5
A vent’anni dalla dissoluzione della Jugoslavia: le radici storiche WILLIAM KLINGER Vent’anni fa, la Jugoslavia di fatto cessò di esistere come soggetto di diritto internazionale. La lunga e cruenta guerra civile che accompagnò la dissoluzione della federazione è stata ricostruita fin nei minimi parti- colari 1 . La comunità internazionale in un primo tempo rimase spiazzata e disorientata per poi riconoscere l’indipendenza di Slovenia e Croazia 2 . Superficialmente si attribuirono le cause della catastrofe all’atavico odio etnico esistente tra le popolazioni dello Stato balcanico 3 . L’autogestione e le riforme costituzionali del 1974 furono la causa di perduranti ten- denze disgregative a favore delle repubbliche e delle regioni autonome 4 . La guerra, del resto, fu decisa dai vertici dell’establishment jugoslavo 5 . Gli storici non hanno indagato le cause profonde della dissoluzione ju- goslava, lasciando così campo aperto a politologi, giornalisti o esperti di relazioni internazionali che nel farlo hanno applicato, più o meno arbi- trariamente, le proprie categorie concettuali 6 . In realtà la spiegazione va ricercata anche nelle origini del progetto «jugoslavo». 67 NOTE E DISCUSSIONI 1 Cfr., per es., il lavoro di Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999, Torino 2001, Einaudi. 2 V. il recente lavoro molto ben documentato di Josip Glaurdić, The Hour of Europe. Western Powers and the Breakup of Yugoslavia, New Haven 2011, Yale University Press. 3 V. Bogdan Denis Denitch, Ethnic nationalism: the tragic death of Yugoslavia, Minneapo- lis 1996, University of Minnesota Press o Aleksandar Pavković, The fragmentation of Yugoslavia: nationalism and war in the Balkans, Londra 2000, Macmillan. 4 V. il pionieristico lavoro di Dejan Jović, Jugoslavija – drz ˇava koja je odumrla: uspon, kriza i pad Kardeljeve. Jugoslavije (1974.–1990.), Zagabria 2003, Prometej. 5 V. Laura Silber - Allan Little, Yugoslavia. Death of a Nation, Londra 1997, Penguin. 6 In questo senso si distingue la produzione della Ramet, che cerca la spiegazione nel- l’assenza di legittimità delle élites politiche jugoslave, riprendendo categorie care alla scienza politica di matrice americana: cfr. Sabrina P. Ramet, Balkan babel: the disinte- gration of Yugoslavia from the death of Tito to the fall of Milos ˇević, Boulder CO 2002, Westview Press.

A vent’anni dalla dissoluzione della Jugoslavia

Embed Size (px)

DESCRIPTION

A vent’anni dalla dissoluzione della Jugoslavia: le radici storiche, Published in 'Fiume. Rivista di studi adriatici', (25) 2012, pp. 67 - 71.

Citation preview

A vent’anni dalla dissoluzione della Jugoslavia:

le radici storiche

WILLIAM KLINGER

Vent’anni fa, la Jugoslavia di fatto cessò di esistere come soggetto didiritto internazionale. La lunga e cruenta guerra civile che accompagnòla dissoluzione della federazione è stata ricostruita fin nei minimi parti-colari1. La comunità internazionale in un primo tempo rimase spiazzatae disorientata per poi riconoscere l’indipendenza di Slovenia e Croazia2.Superficialmente si attribuirono le cause della catastrofe all’atavico odioetnico esistente tra le popolazioni dello Stato balcanico3. L’autogestionee le riforme costituzionali del 1974 furono la causa di perduranti ten-denze disgregative a favore delle repubbliche e delle regioni autonome4.La guerra, del resto, fu decisa dai vertici dell’establishment jugoslavo5.Gli storici non hanno indagato le cause profonde della dissoluzione ju-goslava, lasciando così campo aperto a politologi, giornalisti o esperti direlazioni internazionali che nel farlo hanno applicato, più o meno arbi-trariamente, le proprie categorie concettuali6. In realtà la spiegazione varicercata anche nelle origini del progetto «jugoslavo».

67

NOTE E DISCUSSIONI

1 Cfr., per es., il lavoro di Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999, Torino 2001,Einaudi. 2 V. il recente lavoro molto ben documentato di Josip Glaurdić, The Hour of Europe.Western Powers and the Breakup of Yugoslavia, New Haven 2011, Yale University Press. 3 V. Bogdan Denis Denitch, Ethnic nationalism: the tragic death of Yugoslavia, Minneapo-lis 1996, University of Minnesota Press o Aleksandar Pavković, The fragmentation ofYugoslavia: nationalism and war in the Balkans, Londra 2000, Macmillan. 4 V. il pionieristico lavoro di Dejan Jović, Jugoslavija – drzava koja je odumrla: uspon,kriza i pad Kardeljeve. Jugoslavije (1974.–1990.), Zagabria 2003, Prometej. 5 V. Laura Silber - Allan Little, Yugoslavia. Death of a Nation, Londra 1997, Penguin. 6 In questo senso si distingue la produzione della Ramet, che cerca la spiegazione nel-l’assenza di legittimità delle élites politiche jugoslave, riprendendo categorie care allascienza politica di matrice americana: cfr. Sabrina P. Ramet, Balkan babel: the disinte-gration of Yugoslavia from the death of Tito to the fall of Milosević, Boulder CO 2002,Westview Press.

La parola, o meglio lo slogan, «jugoslavismo» fu coniata nel 1860dal canonico Racki, strettissimo collaboratore del vescovo Strossmayer,fondatore dell’Accademia jugoslava delle scienze (JAZU) di Zagabria7.Racki comprendeva nella famiglia jugoslava anche sloveni, serbi e bul-gari, ma in realtà tutto il suo sforzo intellettuale e organizzativo era rivoltoa giustificare l’annessione alla Croazia di Fiume e della Dalmazia. Que-sti territori infatti erano stati amministrati da Zagabria per mezzo delbano Jelacic in seguito alle rivoluzioni del 1848. Con il ripristino dellavita costituzionale dell’Impero nel 1860 Zagabria rischiava di perdere ilcontrollo su queste province8. La «Jugoslavia», insomma, serviva aicroati per portare a compimento il loro programma di integrazione na-zionale, che all’epoca mirava all’inclusione di Fiume e della Dalmazia9.In quegli stessi anni si era appena formato un nuovo Stato sulla base delprincipio nazionale, l’Italia, e il fatto aveva prodotto una profonda im-pressione tra i primi fautori dell’idea jugoslava. Ma agli «jugoslavisti»non arrise la fortuna: del vagheggiato «Regno degli Slavi del Sud» per ilmomento non si fece nulla: i dalmati preferirono restare alle dipenden-ze di Vienna e nel 1870 – mentre con l’annessione di Roma l’Italia completavadi fatto il suo processo di unificazione nazionale – Zagabria, dopo un de-cennio di scontri, perse pure il controllo su Fiume, «provvisoriamente»assegnata all’amministrazione di Budapest.

Rimasto senza appoggi dalla Russia e dalla Francia, lo «jugoslavi-smo» sparì dalla circolazione per un paio di decenni. Riemerse nel 1896,quando l’organizzazione slovena del Partito socialdemocratico d’Austriasi scisse dalla sua matrice viennese. Nei maggiori centri industriali del-l’Impero (Trieste, Vienna, Graz) dove lavoravano gli sloveni, gli operaicroati e serbi erano spesso più numerosi di quelli sloveni e la centraleviennese scelse la denominazione «jugoslava» per la sua nuova sezioneche ben presto trasferì la sua sede centrale a Trieste10. Anche in questo

68

7 L’articolo programmatico di Franjo Racki, «Jugoslovjenstvo» uscì sulla rivista Pozor, n.27-29, Zagabria 1860.8 Sull’argomento si vedano soprattutto gli studi di Attilio Depoli apparsi a più riprese sul-la rivista Fiume tra il 1960 e il 1963: “Il distacco di Fiume dalla Croazia (1862-1869)”(Fiume. Rivista di studi fiumani, n. 3-4, luglio-dicembre 1960, n. 1-2, gennaio-giugno1961 e n. 1-2, gennaio-giugno 1963) e “L’unione di Fiume alla Corona ungarica ed il suo«iter» legislativo” (Ibid., n. 3-4, luglio-dicembre 1963).9 Franjo Racki, Rieka prama Hrvatskoj, Zagabria 1867, Breyer (disponibile su Google ri-cerca libri).10 Cvetka Knapic-Krhen, Jugoslavenska radnicka drustva u Becu i Grazu i pokusaj osni-vanja Saveza jugoslavenskih radnickih drustava na prijelazu stoljeca (1888.-1914.), inPovijesni prilozi, n. 7, 1988.

caso lo «jugoslavismo» serviva allo scopo dell’unificazione nazionale slo-vena, facendo perno su Trieste, il maggior centro di concentrazione operaiaslovena dell’epoca. La città nei progetti di modernizzazione slovena do-veva svolgere un ruolo simile a quello che Fiume aveva per i croati, inquanto principale centro industriale e capitalistico nel territorio che es-si reclamavano11. Intanto, la Serbia si era proiettata alla conquista dellaMacedonia, con particolare riguardo a Salonicco, tradizionale sboccoportuale serbo, che era ancora sotto il giogo ottomano.

L’idea «jugoslava» si ripresentò durante la Grande guerra. Un grup-po di politici dalmati, capeggiato dal raguseo Supilo e dal sindaco diSpalato Trumbic, iniziò a coordinare da Londra gli sforzi diplomatici epropagandistici al fine di prevenire una nuova divisione del popolo croa-to in Dalmazia, dal momento che il Patto di Londra del 1915 prevedevala spartizione della Dalmazia tra Serbia e Italia. In realtà il regno «jugo-slavo» nato nel 1918 sotto gli auspici dell’Intesa fu una Serbia allargata:i serbi non accettarono il nome «jugoslavo» ed esso fu chiamato Regnodei Serbi Croati e Sloveni (SHS)12. Fu il re Alessandro a cambiarne il no-me in regno di Jugoslavia nel 1929, quando le tensioni interne avevanoportato lo Stato vicino al collasso e alla guerra civile. Il regno di Jugo-slavia durò dieci anni: nel 1939 i croati riuscirono a negoziare uncompromesso con Belgrado, che ricalcava quello ottenuto da Budapestnel 1868, dando vita alla «Banovina Hrvatska». In sostanza la Jugosla-via diventò una confederazione croato-serba.

Stalin, da parte sua, fin dal 1925 aveva fomentato la disgregazionedello Stato balcanico, che era il tassello fondamentale della Piccola In-tesa in funzione antisovietica nell’Europa sudorientale. Giocarono uncerto ruolo anche considerazioni dottrinarie elaborate dal Comintern: larivoluzione comunista doveva essere preceduta da quella borghese na-zionale13. Mosca, inoltre, considerava lo Stato jugoslavo una Serbiaallargata, la cui espansione, sancita alla conferenza di pace di Versailles,fu frutto di fortunate coincidenze geopolitiche dalle quali non ci si po-teva aspettare un assetto stabile. Anziché appoggiare il Partito comunistajugoslavo (KPJ), colpito come nessun altro dalle purghe di Stalin, Mo-

69

11 Il programma strategico venne espresso chiaramente da Henrik Tuma nel 1907 e lo sipuò leggere nella sua autobiografia: Henrik Tuma, Dalla mia vita. Ricordi, pensieri e con-

fessioni, Trieste 1994, Devin.12 Ivo Banac, The National Question in Yugoslavia: Origins, History, Politics, Ithaca N.Y.1984, Cornell University Press.13 Gordana Vlajcic, Jugoslavenska Revolucija i Nacionalno Pitanje 1919/1927, Zagabria1984, Globus.

sca appoggiò i movimenti rivoluzionari separatisti filobulgari in Mace-donia e soprattutto il Partito contadino croato (HSS) di Radic e Macek.In questa visione lo spazio jugoslavo sarebbe stato maturo per una rivo-luzione proletaria solo dopo la creazione di Stati nazionali che avrebberoportato a compimento la rivoluzione borghese14. Nei piani del Comin-tern bisognava quindi dar vita ad una Croazia indipendente, ripristinarela sovranità del Montenegro, assegnare la Macedonia alla Bulgaria e ilKosovo all’Albania15.

A conferma della validità delle valutazioni strategiche del Comin-tern, le premesse per una rivoluzione comunista in senso «jugoslavo»furono create dalla politica di spartizione e disgregazione della Jugosla-via decisa da Hitler e Mussolini nel 194116. Tito, un comunista croato diorigini slovene, poté così affermarsi come guida di un movimento jugo-slavo di resistenza. Ma l’ideologia dello jugoslavismo integrale da luiprofessata incontrò i favori della popolazione soprattutto nelle aree oc-cupate dall’Italia: Istria, Litorale croato, Dalmazia ed Erzegovina. In Serbiail movimento partigiano di Tito trovò una sponda solo all’arrivo dell’Ar-mata Rossa nell’estate del 1944; i montenegrini inizialmente volevano darvita ad una repubblica sovietica unita direttamente all’Urss; in Macedo-nia gran parte dei comunisti accettò di buon grado l’occupazione bulgara;in Slovenia la motivazione fondamentale fu la lotta nazionale (slovena)contro l’occupazione italiana e l’acquisizione dei territori «perduti» inseguito al trattato di Rapallo, Trieste inclusa ovviamente. Tito poté affer-marsi come leader della resistenza presentandola come «lotta antifascista»e di «liberazione nazionale», intascando il decisivo riconoscimento in se-de alleata prima a Londra e poi a Mosca. Va notato che la strategia diStalin fu sempre quella di disgregare un Paese che egli sapeva essere ilfrutto artificiale delle potenze occidentali, giustificato solo in funzioneantirussa. Ad insistere sulla restaurazione della Jugoslavia a guerra fini-ta furono gli inglesi e Stalin dovette assecondarli, purché fosse Tito arifondarla su basi comuniste. La Jugoslavia di Tito, tuttavia, avrebbe ri-trovato ben presto, dopo il 1948, la sua originaria funzione antirussa.

70

14 Branislav Gligorijevic, Kominterna, jugoslovensko i srpsko pitanje, Belgrado 1992, ISI.15 La Slovenia, infine, secondo Mosca, doveva diventare autonoma e espandersi annet-tendo Trieste e la Venezia Giulia. Nel 1941 con l’occupazione dell’Asse tutto il territoriosloveno venne annesso in parte all’Italia e in parte alla Germania. È da notare che dopola capitolazione italiana del settembre 1943 la nuova provincia del Litorale adriatico com-prese i territori che il Comintern aveva previsto di assegnare alla Slovenia.16 Ferdo Čulinovic, Okupatorska podjela Jugoslavije, Belgrado 1970, Vojnoizdavackizavod.

Fu grazie a questa sua tradizionale funzione geopolitica, sostanzial-mente identica a quella della monarchia che l’aveva preceduta17, che laJugoslavia titoista ebbe un assetto stabile. Intanto le repubbliche occi-dentali (Slovenia e Croazia) avevano puntato sullo sviluppo industrialead alta intensità di capitale, mentre il modello praticabile nelle regioniorientali restò quello dello sfruttamento della manodopera a basso co-sto e delle risorse naturali ed energetiche. La Jugoslavia continuò pertantoa covare al suo interno le contraddizioni che stavano minando la tenu-ta economica di tutto il blocco sovietico.

La crisi finale scaturì dalla stretta creditizia degli anni ottanta18. Lerepubbliche occidentali jugoslave, come la Germania orientale, avevanobisogno di valuta pregiata per innescare un nuovo ciclo di investimenti,premessa per continuare a sostenere le attività produttive19. Quelleorientali, allo stesso modo della Russia o del Kazakistan, si stavano spe-cializzando nell’esportazione di materie prime, idrocarburi e semilavorati.Alla Slovenia, protesa a completare la sua trasformazione tecnologica eindustriale, la Jugoslavia stava ormai stretta, mentre la Serbia, per par-te sua, non aveva più la forza materiale per mantenerla ad essa legata.L’unica a non avere nessun interesse a far saltare gli equilibri della Fe-derazione era la Croazia; del resto, come abbiamo visto, la Jugoslaviaera stata all’origine un progetto croato. È così che va interpretata la pas-sività della leadership croata, anche quando lo scontro tra Lubiana eBelgrado raggiunse il culmine nel biennio 1986-1987. Verso la fine deglianni ottanta Belgrado era ormai intenzionata a far saltare la strutturafederale decotta e irriformabile20. La via verso la secessione fu spianatadall’affermazione di Tuđman, un nazionalista convinto in un primo tem-po che la soluzione migliore per la Croazia fosse da ricercarsi in unariproposizione del patto Cvetkovic-Macek del 193921. Belgrado, abban-donate le ambizioni imperiali coltivate per un secolo, si mise alla ricercadi una dimensione propriamente nazionale. Il resto degli eventi è noto.

71

17 Dennison Rusinow, The Yugoslav Experiment: 1948-1974, Berkeley 1977.18 La migliore analisi dell’autogestione jugoslava è quella di Aleksander Bajt, Samou-pravna oblika druzbene lastnine, Zagabria 1988, Globus.19 Un quadro d’insieme è fornito da David A. Dyker, Yugoslavia: Socialism, Developmentand Debt, Londra 1990, Routledge.20 Sulla possibilità di una riforma di largo respiro del sistema jugoslavo non ci si facevamolte illusioni. V. il rapporto della Central Intelligence Agency, “Yugoslavia: The OutwornStructure”, 20 November 1970 (www.foia.cia.gov/CPE/ESAU/esau-46.pdf).21 Col patto Cvetkovic-Macek del 1939 era stata creata, come detto in precedenza, la ba-novina di Croazia, in cui erano stati riuniti i territori a maggioranza croata e alla qualeil Reggente aveva attribuito una larga autonomia.