIn mancanza di eventuali patti stipulati al momento dell’assunzione o successivamente, la determinazione del luogo o di altra modalità della prestazione appartiene all’esercizio del potere direttivo del datore. L’art.2103 c.c., così come novellato dallo Statuto disciplina anche il trasferimento del lavoratore ad un’altra unità produttiva. Esso può essere disposto dal datore di lavoro in via definitiva (ed in ciò si differenzia dalla trasferta) nel caso in cui vi siano comprovate ragioni tecniche o organizzative, che l’imprenditore non ha solo l’onere di provare, ma anche di comunicare al lavoratore in caso di richiesta di quest’ultimo (non contestualmente al provvedimento di trasferimento). Qualora non siano rispettati i presupposti legali, il lavoratore potrà far accertare in giudizio la nullità del provvedimento e rifiutarsi di ottemperare allo stesso.Vi è la necessità del nulla-osta delle associazioni sindacali di appartenenza qualora il trasferimento riguardi i dirigenti delle r.s.a.; mentre per i funzionari pubblici è richiesto il loro consenso espresso.E’, inoltre, futile precisare che il trasferimento non può aver ad oggetto motivi discriminatori di qualsivoglia tipo. Non è altrettanto scontato dire che in caso di lavoratore che assiste con continuità un parente o affine entro il terzo grado portare di handicap o in caso di amministratori locali eletti ad esercitare funzioni pubbliche, occorra il consenso degli interessati al trasferimento.

Sez. C: La tutela della persona del lavoratore nell’organizzazione del lavoroL’inserimento del prestatore nell’ambiente di lavoroQuando si parla di condizioni di lavoro non ci si riferisce solo alle mansioni del lavoratore, ma anche all’organizzazione e all’ambiente lavorativo, che riguardano da vicino il datore di lavoro nell’esercizio del proprio potere direttivo. Col tempo sono state fissate norme tese a tutelare le condizioni ambientali (igiene, sicurezza) e la durata della prestazione lavorativa (orario di lavoro) per limitare il potere dell’imprenditore e tutelare i lavoratori. L’integrità fisica del lavoratore e la sua personalità morale devono essere tutelate anche nell’ambiente di lavoro, ossia all’interno dell’organizzazione produttiva e per tal motivo è stato introdotto un sistema di assicurazioni sociali contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, riguardanti quelle particolari categorie lavorative esposte ad un notevole margine di rischio nell’esercizio della propria attività. Il principio del rischio professionale tutela il datore di lavoro, si sostituisce a quello precedente della colpa dell’imprenditore, esonerandolo da qualsivoglia responsabilità in caso di eventi dannosi assicurati: sarà l’ente assicuratore ad indennizzare il lavoratore per la sospensione momentanea dell’attività lavorativo o addirittura ad assicurargli un rendita qualora la sospensione non abbia carattere temporaneo.Da punto di vista della prevenzione sul posto di lavoro, poi, le norme più significative sono quelle attinenti all’organizzazione e all’ambiente di lavoro: art.2087 c.c., art.9 dello Statuto dei lavoratori e il D.Lgs. 626/1994.

Disciplina dell’art. 2087 c.c. Il danno biologico. Il mobbing. L’art. 9 dello Statuto. L’art. 2087 stabilisce che “l’imprenditore è tenuto ad adottare le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, ponendo a carico del datore uno speciale obbligo di protezione della persona del lavoratore.

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Il datore di lavoro, quindi, deve attuare tutte le misure idonee affinché il lavoratore, nell’eseguire la prestazione lavorativa, non incorra in alcun pericolo per la propria integrità psicofisica. Quindi l’imprenditore deve svolgere una vera e propria attività generale di prevenzione dei rischi, oggetto dell’obbligo sancito dal suddetto articolo. Nella generalità dei contratti, il dovere di rispetto della persona è implicito all’obbligo di buona fede (art.1375 c.c.) e si configura come un obbligo secondario rispetto all’obbligo primario di prestazione. Nel caso del rapporto di lavoro, invece, tale obbligo non risulta secondario/accessorio, bensì primario al pari dell’obbligo di prestazione.Va sottolineato come l’art. 2087 per lungo tempo sia stato evocato solo in caso di risarcimento danni (ex post), quando il fatto si era già concretizzato, non ottemperando al proprio ruolo di prevenzione. Quanto alle conseguenze risarcitorie a cui la violazione dell’art. 2087 può dar luogo è ad es. il danno biologico: si t, di cui la Corte costituzionale ha affermato la rilevanza anche nel rapporto di lavoro. Si tratta di una menomazione dell’integrità psico-fisica del lavoratore che va oltre la riduzione della capacità lavorativa e per cui inizialmente il datore di lavoro veniva ritenuto responsabile, non essendo coperto da alcuna assicurazione a riguardo. La normativa recente ha previsto che anche il danno biologico sia coperto da assicurazione qualora sia derivante da infortunio o malattia professionale: il datore di lavoro, quindi, non ha alcuna responsabilità civile a riguardo, responsabilità che permane al di fuori dei casi coperti dall’assicurazione.La giurisprudenza ha poi riconosciuto il cosiddetto danno esistenziale, prodotto dal comportamento illegittimo del datore di lavoro e causante danni alla vita di relazione del lavoratore.Di recente si è parlato molto spesso di mobbing, condizione che si attua nel momento in cui il soggetto (non solo il lavoratore) viene posto in una situazione di inferiorità tramite il comportamento posto in essere da altri soggetti (datore o colleghi): in tal caso non si ha alcun danno psico-fisico, ma un danno morale che lede la dignità del soggetto. Le pronunce giudiziali in tema di lavoro sono ancora scarse, ma la giurisprudenza sembra aver ben recepito la situazione di disagio in cui si può trovare il lavoratore.Attenzione merita anche l’art.9 dello Statuto dei lavoratori, il quale permette ai lavoratori, tramite le proprie rappresentanze, di poter controllare l’applicazione delle norme anti-infortunistiche e di poter suggerire miglioramenti e nuove misure per salvaguardare le condizioni di lavoro.

La tutela della salute nel D.Lgs. n.81 del 2008In tema di sicurezza del lavoro la normativa più importante emanata all’interno del nostro ordinamento era sicuramente rappresentata dal D.Lgs. 626/1994 emanato in attuazione della Direttiva 1989/391 della CEE. Il decreto introduceva importanti novità in materia: i rischi devono essere valutati e ridotti al minimo dal datore di lavoro e deve essere attuata una prevenzione continua, la quale miri ad informare i lavoratori dei rischi della propria attività (diritto all’informazione), obbligando il datore alla nomina di uno o più rappresentanti per la sicurezza che conoscano l’ambiente di lavoro e contribuiscano alla riduzione degli stessi. Il datore di lavoro, oltre a valutare i rischi, deve elaborare un piano di sicurezza ambientale, in cui vengano individuate le misure di prevenzione e l’attuazione delle stesse, conservato presso l’unità produttiva. Inoltre deve esserci una sorveglianza sanitaria da parte di un medico competente per i lavoratori esposti ad agenti che alzino il livello di rischio lavorativo. I lavoratori stessi, inoltre, devono prendersi cura della propria salute e sicurezza, sottoponendosi ai programmi di formazione ed addestramento organizzati dall’imprenditore e provvedendo all’osservanza di tutte le norme necessarie per la riduzione dei rischi (adozione di tutte protettive, ottemperamento ai protocolli previsti per l’uso dideterminati agenti o macchinari etc.).Essa tendeva, in altre parole, a spostare l’attenzione della disciplina sul momento della prevenzione e ribadiva il nesso tra obblighi di sicurezza ed acquisizioni tecnologiche, già risultanti dall’art.2087 c.c.In seguito, la riforma del Titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001, riscrivendo l’art. 117, ha modificato la ripartizione di competenze tra Stato e regioni, ed ha previsto che il TU funga da contenitore dei principi fondamentali dettati dallo Stato in funzione della competenza concorrente Stato-Regioni in tema di sicurezza del lavoro.

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Il D.Lgs.626/1994 è stato sostituito dal TU in materia di sicurezza del lavoro, emanato con il D.Lgs.81/2008 in attuazione della delega contenuta all’interno della L. 123/2007. Il TU ha il compito di unificare tutta la disciplina in materia di sicurezza del lavoro, nonché di adeguarla al riparto delle competenze legislative nazionali e regionali. Esso contiene una disciplina generale, inerente i principi comuni in materia, i quali delineano le finalità, il campo di applicazione, le istituzioni coinvolte ed il sistema di gestione della sicurezza, ed una disciplina speciale dei singoli settori, che integra e completa quella generale, contenente disposizioni in merito ad uso di attrezzature, cantieri mobili, uso dei videoterminali, esposizione ad agenti fisici, chimici e biologici.Il TU si ispira a 2 principi fondamentali, quello dell’universalità e quello dell’effettività.Il principio di universalità impone che la normativa in materia si applichi a tutte le tipologie di lavoro. Per questo motivo è stato previsto che la disciplina del TU si applichi anche ai lavoratori autonomi (dapprima esclusi), sebbene limitatamente ad alcuni aspetti, oltre che ai componenti di imprese familiari ed ai piccoli imprenditori. Inoltre ai lavoratori autonomi si estende la disciplina prevista per gli appalti, per i contratti d’opera e di somministrazione per ciò che concerne i processi di esternalizzazione: in tutti quei casi che portano all’affidamento a terzi di fasi lavorative e che implicano la presenza sul posto di lavoro di soggetti dipendenti da diversi rapporti negoziali, ma la cui responsabilità degli stessi pende su un unico centro d’imputazione. Ecco perché è necessaria la presenza, sul posto di lavoro, di un documento unico di valutazione dei rischi. Inoltre la disciplina del TU è estesa a tutti quei casi in cui la figura del datore di lavoro e quella dell’utilizzatore siano distinte (somministrazione e distacco), così come ai casi in cui un’attività di collaborazione autonoma venga svolta presso un committente (collaborazione a progetto o coordinate e continuative) ed ai casi di lavoro occasionale o accessorio. Il TU include, infine, anche le forme di lavoro delocalizzato, come il telelavoro.In forza del principio di effettività, invece, è stato previsto dal TU che il datore di lavoro, tramite atto in forma scritta ad substantiam con data certa e ricevuta l’accettazione in forma scritta, possa delegare ad un proprio sottoposto tutti i compiti in materia di sicurezza, purché il soggetto sia professionalmente idoneo a svolgere tali compiti, sia pubblicizzata la nomina e gli siano trasferiti compiti di gestione, controllo e spesa.In tal caso il datore di lavoro è esonerato da qualsivoglia responsabilità, anche se potrebbe rispondere della mancata vigilanza sull’operato del responsabile per la sicurezza sul lavoro.Il TU si è occupato, inoltre delle sanzioni in caso di violazione delle norme in esso contenute, prevedendo in alcuni casi addirittura la pena detentiva. Qualora vengano violate le disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro dettate dal TU e, in conseguenza di tale violazione, si configuri il reato di omicidio colposo o lesioni gravi colpose, vi è una responsabilità penale delle persone giuridiche che avevano il compito di far rispettare la normativa. Anzitutto sono previste sanzioni pecuniarie, oltre alle sanzioni amministrative di tipo interdittivo. Sanzioni sospensive sono, poi, previste in caso di utilizzo di lavoratori irregolari, proprio al fine di contrastare il lavoro sommerso: solo la regolarizzazione degli stessi può attenuare le sanzioni.

Divieti di discriminazioneUna serie d’interventi legislativi, nel corso del tempo, hanno assicurato la dignità e la libertà morale del lavoratore nei confronti di discriminazioni di qualsiasi genere.I primi divieti di discriminazione hanno riguardato la discriminazione politica, religiosa e sindacale:

• art. 5 Statuto dei Lavoratori (vieta la discriminazione nell’assunzione e nello svolgimento del rapporto di lavoro);• art. 1 L.1977/903 sulla parità uomo-donna e sul divieto di discriminazione in base alla razza, alla lingua e al sesso.

Successivamente, il D.Lgs. 1998/286, ha vietato ogni forma di discriminazione per motivi di nazionalità, religione, razza o etnia. Discriminazioni etniche o fondate sulla razze, così come discriminazioni inerenti la religione, gli handicap, l’età e l’orientamento sessuale, sono state vietate in maniera assoluta anche grazie ad interventi a livello europeo, poi recepiti nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 215/2003 e dal D.Lgs. 216/2003, i quali hanno ricompreso tra i comportamenti vietati anche le molestie, ossia quei comportamenti che hanno lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona o di creare un

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clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.Ovviamente sono state contemplate alcune deroghe ai vari divieti di discriminazione, come per esempio quelle inerenti funzioni d’interesse pubblico in merito a determinate attività lavorative (forze armate e servizi di polizia, di soccorso, penitenziari).

Se. D: La durata della prestazioneOrario di lavoro e determinazione della prestazione. La tutela della salute e l’art. 36, co. 2 e 3 Cost.La persona del lavoratore non va tutelata solo in merito all’ambiente di lavoro ed ai rischi ad esso connessi, ma anche in base all’organizzazione del lavoro e della durata dello stesso. La dimensione temporale lavorativa acquisisce importanza sia sotto il profilo di determinazione quantitativa della prestazione lavorativa e della retribuzione, ossia quanto il prestatore deve lavorare in virtù del contratto (orario normale contrattuale di lavoro) ed a quale retribuzione ha diritto in base alle ore lavorative, sia sotto il profilo del limite massimo di esigibilità della prestazione lavorativa, ossia per capire quanto il lavoratore possa essere impiegato prima che esaurisca le proprie forze (pur sempre umane e non meccaniche) e perda lucidità e professionalità a danno di se stesso e del proprio operato. L’art. 36 della Carta Costituzionale stabilisce al comma 2 che la durata massima dell’attività lavorativa debba essere stabilita per legge, mentre al comma 3 prevede che il lavoratore abbia diritto al riposo settimanale ed alle ferie annuali retribuite, senza potervi rinunciare.

La disciplina legale dell’orario di lavoroLa disciplina dell’orario di lavoro è stata per lungo tempo contenuta negli artt. 2107, 2108 e 2109 c.c., inerenti l’orario di lavoro effettivo, il lavoro straordinario e notturno ed i periodi di riposo, nonché all’interno di diverse leggi speciali. Nel 2003 con il D.Lgs. 66, in attuazione della direttiva europea 104/93, la normativa dapprima sparsa in varie fonti legislative, è stata unificata ed innovata, abrogando le precedenti, salvo nei casi esplicitamente richiamati.Il decreto, salvo poche eccezioni, si applica a tutti i settori di attività pubblici e privati e definisce anzitutto l’orario di lavoro: ovvero “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore e nell’esercizio della propria attività o delle proprie funzioni”. Viene poi ribadita la differenza tra orario normale di lavoro, contrattualmente previsto e fissato nel limite di 40 ore settimanali con la possibilità dei contratti collettivi di prevedere una durata inferiore e considerare tale limite come valore medio sull’arco di un periodo non superiore all’anno (si tratta del c.d. orario multiperiodale, che permette ai datori di lavoro di superare le 40 ore senza andare incontro allo straordinario). Quanto allo straordinario , il quale consiste nelle ore di lavoro eccedenti l’orario normale, il decreto lo fissa nel limite di 250 ore annuali e retribuite diversamente e maggiormente (da unirsi o sostituirsi a recuperi/riposi extra) rispetto alle ore normali di attività lavorativa. Le ore di lavoro straordinario, tra l’altro, devono essere regolamentate dai contratti collettivi o, in difetto, concordate tra datore e lavoratore.Il limite settimanale omnicomprensivo di ore lavorative è fissato in 48 ore ogni 7 giorni, fissato non come valore assoluto ma come valore medio su un arco temporale di 4 mesi, salva diversa previsione dei contratti collettivi. Il datore di lavoro che ecceda la previsione delle 48 ore/7 giorni deve comunicarlo per iscritto, insieme alla motivazione, entro 30 giorni alla Direzione provinciale del lavoro.E’ stato, inoltre, innalzato a 4 settimane di astensione dal lavoro il diritto alle ferie.Sono previste, anche per l’orario lavorativo, alcune deroghe: sono esclusi dalla disciplina dell’orario normale MA NON da limite di 48 ore/7 giorni, i lavoratori addetti alle occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo o di semplice attesa e custodia. Sono esclusi tanto dalla disciplina dell’orario normale, quanto da quella delle 48 ore/7 giorni tutti i lavoratori la cui durata della prestazione non è determinata o può essere determinata dai lavoratori stessi (dirigenti o persone con potere di decisione autonomo).Infine con decreto ministeriale può essere innalzato il periodo di 4 mesi (fino ad un massimo di 6 mesi) su cui spalmare le 48 ore/7 giorni, nei casi tassativamente elencati dallo stesso decreto (continuità di alcuni servizi come quello ospedaliero, postale, televisivo, attività connesse al

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trasporto etc.).Il D.Lgs.66/2003 inerente l’orario di lavoro ed il c.d. tempo di non lavoro, è stato modificato dalla L.244/2007 e dal D.L.112/2008, il quale però non si applica ai servizi di vigilanza privata. Il decreto ha escluso dall’applicazione del limite settimanale medio di 48 ore il personale dirigente del Servizio Sanitario Nazionale, per garantire maggiormente tale servizio, salvo lasciare ai contratti collettivi la previsione di come vadano recuperare le energie psico-fisiche. Non è più necessario, inoltre, comunicare il superamento delle 48 ore settimanali per ricorso al lavoro straordinario.Un’altra modifica ha riguardato il riposo giornaliero consecutivo di 11 ore ogni 24, il quale può essere ora concesso non solo per coloro che esercitano attività frazionate durante la giornata, ma anche a coloro che sono soggetti a regimi di reperibilità, esclusi dirigenti e personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale. Per quanto riguarda la materia del riposo giornaliero, nonché delle pause e della durata/organizzazione del lavoro notturno è previsto che la contrattazione collettiva nazionale possa attuare un regime derogatorio rispetto alle previsioni legislative; stessa cosa può fare la contrattazione collettiva territoriale nel settore privato, senza conformità con quella nazionale. Inoltre, in riferimento al diritto al riposo settimanale consecutivo di 24 ore ogni 7 giorni, è stato previsto che esso vada calcolato come media in un periodo di 14 giorni, facendo di fatto slittare il riposo. Piccole modifiche sono state previste anche per la nozione di lavoro notturno, lasciando immutata la definizione originale, ma prevedendo che lavoratore notturno sia anche colui che svolga una parte del suo lavoro durante il periodo notturno secondo le modalità previste dai contratti collettivi o svolga lavoro notturno per un minimo di 80 giorni l’anno per almeno 3 ore.

Il lavoro notturnoIl D.Lgs. 66 ha modificato anche la materia del lavoro notturno, anzitutto fornendo una definizione di periodo notturno, periodo di almeno 7 ore comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le 5 del mattino, e di lavoratore notturno, colui che svolge almeno 3 ore dell’orario di lavoro normale durante il periodo notturno o almeno una parte del proprio lavoro secondo le norme previste dai contratti collettivi, o che svolge lavoro notturno per un minimo di 80 giorni l’anno.L’introduzione del lavoro notturno deve essere stabilito in concerto con le rappresentanze sindacali e non può superare il periodo di 8 ore di media nell’arco delle 24 ore, salvo che i contratti collettivi non abbiano diversamente previsto. I contratti collettivi devono, poi, stabilire la retribuzione per il lavoro notturno e fissare i requisiti che consentono l’esclusione dal lavoro notturno, accertati da strutture sanitarie pubbliche. Sono stati previsti, inoltre, particolari controlli e garanzie per la sicurezza de lavoratori notturni: ad es. non può esercitare lavoro notturno la donna in gravidanza o in puerperio fino al compimento di un anno di età del bambino, mentre è facoltativo il suddetto per:

• la donna madre di un figlio di età inferiore a 3 anni o per il lavoratore padre convivente con la stessa;• il lavoratore (lavoratrice) genitore unico affidatario di un figlio convivente di età inferiore a 12 anni;• il lavoratore (lavoratrice) con a carico un soggetto disabile.

La pause giornaliere, il riposo settimanale, le festività infrasettimanali, le ferie annualiIl D.Lgs. n. 66 disciplina anche le pause, il riposo settimanale, le festività infrasettimanali e le ferie annuali.Per pausa si intende l’intervallo, stabilito dai contratti collettivi o in assenza dei quali la pausa non può durare meno di 10 minuti, per chi esercita un’attività lavorativa di durata superiore alle 6 ore in cui il soggetto può recuperare le proprie energie psico-fisiche e consumare il pasto.L’art. 8 stabilisce che, ove il lavoro giornaliero ecceda le il limite delle sei ore, il lavoratore debba beneficiare di una pausa le cui modalità e durata sono fissate dai contratti collettivi. In mancanza, la pausa non potrà essere inferiore ai dieci minuti, dovrà essere goduta sul posto di lavoro e collocata tra l’inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, tenuto conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo.Per quanto riguarda il riposo giornaliero, invece, il decreto stabilisce che il lavoratore ha diritto

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ad 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore, salvo i casi di attività lavorative frazionate durante la giornata, nel qual caso si può giungere a lavorare per ben 13 ore complessive tra orario di lavoro normale e straordinario.Va sottolineato che la normativa su pause e riposi giornalieri non si applica ai lavoratori la cui durata della prestazione non può essere predeterminata o non è misura o è scelta dal lavoratore. In materia intervengono i contratti collettivi, in mancanza dei quali si potrà avere anche un decreto ministeriale.Il lavoratore ha poi diritto al riposo settimanale, ossia a 24 ore di riposo continuativo ogni settimana (da cumulare con i riposi giornalieri), di solito coincidenti con la domenica, ad eccezione dei lavori a turni, dei lavori frazionati durante la giornata e del settore dei trasporti ferroviari ecc.Il D.Lgs. 66 ha poi disciplinato un diritto costituzionalmente garantito dall’art. 36, ossia quello al riposo annuale (ferie). E’ previsto che il lavoratore abbia diritto a 4 settimane di riposo, 2 delle quali devono essere godute consecutivamente. La retribuzione rimane identica al periodo di lavoro e le ferie si sospendono in caso di malattia durante il periodo di riposo annuale.

CAPITOLO V: La retribuzione

Sez. A: L’obbligazione retributiva. La retribuzione minima sufficiente.L’obbligazione retributiva. La busta pagaL’articolo 2094 c.c. individua nella retribuzione l’oggetto dell’obbligazione corrispettiva o sinallagmatica del datore di lavoro. La disciplina specifica dell’obbligazione retributiva è invece contenuta nell’art. 2099 c.c., che regola i modi di determinazione della retribuzione. La retribuzione è un’obbligazione corrispettiva da comprendere tra le obbligazioni pecuniarie(artt. 1277 e ss.) aventi ad oggetto una somma di denaro. Nella corresponsione della retribuzione il datore di lavoro deve usare la diligenza del buon padre di famiglia e può essere obbligato al risarcimento del danno in caso di ritardo o inadempimento ad egli imputabile. L’art. 2099 stabilisce che i termini e le modalità del pagamento devono essere

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quelli in uso nel luogo ove il lavoro viene eseguito. Il principio osservato è quello della post-numerazione, ossia quello eseguire prima la prestazione lavorativa e poi di essere retribuiti. La retribuzione corrisponde ad un pagamento pecuniario (anche in natura secondo quanto prevede l’art. 2099 c.c.) da effettuarsi presso la sede di lavoro (deroga al principio generale secondo cui deve essere adempiuta al domicilio del creditore)ed accompagnato da un prospetto paga analitico (L. 4/1953) riassumente le voci che compongono la retribuzione.

L’orario di lavoro come criterio di commisurazione della retribuzioneL’ammontare della retribuzione è stabilito in base al quantum della prestazione lavorativa, ovvero attraverso la misura del tempo lavorato.In generale, il principio della post-numerazione è modalità accidentale e quindi demandata all’accordo delle parti: nel contratto di lavoro, invece, la post-numerazione è effetto naturale del contratto. Infatti, secondo l’art. 2099, 1° co., c.c. la retribuzione va commisurata alla quantità della prestazione di lavoro e tal quantità si determina:

• direttamente, sulla base del tempo impiegato per l’erogazione della forza-lavoro;• indirettamente, sulla base del risultato produttivo ottenuto tramite l’erogazione della stessa forza lavoro (cottimo).

In entrambi i casi è la quantificazione del tempo lavorato (orario di lavoro ) che funge da base per la determinazione della forza lavoro prestata e della commisurazione della controprestazione retributiva.La determinazione dell’orario normale di lavoro funzionale alla retribuzione normale minima è di competenza dell’autonomia privata collettiva o individuale.

Retribuzione minima, contratti collettivi e art. 36 Cost.L’art. 2099 comma 2 c.c. attribuisce in via primaria ai contratti collettivi la funzione di stabilire la misura della prestazione dovuta dal datore di lavoro, perciò demanda all’autonomia collettiva i criteri per la determinazione della retribuzione.La funzione fondamentale del contratto collettivo è infatti quella tariffaria , ovvero la fissazione di regole comuni relative alla determinazione della retribuzione corrispondente ad un interesse che non è meramente individuale del singolo prestatore di lavoro, ma riflette quello collettivo di tutto il gruppo professionale. Tale interesse collettivo è realizzato attraverso la fissazione dei minimi, mentre i c.d. superminimi (=ciò che supera le tariffe collettive) sono lasciati all’autonomia contrattuale individuale.Tuttavia il documento più importante in cui possiamo ritrovare una traccia per stabilire l’ammontare delle retribuzioni è la Costituzione: i contratti collettivi devono osservare quanto disposto dall’art. 36, il quale prevede che la retribuzione (e si tratta di una norma principio, non semplicemente di una clausola generale da completare ad opera del legislatore) sia anzitutto “proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro svolto”, ossia vi deve essere equivalenza tra la prestazione retributiva e quella lavorativa, ed in ogni caso “sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, ossia la misura minima della retribuzione deve andare oltre il minimo di sussistenza, ossia deve essere adeguata alle necessità sociali (requisiti essenziali inderogabili dall’autonomia privata e vincolanti per il potere legislativo). In virtù del requisito della proporzionalità, infatti, la retribuzione deve essere determinata secondo il criterio oggettivo di equivalenza alla qualità e alla quantità del lavoro. Pertanto la sua commisurazione dipende non solo dalla durata e dall’intensità del lavoro, ma anche dal tipo di mansioni espletate e dalle loro caratteristiche intrinseche (specializzazione tecnica, responsabilità professionale, difficoltà e gravosità dei compiti, etc.).Il secondo requisito previsto dall’art. 36 Cost. è quello della sufficienza: la misura minima della retribuzione deve andare oltre il minimo vitale, in modo da garantire un livello di vita sufficiente a realizzare un’esistenza libera e dignitosa non solo per il lavoratore come singolo, ma anche per la sua famiglia (funzione di sostentamento).In caso di lavoro plurimo (dipendenza da più datori di lavoro e coesistenza di più rapporti lavorativi), inoltre, va osservato dapprima il requisito della sufficienza, in quanto la retribuzione deve essere mezzo di sostentamento per il lavoratore, non un semplice corrispettivo per il lavoro

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svolto: la retribuzione ha, quindi, anche una funzione sociale.

Applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost.L’applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 della Cost. è stata fondamentale all’interno del nostro ordinamento per la fissazione dei salari minimi. La giurisprudenza ha riconosciuto come corrispondenti ai requisiti dettati dalla Costituzione, la retribuzione equivalente a quella dei contratti collettivi, attribuendo un’importanza vitale all’autonomia collettiva. I sindacati, infatti, non rispettando pienamente l’art. 39 della Cost., in quanto non registrati, non avrebbero il potere di stipulare contratti collettivi validi per tutte le categorie professionali, ivi inclusi i non iscritti. La giurisprudenza, invece, ha previsto che le retribuzioni minime stabilite da accordi dell’autonomia privata si applichino anche a lavoratori di quel settore non iscritti ai sindacati stipulanti l’accordo. Nel nostro Paese, inoltre, manca una disciplina legislativa che fissi dei minimi salariali, ma per nostra fortuna è intervenuta la giurisprudenza per la corretta applicazione dell’art. 36, che seppur costituzionale e non di disciplina legislativa in materia, possiede comunque una funziona precettiva e perciò direttamente vincolante, non essendo un mero principio generale.Secondo la giurisprudenza è da ritenere conforme, ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza, la retribuzione equivalente a quella prevista dai contratti collettivi. Il giudice nella determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente ha il potere di discostarsi dai minimi salariali stabiliti dalla contrattazione collettiva, riconoscendo al lavoratore una retribuzione anche inferiore, purché fornisca adeguata motivazione. Questo ha consentito un sostanziale adeguamento dell’ordinamento italiano alle previsioni contenute nella Convenzione OIL sulla politica sociale del 1962 (incoraggiare la fissazione di minimi salariali attraverso la contrattazione collettiva e assicurare un’adeguata tutela giudiziaria ai fini del rispetto dei minimi).

Gli strumenti tecnici utilizzati dalla giurisprudenzaLa giurisprudenza ha operato un raccordo tra l’art. 36 Cost. ed il secondo comma del 2099 c.c., il quale dispone che in mancanza di norme di contratti collettivi o di accordo individuale tra le parti, la retribuzione sia determinata dal giudice, tenuto conto, ove occorra, del parere delle associazioni professionali. Il secondo comma dell’art. 2099 c.c. dispone che il difetto di un elemento essenziale quale la retribuzione non sia causa di nullità, ma di integrazione della lacuna esistente nel contratto del quale si dispone la conservazione. Il collegamento tra art. 36 Cost. e 2099 c.c. ha avuto funzione creatrice, operando attraverso la sovrapposizione ad una clausola retributiva esistente, ma ritenuta insufficiente e quindi nulla per contrasto con l’art.36 Cost.: in tal senso si attua una sostituzione giudiziale del contenuto del contratto.Va notato, al riguardo, che l’equiparazione tra nullità ed inesistenza della clausola retributiva non trova giustificazione nella lettera né nella ratio dell’art 2099, 2° co., c.c.

Se. B: La struttura della retribuzioneI sistemi di retribuzioneL’art.2099 c.c. contempla due sistemi di retribuzione:

• quello a tempo, in cui il lavoratore viene retribuito in base al periodo di tempo in cui ha prestato la propria attività lavorativa (ore, settimane, giorni);• quello a cottimo, in cui il lavoratore viene retribuito in base al risultato del lavoro.

Vi sono poi sistemi di retribuzione alternativi contemplati dallo stesso articolo:• la partecipazione agli utili, dove il lavoratore riceve una parte dei profitti netti dell’impresa che si possono evincere dal bilancio ove sia previsto, • la partecipazione ai prodotti dell’impresa, in cui il lavoratore, in cambio della propria attività, riceve una parte dei risultati materiali dell’attività imprenditoriale.

Queste due ultime forme di retribuzione potrebbero però violare, indirettamente, il requisito di sufficienze previsto dall’art.36 della Costituzione, laddove ad esempio l’attività imprenditoriale non sia andata bene e non sia in grado di garantire utili o prodotti al lavoratore, a causa di elementi non contemplabili dal lavoratore stesso. In tal caso è previsto comunque che il lavoratore ottenga una retribuzione sufficiente. Il lavoratore, inoltre, può essere anche retribuito con prestazioni in natura, ossia ricevendo dei

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beni, anche se ciò avviene in casi limitati (es. portierato, dove il portiere riceve, oltre ad una somma in denaro, anche vitto e alloggio).Ultima ipotesi è quella della retribuzione a provvigione: in tal caso il lavoratore è tenuto (ed è questo proprio l’oggetto della sua prestazione) alla conclusione di affari e contratti nell’interesse dell’imprenditore e qualora egli riesca nel proprio operato, avrà diritto o ad una percentuale sull’affare o comunque ad una retribuzione proporzionata allo stesso. Tale tipo di retribuzione può essere integrativa di una retribuzione in denaro od anche esclusiva.

La retribuzione a tempoNell’ambito della retribuzione a tempo possiamo attuare una distinzione tra la retribuzione oraria, definita come “salario” , e la retribuzione mensile, definita come “stipendio”, originariamente e tradizionalmente corrispondenti alla distinzione tra operai ed impiegati. Per la distinzione non rileva il termine d’adempimento dell’obbligazione retributiva, che può essere alla fine del mese od ogni 15 giorni in entrambi i casi, ma l’assunzione del rischio: il salario corrisponde alla somma delle ore effettivamente lavorate, mentre per lo stipendio il datore di lavoro si assume il rischio dell’inattività o mancanza di lavoro, non imputabile al lavoratore.In entrambi i casi, comunque, sulla retribuzione normale (inerente l’orario normale di lavoro) si calcolano le maggiorazioni per lavoro straordinario, il cui ammontare viene stabilito dai contratti collettivi in cui possono essere previsti anche dei riposi compensativi.La stessa maggiorazione era stabilita per il lavoro notturno, ma ora spetta ai contratti collettivi stabilire i trattamenti economici indennitari per i lavoratori notturni e per le festività, compensate con un’ulteriore retribuzione che si aggiunge a quella normale, stabilita dai contratti collettivi. Per le ferie, inoltre, il lavoratore deve usufruire obbligatoriamente delle 4 settimane, non essendo possibile indennizzarlo in denaro per ferie non godute, salvo il caso di cessazione del rapporto di lavoro.

Gli elementi accessori della retribuzione e la sua struttura complessaLa retribuzione globale di un lavoratore è composta dalla retribuzione minima prevista dai contratti collettivi o individuali per l’orario normale di lavoro (paga base) e dagli elementi accessori della retribuzione, costituiti non solo dalle maggiorazioni per lavoro straordinario, notturno o festivo, ma anche…

• dai cosiddetti scatti di anzianità, previsti con frequenza biennale e di cui è stabilito un numero massimo nei contratti collettivi, ai quali si ha diritto per il semplice permanere all’interno di una stessa qualifica per un periodo di tempo protratto, • dai cosiddetti superminimi (assegni ad personam o aumenti di merito) che superano i minimi tariffari previsti dai contratti collettivi, • dalla 13esima mensilità o gratifica natalizia.• Le indennità, previste dalla contrattazione collettiva per compensare l’effettuazione di lavori disagiati, gravosi, o cmq considerati penosi rispetto allo standard normale della prestazione. Un cenno merita anche l’indennità di mensa, corrisposta al lavoratore per sostituire il relativo servizio.• I premi collettivi di produzione, istituiti mediante contratti collettivi aziendali nell’intento di far partecipare il lavoratore ai benefici della produttività aziendale , misurata attraverso indicatori sia tecnici che economici. • Ultimamente, sempre più frequenti, sono i premi di presenza, rivolti a disincentivare l’assenteismo.

La retribuzione a cottimoSecondo sistema fondamentale di retribuzione previsto dall’art.2099 c.c. è quello a cottimo. In questo caso non si tiene conto solo del periodo di tempo lavorativo del prestatore, ma anche del risultato ottenuto in tale periodo di tempo. Come possiamo notare, quindi, la retribuzione a cottimo non esula dall’orario lavorativo (come magari avviene per quella a provvigione), bensì tiene conto di un secondo fattore, il risultato produttivo . Inizialmente questo tipo di retribuzione era prevista per i lavoratori autonomi come corrispettivo

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della locazione d’opera. In seguito venne estesa anche al lavoro subordinato, ovviamente con qualche modificazione: il cottimo a pezzo o a misura venne sostituito dal cottimo a tempo(quanto riesci a produrre e quanto lavori nell’arco di tot ore? Tanto verrai retribuito). La retribuzione a cottimo puro o integrale è in realtà limitata al lavoro a domicilio, mentre nei contratti collettivi viene sempre utilizzato il cottimo misto, il quale prevede un minimo di paga base determinato a tempo ed un “utile di cottimo”, calcolato sul lavoro eseguito (si configura quindi come una maggiorazione). Nella retribuzione a cottimo, comunque, il rischio di mancato o insufficiente lavoro grava pur sempre sul datore, e si trasferisce a carico del prestatore solo per ciò che concerne la quantità di retribuzione in base alle singole frazioni di risultato (non può essere imputabile al lavoratore il difetto o scarto della produzione). I contratti collettivi non fanno altro che stabilire le tariffe di cottimo. Il lavoro a cottimo è previsto in tutti quei casi in cui l’imprenditore possa aumentare il ritmo di lavoro (es. catene di montaggio) ed il legislatore impone a quest’ultimo di aumentare anche la retribuzione.L’art.2101 c.c. stabilisce che i sindacati possano decidere che le tariffe di cottimo non divengano a subito effettive, ma ci sia un periodo di prova, la c.d. fase sindacale, cui segue un periodo definito come fase aziendale, in cui le tariffe iniziano ad operare regolarmente, demandata all’imprenditore, che deve rendere note le tariffe (ossia lavorazioni da eseguire e relativo compenso unitario) tramite la bolla di cottimo.La retribuzione a cottimo funge, quindi, da incentivo del rendimento, ma nei casi in cui il rendimento per unità di tempo dipenda da macchinari con tempi prefissati, serve solo a controllare che il lavoratore mantenga sempre uno stesso standard lavorativo.Questo vale non solo per il cottimo individuale, ma anche per quello collettivo, nel quale la retribuzione viene commisurata al risultato del lavoro e perciò al rendimento dell’intero gruppo.

La nozione di retribuzioneÈ necessario a questo punto precisare che non tutto ciò che il datore di lavoro eroga ai lavoratori fa parte della retribuzione in senso stretto. L’obbligatorietà dell’attribuzione è un requisito indefettibile della retribuzione, mentre la predeterminatezza dell’ammontare e la continuità della corresponsione fungono da indici presuntivi di tale obbligatorietà. Perché si abbia retribuzione occorre che la prestazione sia dovuta al lavoratore in via necessaria e non eventuale, come compenso di una specifica attività di lavoro ordinario o straordinario, oppure di un periodo di inattività ricompreso nella durata convenzionale e non solo effettiva della prestazione. Mentre sono da escludere dall’area della retribuzione tutte le attribuzioni patrimoniali prive di un collegamento anche indiretto con lo svolgimento della prestazione lavorativa e perciò corrisponde in via eventuale e non necessaria.Una simile definizione c.d. onnicomprensiva della retribuzione si rinviene altresì egli artt. 2120 e 2121 c.c. che fanno riferimento a “tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale”, con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese.

La nozione di reddito da lavoro dipendente a fini contributiviLa retribuzione, oltre a rappresentare l’obbligazione corrispettiva rispetto all’attività lavorativa, è considerata dalla legge come base imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali e come reddito imponibile ai fini fiscali. Il vecchio art. 12 della L.153/1969 considerava come “ retribuzione ai fini previdenziali” tutto ciò che veniva corrisposto dal datore di lavoro in dipendenza del rapporto di lavoro stesso. Successivamente, il D.Lgs. 317/1997 ha riformulato l’art.12, 1° co., prevedendo la definizione di “ reddito da lavoro dipendente a fini contributivi”, identica alla definizione per fini fiscali dello stesso decreto che, oltre a modificare la L. 153/1969, ha modificato anche il TU delle imposte sui redditi. Per reddito da lavoro dipendente non s’intendono più le sole somme previste come corrispettivo dell’attività lavorativa, ma anche quelle percepite dal prestatore a qualsiasi titolo da parte del datore di lavoro. Nel contempo, l’art. 12, 2° co., rinvia la determinazione della base imponibile all’art.48 del Testo Unico, secondo il quale il reddito è costituito da tutte le somme e i valori in genere a qualunque titolo percepiti, anche sotto forma di erogazioni l iberali. Sono escluse dalla tassazione fiscale e dai fini previdenziali, le somme erogate a titolo di Trattamento di fine rapporto (TFR) e quelle erogate per incentivare l’esodo di un lavoratore.

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Al lordo di qualsiasi contributo o trattenuta. La legge riconosce all’autonomia collettiva un ruolo determinante anche a fini previdenziali, in quanto rinvia ad essa la determinazione della nozione di retribuzione contributiva minima .

Sez. C: Il trattamento retributivo nelle ipotesi di sospensione del rapportoContratto di lavoro e rimedi sinallagmaticiL’obbligazione retributiva qualifica il contratto di lavoro come contratto a prestazioni corrispettive o sinallagmatico. A questa categoria di contratti si applicano le norme generali sui c.d. rimedi sinallagmatici. Tra questi vi sono quelli sulla risoluzione per inadempimento (art. 1453 e ss.) per impossibilità sopravvenuta (1463 e ss.) per eccessiva onerosità sopravvenuta (1467 e ss.). Si può tuttavia ritenere che l’eccezione di inadempimento prevista dall’art. 1460 sia l’espressione più penetrante del principio della corrispettività delle prestazioni. Per effetto di tale principio si ha uno scambio non soltanto economico ma anche giuridico: si dice che un’obbligazione è causa dell’altra. In effetti, poiché la funzione tipica del contratto è individuata dallo scambio tra lavoro e retribuzione, tra le obbligazioni delle parti vi è un nesso (c.d. sinallagma) d’interdipendenzanon solo genetica, ma altresì funzionale e dunque attinente alla sua esecuzione. Ne consegue che si potrà giungere alla sospensione delle rispettive obbligazioni quando, avendo ragione di temere che la controprestazione non sarà adempiuta, si invocherà l’eccezione di inadempimento. Questo vale non solo nell’ipotesi d’inadempimento imputabile, ma anche nell’ipotesi d’impossibilità oggettiva sopravvenuta, e in quella di eccessiva onerosità sopravvenuta.La necessaria ricuperabilità della prestazione impedita e la conseguente impossibilità dell’adempimento comportano che l’impossibilità sopravvenuta sia da ritenere definitiva oltre che totale. Nel caso del lavoro subordinato sarà possibile solo la restituzione della retribuzione eventualmente corrisposta in anticipo o la corresponsione per ingiustificato arricchimento (2041 c.c.).In conclusione, i casi d’impossibilità sopravvenuta solo marginalmente danno luogo alle normali conseguenze della risoluzione del contratto. Questa, infatti, è operativa soltanto per il futuro, in ragione dell’irripetibilità delle prestazioni rese ed è surrogata dalle vicende previste dalla legge o dall’autonomia contrattuale della sospensione del rapporto (2110, 2111 c.c.) oppure del recesso unilaterale (artt. 2118 e 2119).

La sospensione del rapportoNel nostro ordinamento si è affermato progressivamente il principio della c.d. traslazione sul datore del rischio dell’inattività del prestatore nei casi d’impossibilità sopravvenuta della prestazione per cause fortuite o di forza maggiore attinenti alla persona del lavoratore. In un normale rapporto contrattuale, l’impossibilità sopravvenuta di non poter eseguire la prestazione non imputabile al debitore darebbe luogo alla risoluzione del contratto ed al venir meno delle rispettive obbligazioni delle parti. Nel rapporto di lavoro il discorso è diverso proprio in forza della traslazione del rischio, il quale trova espressione negli artt. 2110 e 2111 c.c.: essi dispongono la sospensione del rapporto di lavoro nelle ipotesi di impossibilità temporanea relative a:

• Infortunio• Malattia• Gravidanza• Servizio militare obbligatorio• Puerperio• Adempimento dei doveri costituzionali relativi alle pubbliche funzioni elettive• Cariche sindacali, nazionali e provinciali• Operazioni elettorali• Stato di tossicodipendenza• Permessi per la formazione

Se l’impossibilità sopravvenuta non attribuibile al prestatore è solo temporanea, l’art. 1463 c.c. disciplina, da un lato, la conservazione della retribuzione, dall’altro, la sospensione della prestazione e la conservazione del posto di lavoro. Il rapporto di lavoro, infatti, non si estingue

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automaticamente, ma si sospende, con il conseguente divieto di licenziamento per il periodo stabilito. Si tratta del cosiddetto periodo di irricedibilità . Il licenziamento intimato durante tale periodo viene ritenuto non nullo ma temporaneamente inefficace.Il datore dovrà manifestare la volontà di recesso unilaterale qualora voglia far cessare il rapporto di lavoro, ma essa avrà effetto solo dopo il decorso del periodo di tempo di conservazione del posto di lavoro.

Malattia, infortunio, gravidanza e puerperioI casi più frequenti di sospensione dell’attività lavorativa collegate alla persona del lavoratore si hanno in caso di malattia, infortunio, gravidanza e puerperio, riconducibili alla tutela costituzionale della salute e della maternità. Questi casi sono contemplati dall’art. 2110 c.c. e sono giustificativi dell’assenza del lavoratore: il datore di lavoro, inoltre, è tenuto a corrispondere ugualmente la prestazione retributiva o comunque un’indennità, salvo il caso in cui siano previste forme privatistiche di previdenza ed assistenza. L’assicurazione contro le malattie è, nel nostro ordinamento, obbligatoria ed è posta a carico del datore di lavoro e minimamente del prestatore. L’assistenza medica grava sul Servizio sanitario nazionale, mentre l’indennità è corrisposta dall’INPS. Ovviamente lo stato di malattia può essere verificato in qualsiasi momento o su domanda del datore di lavoro (il quale potrà innescare la visita medica al domicilio del lavoratore) o dallo stesso ente previdenziale: l’art.5 dello Statuto dei lavoratori vieta, comunque, che a verificare quanto suddetto sia un medico di fiducia del datore di lavoro. Tra l’altro gli operai sono esclusi dall’indennità per malattia per i primi 3 giorni lavorativi, al contrario degli impiegati che percepiscono tale indennità sin dal primo giorno. Lo stesso discorso vale per gli infortuni sul lavoro, salvo tener conto che l’assicurazione obbligatoria contro infortuni e malattie professionali non copre tutti i lavoratori, ma solo quelli addetti a determinate attività individuate dalla legge.Diversi, invece, sono i trattamenti economici e normativi connessi a maternità, paternità ed aspettativa dal lavoro connessa alla cura di figli con handicap grave (lo vedremo nel capitolo VI).

Altre ipotesi di sospensione del rapportoL’art. 51, comma 3, della Costituzione prevede la tutela, per quanto concerne il mantenimento del posto di lavoro, di tutti i soggetti chiamati a ricoprire cariche pubbliche elettive. Nello specifico, i membri del Parlamento europeo e nazionale, nonché i membri delle assemblee regionali, hanno diritto di aspettativa (conservazione del posto di lavoro) e vi è sospensione del rapporto di lavoro senza corresponsione della retribuzione. Lo stesso vale per gli amministratori di enti locali, i quali possono optare per lo stesso trattamento oppure decidere di assentarsi giustificatamente dal posto di lavoro per l’intera giornata in cui vi è la riunione del consiglio di appartenenza. Anche chi ricopre cariche sindacali nazionali o provinciali ha il diritto di aspettativa. Speciali permessi sono poi previsti per i dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali, così come per i lavoratori coinvolti in operazioni elettorali, che hanno diritto a maggiorazioni retributive o a riposi compensativi per i giorni festivi impegnati nello svolgimento delle operazioni. Per ciò che concerne il servizio militare dobbiamo attuare una distinzione tra la chiamata alle armi per adempiere gli obblighi di leva, nel qual caso è prevista la sospensione del rapporto di lavoro senza diritto alla retribuzione, ma con conservazione dell’anzianità di servizio, e richiamo alle armi, per cui vi è la sospensione del rapporto con diritto alla retribuzione. Al servizio militare di leva sono equiparati il volontariato civile in Paesi in via di sviluppo ed il servizio civile degli obiettori di coscienza.Particolare è il caso di tossicodipendenza del lavoratore: egli, qualora voglia accedere a struttura di riabilitazione, ha diritto all’aspettativa, con sospensione del rapporto ed il venir meno della retribuzione. Inoltre non matura, in tal periodo, alcuna anzianità di servizio. Il periodo massimo consentito è di tre anni.Ai lavoratori, infine, sono riconosciuti 3 giorni l’anno per problemi di natura familiare: morte o infermità grave del coniuge o del convivente, nonché di un parente entro il secondo grado e che a loro è attribuito il diritto a permessi per la formazione continua, in relazione ai quali la legge demanda alla contrattazione collettiva la definizione delle modalità di orario e di retribuzione dei

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lavoratori che partecipano ai percorsi formativi.

La mora credendi del datore di lavoroL’obbligazione retributiva, essendo di regola pecuniaria, è sempre possibile. Tuttavia può dar luogo alla figura della mora del creditore di lavoro. L’art. 1217 c.c., disciplinando specificamente la mora credendi nelle obbligazioni di fare, dispone che il creditore è costituito in mora mediante l’intimazione di ricevere la prestazione o di compiere gli atti che sono da parte sua necessari per renderla impossibile. Il creditore viene costituito in mora, essendo quella lavorativa un’obbligazione di facere, con la sola intimazione da parte del debitore di ricevere la prestazione o di cooperare per riceverla. Nel rapporto di lavoro, tale cooperazione prende il nome di substrato reale della prestazione lavorativa. Ovviamente per essere costituito in mora, il creditore non deve avere un legittimo motivo per la mancata cooperazione: in caso contrario, ossia in presenza di un motivo legittimo, la mora è esclusa e la prestazione diviene impossibile, facendo perdere al prestatore il diritto alla retribuzione, che invece conserva in caso di mora credendi.L’art. 1207 c.c. precisa gli effetti della mora: in caso di mora, il datore di lavoro deve il risarcimento del danno, in aggiunta alla retribuzione, oltre a vedersi attribuito il rischio di impossibilità sopravvenuta della prestazione per cause di forza maggiore. Non rientra nel caso di mora l’eventualità che il datore non si avvalga della prestazione lavorativa del prestatore ma lo tenga a disposizione, pur garantendogli la retribuzione: in tal caso l’imprenditore sta semplicemente esercitando il proprio potere direttivo.Va precisato, infine, che la mora credendi, caratterizzata dal mancato adempimento dell’obbligazione di lavoro, si estingue nell’ipotesi in cui il datore tenga il prestatore a disposizione senza utilizzarne l’attività, ma corrispondendo regolarmente la retribuzione.

L’impossibilità oggettiva temporanea della prestazione di lavoroOltre l’ipotesi di mora (cioè dalla volontà dell’imprenditore a non cooperare per l’esecuzione della prestazione lavorativa), la sospensione dell’attività aziendale può dipendere anche da fatti direttamente o indirettamente riconducibili all’organizzazione produttiva dell’impresa, ma non imputabili all’imprenditore (cause di natura tecnico-funzionale, mancanza di energia, interruzione del funzionamento di macchinari etc.). L’impossibilità temporanea della prestazione determina la sospensione del rapporto senza diritto del prestatore alla retribuzione. Questa regola è solo parzialmente derogata dall’art. 6 R.D.L. del 1924 n° 1825, prevedendo espressamente che, in caso di sospensione di lavoro per fatto dipendente dal principale, l’impiegato ha diritto alla retribuzione normale. In ogni caso la materia trova la più ampia fonte nei contratti collettivi.Le sospensioni di breve durata (soste), invece, sono disciplinate dai contratti collettivi: il datore è obbligato a retribuirle nel limite di due ore giornaliere, ma sorpassato tale limite può “mettere in libertà” i lavoratori, non dovendogli alcuna retribuzione.La mancanza di retribuzione in tutti questi casi dovuti alla sospensione del rapporto, può, ovviamente, essere ovviata tramite il ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni (la vedremo nel lontano capitolo XII).

Sinallagma genetico e sinallagma funzionaleIn questo paragrafo vi è semplicemente un riassunto di quanto trattato nel capitolo in merito all’esistenza residua di un sinallagma, ossia di un nesso di reciprocità, nel momento in cui la retribuzione viene ugualmente offerta dal datore di lavoro, ma manca la prestazione lavorativa per svariati motivi (malattia, infortunio, gravidanza e puerperio, esercizio di diritti sindacali, mancanza di connessione tra lavoro e prestazione del datore ed è il caso del TFR).

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CAPITOLO VI: Il lavoro delle donne e dei minoriIl lavoro delle donne e dei minori. La tutela differenziata ed il principio costituzionale della parità di trattamentoAlla tutela ed al riequilibrio della posizione contrattuale debole del lavoratore va riportata anche la tutela differenziata del lavoro della donna e dei minori (art 37 Cost.)La tutela differenziata di questi soggetti va ricollegata alla loro specifica condizione d’inferiorità socio-economica, nonché all’esigenza di una particolare attenzione all’integrità psico-fisico dei minori ed a particolari occasioni della vita delle donne.L’art 37 Cost. ha affermato gli obiettivi protettivi tradizionali introducendo il principio della tutela paritaria, cioè mirata a garantire ai minori e alle donne la parità di trattamento rispetto ai lavoratori adulti di sesso maschile.È evidente che la tutela differenziata del lavoro femminile e minorile persegue l’obiettivo di regolare e controllare le condizioni di lavoro, essa deve pertanto essere ricondotta alla tutela dell’integrità fisica e della personalità morale lavoratore, la legge interviene per assicurare che l’esecuzione della prestazione non pregiudichi la capacità di lavoro e la salute.La tutela paritaria è invece da collegare, sia pure indirettamente, al principio d’uguaglianza (art 3 Cost.) del quale la parità di trattamento (lavoratori - lavoratrici, maggiorenni – minorenni), sancita dall’articolo 37Cost, costituisce una specificazione munita d’efficacia interna al rapporto di lavoro e, come tale, limitativa dell’autonomia contrattuale. L’art.37 della Costituzione, norma dotata di efficacia precettiva immediata, prevede una tutela assoluta delle due categorie in questione, sancendo non solo la parità di trattamento e la fissazione della soglia di età lavorativa, ma salvaguardando le qualità personali di questi lavoratori. Ciò comporta che il datore di lavoro potrà di certo applicare trattamenti differenziati per minori e donne, ma solo a loro vantaggio, essendo impossibile discriminare negativamente le categorie.

Il lavoro minorileObiettivo principale è sicuramente la tutela dell’integrità psico-fisica dei minori, che si estrinseca nell’osservanza di uno svariato numero di norme poste a tutela degli stessi. La disciplina sul lavoro minorile è contenuta all’interno della L. 977/1967, modificata dal D.Lgs. 345/1999: è prevista una distinzione tra “bambini”, ossia coloro che non hanno ancora compiuto il quindicesimo anno di età, e “adolescenti”, coloro compresi tra 15 e 18 anni di età. Ai primi è fatto espresso divieto di esercitare un’attività lavorativa, se non per fini culturali, artistici, sportivi, pubblicitari e tutelando comunque la propria integrità psico-fisica; agli adolescenti, invece, è permesso l’accesso al lavoro, in quanto ultraquindicenni, ma a patto che terminino il periodo di istruzione obbligatoria. Tra l’altro questo numero ristretto di lavoratori non può in alcun modo esercitare attività lavorative particolarmente pericolose, faticose o insalubri e comunque sarà sottoposto ad una visita medica volta ad accertarne la capacità psico-fisica di svolgere un lavoro. Inoltre gli adolescenti non possono in alcun modo eccedere un determinato orario lavorativo o svolgere lavoro notturno.

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Il contratto posto in essere dalle parti, in violazione delle norme imperative di legge, è nullo, in quanto l’oggetto risulta illecito e pertanto sarà inefficace tra le parti, con l’applicazione dell’art.2126 c.c., il quale prevede la retribuzione per la prestazione indebitamente offerta dal minore.

La tutela paritaria della donna: la L.n.903 del 1977La tutela paritaria ha assunto, col passare del tempo ed il susseguirsi di diversi interventi legislativi, sempre maggiore importanza, fino ad arrivare alla completa parificazione tra i sessi in ambito lavorativo. Una normativa determinante in tal senso è costituita dalla L. 903/1977: negli anni 70, infatti, i movimenti femminili diedero una notevole spinta sull’argomento della condizione della donna. Il fine della legge è la realizzazione della parità di diritti e il divieto di qualsiasi discriminazione nell’occupazione o nella formazione, salvo i casi di mansioni particolarmente pesanti, individuate dalla contrattazione collettiva, o i casi di attività di moda, arte e spettacolo in cui il sesso femminile è essenziale per la prestazione. Inoltre la donna è tutelata anche sotto il punto di vista retributivo (la parità è collegata alle prestazioni richieste e non a quelle eseguite) e dell’inquadramento professionale (potendo la donna far carriera ed acquisire qualifiche superiori al pari dell’uomo). La legge ha modificato anche l’art. 15 dello Statuto dei lavoratori che oggi si scaglia contro qualsiasi discriminazione di sesso, razza e lingua, ponendo nel nulla qualsiasi contratto lavorativo in tal senso. Una parità di trattamento è stata, poi, prevista anche ai fini previdenziali, sebbene le soglie di pensionamento delle donne siano sempre inferiori a quelle degli uomini.Altro punto chiave della disciplina antidiscriminatoria è quello sui licenziamenti: la disciplina limitativa degli stessi non si applica ai lavoratori in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia e la donna, essendo in tal caso prevista una soglia inferiore per il conseguimento di questo tipo di pensione, veniva indirettamente discriminata rispetto ai lavoratori di sesso maschile. Per questo l’art. 4 della 903 previde, in un primo momento e prima della pronuncia di illegittimità costituzionale della Corte, la possibilità di scelta della donna di optare per il pensionamento alla stessa età degli uomini. La norma, però, fu ritenuta incostituzionale e venne nuovamente modificata, prevedendo che la tutela contro i licenziamenti non andasse applicata ai lavoratori ultrasessantenni, parificando in tal modo uomini e donne. Le successive riforme pensionistiche, però, hanno innalzato i limiti di età per la pensione di vecchiaia (65 anni per gli uomini e 60 per le donne), attuando quindi una nuova discriminazione e rendendo necessaria l’interpretazione che del vecchio testo dell’art.4 aveva dato la Corte costituzionale: la tutela contro i licenziamenti delle donne si estende fino alla stessa età prevista per il pensionamento degli uomini, senza che la donna manifesti alcuna volontà.Infine la L. 903/1977, riconoscendo alcuni diritti al padre lavoratore, ha in un certo senso alleggerito il costo del lavoro femminile, data l’eventuale gravidanza della donna, in quanto solo alla stesa inizialmente venivano riconosciuti diritti legati alla prole, il che comportava un sacrificio notevole per il datore di lavoro.

La tutela differenziata delle donne: le lavoratrici madriLa tutela fisica ed economica della lavoratrici madri è contenuta in diversi documenti legislativi che si sono succeduti nel tempo, da ultimo il D.Lgs. 151/2001.Anzitutto è sancito il divieto di licenziamento dal momento d’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino, salvo taluni casi:

• giusta causa dovuta a colpa grave della lavoratrice;• cessazione dell’attività aziendale;• ultimazione della prestazione per cui la lavoratrice era stata assunta o scadenza del termine contrattuale;• esito negativo della prova.

La donna tra l’altro non può svolgere l’attività lavorativa nei due mesi precedenti al parto e nei tre mesi successivi. Può optare per lo spostamento di tale periodo, da un mese prima del parto sino a 4 mesi dopo lo stesso (periodo protetto). Ha comunque sempre diritto alla retribuzione, pagata nella misura del 80%, ma dall’INPS e non dal datore. Questo periodo di sospensione lavorativa viene definito come congedo di maternità e

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viene computato ai fini dell’anzianità di servizio.La donna non può comunque svolgere lavori faticosi, insalubri e pericolosi per se stessa e per il bambino e qualora già li svolgesse, avrà diritto ad un cambio momentaneo di mansione per tutta la gravidanza e fino a 7 mesi dopo il parto.

La disciplina paritaria dei congediRecenti discipline legislative hanno introdotto una nuova forma di parificazione sociale dei sessi, prevedendo una serie di diritti legati alla figura di genitori anche a favore dei lavoratori di sesso maschile.La L. 2000/53 aveva modificato soprattutto la disciplina delle astensioni dal lavoro per la cura dei figli ed è ormai inclusa nel Testo Unico: essa ha riconosciuto al padre lavoratore il diritto di astenersi dal lavoro nei primi tre mesi dalla nascita del figlio nel caso di morte o grave infermità della madre, così come nei casi di abbandono da parte di quest’ultima o qualora egli ne abbia avuto affidamento esclusivo (c.d. congedo di paternità). In secondo luogo è stato riconosciuto ad entrambi i genitori il diritto ad un’astensione facoltativa (c.d. congedi parentali), che può essere goduto nei primi 8 anni di età del bambino e può riguardare un periodo di astensione (continuativo o frazionato) di 6 mesi per la madre e 7 per il padre (10 mesi se vi è un unico genitore), con il limite complessivo di 10 mesi, elevato ad 11 se il padre ha fruito di almeno 3 mesi. Fino al terzo anno di età del bambino e per un periodo complessivo di non oltre 6 mesi, il genitore ha diritto al 30% della retribuzione; dai 3 mesi all’ottavo anno di età si ha diritto a tale retribuzione solo se il reddito individuale è inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione. Il datore di lavoro, tra l’altro, per fronteggiare i congedi parentali può assumere con contratto a termine un lavoratore in sostituzione, avendo diritto a degli sgravi contributivi.Altra materia disciplinata è quella delle assenze dei genitori per malattie del bambino: entrambi i genitori hanno il diritto di astenersi alternativamente dal lavoro durante le malattie del bambino d’età inferiore ad otto anni, dietro presentazione di un certificato medico.I lavoratori che usufruiscono di tutte queste astensioni hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro per i periodi previsti, nonché a rientrare nelle mansioni precedenti a tali periodi.E’ previsto, in aggiunta, un periodo di 3 giorni l’anno per morte o infermità grave del coniuge o del convivente, o di un parente entro il secondo grado.Può essere richiesto anche un congedo non retribuito per un periodo di addirittura 2 anni, in cui non si matura alcuna anzianità di servizio e previdenziale, ma si ha diritto alla conservazione del posto.

Parità tra i sessi e speciali occasioni di tutela delle donneIn conclusione, si può affermare che l’attuale disciplina ha posto sullo stesso piano, per ciò che attiene ai figli, il padre e la madre. Il genitore di sesso maschile, infatti, non è più visto come accessorio nella cura della prole, ma come soggetto che si occupa dei figli al pari della madre.Le recenti discipline di matrice comunitaria, inoltre, hanno rafforzato la tutela della madre in relazione ai lavori pericolosi ed al lavoro diurno, che può essere legittimamente rifiutato dalla stessa.Sempre in materia di tutela della lavoratrice, sono da ricordare la Convenzione OIL n.103 del 1952 e la Direttiva n.92/1895, in materia di sicurezza e salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento. Va poi ricordato l’art. 11, 2° co., del D.Lgs. n.66 del 2003 in materia di orario di lavoro che ha vietato l’adibizione delle donne al lavoro notturno (dalle 24 alle6 ) dal momento dell’accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino.

Le azioni positive e le pari opportunità tra i sessiUn particolare rafforzamento della tutela paritaria della donna nel lavoro si ebbe con la L.125/1991, intervenuta ad integrare la L.903/1997. Il problema da risolvere è quello della sottorappresentazione delle donne, il quale si pone nel momento in cui in un ambiente lavorativo la percentuale di donne al lavoro non corrisponde alla percentuale di donne nel mercato del lavoro che abbiano quei requisiti professionali. Per risolvere tale problema, sono state promosse delle misure apposite, note come “azioni positive”. La donna lavoratrice in realtà non ha alcuna pretesa, in quanto le azioni positive rappresentano una facoltà incentivata del datore di lavoro, non un

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obbligo. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, tra l’altro, ha chiarito come tutte queste normative a favore della donna non debbano finire con la discriminazione dell’uomo nell’accesso dei posti di lavoro, ossia non si deve attuare una discriminazione al contrario pur di favorire a tutti i costi la donna.

Il rafforzamento della tutela antidiscriminatoriaLa disciplina della L. 903/1977 ha subito ulteriori variazioni nel corso degli anni per rafforzare sempre più la disciplina antidiscriminatoria. Per discriminazione diretta s’intende “qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e cmq attuando il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un altro lavoratore in situazione analoga”. Si ha discriminazione indiretta qualora una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, patto o comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso. Nell’ambito delle discriminazioni, inoltre, sono state ricomprese le molestie, tanto quelle che violino la dignità della persona, tanto quanto quelle sessuali.Anche in ambito processuale sono stati apportati dei miglioramenti in materia di discriminazioni: il lavoratore o la lavoratrice ricorrente, infatti, vede attenuato l’onere della prova a suo carico, in quanto lo stesso ricade sul convenuto nel momento in cui vengano forniti elementi di fatto, supportati da dati statistici, che facciano nascere in qualsivoglia modo la presunzione di una discriminazione legata al sesso.E’ prevista inoltre una procedura processuale d’urgenza, simile a quella inerente la repressione delle condotte antisindacali, per qualsiasi forma di discriminazione: il lavoratore o la lavoratrice possono essere assistiti dai Consiglieri di parità istituiti presso le varie sedi delle Commissioni per le politiche del lavoro.L’accertamento di comportamenti discriminatori collettivi, inoltre, può dar luogo alla revoca dei benefici finanziari di cui gode l’imprenditore o alla risoluzioni di contratti di appalto con enti pubblici.

CAPITOLO VII: L’estinzione del rapporto di lavoro

Modalità di estinzione. L’impossibilità sopravvenuta della prestazione.Il rapporto di lavoro, come ogni vicenda umana, ha un inizio ed anche una fine. L’ effetto estintivo può essere riconducibile ad un solo contraente (recesso unilaterale, dimissioni o licenziamento) o alla volontà di entrambi (risoluzione consensuale). Ma i rapporti obbligatori possono anche risolversi per effetto di un’impossibilità sopravvenuta della prestazione che abbia carattere definitivo o temporaneo, ma talmente prolungata da poter essere assimilata all’effetto estintivo. Tale disciplina riguarda tanto il rapporto obbligatorio in linea generale, quanto il rapporto di lavoro seppur con notevoli accorgimenti. Anzitutto la prestazione del datore di lavoro, ossia quella retributiva, è molto improbabile, proprio per sua natura, che divenga impossibile. Tutti i casi, invece, che potrebbero indurci a pensare che si abbia una risoluzione per impossibilità sopravvenuta nel caso del lavoratore, vanno analizzati nel dettaglio: non è detto che un’inidoneità fisica permanente del lavoratore porti a ciò, essendo possibile un cambio di mansioni magari esercitabili dal lavoratore; non è detto neanche che il perimento di uno stabilimento porti alla risoluzione, essendo possibile l’assegnazione ad altro stabilimento. Come vediamo, quindi, nulla è scontato, neanche in caso di vis maior (forza maggiore) o factum principis (provvedimento delle Autorità), in quanto in tal caso dobbiamo distinguere tra eventi concernenti l’impresa (distruzione dei locali aziendali, requisizione dell’azienda), non l’imprenditore, ed eventi concernenti la persona del lavoratore (detenzione definitiva, assoluta incapacità permanente, morte del prestatore).

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La risoluzione consensuale. La risoluzione giudiziale per inadempimento.Il primo modo di estinzione del rapporto lavorativo, che andiamo ad analizzare, è quello riconducibile alla volontà ed all’autonomia negoziale dei contraenti (quindi di comune accordo), ossia la risoluzione consensuale (artt. 1321 e 1372, 1° co., c.c.). Le parti, così come si sono obbligate reciprocamente, possono decidere di dismettere il proprio rapporto e liberarsi dalle relative obbligazioni. Ovviamente ciò non deve configurare un negozio in frode alla legge, pertanto nullo, sostitutivo del licenziamento, posto in essere per allontanare il lavoratore.Inoltre, avendo il codice civile previsto il recesso unilaterale del contraente adempiente nei confronti di quello inadempiente, non è ipotizzabile pensare che sia ammissibile il ricorso alla “ risoluzione giudiziale per inadempimento”: essa tutela, in maniera più macchinosa, lo stesso interesse del recesso di cui sopra e pertanto risulterebbe inutile.

Il recesso nel rapporto di lavoro: i reali interessi in gioco.Il recesso è un negozio giuridico unilaterale, cioè posto in essere da una sola parte contrattuale, e recettizio, per la cui validità occorre la comunicazione all’altra parte contrattuale e l’effettiva conoscenza da parte della stessa. Con il recesso il contraente fissa un termine a decorrere dal quale il rapporto cesserà di esistere (la c.d. disdetta) dando luogo alla risoluzione unilaterale. Ovviamente occorre un preavviso dato alla controparte con cui si configuri il recesso anche contro la volontà di quest’ultima. In questo caso ampiamente descritto stiamo parlando pur sempre di “recesso ordinario”, il quale differisce dal recesso straordinario, che si configura in presenza di anomali funzionali del rapporto obbligatorio e può essere intimato senza preavviso e con effetto immediato.Nel rapporto di lavoro il recesso può provenire tanto dal lavoratore (dimissioni), quanto dal datore di lavoro (licenziamento): la corretta individuazione degli interessi in gioco consente di comprendere il principio liberale (prima della redazione della Costituzione) della perfetta eguaglianza giuridica tra i contraenti, mentre ad oggi la condizione di contraente debole del prestatore ha indotto il legislatore a limitare i poteri del datore.

Il recesso ad nutum e l’obbligo del preavviso.Il codice civile, riprendendo il R.D.L. n.1825/1924 sull’impiego privato, ha confermato la libera recedibilità (ad nutum, per decisione arbitraria di una parte) di entrambe le parti dal contratto di lavoro, prevedendo, però, all’art. 2118 c.c. che la parte recedente ha l’obbligo di dare un preavviso a seconda di quanto previsto dai contratti collettivi, o in mancanza secondo gli usi. La ratio del preavviso la ritroviamo nel fatto che la cessazione del rapporto causi alla parte avversa danni di vario genere. Infatti qualora una parte ometta di dare preavviso, dovrà l’indennità di mancato preavviso, corrispondente alle retribuzioni che sarebbero spettate per il periodo di preavviso. Tale indennità, però, è risarcitoria e non sostitutiva del preavviso: il datore non è chiamato a scegliere.Una questione che divide la dottrina è quella della natura reale oppure obbligatoria del preavviso. Appare più coerente con la ratio della norma (la tutela della prosecuzione del rapporto di lavoro) l’adempimento specifico dell’obbligo del preavviso piuttosto che il pagamento dell’indennità.

Il recesso per giusta causa.Il recesso, inoltre, può essere esercitato da un contraente anche senza preavviso, a norma dell’art.2119 c.c. nel momento in cui sussista una giusta causa che non consenta la prosecuzione del rapporto.Ovviamente la giusta causa deve essere reale e non fittizia, altrimenti dovrà essere ugualmente corrisposta l’indennità di mancato preavviso.

Sez. B: Il licenziamento individualeLa disciplina limitativa dei licenziamenti e la sua progressiva estensioneLa disciplina codicistica sin qui descritta continua ad applicarsi alle dimissioni del lavoratore, il cui potere unilaterale di recedere dal rapporto di lavoro non conosce altri limiti che il preavviso. Per quanto riguarda il datore di lavoro, invece, in ottemperanza agli articoli della Costituzione che

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individuavano nei lavoratori una categoria socialmente sottoprotetta, vi sono stati diversi interventi legislativi volti ad eliminare il recesso volontario (ad nutum) dell’imprenditore ed a favorire il prestatore tramite l’introduzione del concetto di recesso vincolato.Già gli accordi interconfederali, recepiti poi all’interno della L. 604/1966 sui licenziamenti individuali, prevedeva una tutela obbligatoria a favore del lavoratore licenziato senza giusta causa: il lavoratore doveva essere reintegrato o in alternativa avrebbe dovuto ricevere un pagamento a titolo di risarcimento del danno (c.d. tutela obbligatoria).L’art. 18 della L. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) ha del tutto stravolto tale materia, prevedendo una forma di tutela reale del lavoratore: egli, qualora sia licenziato senza giusta causa, non solo ha diritto al reintegro, ma anche ad un risarcimento del danno. L’art. 35 dello Statuto limitava l’applicazione dell’art.18 alle imprese con almeno 15 dipendenti. La L.108/1990 ha fatto, poi, in modo che il principio della giustificazione del licenziamento si applicasse anche alle unità produttive con meno di 15 dipendenti, sancendo il generale principio della giustificazione del licenziamento (c.d. recesso vincolato), che ormai vale per tutti i lavoratori, salve eccezioni.

Il recesso ad nutum: da regola ad eccezione.Andiamo a vedere in quali casi si continua ad applicare la disciplina codicistica del recesso ad nutum esercitato dal datore di lavoro.Anzitutto nel caso di lavoratori domestici e di sportivi professionisti, i quali non ricevono né tutela reale (reintegro e risarcimento), né tutela obbligatoria (reintegro o indennità).Altra categoria è quella dei lavoratori in prova: per essi non c’è neanche bisogno del preavviso, almeno che non fosse stato stabilito un periodo minimo di prova, in quanto in tal caso il recesso non può essere esercitato prima della scadenza di tale periodo. Tuttavia il periodo di prova può giungere sino a 6 mesi, dopo i quali il prestatore in prova è soggetto alla tutela contro i licenziamenti, in quanto considerato come definitivo.Il recesso ad nutum opera, inoltre, nei confronti dei lavoratori anziani che abbiano compiuto il 65esimo anno di età ed abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia (NON di anzianità): ciò vale, in forza di una pronuncia della Corte costituzionale di cui abbiamo già parlato, anche per le donne, nonostante il requisito inferiore di età previsto dalla legge per la pensione di vecchiaia (60 anni), in quanto in materia di licenziamenti devono essere equiparate agli uomini.Il recesso ad nutum vale poi per i dirigenti apicali, ossia per coloro ai vertici dell’impresa, in forza di un rapporto fiduciario diretto con l’imprenditore. Ad essi il preavviso va dato per iscritto ed opera la tutela contro il licenziamento discriminatorio. Tuttavia i contratti collettivi dei dirigenti hanno previsto un obbligo di giustificazione da parte dell’imprenditore ed il pagamento di un’indennità supplementare qualora si accerti, dinanzi ad un collegio arbitrale, che il licenziamento fosse ingiustificato.

Le ipotesi di limitazione temporale del licenziamento: infortunio, malattia, gravidanza e puerperio, servizio militare, funzioni pubbliche elettive.L’art. 2110 c.c., prevede un limite temporale della facoltà di recesso del datore di lavoro:durante certi periodi è possibile licenziare solo per giusta causa. Stiamo parlando di tutti casi quali la gravidanza ed il puerperio, l’infortunio, la malattia, il servizio militare e l’esecuzione di funzioni pubbliche. In tutti questi casi è ammesso solo il licenziamento per giusta causa. Il licenziamento ad nutum, in realtà, non è invalido, ma temporaneamente inefficace: ciò vuol dire che trascorso il periodo di comporto, il licenziamento sarà operativo (ad eccezione delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri, per cui un licenziamento di tal genere non è inefficace, ma del tutto nullo).

I limiti sostanziali (causali) al potere di licenziare: il principio della giustificazione e la regola del c.d. recesso vincolato.Il più importante limite al potere di recesso del datore di lavoro è di carattere sostanziale (o c.d. causale): l’art.1 della L.604/1966 stabilisce che, affinché il licenziamento sia legittimo, occorre obbligatoriamente una giusta causa o un giustificato motivo, che quindi legittimano il recesso del datore di lavoro. In questo modo il potere di recedere è del tutto imbrigliato, dando seguito ad una sempre maggiore stabilità del rapporto di lavoro per il lavoratore.

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Sparisce, quindi, la distinzione tra recesso ordinario e recesso straordinario, solo per quanto riguarda il recesso del datore di lavoro: abbiamo, infatti, detto che il recesso ordinario prevedeva il preavviso, mentre per quello straordinario occorreva un’anomalia funzionale del rapporto, ossia una giusta causa. Essendo ora sempre necessaria la giusta causa, il recesso ordinario e quello straordinario si trovano a coincidere. Il preavviso, invece, è necessario solo per il licenziamento per giustificato motivo.Infine, le conseguenze connesse dalla legge all’illegittimità del negozio di licenziamento, per mancanza ditali requisiti causali (assenza di giusta causa o giustificato motivo), non sono sempre le stesse ed occorre distinguere:

• tutela reale annunciata dall’art. 18 Statuto: il licenziamento illegittimo è esplicitamente definito annullabile;• tutela obbligatoria prevista dall’art. 8 della legge 604: il licenziamento non è annullabile ma soltanto illecito. Espone il datore a conseguenze sanzionatorie.

Giustificato motivo soggettivo ed oggettivo.Le due nozioni di giustificato motivo e di giusta causa sono contenute all’interno di documenti legislativi diversi. La nozione di giusta causa la ritroviamo all’interno dell’art.2119 c.c., mentre quella di giustificato motivo nasce all’interno dell’art.3 L.604/1966. Partiamo da quest’ultima.Anzitutto è doveroso attuare una differenza tra giustificato motivo subiettivo (o soggettivo) e giustificato motivo obiettivo (o oggettivo).Il primo inerisce ad un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali” da parte del lavoratore (intendendosi per “notevole” un inadempimento di rilevante importanza); sono i contratti collettivi ad individuare tutta una serie di infrazioni che possono dar luogo al licenziamento, che comunque non vincolano il giudice nella propria decisione. Abbiamo già detto, inoltre, che in materia di lavoro, essendo possibile il recesso della parte adempiente per inottemperanza ai propri doveri della controparte, non risulta operativa la risoluzione per inadempimento. Tuttavia, è ad essa che possiamo rifarci per comprendere che l’inadempimento e la sua gravità devono essere valutati nell’interesse del creditore. La giurisprudenza, inoltre, in tema di giusta causa ha affermato che il licenziamento comminato in base ad essa debba essere notificato entro un termine congruo (requisiti dell’immediatezza e della tempestività).Tale regola giurisprudenziale vale anche per il giustificato motivo soggettivo.Il secondo tipo di giustificato motivo, quello oggettivo, si realizza quando vi siano “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazion e del lavoro ed al regolare funzionamento di essa”. Quindi non si configura in nessuna maniera un inadempimento del lavoratore, ma prevale sul suo diritto alla conservazione del posto di lavoro l’interesse primario dell’impresa (non dell’imprenditore). Il giudice, tra l’altro, dovrà verificare solo la sussistenza del giustificato motivo addotto dall’imprenditore, non svolgere un controllo di merito, e dovrà verificare che il licenziamento costituisse l’extrema ratio, ossia che il datore di lavoro non avesse alternative per impiegare diversamente l’attività del prestatore, neanche ricorrendo a mansioni diverse.Anche la sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni svolte, al di là di quella che sia la causa (infortunio o altro), può fungere da giustificato motivo oggettivo: tuttavia deve essere impossibile il reimpiego in altre mansioni del lavoratore per giustificare il licenziamento. Il giustificato motivo, inoltre, ricorre anche quando vi è un periodo di comporto a lungo protratto nel tempo: è vero che il lavoratore conserva il proprio posto di lavoro e che il rapporto risulta solo sospeso, ma è altrettanto vero che l’impossibilità temporanea non deve assumere carattere definitivo. In tal caso il licenziamento potrà essere comminato per tal motivo.

La giusta causa.La nozione codicistica di giusta causa, contenuta all’interno dell’art.2119 c.c., vedeva la stessa come un accadimento che non consentisse la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro e più specificatamente come un fatto che giustificasse la mancanza di preavviso del recesso.Ovviamente dopo la L. 604/1966 e l’introduzione del giustificato motivo soggettivo, inerente l’inadempimento del lavoratore, le cose sono cambiate.Anche la giusta causa è riconducibile ad un inadempimento del lavoratore, ma si deve trattare di un inadempimento ben più grave rispetto a quello del giustificato motivo soggettivo, e questo non

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solo in termini qualitativi (facendo riferimento alla nozione di fiducia), ma anche quantitativi (gravità). Il concetto di fiducia va riportato entro i limiti oggettivi dell’esattezza dei successivi adempimenti: il datore deve poter concedere altri compiti al lavoratore, in futuro, senza temere che egli possa esser inadempiente o inaffidabile. La contrattazione collettiva ha individuato, inoltre, dei casi in cui si configura una giusta causa (furto, rissa sul posto di lavoro, danneggiamento volontario dei macchinari ecc.), che comunque non sono vincolanti per il giudice. Inoltre nel caso di licenziamento per giusta causa non è necessario il preavviso, benché il licenziamento debba essere tempestivo ed immediato, senza far trascorrere troppo tempo.

Nullità del licenziamento.Sono nulli, secondo la legge, il licenziamento adottato per motivi discriminatori, per causa di matrimonio e quello delle lavoratrici madri.Secondo l’art. 4 della legge 604 del ’66, è nullo il licenziamento discriminatorio nel momento in cui il recesso unilaterale del datore di lavoro sia dovuto a “ragioni politiche, religiose e sindacali”indipendentemente dalla motivazione adottata. L’art 15 dello Statuto contempla anche le ragioni di “sesso, razza e lingua”. L’art. 3 della legge 108 del 1990 stabilisce che, nei casi di discriminazione, è sempre applicabile la tutela reale (reintegro e risarcimento), ed a tali casi è equiparato il licenziamento per ritorsione, ossia in base a comportamenti sgraditi al datore.Anche i licenziamento per matrimonio è nullo, essendo già inapplicabili ad un contratto lavorativo clausole di nubilato: esso è nullo se intimato dal giorno delle pubblicazioni inerenti il matrimonio sino ad un anno dopo lo stesso, anche se il datore di lavoro ha la possibilità di dimostrare che ricorra una delle condizioni, legittimanti il licenziamento, previste per la lavoratrice gestante o puerpera. Anche le dimissioni della lavoratrice presentate in tal periodo, se non confermate entro un mese alla Direzione provinciale del lavoro, sono nulle.Sono nulli, inoltre, i licenziamenti delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri che abbiano ad oggetto proprio la condizione di genitore.

La forma del negozio di licenziamento.Ulteriore requisito del licenziamento, oltre alla giusta causa o al giustificato motivo e fatta eccezione per le ipotesi di nullità sopra descritte, è quello della forma del negozio. L’art. 2 della L.604 prevede che il licenziamento venga comunicato per iscritto, mentre le motivazioni dello stesso non devono essere comunicate contestualmente, perché il lavoratore potrebbe aver interesse affinché non vengano rese pubbliche. Il lavoratore ha 15 giorni dalla comunicazione del recesso per richiederne i motivi ed il datore provvederà nei successivi 7 giorni obbligatoriamente, perché è proprio nelle motivazioni che possiamo rinvenire l’effettività del licenziamento. Tra l’altro vale il principio della immodificabilità della motivazione. Qualora non vengano osservati gli adempimenti formali, il licenziamento è inefficace, ma non in senso stretto (inopponibilità degli effetti negoziali), bensì in merito alla nullità dello stesso. Il datore di lavoro potrà comunque riformulare, con effetti solo futuri, il licenziamento.

L’impugnazione del licenziamento e il termine di decadenza. L’onere della prova.L’art. 5 della L. 604/1966 pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova inerente l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo. Quindi, mentre il datore deve provar ei fatti che giustificano l’esercizio del proprio diritto di recesso, il lavoratore licenziato è tenuto a provare i fatti costitutivi del proprio diritto alla stabilità del rapporto e quindi della tutele reale o obbligatoria. L’art. 6 della L.604 disciplina poi impugnazione del licenziamento illegittimo da parte del lavoratore, non solo tramite ricorso giudiziale, bensì anche tramite una comunicazione scritta al datore di lavoro, l’operato dei sindacati o tramite comunicazione di espletamento della procedura di conciliazione obbligatoria. Tutto ciò deve essere fatto entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento o dalla comunicazione dei motivi. Il termine si applica anche in caso di licenziamento ritorsivo o discriminatorio, ma non negli altri casi di nullità (matrimonio, mancanza

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di forma scritta, caso dei lavoratori-genitori).All’impugnazione stragiudiziale deve seguire, a pena d’inefficacia della stessa, entro il termine di 270 giorni il deposito del ricorso alla cancelleria del giudice del lavoro, ovvero la comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato.

L’art. 18 dello Statuto: la tutela reale del posto di lavoroI rimedi contro il licenziamento illegittimo, di là del quale sia la causa, tengono in considerazione le dimensioni aziendali. L’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, infatti, prevede un forma di tutela reale, che comporta la reintegrazione obbligatoria del lavoratore, solo a favore delle imprese con più di 15 dipendenti all’interno della stessa unità produttiva o dello stesso comune (5 dipendenti per le imprese agricole), o comunque con almeno sessanta dipendenti totali. In caso contrario si ha una tutela obbligatoria: il datore di lavoro può scegliere tra la riassunzione ed il pagamento di una penale. Nel computo dei dipendenti utili per raggiungere i limiti sopra citati, rientrano tutti i lavoratori occupati, compresi dirigenti, lavoratori con contratto di formazione e lavoro (non più stipulabile), a tempo indeterminato parziale. Sono esclusi, invece, i lavoratori assunti con contratto di reinserimento, quelli assunti sulla base di un contratto di somministrazione, con contratto di apprendistato o di inserimento, e sono, inoltre, esclusi il coniuge ed i parenti entro il secondo grado del datore di lavoro.Entro questi limiti, il licenziamento nullo, discriminatorio o altrimenti vietato, quello annullabile, per mancanza di giusta causa o giustificato motivo, e quello inefficace, per mancata osservanza dei requisiti di forma, il datore di lavoro è condannato alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno subito dal lavoratore.Il diritto alla reintegrazione ed al risarcimento si prescrive in 10 anni (diversamente dalle singole azioni di nullità e annullamento in linee generali, l’una imprescrittibile, l’altra quinquennale).

L’incoercibilità dell’obbligo di reintegrazione: la prosecuzione del vinculum iuris.La sentenza di condanna di reintegrazione obbliga il datore di lavoro alla reintegrazione del prestatore. Secondo l’art. 18, 5° co. dello Statuto, il datore deve rivolgere un invito al lavoratore a riprendere l’attività: con questo invito il datore adempie al suo obbligo di reintegrazione, qualora non lo faccia verserà in una situazione di mora credendi(art.1205 ss.c.c.), dovendo comunque la retribuzione al lavoratore. Quest’ultimo, però, deve riprendere l’attività lavorativa entro 30 giorni, altrimenti il rapporto si considera risolto per dimissioni.La reintegrazione, quindi, configura un obbligo di fare infungibile (può farlo solo il datore di lavoro) ed incoercibile. Il legislatore ha però previsto, accanto alla reintegrazione, un’indennità a titolo di risarcimento del danno, non inferiore a cinque mensilità di retribuzione, per il periodo compreso tra il licenziamento e l’effettiva reintegrazione. Inoltre il datore di lavoro dovrà versare per tutto questo periodo i contributi previdenziali ed assistenziali.L’art. 18, 5° co. dello Statuto prevede, inoltre, che il lavoratore per cui è stata prevista la reintegrazione, opti per un’indennità risarcitoria, sostitutiva della raintegrazione pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto: si configura quindi un diritto potestativo che permette al lavoratore di scegliere tra reintegrazione ed indennità/risoluzione del rapporto.

Reintegrazione nel posto di lavoro e procedure d’urgenza: art. 700 c.p.c. ed art.28 dello StatutoPer la tutela del licenziamento illegittimo è prevista una procedura giudiziale che acceleri i tempi della decisione: si tratta del procedimento cautelare d’urgenza previsto dall’art. 700 del c.p.c: il lavoratore ha l’onere di dimostrare l’illegittimità del licenziamento e più precisamente la non manifesta infondatezza del diritto vantato (fumus bon iuris) e l’esistenza di un pregiudizio irreparabile ed imminente per sé ed i familiari (periculum in mora).Per i casi di licenziamento discriminatorio antisindacale è previsto un apposito strumento dall’art.28 dello Statuto: il giudice del tribunale, infatti, può decidere da subito per un reintegro

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del soggetto e qualora il datore di lavoro non ottemperi, va incontro alle conseguenze previste dall’art.650 del codice penale.

La tutela obbligatoria e l’alternativa tra riassunzione e pagamento di una penaleNei casi esclusi dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e, in linee generali, nei casi che non rientrano nella tutela reale, si attua la tutela obbligatoria, prevista dall’art. 8 della L604. Il datore di lavoro è comunque obbligato a giustificare il licenziamento, ma qualora non lo faccia ha dinanzi a se due alternative: reintegrare entro tre giorni il lavoratore o corrispondergli un’indennità in base alla scelta del giudice e relativa all’anzianità di servizio del lavoratore. Si va da un minimo di 2,5 mensilità di retribuzione fino a 14 mensilità in caso di lavoratore con almeno 20 anni di anzianità di servizio. Il licenziamento, comunque, è in tal caso illegittimo, ma non annullabile, semplicemente illecito: il rapporto di lavoro si estingue in ogni caso, almeno che il datore non disponga la riassunzione del prestatore.

Il licenziamento disciplinare e l’applicabilità dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori.Il licenziamento intimato per motivi disciplinari deve conformarsi all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, il quale, come abbiamo avuto modo di dire nel capitolo IV, sottopone il potere disciplinare a vincoli procedurali (affissione del codice disciplinare, contestazione degli addebiti etc.). Esso prevede che, “fermo restando quanto disposto dalla legge 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro”. Sulla base di una pronuncia della Corte Cost., la Cassazione è pervenuta ad applicare i vincoli posti dall’art. 7 a tutti i licenziamenti disciplinari. Prima della legge 108 del 1990, la Corte Cost. aveva affrontato il problema della applicabilità dell’art.7/L.300 ai licenziamenti disciplinari nelle piccole imprese nelle quali vigeva all’epoca il principio della libera re cedibilità: non si applicava per le piccole imprese (< 15dipendenti). Nei casi di inosservanza dell’ art. 7, la Cassazione ha escluso che ricorra un’ipotesi di nullità (non va contro a principi fondamentali) bensì il licenziamento è da considerarsi illegittimo e da trattarsi alla stregua di un licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo. Ricordiamo che, per quanto riguarda i dirigenti, essi sono sottoposti al regime della libera recedibilità e le garanzie procedurali previste dall’art. 7 sono applicabili solo qualora il datore non voglia corrispondere l’indennità di mancato preavviso.

La tutela del lavoratore nelle altre ipotesi di invalidità del licenziamento.Abbiamo visto come, per i casi contemplati dall’art.18 dello Statuto dei lavoratori, valga la regola della reintegrazione del lavoratore e del risarcimento del danno in caso di licenziamento inefficaceper ragioni formali, annullabile per difetto di giusta causa o giustificato motivo, nullo per motivi discriminatori. La Corte costituzionale ha, poi, ribadito che tale applicazione va estesa anche ai casi di licenziamento non contemplati dalla L. 604. Tuttavia abbiamo avuto modo di precisare che l’art.18 incontra dei limiti dovuti alle dimensionedell’impresa per ciò che concerne la tutela reale. Tra l’altro l’alternativa tutela obbligatoria può applicarsi, in forza dell’art.8 della L. 604/1966, solo nei casi di licenziamento in cui difetta il giustificato motivo o la giusta causa.Ma che succede quando il licenziamento è invalido per ragioni diverse dal difetto di giustificazione o quando si concretizza in rapporti soggetti al regime di libera recedibilità?Anzitutto quando il licenziamento è discriminatorio è sempre sanzionato con la reintegrazione (art. 3 della L. 108/1990).In caso, invece, di licenziamento della lavoratrice madre (o del lavoratore padre), di licenziamento intimato in base alla richiesta di fruizione dei congedi per motivi di cura familiare e di licenziamento per causa di matrimonio, si deve ritenere che, tanto in caso di tutela obbligatoria quanto di libera recedibilità, vi siano comunque i comuni effetti civilistici, ossia il rapporto continua e vi è la mora credendi del datore di lavoro.

• Nell’ipotesi di nullità del licenziamento, ad esse conseguono i comuni effetti civilistici: una volta accertata l’illegittimità del licenziamento e quindi la sua nullità, si avrà la continuazione giuridica del rapporto ex tunc e si potrà configurare una situazione di mora credendi del datore di lavoro (artt. 1206 ss c.c.)

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• Il licenziamento adottato senza il rispetto delle formalità non è suscettibile di produrre effetto alcuno, ed è da considerarsi come tamquam non esset, ossia come se non esistesse, anche se è rinnovabile per il futuro (ex nunc) secondo le forme previste. • Infine, per quanto riguarda l’ipotesi di licenziamento disciplinare illegittimo per violazione delle garanzie procedurali dell’art. 7 dello Statuto, essendo essi parificati al licenziamento ingiustificato, nell’area della tutela obbligatoria andrà applicato l’art. 8 della L. 604/1966, mentre nell’area della libera recedibilità sarà dovuta esclusivamente l’indennità di mancato preavviso.

Le organizzazioni di tendenza.Per organizzazioni di tendenza s’intendono quelle organizzazioni che perseguono fini ideologici, senza scopo di lucro, di natura politica, culturale, sindacale, di istruzione, di religione o di culto.Tali organizzazioni, in forza dell’art. 4 della L. 108/1990, sfuggono all’applicazione dell’art. 18 L. 300/1970 anche in caso di rispetto dei requisiti dimensionali. Ad esse si applica una tutela obbligatoria, salvo i casi di dirigenti, lavoratori in prova o anziani in età pensionabile, soggetti tutti alla libera recedibilità. Ovviamente l’organizzazione non deve svolgere attività d’impresa, altrimenti sarà soggetta all’applicazione dell’art. 18.Infine, la disposizione ha lasciato irrisolte le questioni relative al licenziamento nelle organizzazioni di tendenza, ed in particolare quelle della giustificatezza del licenziamento.

Sez. C: Il trattamento di fine rapportoDall’indennità di anzianità al trattamento di fine rapportoAbbiamo precedentemente sottolineato in più occasioni come la retribuzione sia il corrispettivo dell’attività lavorativa di un soggetto. Per ciò che concerne gli effetti patrimoniali al momento della cessazione del rapporto di lavoro, la L. 297/1982 ha sancito la sostituzione della c.d. indennità di anzianità, prevista dal testo originario (oggi modificato) dell’art. 2120 c.c., con il trattamento di fine rapporto (t.f.r.), consistente in un somma di denaro, da corrispondere al lavoratore da parte del datore di lavoro, al momento della conclusione del rapporto contrattuale. L’obbligazione, quindi, nasce al momento della cessazione. Già la precedente “indennità di anzianità” aveva subito notevoli modifiche col passare del tempo, dovute ad una variazione della sua funzione da riparatorio-previdenziale, in quanto vista come un’indennità per il lavoro prestato, a retributivo-previdenziale , da corrispondere in qualsiasi caso di cessazione del rapporto lavorativo. Il legislatore ha previsto l’istituzione di un fondo di garanzia presso l’INPS, il quale assicura l’effettivo godimento del t.f.r. da parte del prestatore.Mentre l’indennità di anzianità veniva calcolata tramite il prodotto (ricalcolo) di una quota dell’ultima retribuzione per il numero di anni di servizio, il t.f.r. viene determinato dalla somma delle quote di retribuzione accantonate annualmente.

Disciplina del t.f.r. e maturazione del diritto al t.f.r.La disciplina del t.f.r. è contenuta nel novellato art.2120 c.c., il quale prevede che esso spetti al lavoratore al momento della cessazione del rapporto, senza interesse verso la causa della cessazione e viene calcolato in base agli anni di servizio. Più precisamente possiamo dire che si vanno a sommare le quote di retribuzione accantonate annualmente, le quali si ricavano prendendo in considerazione la “retribuzione annua” e dividendola per 13,5.Va chiarito che non vi è un obbligo di accantonamento annuale del t.f.r. (salvo che per le s.p.a.) , ma una quota annua viene vincolata nell’interesse del lavoratore, formando un conto a parte. Il lavoratore non può goderne fino alla cessazione del rapporto di lavoro, ma può aver interesse a farne accertare, anche giudizialmente, l’importo.

Base di calcolo, frazionabilità intro-annuale ed indicizzazione del t.f.r.Per ciò che riguarda la base di calcolo del t.f.r. l’art. 2120 c.c. precisa che, per determinare la retribuzione annua, vadano prese in considerazione tutte le somme che il datore di lavoro ha corrisposto al prestatore, escluse quelle di carattere occasionale (rimborsi spese) ed incluse,

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invece, le prestazioni in natura, di cui si computa l’equivalente in denaro. Il principio dell’onnicomprensività della retribuzione (secondo cui la retribuzione include tutto ciò che a carattere predeterminato è corrisposto dal datore di lavoro) può essere derogato solo dai contratti collettivi.Va sottolineato, inoltre, il principio della “frazionabilità introannuale ” del t.f.r., il quale prevede che la quota di retribuzione annua venga ridotta per le frazioni di anno, in quanto vengono computati come mesi interi solo le frazioni di mese uguali o superiori a 15 giorni.In tutti i casi di sospensione momentanea del rapporto di lavoro (malattia, infortunio e maternità, nonché il caso di sospensione totale o parziale per la quale sia prevista l’integrazione salariale) debba essere computato nella retribuzione annua l’equivalente a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto qualora fosse stato in servizio.La quota annua va poi incrementata, alla scadenza dell’anno stesso, dell’1,5% più il 75% dell’aumento dell’indice ISTAT dei prezzi di consumo.

Diritto all’anticipazione del t.f.r.L’art. 2120 c.c. prevede, inoltre, la possibilità per i lavoratori con almeno 8 anni di servizio a chiedere un’anticipazione del t.f.r. di importo non superiore al 70% del t.f.r. fino a quel momento maturato. L’anticipazione può essere richiesta una sola volta durante tutto il rapporto di lavoro e deve essere giustificata da comprovati motivi di necessità di cure mediche o per l’acquisto della prima casa, nonché per le spese da sostenere da parte del genitore lavoratore nei primi 8 anni di vita del bambino. Tra l’altro, il datore di lavoro, non è obbligato a corrispondere l’anticipazione, in quanto legittimati all’anticipazione sono solo il 10% degli aventi titolo per raggiungimento degli 8 anni di servizio e comunque non più del 4% dei dipendenti di un’impresa. Tra l’altro l’impresa che versi in una condizione di crisi non potrebbe fronteggiare il pagamento anticipato di t.f.r. e ne è esonerata.I contratti collettivi, ma anche quelli individuali, possono prevedere condizioni di miglior favore per quanto concerne i limiti soggettivi ed oggettivi imposti all’erogazione dell’anticipazione.

Indennità per causa di morteL’art. 2122,1° co., c.c. prevede che in caso di morte del lavoratore, il t.f.r. sino ad allora maturato debba essere corrisposto ai superstiti del lavoratore: coniuge, figli e, se viventi a suo carico, parenti entro il terzo grado ed affini entro il secondo, dipendentemente dal bisogno di ciascuno. Insieme ad esso va corrisposta anche una somma pari all’indennità di mancato preavviso.Un orientamento recente della dottrina e della giurisprudenza ha previsto che tali somme siano corrisposte a titolo di successione, ed una prova è data dal fatto che il lavoratore può nel testamento specificare come vadano attribuite in caso di mancanza dei soggetti aventi diritto, e non iure proprio ai soggetti indicati dall’art. 2122 c.c., come invece credeva una parte della dottrina e la stessa giurisprudenza in precedenza.

Campo di applicazione della nuova disciplina. Efficacia assolutamente inderogabileL’art. 4 della L.297/1982 ha previsto che la disciplina del t.f.r. si applichi a tutti i rapporti di lavoro subordinato, ivi compresi quelli del personale navigante aereo e marittimo, nonché a tutti i rapporti di lavoro subordinato per i quali siano previste forme di indennità di fine rapporto comunque denominate (anzianità, buonuscita) e disciplinate da qualsiasi fonte legislativa o contrattuale. In precedenza, l’art.4 escludeva il settore del pubblico impiego, ma dopo la privatizzazione dello stesso, la disciplina in questione si è estesa anche ai lavoratori pubblici.Viene meno, in materia di t.f.r., il principio del favor, il quale prevede che la contrattazione collettiva o individuale possa prevedere trattamenti migliori per il lavoratore: in questo caso la disciplina fin qui esaminata ha efficacia assolutamente inderogabile, tanto in peggio quanto in meglio.

Forme volontarie e complementari di previdenzaAccanto alle forme obbligatorie di previdenza previste dalla legge, sono previste forme volontarie di previdenza che l’imprenditore può realizzare tramite l’ausilio e la partecipazione

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dei propri dipendenti, al fine di erogare prestazioni economiche in caso di eventi e bisogni del lavoratore: sono vere e proprie forme di retribuzione differita in funzione previdenziale. L’art. 2123 c.c. consente al datore di lavoro di farsi carico, accanto all’erogazione del t.f.r., di prestazioni sostitutive o integrative in caso di sospensione dell’attività lavorativa.Sono, inoltre, nati col passare del tempo e soprattutto con il ridimensionamento del sistema previdenziale pubblico per far fronte alla spesa pubblica, fondi pensionistici complementari: il lavoratore, oggi, nel termine di 6 mesi dall’assunzione, può scegliere se destinare il proprio t.f.r. a fondi pensione complementari, istituiti dalle stesse imprese o da altre imprese private, rinunciando così alla totalità dell’ammontare del t.f.r. o ad una percentuale dello stesso, per poter godere, una volta cessato il rapporto di lavoro, oltre che della propria pensione anche di una pensione integrativa. Ciò può essere realizzato non solo tramite il t.f.r., ma anche tramite pagamenti dello stesso lavoratore a favore di tali fondi: il lavoratore, infatti, può liberamente scegliere di lasciare il t.f.r. al suo posto, godendone alla cessazione del rapporto di lavoro e senza destinarlo a fondi pensionistici complementari, ma partecipando tramite il proprio apporto individuale a fondi pensionistici alternativi. Va sottolineato che il termine di 6 mesi è abbastanza importante: in assenza di una dichiarazione espressa del lavoratore, il t.f.r. verrà automaticamente destinato alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi, oppure a quella alla quale l’azienda abbia aderito con il maggior numero di lavoratori, o in mancanza di accordo tra le parti e di una forma pensionistica collettiva, ad una forma pensionistica complementare presso l’INPS.La L.296/2006 (finanziaria 2007) ha previsto che il lavoratore debba scegliere se destinare il TFR ad una forma di previdenza complementare o lasciarlo presso il datore di lavoro entro 6 mesi dall’assunzione. Qualora non effettui alcuna scelta, esso convoglierà inevitabilmente presso la forma pensionistica collettiva. Tra l’altro, qualora l’azienda abbia più di 50 dipendenti, il datore di lavoro dovrà trasferire il TFR maturando lasciatogli dal lavoratore ad un fondo apposito dell’INPS.

CAPITOLO VIII: Garanzie dei diritti dei lavoratori

Il sistema delle garanzie dei diritti del prestatore di lavoroPer “garanzia”, sia essa costituzionale, giurisdizionale o patrimoniale, s’intende un rafforzamento della tutela dei diritti del lavoratore, già protetto all’interno dell’ordinamento perché meritevoledi tutela. I diritti dei lavoratori, in particolare, sono circondati da una serie di norme poste a garanzia di tali diritti e che godono di inderogabilità, non potendo l’autonomia privata, in alcun modo, discostarsene.Accanto alle garanzie di tipo satisfattivo (funzione alimentare della retribuzione come da art.36 Cost.) troviamo anche la tutela del contraente debole (il concetto di “debolezza” è basilare, perché vi si fa sempre riferimento: è la ratio di moltissimi articoli) e dell’effettiva godibilità della retribuzione stessa.

Sez. A: Le garanzie del credito e dei diritti del lavoratoreGaranzia generale patrimoniale e cause legittime di prelazione; l’azione di rivalsa; il privilegio

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generale sui mobili.Partiamo, nell’analisi delle garanzie poste a tutela dei lavoratori, da quelle inerenti il diritto di credito che il lavoratore vanta nei confronti del datore di lavoro.L’art. 2740 c.c., in tema di responsabilità, prevede che il debitore risponda dell’adempimento dell’obbligazione con tutti i suoi beni presenti e futuri. Quindi il datore di lavoro può arrivare a rispondere con i suoi beni dell’obbligazione nei confronti dei lavoratori.L’art. 2741 c.c. al 2° co. prevede che siano cause legittime di prelazione, per cui quindi alcuni creditori si possano rifare prima degli altri sul debitore, il privilegio, il pegno e l’ipoteca. Il prestatore di lavoro può vantare, nei confronti del datore di lavoro, un privilegio in considerazione della causa del credito: in particolare si tratta di un privilegio generalesui mobilidel debitore (il datore di lavoro) disposto dall’art. 2751 bis c.c., il quale prevede che tale privilegio gravi sui beni mobili in funzione delle “retribuzioni dovute ai lavoratori subordinati, delle indennità dovute per effetto della cessazione del rapporto lavorativo, dei danni conseguenti alla mancata corresponsione di contributi previdenziali ed assicurativi, nonché del risarcimento del danno subito per effetto di licenziamento inefficace, nullo o annullabile”.L’art. 2777 comma 2 c.c. prevede che tale privilegio sia secondo solo a quello per spese di giustizia. Ancora l’art. 2776 c.c. prevede che qualora i beni mobili siano insufficienti per soddisfare i relativi crediti privilegiati esistenti, ci si potrà rifare sui beni immobili del datore di lavoro, dando precedenza ai crediti relativi al t.f.r. ed all’indennità di mancato preavviso, in secundis ai crediti di lavoro, ed in ultima ipotesi ai crediti dello Stato e dei creditori chirografari (ricordiamo, quelli che non godono di prelazione).L’art. 1676 c.c. tutela, inoltre, il lavoratore, tramite un’azione diretta di rivalsa, nell’ipotesi di prestazione del lavoro a favore di un appaltatore: in tal caso il lavoratore potrà rifarsi anche sul committente nei limiti di quanto dovuto dallo stesso all’appaltatore. Tale tutela è stata rafforzata dall’introduzione della responsabilità solidale dell’appaltante e dell’appaltatore, entro il limite temporale di un anno dalla cessazione dell’appalto, per ciò che concerne i debiti retributivi e previdenziali: passato un anno continua ad applicarsi il solo art.1676 c.c.

Garanzia del TFR e degli altri crediti nelle procedure concorsualiLe norme suddette sui privilegi valgono anche in caso di fallimento e di altre procedure concorsuali.E’ previsto che in caso di esercizio provvisorio dell’attività d’impresa, i crediti maturati dai lavoratori siano considerati crediti di massa e pertanto collocati al primo posto nella distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo (c.d. prededuzione). Tuttavia, nella maggior parte dei casi l’attivo scaturito dalla liquidazione è insufficiente a sanare i debiti dell’impresa nei confronti dei lavoratori. In materia sono intervenute due direttive dell’Unione Europea (allora Comunità), e precisamente la 987/1980 e la 74/2002, le quali hanno previsto la tutela dei crediti di lavoro in tutte le ipotesi di procedure concorsuali. Per dare attuazione alla prima di queste direttive, la 987/1980, nel 1982 venne istituito un fondo di garanzia presso l’INPS, alimentato dal contributo delle aziende, il quale si sarebbe sostituito al datore di lavoro in caso d’insolvenza o di semplice inadempienza di quest’ultimo nella corresponsione del t.f.r.Dopo ben 10 anni trascorsi dall’emanazione della direttiva, lo Stato italiano non aveva ancora dato applicazione integrale al documento di matrice europea, non avendo previsto una tutela nell’ambito delle procedure concorsuali di tutti gli altri crediti di lavoro diversi dal t.f.r e pertanto venne condannato a rispondere dei danni derivanti dalla mancata attuazione della direttiva. In seguito venne emanata una disciplina apposita.

• Torniamo per il momento al primo intervento legislativo italiano, quello del 1982, inerente l’istituzione del Fondo di garanzia. Lo stesso legislatore ha inteso tutelare i lavoratori tanto in caso di insolvenza del datore di lavoro accertata in sede di procedura concorsuale, quanto in caso di inadempienza del datore di lavoro non assoggettabile a procedure concorsuali a norma dell’art.1 della legge fallimentare. Nella prima ipotesi il lavoratore, entro 15 giorni dal deposito dello stato passivo o dalla sentenza di omologazione del concordato preventivo, può far domanda per il pagamento

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del t.f.r. da parte del Fondo. Nella seconda ipotesi, invece, il lavoratore è tenuto prima ad esperire l’esecuzione forzata e solo nel caso in cui essa risulti insufficiente per l’erogazione del t.f.r., può rivolgersi al Fondo. In ogni caso il Fondo di garanzia deve eseguire il pagamento entro 60 giorni dalla richiesta, surrogandosi nella posizione di creditore privilegiato del lavoratore.• Per quanto concerne il secondo intervento legislativo italiano di completa attuazione della direttiva 287/1980, possiamo dire esso si è avuto con il D.lgs. 80/1992, il quale ha previsto che il Fondo di garanzia si occupi, anche, degli altri crediti da lavoro spettanti ai prestatori, nel limite però relativi agli ultimi 3 mesi di rapporto di lavoro ed entro un massimale predeterminato. Il lavoratore, per questi crediti, può chiedere l’intervento del Fondo in tutti i casi di procedure concorsuali. Qualora il datore non sia assoggettato alle stesse in previsione della legge fallimentare, occorrerà, come abbiamo visto per il t.f.r., l’insufficienza dell’esecuzione forzata per potersi rivolgere al Fondo. Gli “ultimi tre mesi” vanno calcolati o dalla data del provvedimento di apertura della procedura concorsuale, o dalla data d’inizio dell’esecuzione forzata, o dalla data di cessazione del rapporto lavorativo, o dalla data di cessazione dell’esercizio provvisorio o di messa in liquidazione dell’impresa. La garanzia offerta dal Fondo si prescrive entro un anno ed il pagamento non è cumulabile con il trattamento di CIG fruito nei 12 mesi precedenti la procedura concorsuali, né tanto meno è cumulabile con l’indennità di mobilità corrisposto nei 3 mesi successivi alla risoluzione del rapporto di lavoro.• La nuova direttiva 75/2002, invece, ha previsto una tutela a favore dei lavoratori le cui imprese siano presenti in 2 Stati europei differenti e costituite nello Stato diverso da quello di appartenenza del lavoratore.

I vincoli alla destinazione del creditoIl credito che il lavoratore vanta in forza della propria attività lavorativa non è tutelato dalla legge solo nei confronti del debitore, per cui abbiamo visto le cause di prelazione, ma anche nei confronti dei creditori del lavoratore: gravano, sul credito da lavoro subordinato, dei vincoli alla destinazione. La legge stabilisce l’assoluta indisponibilità degli assegni familiari, i quali però hanno carattere previdenziale e non retributivo, mentre le somme dovute al lavoratore a titolo di retribuzione o altre indennità derivanti dal rapporto di lavoro possono essere pignorate, sequestrate e soggette a compensazione o cessione di credito nella misura di un quinto (molto spesso si sente parlare della cessione del quinto dello stipendio: è proprio a questa misura che si fa riferimento; il lavoratore vincola un quinto della sua retribuzione per aver accesso a prodotti finanziari).Anche i fondi speciali di previdenza, predisposti dall’imprenditore a favore dei lavoratori, sono vincolati nella loro destinazione, costituendo patrimonio separato sul quale i creditori non possono rifarsi.

Tutela dei crediti nel trasferimento d’aziendaUn’ulteriore forma di garanzia dei crediti, accanto ai vincoli alla destinazione ed alle cause di prelazione, è quella offerta dall’art. 2112 c.c., il quale va a disciplinare gli effetti del trasferimento d’azienda sui rapporti di lavoro, tutelando l’interesse non solo ai diritti di credito dei lavoratori, ma anche alla conservazione del posto di lavoro.Il trasferimento d’azienda è stato oggetto di ben 3 direttive europee, la 77/187, la 98/50 ed infine laDirettiva 2001/23. L’Italia, come spesso avviene, è risultata inottemperante all’adeguamento dell’ordinamento interno ed all’attuazione della direttiva 77/187. Infatti, l’art. 2112 originariamente trascurava la conservazione dell’occupazione e la consultazione sindacale. Si è, quindi, proceduto all’adeguamento mediante l’ art. 47 della legge del ’90 n° 428, riscrivendo i primi tre commi del 2112. Per eliminare gli ultimi contrasti con la direttiva il Governo ha emanato il D. Lgs. n° 18 del 2001, che ha modificato l’intero art. 2112 c.c. ed i primi 4 commi del 47.

Nozione di trasferimento d’azienda. Concetto di entità economica organizzata

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Per capire quale sia il campo di applicazione della disciplina legale che tutela i lavoratori, dobbiamo fornire una definizione di trasferimento d’azienda, contenuta principalmente all’interno dell’art. 2112 c.c. comma 5: per trasferimento d’azienda s’intende “qualsiasi operazione che, in seguito cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato, ivi compresi l’usufrutto o l’affitto d’azienda”.Rientrano, quindi, in tale definizione tutti i mutamenti della persona dell’imprenditore, purché persista un’attività economica organizzata.La seconda parte del comma 5 prevede, poi, che la disciplina in materia di trasferimento d’azienda si applichi altresì al “trasferimento di parte dell’azienda, intese come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”, e non precedentemente come invece pretendeva la prima parte del comma in questione. Ciò è stato previsto per garantire la cessione di parti d’azienda prive di una propria autonomia funzionale prima del trasferimento.Per la Corte di giustizia dell’Unione Europea, inoltre, si considera trasferimento d’azienda anche il semplice mutamento di soggetti nello svolgimento di un’attività, senza che sia necessario il trasferimento di elementi patrimoniali materiali o immateriali. Per uniformare il diritto comunitario, il legislatore europeo ha dovuto emanare la direttiva 98/50, per fare in modo che quanto previsto dalla Corte di giustizia fosse inglobato anche nel testo della vecchia direttiva 77/187.Uno degli interventi legislativi italiani in materia, il D.Lgs. 276/2003, ha previsto che l’acquisizione di personale già impiegato in un appalto, a seguito del subentro di un nuovo appaltatore, non sia daconsiderarsi come trasferimento d’azienda o di parte di essa. Il testo di tale decreto sembrerebbe incontrasto con l’interpretazione della Corte di Giustizia e con la direttiva comunitaria che ne ha recepito il volere, a meno che non si interpreti in senso limitativo il disposto del legislatore italiano, ossia nel senso che il mero trasferimento di personale non possa essere considerato come integrante la fattispecie del trasferimento di un’attività economica organizzata.

Principio della continuità del rapporto di lavoro e cessione di parti o fasi dell’attività produttivaUno degli interessi principali del lavoratore in caso di trasferimento d’azienda è la tutela delle posizioni individuali, senza tra l’altro mutamenti nelle proprie condizioni lavorative. L’aspetto più rilevante di questa tutela è costituito dal principio dell’automatica continuazione dei rapporti di lavoro con il cessionario e della conservazione dei diritti maturati dal lavoratore (art. 2112 c.c.). Tale principio trova conferma e rafforzamento nel 4° co., secondo cui il trasferimento non costituisce di per sé valido motivo di licenziamento; anche se, per converso, va notato che la stessa norma riconosce tanto al cedente che al cessionario la facoltà di procedere ad eventuali licenziamenti nel rispetto della disciplina legale e collettiva in materia. Confrontando questa disciplina con quella dettata in generale dall’art. 2558 c.c., in tema di successione nei contratti in caso di cessione d’azienda, va osservato che mentre quest’ultimo prevede il subentro dell’acquirente in tutti i contratti dell’alienante, salvo patto contrario con lo stesso alienante, nell’art. 2112 c.c. la successione nel contratto di lavoro è un effetto necessario, ancorché sia poi possibile il recesso giustificato del cedente. Inoltre, dall’art. 2112, 1° co., c.c. che stabilisce l’automatico trasferimento dei contratti di lavoro al cessionario, si deduce che, ai fini dell’effetto traslativo, non è richiesto il consenso del lavoratore e che egli non ha la facoltà di opporsi al trasferimento del proprio contratto, salvo che non si dimetta con preavviso, ai sensi dell’art 2118, 1° co., c.c. Diversamente, egli potrà utilizzare la previsione dello stesso art 2112, 4° co., in base al quale ove il lavoratore, nei tre mesi successivi al trasferimento, subisca una sostanziale modifica delle condizioni di lavoro, “può rassegnare le proprie dimissioni” per giusta causa, avendo così diritto all’indennità di mancato preavviso.La tutela apprestata dall’art. 2112 c.c. è però vantaggiosa solo nel caso di trasferimento totale dell’azienda, mentre in caso di trasferimento di parti autonomamente o meno funzionali, i lavoratori potrebbero trovarsi dinanzi a contratti collettivi meno favorevoli o alla mancata

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attuazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori per evidenti limiti dimensionali e quindi alla mancanza di applicazione della tutela reale.

Tutela individuale e collettiva del lavoratore nel trasferimento. Trasferimento d’azienda in caso di procedure concorsuali e crisi aziendaliA tutela del lavoratore l’art. 2112, comma 2, c.c. prevede la solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti vantati dal lavoratore al momento del trasferimento: il cedente, quindi, rimane obbligato insieme al cessionario, solidalmente appunto, per il pagamento degli stessi, salvo liberazione del cedente tramite procedure conciliative. Se tra cedente e cessionario, inoltre, è previsto un contratto d’appalto a seguito del trasferimento d’azienda, per i trattamenti retributivi e contributivi è prevista la responsabilità solidale dell’alienante e dell’acquirente per il periodo di un anno dalla cessazione dell’appalto.I lavoratori, inoltre, in seguito al trasferimento dell’azienda, devono conservare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, aziendali e territoriali goduti al momento del trasferimento.Per quanto riguarda la consultazione sindacale, che tutela collettivamente i lavoratori, l’art. 47 della L.428/1990 prevede che sia cedente che cessionario, se l’azienda di cui si vuole perfezionare il trasferimento ha più di 15 dipendenti, devono comunicare in forma scritta la volontà di addivenire ad una cessione alle r.s.u. o r.s.a. o comunque ai sindacati di categoria, almeno 25 giorni prima della conclusione dell’atto di trasferimento, inserendo tutte le informazioni inerenti i motivi del trasferimento e le conseguenze economiche, giuridiche e sociali per i lavoratori. Entro 7 giorni le rappresentanze sindacali possono far richiesta di un “esame congiunto della situazione” ed il cedente ed il cessionario dovranno provvedervi entro 7 giorni dalla richiesta. L’accordo dovrà essere raggiunto entro 10 giorni, altrimenti l’esame congiunto si riterrà esaurito. La violazione degli obblighi fin qui previsti viene considerata come condotta antisindacale.

Il trasferimento d’azienda nei casi di procedure concorsuali e di crisi aziendaliQualora si tratti di azienda in crisi o sottoposta a procedura concorsuali, impossibilitata nella continuazione dell’esercizio di un’attività economica organizzata, la legge favorisce il trasferimento d’azienda, anche qualora questo porti ad una conservazione parziale dell’occupazione. I lavoratori licenziati avranno diritto di precedenza nelle assunzioni fatte entro un anno dall’acquirente dell’azienda, essendo inoperante per essi, come per i lavoratori non licenziati, l’art. 2112 c.c., ossia il diritto al mantenimento dei diritti precedenti al trasferimento d’azienda.

Sez. B: Le rinunzie e le transazioni. La certificazioneCompressione della facoltà di disposizione dei diritti del prestatore di lavoroE’ facile immaginare come un lavoratore, al quale norme inderogabili contenute in leggi o in contratti collettivi attribuiscano dei diritti, possa essere portato a privarsene tramite una compressione, o addirittura tramite una soppressione, della propria facoltà di disposizione. La compressione o soppressione di tale facoltà può essere può essere resa necessaria dall’esigenza di tutelare o un interesse pubblico in ipotesi contrastante con l’interesse del titolare del diritto soggettivo, oppure un interesse privato del titolare stesso, la cui volontà può palesarsi inidonea alla valutazione o insufficiente alla realizzazione dell’interesse medesimo. La seconda ipotesi ricorre nel rapporto di lavoro: considerata la tipica situazione di debolezza del lavoratore, conseguente alla minorazione del suo potere contrattuale, i suoi atti di disposizione dei diritti riconosciutigli dall’ordinamento possono rappresentare un fenomeno di reazione, tendente all’elusione dei limiti imposti all’autonomia negoziale ed alla violazione delle corrispondenti norme imperative. Di qui la disciplina dettata dall’art. 2113 c.c., novellato dalla L.533/1973 sulla riforma del processo di lavoro, il quale prevede l’invalidità delle rinunzie e delle transazioni del lavoratorein tali casi.

Origini della limitazione della facoltà di disposizione, l’originario 2113 c.c. e la riforma del 1973La tutela del lavoratore per quanto concerne la limitazione della facoltà di disposizione, in origine partiva dal fatto che la volontà del lavoratore, nel porre in essere una rinunzia od una transazione,

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fosse viziata da un timore reverenziale, assimilabile ad una violenza morale, del lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro. Ciò portò ad una distinzione tra i negozi di disposizione antecedenti o susseguenti alla cessazione del rapporto di lavoro, ritenendo invalidi i primi e validi i secondi.Il codice civile accolse quanto appena detto solo parzialmente all’interno dell’art.2113, in quanto equiparò i negozi di disposizione antecedenti e successivi alla cessazione del rapporto di lavoro, ma fissò un termine di tre mesi (dal negozio o dalla cessazione) entro il quale proporre la domanda giudiziale di annullamento del negozio di disposizione. In un certo senso, quindi, partendo dalla cessazione del rapporto di lavoro, i negozi successivi sarebbero risultati invalidi, mentre quelli precedenti, qualora fossero trascorsi i tre mesi, sarebbero rimasti validi.Il nuovo testo dell’art.2113 c.c., come novellato dalla L.533/1973, ha semplicemente prolungato il termine per l’impugnazione da 3 a 6 mesi, rendendo la stessa stragiudiziale e non giudiziale. La norma è stata, inoltre, estesa ai lavoratori autonomi la cui opera prevalentemente personale abbia carattere continuativo e coordinato all’impresa del datore di lavoro.

Invalidità delle rinunzie e transazioni del lavoratoreL’art.2113, 1° co., c.c. dispone che siano invalide le rinunzie e le transazioni diritti del prestatore di lavoro derivanti da norme inderogabili di legge o da contratti/accordi collettivi concernenti rapporti di lavoro subordinato o autonomo ed associato. Sono, quindi, esclusi i casi di lavoratori autonomi titolari d’impresa o che abbiano con l’impresa un rapporto discontinuo.L’invalidità può essere fatta valere tramite impugnazione anche stragiudiziale per iscritto: si tratta di un negozio unilaterale recettizio, in quanto la comunicazione della volontà di non dare effetto alla rinunzia od alla transazione deve pervenire al datore di lavoro, entro il termine di 6 mesi dalla cessazione del rapporto o dal negozio dispositivo, in caso di atto successivo alla cessazione. Tuttavia dovrà sempre essere un giudice con sentenza costitutiva ad accertare l’invalidità dell’atto, in quanto esso si configura come annullabile e non come nullo, con tutte le conseguenze del caso. L’azione si prescrive in 5 anni dalla data d’impugnazione stragiudiziale, che rimane presupposto della suddetta azione giudiziaria. I termini previsti tutelano tanto il lavoratore, quanto il datore di lavoro.

Inderogabilità delle norme di legge e dei contratti collettivi e limiti all’autonomia dispositiva dellavoratoreLa ratio dell’art.2113 c.c. non è da ricercare nella volontà del legislatore di privare totalmente il lavoratore del potere di disposizione dei propri diritti, bensì nella volontà di aiutare una categoria socialmente sottoprotetta come quella dei prestatori di lavoro. Il lavoratore, infatti, non può disporre dei diritti a lui attribuiti oltre certi limiti previsti dall’ordinamento: oltre quindi il minimo inderogabile di trattamento economico e normativo. Inoltre lo stesso art.2113 comma 4 del codice, prevede che siano valide le rinunzie e le transazioni avvenute in sede di conciliazione delle controversie individuali, in cui la disposizione dei diritti avviene con l’assistenza dell’organo conciliatore. Ad esse, inoltre, sono equiparate le sedi di certificazione, introdotte dal D.Lgs. 276/2003 secondo cui “le sedi di certificazione…sono competenti altresì a certificare le rinunzie e transazioni di cui all’art. 2113 del c.c. a conferma della volontà abdicativa o transattiva delle parti stesse”, così equiparando gli organi di certificazione a quelli preposti alla conciliazione stragiudiziale. Tutto ciò dimostra come non ci sia una carenza del potere di disposizione del lavoratore inerente i propri diritti, bensì una limitazione di tale potere nel suo stesso interesse.In conclusione, l’art. 2113 riprende il principio dell’inderogabilità dei contratti collettivi. Non potendo rinunciare a propri diritti, il lavoratore vede rafforzato un suo interesse, rappresentato da un minimo inderogabile di trattamento. (Le disposizioni degli artt. 1418-1419-2113 non hanno fondamento, tuttavia, nell’incapacità di agire del prestatore). Per ciò che concerne le transazioni collettive poste in essere dai sindacati, esse necessitano della ratifica dei lavoratori coinvolti, in quanto devono essere manifestazione del volere del lavoratore.

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Le quietanze a saldo e la rinuncia tacitaDiamo ora una definizione di rinunzia e di transazione.In generale, la rinunzia è un negozio unilaterale recettizio tendente alla dismissione, da parte del titolare, di un diritto soggettivo; mentre la transazione (art.1965 c.c.) è un contratto mediante il quale le parti, tramite reciproche concessioni, prevengono o risolvono una lite. La transazione, in realtà, può ben celare una rinunzia: è per tal motivo che l’art.2113 c.c. accomuna i due casi. In una lite esistente o nella prevenzione di una eventuale, infatti, il peso specifico del lavoratore è di gran lunga inferiore a quello del datore di lavoro, il che potrebbe portare alla realizzazione di pretese del datore di lavoro, più che a concessioni reciproche proprie della transazione.Particolare è il caso delle quietanze a saldo o quietanze liberatorie, ossia dichiarazioni rilasciate dal lavoratore con cui egli asserisce, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, di aver ricevuto alcunché, con l’ulteriore esplicita dichiarazione di rinuncia ad ogni eventuale futura pretesa.Esse sono semplici dichiarazioni di scienza, non idonee a dar luogo ad un negozio giuridico.Altra ipotesi meritevole di attenzione è quella della rinunzia tacita, ossia della possibilità di ravvisare nel comportamento del lavoratore una manifestazione indiretta della volontà negoziale di dismettere un proprio diritto. Per i negozi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro, una simile ipotesi è impossibile, in quanto il termine di decadenza decorre dalla data del negozio, e quindi implicitamente è richiesta la forma scritta. Per le transazioni, addirittura, è lo stesso art.1965 c.c. a richiedere ad probationem la forma scritta. Per i rapporti in corso, invece, è ritenuta insufficiente la mera inerzia o tolleranza del lavoratore per manifestare la dismissione di un proprio diritto.

CertificazioneIl D.Lgs. n.276/2003 ha introdotto l’istituto della certificazione che dovrebbe rappresentare un sostegno del c.d. potere di auto qualificazione delle parti e, quindi, di prevenzione del contenzioso e di certezza in ordine alla tipologia negoziale prescelta dalle parti. Si tratta della certificazione del contratti di lavoro, che nelle intenzioni del legislatore dovrebbe rappresentare uno strumento a disposizione delle parti per rendere trasparente la “zona grigia” tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. La certificazione ha quindi lo scopo di ridurre il contenzioso in materia di lavoro. La certificazione, inoltre, è quello strumento finalizzato all’identificazione degli effetti del contratto ed alla sua qualificazione a stregua delle c.d. tipologie di rapporto previste: le parti hanno l’onere di indicare sull’istanza quali effetti civili, amministrativi, previdenziali o fiscali intendono far accertare. Gli effetti della certificazione permangono non solo tra le parti, ma anche verso terzi (istituti previdenziali, autorità pubbliche in genere ecc.).Vi è poi l’individuazione degli organi competenti alla certificazione dei contratti di lavoro: commissioni istituite presso Direzioni provinciali del lavoro, Università, Province, Direzione generale della tutela delle condizioni di lavoro del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, enti bilaterali (organismi costituiti grazie ad una o più associazioni dei prestatori di lavoro, soggetti quindi creati dall’autonomia collettiva).Le commissioni di certificazione svolgono, poi, un ruolo di consulenza ed assistenza delle parti, sia in fase di attuazione del rapporto di lavoro, sia in fase di stipulazione, per la determinazione di obblighi e diritti futuri tra le parti. Il Ministro del lavoro ha, inoltre, il compito di stabilire con proprio decreto “codici di buone pratiche” per individuare quali siano clausole indisponibili inerenti trattamenti economici e normativi da accertare in face di certificazione.Per contestare la certificazione occorre un ricorso al giudice del lavoro, dopo aver esperito tra l’altro un tentativo obbligatorio di conciliazione dinanzi alla stessa commissione di certificazione. L’atto di certificazione può, inoltre, essere impugnato per violazione procedurale o per eccesso di potere dei soggetti legittimati al ricorso ordinario.

Sez. C: Prescrizione e decadenzaLa prescrizione dei diritti dei lavoratoriIn linee generali, i diritti del prestatore di lavoro (crediti retributivi) sono soggetti alla prescrizione quinquennale disposta dall’art. 2948 c.c., consistendo in un pagamento periodico ad anno o in termini più brevi e non alla prescrizione ordinaria decennale.

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Tuttavia, ad essa sono riconducibili tutti quei diritti diversi dalla retribuzione (diritto alla qualifica superiore, risarcimento del danno contrattuale, risarcimento per mancato versamento dei contributi assicurativi che decorre dalla perdita della prestazione previdenziale e non dall’inadempimento).La prescrizione, è appena il caso di ricordarlo, non può riguardare diritti indisponibili della persona, e quindi anche del lavoratore, quali quello all’integrità fisica ed alla sicurezza del lavoro.Diversa dalla prescrizione estintiva di diritti (di cui abbiamo appena parlato) è la prescrizione presuntiva, la quale ammette prova contraria, sebbene solo tramite confessione giudiziale o giuramento decisorio, fornita dalla controparte del pagamento del debito. Essa è di un anno per il diritto dei prestatori a retribuzioni corrisposte a periodi non superiori ad un mese ed a tre anni per quelle corrisposte a periodi di oltre un mese.Condizione necessaria per il decorso del periodo di prescrizione è l’inerzia del titolare del diritto per il tempo previsto dalla legge. Il regime della prescrizione è inderogabile, oltre che irrinunciabile: da ciò si desume che il tempo previsto per legge sia condizione necessaria e sufficiente perché il debitore acquisisca il diritto del creditore.L’effetto estintivo della prescrizione è in qualche modo accomunabile all’effetto dismissivo della rinunzia e della transazione di cui all’art.2113 c.c.

La decadenza. Le clausole di decadenza dei contratti collettiviLa decadenza, disciplinata dall’art.2964 c.c., prende anch’essa, al pari della prescrizione, in considerazione il decorso del tempo ed in tal caso l’esercizio di un diritto viene sottoposto ad un termine perentorio.Diversamente dalla prescrizione, però, essa non produce la perdita del diritto a favore di un diverso titolare, ma semplicemente la preclusione dall’esercizio del diritto.Essa può essere tanto legale, quanto contrattuale, ossia apposta dalla legge o dall’autonomia delle parti. E’, infatti, molto diffusa nei contratti collettivi, specie in tema di instaurazione delle controversie di lavoro.

L’intervento della Corte costituzionale in materia di prescrizionePrescrizione e decadenza, secondo quanto abbiamo detto, producendo la perdita o la preclusione dell’esercizio del diritto, di fatto realizzano quanto previsto dalla rinunzia o dalla transazione: il lavoratore perde una situazione di vantaggio, un vero e proprio diritto soggettivo. Questo avrebbe dovuto portare, secondo una parte della dottrina, a decretare l’imprescrittibilità e l’indisponibilità dei diritti del prestatore di lavoro. La giurisprudenza della Corte Costituzionale si è assunta il compito di trasferire queste opinioni sul piano del diritto positivo, rendendo esplicito il principio della disponibilità limitata dei diritti del lavoratore. Su questa linea, la Corte costituzionale, con la sentenza 63/1966, è intervenuta in materia dichiarando l’illegittimità di alcuni articoli del codice (2948 n.4, 2955 n.2 e 2956 n.1) nella parte in cui prevedono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra in pendenza del rapporto di lavoro. Il diritto alla retribuzione è un diritto costituzionalmente garantito, al pari della situazione soggettiva di sottoprotezione sociale del lavoratore, il quale, nel timore di un eventuale licenziamento, potrebbe non agire, rimanendo così inerte, per far valere il proprio diritto alla retribuzione. A fondamento della pronuncia, la Corte costituzionale ha richiamato l’art. 36 Cost. in materia di retribuzione: oltre alla garanzia della retribuzione proporzionata e sufficiente, è enunciato il principio dell’irrinunciabilità del diritto di credito alla retribuzione durante il rapporto di lavoro.La Corte ha, inoltre, previsto il differimento del termine per la prescrizione alla fine del rapporto : solo da quel momento acquista rilievo l’inerzia del prestatore.Stessa cosa vale per la decadenza.Si tratta di un vero e proprio esempio di giurisprudenza creativa ed innovativa, configurandosi la suddetta sentenza come “manipolativa di illegittimità parziale”.

Giurisprudenza costituzionale in tema di prescrizione dopo il 1966Nelle pronunce successive a quella del 1966, la Corte costituzionale è tornata sui suoi passi, sostenendo che con l’art.18 dello Statuto dei lavoratori, la resistenza al licenziamento è divenuta più forte, rendendo così inutile il mancato decorso della prescrizione in pendenza del rapporto di

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lavoro, decisa nella sentenza 63 proprio in ragione del timore di licenziamento del lavoratore. La Corte è stata criticata ampiamente dalla dottrina, per non aver tenuto conto che il datore di lavoro può manifestare la propria posizione di strapotere nei confronti del lavoratore anche tramite vie diverse dal licenziamento. La Corte, comunque, interrogata svariate volte sulla questione, è rimasta ferma al pensiero che la prescrizione possa decorrere anche durante il rapporto di lavoro “stabile”, ridando vita così ad una norma dapprima ritenuta estranea all’ordinamento:prevede la reintegrazione come rimedio al licenziamento ingiustificato.La prescrizione, quindi, non decorre durante il rapporto di lavoro solo nei casi di libera recedibilità o nei rapporti tutelati da stabilità obbligatoria.

Sez. D: La tutela giurisdizionale differenziata del lavoratoreLa disciplina processuale delle controversie di lavoroPassando alle garanzie di tipo strumentale e cioè concernenti l’attuazione dei diritti del prestatore di lavoro, va detto che il sistema delle garanzie sostanziali dei diritti del prestatore di lavoro trova il suo naturale completamento nella speciale disciplina delle controversie individuali di lavoro. Tale disciplina è stata progressivamente elaborata dal legislatore in funzione dell’inderogabilità tipica del regolamento del rapporto di lavoro. Di tal che il sistema delle norme relative alla composizione sia giudiziale che stragiudiziale o volontaria delle controversie di lavoro può essere considerata come la proiezione, sul piano della tecnica processuale e della giurisdizione.Questo spiega, la specialità caratteristica del processo del lavoro: dall’istituzione delle giurie dei probiviri alla prima legislazione processuale del 1928 e alla sua riforma del 1934, fino alla L. n.533/1973, la quale ha modificando il Titolo IV del Codice di procedura civile dedicato alle controversi di lavoro, modificando tutta la disciplina del processo di lavoro.La tutela giurisdizionale differenziata dei lavoratori subordinati è stata estesa ai lavoratori associati nei contratti agrari, nonché a quelli autonomi che svolgano un lavoro prettamente personale coordinato e continuato nei confronti di un’impresa: non si tratta di una parificazione, in questo ambito, dei lavoratori subordinati e di quelli autonomi, ma semplicemente di un’eguale tutela dei lavoratori autonomi in posizione di subordinazione, la c.d. parasubordinazione.In secondo luogo, le controversie di lavoro vengono decise da un giudice monocratico del Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, il quale, essendo necessaria l’osservazione dei principi dell’ immediatezza (tempi più brevi del processo), della concentrazione (difese precise ed indicazione dei mezzi di prova sin dall’inizio del processo) e dell’oralità (interrogatorio delle parti e discussione orale), risolve la controversia all’interno di un’unica udienza, pronunciando la sentenza al termine della stessa e leggendone il dispositivo. Solo nel caso in cui sia necessaria la risoluzione di una questione inerente l’efficacia, la validità o l’interpretazione di clausole apposte in un contratto collettivo, il giudice deve sospendere l’udienza e decidere con sentenza su tale questione, contro la quale si può ricorrere in Cassazione nel termine di 60 giorni, attendendo in tal caso la pronuncia della Corte.Non meno interessanti sono le peculiarità della speciale disciplina delle controversie di lavoro per ciò che concerne le garanzie attinenti all’attuazione concreta dei diritti del lavoratore.Al riguardo tre sono le garanzie che accompagnano la tutela dei diritti e, in particolare, del credito di retribuzione.

• In primo luogo, va ricordata la norma dell’art.432 c.p.c. relativa alla valutazione equitativa dell’ammontare della prestazione dovuta; il giudice deve disporre la liquidazione quanto sia certo il diritto da cui essa nasce; • in secondo luogo, l’art 431, 1° co., c.p.c. dispone che la sentenza di condanna per i crediti di lavoro sia munita della clausola di provvisoria esecuzione; inoltre l’esecuzione forzata in favore del lavoratore può essere iniziata in forza del solo dispositivo della sentenza e può essere sospesa, su istanza di parte, qualora superi 258,23 euro se ciò apportasse un gravissimo danno alla parte soccombente; • in terzo luogo, l’art 429, 3° co., c.p.c. prevede, oltre al normale credito per gli interessi legali di mora in conseguenza del ritardato pagamento, il risarcimento del maggiore danno derivante dalla svalutazione monetaria dei crediti di lavoro: si ha un effetto non solo rafforzativo della tutela del credito di lavoro, ma anche punitivo dello stesso datore soccombente.

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Depenalizzazione delle sanzioni previste per violazione di norme di lavoro. Vigilanza ed ispezioniNegli anni 90 si è assistito ad un processo di depenalizzazione delle sanzioni per illeciti in materia di diritto del lavoro. La L.449/1993 ha conferito al Governo la delega ad emanare norme di riforma dell’apparato sanzionatorio in materia di lavoro, al fine di trasformare in illeciti amministrativi alcuni illeciti penali ritenuti non particolarmente gravi: la legge ha individuato le materie rispetto alle quali doveva operare la delega; ed il governo, con una serie di decreti legislativi, ha provveduto a darvi attuazione.Questo significa che l’ordinamento ha dato valutazione differente risoetto al passato dell’inosservanza delle norme in materia di lavoro. Esse viene configurata ormai in via normale, come un illecito di tipo amministrativo, quindi lesivo di interessi pubblici la cui tutela è affidata all’amministrazione, anche attraverso l’esercizio del relativo potere sanzionatorio. In altre parole, il legislatore ha ritenuto che sia ormai possibile promuovere l’osservanza di tali norme attraverso la previsione della mera sanzione amministrativa. Tuttavia si è conservata la sanzione penale per la repressione di quei comportamenti del datore di lavoro ritenuti particolarmente gravi e pericolosi per la salute del lavoratore, quali l’adibizione dei bambini e degli adolescenti a lavori pericolosi o insalubri; l’adibizione al lavoro delle gestanti e delle puerpere a lavori considerati nocivi. Sono quindi state sottratte alla depenalizzazione tutte quelle condotte che possono pregiudicare l’integrità psico-fisica del lavoratore. Il D.Lgs.124/2004 ha, poi, innovato la disciplina legislativa in materia di servizi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, garantendo una maggiore efficienza degli stessi (tramite una riorganizzazione territoriale) ed una maggiore efficacia dell’azione di vigilanza (revisione degli strumenti giuridici conferiti agli ispettori: prescrizione obbligatoria, ed in tal caso l’ispettore ha rilevato violazioni di carattere penale, punibile con l’arresto o l’ammenda, ma non sanabili, e diffida, prevista se l’ispettore, benché abbia rilevato delle violazioni, le ritenga sanabili). Particolare attenzione merita la procedura di conciliazione monocratica presso le Direzioni provinciali del lavoro collegata all’attività ispettiva. Con essa si giunge ad una soluzione conciliativa della controversia.

La composizione stragiudiziale delle controversie di lavoroPer garantire strumentalmente i diritti del prestatore di lavoro, è previsto che la composizionedelle controversie individuali possa avvenire sia informa giudiziale che stragiudiziale.Per quanto riguarda la conciliazione, essa può essere:

• giudiziale, ed in tal caso può essere tentata in ogni momento del processo dal giudice, il quale deve tentarla sin dall’inizio. Qualora venga raggiunta va redatto il processo verbale, che è considerato titolo esecutivo;• stragiudiziale, esperibile in sede sindacale, prevista dagli accordi collettivi, o in sede amministrativa, sempre per mezzo dei sindacati, dinanzi ad apposite commissione della Direzione provinciale del lavoro.

Inizialmente non era prevista l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione. La legge 108/1990 introdusse tale obbligatorietà per le sole ipotesi di tutela obbligatoria, imponendo il tentativo di conciliazione come presupposto necessario di procedibilità in giudizio della domanda di riassunzione del lavoratore ingiustamente licenziato. La privatizzazione del pubblico impiego portò all’applicazione della suddetta obbligatorietà anche nei confronti di coloro alle dipendenze delle pubbliche amministrazione. Infine nel 1998 venne introdotta per tutte le controversie di lavoro quale condizione necessaria di procedibilità della domanda giudiziale.Il D.Lgs. 276/2003 ha, inoltre, previsto che in caso di ricorso contro certificazione, debba essere esperito il tentativo di conciliazione obbligatorio dinanzi alla commissione che ha emesso l’atto di certificazione.Ulteriore strumento di tutela giurisdizionale del lavoratore è “l’arbitrato ”, istituto tramite il quale le parti deferiscono la decisione di una controversia ad un terzo. Tale deferimento può essere contenuto tanto in un compromesso, vero e proprio negozio di deferimento del potere decisorio, tanto in una clausola compromissoria appositamente apposta al contratto.

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Possiamo da subito attuare una distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale.• L’arbitrato rituale, la cui disciplina codicistica è stata modificata nel 2006, ha i medesimi effetti di una decisione giurisdizionale, non potendo, però, inerire a diritti indisponibili. In materia di controversie di lavoro, tra l’altro, il ricorso all’arbitrato rituale è possibile solo qualora sia previsto dalla legge o dai contratti collettivi, quindi anche il compromesso o la clausola compromissoria che lo prevedano devono essere inclini alle previsioni normative.In generale nell’arbitrato rituale la decisione degli arbitri può avvenire secondo diritto o secondo equità, qualora le parti abbiano previsto quest’ultima ipotesi: in materia di lavoro, però, è prevista la sola pronuncia secondo diritto. La decisione è incorporata nel “lodo”, il quale diviene equiparabile ad una sentenza tramite un’omologazione del giudice, il quale si attiene semplicemente ad un controllo di regolarità formale. Dinanzi alla Corte d’Appello è possibile impugnare il lodo per nullità, revocazione o per opposizione di un terzo ed è sempre ammessa, per le controversie di lavoro, l’impugnazione per violazione delle regole di diritto.• L’arbitrato irrituale (libero) quando le parti, sempre per mezzo di compromesso o clausola compromissoria, prevedano che un terzo (l’arbitro) si pronunci sulla controversia in via negoziale e non giurisdizionale, ossia per ciò che è attinente la natura e gli effetti del contratto. Anche l’arbitrato irrituale è possibile solo in caso di previsione legislativa (arbitrato irrituale legalmente nominato) o dei contratti collettivi, che devono, però, prevedere anche le norme procedurali per giungere al lodo, il quale è impugnabile dinanzi al giudice del lavoro, la cui decisione non sarà a sua volta impugnabile se non in Cassazione. Dopo 30 giorni dal lodo, salva accettazione preventiva delle parti per iscritto o rigetto del ricorso del tribunale, il lodo viene depositato presso la cancelleria del Tribunale e viene dichiarato esecutivo con decreto.

La sostanziale differenza tra arbitrato rituale ed irrituale la ritroviamo nel fatto che quello rituale può essere alternativo alla giurisdizione secondo una previsione vincolante in via preventiva delle parti.La riforma del ’98 modifica l’art. 412 c.p.c. ter e quater, che stabilisce che, esperito il tentativo di conciliazione e qualora gli accordi contrattuali lo prevedano, le parti possano rivolgersi agli arbitri affinché decidano in via negoziale. In materia di licenziamenti individuali, invece, è possibile anche l’arbitrato irrituale legalmente nominato, cioè consentito anche qualora non previsto da contratti ed accordi collettivi.

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CAPITOLO IX: I rapporti speciali di lavoro

Introduzione. La specialità come strumento di differenziazione della disciplina del rapporto per una specifica tutela del prestatore di lavoro.La previsione dei rapporti speciali di lavoro trae la sua giustificazione dall’esigenza di differenziare la disciplina del rapporto in relazione alle caratteristiche specifiche dell’attività lavorativa e alle concrete articolazioni della situazione di sottoprotezione sociale tipica del lavoratore subordinato. Infatti, l’obiettivo della tutela della posizione del prestatore di lavoro richiede unadattamento del modello di tutela: la realtà del lavoro subordinato si presenta come un universo differenziato per gruppi professionali e aggregati sociali. In linea generale questa esigenza viene avvertita e soddisfatta dallacontrattazione collettiva: al contratto collettivo compete la funzione di fissare il regolamento normativo-tipo del rapporto . Nei rapporti speciali di lavoro l’intervento legislatore è da ricollegare ad una valutazione di insufficienza o inadeguatezza della contrattazione collettiva o all’obiettivo di favorire la formazione professionale e l’occupazione. In conclusione, la specialità si atteggia come uno strumento di tecnica legislativa funzionale ad una articolazione della tutela del lavoratore. A fianco di questa ratio vi è la necessità di contemperare l’esigenza di tutela del lavoratore subordinato con altri interessi pubblici o collettivi ritenuti dal legislatore particolarmente rilevanti.

Sez. A: I rapporti speciali caratterizzati dalla tipicità degli interessi pubblici coinvolti.Il rapporto di lavoro dei marittimi e della gente dell’aria.Primo rapporto di lavoro speciale che esaminiamo è quello inerente il personale addetto alla navigazione marittima e della gente dell’aria. Tale rapporto è disciplinato all’interno del Codice di navigazione, fonte esclusiva della disciplina dell’intera materia nautica e quindi anche per ciò che concerne i rapporti di lavoro. La disciplina speciale dedicata a questa categoria di lavoratori è dovuta a ragioni di interesse pubblico riguardanti la sicurezza e la regolarità della navigazione, nonché la conservazione del patrimonio navigante. Per il personale marittimo l’assunzione deve avvenire tramite atto pubblico dinanzi all’autorità

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marittima per il contratto di arruolamento, mentre per il personale di volo occorre solo la forma scritta del contratto di lavoro. Inoltre entrambe le categorie di lavoratori sono iscritte in appositi albi e registri, dai quali si evince la propria idoneità al servizio o abilitazione professionale.L’inserzione del lavoratore nautico nella speciale organizzazione formata dall’equipaggio, giustificala sua sottoposizione al potere gerarchico del comandante e, prima ancora, dell’autorità pubblica. A questo affievolimento della tutela del lavoratore nautico fa riscontro la previsione di garanzie rafforzatrici della tutela dei diritti patrimoniali . Quest’ultimo, ad es. ha diritto alla retribuzione in ogni caso di sospensione del servizio per malattia o lesione; nel caso, poi, che il credito per le retribuzioni maturate sia rimasto insoddisfatto, egli ha diritto al mantenimento a bordo della nave, con la prosecuzione della stessa retribuzione, fino all’integrale soddisfazione; inoltre i suoi crediti sono assistiti da privilegio speciale sulla nave o sull’aeromobile, e nel loro caso la prescrizione non può decorrere in costanza del rapporto di lavoro. La specialità del rapporto di lavoro nautico trae il suo fondamento nel Codice della navigazione, riconosciuto quale fonte esclusiva dell’intera materia nautica. E’ prevista, inoltre, per queste due categorie speciali di lavoratori, una deroga all’applicabilità della L.300/1970 (statuto dei lavoratori), la quale afferma che pur essendo prevista un’applicazione generale dello Statuto, si rinvia alla contrattazione collettiva in materia (principio di cui è stato ridotto il rilievo dalla Corte costituzionale in materia di licenziamento e sanzioni disciplinari).L’enunciato afferma il diritto del lavoratore nautico alla tutela della sua posizione nell’impresa e ne lascia scoperta la concreta attuazione di fronte a tutta una serie di ipotesi. Al riguardo tuttavia la Corte Costituzionale ha ridotto il rilievo del predetto rinvio alla contrattazione collettiva, escludendone l’operatività in materia di licenziamento e di sanzioni disciplinari.Per quanti riguarda le controversie di lavoro della gente di mare, queste sono devolute alla competenza esclusiva del giudice del lavoro.

I l pubblico impiego. Le sue origini storiche.Un altro esempio di rapporti di lavoro speciale ci viene offerto da quei particolari rapporti che intercorrono tra le amministrazione pubbliche (prima fra tutte lo Stato, nonché gli enti territoriali) ed un prestatore di lavoro e che era definito “rapporto di pubblico impiego” fino agli anni 90. Originariamente tale figura nacque per disciplinare il lavoro dei c.d. funzionari, i quali rappresentavano l’amministrazione pubblica e dipendevano dal potere politico. L’impiegato pubblico intratteneva con l’amministrazione un duplice rapporto:

• uno organico, o d’ufficio, in base al quale egli era legittimato ad esercitare i poteri connessi al proprio ufficio, • uno di servizio, dal quale dipendevano diritti ed obblighi tanto dell’amministrazione, quanto del lavoratore.

Il rapporto organico, tuttavia, prevaleva notevolmente su quello di servizio, tanto che la materia era disciplinata dal diritto pubblico amministrativo, il quale imprimeva al rapporto una supremazia ed un carattere autoritario da cui scaturivano diverse conseguenze:

• il rapporto non si costituiva con il contratto, ma nasceva daun atto unilaterale dell’amministrazione pubblica (provvedimento di nomina) e ciò imprimeva sin dall’origine al rapporto un carattere autoritario;• il rapporto era interamente disciplinato da leggi e regolamenti ed era gestito mediante l’emanazione di atti amministrativi sia per l’assunzione, sia per ogni altra vicenda modificativa, che per l’estinzione;• la subordinazione era gerarchica e non meramente tecnico – funzionale, cioè connessa con la struttura gerarchica degli uffici nei quali si articola l’organizzazione degli apparati amministrativi;

Tale configurazione, col tempo, ha riguardato sempre più soggetti non investiti di una pubblica funzione (come invece avveniva per i funzionari) e si applicava anche ai dipendenti di “enti pubblici economici”, ossia enti che svolgevano un’attività d’impresa in settori in seguito privatizzati (poste, banche, energia).Solo negli anni 70 la situazione è mutata, coinvolgendo anche l’operato dei sindacati ed

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attribuendo rilevanza all’autonomia collettiva.La L.93/1983, definita come legge-quadro sul pubblico impiego, ha stravolto la materia, distinguendo il pubblico impiego dal lavoro privato, ma avvicinando notevolmente le due categorie: essa ha sia favorito l’omogeneizzazione delle posizione giuridiche, la perequazione e trasparenza dei trattamenti economici l’efficienza amministrativa del personale pubblico, sia avvicinato nei contenuti la normativa dei rapporti di impiego pubblico a quella del lavoro privato. In particolare aveva previsto l’inserimento sistematico dell’accordo sindacale.

Le varie fasi della riforme del pubblico impiego e la contrattualizzazione del rapporto.La tendenza verso il superamento della divisione del lavoro pubblico da quello privato, è all’origine della delega conferita al Governo dall’art. 2, L. 23 ottobre 1992, n. 421, per l’emanazione di disposizioni volte a ricondurre sotto la disciplina del diritto civile i rapporti di lavoro pubblico ad eccezione di quelli relativi ad alcune categorie dello Stato. La prima fase ha fatto in modo che venisse “contrattualizzato il rapporto di pubblico impiego”: una delle innovazioni fondamentali, conseguente alla c.d. Contrattualizzazione, è stata la programmata abolizione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e l’attribuzione al giudice ordinario della competenza relativa alle controversie di lavoro dei pubblici dipendenti. La L. n. 421 ha tuttavia fatto salvi “i limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzate”.In attuazione della legge-delega n. 421 hanno fatto seguito, nel corso del 1993, alcuni interventi “correttivi”. Nell’arco di pochi anni, sia l’esperienza maturata nella fase di prima applicazione della riforma, sia l’esigenza di procedere ad un recupero di efficienza e ad una riduzione degli sprechi gestionali nell’ambito della pubblica amministrazione, hanno indotto il legislatore ad avviare una seconda fase del processo riformatore.Così, con la L. 15 marzo 1997, n. 59 è stato riaperto il termine per l’emanazione di decreti delegati correttivi, prevedendo peraltro un’integrazione, sostituzione e modificazione di principi e criteri direttivi. In particolare la nuova legge ha previsto l’emanazione di decreti delegati contenenti nuove disposizioni per una parziale riforma della contrattazione collettiva e della rappresentatività sindacale nell’area del lavoro pubblico, cui è stata data attuazione con il D.Lgs. 4 novembre 1997, n. 396. Accanto a questa vanno segnalate la delega con la “conseguente estensione al lavoro privato nell’impresa”; nonché la delega al governo per estendere il regime privatistico del rapporto di lavoro anche ai dirigenti generali; ed infine la nuova delega relativa alla cosiddetta devoluzione al giudice ordinario di tutte le controversie relative al rapporto di lavoro. A queste deleghe si è data attuazione con i D. Lgs. 31 marzo 1998,n. 80, e 29 ottobre 1998, n. 387.L’esigenza di dare ordine alla disciplina del rapporto di lavoro pubblico ha indotto il legislatore ad intervenire delegando il governo ad emanare un testo unico che ne riordinasse le norme; tale delega è stata assolta con l’emanazione del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Infine il legislatore ha accentuato la portata del collegamento tra nomine dirigenziali e successione dei governi.

Alcuni fondamentali profili di specialità del rapporto di lavoro pubblico.La riforma del lavoro pubblico, pur avendo assoggettato il rapporto in questione all’autonomia privata individuale e collettiva, non ha eliminato i profili di specialità in riferimento alla prevalenza di un interesse pubblico.Parimenti si può parlare di disciplina speciale con riferimento alla materia dell’organizzazione degli uffici e delle strutture e dell’organizzazione del lavoro, rispetto alla quale il legislatore è intervenuto a disciplinare formalmente natura e condizioni di esercizio.

• Siffatta specialità è anzitutto evidenziata dalle norme concernenti il sistema delle fonti, sulla base delle quali è definita la ripartizione delle competenze regolative tra legge e contrattazione collettiva, nonché gli effetti dell’eventuale invasione di ciascuna di tali fonti negli ambiti riservati all’altra: la contrattazione collettiva non deve essere continuamente modificata e stravolta da successivi interventi del legislatore. Per tal motivo i rapporti

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regolati contrattualmente, pur essendo modificabili da leggi e regolamenti, permangono in tale stato di modificazione sino ad un nuovo intervento del contratto collettivo. Gli incrementi retributivi, inoltre, introdotti dal legislatore, sono in vigore sino a nuova disposizione dei contratti collettivi.Infine è previsto che la disciplina del lavoro pubblico sotto il profilo retributivo sia derogabile contrattualmente, ma nel rispetto di quanto previsto dai minimi retributivi imposti dalla contrattazione collettiva;• Un’altra forma di specialità si evince nella definizione della qualifica dirigenziale e delle relative responsabilità del dirigente. Egli ha sia una responsabilità d’indirizzo politico, dovendo attenersi alle linee guida imposte dal potere politico, sia una responsabilità di direzione amministrativa, dovendo garantire l’efficienza della P.A. anche per quanto riguarda i rapporti di lavoro.L’organizzazione dell’apparato a cui è preposto il dirigente e la gestione dei rapporti di lavoro dello stesso, sono di competenza del dirigente in questione: egli, oltre ad essere responsabili per l’attuazione dei programmi politici, deve far in modo che la macchina organizzativa funzione e sia quanto più efficiente ed efficace. Il ruolo dirigenziale si presenta oggi articolato in due fasce: il passaggio dalla seconda alla prima fascia costituisce un premio ed un’incentivazione al lavoro svolto dal dirigente, in quanto egli, per potersi attuare il passaggio, deve aver ricoperto per almeno 3 anni un incarico di direzione di uffici generali, senza essere incorso in alcuna responsabilità dirigenziale.L’attribuzione di tali incarichi non può avere durata inferiore a tre anni e superiore a cinque. Benché il rapporto di lavoro dei dirigenti sia stato contrattualizzato, esso non individua le funzioni dirigenziali, le quali sono previste in un provvedimento di conferimento di incarico, che vada a specificare oggetto dell’incarico, obiettivi e durata. Gli altri dirigenti, invece, svolgono un ruolo di ricerca, consulenza e studio, nonché funzioni ispettive od altre funzioni previste dall’ordinamento. Per evitare l’avvicendarsi continuo di dirigenti in base ai cambiamenti al governo di schieramenti politici, è previsto il sistema dello “spoilsystem”, secondo cui possono variare solo i vertici apicali decorsi 90 giorni dalla fiducia data al nuovo Governo: cessa l’incarico, non il rapporto di lavoro, dei dirigenti uscenti;• Un’altra connotazione speciale del lavoro pubblico la possiamo ritrovare nell’intervento del legislatore in merito ad alcuni istituti di particolare rilievo inerenti il rapporto di lavoro in questione. Se è vero, infatti, che lo Statuto dei lavoratori si applica anche alle pubbliche amministrazioni indipendentemente dal numero di dipendenti e che il rapporto di lavoro pubblico è oggi disciplinato dalle disposizioni codicistiche e dai contratti collettivi , non di meno bisogna sottolineare come il legislatore sia intervenuto in svariati casi:

• L’assunzione in posti di lavoro pubblico avviene tramite concorso, come costituzionalmente previsto, ma in due modi diversi: laddove per il posto di lavoro sia richiesta la sola scuola dell’obbligo, il reclutamento avverrà tramite i Centri per l’impiego; nel momento in cui, invece, sono richiesti particolari requisiti, si svolgerà una vera e propria prova di verifica della professionalità (concorsi), adeguata ai criteri di pubblicità ed imparzialità, nonché a meccanismi oggettivi di valutazione e rispetto delle pari opportunità;• Nel lavoro pubblico l’istituto del part-time può essere realizzato solo su richiesta del lavoratore e concesso dall’amministrazione per cui lavora. Qualora residui il 50% della prestazione normale, il lavoratore potrà esercitare anche altro lavoro autonomo o subordinato ed essere iscritto ad albi professionali. L’amministrazione può negare la concessione del part-time in base a proprie esigenze. La riforma del mercato del lavoro attuata tramite il D.Lgs.276/2003 non si applica alle pubbliche amministrazioni;Anche le amministrazioni pubbliche possono avvalersi di tipologie contrattuali di lavoro flessibile, ma essendo state escluse dall’applicazione del D.Lgs.276/2003, non possono utilizzare il contratto a progetto, ma solo e solamente contratti a tempo determinato, contratti di formazione e lavoro, somministrazione a tempo determinato e contratti di collaborazione continuativa e coordinata, e tra l’altro solo per esigenze

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temporanee ed eccezionali;• Per ciò che concerne il potere disciplinare e la responsabilità del lavoratore, è previsto un sistema analogo a quello dell’art.7 dello Statuto dei lavoratori, il quale predilige una sorta di patteggiamento secondo il quale, in presenza dell’accordo delle parti, il lavoratore viene sanzionato in misura ridotta rinunciando all’impugnazione delle sanzione stessa. Inoltre le funzioni del collegio di conciliazione e dell’arbitrato sono devolute allo specifico collegio di conciliazione per le controversie dei lavoratori pubblici;• Per quanto riguarda le mansioni, inoltre, va segnalato come il dipendente debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a mansioni equivalenti, mentre l’assegnazione temporanea a mansioni superiori è possibile solo per un periodo di 6 mesi per carenza di organico, prorogabile a 12 mesi per sostituire un lavoratore che abbia diritto alla conservazione del posto. L’attribuzione a mansioni superiore, benché dia diritto alla retribuzione superiore per quel periodo, non costituisce presupposto del diritto alla promozione;• Va poi analizzato il caso di eccedenze di personale, disciplinato in maniera totalmente diversa rispetto al lavoro privato. I lavoratori in eccedenza, infatti, vengono collocati in “disponibilità” per un periodo massimo di 24 mesi con retribuzione a carico della stessa amministrazione e pari all’80% della retribuzione base, ma a differenza di ciò che avviene per la mobilità, la disponibilità non risolve il rapporto di lavoro, in quanto nella maggior parte dei casi il lavoratore verrà riutilizzato diversamente con il consenso dello stesso.

• Ultimo profilo di specialità è rinvenibile nella disciplina delle controversie relative al rapporto di lavoro pubblico. Abbiamo già precisato che tali controversie devono essere, oggi, risolte dal giudice ordinario ed è stato reso necessario anche il tentativo di conciliazione. Rimangono di competenza del giudice amministrativo le sole controversie inerenti le assunzioni in seguito a concorso pubblico (quelle senza concorso sono competenza del giudice ordinario) e quelle relative ai rapporti non contrattualizzati.

Contrattualizzazione del lavoro pubblico ed interessi generali.Le disposizioni della riforma del lavoro pubblico non sembrano aver cancellato il collegamento funzionale tra il rapporto e l’interesse istituzionale della pubblica amministrazione all’organizzazione dei propri uffici e servizi. In particolare viene sancito il collegamento funzionale tra gli atti organizzativi a contenuto generale attraverso i quali si estrinseca il suddetto potere di organizzazione, e le determinazioni organizzative di contenuto puntuale e specifico che, al pari degli atti inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro, vengono a collocarsi nell’area dell’organizzazione del lavoro e in un ambito esclusivamente contrattuale.INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: il Governo Berlusconi entrato in carica nel 2008 ha deciso di riformare nuovamente la disciplina del lavoro pubblico, per rendere la macchina pubblica italiana maggiormente efficiente tramite un’opera di risanamento e ristrutturazione. Un primo intervento è stato attuato dal D.L.112/2008, con cui si opera una riduzione della spesa pubblica attuando uno specifico piano in tema di reclutamento, di alcuni istituti del rapporto di lavoro e di relazioni sindacali. Anzitutto è stato arrestato il turn-over inerente le assunzioni, in quanto le pubbliche amministrazioni devono adeguare l’organico di cui dispongono alle proprie funzioni. Per far fronte all’assenteismo, inoltre, è stato previsto un nuovo regime di giustificazioni in caso di assenze per malattia, oltre all’intensificazione dei controlli ed alla previsione che nei primi 10 giorni di malattia venga corrisposto il solo trattamento economicofondamentale.Altro istituto ad essere toccato dalla riforma è stato quello del lavoro part-time pubblico: non è più diritto del lavoratore chiedere la trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale, ma si tratta di una concessione dell’amministrazione. Inoltre l’accesso all’assunzione part-time è ora più agevole per la PA: sebbene per le esigenze ordinarie essa sia tenuta ad assumere a tempo indeterminato, per le esigenze secondarie a carattere temporaneo essa può, al pari delle imprese private, far ricorso all’istituto del lavoro part-time, nonché ad altre forme contrattuali di lavoro flessibile, utilizzando il medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali, sebbene per un

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limitato periodo di tempo (3 anni in un quinquennio).Anche la materia della cessazione del rapporto di lavoro è stata profondamente innovata:

• E’ stato introdotto l’esonero dal servizio, il quale può essere richiesto dai lavoratori a cui manchino 5 anni al raggiungimento del 40esimo anno di contribuzione: l’amministrazione può concedere, a sua discrezione, tale esonero, retribuendo per 5 anni il lavoratore al 50% della sua retribuzione economica e garantendogli il 100% di quella contributiva, in modo tale che il lavoratore accederà alla pensione come se avesse lavorato normalmente in quei 5 anni;• Sono state apportate modifiche per il trattenimento in servizio: il lavoratore può farne richiesta un anno prima del compimento dell’età massima prevista dal proprio ordinamento; l’amministrazione ha la facoltà di negare o concedere il trattenimento, salvo il caso di soggetti che non siano ancora in possesso dei requisiti pensionistici;• Indipendentemente dall’età anagrafica, inoltre, la PA può risolvere il contratto qualora il lavoratore abbia raggiunto i 40 anni di servizio, dando un preavviso di almeno 6 mesi.Si è ribadita, inoltre, la responsabilità dei dirigenti per violazione di norme imperative nella costituzione di rapporti di lavoro (che non danno mai vita, nella PA, alla costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ma che danno diritto al risarcimento del danno per il lavoratore).La L.15/2009, poi, al fine di migliorare la produttività del lavoro pubblico e l’efficienza, oltre che la trasparenza, delle pp. amm., ha concesso una delega al Governo per intervenire su alcuni aspetti del lavoro pubblico, quali:• il sistema delle fonti in materia di lavoro pubblico, per cui è stato previsto che la deroga concessa ai contratti collettivi in materia può operare solo per espressa previsione di legge;• la disciplina della dirigenza: il dirigente deve essere indipendente del tutto dalla politica e dai sindacati; deve avere una responsabilità maggiore, rispondendo anche economicamente del proprio operato; deve accedere alla prima fascia dirigenziale tramite concorso. E’ limitato, inoltre, il ricorso a dirigenti esterni;• il miglioramento del sistema di valutazione delle pp. amm, dei loro dirigenti e dipendenti, con l’introduzione di un’Autorità indipendente che garantisca trasparenza dei sistemi di valutazione, affidata alla Corte dei conti ed agli stessi cittadini/utenti;• il sistema disciplinare, il quale deve mirare al miglioramento dell’efficienza dei vari uffici, potenziandone la produttività e combattendo l’assenteismo. Sono state precisate, infatti, alcune tipologie di infrazioni suscettibili di licenziamento.

Sez. B: I rapporti speciali di lavoro caratterizzati dalla tipicità della posizione del datore e/o del prestatore di lavoro.Cenni generali.Si procede con l’analisi di tutti quei rapporti di lavoro qualificati come “speciali” non in forza di un interesse pubblico, bensì della posizione del datore e/o del prestatore di lavoro. Tuttavia non è la semplice diversità normativa a caratterizzare il rapporto di lavoro speciale, in quanto occorre che tale diversità incida su elementi del rapporto di lavoro subordinato tipico (collaborazione, subordinazione, retribuzione) indicato dall’art. 2094 c.c., come avviene per il lavoro subordinato a domicilio, per il lavoro sportivo e per diversi altri.

Il lavoro subordinato a domicilio: definizione e caratteristiche.La nozione di lavoratore subordinato a domicilio la ritroviamo all’interno dell’art.1 della L.877/1973, dove è previsto che si per lavoratore a domicilio si intenda “chiunque, con vincolo di subordinazione, nel proprio domicilio o in locale di cui abbia la disponibilità, anche con l’aiuto di membri familiari conviventi e a carico, ma esclusi apprendisti o manodopera salariata, eserciti un lavoro retribuito per conto di uno o più imprenditori, utilizzando materie prime ed attrezzature proprie o dello stesso imprenditore”. Quindi, anzitutto vediamo come il legislatore abbia voluto evitare la condotta, in passato molto spesso posta in essere, di quegli imprenditori che, per sfruttare il lavoro a domicilio, utilizzavano la prestazione di manodopera esterna all’azienda, regolando il rapporto come lavoro autonomo o

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come appalto.Il comma 2 del suddetto articolo precisa, poi, la distinzione tra lavoratore subordinato a domicilio e lavoratore autonomo, prevedendo e sottolineando il vincolo di subordinazione esistente nel primo caso, il quale obbliga il lavoratore ad attenersi alle direttive dell’imprenditore nell’esecuzione della prestazione. Si tratta, è appena il caso di dirlo, di una subordinazione tecnico-funzionale per cui è sufficiente attenersi al potere direttivo dell’imprenditore, senza esserne alle dirette dipendenze.Ovviamente è necessario che il committente, nel caso di cui stiamo trattando, sia un imprenditore, altrimenti si tratta di lavoro autonomo, così com’è necessario che l’attività venga svolta in locali direttamente riconducibili al prestatore di lavoro.Nel lavoro subordinato a domicilio si realizza un vero e proprio decentramento dell’attività d’impresa, collocando all’esterno una parte di essa, sebbene il prestatore, in tal caso, goda di un determinato potere di gestione.Al decentramento produttivo va ricondotto anche il fenomeno del lavoro a distanza (c.d. telelavoro) caratterizzato dalla collocazione logistica del prestatore di lavoro all’esterno dell’impresa. La prestazione del lavoratore a distanza potrà essere ricondotta ad un contratto di lavoro subordinato, autonomo o anche parasubordinato.

La disciplina del lavoro subordinato a domicilio.Nell’ambito dell’art. 1, la stessa L. n. 877 ha dettato le norme sulla disciplina del rapporto e sulla prestazione e la retribuzione del lavoro a domicilio. Per ciò che concerne la prestazione, la legge esclude l’ammissibilità dell’esecuzione “di lavoro a domicilio che comportino sostanze nocivi o pericolosi”; è inoltre vietato affidare lavoro a domicilio per la durata di un anno a tutte quelle aziende che abbiano disposto licenziamenti oppure sospensioni del lavoro. Non essendo possibile la determinazione dell’orario di lavoro, l’unica forma idonea di retribuzione è il cottimo che fa riferimento esclusivo alla quantità prodotta. Se l’imprenditore committente affida una quantità di lavoro corrispondente all’orario normale di lavoro, il lavoratore a domicilio è obbligato ad astenersi. La legge ha stabilito che l’impiego dei lavoratori a domicilio avvenga previo inoltre ai Centri per l’impiego di un’apposita richiesta. Il contratto di lavoro a domicilio è uno dei rari contratti di lavoro in cui ha rilievo una forma scritta, ad probationem. Infatti, l’imprenditore committente deve tenere un registro nel quale vanno trascritti nominativi e domicilio dei lavoratori, tipo e quantità di lavoro, la misura della retribuzione; il lavoratore a domicilio deve essere munito di un speciale libretto di controllo.

Il lavoro domestico.Il lavoro domestico è caratterizzato da una prestazione eseguita nell’abitazione del datore di lavoro o, per meglio dire, in convivenza con lo stesso.La disciplina è contenuta all’interno degli artt. 2240 al 2246 c.c. ed all’interno della L. 339/1958, che non ha sostituito gli articoli codicistici, in quanto ha ad oggetto solo prestazioni continuative e di almeno 4 ore giornaliere.La contrattazione collettiva in materia si è avuta solo recentemente, in quanto l’art. 2068 comma 2 c.c., oggi abrogato, non permetteva alla stessa di disciplinare il lavoro domestico.Contenuto ed oggetto del lavoro domestico sono i medesimi del lavoro subordinato in genere; sua caratteristica è invece la destinazione dell’attività lavorativa a vantaggio dell’organizzazione familiare e non di un’impresa o di un esercente un’attività professionale, sia pure non imprenditoriale.Va aggiunto che nel calcolo della retribuzione sono inclusi il vitto e l’alloggio del prestatore, in quanto convivente con il datore di lavoro, che deve provvedere, in caso di malattia del prestatore, alle cure ed all’assistenza medica dello stesso. E’ esclusa, dato l’ambito familiare in cui si attua questo tipo di lavoro, la tutela obbligatoria tanto quanto quella reale contro i licenziamenti. L’inserzione della prestazione lavorativa nell’ambito della comunità familiare spiega come il legislatore si sia preoccupato del riposo settimanale e dei riposi giornalieri e notturni , ma anche della salute e della personalità del lavoratore. La stessa legge, ai fini della durata del periodo di prova, distingue i lavoratori domestici con

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mansioni impiegatizie e prestatori d’opera manuale specializzata o generica. Passando ad esaminare i contenuti della contrattazione collettiva, gli aspetti più rilevanti riguardano la fissazione dei minimi salariali, dell’orario di lavoro, delle ferie, della conservazione del posto in caso di malattia. A tale proposito si può ricordare che la contrattazione collettiva prevede il divieto di licenziamento durante il periodo di gravidanza.

Il lavoro sportivo.Il lavoro sportivo configura un altro rapporto speciale di lavoro subordinato, regolato dalla L. 23 marzo 1981, n. 91, all’interno del quale figurano come datore di lavoro una società sportiva e come prestatore uno sportivo professionista, intendendosi con tale definizione gli “atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso per un periodo di tempo continuativo nell’ambito di discipline regolate dal CONI ed avendo conseguito tale qualificazione dalle federazioni sportive nazionali con l’osservanza di direttive stabilite dal CONI per la differenziazione tra attività dilettantistica e professionistica”.La subordinazione, nel caso di lavoro sportivo, ricorre solo se l’attività sportiva è esercitata continuativamente ed il rispetto di uno dei tre requisiti che andiamo adesso ad elencare, presuppone l’assenza della subordinazione stessa, configurando il lavoratore come autonomo. I requisiti sono i seguenti:

• svolgimento dell’attività nell’ambito di una sola manifestazione o di poche manifestazioni in un breve periodo di tempo; • mancanza del vincolo contrattuale di osservanza di sedute di preparazione e allenamento; • prestazione continuativa sportiva che non superi le 8 ore settimanali, i 5 giorni mensili o i 30 giorni annuali.

A parte la norma secondo cui l’assunzione dello sportivo professionista con contratto di lavoro può avvenire in modo diretto, il legislatore ha previsto che il contratto debba essere stipulato in forma scritta, a pena di nullità, secondo il contratto – tipo predisposto dalle federazioni sportive nazionali; ogni clausola del contratto individuale contenente deroghe peggiorative viene sostituita di diritto da quella del contratto – tipo.I contratti individuali devono essere depositati dalla società stipulante presso la federazione sportiva nazionale per essere convalidati. Esso deve contenere una clausola che stabilisca “l’obbligo dello sportivo al rispetto delle istruzioni tecniche e delle prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi agonistici”. Al contrario, non può contenere clausole di non concorrenza o limitative, per il periodo successivo alla cessazione del contratto stesso.Al rapporto di lavoro sportivo subordinato non si applicano la disciplina limitativa dei licenziamenti individuali ed alcune norme del Titolo I della L. n. 300. Si applicano, in quanto compatibili, le altre disposizioni non escluse dalla normativa speciale. Il contratto può avere una durata determinata, non superiore a 5 anni. E’ consentita, in questi casi, la cessione del contratto da una società sportiva ad un’altra prima della sua scadenza, purché lo sportivo contraente ceduto vi acconsenta.E’ stato, inoltre, abolito il vincolo sportivo, consentendo allo sportivo professionista di recedere unilateralmente dal contratto. Unico vincolo si ha per gli atleti il cui addestramento e la cui formazione tecnica sono stati assicurati da una società sportiva, che ha il diritto di stipulare con lo stesso il primo contratto professionistico.Un cenno conclusivo merita il “premio di addestramento e formazione tecnica”, che deve essere stabilito dalle Federazioni sportive nazionali in favore della società o associazione sportiva presso la quale l’atleta ha svolto la sua ultima attività dilettantistica o giovanile. Esso ha sostituito l’ indennità di preparazione e promozione, ciò al fine di adeguare la normativa interna al principio della libera circolazione dei lavoratori sportivi in ambito comunitario.

Sez. C: I contratti di lavoro con finalità formativa.Le origini del contratto di apprendistato (o tirocinio)Il contratto di apprendistato, dal Codice definito come tirocinio e disciplinato negli artt.2130 al 2134 c.c., risale agli statuti corporativi del Medioevo: già all’epoca, infatti, esisteva l’apprendista, colui che, tramite un tirocinio d’arte o una professione inquadrata nella corporazione, mirava a

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diventare maestro o socio dell’artigiano, per poter esercitare il mestiere. Quindi l’apprendistato, per propria definizione, fa in modo che un soggetto impari un mestiere ed acquisisca delle competenze professionali utili nell’esercizio della propria attività e questo è ciò che per lungo tempo è avvenuto, anche in epoca moderna. Infatti giovani bisognosi, col passare del tempo ed attraverso un tirocinio, hanno acquisito una qualifica professionale che gli ha assicurato un posto di lavoro.Con l’evolversi della società e l’alternarsi dell’organizzazione taylorista e fordista all’industria tecnologica, l’apprendistato ha conosciuto un netto periodo di crisi, in quanto la maggior parte delle mansioni sono risultate per diverso tempo troppo elementari e per altrettanto tempo troppo complicate. Oggi non è sufficiente un semplice addestramento o tirocinio, ma occorre una formazione professionale adeguata, ecco perché il contratto di apprendistato è stato notevolmente rivisto, dopo essere stato utilizzato solo e solamente nell’artigianato, mentre la medio grande impresa prediligeva il contratto di formazione e lavoro.Il D.Lgs. 276/2003 ha previsto un nuovo apprendistato, distinto in tre diverse specie; inoltre, ha congelato in parte la normativa del c.f.l., impedendo la stipula di ulteriori contratti di formazione e lavoro nel settore privato, e lasciando l’istituto a disposizione delle pubbliche amministrazioni. In sostituzione del c.f.l. è stato introdotto il contratto di inserimento, la cui finalità formativa risulta marginale rispetto a quella di agevolare, tramite addestramento sul posto di lavoro, l’occupazione di lavoratori appartenenti alle c.d. fasce deboli del mercato del lavoro.

Le tre specie di contratto di apprendistatoAbbiamo detto che esistono tre tipologie di apprendistato:

• Qualificante: serve ad espletare il diritto-dovere di istruzione e formazione, ossia a conseguire una qualifica professionale da parte di soggetti che abbiano compiuto il 15esimo anno di età e può durare al massimo 3 anni;• Professionalizzante: serve ad acquisire una qualificazione attraverso la formazione sul lavoro, ed è destinato ai giovani tra i 18 ed i 29 anni. Può durare da un minimo di 2 anni ad un massimo di 6, anche se la durata è stabilita dai contratti collettivi;• Specializzante: serve per l’acquisizione di titoli di studio secondari ed universitari, nonché di alta formazione o di specializzazione tecnica superiore. E’ rivolto ai giovani tra i 18 ed i 29 anni. Durata e regolamentazione sono rimesse alle Regioni per quanto concernente la formazione. Fino all’emanazione delle leggi regionali, tale disciplina è rimessa alla contrattazione collettiva.

Profilo causale. Fonti di regolazione del nuovo apprendistatoIl vecchio contratto di apprendistato disciplinato all’interno del Codice civile prevedeva che il datore di lavoro si avvalesse della prestazione lavorativa dell’apprendista, impartendogli l’ insegnamento necessario per diventare un lavoratore qualificato e corrispondendogli una retribuzione per il lavoro svolto.La situazione, con il nuovo apprendistato diviso in tre tipologie, non è mutata. Si mira sempre alla formazione dell’apprendista ed alla sua retribuzione, sebbene la prima funga da obbligazione primaria del datore di lavoro. Il problema è nella disciplina, in quanto il D.Lgs.276/2003 non ha regolamentato, se non sotto i profili essenziali, la materia. Bisogna quindi stabilire quale disciplina si applichi agli aspetti non regolati: si ritiene che debba applicarsi la disciplina del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Disciplina contrattuale e del rapporto di lavoro nelle tre specie di apprendistatoIl D.Lgs. 276/2003 detta una serie di previsioni generali valevoli per le tre tipologie di apprendistato. Anzitutto il numero massimo di apprendisti alle dipendenze di un datore di lavoro non può superare il 100% dei lavoratori qualificati già dipendenti. Se il datore non ha lavoratori o ne ha meno di tre, potrà assumere 3 apprendisti. Inoltre gli apprendisti non possono avere una categoria d’inquadramento di oltre 2 livelli inferiore

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rispetto ai lavoratori addetti a mansioni che richiedono le qualificazioni che l’apprendista raggiungerà al termine della formazione. Sono inoltre previsti degli incentivi di carattere normativo ed economico a favore d’imprese che accoglieranno apprendisti al proprio interno, che si aggiungono agli incentivi di carattere contributivo-prevideziale.Il decreto in questione, inoltra, fissa dei principi comuni per ciò che riguarda l’apprendistato qualificante e quello professionalizzante, lasciando escluso e privo di disciplina il terzo tipo, quello specializzante. Infatti, per i primi due è previsto che il contratto rispetti la forma scritta ad substantiam e che contenga la prestazione lavorativa oggetto dello stesso contratto ed un piano di formazione individuale per il soggetto con individuazione della relativa qualifica. L’apprendista, inoltre, deve essere retribuito a tempo e non a cottimo. Il datore di lavoro, al termine dell’apprendistato può liberamente recedere dal contratto, dandone preavviso, mentre in costanza del rapporto non può recedere se non per giusta causa o giustificato motivo. Infine, i periodi di apprendistato del primo tipo possono sommarsi a quelli del secondo tipo per il raggiungimento dell’obiettivo formativo del secondo, ossia per il riconoscimento di una qualifica professionale.

Formazione professionale nelle 3 forme di apprendistatoSpetta alle leggi regionali stabilire la disciplina relativa ai tre tipi di apprendistato. Se, però, per quanto concerne il terzo tipo non vi è alcun vincolo previsto dal decreto 276, per il primo e secondo tipo di apprendistato sono previsti dei criteri direttivi, che limitano l’operato delle Regioni.Uno di questi limiti è costituito da un tetto di ore monte di ore di formazione esterna o internaall’azienda, congruo al raggiungimento della qualifica (per l’apprendistato del secondo tipo deve essere di almeno 120 ore annue).Per entrambe le forme di apprendistato, inoltre, l’apprendista ha diritto a conseguire la qualifica professionale inerente al percorso di formazione interna o esterna all’impresa, la quale deve essere registrata su un libretto formativo. L’apprendista deve essere affidato ad un tutor aziendale che abbia competenze adeguate.La materia, comunque, resta di competenza concorrente tra Stato e Regioni, sulla base dell’art. 117 Cost.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: La L.133/2008 di conversione del D.L.112/2008, sulla scorta di un precedente Protocollo tra Governo e Parti sociali del 2007, ha modificato la materia dell’apprendistato del secondo (professionalizzante) e del terzo tipo (specializzante), lasciando inutilizzabile il primo.Per l’apprendistato professionalizzante è stato prevista la soppressione della durata minima di 2 anni, lasciando inalterata la durata massima di 6 e rimettendo alla contrattazione collettiva la decisione circa la durata dello stesso. Sotto il profilo della formazione è stato introdotto un canale parallelo di formazione interamente previsto dalla contrattazione collettiva, con l’esclusione della competenza regionale.Per l’apprendistato specializzante è stato previsto che esso possa essere utilizzato per conseguire il titolo di dottore di ricerca in ambito universitario. Tale tipologia di apprendistato, inoltre, tramite una convenzione tra Università e datore di lavoro, può operare anche in assenza di regolamentazioni regionali. Infine è stata estesa anche all’apprendistato specializzante la disciplina di quello professionalizzante per ciò che concerne gli incentivi ed i principi disciplinanti (forma scritta, compenso NON a cottimo ecc).Inoltre la nuova disciplina ha abrogato, a grandi linee, gran parte della vecchia inerente l’apprendistato (visita sanitaria preassuntiva degli apprendisti, informativa semestrale alla famiglia, comunicazione alla Regione degli apprendisti e dei relativi tutori aziendali per la formazione esterna).

Contratto d’inserimento. Progetto individuale d’inserimentoIl D.Lgs.276 disciplina il contratto di inserimento, un nuovo tipo di contratto che, tramite l’adattamento delle competenze professionali del lavoratore ad un determinato contesto lavorativo, mira a favorire l’inserimento di lavoratori appartenenti alle c.d. fasce deboli del

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mercato. Anche qui si ha una finalità formativa, su cui però è preponderante l’inserimento del lavoratore.Per quanto riguarda i lavoratori , possono accedere alla stipulazione di un contratto d’inserimento:

• Giovani di età compresa tra i 18 ed i 29 anni;• Disoccupati di lunga durata di età compresa tra i 29 ed i 32 anni;• Lavoratori con più di 50 anni di età privi di posto di lavoro;• Donne di qualsiasi età appartenenti ad aree geografiche il cui tasso di occupazione femminile sia inferiore del 20% rispetto a quello maschile, o il cui tasso di disoccupazione femminile sia superiore del 10% rispetto a quello maschile;• Lavoratori che vogliono riprendere l’attività lavorativa e che non lavorino da almeno 2 anni;• Soggetti affetti da grave handicap fisico, psichico o mentale.

Per ciò che concerne i datori di lavoro , invece, possono stipulare il contratto d’inserimento:• Enti pubblici economici;• Imprese e consorzi;• Gruppi di imprese;• Associazioni professionali, sportive e socio-culturali;• Fondazioni;• Enti di ricerca pubblici e privati;• Organizzazioni ed associazioni di categoria.

Sono esclusi i datori di lavoro che non abbiano mantenuto in servizio almeno il 60% dei lavoratori il cui contratto di inserimento sia scaduto nei 18 mesi precedenti, salvo che si tratti di un solo contratto scaduto.Per la validità del contratto il datore di lavoro deve aver predisposto, d’accordo con il lavoratore, un progetto di inserimento individuale. I piani individuali possono scaturire, anche, da contratti collettivi nazionali o territoriali. La formazione eventualmente maturata deve essere registrata sul libretto formativo.

Disciplina del contratto d’inserimento e del rapporto di lavoro. Incentivi economiciPer il contratto d’inserimento è prevista la forma scritta ad substantiam, oltre alla previsione del piano individuale d’inserimento: in mancanza dell’osservanza di queste regole, il lavoratore si considera assunto a tempo indeterminato.Il contratto stesso non può avere durata inferiore ai 9 mesi, né superiore ai 18 (36 per portatori di handicap). Il rinnovo del contratto è vietato, ma è concessa la proroga entro il limite massimo di altri 18 mesi (36 per i portatori di handicap).Si applica la disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato così come prevista dal D.Lgs.368/2001, salvo che i contratti collettivi non stabiliscano diversamente.Analogamente a quanto previsto per l’apprendistato, il lavoratore, durante il rapporto, non può avere una categoria d’inquadramento inferiore di più di due livelli a quella dei lavoratori regolarmente assunti le cui mansioni corrispondano alla qualifica che il lavoratore vuole conseguire.I lavoratori assunti con contratto d’inserimento non possono essere computati nei limiti numerici previsti da leggi o contratti collettivi per l’applicazione di determinate normative. Inoltre i datori di lavoro hanno diritto ad incentivi economici per la stipulazione di contratti d’inserimento, che perdono in caso di gravi inadempienze nella realizzazione del progetto individuale di inserimento.

Il contratto di formazione e lavoro (c.f.l.) nelle pubbliche amministrazioniIl contratto di formazione e lavoro è stato totalmente vietato, all’interno del settore privato, dalla riforma del mercato del lavoro del 2003. Tuttavia, essendo ancora possibile stipularlo da parte delle pubbliche amministrazioni, è doverosa una trattazione dell’argomento, ricordando che la riforma suddetta non ha riguardato il settore pubblico.

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Con il c.f.l. possono essere assunti lavoratori tra i 16 ed i 32 anni ed esistono due tipologie di c.f.l.:

• una destinata all’acquisizione di professionalità intermedie o elevate, nella quale prevale una finalità formativa, • l’altra volta ad agevolare l’inserimento professionale del giovane dopo un adeguamento delle proprie capacità professionali, in cui prevale appunto l’inserimento occupazionale.

Come possiamo notare, la prima tipologia di c.f.l. assomiglia all’apprendistato, mentre la seconda è quasi identica al contratto di inserimento.Il c.f.l. di primo tipo può avere durata massima di 24 mesi, mentre quello di secondo tipo può durare 12 mesi. Inoltre le amministrazioni interessate devono predisporre dei c.d. progetti formativi (un po’ come avviene per l’inserimento), da sottoporsi all’approvazione preventiva di competenti organi individuati dalle regioni, salvo che il progetto non sia conforme a quanto previsto dall’autonomia collettiva.Anche in caso di c.f.l. vi sono, poi, dei tetti orari di formazione teorica oltre all’attività lavorativa: 20 ore per la seconda tipologia ed 80 e 130 per la prima.Il contratto di formazione e lavoro deve essere stipulato in forma scritta ad substantiam e copia del contratto deve essere consegnata al lavoratore. La disciplina contrattuale è quella del rapporto di lavoro subordinato in generale, almeno per le parti non derogate da leggi speciali. Alle amministrazioni pubbliche che stipulano questo tipo di contratti vengono garantiti incentivi economici, consistenti in una ridotta contribuzione previdenziale, che la Commissione Europea ha ritenuto, in alcuni casi, configurare l’ipotesi di aiuti di Stato alle imprese, pertanto vietati. Ecco perché il c.f.l. è stato vietato per quanto concerne il settore privato.CAP X: La tutela del lavoratore nel mercato del lavoro

La tutela del lavoratore nel mercato del lavoro: il diritto al lavoro.Il diritto al lavoro sancito dal primo comma dell’art. 4 della Costituzione è una situazione soggettiva della quale sono titolari i cittadini e quindi soprattutto i lavoratori, cui la norma mira a garantire non soltanto la libertà di lavoro, intesa come offerta della forza-lavoro, ma altresì l’interesse all’occupazione dal lato della domanda di forza-lavoro. Si tratta di un diritto soggettivo individuale, ma la cui attuazione è prevalentemente collettiva. Significa che, come bisogno generalizzato di occupazione, il diritto al lavoro non può svilupparsi altro che sul terreno della tutela dell’interesse collettivo e quindi anzitutto dell’attività sindacale. Particolare rilievo ha inoltre l’attività dei pubblici poteri tendente alla promozione dell’occupazione. La tutela del diritto al lavoro viene in contatto con l’esercizio della libertà d’iniziativa economica privata garantita dall’art. 41, co. 1°, Cost., peraltro entro i limiti costituiti non solo dal rispetto della sicurezza, della libertà e della dignità della persona, ma altresì dai fini di utilità sociale (co. 2°). Se, da un lato, il lavoro non è una merce, ma implica necessariamente la persona del lavoratore, dall’altro lato l’inserzione del lavoro nell’attività produttiva dipende da una decisione economica. Nell’uno e nell’altro caso, peraltro, si ha una relazione di scambio tra l’offerta di forza lavoro e l’utilizzazione della stessa nelle organizzazioni private e pubbliche: su tale premessa la disciplina del mercato del lavoro ha lo scopo di proteggere i lavoratori dal rischio della disoccupazione e di garantire ai datori di lavoro la possibilità di una razionale utilizzazione dei lavoratori.La disciplina del mercato del lavoro trae fondamento dai principi costituzionali e nella situazione di sottoprotezione sociale del prestatore di lavoro. Il lavoratore vede rafforzata la sua posizione nel mercato del lavoro dal lato dell’offerta, nonché, dal lato della domanda di lavoro da parte delle imprese. Negli anni più recenti l’intervento pubblico è stato inteso come rivolto a sostenere e promuovere lo sviluppo della domanda di forza lavoro da parte delle imprese. Sotto altro profilo, la legge interviene anche delimitando i poteri dell’imprenditore in relazione alla cessazione del contratto di lavoro ovvero alla gestione delle eccedenze di personale. La disciplina del mercato del lavoro ha una funzione di tutela contro il rischio sociale della disoccupazione e quindi di sicurezza sociale. La tutela del diritto al lavoro è intesa come strumento dicittadinanza sociale ma anche come interesse protetto all’occupazione. Questa è divenuta una finalità non solo di rilievo nazionale, ma anche comunitario: a partire dal

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Trattato di Amsterdam, infatti, la tutela e promozione del livello dell’occupazione è stata assunta come obiettivo specifico della CE, la quale si è mossa soprattutto nella direzione di promuovere lo sviluppo anche attraverso la predisposizione di adeguati strumenti formativi per cercare di garantire, tramite l’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri, un sistema europeo in grado di accogliere i lavoratori di qualsiasi cittadinanza.Infine, va detto che oltre agli interventi normativi sopra ricordati, vanno annoverati quelli di tipo indennitario relativi allo stato di disoccupazione (assicurazione contro la disoccupazione).

Sezione A: I servizi all’impiegoLe origini dell’istituto del collocamentoDi fronte al fenomeno della disoccupazione sia strutturale che frizionale l’intervento più antico e diffuso è stato rappresentato dall’istituto del collocamento. Per mezzo di esso il legislatore ha mirato a regolamentare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro. Alla sua origine il collocamento è stato concepito come una funzione pubblica e gratuita di mediazione. Per molti decenni l’obiettivo del controllo pubblico è stato quello di un’equa ripartizione dei posti disponibili, ovvero della regolamentazione della concorrenza soprattutto tra i lavoratori meno qualificati. A questo fine nel periodo precorporativo, nacque il c.d. collocamento di classe o sindacale, mediante il quale i sindacati si proponevano di tutelare i lavoratori nella ricerca dell’occupazione e di rafforzare il loro potere contrattuale mediante la contrattazione delle assunzioni. Durante il periodo corporativo, invece, il collocamento assunse le vesti di funzione pubblica: caratteristica fondamentale introdotta fu il principio del monopolio pubblico del collocamento. Va sottolineato che il passaggio ad un sistema pubblico di collocamento non significò la scomparsa dell’intervento sindacale.Dopo la caduta dell’ordinamento corporativo, il primo intervento in materia fu rappresentato dalla L. 29 aprile 1949, n. 264 che confermava la funzione pubblica del collocamento e ribadiva il principio del monopolio statale, attraverso il divieto della mediazione privata tra domanda ed offerta di lavoro attraverso la regola dell’assunzione mediante la c.d. richiesta numerica.Sul versante sindacale tale legge segnava il passaggio ad un sistema fondata sulla partecipazione sindacale alla funzione pubblica di collocamento.

Dal controllo pubblico sull’incontro tra domanda e offerta di lavoro alle politiche attive per l’occupazione.Già nel corso degli anni ’50 e ’60, durante il periodo del boom economico italiano, il collocamento pubblico si è rivelato incapace a soddisfare le esigenze di un’offerta di lavoro più sofisticata e meno indifferenziata. Correlativamente, la disciplina legislativa si è dimostrata inefficace ed ineffettiva. Si è così posta l’esigenza di una revisione sostanziale della disciplina dei servizi per l’impiego, intesi come attività e non solo come struttura amministrativa. Nella prima fase di questa trasformazione, si è avuta la soppressione dell’obbligo della richiesta numerica ed il passaggio dapprima ad un sistema fondato sulla richiesta nominativa e successivamente a quello basato sull’assunzione diretta e sulla mera comunicazione successiva all’ufficio di collocamento dell’avvenuta assunzione. In questo modo, si è introdotta una normativa intesa a sviluppare forme di politica attiva della manodopera finalizzate a promuovere l’occupazione. Nella stessa prospettiva uno specifico rilievo è stato riconosciuto alle politiche di sviluppo dei sistemi formativi, ai quali è affidato il compito di assicurare l’adattamento quanto più efficace tra domanda ed offerta di lavoro.

La riforma del mercato del lavoro. Decentramento amministrativo e federalismo. Le politiche sociali comunitarie.La normativa in materia di servizi per l’impiego è stata ampiamente modificata in seguito alla riforma del titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001.Prima di essa, tuttavia, nel 1997 si era attuato un sistema decentrato, con l’attribuzione alle Regioni di un notevole numero di competenze, in sostituzione di un sistema centralizzato non più in grado di rispondere alle esigenze ed all’evoluzione del mercato del lavoro.

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Ed infatti, il Governo ha emanato il D.Lgs. 23 dicembre 1997, n. 469, con il quale sono state conferite alle Regioni e agli enti locali le funzioni ed i compiti di governo del mercato del lavoro. In particolare, sono state decentrate a livello regionale le funzioni e i compiti relativi al collocamento e tutte le iniziative dirette ad incrementare l’occupazione ed a favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.Il D.Lgs. n. 469 ha indicato gli organismi che devono essere istituiti e le Commissioni paritetiche del collocamento; alcune di queste disposizioni sono state dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale essendo in contrasto con il principio costituzionale dell’autonomia delle Regioni.Il D.Lgs. n. 469 ha inoltre stabilito l’attribuzione alle Province, sempre con legge regionale, delle funzioni e dei compiti relativi alle varie forme di collocamento nonché l’attivazione di Centri per l’impiego che si sono sostituiti a tutte le precedenti strutture amministrative decentrate di gestione del collocamento. Per quanto attiene alle Commissioni paritetiche va detto che i suoi compiti sono stati trasferiti alla Conferenza Stato-Regioni.Il D.Lgs. n. 469 del 1997 aveva poi previsto le Commissioni regionali per le politiche del lavoro tripartite e permanenti, concepite dal legislatore come “sede concertativa di proposta, valutazione e verifica rispetto alle linee programmatiche e alle politiche regionali del lavoro” con assegnati i compiti in precedenza assegnati alle Commissioni regionali per l’impiego. Si è prevista l’istituzione da parte delle Province di una Commissione provinciale per le politiche del lavoro ,anch’essa tripartita e permanente.Da quanto precede emerge come le modificazioni strutturali dell’istituto del collocamento si accompagnino profonde trasformazioni funzionali del medesimo.Esso era nato come istituto che si era sviluppato ed organizzato come funzione pubblica. Un aspetto di particolare interesse della riforma del 1997 è l’istituzione di un Servizio Informativo Lavoro (SIL): si è prevista la creazione e gestione con mezzi informatici di un elenco analogico in cui iscrivere tutti i lavoratori in cerca di occupazione o desiderosi di cambiare lavoro. I dati raccolti potranno essere messi a disposizione senza che sia necessario il consenso dell’interessato.Da tutto ciò emerge come alle modificazioni strutturali dell’istituto del collocamento abbiano fatto riscontro profonde trasformazioni funzionali del medesimo. Esso era nato come istituto fondato sul monopolio statale della mediazione tra domanda ed offerta di lavoro e si era sviluppato ed organizzato come funzione pubblica e come apparato dell’amministrazione finalizzato ad un’equa ripartizione tra i lavoratori disoccupati delle occasioni di lavoro disponibili, in ragione dello stato di bisogno. L’inadeguatezza di tale sistema rispondere alle esigenze di un sistema economico e produttivo in costante evoluzione ha indotto il legislatore a riformarlo radicalmente, abilitando le strutture pubbliche ad intervenire attivamente nel mercato del lavoro, non più esplicando una semplice funzione di mediazione, a operando come sistema di servizi per l’impiego in grado di rilevare gli andamenti del mercato del lavoro e di intervenire sull’offerta di lavoro anche attraverso un indirizzo dei percorsi formativi che consentano un più facile accesso all’occupazione. E ciò è avvenuto soprattutto puntando sul riconoscimento alle Regioni di un ruolo centrale nella disciplina del mercato del lavoro.

La riforma costituzionaleLa L. Cost. 3/2001, la quale ha riformato il Titolo V della seconda parte della Costituzione, ha continuato nell’opera di decentramento attuata in precedenza, facendo rientrare la materia di “tutela e sicurezza del lavoro”, e quindi anche la disciplina dei servizi all’impiego, nella competenza concorrente tra Stato e Regioni, laddove è previsto che lo Stato fissi i principi fondamentali e la Regione, attenendosi ad essi, disciplini la materia nel dettaglio. Inoltre il legislatore è intervenuto ad adeguare la disciplina dettata dal D.Lgs. n. 181/2000 alle novità derivanti dalla riforma del Tiolo V Cost., ed a mettere ordine nella frammentaria disciplina in materia di collocamento e servizi per l’impiego.Il D.Lgs. n. 297/2002, infatti, non solo ha corretto alcuni contenuti del precedente decreto, ma ne ha trasformato l’intera disciplina in disposizioni di principio cui le Regioni devono attenersi.L’ultimo intervento legislativo è stato attuato in occasione della riforma del mercato del lavoro di cui al D.Lgs. n.276/2003 con il quale si è dettata una nuova disciplina sull’esercizio dell’attività di mediazione da parte dei soggetti privati e sulla c.d. Borsa continua nazionale del lavoro, nella prospettiva di fissare i principi fondamentali in materia di disciplina dei servizi per l’impiego, con

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particolare riferimento al sistema del collocamento.Infine, la normativa statuale in materia di servizi per l’impiego non può limitarsi a fissare i principi fondamentali entro cui deve esplicarsi l’intervento legislativo regionale, ma deve individuare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.

Disciplina dei servizi per l’impiego. Le politiche sociali comunitarie.Le discipline normative contenute nel provvedimento di decentramento amministrativo e di riforma costituzionale, hanno portato all’abrogazione delle norme contenute nella legge n.264 del 1949 sul collocamento, oggi non più visto come struttura di regolazione dell’incontro tra domanda e offerta, ma come servizio per l’impiego. L’unico operatore monopolistico del collocamento, è stato sostituito dalle agenzie per il lavoro, operatori privati che si occupano di gestire il mercato del lavoro, iscritti in appositi albi ed a cui è imposto il divieto di percepire compensi dal lavoratore che vanno ad aiutare, salvo specifici casi (lavoratori altamente professionalizzati e specifici servizi). Il D.Lgs.276 ha previsto 5 tipi di agenzie per il lavoro:

• Agenzie di somministrazione del lavoro, adibite a svolgere i compiti previsti dall’art.20;• Agenzie di somministrazione a tempo indeterminato, adibite a svolgere una sola funzione prevista dall’art.20;• Agenzie di intermediazione;• Agenzie di ricerca e selezione del personale;• Agenzie di supporto alla ricollocazione del personale.

Le agenzie di somministrazione del lavoro possono svolgere anche attività di intermediazione, di ricerca e selezione del personale e di supporto alla ricollocazione dello stesso. Le agenzie di intermediazione possono svolgere anche attività di ricerca e selezione, nonché di ricollocazione del personale.Le agenzie che percepiscano compensi dai lavoratori, in cambio dei propri servizi, sono soggette a sanzione penale ed a cancellazione dall’albo.Anche altri soggetti pubblici e privati possono affiancarsi alle agenzie: università pubbliche e private, associazioni di datori di lavoro e lavoratori più rappresentative che stipulino contratti collettivi, associazioni nazionali di tutela ed assistenza degli imprenditori, del lavoro e della disabilità, così come le camere di commercio, i comuni, le scuole medie superiori, fondazioni volte a tal scopo.Le competenze provinciali sono rimaste intatte così come previsto dal D.Lgs.469/1997, ritenute dalla Corte costituzionale legittime purché operanti in continuità con le regioni.E’ stata istituita, inoltre, la Borsa continua nazionale del lavoro, un sistema aperto di incontro tra domanda ed offerta di lavoro, a cui possono accedere tanto imprenditori quanto lavoratori in cerca di occupazione o di un cambio di occupazione. Esso è stato affiancato al SIL e la diffusione dei dati immessi deve essere autorizzata dai soggetti che vi accedono.Inoltre, è stato ribadito dal D.Lgs.276/2003 il principio di non discriminazione nell’effettuare indagini, trattamento di dati o preselezione di lavorato: queste operazioni, infatti, non possono essere svolte sulla base di discriminazioni di qualsivoglia genere, se non nel caso di attività lavorativa per cui sia necessaria una determinata situazione (religiosa, culturale o di altro tipo).In conclusione, si può dire che l’unica funzione che resta attribuita in via esclusiva ai Centri per l’impiego, istituiti presso le Province, è l’accertamento dello stato di occupazione/disoccupazione, utile per l’erogazione di sussidi.Quindi, nell’ottica delle modificazioni apportate dai vari interventi legislativi, il disoccupato deve assumere un atteggiamento attivo nella ricerca di un lavoro, onde evitare di permanere nel suo stato di inattività. Lo stato di disoccupazione viene meno nel momento in cui il soggetto inizia a lavorare o non si presenti, senza giustificato motivo, ad una convocazione del Centro per l’impiego oppure rifiuti una congrua offerta di lavoro nell’ambito del bacino territoriale di appartenenza.Sui datori di lavoro grava, poi, l’obbligo di comunicazione ai Centri per l’impiego in caso di modificazione delle originarie condizioni di assunzione di un lavoratore, per sopravvenute modifiche contrattuali.

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Il servizio offerto dalle amministrazioni locali, quindi, si configura come un servizio pubblico a sostegno dell’occupazione, in concorrenza con quello offerto dai privati ed in base alle discipline regionali che si vanno moltiplicando in materia.Infine, va osservato che il problema dell’arresto della crescita occupazionale riguarda tutta l’Unione Europea, il che ha giustificato l’inserimento, da parte del Trattato di Amsterdam, del raggiungimento di un elevato livello occupazionale e di protezione sociale da parte, all’interno degli obiettivi dell’UE previsti nell’art. 2 TUE.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: già all’interno del testo, al di là dell’appendice, si è avuto modo di precisare che il datore di lavoro è obbligato, nella maggior parte dei rapporti lavorativi (subordinati o autonomi in forma coordinata e continuativa, anche a progetto o nel caso di socio lavoratore di cooperativa e di associato in partecipazione con apporto lavorativo), a dare comunicazione dell’instaurazione di un rapporto lavorativo un giorno prima della stessa al Servizio per l’impiego competente a livello territoriale. Inoltre ogni datore di lavoro era obbligato a tenere il libro paga ed il libro matricola, unificati dal D.L.112/2008 (convertito con L.133/2008) all’interno del LIBRO UNICO, il quale deve contenere informazioni retributive, previdenziali, fiscali ed assicurative di tutti i lavoratori. Sono obbligati ad averlo tutti i datori di lavoro privati, ad eccezione di quelli domestici, ed all’interno dello stesso vanno iscritti tutti i lavoratori subordinati, anche a domicilio, i collaboratori continuativi e coordinati, anche quelli a progetto, nonché gli associati in partecipazione con apporto di lavoro, anche misto. Solo collaboratori di imprese familiari, coadiuvanti di imprese commerciali e soci lavoratori di attività commerciale e di impresein forma societaria sono esclusi. Il libro può essere conservato presso la sede legale dell’impresa, presso lo studio del consulente del lavoro o presso le associazioni di categorie delle imprese artigiane e delle piccole imprese.Va precisato che i rapporti di lavoro devono rientrare nell’ambito della legalità ed il legislatore, infatti, si è scagliato contro il lavoro in nero, ossia contro il lavoro esercitato da quei soggetti che non risultano da alcuna scrittura o da altra documentazione obbligatoria. Per i datori di lavoro che si avvalgono del lavoro in nero è prevista una sanzione amministrativa da €1500,00 sino a €12.000 per ciascun lavoratore, maggiorata di € 150,00 per ogni giornata di lavoro effettivo e comminata dalla Direzione provinciale del lavoro. E’ prevista, inoltre, la sospensione dell’attività d’impresa in caso di reiterate violazioni o nel caso in cui si riscontri che il 20% almeno del totale dei lavoratori sia “a nero”.Il collocamento in agricoltura. Gli altri collocamenti speciali. Lavoratori italiani disponibili a lavorare in Paesi extra-comunitari. Lavoratori extra-comunitariLa riforma del mercato del lavoro ha riguardato, oltre al collocamento ordinario, anche il collocamento in agricoltura, nonché i collocamenti speciali dapprima previsti. In tema di agricoltura, infatti, il collocamento concepito come incontro tra la domanda e l’offerta, aveva fallito nel proprio compito, specie con riferimento alle regioni meridionali, dove gli squilibri del mercato agricolo consentono la sopravvivenza di deprecabili forme di mediazione privata prive di ogni controllo (cosiddette caporalato).Sono stati, pertanto, soppressi gli uffici del Ministero del lavoro per il collocamento in agricoltura, le cui competenze sono passate ai Centri per l’impiego e la cui disciplina deve essere emanata dalle Regioni.Anche gli altri sistemi di collocamento speciale sono venuti meno o comunque sono stati ricondotti alla disciplina delle Regioni: lavoratori dello spettacolo, per i quali la legislazione nazionale si limita a prevedere che le Regioni esercitino là le loro funzioni sulla base di una lista nazionale e lavoratori a domicilio, con l’istituzione di appositi registri per i datori di lavoro che intendono commettere lavoro a domicilio e per i lavoratori che ne facciano richiesta o che risultino prestare di fatto lavoro a domicilio..Presso le regioni, tuttavia, vi sono delle speciali liste per ciò che concerne i lavoratori italiani disposti a svolgere la propria attività all’estero in Paesi extra-comunitari, a cui continua ad applicarsi una disciplina speciale.Per ciò che riguarda, al contrario, i lavoratori extra-comunitari nel nostro Paese, è previsto un controllo dei flussi migratori tramite la previsione annuale del Governo delle quote massime di stranieri che possono lavorare nel nostro Paese, tenuto conto delle quote-flussi, misure di

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protezione temporanea volte ad occupare più lavoratori italiani. Inoltre il cittadino extra-comunitario che voglia lavorare all’interno dello Stato italiano necessita di un contratto di soggiorno per lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato, o per lavoro stagionale: in tale contratto è previsto che il datore di lavoro si faccia garante della disponibilità di un alloggio, che deve rispettare determinati standard, per il lavoratore, nonché delle spese per il ritorno del lavoratore nel Paese d’origine. Un’integrazione socio-economica è, invece, prevista per i lavoratori regolarmente immigrati, nei confronti dei quali non si deve applicare alcuna discriminazione.

Sez. B: Il collocamento dei disabiliDal collocamento obbligatorio al collocamento mirato dei disabili.La disciplina del collocamento originaria, benché agevolasse l’incontro tra domanda ed offerta, non vincolava, per la generalità dei lavoratori, l’autonomi privata dei datori di lavoro in alcun modo. In virtù di tale sistema, originariamente introdotto a tutela degli invalidi di guerra, ed in seguito per un numero sempre crescente di categorie di disabili, il legislatore si propone di tutelare il diritto al lavoro dei disabili, in quanto soggetti caratterizzati da una particolare e più intensa situazione di debolezza contrattuale.Era posto a carico di datori di lavoro l’obbligo a contrarre nei confronti di queste categorie in cambio di agevolazioni di vario tipo: il datore di lavoro che non avesse ottemperato a tale obbligo sarebbe andato incontro a sanzioni amministrative e per la PA anche penali in caso di inosservanza delle disposizioni della legge.La disciplina in materia è contenuta nella L.68/1999, la quale prevede un sistema di sostegno e collocamento mirato dei disabili coordinato con il sistema dei servizi all’impiego: sono le Regioni a doversi occupare dell’intera disciplina in materia, prevedendo anche dei nuovi servizi per l’impiego che vadano a sostituire le vecchie commissioni provinciali per il collocamento obbligatorio.

L’inserimento al lavoro dei disabili.Rientrano nella disciplina della L.68/1999 le persone disabili, una volta accertata la propria situazione di disabilità, secondo criteri stabiliti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, la quale deve stabilire anche come effettuare il controllo di permanenza di tale stato invalidante.I datori di lavoro pubblici e privati che abbiano alle proprie dipendenze più di 15 dipendenti, devono impiegare anche un numero variabile di disabili: 1 disabile se occupano dai 15 ai 35 dipendenti, 2 disabili se occupano dai 36 ai 50 dipendenti, il 7% dei lavoratori impiegati se occupano più di 50 dipendenti.In queste quote, definite come quote di riserva, non rientrano i lavoratori già dipendenti divenuti inabili con una riduzione della capacità lavorativa di almeno il 60% qualora tale inabilità sia dovuta a malattia o infortunio o, comunque, quando l’inabilità sia dovuta all’inottemperanza delle regole di sicurezza sul lavoro da parte dell’imprenditore. Non sono, inoltre, computabili nelle quote di riserva i lavoratori a tempo determinato assunti per un periodo inferiore a 9 mesi, i disabili già occupati dal datore di lavoro ed i dirigenti, nonché gli apprendisti e coloro assunti con contratto d’inserimento o di formazione e lavoro nel caso di PA.Tra l’altro sono esclusi dall’assumere disabili le agenzie di somministrazione ed alcuni soggetti (partiti politici e sindacati) per cui l’obbligo non è eliminato, ma temperato. E’ sospeso, ovviamente, tale obbligo per le imprese per cui è in corso la Cassa integrazione guadagni o una procedura di mobilità. Sulla base di un’apposita richiesta, i datori di lavoro possono ripartire i lavoratori disabili tra più unità produttive, oppure chiedere l’esonero parziale in quanto impossibilitati ad assumere, pagando un piccolo contributo per ogni disabile non occupato.Presso i Centri per l’impiego si trovano appositi elenchi di disoccupati disabili da poter impiegare ed il Ministero del lavoro pretende, entro determinati periodi, che i datori di lavoro presentino dei prospetti dai quali si evinca quanti lavoratori disabili sono occupati, nonché i posti di lavoro disponibili per gli stessi.Se la quota d’obbligo di un’impresa risulti scoperta, entro 60 giorni il datore di lavoro deve presentare, al Centro per l’impiego di riferimento, una richiesta di avviamento del disabile, tramite richiesta nominativa e numerica per i privati, solo numerica per la PA.Le imprese, anche qualora non siano vincolate ed obbligate, possono stipulare delle convenzioni

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per l’inserimento dei lavoratori disabili , con le quali, in cambio di agevolazioni di vario genere, il datore di lavoro si impegna ad assumere un determinato numero di soggetti protetti.Un’altra tipologia di convenzione si basa sull’affidamento di commesse di lavoro a soggetti terzi da parte del datore di lavoro obbligato,presso le quali vengano avviate al lavoro le persone con disabilità. La terza tipologia di convenzioni, conferisce ai datori di lavoro la facoltà di adempiere agli obblighi di copertura della quota di riserva senza assumere i lavoratori disabili, ma attraverso una commessa di lavoro a favore di una cooperativa sociale.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: la disciplina dell’inserimento al lavoro dei disabili ha subito alcune modificazione che meritano di essere evidenziate. La L.247/1997 ha previsto che per le convenzioni di inserimento lavorativo temporaneo con finalità formativa, si instauri un rapporto trilaterale tra imprenditore obbligato all’assunzione, soggetti ospitanti (per tali intendendosi le cooperative sociali di tipo b) o imprese sociali e disabile: il datore di lavoro/imprenditore affida delle commesse ai soggetti ospitanti che faranno lavorare il disabile e contestualmente quest’ultimo viene assunto dall’imprenditore, così risultando nella quota di riserva.Diverso è il caso delle convenzioni di inserimento lavorativo definitivo, all’interno delle quali sussiste sempre il rapporto trilaterale, ma il disabile viene assunto dai destinatari, non dagli imprenditori obbligati, che si limitano a conferire le commesse ai destinatari (è possibile solo in caso di imprese con più di 50 dipendenti e nel limite del 10% della quota di riserva, nonché per un periodo massimo di 3 anni, rinnovabile una sola volta per altri 2, al termine del quale il datore può chiedere il rinnovo o assumere il lavoratore disabile). La L.247/1997 ha poi previsto che siano le Regioni e le Province autonome a stabilire gli incentivi a favore di imprese che adoperino disabili. Tutte le modifiche della L.247/1997 sono state apportate alla L.68/1999, di cui abbiamo parlato.

La tutela del disabile nel rapporto di lavoro.Nei confronti del lavoratore disabile assunto obbligatoriamente non devono essere poste in essere condotte discriminatorie , in quanto egli ha diritto al trattamento retributivo e normativo disposto dalle leggi e dai contratti collettivi, oltre a non poter essere impiegato in modo incompatibile con la propria disabilità.Qualora le condizioni di salute si aggravino, il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l’incompatibilità persiste. Tuttavia se l’aggravamento, ovviamente accertato da apposite commissioni, si presenta come definito, il datore di lavoro può ottenere la risoluzione del rapporto per impossibilità sopravvenuta, tramite esercizio del diritto di recesso, ossia per mezzo di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il disabile, inoltre, può essere licenziato anche per giusta causa o giustificato motivo al pari di ogni altro lavoratore che non attenga alla sua condizione personale di inabilità, o anche per riduzione del personale, sempre che non si leda la quota di riserva, in quanto in tal caso il licenziamento è annullabile. Comunque il datore di lavoro dovrà sostituirlo con altro disabile.La Corte costituzionale, tra l’altro, prima dell’emanazione della L.68/1999 aveva previsto che l’assunzione obbligatoria prevista a favore dei disabili non è anticostituzionale, in quanto garantisce l’osservanza dell’art.38 comma 3 della Costituzione, secondo cui gli “inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale”.L’orientamento giurisprudenziale e dottrinale aveva riconosciuto, al lavoratore avviato, un diritto soggettivo all’assunzione. Secondo questo orientamento, pertanto, il lavoratore avrebbe diritto solo al risarcimento del danno per la mancata assunzione.

Sezione C: Formazione professionale.Formazione professionale e trasformazioni economiche. L’alternanza scuola-lavoroLa misura di politica attiva del lavoro sicuramente più idonea a garantire l’incremento dell’occupabilità e quindi un crescente numero della forza lavoro qualificata è offerta dalla “ formazione professionale”, intesa come l’insieme d’interventi finalizzati ad agevolare l’ingresso, il reingresso e la permanenza nel mercato del lavoro, in quanto la sempre maggiore evoluzione tecnologica e la conoscenza di essa non permette solo ai disoccupati di accedere a nuove attività lavorative, ma anche ai già occupati di mantenere il proprio posto di lavoro senza

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che l’imprenditore necessiti di nuovo personale maggiormente qualificato.Inoltre la crisi del contratto di lavoro a tempo indeterminato e l’agevolazione, consecutiva, di forme di lavoro subordinato flessibili (o atipiche) ha permesso il moltiplicarsi di offerte di lavoro diversificate, in cui è richiesta, volta per volta, una formazione professionale diversa.La materia della formazione professionale è, in forza dell’art.117 della Costituzione dopo la riforma del 2001, di competenza esclusiva delle regioni in materia di formazione professionale: ciò significa che solo a tali enti territoriali, e non più al sistema centralizzato dello Stato, è permesso intervenire in materia, salvo casi eccezionali di mancanze da parte delle Regioni.In particolare la legge dichiarava che la formazione professionale costituisce uno strumento di politica attiva del lavoro idoneo a favorire la crescita della personalità dei lavoratori e a promuovere “l’occupazione, la produzione e l’evoluzione dell’organizzazione dei lavoro, in armonia con il progresso scientifico e tecnologico” (art. 1).La consapevolezza delle nuove esigenze del mercato del lavoro ha reso, necessario un nuovo intervento in materia, attuato in occasione ed in collegamento con la riforma sul decentriamo amministrativo, con l’obiettivo di migliorare le opportunità formative. In occasione della riforma sul decentramento amministrativo, la legge ha riservato allo Stato funzioni di indirizzo e di coordinamento degli interventi regionali.Tra l’altro la stessa Unione Europea ha posto la formazione professionale tra i propri obiettivi per garantire un livello crescente di occupazione, all’interno di un sistema in cui il mercato del lavoro sembra in crisi continua.Tra l’altro la formazione professionale deve sposarsi anche con l’istruzione obbligatoria prevista dalla legge, innalzata di recente al compimento del diciottesimo anno di età. Tuttavia può essere prevista una forma di alternanza tra istruzione e formazione professionale, dettata da un’organizzazione del sistema: le scuole medie superiori possono prevedere l’avvicendarsi di orari scolastici e periodi di apprendimento in situazioni lavorative per diverse ragioni:

• attuare modalità di apprendimento flessibili che colleghino la formazioni aula con l’esperienza pratica; • arricchire la formazione acquisita nei percorsi scolastici e formativi con l’acquisizione di competenze spendibili anche nel mercato del lavoro; • favorire l’orientamento dei giovani per valorizzarne le vocazioni personali, gli interessi e gli stili di apprendimento individuali; • realizzare un organico collegamento delle istituzioni scolastiche e formative con il mondo del lavoro e la società civile, correlare l’offerta formativa allo sviluppo culturale, sociale ed economico.

L’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro: gli stages in azienda.Il legislatore ha previsto la possibilità, per garantire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, di poter realizzare un’alternanza tra tirocini formativi e studio scolastico all’interno delle scuole superiori. Oltre a questo, però, è stata prevista la possibilità, anche per coloro che abbiano già assolto l’obbligo scolastico, di poter effettuare degli stages di orientamento e preparazione all’interno di aziende, affiancati da un tutor preparato e competente: questo strumento permetterebbe ai giovani non solo di entrare in contatto col vero mondo del lavoro, ma anche di avere una maggiore conoscenza delle scelte professionali alle quali potrebbero andare incontro.

Il rinnovato interesse del legislatore e delle parto sociali si è manifestato anche sullo specifico versante dell’inserimento dei giovaninel mondo del lavoro. Va segnalata la recente emanazione di una nuova e più organica disciplina dei tirocini formativi. L’art. 18, L. n. 196 del 1997 ha delegato il Ministro del lavoro, di concerto con il Ministro della Pubblica istruzione, ad emanare un nuovo regolamento in materia di tirocinio pratico e di stages.Fermo restando l’obiettivo di tirocini e stages “di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro e di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro” si è prevista l’attribuzione a soggetti qualificati del compito di promuovere iniziative formative in azienda rivolte a giovani che abbiano già assolto l’obbligo scolastico.

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E’ stata prevista la presenza obbligatoria di un tutor e la concessione di particolari agevolazioni per le imprese non operanti nelle regioni meridionali. Infine, è da segnalare la possibilità di istituzioni scolastiche di includere Stage e tirocinio nei rispettivi piani di studio.

CAPITOLO XI: La disciplina della domanda del lavoro c.d. flessibile

Introduzione: dalla cosiddetta legislazione antifraudolenta alla flessibilità controllata.Nel quadro della tutela del prestatore nel mercato del lavoro va ricondotta la domanda c.d. flessibile della forza-lavoro, delimitandone la tipologia e restringendone l’impiego nelle imprese.Di fronte alla domanda di prestazioni di lavoro temporaneo o discontinuo, l’intervento protettivo del legislatore ha l’obiettivo di tutelare l’interesse del lavoratore alla continuità e alla stabilità dell’occupazione, dettando una disciplina volta a restringere l’autonomia negoziale delle parti nella formazione e nell’esecuzione del contratto (c.d. legislazione antifraudolenta). Tale processo può dirsi giunto a conclusione nel 2001 con l’emanazione di una disciplina legislativa che ammette la possibilità di assunzioni a tempo determinato per ragioni oggettive. Ma di esso un altro aspetto di rilievo è rappresentato dall’emanazione, nel 1997, di una disciplina legislativa del lavoro temporaneo o lavoro interinale. Anche in questo caso il legislatore ha perseguito l’obiettivo di introdurre forme di flessibilità controllata e negoziata mediante

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l’intervento della contrattazione collettiva. Le considerazioni che precedono spiegano altresì l’apertura legislativa verso altri tipi di occupazione. Tra queste forme di impiego flessibile (rapporti di lavoro c.d. atipici) vanno annoverati il contratto di formazione e il lavoro a tempo parziale.

Sezione A: Il contratto di lavoro a tempo determinato.L’evoluzione della disciplina legislativa a partire dal codice civileIl contratto di lavoro a tempo determinato è caratterizzato dall’apposizione di un termine finale alla durata del rapporto di lavoro, fissato dalle parti nel momento della costituzione del rapporto, il quale si conclude in quel momento senza necessità di alcuna dichiarazione.Il codice civile, all’interno dell’art. 2097 c.c., guardava con sfavore a tale tipo di contratto, vedendolo in sostanza come negozio potenzialmente fraudolento e teso ad eludere le norme in materia di contratto a tempo indeterminato. Per tale motivo, l’art aveva stabilito che “il contratto di lavoro si deve reputare a tempo indeterminato se il termine non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto”, sancendo l’inefficacia dell’apposizione del termine in forma scritta quando la stessa fosse intervenuta “per eludere le disposizioni che riguardano il contratto a tempo indeterminato”, e disponendo che “se la prestazione di lavoro continua dopo la scadenza del termine e non risulta una contraria volontà delle parti, il contratto si considera a tempo indeterminato”.Ovviamente l’onere di dimostrazione gravava in capo al lavoratore, per il quale sarebbe stato abbastanza difficile dimostrare una tale volontà da parte del datore di lavoro. Per questo motivo il legislatore ha emanato la L.230/1962, con la quale non solo ha abrogato l’art.2097 c.c., ma ha riformato l’intera materia, guardando al contratto di lavoro a tempo determinato come un’ipotesi di eccezionalità nei casi espressamente previsti dalla legge o nel caso di dirigenti, e prevedendo un forte sistema sanzionatorio.La normativa è stata sostituita dal D.Lgs.368/2001, che ha attuato, anche in forza di previsioni di matrice europea, una liberalizzazione controllata della materia, mutando il proprio indirizzo politico originario.

La Direttiva europea sul rapporto di lavoro a tempo determinato, la disciplina introdotta dal D. Lgs. n. 368 del 2001. I requisiti per l’apposizione del termine: le ragioni oggettive; forma e onere di prova.In attuazione della Direttiva comunitaria ‘99/70, contenente l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso tra le organizzazioni sindacali a livello comunitario, il Governo italiano ha emanato il D.Lgs. 368/2001, che ha riformato la disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, abrogando totalmente la L.230/1962 e le norme ad essa collegate, fatta eccezione per le ipotesi di assunzione a termine dei lavoratori in mobilità e per quelli assunti in sostituzione di lavoratori in congedo parentale, di maternità e paternità.In linea con la precedente L.230, anche il decreto suddetto prevede che il contratto di lavoro a tempo determinato debba recare delle causali, ma sancisce l’abbandono del principio di tassatività nella definizione delle fattispecie giustificatrici dell’apposizione di un termine alla durata del contratto. Inoltre, stabilisce che l’apposizione del termine è consentita per rispondere a “ ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo”.Vengono, quindi, rimossi i limiti all’eccezionalità del rapporto di lavoro a tempo determinato, consentendo all’autonomia contrattuale di prevedere una moltitudine di casi in cui è permesso stipulare questo tipo di contratto. Ovviamente la causa giustificatrice deve realmente esistere ed anche nella nuova disciplina è previsto che il contratto sia stipulato per iscritto ad substantiam, anche se il carattere di norma aperta permette al datore di lavoro di trovare una qualsivoglia giustificazione alla conclusione di un contratto a tempo determinato in luogo di uno a tempo indeterminato.Il contratto deve specificare la causa e la scadenza del termine ed essere consegnato entro 5 giorni lavorativi dall’inizio della prestazione al lavoratore, altrimenti perderà di efficacia e verrà considerato come contratto a tempo indeterminato. Il giudice, tra l’altro, che si dovesse ritrovare dinanzi all’impugnazione di un siffatto contratto, potrà, senza entrare nel merito, verificare la sussistenza obiettiva di una causa giustificatrice della temporaneità del rapporto.

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Va notato che l’assenza o incompletezza dell’atto scritto importa l’inefficacia della clausola oppositiva del termine e non la nullità che, pertanto, si considera a tempo indeterminato. Stessa conclusione per l’ipotesi di insussistenza, o non corrispondenza rispetto allo schema legale: anche in questo la nullità non si comunica al contratto medesimo. Si può aggiungere che, avendo la norma dell’art.1, co. 1°, la sua violazione importa la nullità e la cosiddetta conversione in contratto a tempo indeterminato. Consegue che il lavoratore potrà agire in giudizio senza limiti di tempo essendo non solo non soggetta a decadenza ma altresì imprescrittibile.

Divieti; esclusioni; discipline speciali.L’apposizione del termine è vietata in taluni casi tassativamente previsti dalla legge nei queli perciò il contratto si considera sempre a tempo indeterminato:

• sostituzione di lavoratore in sciopero;• Unità produttive dove sono stati licenziati collettivamente lavoratori adibiti alle medesime funzioni, salvo che si tratti di sostituzione di lavoratori assenti, assunzione di lavoratori in mobilità o di contratti di durata inferiore a tre mesi;• Unità produttive interessate da riduzione di orario o sospensioni di lavoro con diritto all’integrazione salariale per lavoratori adibiti alle medesime funzioni di quelli da assumere;• Imprese inadempienti agli obblighi di sicurezza e tutela della salute dei lavoratori sul posto di lavoro L’interesse dell’imprenditore, in questi casi, non merita la tutela del legislatore, dato il contrapporsi d’interessi con alto valore sociale.

Sono esclusi, inoltre, dall’applicazione della disciplina del D.Lgs.368/2001 il contratto di formazione e lavoro, il contratto di apprendistato, il contratto di lavoro temporaneo (poi reintegrato nella disciplina ad opera del D.Lgs.276/2003 che ha previsto la somministrazione di lavoro in luogo del lavoro temporaneo), il rapporto di lavoro degli operai a tempo determinato nell’agricoltura, nonché i rapporti a termine instaurati con aziende di esportazione, importazione ed commercio all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli, ed i c.d. rapporti a giornata di durata inferiore a 3 giorni.Discipline speciali sono poi dedicate a determinate categorie di lavoratori. Per i dirigenti è previsto che il contratto non superi la durata di 5 anni, che non debba prevedere obbligatoriamente la forma scritta, che dia la facoltà al dirigente di recedere dopo un triennio, sebbene con preavviso, e che l’apposizione del termine è libera. Tutto ciò in ragione della maggiore facilità con cui il dirigente può spostarsi nel mercato del lavoro.Altra disciplina speciale è quella inerente il settore del trasporto aereo e dei servizi aeroportuali, per cui è libera l’apposizione del termine.

La proroga del termine e la continuazione del rapporto oltre la scadenza.In tema di proroga l’art. 4, co. 1°, dispone che il termine originariamente prefissato possa essere (senza necessità della forma scritta) prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni e che la proroga sia ammessa una sola volta, quando “sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa”. Infine viene posto un limite massimo di tre anni alla durata complessiva del rapporto a termine in conseguenza della proroga.L’art. 4, co. 2°, addossa al datore l’onere della prova dell’obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano la proroga del termine. Pertanto l’effetto sanzionatorio della cosiddetta conversione opera ex nunc, cioè dal momento successivo alla scadenza pattuita dalle parti. Distinta dalla proroga è l’ipotesi, prevista dall’art. 5, co. 1°, della continuazione del rapporto oltre la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato. Non è in sé illecita ma obbliga il datore di lavoro ad una maggiorazione della retribuzione del 20% e poi del 40%. In questo modo la validità del contratto viene conservata per un tempo predeterminato (c.d. periodo di tolleranza). La maggiorazione retributiva funziona come una sorta di penale rivolta a disincentivare la prosecuzione del rapporto. Se il rapporto continua trova applicazione il meccanismo sanzionatorio della cosiddetta conversione o trasformazione del contratto, a far data dalla scadenza dei termini di tolleranza.

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La successione di più assunzioni a tempo determinatoDiversa ancora è la reiterazione o successione di più assunzioni a termine del medesimo lavoratore. Essa non è vietata, ma tra la scadenza di un contratto a tempo determinato e la stipulazione del successivo devono decorrere alcuni periodi di tempo: 10 giorni se il contratto aveva durata inferiore a 6 mesi e 20 giorni se aveva durata superiore a 6 mesi. Se tali periodi di tempo non vengono rispettati, il contratto diventa a tempo indeterminato.Lo stesso art. 5, co. 3° e 4°, prevede la successione (o c.d. reiterazione) di più assunzioni a termine del medesimo lavoratore. La norma stabilisce che il datore di lavoro può stipulare un nuovo contratto a termine con lo stesso lavoratore, purché dalla data di scadenza siano trascorsi almeno dieci giorni se il contratto iniziale ha una durata fino a sei mesi, venti giorni nel caso di contratto superiore a sei mesi. Il mancato rispetto di questi intervalli comporta l’invalidità e quindi la conversione a tempo indeterminato solo del secondo contratto (e cioè ex nunc). La norma dell’art. 5, co. 4°, considera la più grave ipotesi di una successione di più assunzioni a termine consecutive: in questo caso “il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto” (e cioè ex tunc). In conclusione, la reiterazione di contratti a tempo determinato è da ritenere legittima purché avvenga nel rispetto degli intervalli temporali e la stipulazione dei singoli contratti sia giustificata dalle ragioni oggettive indicate dall’art. 1.Tuttavia la disciplina legislativa in materia non si esaurisce qui: nel 2007, il legislatore è intervenuto con obiettivo di fissare un limite massimo alla successione di contratti a termine tra lavoratore e lo stesso datore di lavoro. Ciò non solo per motivi di politica occupazionale, ma anche al fine adeguare la normativa interna a quella comunitaria.È stata quindi prevista una nuova disciplina con la quale si è innanzitutto fissata, nel caso di successione di contratti a termine fra un lavoratore ed uno stesso datore di lavoro relativi allo “svolgimento di mansioni equivalenti”, una durata massima complessiva di 36 mesi, comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi idi interruzione tra un contratto e un altro.Anche in casi di superamento di questo termine massimo il legislatore ha previsto un periodo di tolleranza: la sanzione del rapporto si applica solo dopo il ventesimo giorno dalla scadenza di quel termine. Il legislatore ha cmq inteso riconoscere la possibilità di stipulare un ulteriore contratto a termine anche oltre il limite dei 36 mesi, attraverso l’adozione di una procedura fondata sul consolidato meccanismo dell’assistenza sindacale al lavoratore in sede negoziale.

La disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinato.Per la disciplina del rapporto trovano applicazione le norme per il rapporto di lavoro a tempo indeterminato in quanto compatibili. L’art. 6 del D.Lgs. n. 368 enuncia la regola dell’uniformità di trattamento economico e normativo precisando che ai lavoratori assunti a tempo determinato sono dovute “le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili”; questi sono definiti come “quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva”. In virtù di questo principio, i trattamenti indicati sono dovuti “in proporzione al periodo lavorativo prestato” o pro rata temporis. L’inosservanza di qsti obblighi espone il datore all’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dall’art. 12, D.Lgs. n. 368.All’equiparazione tra prestatore di lavoro a tempo determinato e indeterminato si può ricondurre la norma dell’art. 8, in virtù della quale i lavoratori a termine sono computabili ove il contratto abbia durata superiore a nove mesi. La legge ha inoltre predisposto tutele del diritto alla salute e dell’interesse ad una occupazione stabile dei lavoratori a tempo determinato. Il diritto ad una formazione professionale sufficiente ed adeguata alle mansioni espletate “al fine di prevenire rischi specifici connessi alla esecuzione del lavoro”. Ancora ai contratti collettivi nazionali è affidato il compito di definire le modalità e i contenuti delle informazioni circa il ricorso ai contratti a termine nelle aziende; nonché le modalità affinché ai lavoratori a tempo determinato siano rese le informazioni circa i posti vacanti disponibili nell’impresa. Nessuna disposizione è contenuta nel D.Lgs. n. 368 in merito alla disciplina cui deve ritenersi

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assoggettato un eventuale scioglimento del contratto ante tempus. infatti, fatta eccezione per l’ipotesi della sussistenza di una giusta causa, la legge assicura alle parti una stabilità contrattuale, il quale dovrà proseguire fino alla scadenza concordata.

Limitazioni quantitative all’apposizione del termine; esenzioni; il diritto di precedenza.L’apertura all’autonomia individuale in merito alle causali giustificatrici è riequilibrata dalle disposizioni all’autonomia collettiva, utilizzando la cosiddetta delega normativa, un’importante funzione di controllo e disciplina del contratto a tempo determinato. In particolare, l’art. 10, co. 7°, D.Lgs. n. 368, affida ai contratti nazionali di lavoro stipulati da sindacati l’individuazione di limitazioni quantitative alle assunzioni a tempo determinato. La ratio della norma è chiara: attraverso il rinvio alla contrattazione collettiva, il legislatore si è proposto l’obiettivo di disciplinare la domanda di lavoro temporaneo nel suo complesso.Dette limitazioni quantitative (o c.d. clausole di contingentamento) possono essere stabilite anche in misura non uniforme ma differenziata.La stipulazione del contratto a tempo determinato deve avvenire nel rispetto dei requisiti previsti dall’art.1: sia quello cosiddetto causale; sia quelle di forma. Di qui deriva la possibilità che l’autonomia collettiva delimiti le cause giustificatrici dell’apposizione del termine.La legge ha escluso dal meccanismo negoziale delle limitazioni quantitative elencate nei co. 7° e 8° dello stesso art. 10. Le fattispecie esenti ai sensi del co. 7° sono:

• la fase di avvio di nuove attività;• le ragioni di carattere sostitutivo e le attività stagionali in genere;• l’intensificazione dell’attività in determinati periodi dell’anno;• specifici spettacoli radiofonici e televisivi;• l’esecuzione di un’opera o servizio definiti.

Il legislatore ha stabilito l’esclusione anche dei contratti giustificati da causale cosiddetta soggettiva, in particolare dei contratti stipulati a conclusione di un periodo di tirocinio o di stage nonché dei contratti stipulati con lavoratori di età superiore a 55 anni. Ancora, il successivo co. 8° ha escluso anche i contratti a tempo determinato i quali, non rientrando nelle causali cosiddetti oggettive e soggettive del co. 7°, siano di durata non superiore ai sette mesi.L’esenzione non si applica quando i contratti siano stipulati “per lo svolgimento di prestazioni di lavoro identiche a quelle che hanno formato oggetto di altro contratto a termine avente le medesime caratteristiche e scaduto da meno di sei mesi”.Infine l’art. 10, co. 9°, affida ai contratti collettivi nazionali stipulati con i sindacati l’individuazione di un diritto di precedenza nell’assunzione presso la stessa azienda e con la medesima qualifica, esclusivamente a favore dei lavoratori”. Il diritto di precedenza non è riconosciuto in via automatica dalla legge ma potrà essere attribuito dalla contrattazione collettiva . Inoltre i lavoratori assunti in forza del diritto di precedenza non concorrono a determinare la quota di riserva sulle assunzioni prevista in favore delle cosiddette fasce deboli di disoccupati. Ai sensi del co. 10° dell’art. 7, “in ogni caso il diritto di precedenza si estingue entro un anno dalla cessazione del rapporto di lavoro”; ai fini del diritto di precedenza, il lavoratore è tenuto a manifestare la propria volontà al datore di lavoro entro il termine di tre mesi dalla cessazione del rapporto.

Sez. B: La somministrazione di lavoro. La disciplina degli appalti e del comando o distaccoL’intermediazione ed interposizione nel rapporto di lavoro. Decentramento produttivo ed esternalizzazioni.Il fenomeno dell’interposizione ed intermediazione nel rapporto di lavoro, configurabile per mezzo di diverse forme giuridiche (somministrazione, appalto etc.), prevede la presenza di un soggetto terzo, intermediario tra i prestatori di lavoro e l’imprenditore. In sostanza un’impresa, senza la necessità di assumere personale, si rivolge ad un intermediario, che gli procurerà la manodopera necessario per l’esercizio dell’attività lavorativa e che si accollerà

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il rischio economico e giuridico della gestione della forza lavoro, tutto ciò per ricavare, dalla differenza tra il monte-salari ed il costo sopportato dall’impresa, un proprio guadagno.Ovviamente ciò comporta una minore tutela del lavoratore: un qualsivoglia evento potrebbe condurre alla decisione dell’impresa di non necessitare più della forza-lavoro, il che lascerebbe i lavoratori tutelati inferiormente rispetto a quanto lo sarebbero se fossero stati assunti dall’impresa stessa.Per tal motivo il legislatore del 1960 guardava con sfavore a questa tipo di rapporto lavorativo, ponendo un divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro.Diversamente dalla mediazione, che agevola la formazione e la conclusione di un contratto, l’intermediazione nei rapporti di lavoro è finalizzata al soddisfacimento dell’interesse delle imprese.Al di là della semplice intermediazione, inoltre, ritroviamo altre fattispecie interpositorie che attuano un decentramento produttivo, il quale prevede una dislocazione all’esterno dell’azienda principale di segmenti del complessivo processo produttivo (esternalizzazione o outsourcing). Il fenomeno in questione utilizza diversi tipi contratti sia sotto il profilo commerciale (appalto, franchising etc.), sia lavorativo (lavoro autonomo, subordinato, parasubordinato) idonee a soddisfare il fabbisogno produttivo e di forza lavoro dell’impresa.

Il divieto di intermediazione ed interposizione nel rapporto di lavoro. Il lavoro temporaneoLa L.1369/1960 aveva introdotto un divieto assoluto di intermediazione ed interposizione nel rapporto di lavoro, vietando in sostanza tanto la fornitura di manodopera reclutata dall’assuntore interposto e messa al servizio dell’imprenditore interponente (somministrazione di lavoro altrui ), quanto l’appalto di manodopera utilizzata dall’interponente sotto la direzione dello stesso appaltatore interposto (pseudo-appalto, differente dall’appalto in quanto si fornisce solo una prestazione di lavoro, senza organizzazione dello stesso e gestione d’impresa a proprio rischio). In caso di violazione delle norme previste dalla L.1369 erano previste sanzioni penali, a carico dell’imprenditore e dell’intermediario, e sanzioni civili, in quanto i prestatori di lavoro venivano considerati come dipendente dell’imprenditore.La L.1369, inoltre, dettava una nuova disciplina propria degli appalti leciti, distinguendo tra appalti interni, inerenti il normale ciclo produttivo dell’impresa committente, ed appalti esterni, estranei al normale ciclo produttivo della stessa. Era prevista un’uniformità di trattamentonormativo e retributivo, nel caso di appalto interno, tra i dipendenti dell’appaltante e quelli dell’appaltatore.La L.1369, impedendo la somministrazione di manodopera, lasciava l’Italia fuori da un quadro normativo pressoché unico dei Paesi industrializzati, europei e non.Così, la L.196/1997 aveva ala fine introdotto anche in Italia il lavoro interinale (o fornitura di lavoro temporaneo), il quale configurava un rapporto trilaterale in forza del quale un’agenziaintermediatrice (o impresa fornitrice) inviava temporaneamente la forza lavoro, da essa assunta, presso un terzo (utilizzatore) per effettuare una prestazione lavorativa a favore di quest’ultimo. Venivano alla luce, quindi, due rapporti distinti: quello di fornitura, intercorrente tra l’intermediario fornitore e l’imprenditore-utilizzatore, e quello di lavoro, stipulato tra l’agenzia fornitrice ed i prestatori di lavoro. Va sottolineato come i lavoratori, pur essendo dipendenti del fornitore, obbedivano al potere direttivo e di controllo dell’utilizzatore. La disciplina, però, appariva molto rigida: solo le agenzie autorizzate dal Ministero del lavoro, in quanto società di capitali o cooperative con unico scopo sociale la fornitura, potevano ricorrere al lavoro interinale ed esercitare attività di fornitura . Inoltre l’utilizzatore doveva avvalersi del lavoro interinale solo per esigenze temporanee, individuate tassativamente dai contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi. La L.1369/1960, tra l’altro, non risultava abrogata dalla L.196/1997 e continuava ad operare per il pseudo appalto.

Somministrazione di lavoro: ipotesi di ricorso alla somministrazioneIl D.Lgs.276/2003, in attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla L.30/2003 (Legge Biagi), ha abrogato definitivamente la L.1369/1960 inerente il divieto di intermediazione ed interposizione, nonché gli artt.1 al 11 della L.196/1997 in tema di lavoro interinale, introducendo una nuova disciplina normativa in tema di somministrazione del lavoro.

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Essa permette ad agenzie per il lavoro, autorizzate dal Ministero del Lavoro in base a requisiti di professionalità ed affidabilità e distinte tra agenzie abilitate alla somministrazione a tempo determinato ed agenzie abilitate alla somministrazione a tempo indeterminato, di esercitare l’attività di somministrazione.La somministrazione a tempo determinato, unica ipotesi possibile in caso di pubbliche amministrazioni, è consentita “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore” (art.20 comma 4). Limiti quantitativi a questo tipo di somministrazione possono essere previsti dai contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi.La somministrazione a tempo indeterminato (art.20 comma 3) è consentita nei casi tassativamente elencati dalla legge, in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo ed organizzativo:

• Per servizi di consulenza/assistenza nel settore informatico;• Per servizi di custodia, portineria e pulizia;• Per servizi di trasporto persone, merci e macchine da e per lo stabilimento;• Per la gestione di parchi, biblioteche, musei, archivi, magazzini;• Per attività di consulenza direzionale, ricerca e selezione del personale, gestione dello stesso, programmazione delle risorse;• Per attività di marketing, analisi del mercato;• Per la gestione di call-center;• Per l’avvio di iniziative imprenditoriali previste dall’Unione Europea in zone ad alta disoccupazione;• Per costruzioni edilizie in stabilimenti, per installazioni/smontaggio di macchinari ed impianti, per particolari attività produttive legate all’edilizia e cantieristica navale;• Altre ipotesi contemplate da contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi.

La somministrazione, sia essa a tempo determinato o indeterminato, è vietata per la sostituzione di lavoratori in sciopero, per imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi, per lavoratori adibiti ad unità produttive interessate da licenziamenti collettivi o da intervento della CIG.

Disciplina del contratto di somministrazioneIl contratto di somministrazione deve essere stipulato in forma scritta e contenere una serie di elementi fondamentali, che l’agenzia di somministrazione deve comunicare per iscritto al lavoratore, al momento della stipulazione del contratto o al momento dell’invio presso l’utilizzatore, e sono:

• Gli estremi dell’autorizzazione rilasciata al somministratore;• Il numero dei lavoratori da somministrare;• Le ragioni che giustificano la somministrazione;• I rischi per la salute del lavoratore;• Data di inizio e durata del contratto;• Mansioni alle quali adibire il lavoratore;• Luogo, orario e trattamento economico/normativo delle prestazioni lavorative;• Assunzione da parte del somministratore dell’obbligazione del pagamento del trattamento economico e degli onere previdenziali al lavoratore;• Assunzione da parte dell’utilizzatore dell’obbligo di rimborsare al somministratore le somme di cui sopra;• Assunzione dell’utilizzatore dell’obbligo del pagamento diretto al lavoratore, qualora il somministratore sia inadempiente, salvo il diritto di rivalsa.

Disciplina del contratto e del rapporto di lavoro nella somministrazione di manodoperaAnzitutto dobbiamo specificare che il D.Lgs.276/2003 non disciplina in modo specifico il contratto di lavoro dei prestatori soggetti a somministrazione, ma gli elementi principali sono rinvenibili all’interno del decreto.E’ previsto, infatti, che la somministrazione possa essere tanto a tempo determinato, ed in tal caso

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andrà applicata la disciplina del D.Lgs.368/2001 sul lavoro a tempo determinato, quanto a tempo indeterminato, applicando in questo caso la disciplina generale dei rapporti di lavoro.Ovviamente le discipline legislative si applicano laddove siano compatibili. In caso di somministrazione a tempo determinato, per esempio, non si applicano le norme contenenti il divieto di riassunzione del lavoratore laddove non siano trascorsi 10 o 20 giorni: per il lavoratore assunto ai fini della somministrazione, infatti, è previsto che il contratto possa essere prorogato con il consenso del prestatore e per iscritto, nei casi stabiliti dai contratti collettivi.Un altro esempio di disciplina speciale per la somministrazione lo ritroviamo nel caso di assunzione a tempo indeterminato: qualora i prestatori di lavoro non stiano esercitando la propria attività presso alcun utilizzatore, essi dovranno percepire un’indennità mensile di disponibilitàsalvo che, per giustificato motivo o giusta causa, non operi una risoluzione del contratto. Inoltre nel caso di fine dei lavori relativi alla somministrazione, non si applicano le norme in materia di procedura di mobilità, ma quelle previste nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.Per ciò che concerne, poi, il rapporto di lavoro è previsto che i prestatori di lavoro nel caso di somministrazione, benché dipendano da un’agenzia, operano sotto la direzione ed il controllo dell’utilizzatore, ma non sotto il suo potere disciplinare, anche se quest’ultimo potrà esercitarlo indirettamente, rivolgendosi all’agenzia di fornitura. I prestatori, comunque, hanno diritto allo stesso trattamento retributivo e normativo dei dipendenti dell’utilizzatore, nonché a svolgere le mansioni per cui sono stati assunti, in quanto qualora vengano assegnati a mansioni superiori, dovranno ricevere, loro così come l’agenzia di somministrazione, una comunicazione da parte dell’utilizzatore, che altrimenti risponderà in via esclusiva per le differenze di retribuzione e per l’eventuale risarcimento del danno.Ovviamente il prestatore di lavoro in caso di somministrazione gode anch’egli dei diritti sindacali previsti dallo Statuto dei lavoratori, che potrà esercitare presso l’utilizzatore. R.s.a. ed R.s.u., inoltre, devono essere informate del numero dei lavoratori somministrati di cui si avvale l’utilizzatore, nonché delle motivazioni per cui se ne avvale, così come ogni 12 mesi devono essere informate degli eventuali contratti di somministrazione conclusi.

L’apparato sanzionatorioQualora il contratto di somministrazione non rispetti la forma scritta è nullo e si ritiene che il prestatore sia a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore. Inoltre, la violazione degli altri requisiti formali da luogo a sanzioni amministrativo-pecuniarie, cui vanno incontro tanto l’utilizzatore, quanto l’agenzia di somministrazione. A carico di questi ultimi, infine, sono previste sanzioni penali nel caso di attività di somministrazione illegittima, in quanto non autorizzata, con aggravio se vi è sfruttamento minorile.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO DELL’INTERA DISCIPLINA DELLA SOMMINISTRAZIONE.La L.247/2007 ha abolito il contratto di somministrazione a tempo indeterminato e quindi tutte le norme in materia contenute nel D.Lgs.276/2003 (e quindi tutta la trattazione del libro di testo). E’ stata modificata anche la disciplina della somministrazione a tempo determinato, prevedendo che si applichi la disciplina del contratto a tempo determinato, laddove compatibile, con l’esclusione però dell’apparato sanzionatorio previsto per la violazione delle norme in materia di riassunzioni a termine, della disciplina in tema di successione di contratti a termine (che ha fissato un limite temporale massimo di 36 mesi) e del diritto di precedenza del lavoratore sia nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro nei successivi dodici mesi, sia con riferimento alle nuove assunzioni a termine nei lavori stagionali.Inoltre il nuovo Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro ha disposto che tutti gli obblighi di prevenzione e protezione sono a carico dell’utilizzatore.Va sottolineato, infine, che i lavoratori somministrati devono essere iscritti sia nel Libro unico dell’agenzia di somministrazione, sia in quello dell’utilizzatore (solo dati identificativi).

Disciplina degli appaltiDopo l’emanazione del D.Lgs. 276/2003, venendo meno la L.1369/1960, anche la disciplina

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dell’appalto è mutata. Il D.Lgs. è entrato nel cuore della disciplina dell’appalto stabilendo che “il contratto d’appalto si distingue dalla somministrazione di lavoro per l’organizzazione del mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per l’assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa.Sulla base di questa distinzione, sono da ritenere lecite quelle fattispecie in cui, in relazione alla particolare natura e modalità dell’opera o servizio oggetto dell’appalto, l’organizzazione dei mezzi da parte dell’appaltatore, richiesta dall’art.1655 c.c., si risolva nella semplice organizzazione delle prestazioni dei lavoratori utilizzati. Vietato, al contrario, rimane lo pseudo-appalto, vera ipotesi di interposizione illecita, che si configura nel momento in cui la natura e la modalità dell’opera o servizio oggetto dell’appalto non giustifichino una tale semplificazione dell’organizzazione della sola manodopera. Nel caso in cui si configuri una tale situazione, il lavoratore potrà richiedere giudizialmente l’instaurazione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ha utilizzato la sua prestazione, al quale andrà notificato il ricorso giudiziale a norma dell’art.414 c.p.c.

La responsabilità dell’appaltante nei confronti dei dipendenti dell’appaltatore e del subappaltatore, nonché degli enti previdenziali.Venuto meno il principio di uniformità di trattamento, e la conseguente previsione di una responsabilità solidale tra appaltante ed appaltatore nei confronti dei lavoratori dipendente da quest’ultimo, il legislatore ha inteso rafforzare la responsabilità degli imprenditori o datori di lavoro appaltanti nei confronti dei dipendenti dell’appaltatore.Al riguardo è importante la c.d. azione di rivalsa (art. 1676 c.c.), in base alla quale i dipendenti dell’appaltatore “possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda”.Inoltre, a maggiore tutela, il legislatore ha previsto che in caso di appalto di opere o di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti

Il comando o distacco. Le società collegateTra le ipotesi nelle quali le parti, nell’esercizio dell’autonomia negoziale, prevedono condizioni e modalità flessibili di impiego della forza-lavoro troviamo il comando o distacco del lavoratore da un’azienda all’altra: il dipendente viene comandato dal datore di lavoro a prestare servizio, per un certo periodo di tempo, presso un terzo. Quest’ultimo soggetto diviene così il beneficiario della prestazione di lavoro e può essere legittimato ad esercitare taluni poteri disciplinari e di controllo sul prestatore nonché ad adempiere taluni obblighi nei suoi confronti.Il rapporto di lavoro resta nella titolarità del datore assuntore, nonostante l’inserimento del lavoratore nell’azienda del beneficiario. L’istituto del comando (o distacco) del lavoratore da un’azienda ad un’altra è stato per lungo tempo disciplinato solo dalla giurisprudenza, la quale prevedeva che qualora un datore di lavoro decidesse di far beneficiare un altro soggetto della prestazione lavorativa di un proprio dipendente, egli avrebbe dovuto avere un interesse al distacco, in mancanza del quale lo stesso sarebbe stato considerato come ipotesi di interposizione vietata dalla L.1369/1960.Il D.Lgs. introduce per la prima volta una definizione di distacco: il distacco “si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa”. L’art.30 del D.Lgs.276/2003 passa poi a dettare una scarna disciplina del distacco stabilendo che “il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore” e poi che esso “deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato” ove comporti un mutamento di mansioni. Inoltre, è stabilito che il distacco che comporti il trasferimento ad unità produttiva distante più di 50 km da quella a cui è adibito il lavoratore, “solo per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive”.Strettamente connesso al comando o distacco di personale è la prestazione di lavoro alle dipendenze di più società collegate.Secondo l’art. 2359 c.c., si considerano controllate…

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• le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;• le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria;• le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di vincoli contrattuali.

Invece sono considerate collegate anche le società sulle quali un’altra società esercita un’influenza notevole, che si presume esistente quando nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti, ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in borsa.In conclusione, merita di essere segnalato che la disciplina della prestazione di lavoro in regime di distacco è stata recentemente integrata dalle disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro e tenuta del libro unico. Si è previsto che gli obblighi di prevenzione e protezione gravino sul distaccatario, mentre sono a carico del distaccante gli obblighi di informazione e formazione del lavoratore sui rischi connessi all’attività che andrà a svolgere.Nel Libro Unico del distaccante devono risultare a tutti gli effetti i lavoratori comandati, mentre in quello del distaccatario devono risultare solo a fini indicativi.

Distacco di lavoratori in una prestazione di servizi transnazionaleLa crescente diffusione di processi di integrazioni tra imprese e società collegate a livello multinazionale ha suggerito l’emanazione della Direttiva comunitaria 16/12/1996, n. 96 / 71.E’ stata attuata nell’ordinamento italiano con il D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 72, che è volto a tutelare i lavoratori distaccati temporaneamente in territorio italiano da imprese con sede in altro Stato sulla base di un contratto di appalto o di fornitura di servizi. In favore di tali lavoratori è sancito un principio di uniformità di trattamento con i lavoratori comparabili operanti nel luogo del distacco e, nel caso di appalto, con i lavoratori dipendenti dall’impresa appaltante.In conclusione la disciplina appena descritta presenta le caratteristiche di una normativa antifraudolenta, volta ad evitare che attraverso l’istituto del distacco del lavoratore le imprese possano perseguire l’obiettivo di ridurre le tutele economiche e normative per ottenere una riduzione del costo del lavoro. Con la disciplina antifraudolenta nella L. n. 1369 del 1960 il legislatore si è fondato sulla consolidata tecnica protettiva della parità di trattamento e della responsabilità solidale.

Sez. C: Il contratto di lavoro a tempo parziale e le altre tipologie contrattuali ad orario flessibileLa Direttiva comunitaria n.97/81 e il D.Lgs. n.61/2000. Le modifiche introdotte dal D.Lgs. n.276/2003.Il rapporto di lavoro a tempo parziale (part-time) è il tipico esempio di strumento di flessibilità dell’impiego con riferimento al tempo: esso è caratterizzato da un orario di lavoro ridotto rispetto a quello normalmente previsto, al fine di incentivare l’occupazione e fornire una migliore conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.Della materia si è occupata l’UE con l’emanazione della Direttiva ‘97/81, alla quale l’Italia ha dato attuazione con il D.Lgs.61/2000, dettando una nuova normativa in tema di lavoro part-time, tesa ad incentivare la diffusione dello stesso. In materia è poi intervenuto anche il D.Lgs.276/2003, per garantire la diffusione all’interno del nostro ordinamento dello strumento del part-time, il quale però si applica solo ai privati e non alle pubbliche amministrazione, alle quali continua ad applicarsi il D.Lgs.61/2000.

Disciplina del rapporto di lavoro a tempo parzialeIl D.Lgs.61/2000 sancisce che “nel rapporto di lavoro subordinato l’assunzione può avvenire tanto a tempo pieno quanto a tempo parziale”. Individuiamo, quindi, le rispettive nozioni. Per “tempo pieno” si intende l’orario normale di lavoro previsto dalla legge o dagli specifici contratti collettivi; per “tempo parziale” (part-time) si intende l’orario fissato dal contratto individuale di lavoro, ridotto rispetto all’orario normale.All’interno della categoria del tempo parziale, ritroviamo poi altre definizioni: per part-time orizzontale s’intende una riduzione del tempo di lavoro, rispetto all’orario normale, su scala

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giornaliera, mentre per part-time verticale s’intende una riduzione del tempo di lavoro su scala settimanale, mensile o annuale, essendo previsto, all’interno della giornata, un orario normale di lavoro; per part-time misto, infine, s’intende una riduzione dell’orario di lavoro data dalla combinazione tra il part-time orizzontale e quello verticale. Inoltre i contratti collettivi, o addirittura le R.s.a o R.s.u. aziendali, possono prevedere riduzioni dell’orario lavorativo del tutto assestanti.Il contratto part-time deve rispettare la forma scritta ad probationem, ossia per poter essere provato in giudizio, e deve contenere l’indicazione della durata dell’attività lavorativa e delle relativa ripartizione dell’orario di lavoro. Annualmente, tra l’altro, l’impresa deve rendere noto l’andamento delle assunzioni part-time ai rispettivi sindacati.Sia la normativa comunitaria, quanto quella italiana, prevedono che sia adottato, nei confronti dei lavoratori a tempo parziale, il principio di non discriminazione (o uniformità di trattamento) secondo cui alcuna diversità di trattamento, rispetto ai lavoratori a tempo pieno della stessa categoria e con le stesse mansioni, deve essere posta in essere nei confronti dei lavoratori part-time, se non quella inerente la diversa retribuzione e proporzione dei diritti (es. ferie).Il lavoratore, inoltre, può optare per il lavoro a tempo parziale, qualora in quel momento lavori a tempo pieno, o addirittura fare il contrario in alcune ipotesi. In alcun modo, però, il rifiuto del lavoratore di cambiare da part-time a pieno o viceversa, potrà costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento.Potrà, però, figurare come giustificato motivo oggettivo in caso d’importanti esigenze produttive e organizzative dell’impresa. Qualora un lavoratore accetti di passare dal tempo pieno a quello parziale, egli dovrà convalidare la sua scelta presso la Direzione provinciale del lavoro ed avrà un diritto di precedenza rispetto alle nuove assunzioni, per ciò che concerne il ritorno al tempo pieno.

La disciplina del tempo di lavoro; clausole elastiche, lavoro supplementare e straordinario.Abbiamo già detto che il D.Lgs.276/2003 ha modificato la disciplina del lavoro part-time (almeno per i privati) rispetto al D.Lgs.61/2000. Una delle modificazioni ha riguardato il lavoro supplementare e straordinario e le c.d. clausole elastiche.Per lavoro supplementare s’intende il lavoro svolto oltre l’orario di lavoro concordato ed entro il limite del tempo pieno ed esso è applicabile solo e solamente al part-time orizzontale (es. lavoro giornalmente per 4 ore: il lavoro supplementare sarà costituito da un numero di ore superiore a 4 e fino ad 8, che di solito configurano il tempo pieno). Ai contratti collettivi, in caso di lavoro supplementare, è rimesso il compito di stabilire un numero massimo di ore di lavoro supplementare e l’obbligo di corresponsione di una maggiorazione retributiva. In presenza di un contratto collettivo, non occorre il consenso del lavoratore, che però potrà legittimamente rifiutarsi, non costituendo ciò giustificato motivo di licenziamento.Per lavoro straordinario, invece, s’intende il lavoro svolto oltre il normale orario di lavoro giornaliero, in caso però di part-time verticale o misto, dove abbiamo visto che durante l’arco della giornata si lavoro lo stesso numero di ore dei lavoratori a tempo pieno, mentre la riduzione dell’orario avviene su scala settimanale, mensile o annuale.Inoltre nei contratti di lavoro a tempo parziale, dopo le modifiche apportate dal decreto 276, è possibile apporre specifiche clausole flessibili, che comportino la modificazione unilaterale della collocazione temporale dell’attività lavorativa (es. lavoravi la mattina, lavorerai la sera), così come è possibile apporre clausole elastiche, che comportino un aumento della durata della prestazione lavorativa nel suo insieme a seguito di una scelta da parte del datore di lavoro, che deve comunicarlo ai prestatori almeno due giorni prima. L’accordo tra le parti sull’inserzione di clausole flessibili e di clausole elastiche deve essere contemplato in un atto scritto, ed il rifiuto di stipulare il patto non costituisce giustificato motivo di licenziamento.

Normativa incentivante ed apparato sanzionatorioLa normativa in materia di lavoro part-time ha sempre avuto, come obiettivo primario, la promozione dell’occupazione, per realizzare la quale il legislatore ha previsto delle incentivazioni di carattere economico a favore dei datori di lavoro che vedremo più avanti.Altra forma d’incentivazione all’assunzione part-time da parte delle imprese la ritroviamo prendendo in considerazione la consistenza dell’organico delle stesse: i lavoratori part-time vengono computati nel numero complessivo dei dipendenti in relazione all’orario svolto

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rapportato al tempo pieno e l’arrotondamento opera per le frazioni di orario eccedenti la somma degli orari individuati a tempo parziale corrispondente ad unità intere di orario a tempo pieno.Sotto il profilo previdenziale, inoltre, è previsto il riproporzionamento tra tempo lavorato e contribuzione previdenziale.Oltre ad un apparato incentivante, inoltre, è previsto un sistema sanzionatorio per tutelare il rapporto di lavoro part-time. Anzitutto abbiamo detto che la forma scritta del contratto è richiesta solo ad probationem, quindi ai fini della prova giudiziale dell’esistenza dello stesso: il legislatore ha sancito che la prova per testimoni è ammessa solo in caso di perdita senza colpa dell’atto scritto (art.2725 c.c.), aggiungendo che, in difetto di tale prova, il lavoratore potrà chiedere che venga accertata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dal momento in cui il giudice ha accertato che manchi la prova scritta. Se manca, poi, l’indicazione della durata all’interno del contratto, il giudice potrà dichiarare l’esistenza di un rapporto a tempo pieno a partire dalla sentenza. Qualora manchi, invece, l’indicazione della collocazione temporale della prestazione, questa sarà determinata dal giudice, secondo i contratti collettivi o secondo equità.Inoltre nel caso di violazione del diritto di precedenza del lavoratore part-time nell’ipotesi di nuove assunzioni a tempo pieno, egli avrà diritto al risarcimento del danno, calcolato tramite la differenza tra la propria retribuzione e quella che avrebbe conseguito se fosse passato a tempo pieno, moltiplicata per sei mesi (tale diritto non opera automaticamente, dopo il decreto 276 deve essere inserito nel contratto individuale).

Specialità del rapporto di lavoro a tempo parziale e ruolo della contrattazione collettivaIl rapporto di lavoro part-time si configura come un rapporto speciale, volto a rispondere all’esigenza di flessibilità dei datori di lavoro con la forza-lavoro disponibile a lavorare ad orario ridotto. Si tratta, quindi, di un rapporto che garantisce la crescita occupazionale.In precedenza un ruolo di riferimento era detenuto dalla contrattazione collettiva, che avrebbe dovuto, nell’interesse generale, derogare ed integrare la normativa in materia. Il decreto 276/2003 sembra non avere riconosciuto un tal ruolo all’autonomia collettiva, ponendo in risalto l’autonomia individuale.

Il lavoro intermittenteUna forma particolare di contratto a tempo parziale si ha con il lavoro intermittente (o a chiamata), che può essere considerato come una particolare declinazione dello schema generale del lavoro a tempo parziale (si tratta di una combinazione tra part-time e lavoro a tempo determinato. Esso è stato disciplinato ed introdotto dal D.Lgs.276/2003. Con il contratto di lavoro intermittente il lavoratore mette le proprie energie a disposizione del datore di lavoro, il quale, qualora ne necessiti, contatta il prestatore per usufruirne, retribuendolo per il periodo effettivamente lavorato e riconoscendogli un’indennità di disponibilità per il periodo di attesa. Lo svolgimento delle prestazioni è quindi discontinuo ed è la disciplina collettiva ad individuare per quali attività sia consentito il lavoro a chiamata (in assenza si osserva il R.D.2657/1923, contenente l’elenco delle occupazioni che richiedono lavoro discontinuo).Possono concludere il contratto di lavoro a chiamata solo giovani sotto i 25 anni di età o lavoratori con più di 45 anni, anche pensionati. E’ vietato il ricorso al lavoro intermittente per sostituire lavoratori in sciopero, o lavoratori licenziati collettivamente o posti in CIG.Per tale contratto è richiesta la forma scritta ad probationem, la quale deve provare una serie di elementi inerenti il rapporto di lavoro a chiamata, ossia la durata, il luogo, le modalità di disponibilità del lavoratore e la consecutiva indennità, le modalità di preavviso del prestatore (il quale deve avvenire almeno un giorno prima), tempi e modalità di pagamento, nonché tutte le indicazioni previste dalla contrattazione collettiva.Il prestatore di lavoro intermittente viene computato nell’organico dell’impresa in proporzione all’orario di lavoro svolto nell’arco di 6 mesi.Abbiamo visto come il lavoratore soggetto ad un tal tipo di rapporto debba prestare la propriadisponibilità, affinché il datore di lavoro, qualora ne necessiti, possa avvalersi della sua prestazione.Legittimo motivo di rifiuto della chiamata è la malattia o un evento che renda impossibile la

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prestazione, ma in ogni caso si perde l’indennità di disponibilità. Qualsiasi altra giustificazione addotta dal lavoratore può rappresentare un motivo di risoluzione del contratto.Nessuna discriminazione deve essere posta in essere nei confronti del lavoratore a chiamata, né indiretta né diretta, né tanto meno dovuta al particolare contratto di lavoro, in quanto nei periodi di attività lavorativa, il prestatore a chiamata ha diritto ad una retribuzione e ad un trattamento normativo pari a coloro che svolgono le medesime mansioni a tempo pieno. Ovviamente è intuibile che il lavoratore avrà diritto ad trattamento retributivo, previdenziale e normativo proporzionati alla quantità del proprio lavoro, ma sarà ugualmente tutelato in caso di malattia, infortunio sul lavoro, maternità, malattia professionale.Quindi notiamo come una gran parte del contratto a chiamata sia stabilita non dalle parti, ma dal solo datore di lavoro, il che potrebbe condurre la Corte costituzionale a pronunciarsi contro la legittimità di una tale previsione legislativa.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO.La disciplina del lavoro intermittente è stata abrogata all’interno della L.247/2007, per poi essere ripresa ripristinata del tutto dal D.L.112/2008. La disciplina rimane, pertanto, immutata.

Il lavoro ripartitoUn altro tipo di contratto a lavoro parziale è costituito dal contratto di lavoro ripartito, introdotto dall’art. 41 del decreto n. 276, in forza del quale due lavoratori assumono solidalmente l’adempimento dell’obbligazione di lavoro nei confronti del datore. Entrambi rispondono per l’intera obbligazione, concordando autonomamente la ripartizione del lavoro, ma l’impossibilità di uno dei due ricade anche sull’altro e la risoluzione del rapporto causata da uno, si ripercuote anche sull’altro lavoratore, almeno che il datore di lavoro non chieda al prestatore non colpevole di assumere su di se l’intera obbligazione.Il contratto deve rispettare la forma scritta per provare una serie di elementi, quali la misura e la collocazione temporale della prestazione di ogni lavoratore, nonché il trattamento economico e normativo spettante ad ognuno.

Sez. D: I contratti parasubordinatiIl lavoro a progetto A partire dagli anni 80 si è assistito ad un continuo proliferare delle collaborazioni coordinate e continuative. Il D.Lgs.276/2003 ha ridisegnato la fattispecie, al fine di differenziare i rapporti di collaborazione autonoma da quelli che mascherano un lavoro subordinato, ha introdotto una nuova disciplina inerente il lavoro autonomo coordinato e continuativo “a progetto”. Per alcune attività lavorative, tuttavia, rimane in vigore la figura tradizionale della collaborazione continuativa e coordinata:• Rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale;• Professioni intellettuali per le quali è richiesta l’iscrizione in appositi albi o elenchi;• Collaborazioni rese da amministratori, sindaci di società, soggetti che percepiscono la pensione di vecchiaia;• Settore della PA, escluso palesemente dall’applicazione dell’intero decreto.Il contratto di lavoro a progetto sembra configurare un sottotipo del contratto d’opera previsto dall’art. 2222 c.c. Tale contratto, infatti, deve OBBLIGATORIAMENTE prevedere un “progetto specifico, un programma di lavoro o una fase dello stesso”, ma mentre per il progetto specifico potremmo pensare che occorra una particolare professionalità e competenza, il concetto di programma di lavoro o fase di lavoro potremmo ricondurlo ad una qualsiasi attività, anche elementare, per cui non è richiesta alcuna particolare preparazione. Il progetto o programma, comunque, definisce l’oggetto della prestazione lavorativa, nonché il limite di durata del contratto: eseguito lo stesso, infatti, il contratto può ritenersi risolto.Il contratto deve rispettare la forma scritta ad probationem, proprio per poter provare alcuni degli elementi fondamentali del rapporto, quali la durata determinata o quanto meno determinabile dettata dalla realizzazione del progetto o programma. Si tratta comunque di un rapporto parasubordinato, in quanto benché permanga un autonomia del prestatore nel compimento del programma/progetto/fase di lavoro, egli rimane pur sempre dipendente dalla necessità del

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committente, suo datore di lavoro. E’ tutelata comunque l’attività inventiva del collaboratore (art. 65), al quale viene riconosciuta la proprietà intellettuale delle invenzioni realizzate in costanza del rapporto. In caso d’impossibilità temporanea della prestazione (art. 66), il prestatore ha diritto ad una sospensione non retribuita del rapporto in caso di gravidanza, malattia ed infortunio, ma solo in gravidanza tale sospensione è garantita per un periodo di 180 giorni, mentre per malattia o infortunio non si ha proroga del termine contrattuale, della durata contrattuale, cosicché il contratto si estingue alla scadenza, ed anzi il committente prima della scadenza del termine se la sospensione si protrae per oltre 30 giorni o oltre 1/6 della durata contrattuale. Il contratto, comunque, come abbiamo già detto, si estingue al momento della realizzazione del progetto o programma (art.67), anche se è consentito il recesso ante tempus per giusta causa o con preavviso nei casi stabiliti dalla contrattazione collettiva o dalle parti.Il contratto a progetto è un contratto a causa rigida (art.69), in quanto la mancata previsione di uno specifico progetto o programma o fase di lavoro, da luogo alla conversione in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, anche se la conversione non opera automaticamente, ma può essere decisa solo e solamente dal giudice, che potrà optare anche per altre soluzioni e tipologie contrattuali.

Il lavoro occasionaleSono escluse dalla tipologia del contratto a progetto le prestazioni di lavoro occasionali, ossia “i rapporti di durata complessiva non superiore a 30 giorni nel corso dell’anno solare, ovvero non superiore a 240 ore salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5000 euro”. In caso contrario, ossia in caso di travalicamento dei limiti fissati, si applicano le disposizioni sul lavoro a progetto.

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CAPITOLO XII: Le eccedenze di personale e la tutela dell’occupazione

Introduzione: le eccedenze di personale ed i processi di riaggiustamento industriale.Il fenomeno dell’eccedenza e della riduzione di personale è collegata alla tutela del diritto di lavoro. Nell’ambito della disciplina dei rapporti di lavoro e della tutela dell’occupazione dobbiamo prendere in considerazione due interessi coesistenti e talvolta confliggenti all’interno del mercato e della società: quello all’occupazione ed al mantenimento del posto di lavoro e quello alla continuazione dell’esecuzione dell’attività economica da parte degli imprenditori.Nel caso delle eccedenze di personale viene in rilievo la contraddizione tra la disoccupazione come fenomeno di massa e l’esigenza di garantire il miglioramento dei livelli di reddito e di occupazione. L’andamento ciclico dell’economia, la concorrenza con Paesi in cui la manodopera ha un costo nettamente inferiore e la necessità dei processi di ammodernamento della produzione, delle tecnologie e dei sistemi organizzativi, spesso conducono ad un eccedenza del personale all’interno delle imprese e ad una conseguente riduzione dello stesso.La disciplina delle eccedenze di manodopera è dunque una materia cruciale nella quale si confrontano gli interessi configgenti all’occupazione e l’esercizio dell’attività economica: si tratta di interessi entrambi costituzionalmente rilevanti. Da osservare che il ruolo centrale è svolto dall’autonomia collettiva nel governo delle eccedenze personale. Ma occorre altresì sottolineare che gli interessi generali coinvolti hanno richiesto interventi legislativi.

L’evoluzione storica della disciplina delle eccedenze di personale.Gli interventi legislativi, cui abbiamo accennato nel paragrafo precedente, ha subito un’evoluzione storica all’interno della quale distinguiamo 3 fasi.• La prima fase inizia con la soppressione del blocco dei licenziamenti e l’istituzione (1945) della Cassa integrazione guadagni (CIG) e colloca la previsione dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale nell’ambito esclusivamente contrattuale della disciplina interconfederale accanto a quella dei licenziamenti individuali.

In questa fase la CIG assolve alla funzione di evitare che di fronte ad eventi transitori ed eccezionali il datore di lavoro sia costretto a licenziare e di garantire che i lavoratori possano conservare sia il posto di lavoro che il reddito.

• Nella seconda fase, successiva alla L. 15 luglio 1966, n. 604, sui licenziamenti individuali, si pone il problema della delimitazione dell’ambito di applicazione della disciplina contrattuale dei licenziamenti collettivi. Nel 1968 la gestione straordinaria della CIG si sviluppa come strumento d’intervento di lunga durata a sostegno del reddito dei lavoratori. Parallelamente viene elaborata una complessa disciplina a sostegno dell’occupazione.• La terza fase è quella aperta dalla L. 23 luglio 1991, n. 223, nella quale si assiste ad una risistemazione della normativa sull’intervento straordinario della Cassa integrazione guadagni. Inoltre si procede ad una legificazione della materia dei licenziamenti collettivi e in questo ambito viene introdotto l’istituto della mobilità collettiva per l’avviamento dei lavoratori eccedenti ad una rioccupazione.Il passaggio dalla seconda alla terza fase si giustifica con l’intento del legislatore di segnare uno spartiacque rispetto al ventennio precedente, durante il quale fu indotto un potenziamento degli interventi dello stato sociale. Occorre sottolineare che proprio il rilievo centrale che la materia in esame acquisisce sul piano del conflitto sociale non ha consentito una stabilità dell’assetto normativo introdotto con la L. n. 223 del 1991, a fronte della perdurante instabilità del quadro economico. Altro aspetto da sottolineare è che il legislatore è intervenuto per promuovere la sperimentazione

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di nuove specie di ammortizzatori sociali regolate e gestite dalla contrattazione collettiva. Già la L. 23 dicembre 1996, n. 662 ha previsto che con decreto del Ministro del lavoro di concerto con il Ministro del tesoro vengano definite misure sperimentali per il perseguimento di politiche di sostegno del reddito e dell’occupazione. In nuovi settori di intervento, si tende al superamento delle tradizionali forme di garanzia del reddito di tipo esclusivamente pubblicistico e ad un maggior coinvolgimento delle parti sociali attraverso la previsione di forme di previdenza volontaria. Queste esperienze potrebbero rappresentare una nuova fase.

Sez. A: La Cassa integrazione guadagni.L’intervento ordinario della Cassa integrazione guadagni (CIGO).Per sostenere le imprese del settore industriale, in brevi periodi di contrazione dell’attività produttiva è previsto l’intervento ordinario della CIG, ossia di sospensioni del lavoro o riduzionidell’orario lavorativo dovute ad eventi transitori non imputabili al datore o ai prestatori, o a determinate situazioni temporanee del mercato (cause integrabili), per sostenere il reddito dei lavoratori coinvolti.L’intervento è finanziato da:· Contributi statali;· Contributi di tutte le imprese;· Contributi dell’impresa coinvolta.L’ammontare del trattamento corrisponde, per i primi sei mesi, all’80% della retribuzione, ma dopo il primo semestre non può superare un tetto massimo, che comunque viene incrementato annualmente nella misura dell’80% dell’aumento dei prezzi di consumo secondo l’ISTAT.La procedura per giungere alla CIG prevede la consultazione dei sindacati da parte dell’imprenditore, nel caso in cui si renda necessaria una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario lavorativo: egli deve comunicare alle R.s.a. o, in mancanza, agli organismi provinciali, la durata prevedibile della contrazione/sospensione del lavoro ed il numero di prestatori coinvolti.Successivamente all’informazione e consultazione sindacale, vi è la fase del procedimento amministrativo di concessione dell’integrazione salariale: l’impresa deve fare richiesta di CIG alla sede provinciale dell’INPS, laddove se non lo facesse sarebbe obbligato a corrispondere egli stesso la somma pari all’importo di integrazione non percepita.La durata massima dell’integrazione ordinaria è di 3 mesi continuativi, tuttavia prorogabile in casi eccezionali sino ad un anno. Qualora si tratti di un’integrazione discontinua, non può comunque superare il periodo di 12 mesi in un biennio.L’intervento della CIG è stato esteso anche ai settori dell’edilizia e dell’agricoltura , in cui fronteggia la discontinuità dell’occupazione e non le difficoltà dell’impresa.

L’intervento straordinario della Cassa integrazione guadagni (CIGS). Le fattispecie causali; leprocedure per la concessione del trattamento; la durata dell’integrazione ed i meccanismi di rotazione tra i lavoratori.L’intervento straordinario della CIG , valevole per il settore industriale, assicura la continuità del reddito e dell’occupazione dei lavoratori, attraverso la sospensione dei rapporti di lavoro che consente di non ricorrere ai licenziamenti collettivi . Se, però, l’intervento ordinario mira a far fronte a situazioni di tipo congiunturale, quello straordinario tende a fronteggiare situazioni di tipo strutturale, cioè di durevole eccedenza di personale.L’intervento straordinario della CIG è finanziato nella medesima maniera dell’intervento ordinario e la disciplina è contenuta all’interno della L.164/1975, nonché all’interno della L.223/1991 che l’ha ridisegnata, aprendo la terza fase di cui si è parlato in precedenza.Sono cause integrabili in presenza della quali può essere concessa l’integrazione straordinaria:• Ipotesi di ristrutturazione, riorganizzazione e conversione aziendale;• Crisi aziendale di particolare rilevanza sociale in merito alla situazione produttiva del settore a quella occupazione locale;• Ipotesi di procedura concorsuale;

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• Ipotesi di contratto di solidarietà interna.Nelle prime 2 ipotesi l’obiettivo della CIGS è quello di permettere all’impresa in difficoltà di continuare ad operare sul mercato senza ricorrere a licenziamenti. Nella terza ipotesi la CIGS ha il compito di evitare che gli organi incaricati dell’amministrazione ricorrano ai licenziamenti. Della quarta ipotesi si parlerà in seguito.L’integrazione salariale straordinaria spetta ad operai, impiegati e quadri intermedi con un’anzianità di almeno 90 giorni, ed a quelle imprese che nei 6 mesi precedenti la richiesta di CIGS abbiano occupato mediamente almeno 15 dipendenti, inclusi apprendisti ed ipotesi di contratto di formazione e lavoro.Per quanto riguarda la procedura per la concessione del trattamento d’integrazione straorinaria, l’impresa è tenuta ad esperire in via preventiva la procedura di consultazione sindacale con le RSA, già descritta per l’intervento ordinario della CIG, nelle prime 2 ipotesi di cause integrabili sopra descritte (ristrutturazione…e crisi). Richiesta di ammissione all’intervento in cui si attesti l’avvenuta consultazione sindacale e programma di risanamento vanno, poi, consegnati al Ministro (nelle ipotesi di crisi aziendale) o alla Direzione provinciale del lavoro (nelle altre ipotesi). La presentazione tardiva da luogo alla responsabilità dell’imprenditore, che dovrà corrispondere egli stesso l’integrazione.Il programma, tra l’altro, va approvato dal Ministro del lavoro , previa istruttoria di un apposito comitato tecnico sulla base di criteri generali fissati dal Comitato Interministeriale di Programmazione Economica (CIPE) e tocca al Ministro concedere, con decreto, l’intervento straordinario di integrazione salariale.L’intervento può durare, in caso di ristrutturazione, riorganizzazione e conversione aziendale, al massimo 2 anni, salvo che l’impresa, previo confronto con le r.s.a. o comunque con le organizzazione sindacali, non ne chieda una modificazione: il Ministro potrà autorizzare massimo 2 proroghe, del periodo di 12 mesi l’una, qualora il programma di risanamento presenti delle difficoltà di attuazione.In caso, invece, di crisi aziendale, l’intervento ha una durata massima di 12 mesi, non prorogabile ed una nuova concessione, per la medesima causa integrabile, può essere stabilita solo dopo un periodo pari ai 2/3 di quello relativo alla prima concessione.Abbiamo accennato a come la CIGS, nella seconda fase, fosse divenuta un surrogato dell’indennità di disoccupazione, potendosi prolungare per periodo indefiniti. La L.223/1991, rispristinando la funzione originaria della CIGS, ha previsto un periodo massimo di trattamento straordinario pari a 36 mesi in un quinquennio per ogni unità produttiva, al di là della causa di concessione e salvo proroghe o casi in cui la CIG sia stata concessa in forza di un contratto di solidarietà interna, secondo le condizioni stabilite dal Ministro. Tra l’altro dopo il primo trimestre, l’erogazione del trattamento avviene per periodi semestrali, qualora sia stata verificata la regolare attuazione del programma da parte dell’impresa, che tra l’altro non potrà chiedere l’intervento straordinario per le unità produttive per cui ha richiesto quello ordinario.In forza del generale divieto di discriminazione diretta o indiretta dei lavoratori , per quanto concerne l’individuazione dei lavoratori da collocare in CIGS non deve essere attuata alcuna discriminazione o distinzione per sesso o per altro motivo. L’impresa, tra l’altro, per continuare ad operare nel mercato, potrebbe non adottare meccanismi di rotazione tra i lavoratori, così di fatto sfavorendo quelli collocati in CIGS e favorendo quelli rimasti a lavoro: essa deve indicarne i motivi all’interno del programma di risanamento, ma il Ministro del lavoro è competente a verificarne la fondatezza e qualora egli ritenga che il meccanismo di rotazione debba operare ugualmente, può tentare per 3 mesi di promuovere un accordo tra le parti; in mancanza di un accordo, stabilisce egli stesso il meccanismo di rotazione da attuare, ed in caso d’inottemperanza dell’impresa, è previsto un inasprimento del contributo addizionale per disincentivare il comportamento sfavorito.I lavoratori collocati in CIGS, inoltre, non possono rifiutarsi di partecipare e frequentare a corsi di formazione o riqualificazione, in quanto decadrebbero dal trattamento d’integrazione, almeno che la propria residenza non disti più di 50km dal luogo del corso o che non sia raggiungibile lo stesso con mezzi pubblici in 80 minuti.

L’intervento della CIG nelle ipotesi di procedure concorsuali.

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Abbiamo detto che anche le imprese sottoposte a procedure concorsuali possono far richiesta di CIGS nel caso in cui vi sia stata dichiarazione di fallimento, provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, sottoposizione alla procedura di amministrazione straordinaria, ammissione a concordato preventivo con cessione di beni ed ammesso che NON SIA STATA DISPOSTA O SIA CESSATA LA CONTINUAZIONE DELL’ATTIVITA’ PRODUTTIVA. Se, infatti, l’attività continua il curatore, il liquidatore o il commissario possono ugualmente far richiesta di CIGS, ma per “cause integrabili diverse” ed avendo diritto ad un periodo di trattamento integrativo superiore rispetto ai 12 mesi previsti in caso di procedure concorsuali (aumentabili a 18 se sussistano prospettive di continuazione o ripresa dell’attività, tramite anche una cessione a qualsiasi titolo).

I contratti di solidarietà interna: nozione e disciplina legislativa.Il legislatore nel 1984 ha introdotto nel nostro ordinamento il contratto di solidarietà interna, e ne ha promosso la diffusione attraverso la concessione di un sostegno economico finalizzato a contenere il sacrificio dei lavoratori derivante dalla riduzione dell’orario di lavoro. L’area dell’intervento riguarda i lavoratori dipendenti dalle imprese industriali, da quelle appaltatrici di servizi di mensa e ristorazione, dalle imprese editoriali. La legge prevede che, qualora l’imprenditore abbia stipulato un contratto collettivo aziendale che stabilisca una riduzione dell’orario di lavoro con corrispondente diminuzione della retribuzione, il Ministero disponga la concessione di un trattamento di integrazione salariale posto a carico della contabilità dei trattamenti straordinari della CIG.L’integrazione, pari al 60% della retribuzione perduta, può essere corrisposta per un periodo non superiore a24 mesi, prorogabili fino a 24 mesi. Per i meridionali la proroga è di 36 mesi; ai datori di lavoro un biennio. La retribuzione perduta va determinata non tenendo conto di aumenti nei 6 mesi antecedenti la stipulazione del contratto. Al contrario rimane inalterato in caso di aumenti. Il contratto di solidarietà prevede la possibilità di modificare in aumento l’orario ridotto ed in questo caso è stabilita una riduzione del trattamento di integrazione salariale.

L’estensione progressiva dell’ambito di applicazione dell’intervento straordinario della CIG.Nel settore agricolo l’intervento della CIG, inizialmente previsto per le sospensioni dovute ad intemperie stagionali o ad altre cause non imputabili al lavoratore o al datore, è stato poi esteso ad impiegati, operai e quadri occupati con contratto a tempo indeterminato.Il trattamento straordinario d’integrazione salariale è stato inizialmente concepito per le sole impreseindustriali, mentre in seguito è stato esteso a:• imprese industriali destinate alla commercializzazione dei prodotti delle stesse imprese;• imprese appaltatrici di servizi di mensa e ristorazione;• imprese appaltatrici dei servizi di pulizia;• imprese commerciali con più di 100 addetti;• imprese artigiane con più di 15 addetti.Inoltre, l’integrazione salariale straordinaria è stata estesa anche ai soci di cooperative di produzione e lavoro nonché ai lavoratori dipendenti da imprese operanti nel settore dell’informazione e dell’editoria.La riforma della L. n. 223 del 1991 è volta ad utilizzare, in via temporanea ed eccezionale, l’intervento straordinario in ambiti all’origine es clusi dal suo ordinario campo di applicazione al fine di garantire la stabilità del reddito dei lavoratori.

Gli ammortizzatori sociali in derogaIl problema dei c.d. ammortizzatori sociali in deroga è esploso in occasione soprattutto della grave crisi economica in atto.Così si è intervenuti con norme transitorie e/o derogatorie sulla durata dei trattamenti o anche sulle stesse condizioni di accesso alla CIG. Si è incominciato ad estendere, in modo molto occasionale e frammentato, i trattamenti di integrazione guadagni straordinaria e di mobilità a lavoratori dipendenti da imprese in crisi non rientranti nell’area della CIG. In occasione delle crisi strutturali di alcuni settori (ad es. quello del credito) sono state anche sperimentate e poi generalizzate,

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alcune forme di ammortizzatori sociali, regolate e gestite dalla contrattazione collettiva con il sostegno dello Stato. Infine si è concessa l’indennità di disoccupazione ordinaria ai lavoratori di settori non coperti da CIG sospesi per effetto di situazioni aziendali straordinarie.Tra tutte qst forme si definisco “ammortizzatori sociali in deroga” quelle derogatorie del regime generale, concesse con riferimento ad imprese che non hanno mai contribuito a finanziare qst sistema previdenziale.

CIG e sospensione del rapporto di lavoro: disciplina speciale e principi generali di diritto civile.Abbiamo avuto modo di precisare, nel corso dei precedenti capitoli, che il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive, in quanto alla prestazione lavorativa di una parte corrisponde quella retributiva dell’altra. Abbiamo anche sottolineato come, al di fuori dei casi di oggettiva impossibilità sopravvenuta della prestazione, l’imprenditore che rifiuti la prestazione lavorativa, sospendendo di fatto il lavoro, è da considerarsi in mora credendi. E’ quindi ipotizzabile che, se dovessimo attenerci alle regole generali, dovremmo osservare che in molti casi in cui può essere richiesta la CIG, sia ordinaria che straordinaria, non sussista realmente un’impossibilità sopravvenuta della prestazione retributiva, ma semplicemente una maggiore difficoltà nell’eseguirla, che non attribuisce all’imprenditore il potere di sospendere il rapporto unilateralmente.La distinzione tra le ipotesi d’intervento ordinario e straordinario della Cassa non coincide con quella tra sospensioni dell’attività lavorativa dovute ad impossibilità sopravvenuta e sospensioni dipendenti da fatti organizzativi legati ad una scelta imprenditoriale. Mentre le sospensioni collegate all’intervento straordinario non sono riconducibili ad una causa di impossibilità sopravvenuta della prestazione, nell’ambito delle sospensioni per le quali è previsto l’intervento ordinario, sono invece ricomprese, accanto alle ipotesi di impossibilità, anche quelle dovute alla mera difficultas a ricevere la prestazione lavorativa. Pertanto, all’opinione che collega alla semplice sussistenza dei fatti costituenti le cause integrabili il potere unilaterale di sospensione del rapporto da parte dell’imprenditore, pare preferibile quella che pone a fondamento della sospensione del rapporto di lavoro un accordo, sia pure implicito, tra imprenditore e lavoratori in grado, anche alla stregua dei principi generali, di produrre un simile effetto. Si deve sottolineare come la dottrina e la giurisprudenza si siano orientate nel senso di collegare la liberazione dell’imprenditore dall’obbligo retributivo all’atto amministrativo di ammissione al trattamento di integrazione salariale. E’ da tale atto che deriverebbe la deroga ai principi generali.Con l’ulteriore conseguenza che l’imprenditore resterebbe obbligato al pagamento delle retribuzioni.

Sez B: I licenziamenti collettiviI licenziamenti collettivi per riduzione di personale. La disciplina collettiva e l’elaborazione giurisprudenzialeNell’accordo del 1947 la disciplina sostanziale dei licenziamenti individuali si fondava sul vincolo di giustificare il licenziamento. A fronte di tale obbligo, la nozione di licenziamento collettivo veniva identificata da esigenze di riduzione o trasformazione di attività o di lavoro. Tale caratteristica è stata mantenuta anche nei successivi accordi del 21 aprile 1950 e del 5 maggio 1965 che imponevano l’obbligo di consultare i sindacati e di esperire un tentativo di conciliazione.La ragione della differenziazione così introdotta va ravvisata nella considerazione che anche l’autonomia collettiva riconosceva il diritto alla libertà di iniziativa economica tanto da farlo prevalere sull’interesse dei singoli alla conservazione del posto di lavoro. Il quadro era destinato a mutare per effetto della L. n. 604 del 1966, con la quale venivano introdotti limiti al potere di recesso del datore di lavoro. Infatti, il legislatore del 1966 aveva escluso la materia dei licenziamenti collettivi dalla disciplina di quelli individuali. Di conseguenza non era corrisposto un accrescimento della tutela dell’interesse collettivo alla conservazione dei livelli occupazionali. Per lungo tempo, l’assenza di una specifica disciplina legislativa in materia di licenziamenti collettivi ha così attribuito alla giurisprudenza il compito di precisare la nozione del licenziamento

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collettivo e le forme di tutela al singolo lavoratore. La giurisprudenza era giunta ad alcune conclusioni, soprattutto affermando il principio secondo cui il giudice non può valutare il merito delle scelte tecniche addotte dall’imprenditore a giustificazione della riduzione del personale, giacché esse rientrano nella libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41, co. 1°, Cost.

La funzione suppletiva della giurisprudenza e le sue contraddizioni. La disciplina comunitaria.La Corte di cassazione, dopo una lunga elaborazione giurisprudenziale, era giunta ad affermare che l’osservanza delle procedure di consultazione sindacale c-costituivano essenziale requisito formale del licenziamento collettivo, in mancanza si trasformava in una somma di licenziamenti individuali (c.d.licenziamenti individuali plurimi ). Analoghe conseguenze dalla mancata sussistenza del requisito dellariduzione o trasformazione di attività o lavoro ovvero nel caso in cui mancasse il nesso di causalità tra la scelta di riduzione e il licenziamento stesso. Viceversa, nel caso in cui non fossero stati rispettati i criteri di scelta fissati dagli accordi interconfederali, il lavoratore avrebbe avuto diritto solo ad una tutela risarcitoria per il danno subito. Più specificamente, la Corte di cassazione aveva affermato che l’elemento fondamentale andava ravvisato “nel motivo, consistente nel ridimensionamento dell’azienda” (nozione ontologica del licenziamento collettivo) inteso come ridimensionamento strutturale dell’impresa. A fronte dei cosiddetti licenziamenti tecnologici (indotti dall’introduzione di tecnologie labour saving) la Corte ha riconosciuto la configurabilità del licenziamento collettivo. Essa aveva invece escluso la ricorrenza di un licenziamento collettivo nel caso di licenziamento di tutti i dipendenti per cessazione totale dell’attività produttiva. Nel 1991 è stata emanata (nell’ambito della L. 23 luglio 1991, n. 223) una disciplina legale dei licenziamenti collettivi che ha inteso dare attuazione alla Direttiva del 1975 che non era stata attuata dallo Stato italiano. Tuttavia la direttiva comunitaria è stata modificata altre 2 volte da altre due direttive , la 92/56 e la 98/59, di cui lo Stato italiano non ha tenuto conto, in quanto la disciplina interna è stata ritenuta sufficiente ad integrare le due direttive successive. La Corte di Giustizia, comunque, ha richiamato all’attenzione dello Stato italiano che la L.223/1991 non contempla il caso dei datori di lavoro non imprenditori , inclusi invece nella disciplina comunitaria, alche il legislatore italiano è dovuto nuovamente intervenire.

La disciplina delle riduzioni di personale introdotta dalla L. n. 223 del 1991.La tanto auspicata disciplina sui licenziamenti collettivi è arrivata con la L. n. 223/1991, comprensiva di tutte le situazioni di eccedenza di personale sia di carattere temporaneo che definitivo. Essa, oltre a regolare la fattispecie dell’eccedenza temporanea di personale, tramite la previsione della CIG, ha regolato anche l’ipotesi di eccedenza definitiva di personale, distinguendo tra:• collocamento in mobilità, nel caso in cui l’eccedenza si manifesti nel corso di un processo di ristrutturazione o di crisi aziendale per cui sia stato concesso l’intervento della CIGS, • licenziamento collettivo per riduzione del personale, quando la decisione dell’imprenditore prescinde dall’intervento o meno della CIGS.Va detto innanzitutto che la disciplina sul licenziamento collettivo per riduzione del personale ha una portata generale e riguarda anche le imprese che non rientrano nel campo di applicazione della CIGS ma che effettuino licenziamenti collettivi.; inoltre, dopo la modifica del 2004, essa si applica anche ai datori di lavoro non imprenditori.Inoltre, poiché il collocamento di mobilità può essere attuato da imprese che hanno in corso la CIGS, è implicito il limite di 15 dipendenti ai fini dell’applicabilità dell’istituto.Infine, a dire la verità la disciplina in materia si può ritenere unitaria, al di là della differenza terminologica tra le due ipotesi, in quanto il legislatore, nella normativa inerente il licenziamento collettivo per riduzione del personale, molto spesso rinvia al caso di collocamento in mobilità. Esiste quindi una regolamentazione unitaria delle riduzioni di personale.

La procedura di collocamento in mobilità.Abbiamo visto come, in tema di CIGS, sia necessario che il datore di lavoro proponga un piano di risanamento dell’impresa per poter avere accesso al trattamento integrativo e per evitare il

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licenziamento dei lavoratori. Qualora, nel corso dell’attuazione di tale piano, l’imprenditore si renda conto di non poter evitare in alcun modo il licenziamento di tutto o di parte del personale, egli deve avviare una procedura di collocamento in mobilità. Nello specifico la procedura di mobilità prevede che:• L’imprenditore ha l’obbligo di informare e comunicare immediatamente ed analiticamente alle R.s.a. ed i rispettivi sindacati di categoria della situazione di difficoltà, indicando i motivi che determinano l’eccedenza ed impediscono il ricorso a soluzioni alternative, specificando il numero di lavoratori interessati e le relative mansioni;• Copia della comunicazione deve essere inviata alla pubblica autorità, in particolare ai relativi uffici competenti regionali;• Le R.s.a. e le associazioni di categoria, entro 7 giorni dal ricevimento della comunicazione, possono richiedere un esame congiunto della situazione per cercare, insieme all’impresa, una soluzione che eviti il licenziamento (procedura di consultazione);• Se entro 45 giorni dalla consultazione non si trovano soluzioni reali al problema, il responsabile dell’Ufficio regionale competente, ricevuta comunicazione dell’esito dell’incontro, tenta una mediazione tra le parti (sindacati ed impresa) che deve esaurirsi entro 30 giorni (se i lavoratori interessati sono meno di 10, i termini diventano rispettivamente di 23 e di 15 giorni).Va specificato che il legislatore, pur di impedire il licenziamento dei lavoratori, permette alle parti di concordare anche cambiamenti di mansioni, in deroga all’art.2103 c.c., così come distacchi di più lavoratori presso altre imprese, seppur momentanei.In conclusione, in attuazione degli obblighi comunitari imposti dalla Direttiva n. 92/56 del 26 giugno 1992, il legislatore italiano è dovuto intervenire ad integrare la normativa del 1991, stabilendo la possibilità di ricorrere a veri e propri piani sociali rivolti a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori eccedenti. In conclusione, si deve sottolineare come l’obbligo di consultazione sindacale sia indicativo del rilievo collettivo degli interessi coinvolti nelle eccedenze di personale e come il legislatore abbia ritenuto che solo promuovendo il confronto tra impresa e soggetti collettivi, possano essere salvaguardati al meglio gli interessi dei singoli lavoratori. Inoltre, anche in sede di CIGS è previsto questo obbligo si consultazione preventiva.Siamo, in entrambi i casi, di fronte ad ipotesi di procedimentalizzazione dei poteri dell’imprenditore, ovvero il potere del datore di licenziare è limitato ad alcuni vincoli.

Il collocamento in mobilità dei lavoratori eccedenti. Gli aspetti formali del recesso. Le sanzioni per il licenziamento illegittimo.Esaurita la procedura di mobilità, anche in assenza di accordo con i sindacati l’imprenditore può procedere al collocamento in mobilità, cioè alla risoluzione del rapporto di lavoro dei lavoratori eccedenti. Ovviamente il legislatore ha previsto che dei criteri di scelta siano fissati in concerto con i sindacati più rappresentativi, ma in assenza di un accordo di tal genere, l’imprenditore dovrà osservare altri criteri: dovrà tener conto dei carichi di famiglia, dell’anzianità e delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative dell’impresa. In ogni caso la percentuale di disabili da licenziare dovrà equivalere alla percentuale dei disabili in caso di assunzione; inoltre dovrà essere mantenuto il rapporto percentuale tra manodopera femminile e maschile, tenendo presente sempre le esigenze dell’impresa. Alcuna discriminazione, diretta o indiretta, potrà essere posta in essere nel collocamento in mobilità.La comunicazione del licenziamento dovrà essere individuale e rispettare la forma scritta, altrimenti sarà inefficace, non producendo alcun effetto. Dovrà, inoltre, essere rispettato l’obbligo di preavviso ed una comunicazione con l’elenco dei soggetti da licenziare dovrà pervenire agli Uffici regionali competenti, con l’indicazione dei criteri di scelta. La violazione dei criteri di scelta, tra l’altro, comporterà l’annullabilità del licenziamento.In entrambi i casi (inefficacia e annullabilità) la conseguenza è la reintegrazione, a norma dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, nel posto di lavoro. Il licenziamento sarà impugnabile entro il termine di 60 giorni, anche in forma stragiudiziale, a pena di decadenza dal diritto all’impugnazione. Se uno o più licenziamenti vengono annullati per violazione dei criteri di scelta, l’imprenditore, nel rispetto degli stessi, potrà licenziare un numero pari di lavoratori,

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comunicandolo semplicemente alle r.s.a.

Il cosiddetto statuto dei lavoratori in mobilità.• I lavoratori collocati in mobilità, qualora possano vantare un periodo di anzianità aziendale di almeno 12 mesi di cui almeno 6 effettivi di lavoro (inclusi i periodi di infortunio, ferie e festività), hanno diritto all’indennità di mobilità per un periodo di 12 mesi pari al trattamento d’integrazione salariale goduto prima del licenziamento, elevabile a 24 qualora il prestatore abbia compiuto 40 anni ed a 36 qualora ne abbia già compiuti 50. Nei mesi successivi ai primi 12, comunque, l’indennità diviene pari all’80% di quella precedentemente goduta, tuttavia aumentata in base alla rivalutazione annuale dell’ISTAT. L’indennità, comunque, non può essere corrisposta per un periodo superiore a quello di anzianità aziendale (se per esempio il lavoratore ha un’anzianità aziendale di 18 mesi ed ha compiuto i 40 anni, non potrà ricevere l’indennità per 24 mesi, ma solo per 18).

Tra l’altro se un soggetto ha maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia non ha diritto alla corresponsione dell’indennità di mobilità; stessa cosa nel caso in cui percepisca una pensione di invalidità, incompatibile con la mobilità, al pari del sussidio di disoccupazione. I periodi di corresponsione dell’indennità di mobilità vengono computati anche ai fini pensionistici. Un soggetto, tra l’altro, può chiedere la corresponsione in un’unica soluzione, qualora egli abbia dei fini imprenditoriali. Dovrà, però, restituire le somme percepite qualora, nel termine di 24 mesi, venga assunto e riprenda l’attività lavorativa.

• I lavoratori collocati in mobilità, ai quali spetta l’indennità di mobilità, inoltre, vengono iscritti in una lista di mobilità , la quale attribuisce loro il diritto di precedenza rispetto alle nuove assunzioni effettuate dalla stessa azienda nel termine di 6 mesi dal licenziamento.

La legge, inoltre, assicura alle altre imprese degli incentivi economici e contributivi qualora assumano a tempo indeterminato un lavoratore in mobilità. Medesimi diritti hanno anche coloro che non percepiscono l’indennità di mobilità per mancanza dei requisiti di anzianità aziendale: essi, di fatto, sono esclusi solo dagli interventi previdenziali a tutela del reddito.

• La cancellazione dalle liste di mobilità avviene:• alla scadenza dei periodi massimi per i quali è prevista la corresponsione

dell’indennità di mobilità, anche per coloro che non ne hanno diritto. • Ovviamente la cancellazione segue anche alla cessazione dello stato di

disoccupazione, qualora il soggetto venga assunto da qualsivoglia impresa. • La cancellazione, inoltre, può avere anche un fine sanzionatorio, qualora il soggetto

si sia rifiutato di prendere parte ad un corso di formazione o abbia rifiutato un’offerta lavorativa professionalmente equivalente e che dai contratti collettivi risulti inquadrarlo in un livello retributivo solo del 20% inferiore rispetto a quello delle mansioni di provenienza. Il soggetto può legittimamente rifiutarsi, senza incorrere nella cancellazione dalla lista di mobilità, qualora il corso di formazione o l’offerta lavorativa propinatagli si svolgano in un luogo lontano più di 50 km dalla propria residenza o non raggiungibile, tramite mezzi pubblici, in 80 minuti.

Il licenziamento collettivo per riduzione di personale: l’estensione delle norme sulla procedura, sull’indennità e sull’iscrizione nelle liste di mobilità.Prima di trattare il licenziamento collettivo per riduzione di personale, dobbiamo ricordarci che l’imprenditore che rientri nel campo di applicazione della CIGS e per cui ricorra una delle cause che potrebbero dar luogo all’intervento straordinario della CIGS, non obbligatoriamente deve ricorrere alla stessa, potendo da subito optare per una riduzione del personale, qualora la stessa risulti definitiva da subito. Dobbiamo, infatti, tener conto della necessità di un programma di risanamento per poter accedere alla CIGS, che l’imprenditore non potrebbe mai porre in essere qualora sia convinto che la riduzione debba essere definitiva, anche se l’evenienza che egli opti per la riduzione del personale può verificarsi anche in costanza della CIGS. In attuazione, quindi, della normativa comunitaria, il legislatore italiano, all’interno dell’art.24 della L.223/1991, ha disciplinato il licenziamento collettivo per riduzione di personale,

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stabilendo che:• Si applichi alle imprese con almeno 15 dipendenti;• Si applichi in conseguenza di una “riduzione o trasformazione di attività o di lavoro”;• Si applichi ad almeno 5 dipendenti nell’arco di 120 giorni in un’unica unità produttiva;• Si applichi a licenziamenti riconducibili tutti alla medesima “riduzione o trasformazione”;• Si applichi in caso di cessazione totale e definitiva dell’attività.L’art. 24, L. n. 223 prevede che si applichino tutte le disposizioni procedurali dettate per il collocamento in mobilità dei lavoratori. L’imprenditore è dunque tenuto al rispetto delle procedure e degli adempimenti amministrativi previsti dall’art. 4, oltre che al rispetto dei criteri di scelta, del preavviso e dei vincoli formali. Comune alle due ipotesi è anche il regime dell’inefficacia e dell’annullabilità del licenziamento intimato senza l’osservanza dei requisiti procedurali e formali con applicazione dell’art. 18, L. n. 300, nonché l’applicazione del termine di impugnazione. Il licenziamento ex art. 24 deve avvenire entro 120 giorni dalla conclusione della procedura di mobilità.

La legge, tuttavia, nulla prevede in caso di mancanza del nesso di causalità tra licenziamento collettivo e scelta imprenditoriale di riduzione o trasformazione:• c’è chi pensa che il licenziamento collettivo sia soggetto a differente disciplina, in quanto considerato come somma dei licenziamenti individuali;• c’è chi crede che sia invalido per vizio procedurale e che quindi sia invalido e vada applicato l’art.18 dello Statuto dei lavoratori. Va detto, comunque, che il licenziamento in tal caso presenta un’anomalia, anche se non sono chiare le conseguenze della stessa. Il giudice, comunque, che ravvisi che dei licenziamenti individuali fondati su una riduzione o trasformazione di attività o lavoro possano rientrare nell’applicazione dell’art.24, può statuire che essi siano inefficaci per inosservanza dei vincoli procedurali, dando così la possibilità di operare all’art.18 dello Statuto.Qualora, tra l’altro, il licenziamento collettivo per riduzione di personale riguardi imprese che avrebbero potuto beneficiare dell’intervento straordinario della CIG, è previsto che i lavoratori licenziati abbiano diritto all’indennità di mobilità ed all’iscrizione nelle liste di mobilità (senza indennità per coloro che manchino del requisito di anzianità di 12 mesi). Il diritto all’iscrizione nelle liste di mobilità è stato previsto anche per i lavoratori dipendenti da datori di lavoro non imprenditori, così come per quelli che abbiano subito un licenziamento collettivo ai sensi dell’art.24 da imprese non soggette alla disciplina della CIGS.

Gli oneri economici posti a carico delle imprese.Il datore di lavoro che opti per una riduzione del personale e che sia soggetto alla disciplina della CIGS va incontro ad oneri economici sostanziosi, (c.d. contributo di mobilità) . Per ogni lavoratore licenziato secondo la procedura descritta dall’art.4 L.223/1991 (collocamento in mobilità), l’impresa deve corrispondere all’INPS, in 30 rate mensili, un contributo pari a 6 volte il trattamento mensile iniziale di mobilità; deve corrispondere, invece, un contributo pari a 9 volte qualora abbia eseguito i licenziamenti secondo l’art.24 della L.223 (licenziamento collettivo per riduzione di personale). Quindi, come possiamo notare, viene incentivato il ricorso alla CIGS, proprio per una maggior tutela dei lavoratori. Nel caso in cui ci sia stato un accordo sindacale, gli oneri sono ridotti ad una somma pari a 3 volte il trattamento di mobilità; l’imprenditore ha diritto ad una riduzione degli oneri anche qualora si sia attivato per cercare occasioni di lavoro per i lavoratori licenziati. Dalla somma complessiva da versare all’INPS, inoltre, l’imprenditore può detrarre l’anticipazione (una mensilità del trattamento massimo di CIGS per ogni lavoratore) versata prima della comunicazione dell’attivazione della procedura di mobilità, che recupererà, tra l’altro, qualora rinunci alla mobilità o licenzi meno persone.L’art. 5, co. 6°, L. n. 223 del 1991 ha previsto un aggravio qualora il collocamento in mobilità avvenga tra la fine del 12° mese dalla concessione della CIG e la fine del 12° mese successivo al completamento del programma di risanamento. La ratio della norma è di evitare che il costo dell’intervento straordinario si cumuli con quello dell’indennità di mobilità, inducendo le imprese a rendere le eccedenze definitive.

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Procedure concorsuali, collocamento in mobilità e licenziamento per riduzione di personale.Nel caso in cui sia stata avviata una procedura concorsuale, gli organi della procedura (curatore, liquidatore o commissario) possono optare per diverse scelte, a seconda che sia stata o meno disposta la cessazione dell’attività. Se la continuazione dell’attività non è possibile, l’art.3 della L.223/1991 prevede che essi possano scegliere di ricorrere al licenziamento collettivo, oppure possono richiedere, laddove sia possibile, l’intervento straordinario della CIG per procedura concorsuale, nel cui ambito attivare il collocamento in mobilita. Qualora, invece, l’esercizio dell’attività continui, essi, operando come un qualunque imprenditore, possono scegliere la procedura di licenziamento per riduzione del personale in forza dell’art.24 L.223, oppure richiedere l’intervento straordinario della CIG, stavolta utilizzando come causa integratrice la ristrutturazione, riorganizzazione e conversione dell’impresa o la crisi aziendale, optando per il collocamento in mobilità.Il legislatore, riconoscendo la particolare situazione di imprese soggette a procedura concorsuale, esonera le stesse dal contributo di mobilità, oltre a prevedere tempi più brevi per la consultazione sindacale.Dobbiamo sottolineare che, laddove sia attuato un trasferimento d’azienda o di parte di essa, il trasferimento in se stesso non costituisce giustificato motivo di licenziamento, fermo restando il diritto dell’alienante, o anche dell’acquirente dopo la cessione, di attuare licenziamenti secondo la disciplina generale.

Licenziamento collettivo in caso di datori di lavoro privati non imprenditoriSi è già accennato al fatto che l’Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia per mancato ottemperamento alle direttive comunitaria, in quanto con la L. 223/1991 non aveva incluso nella disciplina i datori di lavoro NON imprenditori . Ovviamente il legislatore italiano si è conformato alla scelta della Corte nel 2004, integrando la L. 223. Oggi, quindi, la disciplina contenuta nell’art. 24, inerente il licenziamento collettivo per riduzione del personale, si applica anche ai datori di lavoro non imprenditori, fermo restando che essi non debbano corrispondere il contributo di mobilità (e quindi neanche l’anticipo in sede durante l’avvio della procedura) e che i propri lavoratori licenziati non abbiano diritto all’indennità di mobilità (in quanto non rientranti nel campo della CIGS), ma solo all’iscrizione nelle liste di mobilità con i diritti che ne conseguono. Le sanzioni per licenziamento illegittimo sono le medesime previste per gli imprenditori, ossia inefficacia in taluni casi ed annullabilità in altri, con conseguente tutela reale a favore dei lavoratori prevista dall’art.18 dello Statuto. Una sola eccezione è prevista per le organizzazioni di tendenza (datori di lavoro non imprenditori che svolgono attività di natura politica, culturale, sindacale, d’istruzione o religione, senza fini di lucro): in caso di inefficacia o annullabilità del licenziamento opera solo e soltanto una tutela obbligatoria e non reale.

La residua area di operatività della disciplina interconfederale del 1965.Gli accordi interconfederali applicabili alle imprese con più di 10 dipendenti, sembrano assicurare una tutela di tipo procedurale nei casi di licenziamenti derivanti da “riduzione o trasformazione di attività o di lavoro”, collettivi sul piano sindacali ma individuali dal punto di vista legale e non configurabili come collocamento in mobilità ai sensi dell’art. 4.Sui licenziamenti individuali, spetta alla giurisprudenza determinare le conseguenze da connettere al mancato rispetto delle procedure di consultazione sindacale con ricorrenza di una ipotesi d’inefficacia del licenziamento.

Gli interventi di carattere transitorio ed eccezionale in materia di mobilità. I prepensionamenti e la c.d. mobilità lunga.Così come per la CIGS, anche in materia di mobilità il legislatore è spesso intervenuto a favore

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dei lavoratori, attuando una disciplina non presente nella normativa a riguardo.Per esempio, molto spesso, si è concessa la cosiddetta mobilità lunga a favore di quei lavoratori anziani di difficile ricollocazione all’interno del mercato del lavoro: a loro favore veniva prevista l’indennità di mobilità, per un periodo protratto di tempo, che li accompagnasse fino al compimento dell’età pensionabile. Tra questi provvedimenti va sottolineata la mobilità lunga, la quale ha svolto in realtà la funzione di surrogato dei c.d. prepensionamenti. Altrettanto spesso, inoltre, si è assistito all’estensione, da parte del legislatore, del regime di mobilità nei confronti di lavoratori licenziati da imprese con meno di 15 dipendenti.

Sez.C: Sostegno ed incentivazione dell’occupazione.I contratti di solidarietà esterna ed altre misure aventi caratteristiche e funzioni analoghe.Il continuo processo di terziarizzazione e le profonde modificazioni del sistema economico ed industriale, hanno fatto in modo, col passare del tempo, che si creasse una vera e propria crisi occupazionale, sia per i lavoratori già occupati, sia per i giovani non ancora occupati.Il problema occupazionale è stato affrontato nella duplice prospettiva della riallocazione della forza-lavoro e della produzione di una nuova occupazione operando sulla riduzione dell’orario di lavoro e sulla diffusione del part-time. • Il legislatore, nel 1984, ha previsto ed incentivato, oltre al c.d. contratto di solidarietà interna, il contratto collettivo aziendale di solidarietà c.d. esterna.

Questo contratto collettivo è stipulato per promuovere l’occupazione, attraverso la creazione di posti di lavoro. Si tratta di un contratto aziendale che prevede una riduzione dell’orario di lavoro e l’assunzione di lavoratori a tempo indeterminato, preferibilmente giovani. In questa ipotesi il legislatore prevede un incentivo finanziario alle imprese per la disoccupazione involontaria. Particolari incentivi previdenziali sono previsti in favore dei dipendenti anziani occupati a tempo pieno che optino per il tempo parziale, qualora il contratto preveda un incremento dell’occupazione in azienda.

• Il contratto di solidarietà esterna è stato affiancato, nel 1991, da un’ulteriore ipotesi di contratto aziendale finalizzato anche ad evitare i licenziamenti collettivi.

Si è al riguardo stabilito che tra un’impresa beneficiaria da più di 24 mesi dell’intervento straordinario della CIG ed i sindacati possa essere stipulato un contratto collettivo aziendale, il quale, consenta ai lavoratori di età inferiore di non più di 60 mesi a quella prevista per la pensione di vecchiaia e che possano far valere 15 anni di contribuzione, di chiedere la trasformazione del loro contratto di lavoro da tempo pieno in part-time, con orario di lavoro non inferiore a 18 ore settimanali.

• Nel 1994 il legislatore ha, poi, previsto la concessione d’incentivi per le imprese che stipulano contratti di lavoro a tempo parziale e per quelle che sottoscrivano contratti di solidarietà esterna anche con forme di orario di lavoro multiperiodale.• Connessi al ricorso a forme di orario ridotto e flessibile ed al part-time , è stata sviluppata la L. n. 196/1997 che non ha tuttavia avuto seguito anche in conseguenza di una nuova legge attuativa della Direttiva n. 93/104 del 23 novembre 1993.• Un altro istituto che per molti anni ha avuto un ruolo importante è quello dei lavori socialmente utili, ovvero “attività che hanno ad oggetto la realizzazione di opere e la fornitura di servizi di utilità collettiva”.

La legge aveva stabilito il principio secondo cui l’impiego nei lavori socialmente utili non determinava l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato e non comportava la sospensione o la cancellazione dalle liste di collocamento o di mobilità.

L’esperienza concreta non ha soddisfatto le aspettative originarie: si sono manifestate forme di conflitto tendenti ad ottenere assunzioni in massa dei lavoratori impegnati in lavori socialmente utili da parte delle amministrazioni pubbliche.Il legislatore è intervenuto nel quadro della riforma del mercato del lavoro introdotta con il D.Lgs. 23dicembre 1997, n. 469 con il quale sono state conferite alle Regioni ed agli enti locali le funzioni e i compiti relativi a questa complessa materia. L’art. 45 della L. 17 maggio 1999, n. 144

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ha conferito al Governo una delega ad apportare, entro il 28 febbraio 2000, le necessarie modifiche alla predetta normativa. La delega è stata attuata con il D.Lgs. 28 febbraio 2000, n. 81 il quale ha dettato una graduale abolizione dell’istituto: è stata soppressa buona parte delle tipologie di lavori socialmente utili previste dal D.Lgs. n.468 ed è stata congelata la posizione dei lavoratori già impegnati in lavori socialmente utili.

La promozione delle cooperative di produzione e lavoro a fini di promozione e tutela dell’occupazione. L’inserimento e il reinserimento dei lavoratori nel mercato del lavoro.Sempre nell’ottica di promuovere l’occupazione, il legislatore ha previsto, con la L.49/1985, l’introduzione delle cooperative di produzione e lavoro, attraverso le quali si attua una mutualitàimprenditoriale tra i lavoratori, molto spesso provenienti da aziende in crisi. L’obiettivo è quello di attenuare le conseguenze negative della crisi occupazionale promuovendo l’iniziativa imprenditoriale di lavoratori che si trovino in stato o in pericolo di disoccupazione, ed il trasferimento dell’azienda in crisi agli stessi. Il problema del reinserimento dei lavoratori allontanati dal mondo produttivo o comunque da lungo tempo disoccupati, è stato oggetto anche di alcuni interventi legislativi diretti a promuovere l’occupazione mediante vere e proprie riserve di posti.Altri interventi hanno riguardato incentivi economici per le imprese che assumono lavoratori disoccupati o collocati in CIGS: gli incentivi consistono in aiuti economici, in sgravi fiscali o contributivi, o in erogazioni una tantum.Anche il D.Lgs.276/2003 che ha riformato il mercato del lavoro è intervenuto in materia, prevedendo che le agenzie di somministrazione possano prevedere piani individuali d’inserimento o reinserimento di lavoratori svantaggiati nel mercato del lavoro, e che venga meno, in tali casi, il principio di parità di trattamento tra lavoratori somministrati e lavoratori dipendenti dall’utilizzatore, potendo quest’ultimo attuare una diversa disciplina retributiva. Il soggetto che gode di un’indennità di disoccupazione, decade da tale diritto qualora rifiuti un’offerta in tal senso.

Forme negoziali di sostegno al lavoro: contratto di reinserimento; lavoro occasionale di tipo accessorio; contratto d’inserimentoPer favorire ulteriormente l’occupazione, il legislatore del 1991 e del 2003 ha previsto altri tipi di rapporto di lavoro:• Contratto di reinserimento, introdotto dalla L.223/1991, destinato a lavoratori che fruiscano da almeno 12 mesi del trattamento speciale di disoccupazione (poi venuto meno) o della CIGS. Essi possono essere assunti con tale contratto da imprese che nell’anno precedente non abbiano dato luogo a licenziamenti e che non abbiano, al momento dell’assunzione, in corso una CIG.

Il contratto deve rispettare la forma scritta ed essere inviato, in copia, all’INPS ed alla Direzione provinciale del lavoro. Infine, i datori di lavoro che danno luogo a tale rapporto ricevono delle agevolazione contributive.

• Lavoro occasionale di tipo accessorio, introdotto dal D.Lgs.276/2003, destinato a categorie di soggetti a rischio di esclusione sociale o non ancora entrati nel mondo del lavoro o in procinto di uscirne, come dice la stessa disciplina. Si tratta di casalinghe, disoccupati da oltre un anno (che non perdono tale status), studenti, pensionati, disabili e soggetti in comunità di recupero, lavoratori extracomunitari che abbiano perso il lavoro da almeno 6 mesi.

Essi potranno svolgere prestazioni di tipo accessorio qualora comunichino la propria disponibilità ai servizi per l’impiego, che rilascerà loro una tessera magnetica che attesti la loro condizione. Potranno svolgere attività meramente occasionali (insegnamento privato, pulizia e manutenzione di edifici e monumenti, lavoretti in impresa familiare, piccoli lavori domestici e cose del genere). Il soggetto potrà soddisfare le esigenze di qualsiasi committente, purché non riceva da ognuno di essi compensi superiori a 5000 euro.Sembra configurarsi, quindi, una fattispecie di lavoro autonomo. Il pagamento dagli utilizzatori/committenti ai soggetti esercenti lavoro accessorio dovrà avvenire tramite specifici buoni, che il committente acquisterà presso le rivendite autorizzate e che il lavoratore tramuterà in denaro presso il concessionario. I buoni sono esenti da

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imposizione fiscale, ma grava sul concessionario l’obbligo di versamento contributivo all’INPS ed all’INAIL, una volta trattenute le proprie competenze.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: è da segnalare che con specifico riguardo alle attività agricole non integrano in ogni caso un rapporto di lavoro autonomo o subordinato le prestazioni svolte, da parenti e affini sino al quarto grado, in modo meramente occasionale o ricorrente di breve periodo, a titolo di aiuto, mutuo aiuto, obbligazione morale senza corresponsione di compensi, salvo le spese di mantenimento e di esecuzione dei lavori.Concludendo, va precisato come l’applicazione di questo istituto sia ancora in fase sperimentale perché la sua diffusione dipende in buona parte dalla costituzione di una rete informativa tra i diversi soggetti coinvolti nella gestione del sistema. In ogni caso è utile distinguere tra il lavoro accessorio reso nei confronti delle famiglie e quello reso nei confronti delle imprese. Quest’ultimo, infatti, presenta maggiori rischi di utilizzazione fraudolenta ed a tal fine sono stati individuati particolari limiti procedurali in sede di applicazione della normativa. Per tutti coloro che vogliano utilizzare il lavoro accessorio è necessaria la registrazione anagrafica presso l’INPS, ma solo per i lavori in agricoltura e nei settori del commercio, turismo e servizi sono necessarie alcune comunicazioni: le indicazioni anagrafiche relative al lavoratore e al periodo di svolgimento dell’attività occasionale, sono immesse telematicamente ed è necessaria la comunicazione preventiva all’INAIL.

• Contratto di inserimento, anch’esso introdotto dal D.Lgs 276/2003, con finalità formative, di cui abbiamo già parlato.

Gli incentivi all’occupazione. Il sostegno all’autoimprenditorialità ed all’autoimpiego.Gli strumenti fin qui esaminati sono collegati a sostenere il reinserimento nel mondo del lavoro dei soggetti espulsi dai processi produttivi. Su un piano diverso si muovono gli interventi diretti a fronteggiare la disoccupazione attraverso la promozione dell’iniziativa imprenditoriale e dell’autoimpiego dei lavoratori. La L. n. 215/1992 promuove l’eguaglianza sostanziale e le pari opportunità tra i sessi nell’attività economica e imprenditoriale. A tal fine la legge ha istituito un fondo nazionale per lo sviluppo dell’imprenditoria femminile.Sembra, dunque, che si debba riconfermare la possibilità di un controllo giudiziario sull’effettiva sussistenza di questo requisito ed il controllo del giudice deve ritenersi estendibile al nesso di causalità tra la scelta imprenditoriale ed il singolo licenziamento, anche in considerazione dell’esplicita previsione secondo la quale i licenziamenti devono essere tutti “riconducibili alla medesima riduzione o trasformazione”.

INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO DELL’INTERA SEZIONE C: abbiamo già accennato a come gli ammortizzatori sociali siano spesso intervenuti, date le continue crisi di molti settori sia a livello nazionale che territoriale, al di fuori del proprio campo di applicazione ed a favore di imprese che non hanno mai contribuito finanziariamente a questo sistema previdenziale. E per tal motivo che spesso si è parlato di “ammortizzatori sociali in deroga”. Nell’anno 2009, a causa della crisi mondiale che assale anche lo Stato italiano, è stata riconosciuta al Ministro del lavoro, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, la facoltà di concedere e prorogare trattamenti di cassa integrazione guadagni, mobilità e disoccupazione speciale, con riferimento a particolari settori produttivi o a particolari aree geografiche, sulla base di specifici accordi governativi e per un periodo massimo di 12 mesi. Ai lavoratori non rientranti nell’ambito della CIGS, poi, è stata riconosciuta l’indennità di disoccupazione ordinaria, a condizione che il 20% di tale indennità sia corrisposto dagli enti bilaterali istituiti dalla contrattazione collettiva.Infine, sperimentalmente per il biennio 2009-2011, anche ai lavoratori coordinati e continuativi, se in regime di monocommittenza e solo in caso di fine lavoro, è stata riconosciuta un’indennità pari al 10% del reddito percepito nell’anno precedente.

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Ovviamente, nel caso di ammortizzatori in deroga, il lavoratore deve sottoscrivere una dichiarazione d’immediata disponibilità al lavoro o ad un percorso di riqualificazione professionale.

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