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Fulvio abbate Sul conformismo di sinistra

Abbate Fulvio - Sul Conformismo Di Sinistra

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Page 1: Abbate Fulvio - Sul Conformismo Di Sinistra

Fulvio abbate

Sul conformismo

di sinistra

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Fulvio Abbate è nato a Palermo nel 1956 e vi-ve a Roma. Scrittore e giornalista, ha pubbli-cato i romanzi “Zero maggio a Palermo”(1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’e-state” (1995), “La peste bis” (1997), “Teledur-ruti” (2002) e il reportage “Capo d’Orlando.Un sogno fatto in Sicilia” (1993). Fra gli ultimisuoi libri: “Il rosa e il nero” (2001), “Il ministroanarchico” (2004) e “C’era una volta Pier Pao-lo Pasolini” (2005), che si muovono tutti entrouna ipotesi di racconto-documentario da cui sisente sempre più interessato.http://utenti.lycos.it/[email protected]

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fulvio abbate

Alberto gaffi editore in roma

sul conformismodi sinistra

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© 2005 GaffiVia della Guglia, 69/b

00186 - Romawww.gaffi.it

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Iniziamo dalle basi minime: si dice conformista unoche si conforma, uno che assume la forma del contenito-re, dei contenitori esterni. Sinonimi possibili: conforma-zione, taglie conformate, conformità, copia conforme,cominform, ecc. ecc.

Detto così, potrebbe sembrare una qualità, quasi co-me il talento naturale dei liquidi a distribuirsi fluida-mente dentro i recipienti. Altrimenti provate a pensarela storia del camaleonte, o dell’insetto stecco, che si “ca-muffano” con l’ambiente: un ramo, una foglia, un sasso,lo sfondo del cielo, uno stronzo.

Non è così: il camaleonte e lo stecco, certo che si mime-tizzano (è il loro lavoro), lo fanno però con l’intenzione direndersi invisibili al predatore, per pura sopravvivenza, omagari, al massimo, per ottenere un po’ di cibo, aspetta-no cioè che il nemico si allontani, lo fanno per amor pro-prio, vero amore dell’immediato futuro, lo fanno per sus-sistenza. Eticamente parlando, hanno le carte in regola.

Nel caso del conformista, colui che si “conforma”, c’èinvece di mezzo qualcos’altro: quasi sempre il calcolodella partecipazione, talvolta acefala, o più spesso inte-ressata, all’esistente.

Il conformista pretende infatti che la sua adesione alleforme esterne sia chiara ed evidente. Il conformista non

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accetta che lo si possa scambiare per qualcos’altro, perun irregolare, il conformista quando può veste bene,meglio, veste “nei limiti”, giacca e cravatta: basta vede-re una cena con centinaia di persone decisamente in vi-sta di sinistra, o giù di lì, per rendersene conto. Pur nonrinunciando all’equivoco della sua professione di pro-gressismo o addirittura di alterità culturale. Il conformi-sta ha un animo poliziesco, sì, da guardiano, crede nelcontrollo sociale fermamente.

Ovviamente, ribadisco, ci stiamo riferendo al confor-mista di sinistra, che è poi l’oggetto e il fine ultimo del no-stro discorso. Quanto invece al conformista per defini-zione, cioè l’individuo permeato da un’ideologia piccoloborghese rionale e familiare, quest’ultimo, lo sappiamo,parla soprattutto di fica, o figa, e calcio. Oppure, nel ca-so delle donne, di vestiti e di figli. Una cosa penosa, è ve-ro, ma gli va tuttavia riconosciuto di non aver mai sogna-to “l’assalto al cielo”. Al massimo, alla curva nord.

Ma veniamo adesso solo e soltanto alla nostra creatu-ra, il conformista di sinistra, appunto.

La sinistra, storicamente e sinceramente parlandogiunge al mondo della storia con un obiettivo: tagliare latesta al re, e dunque ai padroni e ai preti. Lo dicono an-che le sue antiche canzoni: “Con le budella dell’ultimoprete impiccheremo l’ultimo re...”. Punto e basta. Nellostesso tempo, la sinistra si presenta sulle scene della po-

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litica con l’intento di realizzare un “nuovo ordine” sociale.Qui sta il punto critico: una certa volontà ordinatrice.

L’autore di queste righe, tanto per fare un concretoesempio, ha smesso di sentirsi compiutamente comuni-sta in un punto esatto del tempo e della storia: nel tardopomeriggio del primo maggio 1972.

Saranno state all’incirca le sette di sera, quando unasignora sovietica residente in Italia, coniugata con un di-rigente del partito locale, incaricata di gestire un grup-po di suoi concittadini in vacanza premio nell’Europa ca-pitalistica, all’obiezione mossa da un’altra “compagna”:“Ma perché li tenete ad aspettare qui al freddo, sullabanchina del porto, non sarebbe meglio farli salire tuttiinsieme a bordo?”, rispose come un fulmineo scatto car-nivoro, replicando con una sentenza assoluta, da tavoledelle leggi speciali di polizia: “Il comunismo è ordine!”

Lo disse con orgoglio un po’ sprezzante, convinta d’es-sere lì a fare scuola di alfabetizzazione civica a una po-polazione che aveva ancora da imparare le aste del mar-xismo-leninismo.

Naturalmente, erano tutte stronzate: il comunismo erasemmai arbitrio e corruzione, miseria, carceri e orfano-trofi da vergogna, automobili che inquinavano, linoleumal posto di un vero pavimento, delazione, campi di con-centramento (“gulag”) per gli oppositori, bugie di stato,bugie macroscopiche come le mele prodotte in laborato-

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rio dal genetista Miciurin, e poi, va da sé, privilegi inac-cettabili per una ristretta cerchia di brutti satrapi, o, sepreferite, di “burocrati”, così come diceva Trotskij della“nomenklatura” cui comunque era appartenuto.

Mettiamo comunque da parte anche il teorico della ri-voluzione permanente.

Ha raccontato infatti il matematico Jean van Heije-noort, giovane segretario della Quarta Internazionale aNew York durante la seconda guerra mondiale, che l’uo-mo Trotskij, in presenza della fica, perdeva letteralmen-te la testa e diventava bugiardissimo, era capace di tut-to: metteva a repentaglio la propria sicurezza persona-le, e soprattutto quella delle sue guardie del corpo purdi andare a fornicare con una nuova donna.

Giusto, lasciamo il morto nella sua urna murata nelgiardino della villa-fortilizio di Coyoacan, Città del Mes-sico, dove venne ucciso a colpi di piccozza dal prozio diChristian De Sica, e passiamo agli esempi veri. Ovvioche, andando avanti con il nostro discorso, cercheremodi illustrare meglio, nello specifico, le singole forme diconformismo di sinistra. Esempio: fra marxisti, fra laici,fra élite giovanili, e infine fra i progressisti in senso lato,senza dimenticare certe forme pulviscolari minori.

Esiste un episodio significativo e illuminante per illu-strare con una minima percentuale d’errore la sostanzadi molto conformismo culturale di sinistra, messo in at-

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to da un pubblico di giovani consumatori di “merci” de-stinate all’intrattenimento.

È l’inizio del nuovo millennio, e ci troviamo a Roma, al ci-nema Nuovo Sacher, durante una serata dedicata allaproiezione di alcuni film prediletti dal regista Nanni Mo-retti, nella sua veste di padrone di casa, dovrà selezionare.

A riferire di quella serata ha provveduto un giornalistadi lungo corso, Nello Ajello. Cosa fa infatti Ajello il gior-no dopo essere stato spettatore della manifestazionedel Sacher? Prende e scrive sul suo giornale, la Repub-blica, un commento che non lascia spazio ai dubbi, anzidichiara senza riserve ogni perplessità. Dice più o menoAjello: c’era il pubblico, c’erano i film prediletti, c’eraNanni Moretti, mancava però sostanzialmente il sensocritico, l’adesione era di segno puramente “divistico”,spettacolare, acritico, priva di un vero dibattito. Unospettacolo assente alle bandiere della dialettica e pro-babilmente perfino dell’ironia, insomma. Tuttavia unospettacolo di sinistra, cioè “intelligente”, “di un sicurospessore”, uno spettacolo destinato a fare opinione econsenso, e dunque status apparente, conversazione,stronzate dette bene.

Ho usato il termine “dibattito” volutamente, affinchéqualcuno, citando in modo ancor più corrivo una battu-ta di Moretti, confermi ulteriormente tutte le nostreconvinzioni.

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E qui occorre far piombare una citazione. Si tratta diun documento fondamentale del movimento situazioni-sta, Della miseria nell’ambiente studentesco, un testodel 1966. Due anni prima della grande esplosione delmaggio francese: “La miseria reale della vita quotidianadello studente trova una immediata compensazionefantastica nella sua principale droga: la merce culturale.Nello spettacolo culturale lo studente ritrova natural-mente il suo ruolo di discepolo rispettoso; prossimo alluogo della produzione senza potervi mai penetrare...”.E ancora: “Lo studente partecipa a questa giostra senzariserve, senza secondi fini e senza distacco”.

La categoria dello “studente” può essere assunta an-che oltre la conclusione del normale corso di studio. Co-me metafora. Studente come conformista, come consu-matore. Consumatore di sinistra.

Singolare, che lo stesso giornale dove scrive NelloAjello, in un'altra circostanza, a firma Laura Laurenzi,abbia offerto un lungo servizio dedicato alla “moda del-la tiara”.

La tiara, cioè la corona del Papa? No, diceva la signoraLaurenzi che si chiama tiara anche quello che noi, i pro-fani di gioielli e pietre preziose, chiamiamo normalmentediadema. Peccato che il dizionario non ne porti traccia.

Basta un’occhiata all’enciclopedia (quella edita pro-prio da la Repubblica) per avere ulteriore conferma che

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la tiara è invece soltanto quella papale, la stessa che,molti anni fa, Paolo VI vendette come gesto altamentesimbolico donando ai poveri il ricavato.

Dunque, quel titolo era sia ridicolo sia sbagliato. Ilpunto è però un altro: come può venire in mente a ungiornale “progressista” fin dalla sua testata, la Repub-blica, di parlare con partecipazione di una “moda”, diun “boom” del diadema, anzi, della “tiara”? Facciamoun po’ di rapidi calcoli, occorrono grandi numeri, tiare eancora tiare vendute come i panettoni a Natale, perfinotiare di latta fabbricate a Forcella e offerte ai semaforiinsieme agli Arbre Magique, per creare una moda.

No, il discorso non regge, spiace doverlo ammettere,ma non c’è mai stato un “boom della tiara”.

La sinistra viene al mondo della storia per tagliare latesta ai re, per buttare giù ogni corona, tutto il resto èdecisamente fuori tema, soltanto schiuma.

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Fra le vette più alte e innevate del conformismo di sini-stra, nella sua versione femminista-alto-medio e perfinopiccolo borghese, c’è subito almeno un episodio da ricor-dare. Si tratta delle reazioni che seguirono a quando unacelebre multinazionale della cosmesi interruppe la colla-borazione con Isabella Rossellini, che fino a quel momen-to ne era stata testimonial fra rossetti, ombretti, cremerassodanti per le borse sotto gli occhi e altre menzogneperfettamente confezionate in vasetto. In quella circo-stanza, messa nero su bianco la petizione con molte firmesmerigliate, si sfiorò quasi il blocco stradale, la catenaumana, il girotondo: fra via dei Condotti e via della Spiga.

Un episodio che andrebbe catalogato insieme alla rubri-ca di buone maniere che la coppia Fo & Rame tennero su“Il Venerdì” per buona parte degli anni Ottanta. Domanda:c’era più conformismo in certe “simulazioni” scenico-politi-che del periodo della cosiddetta “contestazione” (ovverol’irruzione in teatro del falso poliziotto, anche lui un attoredel collettivo “Nuova scena”, che minaccia di portare il ca-pocomico in questura, e allora ecco Fo che dice a tutto ilpubblico: “Compagni, non accettiamo provocazioni, can-tiamo tutti insieme l’Internazionale sollevando il pugnochiuso!”) o piuttosto negli spassionati suggerimenti di sa-voir vivre offerti per iscritto da marito e moglie su quel set-

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timanale? Impossibile trovare una risposta accettabilesenza rendersi altrettanto complici dell’accaduto.

Ma c’è un altro esempio, che è poi il più clamoroso,ma soprattutto in grado di travalicare la stessa sferadelle leggende metropolitane, senza che sia peraltropossibile individuare il percorso logico che porta alcunia sostenere una simile tesi così iperbolica. Una tesi cheporta alcuni progressisti a sostenere che “Carla Bruni èuna di sinistra”, di più, “è proprio una compagna”.

Carla Bruni, lo diciamo per colui che ne ignori perfinol’esistenza anagrafica, è innanzitutto una donna inarriva-bile, naturalmente bella ed elegante, capelli castani e oc-chi verdi, di famiglia ricca e colta, trasmigrata poi, comealtri forse invece sanno, dal cosmo delle passerelle di lus-so al mondo della canzone d’autore, Carla Bruni cantau-trice “raffinata” con chitarra, buone letture da Simone deBeauvoir a Boris Vian, con altrettanto successo.

Esatto, secondo alcune persone, magari lettrici e lettoriappassionati degli articoli di Natalia Aspesi, Carla Brunisarebbe appunto una di sinistra, ma di sinistra davvero.Ora, il punto non è tanto quello che la signora Bruni possaistintivamente o naturalmente sentirsi più vicina ai sociali-sti di François Hollande e Martine Aubry piuttosto che aipost-gollisti Chirac e Sarkozy (Carla Bruni vive a Parigi)quanto l’eventualità di identificare la stessa con un’iconapossibile di sinistra. Fate bene attenzione, quando qualcu-

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no dice che Carla Bruni “è certamente una compagna” lo fainvestendola di un sicuro simbolico pressoché rivoluziona-rio e radicale in senso etimologico, come stesse parlandodi un’arma, neppure tanto segreta, pronta accanto ai Co-bas della scuola, il consiglio di fabbrica di Pomigliano c’Ar-co e i camalli genovesi, nell’arsenale di sinistra.

E allora proviamo un po’ a vedere quale potrebbe maiessere il simbolico di sinistra suggerito, sempre secondoalcuni, da Carla Bruni. Alla domanda: perché Carla Bru-ni è di sinistra? Segue una dettagliata risposta: lo è in-tanto perché è elegante, molto elegante, poi perché can-ta quelle sue canzoni d’autore, le canta accompagnadosicon la chitarra, si tratta di canzoni raffinate, acustiche, enon quell’altro genere commerciale inglese e americanoche non si capisce nulla, tanto che sembrano tutte lastessa cosa, le canta facendoti sentire lo spirito dell’esi-stenzialismo, le cave, Saint-Germain-des-Prés, e non latelevisione, (“schifo, la televisione!”) semmai il cibo ma-crobiotico, le tisane, un bel viaggio in Provenza dove cistanno le cicale, magari a Ramatuelle sulla tomba di Gé-rard Philipe, Carla Bruni è una compagna perché la sini-stra ama le belle cose, ama le buone letture, l’eleganza,ma quella vera, sobria, misurata, sia chiaro...

Radical-chic, direbbero altri, con un termine insop-portabile fin dal primo giorno della sua messa in uso lin-guistica.

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Carla Bruni, possiede virtù quasi mariane agli occhidel visitatore (in principio dubbioso) di sinistra, la signo-ra è insomma in grado come la Vergine di far mutareopinione a un sospettoso Luca Sofri. L’articolo “I mieipregiudizi su Carla Bruni”, è apparso su Il Venerdì del 7marzo 2003, ne riportiamo un significativo frammento:“L’idea era questa: scrivo che è antipatica. Scrivo che seuna nasce da una famiglia ricca e di artisti, cresce tragente colta e cosmopolita, diventa la ragazza più belladel pianeta, ci guadagna un sacco di soldi facendo lamodella, il minimo che il buon Dio possa fare per ricom-pensare noialtri sfigati, è renderla almeno antipatica.L’idea mi pareva un buon sistema per distinguermi daquelli, dagli intervistatori-adoranti-di-belle-donne, cate-goria che avvilisce alcuni noti campioni del giornalismoitaliano. La prima idea però si è rivelata un fallimentoumiliante. Carla Bruni – ex modella trentenne di fami-glia franco-italiana – ha pubblicato un cd, Quelqu’unm’a dit, che anche se affrontato con il peggiore pregiu-dizio di cui mi ero solidamente armato, è molto bello. Èmolto bello, dannazione. (...) Però, domando, avendofatto questo bel salto di immagine – da modella solo su-perficie a cantautrice e musicista accolta dai critici –presentarsi su un palco nazionalpopolare come quellodi Sanremo non è stato un rischio, un passo indietro?‘Intanto, è stato molto divertente: mi hanno invitata co-

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me ospite straniera’, risponde ancora in italiano (è bilin-gue, con appena un po’ di accento), ‘e dopo molte volteche mi avevano contattato per presentarlo. Ma ho pre-ferito di gran lunga fare la straniera, senza lo stress del-la gara. Quanto alle canzoni, per me le canzoni sono tut-te canzoni, trallallà eccetera. Non sarà un’apparizionesu quel palco a cambiare i gusti dei critici’. Su questonon ci giurerei. Sanremo è un patchwork dove si sono vi-sti anche Marianne Faithfull e Luigi Tenco. (...) Parliamod’altro. Della Francia e della guerra? ‘Io sono una bellaignorante, ma credo anche che non veniamo molto in-formati. La cosa dell’America contro i francesi per me èsolo una un’idea dei media. Gli americani sono moltopiù contro la guerra di quanto si dica, secondo me’. Glie-lo ha detto Richard Gere”.

A completare il quadro, sempre nell’ampio e flessibileimmaginario del conformista di sinistra, giungono ades-so alcune suggestioni ulteriori, semiologicamente piut-tosto bisvalide: il marito filosofo o comunque assimila-bile alla sfera del pensiero alla circoscrizione di place dela Sorbonne, l’ubicazione dell’abitazione (sempre Quar-tiere Latino), ma soprattutto questa propensione a sti-mare la borghesia, la sua eleganza, un atteggiamentoche quasi segnala le figure maggiori, le uniche in gradodi raccomandarti con autorità presso il mondo del con-senso, e dunque del potere.

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Sosteneva Pier Paolo Pasolini che solitamente ci si faappassionare soltanto dai luoghi comuni, mentre biso-gnerebbe ricorrere piuttosto all’uso del dubbio. E si ri-volgeva ai giovani comunisti del 1975. Per l’esattezza,Pasolini diceva così: “Dovete abituarvi anche a questaatrocità del dubbio, a dibattere veramente i problemi,ma veramente, non formalmente, si applaudono sem-pre dei luoghi comuni, bisogna ragionare, non applaudi-re o disapprovare”.

A conti fatti, non devono avergli dato retta in molti.C’è poco da aggiungere, la Sinistra giovanile dei De-

mocratici di sinistra rimanda ancora adesso ai difettidella Fgci, i giovani comunisti del tempo di Togliatti,Longo, Berlinguer, Natta... sia pure in assenza del gran-de simbolico, ovvero la rivoluzione, che nel Pci, non-ostante tutto, era attesa da molti iscritti come una fi-danzata dolce e bravissima nei lavori di bocca, almenofino al 1970. Personalmente, ogni volta che ho voglia dideprimermi un po’, ripenso proprio alla Fgci. Alle occa-sioni storiche mancate dall’organizzazione dei giovanicomunisti. Dove, aggiungo, ho avuto perfino modo dimilitare, e dunque, accanto alla rabbia, mi resta l’espe-rienza diretta, i pomeriggi buttati a sentire banalità, epoi la sensazione di un tempo che nessuno mi restituirà

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mai. Sarà stata pure colpa dei grandi del partito, il Pci,che raccomandavano ossessivamente di fare attenzio-ne, di non prendere freddo, di non fermarsi a parlarecon i non tesserati, di non leggere Men, Le Ore, Cabal-lero o OV, ma soltanto l’Unità, Vie Nuove, Rinascita e IlCalendario del popolo, di non masturbarsi, sarà dipesopure dalle paranoie di quei vecchi che venivano dalla co-spirazione antifascista e dal confino (o dall’occupazionedelle terre), dove tuttavia la masturbazione dovevanoaverla assai praticata, tanto è vero che tornati nella le-galità mollarono le mogli per altre donne più giovani(Togliatti e Longo, per cominciare), e poi dai loro giovaniallievi prediletti, ma ricordo quelli della Fgci quasi tuttitimorati, moderati, moralisti, conformisti perfino im-pacciati con le ragazze, che infatti alla fine gli preferiva-no gli oranghi di Lotta continua o di Potere operaio, pernon contare, ma questo un po’ dopo, i King-Kong del-l’Autonomia operaia. Quanti treni accelerati si è vistapassare sotto gli occhi la Fgci, perdendoli tutti al volo,regolarmente, come fosse un dovere indicato soprattut-to dalla paranoia familiare. In nome di certi distinguograzie ai quali si può anche morire, tipo: “non sarà che?Compagni, non accettiamo provocazioni! Noi e loro.”Davvero un’intera stazione grande come quella di Bolo-gna, il principale nodo ferroviario italiano. A cominciaredal direttissimo della rivolta giovanile del 1977.

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Mi direte adesso: inutile perdere tempo con qualcosache non esiste più, se è vero che i più avveduti, personeintelligenti e miti come il compianto Renzo Imbeni, a uncerto punto, parlando in televisione proprio della que-stione ormai storica del 1977, riconobbero che la lorovecchia organizzazione era stata cieca e paranoica sullapercezione delle questioni giovanili, incapace di valuta-re le trasformazioni in atto nella società. Adesso invecequando ho voglia di annoiarmi (parlare di depressionesarebbe troppo, una cosa che appartiene al tempo sca-duto delle rivoluzioni) penso un poco, solo un poco, a unircocervo politico: un terzo Fgci un terzo Sinistra giova-nile e il resto parrocchietta con ’sto gran cordone da te-nere in mano.

Lo stesso spirito, la stessa preoccupante moderazio-ne che per definizione segnava la Fgci perfino nell’abbi-gliamento l’ho ritrovata tempo addietro nell’intervistadi un dirigente del vivaio dei Ds. Ancora una volta nelleparole del capo scout ritrovavo le solite paranoie, più omeno indotte. Andiamo al G8 di Genova? Sì, ma. Andia-mo a fare il bagno? No, ho appena mangiato una girel-la, e quindi il tutore non vuole. Andiamo insieme ai noglobal? No, meglio dirci “new global”. Un po’ comequando, a quattordici anni, chiedi il motorino, e i granditi dicono: no, il motorino è assai pericoloso, facciamoche a diciotto ti compro direttamente la macchina, ok?

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E tu, bravo coglione, accetti. Non avrai l’auto, non avraiinfine un cazzo. Si sa che è pericoloso il motorino, ma èproprio con quello che si vede per intero il paesaggio delmondo, si comprendono davvero le cose, si va a scopa-re, non vorrei che accettare la macchina promessa daigenitori nascondesse l’aspirazione a diventare fin daadesso persone responsabili che sognano magari unpaese docile, “un paese normale”, come diceva l’ex se-gretario appunto della Fgci di quel 1977. Senza né rab-bia né incanto. La mancanza di discontinuità dai padrinon promette niente di buono.

Le parole decisive sull’argomento le ho comunquetrovate dentro un vecchio libro di Mauro Rostagno,(“Macondo”, scritto insieme a Claudio Castellacci, Su-garco, 1978), acquistato in una bancarella di piazzaSonnino a Roma: “C’è una specie di ossessione all’in-terno della sinistra italiana su tutto quello che non ri-entra nei programmi stabiliti trent’anni fa. Per cui i gio-vani devono andare alla casa del popolo, andare a farei bagni, studiare, fare dimostrazioni quando Lama eBerlinguer o gli altri stabiliscono che quelle sono le sca-denze fondamentali della vita nazionale. Tutto quelloche non è compreso nel perbenismo – continuava Ro-stagno – nel buon senso è un nemico potenziale. Il ‘di-verso da noi' è infernale". Dopo questa lettura mi sonoriconciliato con la memoria di Rostagno, che ricordavo

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soprattutto quand’era seguace del santone Bagwan,quelli vestiti di arancione, lo ricordavo a una festa in unpalazzo della palermitana piazza Marina, nel 1981, in-sieme a Nicoletta Machiavelli che gli disegna il kajalsotto gli occhi, una visione piuttosto conforme ai luoghicomuni alternativi di certi anni. Evidentemente, misbagliavo, era soltanto un’impressione, Rostagno sa-peva il fatto suo.

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Qualche anno fa, sul settimanale femminile Amica, di-retto allora da Maria Laura Rodotà, apparve una pub-blicità destinata al lancio del nuovo corso della medesi-ma testata. La pubblicità in questione mostrava una ra-gazza davanti a un muro sul quale era tracciata in sprayrosso una grande A cerchiata, il più noto simbolo anar-chico. In alto, composta con alcune lettere ritagliate daigiornali, un messaggio anonimo-minatorio: “Rapita daAmica”. Sempre nella stessa pubblicità, la ragazza reg-ge una copia della nuova edizione del giornale. Esatta-mente come fu costretto a fare Aldo Moro con la Re-pubblica nei primi giorni del suo rapimento. L’agenziache aveva realizzato il progetto, l’Armando Testa, eragià nota per Caballero, Carmencita e Punt e Mes, manon è questo il punto.

Cos’è che non convinceva in quella pubblicità, al di làd’ogni ridicola reazione scandalizzata perché era statotoccato, mio dio, un “santuario”? Vediamo un po’: unmessaggio del genere, al di là dell’intenzione di suscita-re “curiosità” e, appunto, “scandalo”, ha comunque lapretesa comprensibile di ammiccare a un mondo di con-sumatori irregolari, non esattamente lettori di un sem-plice quotidiano locale come Il Messaggero, come giàun’altra pubblicità di sigari, ormai vecchia di decenni,

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che mostrava il volto del Che composto con le foglie ditabacco, ma che poi dovette essere ritirata in seguito aun’intimazione legale degli eredi e forse dello stesso Fi-del Castro.

Bene, se con quella pubblicità si voleva dire che sulprimo numero del nuovo magazine avrebbe trovatospazio un’inchiesta addirittura definitiva (possibilmentefirmata dallo stesso direttore) sulle circostanze dellamorte di Pinelli, se fosse stato così, complimenti ai crea-tivi dell’agenzia Testa e ai suoi committenti. Restava pe-rò un dettaglio: sempre personalmente, fossi stato neipanni della famiglia di un rapito dalle Br mi sarei moltorisentito, e nient’altro.

Anzi, ora che ci penso, perfino a costo di passare perottuso, anch’io posso dire senza fatica che una pubbli-cità di quel genere non sarebbe riuscita a portarmi inedicola.

Come spiegherebbe bene l’uomo che studia i segnidel linguaggio visivo, il semiologo, quella pubblicità siserviva di una figura retorica quale l’antifrasi per in-trodurre il suo opposto, faccio un esempio esplicativo:metto la faccia, che so?, di Einstein o di Rita Levi Mon-talcini, scienziati, cervelli grandi così, anche se poi inrealtà vendo mutande con l’elastico lento, mutandeinutilizzabili oppure diplomi ad allievi negati in tutto.Nel caso di quel numero di Amica si trattava invece di

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un naturale repertorio di ovvietà firmate, di loghi, dimutande (ma dall’elastico sano e firmato), di reporta-ge del tipo: è vero che l’uomo non è più uomo e la don-na è sempre più donna?, è vero che quest’anno anda-re in vacanze è cosa da stronzi?, non sei ancora anda-to ad acquistare la tiara?, e così via. Obiezione che misarei aspettato dai diretti interessati: scusa, ma tu l’-hai visto il nuovo mensile, chi te l’ha detto che non c’èl’inchiesta sulla morte di Pinelli? Prima di parlare avanvera, informati!

Avete ragione, ho esagerato, ho pensato male, ma èanche colpa del fatto che nulla, almeno fino a oggi, è piùprevedibile dei giornali che servono a convincerci che lamoda, e magari perfino il gossip, sono portatori diun’autentica rivoluzione culturale e dunque politica,quasi prossima alla proclamazione del comunismo li-bertario nei pressi dell’Argentario.

In realtà, leggendo i titoli sulla copertina che la mo-della-ostaggio mostrava, ho ritrovato tutti i dubbi: “Lesemisingle sono fidanzate a metà” e poi: “Moda femmi-nile sensuale”. Dell’inchiesta sulla morte del povero fer-roviere anarchico Pinelli, non un cenno, uno stracciod’ombra. Sono stato costretto così a pensare che fossein lavorazione, o piuttosto che quel genere di rivista sucarta patinata matta che stava per arrivare in edicolafosse un prodotto destinato a un target alto di figlie di

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papà garantite e viziate, fissate con la schiuma spetta-colare, turiste complete della vita. Ma comunque nonproprio ottuse. Perché turiste della vita di sinistra. Nonrestava che sperare che fosse prevista per il secondonumero.

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Esistono circostanze umane nelle quali il conformismoè così immensamente simile al più gigantesco e ingom-brante dei mammut da mostrare qualcosa di meravi-glioso, di lunare, un prodotto dell’acido lisergico sullecellule della mente umana, più noto al grande pubblicocome Lsd. È il caso di certi maoisti sopravvissuti a tutto,perfino a se stessi. Quelli del Partito marxista-leninistaitaliano: bandiera rossa con falce martello e testa diMao in luogo della stella. Non sono molti, eppure li siincontra a tutte le manifestazioni. Si piazzano bene, afavore delle telecamere, e sventolano lo striscione.

Quando avevo undici anni, chissà poi perché, mi misiin testa di fondare un partito con l’obiettivo di divulgarein città, e già che c’ero nel cosmo, il mio nome e le mieleggendarie imprese di modellista. Avevo anche un pro-gramma: diventare più famoso del mio vicino di casa,Dario, il cui modellino della Soyuz era stato esposto nel-la vetrina di un negoziante di zona. Insomma, più o me-no lo stesso sogno covato dall’adolescente Woody Allendi Radio Days con l’anello a scomparto segreto del Ven-dicatore Invisibile. Certamente, intorno all’età delle pri-me polluzioni notturne desideravo fondare un partitoper dargli il mio cognome. Direte: cosa c’entra questastoria penosa di cui, fra l’altro, ci frega nulla, con il con-

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formismo di sinistra e i maoisti residui d’Italia? Lo faccioperché quel sogno mancato di successo personale mitorna in mente tutte le volte che trovo nella buca dellelettere il mio giornale ormai preferito: Il Bolscevico, or-gano appunto del Partito marxista-leninista italiano.

Il superbo titolo d’apertura del 26 settembre 2002formulava così il pensiero del comitato centrale: ”Appli-chiamo gli insegnamenti di Mao per buttare giù il neo-duce Berlusconi, combattere il regime neofascista e co-struire un grande, forte e radicato Pmli”. A pag.5, inveceuna foto di bambini accompagnata da una didascalia:“Alcuni piccoli partecipanti hanno dato un vivace e sim-patico contributo ai canti e al lancio degli slogan conclu-sivi”. L’occasione era fornita, appunto, dalla “commemo-razione di Mao nel 26° anniversario della scomparsa”.Lo si poteva anche leggere sul cartello alle spalle delladirezione riunita in seduta plenaria a Firenze: tutti in ca-micia rossa, distintivo, pugno alzato, sorrisi fiduciosi,barbe ottimamente curate, varie le età. A pagina 9, unampio servizio sulla manifestazione del 14 settembre2002 a piazza San Giovanni, temperato dall’acume po-lemico: “Moretti ha precisato lo spirito di servizio versoi partiti dell’Ulivo della manifestazione romana, deno-minata non a caso con tipica terminologia trotzkista ‘Fe-sta di protesta’ per smorzarne appunto la carica di lot-ta. Infatti se n’è uscito con la seguente frase, rivelatrice

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del suo passato di trotzkista (Moretti ha fatto parte dal1969 al 1972 del gruppo trotzkista ‘Nuclei comunistirivoluzionari’ che pubblicava la rivista ‘Soviet’ diretta daPaolo Flores D’Arcais).

Godo... godo..., oh, sì, godo a leggerlo. È dunque dav-vero il caso di proseguire. Sul numero “in previsione del-lo sciopero generale del 18 ottobre promosso dallaCgil” ho trovato anche le “parole d’ordine del Pmli”. Slo-gan dettagliatissimi: “Contratti contratti contratti (rit-mato)” e ancora “Palestina libera (3 volte)” e infine “Coimaestri vinceremo”. Tutte cose, particolari, atti e mate-riali che evidenziano una cura estrema per la strategia eil delirio.

Sia chiaro che non occorre essere sbracatamente sta-linisti (e il Pmli lo è così tanto da pubblicare a puntate unsuo scritto del 1952 sui “Problemi economici del socia-lismo nell’Urss”) per aderire alle ragioni e alle fatiche delPmli, magari basta ritenere nemica infame l’ironia e ap-punto il dubbio. Se qualcuno fosse indeciso fra il “bon-dage” e l’impegno politico duro, sappia costui che Il Bol-scevico gli fornisce ancora adesso a poco prezzo, se nonproprio la pace della lobotomia critica, ottime referenzee un indirizzo sicuro di martirio intellettuale.

In una conversazione privata con Fausto Bertinotti,che sempre Il Bolscevico non esita a definire “agente deltrotskismo internazionale”, ho verificato una certa tolle-

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ranza da sua parte verso la setta in questione, una tolle-ranza di segno più esistenziale che politico, la stessa tol-leranza incuriosita che altrove si potrebbe riservare al-l’uomo-record che ha ottenuto di figurare nel Guinnessdei primati per avere letteralmente mangiato, sia pure apiù riprese, una vera locomotiva, la scelta dell’oggettonon credo nascondesse un valore simbolico.

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6.

Il capolavoro televisivo del conformismo di sinistra èuna fiction che ha avuto, e assai giustamente, molto suc-cesso e suscitato partecipata commozione, La megliogioventù di Marco Tullio Giordana.

Lo so, a dirne male c’è il rischio di passare per incon-tentabili, c’è perfino da incappare nei discorsi di moltepersone di buon senso, che, in nome del gradualismopedagogico “civile”, ti accusano di fare così il gioco delvero nemico, sono gli stessi che alla domanda sulle pre-ferenze televisive rispondono, qualunque sia il clima e lalatitudine, “telegiornali e documentari”, convinti che ilfine del più possente dei media debba essere “educati-vo” e non di “intrattenimento”, fra i veri nemici ci sareb-bero ancora da segnalare i reality-show, i programmicon le “parolacce” (il conformista di sinistra detesta ilturpiloquio, lo ritiene “regressivo”, ed è in questo identi-co al conformista-conformista), il conformista di sinistratrova inaccettabile che le sorelle Lecciso abbiano dirittod’accesso nei palinsesti e perfino in casa Berlusconi, emolto altro ancora, egli è insomma, a suo modo, un ve-ro “proibizionista”.

C’è dunque la possibilità di passare per uomo “dai gu-sti difficili” (commento possibile: “eh, ma a te non piaceniente...”. Oppure: “Era forse meglio un film come L’arpa

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birmana?”), badate bene, al tempo dei cineforum, lapersona che adesso osanna La meglio gioventù (o anchele soap giovanilistiche, mondo Smemoranda e Mtv, diAlessandro D’Alatri) si guardava bene dal mettere in di-scussione i film stampati sul programma, perfino le peg-giori cacate, da qui l’iper-successo della battuta di Vil-laggio-Fantozzi sulla “Potemkin”) ma è comunque assaimeno grave di una rinuncia all’esercizio critico, o ancorapeggio sottomettersi al gusto medio della sinistra delle“anime belle” che non sa fare a meno del melodramma,delle scene edificanti, del trionfo dell’ordine familiare,che trova il suo esempio massimo ne La stanza del figliodi Nanni Moretti, un’opera che infatti, giusto per fornireun esempio tematicamente plausibile, svanisce dinanzialla sontuosità poetica e formale di Tutto su mia madredi Almodóvar.

Ma torniamo alla categoria juniores, cioè alla fic-tion La meglio gioventù di Giordana. Trascrivo ciò chene scrissi a caldo su l’Unità: “Non mi è piaciuta nep-pure un po’, niente, proprio niente, e ci tengo a dirlo.Ne parlo a distanza di qualche settimana dalla messain onda perché ancora adesso vedo che se ne discutemolto in giro, anzi no, non se ne discute affatto, si di-ce soltanto che si tratta di un capolavoro, che si trattadi un film prezioso, se non di un’opera socialmenteutile, un film che avrebbe restituito ai sordi e ai ciechi

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la memoria di un sentire civile, il film di cui c’era biso-gno come il pane”. Discorsi che non fanno bene nep-pure a un regista di grande sensibilità e talento comeMarco Tullio Giordana. Si tratta dunque di un generedi argomenti apologetici che si reggono sull’equivocodel paese analfabeta dal punto di vista della memoriae della consapevolezza storica, che viene messo final-mente al corrente di qualcosa di straordinario: l’esi-stenza dei “buoni” e degli “altruisti”, l’esistenza di una“grande generosità”, e via discorrendo. S’intende cheil successo al botteghino e l’Auditel aggiunge poco onulla al fuoco della vera questione. Non s’interrogasulle semplificazioni narrative che quel lavoro mo-strava a occhio nudo. Se solo avessero detto che sitrattava, appunto, di una fiction, quale La piovra (op-pure, come commentava un amico, tipo Un posto alsole, o anche Incantesimo) non ci sarebbe stato moti-vo di obiettare, ma averla fatta passare per un capo-lavoro del cinema “civile” è, questo sì, soltanto unparadosso, una mistificazione, giocare al ribasso, si-gnifica togliersi la possibilità per un futuro, chissà poiquanto esteso, di tornare ad avere autentici e veri ca-polavori che restino nella memoria come combustibi-le dialettico e poetico, film quali Todo modo di Elio Pe-tri o lo stesso, benché inondato di retorica, Novecen-to di Bernardo Bertolucci.

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Fra le poche voci dissonanti sul tema, c’era stato unlettore de la Repubblica che aveva inviato una e-mailnella quale lamentava appunto il tratto paradossale,le coincidenze, l’assurdo della storia. Certo, alcunesemplificazioni potranno essere pure ritenute “funzio-ni narrative”, necessarie per realizzare il racconto, lecircostanze casuali che determinano gli intrecci inquella fiction, ma chi ha vissuto gli anni della “rivoltagiovanile” sa invece bene che la verità è un’altra, e as-sai più prosaica. O, se preferite, più brutale. Cionono-stante abbiamo provato a cercare gli antefatti stilisti-ci e ideologici de La meglio gioventù, e alla fine, pen-sandoci bene, li abbiamo trovati. In uno spot della pa-sta Barilla. Dove una coppia di ragazzi raggiunge unatorre d’avvistamento saracena in riva al mare con la“Due cavalli”: il prima e il dopo, la prima volta chehanno fatto l’amore, lei con i capelli lunghi, e poi, unistante appena, sempre lei con i capelli corti, marito emoglie, i figli già cresciuti, l’età dell’oro e l’età adulta,la torre com’era e la torre ristrutturata (dall’architettodi interni, anche lui un “compagno”), il massimo dellameraviglia abitativa al cospetto dell’eden paesaggisti-co, “non son cambiato, lo sai...” dice una canzone diLuigi Tenco.

Chi scrive, parla da spettatore e non da cinefilo, o sepreferite da persona che ha vissuto quegli anni in rivol-

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ta, e proprio per questa ragione si chiede, anzi, chiede:dov’è andata a finire la complessità? E ora nessuno ven-ga a dire ancora una volta che si tratta di alfabetizzare,informare, dare strumenti a un paese altrimenti con-dannato all’ignoranza consumistica e al qualunquismo,no, con questo ricatto da scuola dell’obbligo non si vanel migliore dei casi oltre la prima serata.

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7.

Quando Giuliano Ferrara decise di andare a Sanremoa tirare le uova in faccia a Roberto Benigni, il conformi-sta di sinistra si sentì chiamato a difendere l’attore to-scano dall’orco traditore, in una sorta di furore militan-te, fino a sostenere che Pinocchio, il suo Pinocchio, sce-neggiato insieme a Vincenzo Cerami, era un grandefilm. Non lo era affatto, e infatti poco tempo dopo per-fino Benigni, che non è fesso, smise perfino di nominar-ne l’esistenza.

Di fronte a quella storia delle uova marce promesseda Giuliano Ferrara a Roberto Benigni, in molti perseroil senso del limite, delle proporzioni e perfino del ridico-lo. In molti, a sinistra, cercarono di dare il peggio di sestessi. Riuscendovi in pieno. Sia commentatori ed edito-rialisti sia singoli lettori e spettatori.

La trappola era perfetta, quasi leonardesca affinché inmolti perdessero definitivamente la faccia. Brillandoper ottuso senso d’appartenenza (Benigni è quello cheha preso in braccio Berlinguer, gli ha perfino dedicatoun film: Berlinguer ti voglio bene, appunto). Insomma, ilfatto in sé sarà stato pure spiacevole, altrettanto veroche nella storia c’era qualcosa che faceva pensare a unblando, ma assai assai blando, “squadrismo”, tuttaviasarebbe stato molto peggio, sarebbe davvero da poveri

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coglioni, cascare nel tranello che covava dietro la “pro-vocazione” ordita dal direttore de Il foglio; era infattipossibile immaginare l’intera redazione che si prepara-va a pisciarsi addosso dalle risate assistendo al livoredei palafrenieri di Benigni e, per estensione, della sini-stra tutta, dai Giacobini di Saint-Just a Franceschini del-la Margherita.

Mi spiego meglio: lanciando lì a Sanremo questa mi-naccia, Ferrara e altri, desideravano dimostrare che, og-gi come oggi, il patrimonio dell’anticonformismo, delcoraggio intellettuale, della piena laicità appartiene alladestra, o magari soltanto a se stessi, solo a se stessi,una iper-destra che, forte di se stessa, se ne sbatte ditutti, perfino del rispettabile glamour spettacolare in-carnato da un autore come Benigni. Un falso d’autore,ma che ha la sua presa.

Quanto alla sinistra, sempre secondo questo ragiona-mento, trincerandosi in difesa dell’esistente e dellostesso Benigni, avrebbe dimostrato di non possedere ilbenché minimo senso dell’umorismo, e forse neppure lepalle, visto che sceglie di farsi rappresentare, anzi, siconsegna anima e corpo, nelle mani di un salariato to-scano della società dello spettacolo.

Alcuni adesso diranno: ma è quello, Giuliano Ferra-ra, a lavorare per Berlusconi, che sulla società dellospettacolo (televisivo) ha creato il proprio dominio po-

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litico e finanziario come Mackie Messer. Tutto vero,non è comunque un argomento sufficiente per avereragione. E sarebbe altrettanto penoso dire che Beni-gni, in quanto premio Oscar, “non si tocca”. Con un’af-fermazione simile, i conformisti di sinistra si sarebbe-ro resi ancora più subalterni ai luoghi comuni. Insom-ma, si sarebbero fatti dire che il loro senso dell’orto-dossia era degno dei comunisti francesi che, un tem-po, 1953, si offesero a morte per interposta personaquando Picasso disegnò Stalin con quattro segni di pa-stello grasso. Ne seguì perfino un penoso dibattito sul’Humanité, “C’est ne pas lui!!! C’est ne pas lui!!!” urla-vano come belve alcuni iscritti.

Ripensiamo insomma alle proporzioni. Se poi volete la verità della faccenda, il problema era

molto semplice: Giuliano Ferrara è pienamente legitti-mato a provare “antipatia” per Benigni (provare antipa-tia per qualcuno è una delle pratiche umane più ricor-renti del quotidiano, e non certo un reato) almeno daquando questi lo prendeva in considerazione, e per il cu-lo, sia per la grassezza (troppo facile, neppure la gras-sezza è un reato) sia per la sua contiguità con BettinoCraxi, punto e basta. Gli altri fanno bene a ricordargliquest’ultima cosa, ma l’iperbolica difesa di Benigni è unaltro discorso, peggio ancora di un film modesto. Pen-sandoci però bene, neppure avercela con i craxiani deve

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essere ritenuto un dovere politico necessario, almenoda quando in occasione dell’ultimo congresso Ds, il se-gretario Fassino ha rivendicato il ritratto di Bettino Cra-xi nella quadreria di famiglia e, cosa ancora più signifi-cativa, un noto disegnatore satirico, nella stessa occa-sione, ha confermato la giustezza della scelta: “Quandosi riceve un’eredità non si dice: prendo le case ma nonvoglio i debiti...”. Testuali meravigliose parole di umori-sta organico di sinistra pienamente orgoglioso del pro-prio ruolo.

Con la storia delle uova in faccia a Benigni un bel pez-zo di sinistra ha rischiato di giocarsi appunto la faccia,divenuta torva, in attesa della mossa sacrilega di Ferra-ra. Migliaia di facce di uomini e donne che non hannoancora imparato a stare al mondo senza comportarsicome i “suscettibili” che ci cascano sempre, al di là del-l’essere o meno di sinistra. Che era poi proprio quelloche dalla sinistra si aspettavano Ferrara e i suoi amici.

Insomma, Benigni d’ora in poi farà bene a sbrigarselaper i cazzi suoi.

Volendo restare nella più recente contemporaneità,soltanto in un’altra circostanza il conformista di sinistraha avuto modo di mostrarsi insieme a tutti i suoi ottusi eparanoici punti cardinali. Avvenne, sarà stata metà de-gli anni Novanta, quando Chiambretti si presentò vesti-to da postino al congresso del Partito della Rifondazio-

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ne comunista, lui andò lì, e quelli non lo fecero entrare.C’era ancora fra i dirigenti Armando Cossutta, e gli altri“filosovietici”; successe che uno della vigilanza lo portòin una stanza, sorta di sala stampa, e di fatto lo chiusedentro, Chiambretti cercava di uscire, faceva domande,e allora quello, l’uomo fidato del servizio d’ordine di Ri-fondazione, lo guardava con l’occhio da pazzo che si ri-serva al provocatore e ripeteva: “Chiambretti, siamo co-munisti, veniamo da lontano e andiamo lontano, Chiam-bretti, siamo comunisti...”.

Una settimana prima lo stesso portalettere era statoda quelli del Msi, in via della Scrofa, e i fascisti – c’era Fi-ni, c’era Abatangelo – gli avevano aperto tutte le porte, esi erano pure fatti prendere per il culo insieme alla no-stalgia del Dux. Cose turpi, cose che non si dimenticano.

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Si può dire che l’immaginazione abbia davvero e fi-nalmente conquistato il potere con l’arrivo, in qualitàdi consulente, dello scrittore Alain Elkann al Ministerodei beni culturali, un uomo non esattamente di sini-stra, o forse sì, visto che ormai non è davvero il caso disottilizzare.

Accanto a questo record epocale, c’è stato modo di ri-levare con assoluto interesse l’exploit del poeta ToninoGuerra nel pianeta altrettanto soddisfacente della pub-blicità. Grazie a uno spot, infatti, lo scrittore romagnolo,sospirando sospirando, ha conquistato in poche setti-mane una popolarità decisamente invidiabile, iscriven-do così il proprio nome nel libro d’oro delle merci post-Carosello. L’evento ha riempito d’orgoglio il conformistadi sinistra, ravvisando questi in Tonino Guerra tutte lestimmate di certa seduttività culturale: apparente as-senza di ambizione, retorica paesana, la posa cincinna-tesca, l’elemento vernacolare che serve a volgarizzare,depotenziandole, le spietate analisi di Pasolini sull’omo-logazione e il “genocidio culturale”, il berretto da boc-ciofila, i baffi un po’ spioventi come quello della birra, l’i-dea del bar, lo strapaese, la Romagna (“È rossa, la go-verniamo noi”!) come laboratorio politico-ricreativo dalvolto umano, ecc. ecc.

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Avere successo con uno spot “simpatico, e non le soli-te cose brutte”, non è cosa da poco, sono risultati da fa-re impallidire le semplici soddisfazioni dello scrivere,fossero anche, com’è nel suo caso, oltre a molti magnifi-ci versi già antologizzati da Mondadori, la sceneggiatu-ra di un film di Federico Fellini, Amarcord.

Giusto, è proprio un poeta conclamato dei nostri mi-gliori, quel signore anziano che, berretto da sindacalistadel Sunia sul capo, si mette davanti a un ipermercato incompagnia di un bambino. La schermaglia affettuosaper essere chiamato zio e non nonno, come possiamobene intuire, è un espediente narrativo necessario permarcare lo scarto generazionale, l’antinomia vecchi-gio-vani, la simpatia, la piccola commozione familiare, perintrodurre un germoglio di speranza domestica... Alla fi-ne comunque, il nostro poeta superlaureato ToninoGuerra, gettata la spugna dell’affetto, quasi implora:“Ma perché non mi chiami nonno?” Il nipotino, con quelsuo incisivo da piccolo farabutto in età pre-puberale,crudele eppure paziente, scuote la testa, come a dire:che palle, ’sti vecchi...

Ma anche in questo caso si tratta di espedienti retori-ci suggeriti dallo script, l’autore dei testi, necessari perfar scattare la stessa emozione che ci pervade tuttiquando c’è in onda il gigante amico, quello che devepensare a tutto lui, anche battere Jocondor.

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Anche Tonino Guerra, dentro quel suo spot, come giàil gigante, compie un’impresa titanica, pensa lui a dirciche il telefonino, così come la scopa elettrica o il fon, untempo non esistevano, e dunque occorre salutare la lo-ro materializzazione sulla nostra terra quasi come undono della grande azienda divina: “Questi qui sono mi-racoli, questi qui una volta non c’erano...”.

In senso stretto, occorre solidarizzare con le parolepronunciate dal poeta; ce lo ricordiamo tutti il tempodel gettone telefonico e delle cabine sempre occupate, eperfino quell’altro tempo in cui non c’era verso di inter-cettare la teleselezione, ma nel nostro peana per il testi-monial di ipermercati Tonino Guerra c’è anche un perògrande come una casa, anzi, un ipermercato.

Nonostante la buona volontà, ci sembra esageratoche una luminosa frase ormai di culto come: “Gianni!Non può morire l’ottimismo, è il profumo della vita!”debba riguardare la specie banale degli elettrodome-stici. Dal poeta, insomma, ci sia aspetta che si metta alservizio della rivoluzione (Majakovskij) o dell’elegia(Neruda) un po’ meno, che so?, del leasing o del chiavi-in-mano.

Altrimenti, gentilissimo maestro, non resta che far ri-torno al sarcasmo di Jacques Tati, un altro animo davve-ro lirico che, senza bisogno di sputarci sopra, ci dicevache, tutto sommato, se c’è da sventolare un indirizzo

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che sia quello del giorno di festa, quando tutti i negozisono finalmente chiusi e c’è tempo per andare sui prati.Sia detto senza acredine verso la modernità.

Ora, questo e altri spot del poeta Guerra sono statiassunti dai conformisti di sinistra come rondini nel cielodella pubblicità. Ci riferiamo ovviamente a un target diultracinquantenni, (quanto agli altri, i ragazzi, c’è Jova-notti, con la sua zeppola, Lorenzo Cherubini che non saparlare, e quindi non c’è il rischio che dica cose che de-terminano conflitti) che sono stati convinti alla modera-zione dei gusti, e delle opinioni, perché, come dicevanoi segretari di sezione, “è un momento difficile, è un mo-mento difficile, mi raccomando”.

Ovviamente, oltre Tonino Guerra, esiste una amplissi-ma galleria di eroi buoni per i conformisti di sinistra. DaFranco Battiato al già citato Jovanotti, alla conduttriceGloria De Antoni.

Prediamo a caso Battiato, l’uomo deve avere lavoratosu se stesso proprio bene e con tenacia, per diventarecosì saggio, ma anche così serenamente ridicolo, alme-no agli occhi degli scafati che non amano le prosopopee.Di questi tempi, ci vuole il coraggio, la faccia finta di Dia-bolik per riuscire a prendersi sul serio come concessio-nario di Buddha e dei dervisci per Catania, isole Eoliecomprese. Insieme alla sua spalla, il filosofo Manlio Sga-lambro, un uomo, di più, un vicepreside, diventato cele-

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bre per non avere mai avuto il tempo, anche lui sicilianodi Catania, di denunciare l’esistenza della mafia. Aves-sero ragione loro? Fosse questa la vera eleganza intel-lettuale?

Per la categorie donne, non proprio appaiata a CarlaBruni, c’è invece Gloria De Antoni, già conduttrice di al-cune rubriche di Raitre. Con la sua scarpa bassa, la so-brietà di sinistra anche nel vestire, Gloria De Antoni farimpiangere quei principi che, un tempo, presero a pre-dicare la rivoluzione – Kropotkin e Bakunin – gente chefaceva sul serio, e che, perfino scoreggiando, producevapensiero. Gloria De Antoni con le sue buone letture, colsuo ottimo garbo di sinistra assai perbene, figurerebbebene come custode dello stabile dove si trova la casaeditrice Adelphi. C’è quasi modo di vederla nella guar-diola mentre legge Ingeborg Bachmann.

La lista si interrompe qui, anzi, non comincia, solo peresigenze di brevità. E di amor proprio.

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Ci siamo, ecco l’apogeo: Donatella Versace, lo sostie-ne il consulente d’immagine di alcuni eminenti demo-cratici di sinistra, Klaus Davi, potrebbe essere il “testi-monial ideale di una sinistra aperta, liberale e che fa be-ne al nostro nome nel mondo”.

Lo sarebbe perché, come afferma ancora il consulenteDavi, si tratta “di un’icona significativa e vincente in Ita-lia e all’estero, una donna che dà lavoro a migliaia dipersone nel nostro paese”.

Non si resta immobili davanti a un’affermazione simi-le, nel migliore dei casi ci si fa tatuare un volto di medu-sa sulla fronte. La medusa, la sappiano tutti, è il mar-chio dell’azienda creata da Gianni, il fratello ucciso sul-l’Ocean Drive di Miami.

Anzi, il duttile popolo della sinistra aperta, liberale eche vuol bene al proprio nome nel mondo, sono certoche dopo un iniziale momento di perplessità e sbanda-mento avrà certamente iniziato a riflettere con la dovutaattenzione sul merito della proposta, come d’altronde hascelto di fare perfino il sottoscritto dedicando spazio allacosa piuttosto che interessarsi, che so, alle ennesime esempre più scontate sortite di Silvio Berlusconi.

Giusto: partiamo proprio da Berlusconi per vedercipiù chiaro sulla bontà del suggerimento, a maggior ra-

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gione se, come sostiene sempre il consulente d’immagi-ne Davi, la “verità” e la “credibilità”, diciamo, produttivedi Donatella Versace andrebbero contrapposte alla “fal-sità” di Berlusconi che, se ho capito bene, va suggeren-do ai suoi l’idea di una “annunciatrice” come testimonialdi Forza Italia e dell’intera Casa delle Libertà.

Se le cose stanno così, l’assunto di partenza del nostroragionamento, destinato a andare incontro ai conformi-sti di sinistra, potrebbe essere il seguente: DonatellaVersace appartiene al mondo reale, è ambasciatrice dicultura italiana nel mondo, è bionda, tinta, ma l’arte ini-zia dove finisce la natura. Di conseguenza, interpretan-do intelligentemente il suggerimento di chi pratica la co-municazione, una sinistra aperta, liberale e che promet-te bene al proprio nome nel mondo farebbe bene a nonlasciarsi sfuggire l’occasione.

Lo immagino già, anzi, lo vedo lì davanti il duttile po-polo della sinistra aperta, liberale ecc. che rimugina laproposta, lo vedo che dopo un’iniziale smorfia di, nondico disappunto, bensì di meraviglia prende a elaborareesattamente così, quasi come il computer di 2001:Odissea nello spazio: Però, ma tu lo sai che non è unacattiva idea, non è affatto una cattiva idea... E subito do-po, rivolto all’amico e alla compagna dubbiosa: no, per-ché tu devi vedere l’aspetto utilitaristico delle cose, nondevi fermarti alle prime impressioni, tu devi pensare

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che non si può accettare d’essere governati da uno co-me Berlusconi, che sta portando il paese alla deriva eco-nomica e culturale puntando tutto sull’immagine, ti èchiaro? In questo senso, ce la vedo bene Donatella Ver-sace, oh, stiamo parlando di una donna che sa quelloche fa, una imprenditrice, una donna di classe, fine, ov-viamente elegante, con una bella pronuncia, e poi è spi-gliata, non è mai banale, è sobria, davvero non è unacattiva idea...

E qui, già che c’è, il duttile ragionatore della sinistraulivista, o quel che sarà, proiettato verso il 2006 prendea citare un nome importante, un nome grosso, un nomeche sta nei libri di filosofia, ma anche un nome che spes-so e volentieri la sinistra italiana ha pronunciato sia perbocca di Gramsci sia per bocca di Togliatti, il nome inquestione è Niccolò Machiavelli, l’autore de Il Principe.Prosegue infatti il duttile interprete delle necessariesvolte della sinistra aperta, liberale e che fa bene al no-stro nome nel mondo: che cosa diceva il Machiavelli? IlMachiavelli diceva che il fine giustifica il mezzo, e allorache stiamo ancora a ragionare? Se un consulente d’im-magine ti dice una cosa del genere ha le sue buone ra-gioni per dirtele, quella è gente che studia.

Il duttile non ha però fatto i conti con un pensiero an-cora più radicale sull’argomento, sostenuto da un suovicino di casa, a sua volta altrettanto lettore di Machia-

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velli, quest’ultimo infatti arriva, ragiona e dà il suo as-senso convinto, ma poi ci pensa un po’ su, e aggiunge:Donatella Versace, la vedo bene, ma anche Dolce & Gab-bana non sarebbero affatto male, pure loro vedo bene,ma forse si può osare ancora di più: puntando ancorapiù in alto, puntando all’originale, all’unico e inimitabile,vuoi il nome? Ce l’ho! Sai che ti dico? Donatella Versaceè ancora troppo poco, prendiamoci direttamente Berlu-sconi, dài, sì, vada per Berlusconi, sì, meglio Berlusconi,affare fatto; vada per Berlusconi.

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Un po’ di anni fa, esattamente nell’inenarrabile 1989,avrei voluto scrivere una situation comedy colma di fecie sangue, sul tema delle gioie del potere nei paesi delsocialismo irreale, una grande opera dell’horror dome-stico intitolata Casa Ceausescu.

Alla fine, il progetto finì chissà dove, e di questo anco-ra oggi mi dolgo. I termini, le motivazioni, gli arredi e ivolti perché ne uscisse fuori un capolavoro popolare c’e-rano proprio tutti: Nicolae, padre despota; Elena, ma-dre magliara; Nicu, figlio seviziatore di ginnaste; Zoe, fi-glia nevrotica piena di smorfie di disgusto con cockerspaniel al guinzaglio e stecca di Kent sotto braccio. Sul-lo sfondo, gli spari di una rivolta natalizia che metteva fi-ne all’incubo di un sistema merdoso, le bandiere col bu-co al centro perché liberate dal simbolo del regime, icappotti scuri dei poliziotti e soprattutto i viali di unpaese – la Romania – calpestato da un regime di vam-piri comunisti. Un’occasione d’oro persa, davvero.

Ne avevo addirittura parlato agli amici durante unagita ai Castelli e a Giulio Einaudi quando stavamo inmezzo ai templi distrutti di Selinunte, mentre i primi tro-vavano il mio proposito molto “civile”, degno di un Tele-gatto, Einaudi, forte di un riflesso condizionato da edi-tore organico al partito, invece di intuire che nella mia

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idea c’era qualcosa di radioso, ebbe un po’ da ridire, glisembrò forse un libro troppo scanzonato, evidentemen-te anche lui difettava di vera ironia, altrimenti negli ulti-mi anni non avrebbe sponsorizzato certi autori i cui ro-manzi sono riassumibili in una sola battuta: “Mamma,ha telefonato qualcuno per me? No, nessuno”.

Purtroppo o per fortuna, la storia talvolta si ripete, senon nelle forme già conosciute, certamente nella so-stanza. Il presente e le vicende accadute a Belgrado, mipermettono infatti di recuperare l’idea buttata via inquel memorabile 1989.

Decisamente, la trama è più o meno la stessa, soltan-to il titolo e il luogo cambiano. Il mio capolavoro, la miasituation-tragedy, si chiamerà quindi Casa Milosevic. Iprotagonisti, ancora una volta, sono drammaturgica-mente colmi di pregi: Slobodan, padre della patria ser-ba; Mirjana, moglie e ideologa (cotonata) della patria;Marija, figlia (invasata) della patria; Marko, figlio (ossi-genato) della patria con diverse proprietà sparse nelpaese, da “Bambi park” a un vapoforno con attigua piz-zeria a Pozarevac; Milica, nuora (siliconata) della patria.Sullo sfondo, miliardi e miliardi trafugati dalle casse del-l’erario e contatti con varie mafie locali e non.

Per concludere, immagino anche alcuni personaggiminori, poco più che comparse. Spero però di non do-ver inserire l’eroe idealista, magari venuto dall’Italia,

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tesserato del partito di Cossutta e Diliberto, che inse-gue in lacrime il cellulare che porta via il capofamigliada Villa Mir per depositarlo in cella, e intanto urla così:“Non potete fare questo al compagno presidente Milo-sevic!” Alla fine, tutto solo, nella Belgrado di notte chefesteggia, se ne va a presidiare il negozio di articolisportivi del giovane Marko, “Skandal”. Se ne sta davan-ti alle vetrine, convinto di difendere il socialismo, e alpassante benevolo che gli suggerisce di raggiungere iltraghetto per Ancona, ripete che neppure un patriot losmuoverà da lì. Questo tipo di eroe, questo tipo di ge-nio, temo proprio di doverlo prossimamente inserire.Magari insieme alla storia dello scettro, che Ceausescuaveva ordinato a un celebre orafo parigino di place Ven-dôme, giunto a Bucarest nel suo astuccio di velluto ros-so quando il Conducator era ormai stato fucilato insie-me alla moglie Elena.

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Ma chi l’avrà mai detto che la Rai è di sinistra e Me-diaset l’esatto contrario? Ma questa sinistra, che ritienela Rai di sinistra e Mediaset di destra, dove avrà maistudiato, in quale istituto parificato? Prendi il caso diPaolo Bonolis, il conduttore che fa molti ascolti e dun-que attira gli inserzionisti pubblicitari, e cerca di capire.Cerca di capire il modo in cui ragionano certuni. Il loromodo di pensare. Prova a entrare nella loro testa. Se neva, se ne va! No, no, resta! Resta o se ne va? Se ne va.Chi? Come, chi? Bonolis! Ecco, se n’è andato. Chiuso,non c’è più niente da fare. Via dalla Rai per andare a Me-diaset. Roba di soldi. D’altronde, tu, al suo posto, sì, tu,al suo posto, cosa avresti fatto? Io? Io mica lo so. Ecco,e allora, se non lo sai statte zitto. No, non doveva.

Se n’è andato. A Mediaset, da Berlusconi, il nemico deiromani per definizione, la politica qui non c’entra, c’entrasemmai l’idea che molti hanno del vecchio servizio pub-blico. E qui quello di sinistra, il conformista di sinistra, siconvince d’essere nel giusto. Che farà adesso? Intanto sibecca un sacco di soldi, che schifo! Quanto al resto, faràquello che ha sempre fatto, farà Bonolis. D’altronde, fac-ci caso, come si chiamano le sue trasmissioni, hanno for-se un titolo? No, si intitolano direttamente con le gene-ralità segnate sulla sua carta di identità, se esistesse an-

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cora la tessera postale andrebbe bene anche quella: Bo-nolis Paolo. Due punti e basta. Se n’è andato dai nostrinemici. Se n’è andato e, come dice la vox populi, ha fattobene, prendi la storia di Sanremo, sì, il Festival, venivada una edizione come quella di Tony Renis, che il solopensiero del balletto di Tony con Simona e Celentanomette ancora adesso i brividi. Sepolto Tony, è arrivatoBonolis, e sono perfino tornate a fiorire le rose. È vero:non si chiamava più “Festival della canzone italiana”, madirettamente, di più, solo e soltanto Bonolis, ma c’è co-munque riuscito a resuscitarlo, e questo può bastare neltempo in cui l’unico valore riconosciuto è quello fissatodall’Auditel. Punto. Di questo passo, anche il telegiorna-le e il meteo si chiameranno forse Bonolis. No, non se nedoveva andare, ancora lui, l’ingenuo di sinistra.

Che fine faranno i pacchi? Quali pacchi? I pacchi di Bo-nolis? Ora se li carica uno per uno e se li porta a Colo-gno Monzese o dove dice lui, tanto, lo ribadiamo, sono ipacchi di Bonolis. Li ha inventati lui, e così il format stes-so passa in cavalleria. No, a Cologno, che schifo a Colo-gno! Quasi la stessa scena di quando, metà anni Novan-ta, Michele Santoro mollò la Rai per Mediaset: “Miche-le, ripensaci!” così si disperavano gli ascoltatori di Italia-Radio, emittente radiofonica d’area Pci e poi Pds.

A dirla tutta, Bonolis, come già i radicali di Pannella eBonino, possiede qualcosa di “transnazionale”, anzi, di

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transaziendale, lo puoi mettere sia qui sia lì. A Roma co-me a Milano. No, i radicali no. Sempre un certo pubblicodi sinistra: Io li odio i radicali! Questa volta ha scelto Mila-no. Non cambierà molto, giusto il logo sotto il suo solitoeloquio preso in prestito ora da Alberto Sordi ora dal do-matore sadico ora da Totò della lettera dettata a Peppino.“Transaziendale” come i radicali: oggi qui domani là, tan-to, come dicono tutti, se lo può permettere. Alla fine le la-crime solcano soltanto le guance di quattro vecchi (nelsenso di retrogradi) meridionali e di sinistra, quelli che an-cora adesso pensano che Mediaset sia una roba, appun-to, per milanesi, al massimo per piacentini. Quanto a lo-ro, lo avrebbero trattenuto il più possibile in via Teulada oal delle Vittorie, in Rai, la cara Rai, la televisione dal voltoumano contro la televisione con la faccia di Berlusconi.

Paolo, Paolo, il successo non ti mancava, i soldi idem,sei pure romano, ma perché lo hai fatto, perché? Segueun pianto dirotto, il noleggio delle prefiche, la convinzio-ne di avere assistito a un tradimento assoluto, unico,inaccettabile, e intanto le prefiche piangono: no, nondoveva andare da quegli altri, non è giusto, non si fa.

Ma chi l’ha detto che la Rai è di sinistra e Mediaset l’e-satto contrario? Ma questa sinistra, che ritiene la Rai disinistra e Mediaset di destra, dove avrà mai studiato,chi glielo avrà mai messo in testa che Bonolis potesseavere a che fare con la sua causa del progresso?

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La scoperta dell’esistenza di un libro-intervista-bio-grafia-confessione-verità vera e definitiva nel quale lafinta bionda Veronica Lario Berlusconi si racconta spas-sionatamente a Maria Latella, mi ha risvegliato una vec-chia fissazione riguardo all’ingenuità di molte personedi sinistra, uomini e donne indistintamente. Conformistidi complemento, in questo caso, iscritti all’avviamentoche infine, dopo lungo impegno, ti consegna un diplomadi conformista in servizio permanente effettivo.

Facciamo subito macchina indietro: torniamo al tem-po delle spassionate manifestazioni contro il governodella Casa delle Libertà, più o meno nel 2001. In queigiorni, in mezzo ai cortei, non era raro scorgere cartelliincoraggianti, spesso ispirati a un sentimento di compli-ce simpatia, verso la signora Lario Berlusconi. Immagi-nata, elaborata, concepita quasi come una “quinta co-lonna” comunista nella casa di Arcore o nella villa fortifi-cata davanti al mare della Sardegna. Com’è forse noto,quando c’erano in corso quelle manifestazioni, Berlu-sconi aveva da poco fatto la sua battuta pubblica in pre-senza di un politico straniero a proposito di un’eventua-le relazione fra il filosofo e sindaco Massimo Cacciari, inverità iper-narcisista di professione, e la signora Veroni-ca, e intanto, prendendo spunto da quel fatto, un vasto

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pezzo di ingenuo popolo di sinistra, galateo alla mano,ci ragionava sopra. In che modo? Proveremo qui a rico-struire i discorsi di quel sensibilissimo pezzo di mondo:ma figurati, se Veronica sta ancora con suo marito, maio ci metto la mano sul fuoco che lei non lo vuole vederepiù neanche in cartolina, ma certo che sono separati dauna vita, lei fa la sua vita e non ne vuole sapere nulla diquello, lei è una donna intelligente, ma figurati se a Ve-ronica gliene importa nulla di quello, se non lo manda afare in culo dipende soltanto perché si tratta pur sempredel padre dei suoi figli... E qui il conformista di sinistralascia grondare dal proprio cuore il peggiore sentimen-to cattolico, quello della rinuncia, della sofferenza in si-lenzio, dei doveri superiori, non certo quello di Cristoche dice “e adesso vendete i mantelli e acquistate le spa-de”. Vecchia ossessione comunista, l’incontro con le“masse cattoliche”, che alla fine tutto si riduceva al Vati-cano. Ma torniamo a Veronica, che nome più cattoliconon c’è: Veronica alias “vera-icona” alias “volto santo”.

C’era perfino chi si spingeva oltre scrivendo direttamen-te sui cartelli “Mollalo, Veronica”, ‘“Veronica, non ti meri-ta”, “Brava Veronica”, o giù di lì. Scrivevano queste cose, esentivano d’avere capito tutto. Veronica col suo nonno par-tigiano o finito nei lager tedeschi la pensa come noi.

Suppongo che per queste stesse persone sarà statoun duro colpo scoprire che la signora Berlusconi si è ben

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guardata dal dissociarsi dalle imprese del suo uomo.Anzi, come ha osservato Lidia Ravera dopo aver affron-tato la lettura del libro di Maria Latella, ne ha sposato fi-no in fondo perfino gli stati d’animo, perfino i più impro-babili. Ed è giusto così. Da una moglie responsabile, èdavvero il minimo ricevere una difesa a oltranza. In que-sto modo recita un vecchio e inaffondabile luogo comu-ne nazional-popolare. E non mi pare che certa sinistraabbia mai pensato di mettere in discussione l’assiomadell’indissolubilità della complicità. O no?

Immagino dunque come ci saranno rimasti gli ingenuie le ingenue di sinistra ad apprendere che la loro fiduciaera riposta assai male. Sto parlando delle stesse perso-ne che, una decina di anni fa, provarono sdegno e im-maginarono quasi una protesta di piazza quando sep-pero dai giornali che una ditta di rossetti aveva interrot-to il contratto pubblicitario per “sopraggiunti limiti dietà” a Isabella Rossellini. E vogliamo parlare del casoOmbretta Colli? Adesso che non è più presidente diniente, tutto bene. Ma io mi chiedo: come mai il garbo eil senso della buona educazione per lungo tempo ha im-pedito a molti di pronunciare ad alta voce la seguentepubblica domanda: ma l’avrà votata anche suo maritoGiorgio Gaber? (Sì, la votava!) Soltanto una sinistra per-bene e piena di squisitezze non si fa sfiorare da questogenere di dubbi. Magari la stessa sinistra che immagina

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per il futuro come testimonial perfetto una merce raracome appunto Carla Bruni, l’ex modella, adesso cantan-te raffinata, inavvicinabile, una vera signora, una dea.Quasi come Veronica. E intanto il marito mostra il ditomedio in un segno inequivocabile che in Italia si traducein “’sto cazzo!” Lo mostra platealmente durante un co-mizio, mentre sta abbracciato a una candidata del suopartito, e ride, e infatti ridono tutti, e invece il conformi-sta di sinistra quando assiste alla scena cosa fa? Guardae dice “che schifo!” E ne fa una questione di buona edu-cazione e di buon gusto, di buone maniere, plaudendointanto alla signora Ciampi, come se fosse la cosa piùimportante, così pensa il bravo alabardiere e la bravaalabardiera di sinistra sempre lì a guardia dell’imenedella piccola borghesia e dei benpensanti, che li dovran-no votare e che, a cose fatte, chiederanno in cambio percominciare l’abolizione dell’aborto, e poi anche del di-vorzio.

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La vicenda degli estrosi disobbedienti che si travesto-no da prigionieri incappucciati per condannare le tortu-re americane in Iraq mi ha fatto venire in mente una co-sa che il grande pittore pop Mario Schifano amava rac-contare di sé. Dilungandosi infatti sulla propria infanziain Libia (Schifano era nato a Homs nel 1934) ebbe mo-do di soffermarsi sui particolari del suo primo Carneva-le: “Avrò avuto sei anni, e in quell’occasione la mia leva-trice, la signora Beneventi, volle vestirmi da Zio Sam, ilvecchio con il cilindro a stelle e strisce. Hai capito bene,mi vestirono proprio da Zio Sam. E questa cosa mi tornain mente tutte le volte che vedo al telegiornale proprio ilfantoccio dello Zio Sam dato alle fiamme durante le ma-nifestazioni in qualche strada di paese arabo...”.

Schifano raccontava così, e intanto gli veniva da ride-re, gli sembrava d’essersi trovato per caso, puro caso, ainterpretare un personaggio, un simbolo ora apologeti-co ora contraddittorio della storia e dell’iconografia del-l’Occidente ricco e arrogante. Al di là del valore simboli-co di quell’atto, ovvero l’annientamento del feticcio,Schifano non riusciva comunque a capire che tipo disoddisfazione potesse dare quel genere di rogo.

Non aveva affatto torto. Le stesse considerazioni, lastessa percezione di una assoluta mancanza, diciamo, di

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fantasia e di immaginazione, mi sembra possa essere rife-rita a certe “performance” ricorrenti dei disobbedienti.Mi direte: che c’entra la fantasia quando c’è di mezzo larabbia? C’entra, anzi, sarebbe un guaio se decidessimo diignorarla ritenendo che le circostanze estreme legittima-no tutti i comportamenti, magari perfino il ritorno al co-siddetto realismo socialista con le sue orrende statue ci-clopiche e apologetiche. Mentre dico queste cose, ragio-nando sempre intorno a una certa mancanza di fantasia,la stessa che talvolta certa sinistra radicale (o antagoni-sta) ama manifestare, ripenso a un altro episodio altret-tanto paradigmatico. Qualche anno fa, a Roma, alcuni ra-gazzi decisero di realizzare un monumento all’antifasci-smo destinato a Porta San Paolo. Un vero obbrobrio,quattro-cinque sagome ammanettate, qualcosa che sem-bra suggerita da un’idea della lotta di liberazione comerelazione di questura. Quando, il giorno dell’inaugurazio-ne di quel mostruoso manufatto, provai a manifestare ilmio dissenso, un giovane lì presente, credo di Rifondazio-ne, cercò di mettere a tacere i miei dubbi dicendo così:“Lo hanno fatto i compagni dei centri sociali”. Come dire:non c’è niente da discutere, è una forma poetica che di-scende direttamente dal Popolo. Forma massima di de-magogia dell’oro colato dalla fucina post-comunista.

Mi direte a questo punto: ma ne stai facendo una que-stione di gusto o di buongusto? Affatto, ne faccio una

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questione di linguaggio. Faccio un altro esempio presoin prestito dal mondo qualunquista delle contumeliecalcistiche. Fra tutte le scritte rivolte ai laziali (ma valeanche il contrario) che mi sia capitato di leggere sui mu-ri di Roma nei giorni dell’ultimo scudetto giallorosso lapiù crudele, ma anche la più chiara rispetto al suo scoponon conteneva né sangue né merda bensì una frasespietata nella sua apparente freddezza: “Laziale guardae impara”. Voi adesso mi direte come si possa mantene-re la calma quando c’è in atto una tragedia. Occorre, oc-corre, se si vuol fare politica ovvero qualcosa che somigliall’intelligenza.

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Fra gli esempi di conformismo di sinistra donati dallacronaca recente c’è senza dubbio la questione del lea-der. Laddove il conformismo si identifica con questa fi-gura cruciale: il caso Cofferati è più che illuminante. C’èstato infatti un momento del quale migliaia di donne disinistra si sarebbero immolate sotto i citofoni dell’abita-zione dell’allora segretario della Cgil. In assenza di unavolontà individuale, avrebbero provveduto i mariti a “of-frile” all’uomo del destino. E anche gli uomini fecero laloro parte in fatto di entusiasmo.

“Ser-gio Ser-gio-Ser-gio”, li sento ancora quelli che di-cevano così, “Ser-gio -Ser-gio...” alla manifestazioni deitre milioni al Circo Massimo, nel 2001. Gli stessi, quan-do seppero che Ser-gio Ser-gio accettava di fare il candi-dato sindaco a Bologna invece di mandare tutto a caca-re, ragionando ad alta voce conclusero replicando ai “di-sfattisti” e ai semplici perplessi con un “vedi, che gover-nare una città come Bologna è molto importante”. Que-sti soggetti non abbiamo più avuto modo di incontrarli,ma siamo certi che anche di fronte alle ultime sortite diSer-gio Ser-gio finalmente insediato a Palazzo D’Accur-sio, sull’ordine e la legalità e le stesse birrette da bere ilsabato sera sotto i portici di piazza Verdi, e molti inso-spettabili costretti a dire che forse “era meglio Guazza-

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loca”, be’, queste persone saranno in grado di tirare fuo-ri il vecchio spirito dell’assedio alla “vetrina della social-democrazia” italiana, paventando un nuovo 1977, edunque non disdegnando in prospettiva estrema i carriarmati nuovamente a presidiare via Zamboni e piazzaMaggiore.

E i cosiddetti “girotondini”? La storia dei girotondini è lastoria di un movimento di opinione, è raro che li si veda al-le manifestazioni “politiche” del 25 aprile quando c’è dacontarsi e scoprire che i più sono rimasti a casa o sono an-dati al mare, giusto qualche loro esponente, magari a ti-tolo strettamente personale. Se nell’immaginario militan-te c’è modo di scorgere ancora, sia pure trasformato incomputer, il ciclostile, nell’immaginario girotondino si in-travedono piuttosto tisane, torte alle carote, l’ultimo ro-manzo di Rosetta Loy, inserzioni di case (“possibilmente,con terrazzo”), baby-sitter, rivestimenti per divani, la col-lina di Ansedonia, l’ingresso del cinema Nuovo Sacher,una copia di Amica, il cd di Carla Bruni, l’ultimo film diD’Alatri, le medicine omeopatiche per il gatto...

Ragionando al telefono con noi pochi giorni prima del-la morte, l’economista Napoleone Colajanni, già storicodirigente comunista, provò a spiegare il nodo del con-formismo di sinistra nella sua sostanza politica: “Stalinsostenne che quel che va bene per il partito va bene perla classe operaia, quel che va bene per il gruppo diri-

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gente va bene per il partito, quel che va bene per Stalinva bene per il gruppo dirigente. Da qui nacque il confor-mismo. E questo il partito italiano lo ha fatto proprio,non va dimenticato, infatti ,che il Pci è nato sotto l’egidadell’Internazionale comunista quindi di Stalin”. Ma c’èqualcosa di assai più vistoso in fatto di conformismo,pensiamo a Giorgio Napolitano che, ministro dell’Inter-no durante il governo di centrosinistra, volle rassicurareche non sarebbero stati cercati “gli scheletri negli arma-di del Viminale”. Come si possa dire una cosa del genere,resta uno dei grandi misteri della sinistra al potere, daaffiancare ad altre leggende non meno singolari. Un mi-stero che non tiene conto di tutti coloro che per decennihanno invocato “verità sulle stragi di Stato” (perché talierano: di Stato) e preso acqua, botte e vento ai cortei;già, con quale convinzione si può pronunciare questafrase rassicurante soprattutto per “il Palazzo” avendopresente i familiari delle vittime, o, evitando di chiama-re in causa persone con un coinvolgimento così diretto,gli stessi cittadini?

Soltanto un uomo, già leader di partito, alcuni confor-misti di sinistra non hanno mai perdonato nella sua vi-talità, e si tratta di Achille Occhetto. All’uomo che cam-biò nome al Pci non hanno infatti mai perdonato d’avereparlato con sincerità, in questo senso c’è stato perfinomodo di averlo visto trattare come “membro antiparti-

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to” (il linguaggio è stalinista, lo si riferiva ai trotskisti e aitraditori) colpevole di avere anteposto il proprio biso-gno interiore di chiarezza, la propria rabbia a quello piùgenerale del partito, della strategia futura per quantocomunque nebolosa. Bizzarro modo di ragionare in untempo che ha visto l’abolizione del centralismo demo-cratico e l’apertura delle correnti previste dallo statuto.Altrettanto conformistica la convinzione che molti ri-pongono in Massimo D’Alema, “intelligente” per defini-zione, per editto popolare, gli stessi mostrano palese in-capacità a spiegare nella sostanza il concetto espressoun istante prima.

E poi Lama. Anche con Luciano Lama, niente da fare.Accadeva durante i campionati mondiali di calcio del1994, e c’era Berlusconi al governo per la prima volta,fu allora che un pezzo di mondo di sinistra prese ad au-gurarsi che i cosiddetti Azzurri, andassero male, fosserosubito eliminati (nulla di grave, anzi, visto che il calcio èil simbolo del conformismo allo stato puro) e lui, Lama,il dito alzato, a ritenere che fosse questo un atteggia-mento quasi “antinazionale”, antipatriottico, a non ac-cettare affatto che potesse esserci quel genere di posi-zione finalmente radiosa.

Qualche anno dopo, con l’arrivo del pullman di Prodial teatro Eliseo di Roma, lo stesso dove Enrico Berlin-guer aveva introdotto il concetto di politica dell’austeri-

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tà negli anni Settanta dicendo che “la classe operaiaavrebbe dovuta farla propria, in quanto l’austerità è cri-tica dell’esistente”, in quello stesso teatro, presente an-che Walter Veltroni, uno scrittore sensibile e di sinistraallora quarantenne si presentò sul palco a dire cheavrebbe regalato il suo voto, perché “dai, io queste ele-zioni le voglio vincere”, e giù applausi e ancora applausi,e facce soddisfatte, molto soddisfatte, allegria corrobo-rata dalla certezza della moderazione e della simpatia,visto che finalmente la vittoria sembrava a un passo, co-me infatti poi realmente avvenne. Qualche tempo dopo,un altro scrittore, a esperienza del governo conclusa, inpresenza di Fassino e altri dirigenti, corresse così: “No,io, il mio voto, pretendo che me lo strapaghino”, e poi ci-tò L’uomo in rivolta di Albert Camus. Gli applausi, anchequesto è giusto che si sappia, furono di meno.

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Non si accenna alla loro storia neppure lontanamen-te o per puro caso, in queste pagine, eppure questo li-bro è dedicato ai poveri che non hanno mai sognato didiventare ricchi, a quella che Pier Paolo Pasolini, insie-me a Paolo Volponi, chiamava “l’umile Italia”.

Ai tanti incontrati nelle piazze, nei cortei, sotto il palcodei comizi, nei locali dove aveva luogo la cosiddetta “mili-tanza”, davanti alle fabbriche, o per puro caso alle fer-mate del bus e sotto la pioggia improvvisa. Persone sem-plici, generose, miti, silenziose, gli occhi sempre lì in atte-sa di una rivoluzione, o comunque di un cenno, che desseinfine loro pane, rispetto e dignità per i figli. Gli stessi che,semmai furono conformisti, fu soltanto per eccessiva fi-ducia nel futuro e nelle parole dei loro compagni, comedire?, più istruiti, più importanti, più garantiti.

F.A., Roma, ottobre 2005

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Copertina: WolinskiDesign: ab&c - Roma 06 68308613 - [email protected]

Impaginazione: Roberta Arcangeletti

Alberto Gaffi editore aderisce all’appello di GREENPEACE Italia“Scrittori per le foreste” e utilizza carta proveniente da fonti sostenibili

come quelle certificate dal Foresty Stewardship Council (FSC).

Finito di stampare nel mese di novembre 2005su Pigna-Ricarta da 100 grammi

carta riciclata di alta qualitàprodotta da maceri di diversa estrazione

senza sbiancamento al cloroe possibile disomogeneità cromatica

presso la Società Tipografica Romana s.r.l.Via Carpi 19 - Pomezia

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