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“Ai miei figli Andrea e Giovanni” Jizel Mesulam Chiodi · simi anni, sono convinto che tu non sia proprio santo ... In Consiglio comunale da otto anni, ha operato molto nelle

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“Ai miei figli Andrea e Giovanni”.

Jizel Mesulam Chiodi

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C A P P U C C I N I

CARLO CHIODI

I N C O N T R I A L M I C R O F O N OD I R A D I O M I S S I O N E F R A N C E S C A N A

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EDITORE:Concreo SrlVia Silvestro Sanvito 103VareseT. 0332 461313

A cura di:Andrea BenzoniGianfranco GiulianiJizel Mesulam ChiodiMonica Zappa Scholz

Elaborazione grafica:Elena Scandroglio

Si ringrazia chi ha fornito il materiale fotografico

N.d.E.Si è inteso preservare il tessuto comunicativo originale, rispetto ad una trascrizione che avrebbe snaturato la forza, l’originalità e il carattere della trasmissione radiofonica.

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Indi

cePREFAZIONE di Marina Corradi

INTRODUZIONE di Alberto Reggiori

COOPERATIVE. LA FORZA DEL POPOLO Cesare Montalbetti, Massimo Ferlini4 febbraio 2006

MEGLIO UNA PIZZA CHE IL CODICEAndrea Tornielli3 maggio 2006

IL LAGO DAVANTI, LE MONTAGNE ALLE SPALLEDavide Van De Sfroosmaggio 2006

QUELLA FATICA CHE EDUCAGianluca Pessotto, Silvano Danzi8 giugno 2006

QUELLA FOLLA IN SAN PIETROPaolo Cremonesi26 giugno 2006

QUANDO IL PAPA TORNA A CASAAndrea Tornielli12 settembre 2006

UNA CARITÀ DI POPOLOAndrea Benzoni, Carlo Meazza, Francesco Bertolasi24 novembre 2006

PIÙ FORTE DEL MALEAngelica Calò23 gennaio 2007

CHE ISRAELE VIVAMagdi Allam19 maggio 2007

A ISTANBUL COME UN SEMEMons. Luigi Padovese30 maggio 2007

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SCOPRIRE DI ESSERE DI UN ALTRODon Stefano Conti

13 giugno 2007

LA SANTA ALLEGREZZAAndrea Chiodi

15 dicembre 2007

IN UGANDA COME A CASAAlberto Reggiori, Filippo Ciantia

17 dicembre 2007

VIVERE CON LA PORTA APERTAMario Branduardi, Betty Angelini

10 gennaio 2008

POLVERE DI STELLEFrancesco Fumagalli

25 gennaio 2008

SCEGLIERE, IN UNA MANCIATA DI SECONDIMarina Corradi 6 febbraio 2008

DIETRO LA PRIMA PAGINAMichele Brambilla

9 febbraio 2008

QUANDO UN’UNIVERSITÀ GERMOGLIARenzo Dionigi4 marzo 2008

RINASCERE CON CRISTOMagdi Cristiano Allam, Fabio Cavallari

21 maggio 2008

SCOUT AGGS VARESE: UNA PASSIONE EDUCATIVAPatrizia Reggiori, Stefano De Palma

25 maggio 2008

IN QUELLA CLINICA DI LECCOFelice Achilli

16 luglio 2008

UN’OLIMPIADE DA SCOPRIRERoberto Bof

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CONTRO L’ASSEDIO DEL NULLAMarina Corradi 9 ottobre 2008

DIO CHIAMA ANCORAMons. Massimo Camisasca15 ottobre 2008

HAITI, CRISTO FRA LE BARACCHESuor Marcella Catozza, Marco Salvini11 novembre 2008

IN SCENA LA MISERICORDIA QUOTIDIANAMarino Zerbin24 dicembre 2008

UNO SPETTACOLO MONDIALERenzo Oldani, Silvano Contini, Stefano Zaninisettembre - ottobre 2008

I MONELLI DI SANT’ANTONIOMons. Gilberto Donnini, Angelo Monti14 gennaio 2009

INTERVISTA A CARLO CHIODIRoberto Bofmarzo 2007

A CARLO

IL SORRISO SOTTO IL BAFFODon Fabio BaronciniOmelia per il funerale di Carlo Chiodi30 aprile 2009

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Quando Carlo Chiodi ti faceva una intervista c’erano due cose che ti meravigliavano. La prima era che gli interessava davvero ciò che rispondevi; che il dialogo non era mai finto, o di routine. La seconda era che, per quanto critico o negativo fosse il bilancio della questione che si affrontava insieme, alla fine lui cer-cava sempre di porre una domanda costruttiva. Di chiedere: a fronte di questo stato di cose, che cosa si può fare? E questo, fra i giornalisti, è un atteggia-mento raro. Perché a scrivere che sono tutti corrotti o ladri siamo buoni tutti, anzi ultimamente è diven-tata una esercitazione quotidiana sui giornali. Ma quell’accento di chi, pur ben vedendo ciò che non va, si domanda: e ora, da dove ripartiamo?, è una cosa oggi in Italia del tutto insolita.

Ricordo di avere ascoltato, in una intervista di Carlo, Magdi Cristiano Allam che diceva: “Quello di cui ab-biamo bisogno oggi non è di riempire le piazze e di eccitare gli animi all’insegna della denuncia di tutto ciò che va male: abbiamo bisogno invece di educare”. Ecco, in queste parole c’è il senso del giornalismo di Carlo Chiodi a Radio Missione Francescana. Doman-dare, ascoltare, ma con il fine ultimo di costruire – quando il fine di molta informazione sembra invece nel migliore dei casi il clamore che fa vendere, e nel peggiore il disfare la convivenza civile.

La tensione al costruire, oltre le contestazioni, oltre le rivendicazioni, era in Carlo trasparente. È la preoc-cupazione di chi si sente parte di un popolo, padre di figli, compagno dei suoi amici. Di chi non si per-cepisce come solo ed è autenticamente interessato al comune destino proprio e degli altri. È il contra-rio dell’individualismo in cui siamo educati; e an-che l’eredità evidente di altri, venuti prima, che per Chiodi, come per tanti altri ragazzi a Varese e altrove, sono stati davvero dei padri capaci di educare.

Passano in queste interviste molti dei temi di fondo attorno ai quali ogni giorno discutiamo. L’emergenza educativa, la bioetica, il relativismo. Ma ci sono an-che le Paraolimpiadi, e la poesia e le storie di Van De Sfroos - di cui Carlo, ho scoperto, era un innamorato. Innamorato di quella canzone della formica, a ritmo di blues. La passione di Carlo lasciava sempre spazio

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a un sorriso. Credo che fosse un uomo certo che la vita è una cosa buona – altra cosa, di questi tempi, rara.

Quando, nell’inverno del 2008, ha smesso di tele-fonarmi per discutere di qualcosa che avevo scritto, mi sono meravigliata. Ci sono anche rimasta un po’ male: si vede che non scrivo più niente di interessan-te, mi sono detta. Poi, ho saputo della malattia, e che non c’era niente da fare. Mi è sembrata, lo confesso, una rapina. Un uomo così giovane, così utile, portato via ai suoi così presto. In una manciata di settima-ne. Gli ho parlato per telefono due volte. Sembrava sereno. E ora di domande avrei voluto fargliene io, tante, ma non ho osato.

L’eredità di Carlo, oltre che tra i suoi mille amici che colmavano la chiesa di San Vittore a Varese il giorno del funerale, è anche un po’ in queste interviste. Fat-te con la voglia di ascoltare, di capire e non di grida-re e accusare. E sempre con quella domanda, tacita o espressa: e ora, da dove ripartiamo? Sempre con quella voglia affettuosa e tenace di pensare agli altri: agli amici, ai figli, agli amici dei figli. A chi viene dopo, a chi continua la nostra storia.

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Visto che si tratta di parlare del Carlo, tanto vale che mi rivolga direttamente a lui.Caro Carlo, devo dirti la verità, c’è qualcosa che da un po’ di tempo mi sta seriamente preoccupando e di cui volevo avvertirti. Qui sulla terra ti stanno lenta-mente mettendo sugli altari, tra nuvole d’incenso e mani piamente giunte!! Ho dato un’occhiata a quello che carissimi amici e stimate persone hanno detto e scritto di te negli ultimi tempi, non ci sono dubbi: santo subito!!

Ti vedo (e scusa se mi viene da ridere) già su qual-che immaginetta! Naturalmente sto scherzando (ma non troppo) e soprattutto ti conosco bene da tantis-simi anni, sono convinto che tu non sia proprio santo (almeno non uno di quelli del calendario intendo), ma certamente eri una persona che apriva una serie infinita di porte. Non eri un vicolo cieco come pur-troppo tanti. Al contrario tu mostravi porte e strade verso un’umanità più vera, verso una letizia che si provava standoti vicino. Le testimonianze di questo sono innumerevoli.

Questo libro, per esempio ne è pieno. È una raccolta di incontri che ci ricorda cosa era diventata, grazie a te, la mitica “radio missione francescana”, RMF per gli amici. Un luogo in cui la prima sensazione che si provava salendo le severe scale del convento in cui era ospitata e da cui prendeva vita, era di essere a casa, tra amici. Là, dentro lo studio, tra microfoni e dischi, tra padre Gianni e collaboratori vari, si rideva e si scherzava insieme, poi naturalmente si passava a discutere il contenuto della trasmissione che sareb-be andata in onda dopo pochi minuti.

Io di solito ero invitato per parlare di AVSI e di Afri-ca, del libro scritto sulla mia esperienza ugandese, e da lì si prendeva sempre lo spunto per raccontarsi, lealmente, da amici. Non erano opinioni quelle che entravano ed uscivano dai microfoni e che migliaia di varesini ascoltavano in macchina, negli uffici o dalla radio della cucina, erano esperienze, sofferenze, gio-ie e pezzi di vita vissuta che rendevano (e rendono) più sicuro e vigoroso il cammino di questa vita.

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La tua curiosità umana si faceva incontro, questo forte del fatto che tu l’Incontro l’avevi fatto davve-ro e ti dettava la vita. Politica, solidarietà, famiglia, scuola, problemi sociali, sport, nulla era poco im-portante. Tutto era molto interessante. Era anche una grande possibilità per realtà e persone nasco-ste ed ignorate di farsi conoscere, sapevi tirare fuori dal fango delle pietre preziose per mostrarle a tut-ti. Un’ultima cosa, devi sapere che tutto il merito di questo libro è di tua moglie Jizel che è la princi-pale postulatrice della tua causa di beatificazione. Insomma, ci inchiniamo davanti a tutti e due in atte-sa di vedervi scritti sul calendario.

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COOPERATIVELA FORZA

DEL POPOLO

Cesare MontalbettiMassimo Ferlini

4 febbraio 2006

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Il primo ospite di questa mattina è Cesare Montalbetti, figura storica di Radio Missione Francescana, una persona molto conosciuta a Varese per il suo impegno sociale e politico. In Consiglio comunale da otto anni, ha operato molto nelle AClI. Cesare, grazie di essere qui.

Con Cesare Montalbetti ascolteremo anche Massimo Ferlini, vice presi-dente della Compagnia delle Opere. Perché questi due ospiti? Per parlare della cooperazione. Per spiegare che cosa vuol dire fondare una coopera-tiva, che cosa vuol dire lavorare insieme, cosa vuol dire questa educazione alla solidarietà. Cesare, tu come sei arrivato alla cooperazione?

Abbiamo in collegamento Massimo Ferlini che, come ho anticipato, guar-da alla cooperazione da un osservatorio nazionale.

Grazie a voi.

Io devo questa voglia di cooperare ai miei nonni e a mio padre, nel senso che sono stati, fin dagli anni ’20 del Novecento, coope-ratori e promotori con altri della Cooperativa familiare di Cartab-bia. Mi sono accorto, a una certa età, di avere ereditato da mio padre, che era morto, un’azione di questa cooperativa e, a mia volta, ne sono diventato socio. Perciò non ho meriti. È stata una storia che si è sviluppata.

La cooperazione è un momento fondamentale della storia ita-liana. Quello attraverso cui il popolo ha cercato di organizzare, partendo da radici ideali diverse, una risposta ai propri bisogni. Il primo di questi era il lavoro. Da lì nascono opere e cooperative che rispondo al bisogno di dare lavoro alle persone. La coope-rativa favorisce chi non ha capitali da investire ma ha, prima di tutto, il proprio lavoro. Ovvio che, nello sviluppo di questa spin-ta, una serie di cooperative di tradizione socialista, di tradizione popolare cattolica, di tradizione laica, abbiano dovuto affrontare i problemi che tutte le imprese hanno, a partire dal rapporto con il mondo della finanza. Anche in questo caso sono state fondate banche cooperative. In altri casi le persone si sono messe insie-me per creare cooperative di consumo, in modo tale da contene-re il costo della vita. Da qui nasce il movimento al consumo, che oggi vive una ripresa nelle forme più tradizionali. Stanno, infatti, nascendo grandi cooperative di acquisto fra cittadini. Io credo

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Un desiderio di lavorare insieme, con un ideale alle spalle. Che adesso sembra diventato quasi una colpa…

Non ritieni tuttavia che ci sia stata anche qualche deviazione, in alcune regioni italiane, dove le Coop sono diventate padrone di tutto?

Tu consiglieresti ancora ai giovani che iniziano a lavorare la scelta di en-trare in una cooperativa?

E cosa si nasconde dietro a questo attacco, allora?

che la cooperativa sia un’espressione della vitalità popolare del nostro paese, nelle forme dell’economia e della tutela del lavoro importantissima e fondamentale.

Si è scatenato un dibattito in cui viene posta sotto accusa la coope-razione. Ciò nasce dalla confusione fra ideale e ideologia. Una confusione di fronte alla quale noi della Compagnia delle Opere abbiamo reagito al punto da dire “Viva le Coop rosse!” come slo-gan provocatorio, perché non sono ovviamente nostre, sono di amici che compiono il nostro stesso percorso.

Se è accaduto, la colpa è essenzialmente della politica. Una po-litica che ha smarrito l’ideale e che ha sviluppato un rapporto distorto con il movimento popolare, che è quello cooperativo. Un movimento che è stato visto come un braccio operativo per il controllo sociale. Questo, allora, diventa distorsione. Ma l’errore non è nella spinta di chi lavora in cooperativa, è nell’ideologia della politica che non ha più un rapporto con la realtà.

Sì. Uno per dare lavoro, due per dare la casa, tre per contenere il costo della vita. Credo che quello cooperativo sia uno dei modelli più interessanti come forma di risposta a un ideale.

L’attacco alla cooperazione viene da chi si augura che il nostro paese perda il senso di responsabilità. In tutti i campi. Chi non crede alla sussidiarietà, chi ha una mentalità statalista, non può amare il mondo della cooperazione.

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Rispondere ai bisogni, affrontandoli. Quindi, non delegare, ma essere protagonisti.

Quindi uomini che abbiano voglia e desiderio di lavorare insieme, piutto-sto che mettersi le dita negli occhi ogni due minuti.

Questo è il punto. Veniamo da due anni, in Compagnia delle Ope-re, in cui abbiamo promosso molte iniziative riprendendo le ra-dici dei lumi di libertà dell’illuminismo lombardo. Quale era la caratteristica vera, che aveva messo insieme le intelligenze dell’il-luminismo lombardo, che hanno dato vita ai movimenti popolari di due secoli fa? È stato dire: di fronte al bisogno noi cerchiamo, usando tutte le armi, di rispondere meglio ai bisogni dell’uomo. Su questo teorema si incontrarono tradizione cattolica e tradi-zione socialista. Questa è la spinta che deve essere l’anima di un nuovo riformismo. Un riformismo della società, cioè la capacità dei corpi sociali di rispondere ai bisogni dell’uomo.

Se perdi questo senso di appartenenza alla comunità, nascono gli scioperi selvaggi, nascono le spinte a buttare via risorse sociali, nasce la dispersione dei giovani, che non vengono visti come ca-pitale umano su cui investire, ma solo come risorse da utilizzare e da spremere. Questi sono gli effetti della perdita del senso di appartenenza.

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MEGLIO UNA PIZZA CHE IL CODICE

3 maggio 2006Andrea Tornielli

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È Con noi Andrea Tornielli, vaticanista del Giornale.Ieri, allegato al quotidiano, è uscito un bel libro “Processo al Codice da Vinci”. Già a febbraio Andrea Tornielli aveva scritto con padre livio Fanza-ga “Attacco alla Chiesa”. Ecco, Andrea, prima di tutto grazie per essere con noi, nonostante i tuoi numerosissimi impegni.

C’è un nesso tra i due libri?

Noi abbiamo ascoltato diverse voci in questi giorni. Abbiamo letto Ferrara, abbiamo letto Socci, abbiamo sentito Sansonetti. Dal libro di Dan Brown sembra nascere un attacco preciso alla Chiesa. Cosa ci puoi dire?

Grazie a voi.

C’è un nesso. L’intervista con padre Livio partiva dal “Codice da Vinci”, ma si estendeva anche alla New Age, alle tante correnti spiritualistiche che oggi ci sono. Era un discorso più in generale sulla fede. Il libro, invece, che è uscito ieri in edicola con il Giorna-le, è una critica puntuale a tutti i punti fondamentali del romanzo di Dan Brown e che adesso saranno trasformati in un film. È il tentativo di dimostrare che nel romanzo non c’è nulla di vero.

Certamente Dan Brown mette insieme una ricetta di successo. Gesù Cristo è la figura più importante della storia dell’umanità. Tutto ciò che lo riguarda crea interesse. Presentare delle inven-zioni come presunte verità, che possano stravolgere la storia bi-millenaria della Chiesa, è certamente qualcosa che serve a fare cassetta. C’è un attacco diretto, nel senso che si è discusso molto sull’attacco all’Opus Dei, ma l’attacco più grande, più grave è al cuore della fede cristiana. Non è tanto per il fatto che si dica che Gesù era sposato o meno, ma perché si afferma che Gesù era soltanto un uomo, che non è risorto e che la divinità di Cristo è un’invenzione dell’imperatore Costantino e dei vescovi a lui assoggettati. Un’invenzione risalente al quarto secolo… Per cui è proprio un attacco al cuore delle verità cristiane, portato non sulla base di documenti manipolati, ma proprio sulla base di veri falsi o di qualche frammento tardo di Vangeli apocrifi, che ven-gono presentati con un valore addirittura superiore a quello dei Vangeli canonici.C’è poi un livello anche più generale. Devo dire che una delle

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Noi abbiamo adottato l’esortazione di monsignor Angelo Amato, segreta-rio della Congregazione per la Dottrina della Fede che dice “Facciamoci un regalo, boicottiamo il film”. A questo proposito ti dico: sbagliamo a continuare a parlarne, oppure ne vale la pena?

molle che mi ha fatto decidere alla fine di pubblicare il libro e di pubblicarlo con Il Giornale in edicola è il fatto che un parroco, nel milanese, mi ha raccontato che la settimana prima aveva due fidanzati che stavano seguendo il corso matrimoniale, doveva-no sposarsi e sono arrivati per un colloquio e il fidanzato era ar-rabbiato, imbufalito, serio, insomma disturbato... Alla fine, dopo molte domande, il parroco è riuscito a sapere che aveva letto il “Codice Da Vinci”, poi aveva letto il libro che aveva ispirato il “Codice Da Vinci” (quello uscito nell’82) e praticamente si era convinto che la Chiesa aveva rovinato l’umanità, aveva ingannato l’umanità per 2000 anni e non voleva più celebrare il matrimonio religioso. Ecco, c’è anche questo livello. Certamente, la domanda che sorge da tutto ciò non è se la colpa sia di Dan Brown. La domanda vera è come sia possibile che questo romanzo venda così tanto (quasi cinquanta milioni di copie in Occidente) e che soprattutto ci sia gente che non lo considera per ciò che è, cioè un fumetto da ombrellone, ma che considera quel libro come au-torevole. Dan Brown ce la mette tutta, presenta queste informa-zioni come se fossero delle verità scientifiche. Però la domanda è come mai tante persone, leggendolo, ci cascano? Per smentire Dan Brown non occorre essere laureati in teologia o essere ese-geti cattolici, bastano una Garzantina, una buona enciclopedia.

È una domanda che mi sono posto e che anche alcuni amici mol-to autorevoli mi hanno rivolto: “Ma non rischi tu, con un libro sul Codice da Vinci, di fare pubblicità al film e al romanzo?” Devo dire che, avendo il romanzo venduto cinquanta milioni di copie e presentandosi il film come l’evento cinematografico dell’anno in tutto il mondo, reazioni come il mio libro sono meno di una puntura di spillo. Perciò io credo che sia necessario essere attenti nell’utilizzare la parola boicottaggio. Gli ecclesiastici, in questo campo, è bene che intervengano in positivo, per parlarci del-la storicità dei Vangeli, cosa che fanno molto poco, purtroppo, anche nelle predicazioni domenicali, Quanto al film, più che un boicottaggio proporrei un’alternativa. Magari invitando gli amici a vedere insieme “Missione impossibile”. Tanto, fiction per fic-tion… Oppure uscire insieme a mangiare una pizza. Un’esperien-za, questa, sicuramente più umana e gratificante e, soprattutto, non manipolata.

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Davide Van De Sfroos

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maggio 2006Davide Van De Sfroos

IL LAGO DAVANTI, LE MONTAGNE ALLE SPALLE

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Ascolta, però, l’impressione, nelle storie che racconti, è che tu a queste persone vuoi bene.

“Vedi solo le teste e non gli occhi, c’è un agitarsi di mani, c’è un urlare più o meno esteso. Però, se ti concentri un attimo, e respiri sette volte come dicevano i samurai, finalmente riesci a vedere le persone. Allora lì, cambia. Se dentro il magma della gente tu intravedi le persone perché ne riconosci una due o tre… O, co-munque sia, anche chi non conosci in quel momento sta facendo una cosa, in quel momento sta pensando una cosa… finalmente il drago fa meno paura. Perché non è più qualcosa di imperso-nale. È uno. E questa qui è la grande cosa, che non vi devo certo spiegare io. Allora ecco la forza.Da bambino, mi chiedi? Da bambino io... Son sempre stato dove poi son cresciuto. Sono nato a Monza. Però son venuto via a pochissimi anni e sempre son rimasto lì: a Azzano di Mezzegra, oppure a Mezzegra… Lago di Como, novecento e mille anime nel momento in cui c’era il massimo splendore e c’erano tutti… il lago da una parte, e le montagne alle spalle. Contadini e pescatori, vagabondi e cialtroni, ex-contrabbandieri, contrabbandieri… per-sone con eccessi di protagonismo, comportamento bislacco… l’alcol. Perché tu sei libero in tutto. Sei libero di prendere una cosa bella come un diamante e usarla per sfregiare una persona o per forzare una finestra … Tu puoi prendere un sasso, che è una cosa importante, con la quale costruisci una casa, e usarlo come un’arma, no? Quindi in fin dei conti la colpa non è della vigna, la colpa non è dell’uva, la colpa non è di Bacco, e non è neanche di Gesù nell’Ultima cena che ha detto “Prendete e bevetene tut-ti”, no? La colpa è quella dell’uomo, che diventa alchimista di se stesso”.

Assolutamente. Io sarei un bugiardo se dicessi: son tutti buoni, son tutti bravi, son tutti teneri… no! Bestemmiano, si arrabbiano, van sopra le righe… Sono cresciuto con dei maestri… Discutibi-li, da un certo punto di vista, importantissimi da un altro punto di vista, perché comunque insegnavano in modo reale... erano credibili. Perché? Perché non fingevano, non avevano masche-re, erano credibili perché tutto quello di cui stavano parlando lo avevano vissuto: la fuga dalla Finanza, il bracconaggio, il pescare in modo illegale; in tempo di guerra, forse, qualcuno aveva tra-dito qualcuno però poi, in tempo di pace, qualcuno aveva salva-to qualcun altro. Quindi... per acqua venisti, per acqua andasti… Sono sempre riusciti a rimanere in bilico sulle loro maledizioni, anche quelle private, no? E allora queste persone andavano rac-

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la loro umanità, anche…

Quindi hai scelto il dialetto perché è la lingua più vicina alle persone che racconti.

contate. Le loro storie non andavano dimenticate. Perché era-no belle? Perché erano brutte? No. Perché erano vere. Perché quando tu vedi una persona che ha la forza di vivere attraverso epoche anche scomode, in famiglie discutibili, in situazioni an-che tragiche e in modo politicamente scorretto, vuoi far venir fuori, quasi con la tenaglia, la loro spiritualità, il loro coraggio e la loro paura.

Sì… ecco, tutto quello che vedi è che quella persona deve assolu-tamente essere ricordata. Nel mio caso raccontata. Tu puoi scri-vere una canzone dicendo: “Lei non mi ama più, lei non torna indietro… il treno se ne è andato e lei è andata via…”. Puoi scri-vere: “Se non ci sei non dormo, quando c’eri tu stavo meglio…” . Oppure puoi raccontare delle storie. Io ho fatto la seconda scelta, quindi mi interessa, sia in modo umano, sia in modo antropolo-gico, prendere in mano queste persone e, filtrate attraverso la mia esperienza, la mia emozione, arrivare a raccontarle usando la musica, usando la poesia. Usando la lingua in cui queste storie sono accadute. Allora ecco il dialetto del lago di Como.

Nel momento in cui fai la scelta di raccontare queste persone, queste vite, sarebbe una forzatura cercare di raccontare o di can-tare la loro storia, o le immagini che loro ti hanno trasmesso, senza rispettare la lingua in cui queste cose sono accadute. Ecco, semplicemente per questo. Una passione come altre. Si può be-nissimo raccontare una bella storia anche in italiano, ma, nel mo-mento in cui parlo di una specifica cosa, e ricordando specifiche espressioni, sia visive che verbali… l’istintività mi porta a usare quel modo di dire, quel modo di fare, tipico di un popolo.

Quindi, quando tu canti una canzone – penso ad esempio al “Mostro” – hai sempre davanti il volto di una persona che hai conosciuto.

Generalmente più di una…

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Hai utilizzato, in quella canzone, un’espressione poetica secondo me bel-lissima… Purtroppo la dico in italiano perché…

Dici: “Nel bicchiere c’è la dentiera che ride senza di me”.

È un sorriso che contiene tutta la vita di quella persona.

Dimmi.…

“Parlum mea de barbera, nel bicer ghè la dencera che la riid senza de me”. Ho avuto anch’io parenti in case di riposo. Ci sono stato da ragazzino, ci sono stato da adolescente e ovviamente il quadro di questi comodini bianchi, di quest’odore un po’ di can-deggina, un po’ di disinfettante… L’odore anche di un’umanità che si sta pian piano spegnendo, e sul comodino, di solito, i loro ricordi… la foto di quando avevano preso il luccio gigantesco, la foto dei nipoti, la foto dei parenti, dei figli, qualche santo op-pure i vari Papi: Papa Giovanni… ecco… Un tempio, il comodino diventa un tempio a portata di mano: con lo spirito, l’umano, la cura (perché ci sono anche le pastiglie) e poi quel totem di quello che una volta era il loro sorriso. Cioè il loro sorriso messo in un bicchiere a riposare. Quindi la frase: “Non parlarmi di barbera, perché nel bicchiere io, adesso, ho soltanto la dentiera che ride senza di me”. La dentiera è lì, è un sorriso spostato.

Sì. Infatti. Tutta la vita del “Mostro” oppure del Genesio…

Sul Genesio noi ci siamo fatti un’idea. Potresti essere tu, Genesio.

Mah… ti dico la verità, è un’ombra retroattiva, forse… Il Genesio io l’ho scritto pensando almeno a sette individui di cui conosce-vo la vita, li ho fusi, l’ho chiamato Genesio… Perché è un nome d’altri tempi ma è anche il nome di un personaggio che ha avuto un’avventura che poi gli è costata la vita… Lui finiva di lavora-re e, ad un certo punto, per una scommessa, prima l’han fatto bere, poi… una giornata calda come oggi… “Non hai il coraggio di tuffarti nel lago, adesso….?” Così cosà… e quello lì è morto nel lago…. Per una cretinata… Quindi sono rimasto affezionato al nome Genesio. Non mi ricordo se Genesio era lui o suo fratello… Genesio rappresenta un fantasma del passato. Però, dietro que-

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Mi ricordo un raduno di Comunione e liberazione. Avevamo fatto ascolta-re le tue canzoni a un nostro amico prete, che adesso è parroco a Niguarda. Era rimasto colpito dal “Guglielmo Tell” e ha ne preso un pezzo. Tu canti: “Non è poi così bello essere figli…. No l’è po’ tan bel vès fiò del Guglielmo Tell”, per dire che un figlio si porta addosso, tante volte, le responsabilità dei padri. É una lettura troppo impegnativa?

No. È una lettura esatta. E ti dirò anche il perché: la canzone di Guglielmo Tell non è, come tanti hanno pensato, un qualcosa di umoristico sulla Svizzera. Penso al personaggio storico, famosis-simo per il suo coraggio… Tutti han sempre fatto vedere il corag-gio di Guglielmo Tell nel mettere la mela sulla testa del bambino e avere la forza di rischiare, addirittura di colpire il figlio… Quindi tutti: che eroe! Che coraggio! Nessuno ha mai preso in conside-razione l’angolazione del bambino, che un po’ di coraggio a non tremare, non cadere, non collassare ce l’ha avuto anche lui. Ci sono bambini che sono vittime di un’eccessiva aspettativa dei ge-nitori, è una cosa che vediamo tutti i giorni. Il figlio del farmacista che deve studiare da farmacista… Non parliamo poi di calciato-ri! Lo sport propone sempre il genitore fallito che dice: “Avrei potuto essere un grande calciatore, ma il menisco… tu però mi vendicherai”. Le cose patetiche che vedi ai campionati di paese: il bambino gioca, ma non avrebbe voglia perché lui in realtà vor-rebbe fare il veterinario, o disegnare… E allora dentro, con una maglietta che non gli appartiene, con un numero che non sa, con un nome o un cognome che è solo quello di suo padre. Suo padre litiga con il boss, con il coach, con il CT: “Tu non capisci niente, mio figlio potrebbe segnare e non lo fai giocare”.I bambini non sono tuoi. Anche se li hai messi al mondo, è tuo dovere seguirli fino che avranno la possibilità di far da soli, è tuo dovere sostentare, ospitare, far tutto quello che devi. Non sono cose tue, che tu puoi pilotare. Anche se per quindici, vent’anni, trent’anni li hai tenuti in casa. Tu non puoi essere il pilota del destino di nessuno e neanche della tua vita, perché c’è sempre

sto nome, ecco, diverse persone che sono andate… hanno fatto… si sono pentite, ma non hanno abbassato la testa, hanno pregato senza mettersi in ginocchio ma lo hanno fatto tutti i giorni della loro vita, non si sono sposate ma hanno amato… Hanno vissuto in un modo non corretto, ma hanno vissuto fortemente e, soprat-tutto, “con qualsiasi vestito, qualsiasi cosa io ho fatto, sotto sono nudo”. “Con qualsiasi vestì, sota sun biut” è proprio la chiusura della canzone, come dire: qualunque cosa io abbia fatto non ho mai dimenticato di essere il Genesio, il Giovanni, il Davide…”

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un’incognita. E perché tutto si scrive strada facendo. E allora l’in-terpretazione di questa canzone di cui mi state dicendo è giustis-sima.

Ma sì. Perché l’adulto, l’anziano… Quello che ha fatto in tempo a sporcarsi vivendo, è come uno che ha navigato a lungo e sulla sua vita, nelle sue storie ci sono le tracce di tutto quello che ha attraversato e di tutte le cose che hanno attraversato lui. Gli an-ziani vengono considerati a volte un problema, un peso. Quasi mai una fonte, se non dalle persone che sono loro legate con un affetto personale. Il bambino, invece, proprio perché è appena nato, proprio perché da poco tempo sta vivendo, proprio perché si sa meravigliare, può essere uno specchio che ti trasferisce ad-dosso… se riesci a metterti al suo passo, perché lui è più veloce di te nel percepire, nell’entusiasmarsi e nel sentirsi vivo. Tu arrivi a casa, sei stanco. Io stesso arrivo a casa, c’è mio figlio, ha quasi quattro anni, che mi può dire: “Papà, hai visto questa noce, l’ho pitturata di rosso”. E tu al momento dici: “Eh, sì, sì va bene…” e non lo consideri. Invece, se per un attimo ti concentri, torni indietro alle volte in cui la serata era salva, perché anche se non uscivi, anche se c’era il temporale, avevi una preziosa figurina di un album che non era il tuo, o un adesivo trovato nel formaggino Mio: e ti sembrava tutto un talismano, tutto un amuleto, tutto un mondo magico. Così come, in realtà, il Mistero e il Miracolo è già.

È vero, quello che hai detto sui genitori. Va rispettata una vita che cresce.

Io creo canzoni. Faccio un’alchimia. Metto insieme una musica e una storia e poi con le parole cerco di… ma ho anche una visio-ne. La visione è qualcosa che tu senti pulsare da dentro. Fin da bambino…

Perché dici: il Mistero, il Miracolo c’è già…

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Non solo l’emozione. Una mano che si muove resta comunque un miracolo. Una cosa come l’acqua è già una cosa strepitosa, che se la vedesse uno che viene da un pianeta dove l’acqua non esiste… Oppure il fuoco, l’acqua, l’aria, la terra stessa, il suono, tutto quello che c’è… Il poter parlare, comunicare, il poter esiste-re in questo momento… È una cosa che è, dico, miracolosa, e lo dico usando una parola che esiste. Ma non è che semplicemente dando un nome alle cose, le hai archiviate e ne hai eliminato il potere. È vero: i primitivi riconoscevano ovunque il grande Mi-stero. Perché sono affezionato alle tribù degli indiani d’America? Perché la loro visione, diciamo, religiosa è molto rispettosa, mol-to intatta, molto simile a quella di san Francesco. San Francesco diceva qualcosa come: la natura è il primo vangelo. Francesco parla col lupo, fa star calmo il lupo o parla con gli uccelli… Sente, percepisce il contatto con la natura … C’è un capo indiano che dice una cosa interessante: “Ci trattano come dei pagani, l’uomo bianco pensa che noi siamo dei pagani, perché crede che noi adoriamo il falco, l’aquila o il serpente… Noi non adoriamo queste cose, ma le teniamo in considerazione, perché sono come pagine che ci permettono di capire il gran-de Mistero. La grande appartenenza a questo grande Mistero, lo stupirsi per quello che fanno le formiche, per come cresce un albero, per come vola un corvo, non è paganesimo. È, secondo me, il primo vangelo, ovvero il primo rispetto per la vita stessa. Il miracolo è lì, è presente. Se decidi di vederlo lo vedi. Noi aspet-tiamo di vedere sempre qualcosa di sovrannaturale e diciamo: non credo ai fantasmi, non credo agli extraterrestri, non credo allo spirito, non credo all’angelo, non credo a Dio, perché non lo vedo. Io ho sempre ribaltato la cosa: non posso non credere in qualcosa che non vedo, perché, in questo momento, non mi è dato vederlo. Io ti posso dire: sotto il tavolo c’è una valigia. Tu puoi dirmi: non ci credo. Non puoi, perché non lo sai. Puoi dire, boh, forse c’è, forse non c’è. Però io non posso, per partito preso, non credere. È più facile non credere del tutto, ma non escludere neanche il fatto che questa valigia ci sia. Con una filosofia quasi infantile potremmo dire così. Fin da picco-lo, quello che ho inserito nelle canzoni, anche elementi apparen-temente esoterici, strani o sciamanici, derivano proprio da una ricerca continua. Nel momento in cui questa ricerca mi è manca-ta sono stato male, mi sono spento, sono stato depresso.

È l’emozione, questa visione di cui parli?

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È vero che la vita è adesso. Certo. È qualcosa che sta accadendo. È sempre una cosa che sta accadendo. Anche nel momento in cui una cosa si trasforma in passato e anche nel momento in cui vado a divorare, a mangiare il futuro facendolo diventare pre-sente, è come qualcosa che entra, che va, che brucia e che conti-nua… Poi c’è un’altra componente, tanto cara nelle mie canzoni: la memoria, il ricordo, il non dimenticare. Non sono mai riuscito a vedere la vita come una linea retta, dove qualcosa accade, poi ad un tratto si interrompe, ne incomincia un’altra e così via. Non l’ho mai vista così. Nel senso: uno nasce, comincia, c’è l’infanzia poi, bam! Finisce l’infanzia. C’è una morosa, poi dopo un mese, finita con la morosa. E dopo c’è un lavoro… Poi c’è un matrimo-nio, poi il matrimonio va male, dopo cinque anni si chiude… No, non la vedo in linea retta, la vedo ad anelli. Anelli più grandi, anelli piccoli. È un anello. Come l’arco di una vacanza, come l’ar-co di un rapporto. Anelli che devi trattenere tutti quanti perché, comunque sia, quelle cose sono accadute, hanno avuto un inizio, poi sono arrivati all’apice e poi hanno cominciato a decadere. Ma tu li porti, li infili, li tieni, perché queste cose sono accadute. An-che i periodi brutti sono anelli scuri che tieni, perché fanno parte del tuo bagaglio, nel bene e nel male..

Il libro del mago” è una canzone zeppa di particolari, di citazioni esoteriche, filosofiche, e anche di magia nera. Parla della pre-sunzione, della voglia di manipolare il grande Mistero e di di-ventare un piccolo dio di te stesso. I grandi esoteristi avevano, a volte, motti come: fa tutto ciò che vuoi e questa sarà l’unica legge. Come dire: tu puoi fare il bene e il male, tu diventi un dio di te stesso… L’alchimista cosa voleva? Voleva arrivare a trovare la vita eterna, voleva arrivare a trasformare i vili metalli in oro… E le massonerie, le organizzazioni occulte volevano pilotare le forze non conosciute, esoteriche, per arrivare a un proprio trion-fo. Nel “Libro del mago” si passa attraverso tutte queste cose, poi questo vecchio mago, probabilmente ormai alla fine del suo transito terrestre, come direbbe Battiato, si trova a dire: “Io ho cercato di capire la Cabala, le stelle, i segni zodiacali, ho cercato talismani, amuleti, ho fatto tutto quello che potevo. In un libro

Ciò che tu stai dicendo mi fa venire in mente che i ragazzi che ci seguono hanno appena trascorso una vacanza in montagna. lo slogan di questa vacanza era: “Si vive per amore di qualcosa che sta accadendo ora”.

Parliamo del “libro del mago”…

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No. È giusto e ti ringrazio, perché detesto il giudizio fatto impu-gnando una spada di Salomone su ciò che accade. Più facile con-dannare il gesto, ma la persona non può essere completamente malvagia. Ci sono, ce ne sono state, probabilmente in noi questa ombra costante c’è, fa parte purtroppo della natura umana. Nel momento in cui ti rifiuti di credere che ci sia un’umanità di serie A e di serie B, vedi soltanto delle persone che hanno avuto diver-si tipi di chances, diversi tipi di condanna, diversi tipi di prova. E alla fine è difficile volersi mettere su un trono.Siamo qua, la giornata è bella, meglio ancora di ieri perché non è neanche afoso, siam seduti in mezzo ad un prato e ci sembra il paradiso. Purtroppo io vengo dal Bennet di Tavernola dove i ragazzi se ne stavano con un gelato, sotto l’aria condizionata a guardare uno schermo. All’interno: non fuori, dentro. Nessuno li condanna, però capisci che ci sono dei buchi. Poi è vero che, come nella canzone del “Libro del mago”, “quando la rosa si spa-lanca dimentica le sue spine”, giusto? Credo che sia così. Ho usa-to questa frase perché credo che sia così.

la cosa più bella è che tu racconti storie vere. Volevo dirti questo: raccon-tando storie vere, i personaggi sono i più strani, i più divertenti, a volte ti fermi e fai una risata, poi ci pensi… “Sugamara” la prima volta che l’ascolti dici: porco cane, che personaggio! Dopo l’ascolti ancora e t’accorgi che non c’è mai una condanna, da parte tua, per i tuoi personaggi. C’è sempre la ricerca della ragione di un comportamento. Esagero?

di stregoneria ho scritto tutta questa mia vita e ho capito il sen-so di tutto solo adesso, che ho finito la matita”. Come dire: ho passato la vita a cercare, e mi son dimenticato che il mago vero ero io quando avevo tredici anni. Infatti dice: “Quando avevo tre-dici anni correvo nudo come un cavallo e ingoiavo l’universo. La magia ce l’avevo già in tasca, quando non sapevo che cos’era” . La vera magia è quella di riuscire a vivere, come i sioux, come il bambino, come l’uomo adamico dovrebbe vivere, senza dovere andare sempre a rubare quella mela; senza dover andare sem-pre, simbolicamente, ad ascoltare la via del serpente, che è più comoda, che è più facile… Ma non devi diventare per forza santa Rita, o san Tommaso… Sarebbe sufficiente abbandonarti a dire: la vita è un qualcosa che sta accadendo adesso, l’amore è qual-cosa che sta accadendo adesso… E il mago alla fine dice: “Io ero un mago quando non sapevo, quando non volevo esserlo. Nel momento in cui ho cominciato a forzare le cose, è stato come dire: voglio salire in groppa ad una lucertola e cavalcarla…” Non puoi. A meno che non sia un dinosauro, non puoi.

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C’è chi riesce a palleggiare con un mandarino…

I bambini normalmente cantano, anche quando non sono porta-ti, perché diventa come un mantra. I miei bambini cantano quan-do vanno a dormire perché si ninnano da soli, oppure i bambini cantano per prendere in giro qualcuno, per farsi coraggio, o per-ché sono contenti o perché hanno paura, no? Poi provi a salire su un palco, prendi un microfono, parli… figuriamoci cantare… Avrei detto: piuttosto, veramente, la Legione straniera. Una vol-ta sono salito sul palco della festa del Misultino, ho dovuto dire il numero 26 di una tombola, sono stato male tre giorni per lo stress. Era una cosa che proprio non faceva parte di me, l’appa-rire in pubblico. Avrei voluto davvero fare lo studioso, l’entomo-logo, il veterinario: un lavoro che mi facesse stare via, nascosto. Poi invece qualcosa è successo. È successo che ho scoperto la musica, la voglia di farla ma soprattutto la voglia di raccontare cose, scriverle… La passione è nata nel momento stesso in cui ho provato sensazioni incredibili ascoltando la musica e le parole di altri, sia quelle sui libri, sia quelle nelle canzoni che sentivo alla radio, De André piuttosto che De Gregori… E lì ho detto: mi sem-bra un buon metodo, scrivere delle cose e raccontarle attraverso la musica. E poi, nel momento in cui sono salito per la prima volta su un palco a cantare le canzoni che avevo scritto, mi sono reso conto che stavo bene, perché sentivo di fare una cosa che male non avrebbe fatto e che poteva anche finire lì dov’era, oppure andare. Io avevo bisogno di quel momento, del misurarmi con le mie ombre, con questi spiriti, con queste visioni e il parlare, il far arrivare queste cose che stavano dentro di me ad altri mi sembrava una cosa giusta da fare.

Raccontaci i tuoi inizi.

Comunicare non è semplice. Bisogna esserne anche capaci.

A volte si somigliano però…

Esatto… la prima volta che io ho ascoltato una tua canzone, è stata: “Sunt una furmiga”. Sono arrivato a casa… Mia moglie è turca, quindi il dialetto comasco, per un turco…

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C’era questo quadro… Io frequentavo questa casa quando ero piccolo, c’era questo quadro della Madonna immenso, che era appeso in modo singolare ed inquietante: legato a una cordina, e pendeva sulla casa. Probabilmente era grande, era in alto per-ché il proprietario della casa voleva che fosse ben visibile. Allora: “Ave Maria che te borlet fò del quadru, prega per el martul”- el martul è il cretino e anche il ladro… quindi prega anche per que-sti, no? “Attaccata sul muro nella casa del magùtt”- del muratore - e nella casa del dottore: come dire che tutti quanti uguali da-vanti a questa cosa. Nel momento in cui crediamo di aver fatto chissà che cosa, nel bene e nel male, ci rendiamo conto che non possiamo cambiare questa verità, ovvero che siamo tutti sulla stessa barca, “siamo tutti lampadine dello stesso lampadario”.

“Sunt una furmiga” è una canzone talmente cretina, da un certo punto di vista… È nata così: dovevamo esibirci per la primissima volta al Lido di Lenno. Eravamo io con una chitarra, uno con un basso, uno con un flauto e uno con due bongos e un piatto. Non c’era neanche la batteria… Abbiamo fatto una serata così… Ave-vo tredici pezzi in scaletta… Ho detto, ma, tredici, boh… Faccia-mo quattordici… Eh, ma il quattordicesimo qual è? E allora l’ho scritta nel pomeriggio sul balcone. Siccome stava passando una formica, ho cominciato a fare… Sai, sei sul balcone, il balcone normalmente proprio ti porta ad essere un po’ blues perché… “Sunt una furmiga, sunt una furmiga…” Andavamo avanti così ad oltranza. Era talmente scema e facile che l’abbiamo fatta per fare quattordici in scaletta. Però, tutti volevano solo la formica. I bam-bini: la furmiga, perché? Perché, probabilmente, ha delle imma-gini semplici, sembra un cartone animato, pensi alla formica che deve viaggiare e va su in cima all’Ortica, c’è il connubio con la montagna, come il Galbiga, fai una pisciata ed è come si aprisse una diga… Tutti si aspettano una terza rima che per fortuna non c’è mai stata … E quindi lascia quel qualcosa in sospeso. Ti dico che nei primi tre anni di attività, se tu non facevi “la formica” potevi anche non andar via sano dal palco.

Ho messo su questa canzone e ho detto tra me: “Adesso mia moglie dice che son scemo…”. Beh: invece ne è stata presa, immediatamente. C’è una capacità di comunicare che va al di là della parola.

Andiamo avanti… Una delle tue vecchie canzoni: “Ave Maria”…. A un cer-to punto dici: “Siamo tutti lampadine dello stesso lampadario”. È un’im-magine che prende molto.

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Tu credi di essere in uno stato superiore, di esserti distaccato dal grande mistero, dal mondo, però, in realtà, tu sei parte di questo lampadario. Se l’hai danneggiato ci sei dentro anche tu, se hai fatto qualcosa a discapito di qualcun altro che nessuno ancora ha riconosciuto hai innestato, comunque, una mala onda, e ci sei anche tu in quel mare. Per cui, quando arriverà la burrasca sarai anche tu sulla barca. Io sono pieno di burrasche, sono pieno di sbagli e ne ho fatte bruciare molte di lampadine, però, ecco, poi “siam tutti padreterni e siam tutti ciulandari”. È leggibile in due modi questa frase: la prima nel modo buffo: pensiamo tutti di essere padreterni perché abbiam comprato la macchina, perché abbiamo fatto una cosa, perché dirigiamo un’azienda o perché siamo stati sulla luna, e poi però sappiamo che siam tutti dei ciu-landari. Ciulandari è una parola intraducibile in italiano. Potrei dirti “perdigiorno”, potrei dirti… Non proprio “pirla”… Non vuol dire “stupidi”, non vuol dire “bamba”, vuol dire proprio “ciulan-dari”, quelli che sono in giro… L’è in giro come un ciulandari… Quante volte ci sentiamo così. Ma la seconda ipotesi di lettura, che è quella che mi sta a cuore, è quella che, in realtà, siamo davvero, in parte, tutti dei piccoli padreterno, perché schegge di questa cosa superiore. Perché, nel momento in cui creiamo cose, creiamo persone, creiamo vita, siamo davvero veicoli del miraco-lo. Ma, ahimè, siamo anche quel ciulandari che ci garantisce poi di rovinare tutto quello che abbiamo fatto. Quindi questa canzo-ne è… sì, se vogliamo è una preghiera country. È una preghiera popolare covata da un adolescente e scritta poi da uno che aveva 29 anni.

Un ragazzo… Ma oggi tu chi segui?

Chi segui? Soprattutto, chi hai seguito? Chi vorresti seguire? Chi seguirai? È la domanda che tutte le mattine devi farti. Credo che non ci sia una risposta sola. Ok, se sono cristiano, so che seguo l’idea di un certo bersaglio, un centro. Se sono musulmano, so che seguo questa disciplina… Se sono buddhista seguo il Dalai Lama… Ma non è questo, il “chi segui”. Chi segui vuol dire che ogni giorno devi cambiare strada perché c’è un qualcosa dentro che, diciamo, è la voce luminosa che tu hai, che ti fa capire, in realtà, dove dovresti andare. Poi a volte decidi di no. Perché non hai voglia, perché non hai tempo, perché hai cose più importanti da fare, oppure perché hai paura di esporti. Però questo suono, questo suono fatto di silenzio, questa luce fatta a volte anche di ombra, tu la percepisci. Io, chi seguo? Io, chi ho seguito? Per un periodo ho seguito sicuramente l’insegnamento della famiglia,

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dei genitori e delle persone che orbitavano attorno al mio nu-cleo, al paese. Poi ho capito che anche loro erano semplicemente persone; e allora vuoi seguire qualcosa di più, e allora trovi dei maestri. I maestri a volte erano i poeti, a volte erano i cantanti, i cantautori; però anche loro sono semplicemente persone. Al-lora cerchi qualcosa, e vai a curiosare anche nelle credenze di altri paesi… Vai a guardare nella spiritualità di altri popoli, non prendendo tutto per buono ma senza neanche buttar tutto via a priori, perché sicuramente qualcosa di potente c’è. Poi arriva il punto in cui dici: ma perché sei andato a cercare tante cose lontano? Eppure hai a disposizione anche qui una spiritualità, è quella che ti hanno insegnato, è quella a cui appartieni; è quella che ti abbraccerebbe anche domani mattina nel momento in cui decidi di farne parte. E allora cominci a seguire anche questa. Però non basta, perché lei… cioè Dio, l’idea di Dio, in teoria do-vrebbe essere un qualcosa di infinito. A volte pretendiamo che Dio diventi una proiezione di noi stessi all’infinito, e allora cadia-mo in una trappola, in un secchiello senza fondo che non può trattenere nessun tipo di liquido. E allora ancora cerchi qualcosa in più. Adesso io non posso mettermi a far prediche, questa è semplicemente la storia della mia vita: ad un certo punto io ho scelto altre cose, stranezze, stramberie. Non sono mai andato, per fortuna, ad afferrare qualcosa di malvagio, ma ho curiosato… “Chi segui”? Ho seguito persone, qualche volta erano scienzia-ti, qualche volta erano invece mistici, qualche volta erano preti, parroci, missionari, qualche volta erano dei militanti politici. E credo che la vita, il percorso di una persona debba per forza pro-vare queste cose, magari senza precipitare dentro nessun sec-chio, però è importante seguire per un po’ e capire. Poi arriva un momento in cui vedi che la cosa è finita, che non ti sta dando più niente perché lì quello che volevi sapere non è lì… Non è quello che cercavi. Oggi, dopo aver fatto viaggi, dentro e fuori da me, dopo aver seguito persone di diverso tipo… Chi seguo? Torno a seguire le cose semplici, immediate e quelle che ho davanti. Cosa seguo? Il grande Mistero, di cui dicevo prima.

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QUELLA FATICA CHE EDUCA

Gianluca PessottoSilvano Danzi

8 giugno 2006

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lo sport educa? È la domanda che vogliamo affrontare oggi. Comincio presentando Silvano Danzi con le parole di Giuseppe Maffei, un suo al-lievo che ha partecipato a due Olimpiadi. Maffei dice: “Per quanto riguar-da l’atletica bisogna concentrarsi sulla base, sulle giovani leve, guardando dove sono presenti quelle realtà e quelle persone che riescono ad attirare e a far crescere talenti. Come esempio, posso portarvi la Valceresio, nella provincia di Varese, dove in quattro paesini di una piccola valle un alle-natore motivato e capace come Silvano Danzi è riuscito a creare un movi-mento unico in lombardia e forse in Italia”. Quindi Danzi ha creato una realtà di sport eccezionale in un momento difficile dell’atletica. Vorrei che ci raccontassi proprio come è nato questo tuo modo particolare di fare l’allenatore e dove hai preso questa forza.

L’esperienza di un allievo come Maffei la auguro a tutti, perché è il primo ragazzo che ho incontrato iniziando ad insegnare ad Arcisate: aveva 11 anni. Ha cominciato a fare atletica, ha corso fino a quest’anno, a 35 anni, ha fatto due Olimpiadi; io l’ho seguito in questa traiettoria che si è compiuta in un’evoluzione tecnica e personale, ma anche come crescita da ragazzo ad adulto. Io ho avuto questa fortuna, di fare una cosa che a me piace tantissimo: è sostanzialmente il mio lavoro, ma non l’ho mai considerato una fatica. La fortuna di farlo ai massimi livelli, e tutto sommato in modalità che non pensavo di potere mai raggiungere. Ho iniziato ad insegnare ad Arcisate nell’86, abbiamo fatto attività sportiva nella scuola, ho conosciuto il presidente del Consiglio d’Istituto, un “tapascione” (quelli che vanno in giro a correre la domenica), con i genitori abbiamo fondato una società in paese, i ragazzini hanno comin-ciato a fare sport, qualcuno è andato benissimo qualcun altro no. E giorno dopo giorno, avendo trovato ragazzi con buone qualità, abbiamo ottenuto qualche risultato. Il risultato più importante, comunque, è una realtà che è stata vista come un’anomalia, per-ché ormai la fatica non fa più parte della cultura dei ragazzi; l’abi-tudine a muoversi, a correre, ad andare in bicicletta non è più l’espressione naturale della gioia dei ragazzi. Ormai le mamme portano i ragazzi quasi all’interno della scuola con la macchina, quando si muovono tanto fanno 100 metri. Davanti a questa re-altà, motivare le persone diventa molto difficile. Però, ripeto, questo non è mai stato il mio problema; perché io sto facendo e ho sempre fatto una cosa che è sempre piaciuta.Queste esperienze poi mi hanno portato sempre più in alto, a livello regionale prima e poi a livello nazionale. Ora sto facen-do un’esperienza particolare, perché l’incarico è condiviso con un’altra persona, che è una cosa unica nel mondo dell’atletica.

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Ti fermo per adesso perché è proprio su questo discorso volevo citare un altro articolo di giornale che riguarda Gianluca Pessotto.Siamo a Perugia: “Quel gesto è rimasto negli occhi di tutti. Una mano che indica la porta del Perugia. Un tacito messaggio: l’arbitro si è sbagliato, la rimessa è loro non nostra. Gianluca Pessotto è una persona per bene; uno che non ti fregherebbe mai il parcheggio sotto il naso, dice questo articoli-sta, ed è per questo che rimane stupito quando gli si chiede il perché di un gesto banale forse in altre circostanze, ma significativo in un pomeriggio di tregenda, nubifragio in campo e nei cuori juventini. Palla fuori lungo l’out, sotto la tribuna centrale, il guardalinee che assegna la rimessa alla Juve, ma l’ultimo che ha toccato la palla è stato lui, Pessotto. Un gesto leale, la stretta di mano di Collina, i complimenti del quarto uomo. A pen-sarci bene una cosa normalissima, ma che nel calcio avvelenato di oggi diventa notizia”. Ecco, cosa ricordi di questo episodio?

Lavoro con Pierino Endrizzi. Mi ha chiesto di lavorare assieme sui ragazzi di 16 anni al top, su quelli che andranno a fare gli Europei, i Mondiali, le Olimpiadi. È un’esperienza unica, questo rapporto è quello che mi richiama di più in assoluto al valore educativo del-lo sport: l’amicizia, il rapporto con un’altra persona, il costruire qualcosa con un’altra persona, mettendo assieme tutte le capa-cità, confrontandoci ed andando avanti assieme.

Che cosa ricordo? Che abbiamo perso lo scudetto, prima di tut-to… Scherzo, ovviamente. In quei momenti non stai lì a ragiona-re tanto, è stato un gesto abbastanza istintivo, perché venivamo da quella settimana famosa dove c’era stato il gol annullato al Parma, una settimana di polemiche violente, e dentro di me è scattato qualcosa: se mai avessimo fatto gol con una rimessa che non spettava a noi, mi sono detto, non mi sarei più guardato allo specchio. Allora in quei momenti fai gesti che sono istintivi e na-turali. Non volevo assolutamente che suscitasse clamore, però sono fiero di quello che ho fatto. Perché comunque la partita l’ab-biamo persa, perché meritavamo di perdere. È vero, c’è stato un nubifragio incredibile, sono successe tante cose anomale, però la verità che noi abbiamo cercato di trasmettere alla squadra è che, certo, possiamo attaccarci a tutte queste cose, a Collina, alla pioggia… però noi non eravamo in grado di vincere la partita. Sia-mo scesi in campo, loro hanno fatto gol e noi non siamo riusciti a fare gol… punto. Quindi l’anno dopo si riparte da questa cosa, perché se no ci si attacca sempre al nubifragio, all’arbitro… Se tu pensi che sia sempre colpa degli altri, non ne vieni mai fuori.

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Quando giochi a questi livelli ti senti addosso una responsabilità di questo tipo? Avverti la responsabilità di rendere evidenti valori più grandi?

Silvano, parliamo di allenatori, invece. Un allenatore è un educatore?

Cosa ne dici, Gianluca?

Sì. Assolutamente.

È importante che non l’atleta, ma la persona sia il soggetto prin-cipale dello sport. Mi spiego: spesso succede che, quando uno fa una grandissima prestazione, si trovi vicino tantissime per-sone, per cui non riesce mai a capire fin dove arriva l’amicizia, e dove l’ammirazione per il risultato. Poi, quando c’è qualcosa che non va, la controprestazione, la giornata no, spesso si viene massacrati. Io penso che un’impostazione umanamente più ricca sia anche quella, da un punto di vista agonistico, più vincente. Perché? Perché è attraverso il rapporto personale che si riesce a recuperare il momento tecnico. È attraverso l’attenzione alla per-sona, specialmente in atletica, dove uno si gioca completamen-te, fino in fondo, da solo… spesso, in un modo crudele, perché il cronometro piuttosto che il metro è il giudice assoluto e tu non puoi, con le parole, spostare l’attenzione su altro. Tant’è che que-sto, secondo me, implica la necessità di un rapporto d’amicizia altissimo per le persone che fanno sport. E, proprio per il fatto che sia altissimo, lo rende estremamente educativo. Per me, non è tanto lo sport che educa, ma è il rapporto personale che si ge-nera all’interno dello sport che può essere educativo: o, anche, altamente diseducativo.

Sono assolutamente d’accordo, credo che la funzione dell’alle-natore sia importantissima, perché comunque anche nel nostro sport dove c’è un’attenzione dei media incredibile, dove tendono a farti diventare un dio e la domenica dopo sei considerato una nullità, ciò che conta è il rapporto che si instaura all’interno del-lo spogliatoio, all’interno di un gruppo. Dove ogni giorno ti devi mettere in discussione, e la capacità di un allenatore deve essere quella di riuscire a tirar fuori il meglio da ognuno. È nei momenti difficili che si vedono gli allenatori veri.

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Silvano, volevo chiederti come è l’approccio con il ragazzo. Fino a che punto l’allenatore riesce ad instaurare un rapporto che vada al di là del risultato?

Gianluca, Silvano citava una frase che si sente pronunciare: “Chi sta atten-to alla persona, fa sport da oratorio”. È un pregiudizio presente anche nel mondo del calcio?

Non è scontato. Non è scontato perché dipende dalle due sen-sibilità delle persone in gioco. Personalmente, essendo un tipo umorale, mi rendo conto che con qualcuno ci azzecco e con altri sarebbe meglio a volte stare zitti. Quando sono stato chiamato in Nazionale, sono andato a trovare una persona amica e auto-revole.Questa persona, con mio stupore, era contenta molto più di me della nomina perché diceva: “Finalmente c’è la possibilità anche nello sport super-agonistico di essere delle persone attente agli uomini, cercando di ottenere il massimo risultato, quasi a sfatare il tabù che chi è attento da un punto di vista educativo debba rimanere confinato a livello di sport da oratorio.”La scommessa è invece esattamente il contrario. Per me c’è una strada educativa che può arrivare a risultati molto più alti, par-tendo dalla mia competenza specifica e da una risoluzione dei piccoli-grandi problemi tecnici e metodologici che ci possono essere, grazie alla valorizzazione di tutte le persone che stanno attorno.

È un luogo comune. Perché, se preferisci a volte fare un passo indietro, se scegli di ragionare e non di pensare ai tuoi interessi personali sei considerato un debole, quando invece magari sei più forte di tanti altri che urlano.La cosa più importante è l’attenzione alla persona, perché sicu-ramente dura molto di più nel tempo, ed io sono convinto che produce molti più risultati. E anche se alla fine le vittorie non dovessero arrivare, avremmo comunque uomini migliori. Io sono convinto dell’idea che se tutti hanno un obiettivo comune, alla fine si vince. E a 35 anni, quando smetti di giocare, sei un uomo migliore.

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Quindi tu dici: quando il calcio finisce viene fuori la persona, viene fuori l’uomo...

Silvano, è proprio vero che per fare sport a un buon livello un ragazzo deve dimenticare tutto il resto?

Gianluca, tu consiglieresti lo sport a un ragazzo e soprattutto come gli suggeriresti di viverlo?

Sì, per questo bisogna iniziare dai ragazzini a insegnare che co-munque non tutti potranno arrivare a giocare in serie A o in Nazionale. L’importante è fare capire loro che ognuno ci deve provare attraverso determinati valori, ed i genitori devono esse-re molto bravi da questo punto di vista; così come gli allenatori, perché purtroppo i modelli che ci sono adesso sono completa-mente sbagliati e fuorvianti. Gli allenatori devono essere molto più presenti, perché in televisione passano modelli completa-mente sbagliati.

Questa idea è frutto da una parte di cultura sportiva sbagliata, dall’altra da un’impostazione dell’attività sportiva che va com-pletamente cambiata. Un’impostazione in cui un ragazzino a 6 anni comincia a fare uno sport e fa solamente quello, si impo-verisce d’esperienze, di rapporti personali, si esaspera su un pic-colo particolare, non ha apertura su niente. Le realtà più atten-te - nel mondo del calcio il Chievo, per esempio - cominciano a muoversi in un modo completamente diverso, proponendo ai ragazzi un’attività motoria a 360 gradi, provando a rotazione tutti gli sport. Questo costringe anche il genitore a “elaborare” una cultura diversa.

Assolutamente sì. Dipende dall’approccio con cui le famiglie av-vicinano i propri figli allo sport, perché se l’obiettivo è quello di pretendere che i figli realizzino i tuoi sogni, è tutto sbagliato. Chi avvicina il ragazzino al calcio pensando che calciatore uguale gua-dagni miliardari è fuori strada completamente, perché pochissi-mi arriveranno ... Il bambino si deve avvicinare allo sport con il piacere di stare in compagnia, di condividere un gioco come può essere il calcio, il rugby ... Qualsiasi sport insieme a compagni. Attraverso cosa? Attraverso la fatica. I genitori devono essere bravi a non pressare troppo i ragazzi,

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Hai introdotto temi che sicuramente sono cari a Danzi, perché il sudore, la fatica, per uno che fa l’allenatore del mezzofondo sono il pane quotidia-no.

Dopo avervi ascoltato possiamo togliere il punto di domanda all’incontro di stasera? Possiamo affermare: lo sport educa?

Allora, Silvano, lo togliamo questo punto di domanda?

perché è chiaro che ogni genitore vuole il meglio per il proprio fi-glio: ma il meglio attraverso cosa? Se tu ti avvicini allo sport nella maniera giusta, attraverso dei valori che possono essere la voglia di conquistare, di sudare, la fatica… forse non “riuscirai”, perché alla fine ci vogliono delle doti e non tutti riusciranno a diventare campioni dello sport, ma di sicuro guarderai alla vita in maniera completamente diversa. Non sarai un grande campione ma sarai un campione nella vita.

Tra l’altro lo sport è l’unico momento che educa i ragazzi all’idea di faticare per raggiungere qualche cosa. In tutte le altre situazio-ni ormai è scomparsa l’idea di desiderare una cosa, di muoversi giorno per giorno, passando attraverso il successo o l’insuccesso, per raggiungere qualche cosa. Oggi, il desiderio di raggiungere qualcosa dura giusto il tempo di chiederlo ai genitori piuttosto che al nonno.

Le parole sport ed educazione sono usate in tutti i momenti in cui la gente vuole trovare il consenso delle persone, vuole “lucidare” le proprie idee.Io tendenzialmente direi di sì, anche se sostanzialmente non è un ambiente o una “cosa” che educa, ma è il rapporto tra le perso-ne. Per cui lo sport è educativo quando le persone lo sono.

Io dico di sì.

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Un passo in avanti: quanto a voi due, come vi ha educato lo sport?

(Silvano)

(Gianluca)

(Gianluca)

La base sono stati i miei genitori, che hanno cercato di guidarmi nella prima fase della mia vita. Dopo, quando ho cominciato a camminare da solo, loro sono rimasti un punto di riferimento. Credo che sia fondamentale l’educazione, perché comunque nel-la mia esperienza calcistica quando ho avuto difficoltà a livello tecnico, quando ero in difficoltà perché avevo avuto infortuni e non giocavo, ciò che mi ha salvato è stato il mio modo di com-portarmi.

Sicuramente anche per me l’impostazione è quella dei genitori. Tra l’altro io arrivo da una famiglia in cui tutti erano marmisti. Io ho il diploma di geometra e mio padre sperava che io continuassi l’attività di famiglia: non mi ha mai costretto però a scegliere tra quello che era la mia aspirazione e quello che era un suo disegno. Così, anche lui ha riconosciuto che per me lo sport è un’esperien-za molto bella e affascinante, attraverso la quale io sono cresciu-to come persona.Io auguro a tutti di avere dallo sport tutto quello che, sostan-zialmente, io ho ottenuto ed ottengo. Non tanto soddisfazioni “professionali”, ma ricchezza di rapporti personali.

Io consiglio di fare sport, a qualsiasi livello, perché alla fine ciò che conta è la passione che ci si mette. Perché una vittoria nella categoria più bassa o nel CSI ha lo stesso succo di una vittoria in un Campionato del mondo. Cosa cambia? La risonanza che dan-no gli altri. Ma l’emozione che tu senti è la stessa. Quindi bisogna fare sport, perché attraverso lo sport si cresce, attraverso il con-fronto con i compagni si cresce. Perché i compagni ti mettono a nudo, con loro non puoi bleffare. E così impari a crescere.

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26 giugno 2006Paolo Cremonesi

QUELLA FOLLA IN SAN PIETRO

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Partirei proprio dal numero dei partecipanti, cioè da quattro-centomila pellegrini. Non è un dato consueto nemmeno per San Pietro. È un numero indubbiamente che fa riflettere, perché è quasi il doppio di quello registrato in occasione della precedente edizione, che risale al ’98. Il titolo dell’evento era: “Veglia di Pen-tecoste dei Movimenti Ecclesiali e delle nuove Comunità”.Questo per dire che la Chiesa non solo è viva, ma evidentemen-te guarda più avanti di altre istituzioni e registra una presenza di novità, chiamiamole così, che indubbiamente altre realtà non hanno.

Sui media l’evento è sparito per un motivo molto semplice e cioè che Benedetto XVI ha voluto dare un’impronta molto particolare a questo gesto - pur avendolo ereditato da Giovanni Paolo II - ed è stata l’impronta di un gesto sostanzialmente liturgico. Il Papa ha invitato i partecipanti, gli aderenti ai Movimenti a pregare con lui i Vespri della vigilia di Pentecoste. Va sicuramente sottolineata la differenza tra Giovanni Paolo II - di cui certamente si sentiva tantissimo la nostalgia sabato in piazza, - il cui gesto era più le-gato a una manifestazione di una Chiesa visibile, forte, cioè “fate vedere al mondo la gioia della vostra fede” - e un evento, quello di Benedetto XVI, più strettamente legato alla cornice della li-turgia, alla possibilità di incontrare un teologo, di ascoltare una catechesi.

Questa mattina nostro graditissimo ospite è il giornalista Paolo Cremo-nesi, caporedattore Rai e responsabile della redazione vaticana. Grazie di essere di nuovo con noi. Sabato c’è stata la veglia di Pentecoste a Roma con la partecipazione dei movimenti ecclesiali. Un incontro con 400mila persone davanti al Papa, presenti tutti i principali movimenti. So che tu hai seguito questo evento.

la notizia, tuttavia, è sparita dai media. Mi sembra assurdo che basti un giorno per dimenticare un evento come questo. Forse vale la pena di anda-re a fondo, di cercare di riflettere su quello che è successo. Ti chiederei di aiutarci per capire che cosa i movimenti hanno chiesto al Papa.

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Assolutamente sì, tra l’altro può essere facilmente scaricata dal sito Vaticano. Io l’ho fatto ieri sera per prepararmi a questa in-tervista, perché è indubbiamente una lezione. Non a caso parte da una riflessione sul Creato che, per altro, è quella su cui tutti i giornali si sono soffermati: “... c’è una cortina di sporco che offu-sca il Creato…”, ma poi scende con una serie di riflessioni su che cosa è lo Spirito, su cosa è chiesto ad ogni singolo cristiano, qual è il ruolo dei movimenti nella Chiesa. Ma fermarsi su un singolo punto è un po’ svilire un testo che vale veramente la pena ripren-dere.

l’omelia pronunciata dal Pontefice andrebbe riletta e rimeditata.

Il Papa, come tu dici, ha chiesto ai Movimenti di pregare con lui, questo era il suo primo desiderio.

Sì. Benedetto XVI ha individuato nella veglia di Pentecoste - e quindi nella richiesta del dono dello Spirito - il punto unitario e coagulante per la presenza di così tante realtà diverse all’inter-no della Chiesa. Poi ha chiesto ai Movimenti di essere scuole di libertà e scuole di vita sotto ogni aspetto. I tre punti dell’omelia erano appunto: una domanda sulla vita, una domanda sulla liber-tà e una domanda sull’unità. Tre aspetti uno più bello dell’altro. Cito alcuni passaggi: “Cari amici, i Movimenti sono nati proprio dalla fede della vita vera… i Movimenti sono movimenti per la vita sotto ogni aspetto, dove non scorre più la vera fonte della vita, dove soltanto ci si appropria della vita invece di donarla, là è poi in pericolo la vita anche degli altri, si è persino disposti ad escludere la vita inerme non ancora nata”. Oppure: “Siate scuo-le di libertà, dimostrate agli altri con la vita che noi siamo libe-ri, quant’è bello essere veramente liberi nella libertà dei Figli di Dio”. Espressioni forti, espressioni belle, poi il richiamo ai vesco-vi: “I pastori staranno attenti a non spegnere lo Spirito, voi non cesserete di portare i vostri doni alla comunità intera”. Questo è ciò che il Papa ha detto ai movimenti. Poi c’è quanto i movimenti hanno chiesto al Papa e qui, forse, le differenze sono state più evidenti perché, giustamente, i movimenti nascono da carismi differenti. Il successore di don Luigi Giussani, don Julián Carrón, ha sostanzialmente riproposto una sorta di sintesi della grande domanda di significato che c’è nel cuore dell’uomo, domanda di verità, giustizia e bellezza.

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È sicuramente un’osservazione pertinente. Io ne coglierei, tut-tavia, l’aspetto positivo. Secondo me spiega anche il numero di persone in piazza sabato, ma anche il numero di presenze alle udienze del mercoledì e al Regina Coeli e all’Angelus della dome-nica: un numero costantemente in crescita. Crescono i fedeli nei momenti pubblici. Perché ciò accade? Probabilmente perché c’è in questo momento un bisogno, da parte del cuore dell’uomo, di ascoltare parole e spiegazioni vere per la propria vita. C’è come una sete che questo Papa teologo, ma io direi prima ancora ca-techista, riesce a colmare. Benedetto XVI lo fa nelle grandi occa-sioni. Non a caso i suoi discorsi sono pochi, ma densi. Benedetto XVI, come si è notato durante il recente viaggio in Polonia, ha questa preoccupazione: tornare a spiegare la dottrina della fede, tornare a spiegare l’origine del nostro credo.

Ti chiedo ancora una cosa, Paolo, sulla tentazione dei media di etichettare questo Papa come un Papa teologo, un conoscitore delle Scritture e non un Pastore per tutti.

E di questo sicuramente c’è molto bisogno.

Altri si sono soffermati su aspetti diversi. Diciamo che, sul pia-no strettamente giornalistico, il dato più interessante è stato l’intervento dell’esponente dei Neocatecumenali: un intervento abbastanza polemico. È, infatti, in atto tra istituzioni e Neocate-cumenali una dialettica molto viva sul modo di celebrare la Mes-sa da parte di questo movimento, che è stato richiamato già nel dicembre del 2005.

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QUANDO IL PAPA TORNA A CASA

12 settembre 2006Andrea Tornielli

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È un viaggio che ha molti aspetti di natura, direi anche, priva-ta oltre che un viaggio nella memoria. Ieri il Papa ha visitato e celebrato la Messa e i vespri nel santuario di Altötting, che è il cuore religioso di tutta la Germania, visitato da più di un milione di persone ogni anno. Poi è andato a Marktl am Inn, il paese dove è nato il 16 aprile 1927, è passato vicino alla sua casa natale e si è fermato in preghiera davanti al fonte battesimale della chiesa parrocchiale di Sant’Oswald dove ha ricevuto il Battesimo. È un viaggio che alterna questi momenti privati, vissuti con grandissi-ma sobrietà e nel silenzio, ad altri momenti con messaggi molto significativi e impegnativi come quello di domenica scorsa.

Sì. Il Papa, a mio giudizio, ha ribaltato completamente la questio-ne rispetto a come viene spesso posta nel rapporto tra Occiden-te e altri mondi, altre culture, altre religioni. Penso ad esempio all’Islam. Il Papa ha ribaltato i termini della questione perché ha detto che altre culture, altri popoli sono spaventati, non dalla fede cristiana, ma dalla mancanza del senso del sacro, del Timor di Dio cioè dal cinismo e dal disprezzo di Dio che si manifesta in Occidente. La risposta che mi sembra abbia indicato il Papa con il suo discorso non è tanto quella di alzare dei muri e non è neppure un richiamo al “serrate le fila” di un’identità culturale, è invece un richiamo a riscoprire, a riascoltare la voce di Dio che parla anche a noi che siamo sordi. Per cui il tema che ritorna è quello di una nuova evangelizzazione: riscoprire la fede.

Con noi Andrea Tornielli, giornalista, scrittore, inviato del Giornale a se-guito di Papa Benedetto XVI in Germania. Andrea, io lascio a te la parola per raccontarci come sta andando il viaggio del Papa.

Quello di domenica scorsa è stato un intervento decisamente importante. Tu hai scritto un articolo molto bello, pubblicato ieri dal Giornale: “Cristo perduto”, dove si parla dell’omelia tenuta dal Papa. Hai scritto: “Ha par-lato, il Papa, dello spavento che provano le popolazioni di Africa e Asia di fronte a un concetto di ragione che vige in Occidente e che esclude totalmente Dio dalla visione dell’uomo”. Ecco, ci puoi descrivere questo spavento, così come l’avete percepito voi ascoltando queste parole.

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… dove l’uomo è al centro. Cito ancora un tuo articolo: “Il Papa è di nuovo a casa, i compaesani fanno festa”. E poi, sono parole del Papa: “Dove Dio diventa grande, lì diventa grande anche l’uomo”.

Questo è veramente un richiamo di speranza. Io penso agli articoli che oggi sono comparsi sui giornali italiani ricordando l’11 settembre di cin-que anni fa. Qui la speranza sembra veramente finita: si parla di Occiden-te sconfitto, si parla di incapacità di rapporto. Invece mi pare di poter dire che il Papa indica una strada di speranza.

Vorrei ora chiederti del clima che si respira in Germania. Perché i giornali italiani non ce lo fanno percepire molto. E così i Tg.

Il Papa spiega che questa fede è una fede che non si impone a nessuno, che l’uomo impara ad ascoltare Dio senza nessun tipo di pressione e che la vendetta del Dio dei cristiani è la croce, per cui è il no totale alla violenza; e in questo si vede la differenza, l’incommensurabile distanza tra la tradizione e la fede cristiana e altre tradizioni religiose…

Anche questo è un concetto che ha ripetuto ieri, continuando idealmente il discorso di domenica e cioè che dove Dio ha po-sto l’uomo, lì egli non è schiavo o sparisce, ma diventa davvero grande.

La indica e dimostra, come dire, l’inconsistenza di molte risposte parziali che sono state date in questo periodo. Quella del richia-mo alle armi, alla guerra in nome di una religione civile, o quella della totale indifferenza, che non vuole vedere le differenze. E ancora: quella che rivendica, invece, la scomparsa di Dio, per cui la totale laicizzazione che finisce per essere una idolatria della ragione, non aperta al Mistero e alla totalità, ma che diventa mi-sura di tutte le cose.

Il clima è molto caloroso, festoso. Certo, bisogna dire che non ci si aspettava un clima così. C’è più calore di quanto si potesse ipotizzare, perché è pur vero che la Baviera ha una percentuale maggioritaria di cattolici, però è anche una terra molto laicizzata. Monaco è una città molto laica per cui non ci si poteva attendere

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una reazione, un entusiasmo di tipo polacco. Invece è così. Le cerimonie sono affollate e il clima è molto affettuoso e caloroso. E devo dire che il Papa, forse per la prima volta rispetto ad altri viaggi, si è sciolto nel clima di questi incontri. Ieri, ad Altötting, uno gli ha allungato un panama di paglia e lui se l’è messo in te-sta e si è fatto fotografare. Poi gli hanno fatto vedere un quadro a grandezza naturale e lui si è messo vicino scherzando. Come dire, è molto sciolto e anche sorpreso da questo clima. Appena arrivati, sabato pomeriggio, nella Marien Platz, dove c’è la statua della Madonna, che è poi il cuore della città di Monaco - in quella stessa piazza dove lui aveva fatto l’ingresso da Arcivescovo nel 1977, che l’ha salutato nel 1982, quando è partito per Roma per diventare Prefetto per la Congregazione della Fede - lì è stato riaccolto con un clima da stadio, tanto che il Papa, commosso, sorridente ha detto: “Certo, è proprio vero che noi di Monaco siamo un po’ napoletani”.

Oggi il Papa è a Regensburg. Sarà una giornata importantissima perché terrà una lezione all’università di Regensburg, tornando su alcuni temi dell’Occidente e del ruolo dell’Occidente. E poi an-che un incontro ecumenico questa sera, per cui sarà una giorna-ta molto densa dal punto di vista dei contenuti. Mentre domani sarà una giornata completamente privata, perché il Papa andrà a casa del fratello a Regensburg, pranzerà con lui, riposerà lì e poi insieme al fratello, ma senza telecamere, andrà a fare una visita al cimitero dove sono sepolti i genitori e la sorella Maria.

Credo di sì, perché tutti i giornalisti saranno tenuti lontani.

Grazie a voi, arrivederci.

Oggi che giornata vi aspetta?

Chissà se ce la farà a ottenere questa intimità.

Bene! Io ringrazio Andrea Tornielli per quello che ci ha raccontato oggi e per l’amicizia.

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UNA CARITà DI POPOLO

Andrea BenzoniCarlo Meazza

Francesco Bertolasi24 novembre 2006

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Cominciamo con il primo collegamento! Il presidente del Banco di So-lidarietà “Nonsolopane”, Andrea Benzoni, amico da tanti anni. Andrea, è un compito ormai storico il tuo per la nostra trasmissione, è la decima Colletta alimentare ed è almeno la quarta che seguiamo in diretta dalla radio. Grazie di introdurci nella Giornata.

la risposta della gente. Un altro fattore molto importante.

Varese quanto ha donato le volte scorse?

Sicuramente! Andrea oggi il tempo è brutto: va male per i volontari, ma dovrebbe andar bene, perché la gente non va via e va a fare la spesa.

È sempre bello avere una radio che dà voce alla Giornata della colletta alimentare. Quest’anno è la decima edizione, ma come sempre è una novità. Io in questo momento sono al magazzino centrale. Si comincia la Giornata sempre così, speranzosi che sia meglio dell’altro anno, che ci siano più persone. Sicuramente, ci sono sempre più persone che hanno detto: “Ci sto, voglio venire, porto il camion, porto l’amico e poi andiamo a far la spesa insie-me”. Il bello da vedere è questo movimento di popolo.

C’è sempre un po’ di trepidazione all’inizio della Giornata, ma sicuramente poi alla fine vediamo che la partecipazione è gran-dissima.

Siamo sempre stati in crescita. L’anno scorso abbiamo raccolto quasi 90 tonnellate di generi alimentari. Un grandissimo risulta-to. La speranza quest’anno è di fare un pochino di più, però, va sempre bene quello che arriva.

Questo ce lo siamo detto tutti. E l’appello che voglio lanciare adesso è proprio questo: “Mi raccomando, anche se i supermer-cati saranno aperti domani, andate oggi a fare la spesa”.

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Esatto, un po’ di problemini all’inizio della Giornata ci sono sta-ti. Essendo il tempo poco clemente, tante persone sono dovute restare fuori. Da qui la richiesta, se possibile, di poter lavorare anche all’interno dei supermercati.

In 35 supermercati. Le catene più importanti sono Esselunga, Gs e Tigros. E ancora l’Ipermercato di Varese e le Coop. Insomma tendenzialmente quasi tutti.

Sì, io avrei una sorpresa, nel senso che quest’anno abbiamo coin-volto un amico, perché vogliamo documentare la Giornata anche dal punto di vista visivo. È qui con me Carlo Meazza, che a Varese è conosciutissimo, perché è un artista della fotografia e… potrei anche passartelo.

lanciamo anche noi un appello ai direttori dei supermercati, che abbiano pietà dei volontari e li facciano entrare al coperto, se possibile.

In quanti punti vendita siete presenti nel Nord della provincia?

Andrea, so che tu hai una sorpresa per noi?

Stavo scattando alcune fotografie nel magazzino, che adesso è vuoto, ma che mi hanno detto si riempirà all’inverosimile.

È stata una proposta di Andrea Benzoni. A me ha fatto molto pia-cere. È un’attività molto significativa all’interno della nostra città. Ed è una forma di arricchimento anche per me.

Grazie anche a Carlo Meazza per essere con noi stamattina.

Come ti è venuta l’idea di seguire questa Giornata e di documentarla poi dal punto di vista fotografico?

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Sì, cercherò di documentare lo svolgimento della giornata.

Ho pubblicato un calendario sul Lago Maggiore, in bianco e nero, con fotografie panoramiche un po’ evocative … qual-cuno dice un po’ malinconiche.

Attualmente circa l’ottanta per cento dei nostri gruppi sono im-pegnati nella Colletta con circa quattrocento alpini che aiutano il Banco alimentare.

Sì, è vero.

Tu trascorrerai la giornata con Benzoni e fotograferai i volontari, la gente e i supermercati.

Poiché si avvicina Natale, c’è qualche regalo che tu hai in programma per i nostri ascoltatori, per la città di Varese?

Rispettiamo la tradizione dei nostri collegamenti e dopo il presidente del Banco Andrea Benzoni, parliamo con Francesco Bertolasi, presidente del-la Sezione di Varese dell’Associazione Nazionale Alpini. Anche lui sempre ai nostri microfoni quando si tratta di condividere queste giornate. Fran-cesco, grazie di essere con noi. la domanda è sempre la stessa: perché questa fedeltà degli alpini? Perché la fedeltà degli alpini è un gesto, è una cosa che tutti conoscono.

Un numero importantissimo. Ci sono poi iniziative molto belle e simpa-tiche come la preparazione del vin brulé per i volontari o da offrire alle persone.

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Di questa giornata nei nostri gruppi si comincia a parlare già a luglio, per verificare le disponibilità e mettere a punto gli aspetti organizzativi. Poi, ovviamente, ne riparliamo a consuntivo. E il bilancio è sempre positivo.

Grazie. Ma questo è bene che siano gli altri a sottolinearlo. Noi siamo qui con spirito di servizio.

Sono gesti importanti anche per stare insieme con la gente, credo. Come commentate tra voi, a raccolta finita, questa esperienza? E come la prepa-rate?

Credo che la vostra presenza sia veramente decisiva anche per sostenere l’importanza del gesto.

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23 gennaio 2007

PIÙ FORTE DEL MALE

Angelica Calò

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È con noi Angelica Calò, protagonista di diversi spettacoli nella nostra città con il “Teatro Arcobaleno” e con il “Teatro della verità”. Angelica se vuoi presentarti… Io ti introduco con i titoli pubblicati sul tuo spettacolo “Anna in the sky” dalla stampa varesina: “Giù la maschera dell’odio. Sul palco di Varese sale la pace. Da Israele arriva la compagnia di ragazzi ebrei cristiani musulma-ni guidati da Angelica Calò”. “Ragazzi ebrei e arabi raccontano l’eroismo di Anna Frank” e ancora “Anna Frank un’adolescente nella guerra e nella follia. Immagini in teatro e danza”.

Devo dire che è un’emozione grandissima. Di solito noi partia-mo con il “Teatro Arcobaleno” in occasione delle grandi feste ebraiche, perché ci sono le vacanze in Israele e così possiamo portare con noi i ragazzi ebrei e arabi dai 13 a 20 anni. Questa volta non è andata così e nel giro di due mesi ho dovuto allestire una nuova compagnia, che abbiamo chiamato “Teatro della veri-tà”. Tratta di quattro studenti arabi che frequentano l’università e di dieci ragazzi ebrei che lavorano in Israele prima di arruolarsi nell’esercito. Questa esperienza li aiuta a capire che la diversità è una ricchezza, che si può essere di differenti religioni, di culture ed etnie, ma nello stesso tempo è possibile trovare qualcosa in comune e costruire insieme per migliorare il mondo. La maggior parte di questi ragazzi hanno vissuto la guerra della scorsa estate in Libano. L’hanno vissuta in prima persona sotto i missili. Sono ragazzi che sanno che fra un po’ di tempo dovranno assumere grandi responsabilità, perché sono ragazzi che credono profon-damente nella pace, nell’educazione al dialogo, nel rispetto per ogni essere umano sulla terra che voglia costruire e non distrug-gere. Nello spettacolo su Anna Frank, essa diviene il simbolo di tutti i ragazzi che ancora soffrono nel mondo, ragazzi che soffro-no non solo per la guerra, ma per i disagi che possono essere causati dalla violenza o dalla differenza sociale. Questi ragazzi che vengono da un paese in guerra ti dicono: “ Noi sappiamo che cosa vuole dire sentire esplodere un missile vicino a casa. Sap-piamo che cosa è il boato di un attentato, noi ci svegliamo ogni mattina ringraziamo Dio per quello che ci dà e per la possibilità di raccontarlo.”

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Siete la testimonianza del fatto che la vita in comune è possibile, che il dialogo, il rispetto e la tolleranza sono praticabili.

Questi ragazzi sono arabi ed ebrei. Rischiano di trovarsi gli uni contro gli altri. Come faranno?

È ciò che voi proponete. Perché la speranza siete voi. Parlaci ora dello spettacolo.

Esatto. Questi ragazzi sono l’esempio più chiaro, più vero, più reale del fatto che è possibile vivere insieme. Abbiamo diversi pensieri, diversi ideali, diversi modi di mangiare, culture e lingue diverse, ma possiamo benissimo vivere insieme, rispettandoci e con un po’ di curiosità.

In Israele non vogliamo la guerra, non la vogliamo, non l’abbiamo voluta, noi non abbiamo mai fatto un attentato, però dobbiamo difenderci, non abbiamo altra possibilità. Io l’unico modo che ho trovato per non soccombere è educare. Educare attraverso il tea-tro, attraverso l’arte. Questa è l’unica cosa che io so fare. Quando mi chiedono come fai ancora a sperare, rispondo che io cono-sco molto bene la nostra storia. Noi da quattromila anni viviamo questa situazione. C’è sempre stato qualcuno che voleva distrug-gere il popolo di Israele, però siamo ancora qui. Evidentemente c’è qualcosa di buono che è più forte del male.

È uno spettacolo di musica e danza. La musica è stata scritta ap-positamente e si sente di tanto in tanto una voce che propone brani del diario di Anna Frank, di cui raccontiamo la storia. C’è un passaggio particolarmente toccante. Anna è già nel campo di concentramento e la voce dice: “Vorrei avere del pane, del pane croccante, solamente un pezzetto di pane”. Qui entrano in palco-scenico due ragazzini e tutti gli attori prendono alcuni vassoi di pane e lo distribuiscono al pubblico. Il pane è un segno. Per noi ebrei è il pane che dividiamo il venerdì sera, per i cristiani è il cor-po di Cristo, per i musulmani è un grande simbolo. È il pane che accomuna tutti, il pane che non deve mancare mai a nessuno. I ragazzi diventano il simbolo di tutti i bambini che ancora soffrono nel mondo, nelle favelas, nel Sudan, in Israele e in Palestina.

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Angelica, ti ringrazio moltissimo della testimonianza di stamattina. Credo che dopo ciò che abbiamo ascoltato, avremo un motivo in più per venire a vedere lo spettacolo.

Grazie. Condivideremo il pane insieme.

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Magdi Allam

CHE ISRAELE VIVA

19 maggio 2007

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Magdi Allam è con noi oggi, ancora una volta, per parlare di un libro: “Viva Israele”. Un volume appena uscito, autobiografico. Io direi che vale la pena di farci raccontare direttamente dall’autore quale è stata l’idea ori-ginale.

È un libro autobiografico, racconta la vita di Magdi Allam a partire dall’Egit-to, da quando era ragazzino. In due passaggi scrivi: “… insomma, Arafat e l’OlP mi piacevano proprio”. E ancora: “Fino a vent’anni percepivo Israele come una potenza aggressiva, colonialista, razzista, immorale, contraria e ostile a ogni ipotesi di pace giusta, stabile e duratura”. Conoscendo poi Arafat, che cosa è accaduto?

L’idea è quella di affermare il bene primario della nostra essenza umana, cioè la sacralità della vita, in un contesto in cui questo bene è rinnegato pesantemente, in un contesto in cui il terro-rismo, le guerre regionali, sono rivolte a negare il valore della vita propria e altrui e a immaginare che la morte possa essere preferibile alla vita. Indagando sull’ideologia della violenza, della morte e dell’odio, ho individuato nell’odio contro Israele il fulcro di questa ideologia letale e ho capito, facendo riferimento alla mia esperienza personale di vita nell’Egitto degli anni ’50 e ’60, che soltanto rimuovendo l’odio nei confronti di Israele diventa possibile garantire il diritto alla vita di tutti. Quindi è un “Viva Israele” che significa un inno alla vita di tutti, non è un libro con-tro nessuno, anzi, è un libro per tutti. È un libro per la vita degli israeliani, per la vita dei palestinesi, per la vita dei cristiani, degli arabi, dei musulmani, degli occidentali.

Conoscendo Arafat gradualmente è venuto meno il mio entusia-smo per un personaggio che ho immaginato potesse incarnare la speranza dei palestinesi per uno Stato indipendente, per una situazione di emancipazione generale, di riscatto dalla povertà, la realizzazione di tanti desideri, legittimi, di riscatto. Conoscen-dolo e soprattutto verificando come nel momento cruciale del-la scelta, nell’estate del 2000 quando era veramente a un pas-so dalla realizzazione dello Stato palestinese, lui si tirò indietro. Preferì salvaguardare il proprio potere anziché assumersi la re-sponsabilità da statista per dare uno Stato ai palestinesi, anche sfidando l’opposizione dei gruppi estremisti islamici nazionalisti che avversano la pace, rifiutando pregiudizialmente il diritto di Israele all’esistenza. In quel momento io ho capito che l’odio nei confronti di Israele, il rifiuto pregiudiziale del diritto di Israele

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A proposito di questo amore alla vita, ci sono nella presentazione del libro alcuni ringraziamenti: “Grazie alla vita ho scoperto l’umanità, grazie all’amore ho scoperto la verità, grazie alla libertà ho scoperto Israele, grazie alla sacralità della vita ho scoperto la civiltà dei valori”.

Come ho detto, è un inno alla vita, non è un libro ideologico ri-guardante Israele, è un desiderio forte di assicurare la sacralità della vita per tutti ed è un libro autobiografico. Credo che la forza del libro sia dovuta proprio al fatto che si radica nella mia espe-rienza diretta, l’esperienza da cui ho imparato che il valore della vita è tale per cui o lo si riconosce per tutti o finisce per essere negato a tutti. La vita è un diritto universale, è un diritto asso-luto, è un valore trascendentale e quindi nel momento in cui lo si viola, nel momento in cui lo si mette in discussione si innesca un processo che inesorabilmente finisce per danneggiare tutti, compresi se stessi.

Nel libro, si legge: “Oggi più che mai sono convinto che Israele, insieme a Papa Benedetto XVI, sono la residua speranza di salvezza della civiltà occidentale”. E poi si parla di una conferenza del 21 maggio 2006, a Tel Aviv, in cui si ripetono le parole che stiamo dicendo adesso: “Oggi più che mai tutti coloro che sinceramente vogliono uno Stato per i palestinesi de-vono innanzitutto sostenere il diritto di Israele all’esistenza. Oggi più che mai tutti coloro che hanno a cuore una comune civiltà dell’uomo devono innanzitutto sostenere il diritto di Israele all’esistenza. Diritto che, ripeto, è per tutti, per una civiltà della vita”.

Esattamente. Quel riferimento al Papa è un riferimento dove-roso, perché Benedetto XVI è il Papa che probabilmente più di altri ha assunto una posizione chiara e coraggiosa sulla sacralità della vita e sulla condanna della violenza che viene perpetrata nel nome della religione. Ed è un Papa che ha pagato un prez-zo personale per le affermazioni fatte in occasione del discorso all’Università di Ratisbona il 12 settembre del 2006. Io ritengo che quella Sua presa di posizione sia stata un atto di coraggio che va sostenuto e che va considerato, appunto, come una speranza per tutte le persone di buona volontà.

all’esistenza era un tabù che neanche Arafat aveva rimosso.Esso avrebbe segnato di conseguenza, per chissà quanto tempo ancora, in modo negativo il destino dei palestinesi.

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A ISTANBUL COME UN SEME

30 maggio 2007Mons. luigi Padovese

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Abbiamo con noi monsignor luigi Padovese, vicario apostolico dell’Ana-tolia. Insieme con lui vogliamo fare il punto su come si possa vivere la missione in un paese a stragrande maggioranza musulmana ( 99%) e con una presenza di cattolica veramente esigua.

A me ha colpito, in un recente viaggio fatto in Turchia, la presenza di mol-tissime giovani velate che in precedenza, a Istanbul, non si vedevano. È un fenomeno reale oppure è soltanto una sensazione?

A luglio ci saranno le elezioni politiche e sembra di cogliere nella popola-zione la preoccupazione che possa essere smarrita la laicità dello Stato che è una caratteristica della Turchia.

Come vi sentite, piccola minoranza che vive in Turchia? Garantiti, protetti o abbandonati?

Viviamo la situazione di una minoranza all’interno di un pae-se quasi totalmente islamico con una forte spinta nazionalistica e per alcuni aspetti anche xenofoba. Non voglio generalizzare, però gli attentati degli ultimi mesi mettono in evidenza anche questa realtà.

È reale perché risponde a un incremento dello spirito religioso islamico. Ciò si nota particolarmente in alcune aree della Turchia, inclusa la città di Istanbul. Il governo attuale è un governo islami-co moderato, ma dà comunque un orientamento.

Il principio della laicità è riconosciuto fin dalla nascita della Re-pubblica turca. Ciò che io noto è che si è fermato nel tempo, non ha seguito uno sviluppo come potremmo intenderlo in Europa. È ben giusto che ci sia una netta divisione tra l’ambito religioso e quello civile. In questo frangente esistono tuttavia spinte nazio-nalistiche che rientrano in quello spirito xenofobo di cui parlavo prima.

Ci sentiamo garantiti; per esperienza personale e dei miei collabo-ratori, devo dire che da parte della polizia, dell’autorità c’è un’at-tenzione reale nei nostri confronti, un’attenzione che si esprime

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Si discute da tempo della possibilità di ingresso della Turchia in Europa. Il popolo turco avverte questa esigenza? In che misura? E ancora: come si sviluppa il vostro apostolato in un contesto così particolare?

C’è piuttosto una presenza.

anche nel mantenimento delle scorte, al tempo stesso ciò signi-fica che le autorità stesse avvertono qualche possibile pericolo. Il popolo turco è fondamentalmente onesto e odia la violenza. Il problema è rappresentato da alcune schegge impazzite, che a volte mettono a repentaglio anche la vita delle persone.

Per quanto riguarda l’apostolato noi abbiamo una chiara indica-zione che viene dal Concilio Vaticano II, che si esprime innanzi-tutto nel rispetto delle coscienze. Almeno da parte della Chiesa cattolica non c’è una propaganda invasiva né la volontà di mani-polare le persone.

C’è una presenza significativa soprattutto per i cattolici, per i cristiani. Se poi qualcuno vuole fare una scelta di vita cristiana non lo si rifiuta, ma lo si accoglie attraverso un lungo periodo di catecumenato per vagliare la purità delle intenzioni. Per quello che riguarda, invece, l’interesse della popolazione per l’ingresso in Europa, ebbene, in molti turchi è scemato, si è passati da un 70-75% a un 30-35% dei favorevoli all’interno della popolazione. Io colgo questo atteggiamento anche nei media turchi. Esistono poi alcune lobby di potere che non sono favorevoli all’ingresso della Turchia in Europa, lobby che perderebbero potere non solo politico, ma anche economico a seguito di un eventuale ingres-so nella UE. Da parte di questi soggetti è in atto un tentativo di presentare l’ingresso della Turchia in Europa e l’accettazione dei criteri necessari per questo ingresso come un atto di umiliazione di fronte all’Europa. Ed è chiaro che la coscienza nazionale, che è molto forte, reagisce negativamente di fronte a questa lettura dei fatti.

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Il sentimento nazionalistico turco è sempre stato molto esplicito. lei vive in una zona decisamente bella della Turchia, l’Anatolia. Ma, avendo appe-na visto Istanbul, le devo dire che l’impressione che ha il turista è quella di un paese in crescita, perché la città è molto migliorata dal punto di vista delle infrastrutture. È così dappertutto?

le chiedo, come vicario apostolico dell’Anatolia, è contento di restare in Turchia?

Non è così dappertutto. Ci sono zone a forte densità turistica, come Istanbul e la fascia egea. Anche lungo la costa c’è una gran-de vivacità edilizia, anche se si tratta in prevalenza di turismo locale che, tuttavia, garantisce un discreto sviluppo anche eco-nomico. Per contro bisogna riconoscere che esistono sacche di povertà all’interno del Paese, sull’altopiano anatolico e poi verso est, dove è facile incontrare situazioni di miseria reale.

Sì, sono molto felice, sono stato felice quando sono stato nomi-nato per questa terra anche perché, come studioso della prima Chiesa, ne avevo già colto l’importanza. Certo sarebbe auspica-bile che ci fosse una situazione di maggiore tranquillità e di mag-giore sicurezza, ma ho ancora il desiderio di rimanere qui, fino a quando Dio mi lascerà in vita.

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13 giugno 2007Don Stefano Conti

SCOPRIRE DI ESSERE

DI UN ALTRO

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Un nonno che all’età di 94 anni suona ancora in Basilica. Ho re-citato i Vespri in Basilica, che sono la sua specialità, e c’era lui a suonare, fiero di accompagnare il nipote.

Io sono nato a Varese e ho sempre vissuto a Varese. La mia fa-miglia è di origine varesina. Sono entrato in seminario dopo la laurea. A Varese ho tantissimi amici e persone che mi conoscono. È stato molto bello nel giorno della prima Messa ritrovare, ad esempio, la maestra dell’asilo che ho frequentato alla Brunella. Alla fine della liturgia, ringraziare le persone è stato ripercorrere tutta la vita fin dai tempi dell’asilo. Il primo ambito che bisogna ricordare è quello della famiglia, dove oltre al dono della vita c’è stato il dono della fede, una fede che ho imparato in casa, viven-do, perché non abbiamo mai fatto grandi discorsi. I miei genitori hanno testimoniato la loro vita di fede, ci portavano a Messa fin da piccoli, quando magari la Messa pesava un po’ perché non si capiva cosa fosse, ma ci hanno cresciuto così. La storia della mia vocazione non ha avuto grandi colpi di scena, è stato un po’ un crescere pian piano con l’età, maturando e sempre accompagna-to da tante persone: appunto, la famiglia all’inizio, poi l’oratorio di San Vittore, dove sono cresciuto con tre coadiutori, uno di-verso dall’altro, ma da cui ho avuto modo di imparare sempre qualcosa, poi il gruppo chierichetti, seguito da don Agostino Fer-rario.

Sì, lo storico gruppo di chierichetti di San Vittore, che ha favorito anche altre vocazioni.

Don Stefano Conti è con noi stamattina. I Conti sono una famiglia molto conosciuta a Varese, famiglia di musicisti, tuo papà e altri hanno anche collaborato con la nostra radio tanti anni fa per la musica classica, poi hai uno zio direttore di coro, più di così ...

Don Stefano, quale è stato il tuo percorso per arrivare fino a questo giorno, al 9 giugno, grandissima festa per la Chiesa varesina.

lo storico il gruppo di chierichetti!

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Ovviamente, era la messa delle otto e mezza. Era diventata una delle Messe più ambite, nonostante fosse una delle più scomo-de. Per me è stato un primo servizio anche all’interno della Chie-sa, un’esperienza che ti insegna che…

Sì, che appartieni. E che ogni vocazione, comunque, deve essere spesa per il bene della Chiesa. Così, piano piano, arrivi a pensare che fare il prete può essere una cosa non così assurda. Ovvia-mente, all’inizio, quando si pensa a cosa si vuol fare da grande, viene in mente di fare una famiglia, magari di avere dei bambini, che è una cosa bellissima, e poi pian piano ti cresce dentro un al-tro desiderio, almeno, per me è stato così. Poi, entrando in semi-nario, si incontra di tutto: si incontra chi si è convertito e subito ha pensato di fare il prete, chi ci ha pensato a cinquant’anni dopo aver lavorato tanto, chi ha fatto due anni di seminario, è uscito per venti, e poi è rientrato. C’è un po’ di tutto. Per me è stata una cosa progressiva, in cui all’inizio pensi: “Perché no? Perché non fare il prete?”. Poi il giorno dopo ci pensi ancora, ci pensi ancora, alla fine ci pensi sempre e dici: “ ma forse è il caso che ne parli con qualcuno”.

Sì, questo percorso ha coinciso con la fine delle scuole superiori. L’ultimo anno delle superiori, in cui c’è stata l’ordinazione dell’ul-timo prete di San Vittore, un salesiano, don Stefano Vanoli, pre-sente alla mia prima Messa. Durante la sua ordinazione, che è stata a Bologna, mi ricordo di avere pensato: “Questo è anche per me”.Mi ricordo benissimo il gesto, che è uno dei più belli dell’ordi-nazione, quando ti mettono i paramenti sacerdotali. Poco dopo ho deciso di parlarne con don Agostino, che era il mio padre spi-rituale, il quale è stato molto pacato, mi ero già iscritto all’uni-versità, mi ha detto: “È una cosa da verificare, quindi vai avanti tranquillo nel tuo cammino”.

Facevi parte del gruppetto che dopo la Messa andava con don Agostino alla pasticceria Ghezzi?

Hai saltato un bel pezzo di storia però, che sono gli anni dell’università.

… appartieni a qualcosa.

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Lo studio mi è sempre piaciuto, non ho fatto neanche grande fatica. Nel frattempo abbiamo verificato per un po’ di anni insie-me con don Agostino questa intuizione iniziale e, siccome non passava, al terzo anno di università c’è stata l’occasione di andare in Seminario, perché entrava anche un altro varesino, don Luca Broggini. Sono andato in Seminario e lì è scoppiata la prima bom-ba, perché il Rettore di allora mi ha proposto di entrare subito, diceva che secondo lui ero pronto. E questo mi ha mandato un po’ in crisi perché, appunto - noi avevamo pensato di finire l’uni-versità - nel senso che sentivo che la cosa era vera, però forse non era ancora matura.

Dare una risposta così a breve termine, è stata l’occasione di parlarne a casa. Don Agostino è venuto a cena e ha dato questa notizia ai miei, che sono rimasti sorpresi positivamente, ma si-curamente di stucco. Dopo sono uscito di casa, avevo qualcosa da fare, ritornando mi hanno convocato e hanno detto che loro erano contentissimi di questa scelta.

Stavolta abbiamo parlato. Sì. Ci siamo confrontati e con la loro saggezza mi hanno detto: “Noi siamo contenti di questa scelta, vediamo però che ti piace anche studiare, che vai bene all’uni-versità, finisci”. I genitori pensano sempre alle possibilità negati-ve: “Eventualmente, se cambiassi idea”.

“Il pezzo di carta ce l’hai, puoi andare a lavorare ed è anche una cosa che sembra piacerti”. Ho risposto: “Va bene, ascoltiamo i genitori”.

Hai frequentato la facoltà di ingegneria.

Però la scelta era più vicina ...

Stavolta avete parlato.

Il pezzo di carta…

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Anche Don Agostino ha avallato questa scelta. Allora abbiamo deciso di completare. Abbiamo considerato la possibilità di anda-re a studiare all’estero e allora ho detto: “Andiamo, è un’occasio-ne”. E lì, appunto, - il Signore usa di tutto, tante volte mi viene da pensare che il Signore usi anche dei difetti delle persone - quello che poteva essere il mio orgoglio di dire: “ Facciamo una cosa che non fa nessuno, che fanno in pochi”, che apparentemente non aveva nulla a che fare con la vocazione sacerdotale - il Signore ha usato questo andare fuori di casa, lontano da tutti, per responsa-bilizzarmi. Sono stati anni veramente bellissimi, un’esperienza di amicizia e di condivisione quotidiana con altri quattro o cinque ragazzi.

Ingegnere meccanico. Ho proseguito il corso di studi in America.Ecco, bisogna sfatare un po’ un mito, l’università italiana, rispet-to a quella dov’ero io, era molto più dura sicuramente e forse si imparava anche di più. È diverso il metodo, ma sono stati anni belli, appunto, perché è continuata a crescere questa intuizione vocazionale. Poi c’era don Agostino che dall’Italia tirava le redini con lettere frequentissime, i contatti e la sua supervisione non è mai venuta a mancare.

No, anzi. Io ho un epistolario che è a senso unico, perché le mie risposte erano rarissime, ma lui una volta al mese almeno scrive-va una lettera, si informava di come andavano le cose, per cui mi è sempre stato vicino ed è certamente uno dei padri di questa vocazione.

Ancora un passaggio di maturazione.

Sei ingegnere?

Non ti ha mai mollato.

Una volta ingegnere, poi, sei tornato a casa.

Sono tornato in Italia. A quel punto mancava solo la tesi. Quell’an-no è stato la conferma definitiva, perché avendo la prospettiva di finire l’università, quindi la possibilità concreta di andare a lavo-

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Quanto hai dovuto studiare ancora in seminario?

Quindi siamo arrivati all’ordinazione. A questo weekend bellissimo.

In seminario mi hanno fatto rifare sei anni di studi, non sono cor-si proprio sovrapponibili perché passare dall’ingegneria alla teo-logia è un bel salto. Cambia molto anche il metodo di studio. Un po’ mi mancava il metodo scientifico.Ho riempito un nuovo libretto, anche perché lo studio lì è più sullo stile universitario e quindi sono due binari in seminario, il binario del seminario, fatto della preghiera, dell’educazione col padre spirituale e poi il binario dello studio, i corsi della Facoltà teologica di Milano, gli esami ...

Bellissimo, sì. Un coronamento. Nel rito dell’ordinazione si riba-disce una cosa importantissima, cui magari uno non pensa: che fare il prete è sì una cosa che uno sente, ma alla fine è una scelta della Chiesa. Infatti, nel rito dell’ordinazione la prima cosa che si afferma è: “La Chiesa sceglie queste persone per essere sacer-doti”, perché altrimenti se uno riflettesse semplicemente sulle sue doti, sulle sue capacità, scapperebbe. Nell’ultima settima-na, quando ci si prepara agli Esercizi, vengono in mente tutti gli sbagli che magari hai già fatto. Però, alla fine, quello che ti dà sicurezza è dire che è il Signore che si impegna, quindi alla fine è un rischio suo. E questa è una cosa oggettiva perché gli anni del seminario servono a questo: a te per maturare la tua scelta, ma anche al rettore, che è la persona impiegata dal vescovo per valutare. Quindi quando il rettore dice sì è la Chiesa che dice sì, quindi è il Signore che ti sceglie e questo ti dà la sicurezza di dire: “Alla fine quello che è chiesto a me è di essere fedele a questa scelta che il Signore ha fatto prima di me”, perché, appunto, non può mai essere una questione di doti e di capacità. Fin dai primi dodici apostoli, perché il Signore non è che li ha scelti perché erano i migliori della compagnia, Lui sa perché li ha scelti e dopo è toccato a loro essere fedeli: a volte sono riusciti, a volte no, ma hanno sempre ricominciato guardando Lui.

rare, non ci ho mai veramente pensato. Non perché non mi pia-cesse il lavoro, ma perché ormai avevo capito chiaramente che la mia strada era un’altra. Allora ho trovato una tesi che finisse giusto con la fine dell’anno, il 18 luglio mi sono laureato, il 23 settembre sono entrato in seminario.

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Questo modo di intendere la vita dovrebbe proprio anche di chi si sposa.

A questa grande festa hanno ritirato anche la tua maglia ...

E riguardo alla tua destinazione? Che cosa puoi dirci?

Tu dici che la vocazione non è un gesto eroico, il fatto di diventare prete non è un fatto eroico, sta dentro un cammino di fede, sta dentro anche l’incontro con l’educatore, come don Agostino, che hai citato.

Sì, come si fa, infatti, a dire “per sempre” se non c’è il Signore che lo garantisce? Sarebbe umanamente impossibile, pur essendo la cosa che ogni uomo desidera. Per fortuna c’è il sacramento, che è la garanzia del Signore che ti sceglie e ti sostiene ogni giorno. Poi sta a te coltivare la fedeltà a questa chiamata.

Questo è emerso chiaramente nei giorni dell’ordinazione, so-prattutto la prima Messa qui a Varese: il vedere radunate tutte insieme quelle persone che mi hanno accompagnato e dire: “Io non sarei mai arrivato a questo punto da solo”. Mi ricordo be-nissimo le prime sere in seminario. “Ma come ho fatto a finire qua dentro?” mi chiedevo. Non perché fosse un posto brutto, ma perché è proprio un salto che uno non si spiegherebbe mai solo con un ragionamento.

La maglia della squadra di basket. È stato un gesto molto bello, immeritato per le mie doti di cestista.

Andrò dove il Vescovo deciderà.

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Come dicevo prima: è la Chiesa che sceglie queste persone. Il vescovo ti chiede se vuoi scegliere questa vita per sempre, se vuoi scegliere il celibato, se vuoi scegliere la preghiera quotidia-na, la Messa quotidiana, e lì bisogna dire per cinque volte “Sì, lo voglio”. Il cardinale Attilio Nicora diceva è che il momento virile del rito dell’ordinazione. Dopo che hai sentito la chiamata del-la Chiesa c’è di mezzo la tua libertà e a quel punto dire: “Sì, lo voglio” per cinque volte è proprio, come prendere in mano la propria vita e dire: “Ecco, siccome ho sentito questa chiamata, sì, lo voglio”, diventa cosa mia. Alla fine, anche nel matrimonio c’è un sì che sei tu a dire, e che non può dire nessun’altro: questa è la grande sfida della libertà dell’uomo, è il momento in cui dice “sì” a qualcosa.

Lo si capisce quando lo si sente nella propria vita. A un certo punto uno dice: “Se io non pronunciassi questo sì, mentirei a me stesso”, cioè tradirei quello che io sono. Mi ricordo gli anni in cui ero in America: uno dei ragazzi con cui vivevo si era sposato in quegli anni e mi colpiva il fatto che, la domenica pomeriggio in cui si andava a giocare a calcio al parco, lui doveva chiedere alla moglie il permesso. E ci stupiva questa cosa, però capivamo che non era un di meno chiedere il permesso, perché ormai la sua vita era una cosa sola con la vita di sua moglie e, anche una cosa che per noi era il momento più atteso della settimana, per lui doveva essere dentro quella strada. Alla fine la vocazione non è qualcos’altro rispetto alla vita, ma è la verità della vita.

Come si può spiegare che questa è la libertà. Che questo “sì, lo voglio” è la libertà.

Stefano, tu dici giustamente “non è un gesto eroico, ma è dentro in un cammino, è dentro una compagnia”, però io credo che il fatto di scegliere nella vita sia decisamente importante. Invece, ci sono tantissimi ragazzi che non scelgono.

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15 dicembre 2007Andrea Chiodi

LA SANTA ALLEGREZZA

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Siamo all’ottava edizione. Abbiamo iniziato nella chiesa di Sant’Antonio alla Motta con una trentina di bambini ed è stato fin da subito un momento bello e coinvolgente, voluto da un gruppo di mamme per mostrare ai loro figli il vero spettacolo del Natale: la nascita di Gesù. Poi, a distanza di un anno, ci siamo ritrovati per preparare una seconda edizione sempre alla Motta. Ricordo di essere stato io, in quell’occasione, a suggerire di estendere la proposta a tutta la città. La chiesa della Motta non era sufficiente-mente ampia per contenere tutte le persone e così, inizialmente, proposi di allestire la rappresentazione all’esterno, dove lo spa-zio è maggiore. Da lì arrivammo all’idea del sagrato della Basilica di San Vittore e così iniziò questa avventura. La prima edizione si era proposta di spiegare come è nato il Presepe, perché la sacra rappresentazione sul Natale non è un’invenzione folcloristica, ma risale a San Francesco d’Assisi. Da allora è stato un susseguirsi di edizioni. Dopo il racconto delle origini, siamo entrati nella Na-tività e abbiamo fatto parlare la Guardiana delle oche, una delle statuine presenti in ogni abitazione, che sta sempre in fondo alla scena e che, nel Presepe vivente, è venuta avanti. L’anno suc-cessivo abbiamo invece voluto testimoniare come il Presepe è entrato nelle case e lo abbiamo fatto attraverso la figura di una nonna che raccontava ai propri nipoti come lei preparava la ca-panna, come disponeva le statuine e gli altri oggetti. E così via via ogni anno, seguendo un filo logico del racconto da differen-ti punti di osservazione. Ogni volta uno spettacolo nuovo, ogni volta il coinvolgimento di seicento ragazzi, soprattutto gli scout dell’Aggs Varese 2, costruendo di volta in volta le ambientazioni legate alla rappresentazione in piazza. Nel caso del Presepe di Greccio avevamo realizzato un villaggio del Trecento. Con “Nato a Betlemme” abbiamo invece ricostruito un ambiente simile al contesto in cui avvenne la nascita duemila anni fa. Luoghi ani-mati dai bambini in costume, perché la sacra rappresentazione è sempre stata il momento conclusivo di un lavoro lungo, accurato e coinvolgente.

Con noi oggi Andrea Chiodi, regista del Presepe vivente, la sacra rappre-sentazione che in occasione del prossimo Natale sarà allestita, come ogni anno, nel centro storico di Varese e che, in questa edizione, avrà per titolo “la santa allegrezza”. Un appuntamento che è entrato nella storia della città e che quest’anno avrà un nesso esplicito con il Sacro Monte.

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L’idea è nata così: io ho ventotto anni, sono di Varese e ho sco-perto la storia del Sacro Monte di Varese solo di recente, grazie alla serie di eventi legati all’anniversario dei quattrocento anni dalla sua fondazione. Essere arrivato, in un certo senso, tardi a questa conoscenza mi è dispiaciuto. E allora ho pensato di rac-contare come è nato il Sacro Monte di Varese ai seicento ragazzi che sono protagonisti del Presepe vivente. Come? Lavorando con loro sulla nascita delle Cappelle e soffermandoci sulle prime tre, che sono quelle dell’Annunciazione, della Visitazione e, appunto, della Nascita di Gesù.I ragazzi sono stati accompagnati al Sacro Monte, è stata pre-sentata loro la storia del luogo e hanno iniziato a lavorare per preparare le scenografie e gli oggetti da utilizzare nella rappre-sentazione.

Nelle piazze attorno alla Basilica i varesini vedranno la Fabbri-ca del Rosario, secondo l’antico nome della Fabbrica del Sacro Monte. Vedranno la costruzione delle prime tre Cappelle. Poi, in piazza San Vittore vedranno la terza Cappella ultimata. Sarà una ricostruzione, ovviamente in scala, molto grande, della Cappel-la della Natività. Ciò è stato possibile grazie alla collaborazione della Fondazione Paolo VI che ha condiviso e sostenuto il pro-getto. Quest’anno lo spettacolo partirà dalla figura di Maria, per-ché il Sacro Monte di Varese è un luogo mariano. Partiremo dalla presenza della Madonna al Sacro Monte e dall’intuizione della monaca che per prima ipotizzò la creazione di un percorso per arrivare al convento e al santuario. Vedremo allora un gruppetto di donne che salgono in pellegrinaggio recitando il Rosario a sim-boleggiare il primo gruppo di donne salite al Sacro Monte dopo l’ultimazione della Via Sacra. Dietro di loro si muoverà tutto il popolo di Varese, ma non solo, che con il proprio lavoro e con le proprie offerte ha contribuito alla realizzazione di quest’opera. Il pubblico assisterà a questa grande processione, documentata negli archivi storici.

Parliamo dell’edizione di quest’anno.

“la santa allegrezza” verrà allestita anche per sostenere la presenza dei vo-lontari di AVSI, l’associazione dei volontari per il servizio internazionale, e in particolare le opere della campagna delle Tende. Andrea, anticipiamo, per quanto possibile, che cosa i varesini potranno vedere attorno alla Basi-lica nel giorno del Presepe.

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Il Presepe ha poi un’altra caratteristica. Ha sempre voluto esse-re uno spettacolo di piazza, ma anche uno spettacolo di teatro, con un valore artistico e culturale. Uno spettacolo bello, propo-sto anche con la collaborazione di attori professionisti. Ricordo Antonio Zanoletti, Leda Celani, Luisa Oneto, Piera Degli Esposti, Rosalina Neri. Attori che hanno donato il loro lavoro. Quest’an-no, essendo il tema tipicamente varesino, ho voluto coinvolge-re attori varesini. Ci sarà ancora Luisa Oneto, e poi Anna Nicora, che è allieva di Giorgio Albertazzi, Silvia Sartorio, Paolo Franzato e la professoressa Anna Bossi Bomoni. Sarà uno spettacolo che racconta una pagina della storia di Varese attraverso la parteci-pazione di attori professionisti varesini e questo è interessante. Inoltre vorrei ricordare Giacomo Mezzalira, musicista che scrive e arrangia tutte le canzoni che saranno interpretate dai ragazzi, e Ferdinando Baroffio con il quale stiamo componendo alcuni bra-ni appositamente per la rappresentazione. Avremo inoltre con noi Maria Consigli, che canterà, e la famiglia Conti, che si è sem-pre resa disponibile per insegnare i canti ai ragazzi. Tanti apporti, tutti preziosissimi. Altro esempio è la preparazione dei costumi attraverso una grande sartoria di mamme volontarie con a capo Chiara Masolo.

Tutto il lavoro di preparazione accompagna i bambini verso que-sta consapevolezza. E anche questo rende unica l’esperienza di Varese: l’esperienza di un popolo che si muove per costruire un gesto, per dare vita a un evento che ha ottenuto il patrocinio del-la Pontificia commissione per la cultura, ovvero il riconoscimento esplicito da parte del Vaticano della sacralità della rappresenta-zione, momento di spettacolo e, allo stesso tempo, momento au-tenticamente liturgico.

In questa grande macchina organizzativa ognuno dei seicento bambini e ragazzi è consapevole del proprio ruolo e del significato del proprio essere, per così dire, in scena?

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Alberto Reggiori

IN UGANDA COME A CASA

17 dicembre 2007Filippo Ciantia

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Sì, sicuramente al di là delle mie aspettative, sia in termini di co-pie, sia in termini di incontri con persone che hanno letto il libro. L’unico premio letterario in Italia che non dà soldi, l’ho vinto io. Comunque è stata una cosa simpatica.

AVSI è una fondazione, Associazione Volontari per il Servizio In-ternazionale, una Ong, come si dice in gergo, cioè un’organizza-zione non governativa che realizza progetti di cooperazione allo sviluppo nei paesi poveri in campo sanitario, sociale, nell’agri-coltura, soprattutto ultimamente, anche nelle emergenze, nelle zone dell’Uganda dove c’è la guerriglia, nel recupero dei bambini soldato. È presente in numerose aree del mondo, in una trentina di Paesi in tutti i continenti. È un’associazione che esiste da ol-tre trent’anni e si sta espandendo rapidamente. Soprattutto, ha caratteristiche ben precise che la fanno emergere e la rendono stimata nell’ambito della cooperazione.

Nei Balcani ormai è una presenza radicata, anche con personale locale, che è stato incontrato ed è cresciuto insieme in questa esperienza. Ci sono poi opere ben consolidate in Albania, in Ko-sovo, in Serbia, in Bosnia.

Cominciamo la nostra chiacchierata, io ringrazio il dottor Alberto Reggio-ri per avere accettato l’invito a essere qui con noi a parlare di AVSI e della presenza in Uganda.Ricordo che il tuo libro “Dottore è finito il diesel”, edito da Marietti, ha avuto un successo notevolissimo, è stato letto da moltissime persone e hai avuto tanti riconoscimenti per questo libro.

È un libro che fa riscoprire realtà dure, come quella dell’Uganda, ma sem-pre con un sorriso. Decisamente un caso unico nella mia esperienza di lettore.Quasi dieci anni di presenza in Uganda, con tutta la famiglia, come medi-co chirurgo, volontario AVSI. Partiamo da qui. Che cosa è AVSI?

A proposito di questo, io ricordo quando tu sei partito per l’Iraq, forse uno dei primi a raggiungere quel territorio, perché AVSI era già presente nel Paese nei primi momenti della guerra, così come è stata presente nei Balcani.

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In Iraq sosteniamo una serie di opere educative, asili e scuole, soprattutto realtà cristiane, su richiesta precisa dei vescovi locali, con personale locale.

Quest’anno il titolo delle Tende è particolare: “Vicky, storie dell’altro mondo in questo mondo”. Che cosa vuole dire? Vicky è il nome di una donna sieropositiva ugandese che è stata in-contrata a Kampala. Dopo che aveva scoperto la sua malattia, il marito l’aveva abbandonata, come sempre succede in questi casi, i figli erano malati e lei ha incontrato quell’organizzazione che si chiama Meeting Point International: un’organizzazione che si cura di malati di Aids ed è gestita da malati stessi. Ha trovato in questo incontro una speranza, qualcosa di positivo, ha conosciu-to per la prima volta qualcuno che la guardava in modo nuovo, con uno sguardo pieno di speranza e di amore, nella sua malat-tia. E questo le ha cambiato la vita: ha cominciato a reagire, ha cominciato a vedere la vita in maniera meno disperata; poi per fortuna è arrivato il periodo in cui la medicina ha potuto utilizza-re farmaci efficaci, che, se non altro, allungano la vita. Vicky ha recuperato anche un po’ di salute e questo è l’esempio di quello che AVSI desidera fare attraverso le proprie opere, cioè incon-trare persone e ridare loro una speranza, aiutarle a ridiventare protagoniste della loro vita. Di tutti gli anni trascorsi in Uganda, ciò che mi rimane dentro come speranza non è tanto l’ospedale in cui ho lavorato o la scuola che abbiamo fondato, o altre cose che sono destinate fatalmente a finire. Ciò che custodisco sono queste persone nuove, piene di speranza, piene di energia e di vita che diventano protagoniste della loro storia, del loro paese.

In Iraq siete ancora presenti?

Sono tanti i varesini impegnati con AVSI, un po’ in tutte le parti del mon-do, in libano, per esempio, e in Brasile. AVSI ogni anno sceglie alcune opere avviate nel mondo da sostenere attraverso le iniziative delle “Tende” che sono occasioni per raccogliere fondi ma, in primo luogo, opportunità importantissime di condivisione.

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Quest’anno sosterremo quattro iniziative. Una è il Meeting Point in Uganda, questo centro che si prende cura di donne e di orfani malati di Aids a Kampala. La seconda è l’ospedale San Camillo: un ospedale per mamme e bambini in Costa d’Avorio, che è stato aperto una quindicina di anni fa. La terza iniziativa è una casa di accoglienza a Novosibirsk, in Siberia, che ospita ragazze madri. L’ultima è un asilo a Belo Horizonte in Brasile, una scuola mater-na che esiste da parecchi anni e noi vogliamo continuare a soste-nerlo, perché è un’opera importantissima per la zona di favelas e di povertà in cui è collocato.

I premi al volontariato sono sostanzialmente un riconoscimento a alcune persone che rappresentano un’esperienza più grande e diffusa rispetto a quanto essi stessi hanno contribuito a rea-lizzare. Anche per me è stato così. Il valore di questo premio, a mio giudizio, si collega bene con il tema delle Tende di AVSI e con quello che noi vogliamo comunicare con questa iniziativa e cioè che di fronte alla drammaticità o alla tragedia che spesso si svela davanti a noi con grandi epidemie come l’Aids, in que-sti paesi gravati ancora da tante gravissime povertà e ingiustizie, c’è sempre la possibilità di una positività personale. Non solo la positività e la possibilità di trasformare queste tragedie in grandi esperienze, ma il fatto che incontriamo persone come Vicky, per esempio, che affermano la possibilità di una costruttività, di un riscatto, attraverso una presenza che ti incoraggia nella tua corsa, nel tuo tentativo di vincere le sfide della vita.

Quali paesi avete scelto quest’anno?

Si è allargata la nostra compagnia, ci ha infatti raggiunto il dottor Filip-po Ciantia. Ventisette anni di presenza in Uganda, con la sua famiglia, rappresentante di AVSI per la regione dei Grandi laghi: Uganda, Ruan-da, Congo, Kenia, Burundi, Sud Sudan. Ha ricevuto un riconoscimento speciale nell’ambito del premio del volontariato internazionale 2007; è un premio che viene assegnato dal Presidente della Repubblica tramite la Focsi (federazione che riunisce gli organismi cristiani per il servizio inter-nazionale), un premio veramente importante. Pippo, ti chiedo di spiegarci come sei arrivato a ricevere questo premio.

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Due fattori sono stati decisivi nella mia scelta di partire: uno è stato l’esempio di chi avevo davanti, e Pippo Ciantia è uno di que-sti casi esemplari. Mi aveva affascinato il fatto che persone di Varese, medici, professionisti fossero partiti. Ho in mente nomi e volti ben precisi. Sentirli raccontare, quando rientravano, di quel-lo che realizzavano, di quello che vivevano, era come incontrare qualcuno che aveva realizzato il proprio sogno, il desiderio più profondo. Poi è stata decisiva la parola di Papa Giovanni Paolo II, perché sentendo il suo invito ad andare in tutto il mondo, mi sono sentito giudicato da questa parola e mi si è chiarita la que-stione. Mia moglie non era contraria, anzi era favorevole: essen-do io sposato, non potevo non fare i conti con questo che anzi è stato un sostegno preciso. Quindi siamo partiti ed è stato solo positivo, molto più di quanto mi aspettassi.

La passione non è finita col fatto di essere rientrato dopo circa dieci anni con la famiglia. Adesso tutti i figli sono inseriti nelle differenti realtà scolastiche, dall’università alle elementari – da due anni non abbiamo più figli all’asilo e questo è già un grosso passo avanti - e perciò non si può tornare in Africa; in maniera definitiva, almeno. Il desiderio è però quello di essere sempre a disposizione, anche perché ci sono rapporti personali, sia con persone del luogo, sia con amici che sono partiti a loro volta per l’Uganda. Mi piace molto, appena posso, raggiungerli, anche se per poco tempo.

Anche nel mio caso, le motivazioni sono più o meno simili. Vorrei aggiungere che un’iniziale motivazione è stata un po’ l’educazio-ne familiare, aver respirato in famiglia un’attenzione, una pre-occupazione per i poveri, per le persone che hanno bisogno. Un impegno sociale, politico, tanto che mio padre e mia sorella sono impegnati in politica. Aver respirato una preoccupazione per la giustizia, per l’impegno sociale, mi ha dato una certa sensibilità. Non meno decisivo, come diceva Alberto, è stato vedere persone

Filippo Ciantia e Alberto Reggiori sono entrambi medici. Entrambi aveva-te la prospettiva di brillanti carriere e invece avete deciso, più o meno negli stessi anni, di andare in Uganda. Alberto, perché?

Tu spesso utilizzi le tue ferie per tornare in Uganda.

E tu, Pippo?

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che svolgevano la professione medica, che avevo scelto anch’io, in una maniera affascinante. La ragione per cui sono arrivato in Uganda è perché avevo visto questi medici varesini, Paganini, Guffanti, Salandini. Averli visti così contenti, così interessati, è stato il secondo fattore. Il terzo è stato l’incontro con la comunità cristiana di Comunione e liberazione, che ha dato una ragione in più al desiderio di fare qualcosa per gli altri e la condivisione con mia moglie Luciana. L’ultimo fattore è, come diceva Alberto, l’aver trovato tanti amici e avere legami molto forti con persone che sono lì e che fanno parte di noi stessi. Secondo me, la cosa più significativa, alla fine, è proprio il fatto di sentirsi a casa. Non che quando torno in Italia non mi senta a casa: c’è mia mamma, ci sono gli amici, l’ambiente in cui sei cresciuto, però sentirsi a casa in un paese straniero è una cosa molto bella.

La presenza di AVSI è abbastanza imponente, nel senso che tra Uganda, Ruanda, Sudan, probabilmente ci saranno, tra persona-le locale e internazionale, quattrocento, quattrocentocinquanta persone, anche perché sono paesi con problematiche molto va-rie: ci sono paesi in pace, altri sconfitti come il Ruanda o il Burun-di, in piena emergenza o paesi come il Congo e il Sud Sudan, in cui pure ci sono emergenze. Sicuramente per la sanità è molto importante l’organizzazione, comunque, più si va avanti, più si capisce quanto sia determinante una presenza accanto al mala-to. Il nostro lavoro è star vicino ai malati. Stare vicino a chi ha bisogno, aiuta più te che loro. E, nello stesso tempo, costruisce.

Tu sei medico, tua moglie anche fa il medico. Ora che hai la responsabilità di tutti questi paesi, riesci a fare ancora il medico o è più un problema or-ganizzativo quello di cui ti devi occupare? E quanti volontari di AVSI sono presenti in questi paesi?

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VIVERE CON LA PORTA

APERTA

Mario BranduardiBetty Angelini

10 gennaio 2008

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Famiglie per l’accoglienza è un’associazione che esiste in Italia da oltre 25 anni e che è nata da un gruppo di famiglie che voleva-no aiutarsi a capire l’esperienza di accoglienza che già vivevano, per comprenderne sempre di più il valore e la portata. Inoltre si voleva dare la possibilità anche ad altre famiglie di accostarsi a questo modo di vivere, di affrontare la vita. Famiglie per l’acco-glienza è sempre stata contraddistinta dal fatto che voleva essere innanzitutto un’amicizia; quindi il lavoro che si è portato avanti è stato improntato da questa caratteristica: dal fatto di volersi dare degli strumenti che potessero far crescer un rapporto tra le famiglie. In questo senso, il fatto di avere avuto la possibilità negli ultimi anni di utilizzare alcune leggi, - in particolare una legge regionale, la 23/99, che si proponeva di favorire la nascita e la crescita di esperienze tra famiglie - è stato per noi un’occasione che abbiamo cercato di cogliere; non per ottenere finanziamenti, ma proprio perché l’esperienza che già vivevamo potesse essere proposta ad altri. In quest’ottica sono nati progetti molto artico-lati. In particolar modo, Famiglie per l’accoglienza ha affrontato alcune esperienze, alcuni temi particolari legati all’accoglienza come l’adozione e l’affido. Ma anche l’accoglienza come dimen-sione intrinseca ad ogni famiglia. Cito, ad esempio, il fatto di ac-cogliere persone che temporaneamente hanno bisogno di essere ospitate in famiglia, o l’accogliere i parenti di persone ammalate che vengono ricoverate a Varese o a Milano per essere curate, e che vivono un momento di particolare solitudine. Ultimamente, abbiamo avuto modo di incontrare alcune famiglie anagrafica-mente più giovani di noi che, vivendo la loro esperienza di fami-glia con la nascita dei primi figli, desideravano capire che cosa volesse dire l’accoglienza come dimensione nella propria vita.

Iniziamo la nostra chiacchierata con Mario Branduardi e Betty Angelini, di “Famiglie per l’accoglienza”, per parlare di un progetto e di un calenda-rio di incontri decisamente interessanti. Partiamo subito con Mario Bran-duardi per introdurci nel tema.

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Circa tre anni fa ho incontrato alcuni amici delle Famiglie per l’ac-coglienza. Sono stati incontri semplici con alcune famiglie giovani che avevano un desiderio di felicità, di costruzione come ognuno di noi aveva. Quindi l’invito a partecipare ad alcuni incontri con Famiglie per l’accoglienza è capitato proprio dentro questo no-stro desiderio, e la prima cosa che ci ha colpito è stato riconosce-re che l’accoglienza è una dimensione personale, una dimensio-ne del nostro desiderio di amare il marito, i figli, la nostra vita e del desiderio di essere a nostra volta amati. Il mettersi insieme e cominciare a partecipare a dei progetti, mettendo a tema quello che ci stava a cuore, è stata la possibilità per noi di riscoprire que-sta dimensione dell’accoglienza, innanzitutto come condivisione, guardando con serietà e con amore i volti che avevamo più vicini: il marito, i figli e gli amici. Tutto ciò avviene dentro una notevole fatica, perché chi accoglie un bambino, chi accoglie un estraneo deve fare i conti con una diversità che, tuttavia, nelle circostanze quotidiane, è inaspettatamente vinta e superata. E ciò aumenta il fascino di questa esperienza.

Sicuramente cresce in una compagnia, nel senso che bisogna es-sere educati. Io abito in un condominio con dodici famiglie. Fin-ché non ho capito la bellezza, l’importanza, il gusto di guardarsi in faccia, di aiutarsi anche nelle cose quotidiane, fino a quando il tema dell’accoglienza non è stato messo al centro non mi ero accorta che ci fosse una possibilità diversa. Poi abbiamo cercato di darci una mano, aprendo la porta e facendo anche fatica ini-zialmente, ma scoprendo un gusto e una positività e una bellezza che corrispondevano appieno al nostro desiderio.

Più di vent’anni di presenza, più di vent’anni di lavoro! Betty, tu invece come ti sei avvicinata a questa esperienza?

Questo vivere con la porta aperta, se così vogliamo dire, è naturale o è una cosa che cresce nel tempo in una condivisione tra moglie e marito?

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È impossibile, sì.

A Varese parliamo di qualche centinaio di famiglie con cui siamo entrati in un rapporto che non era semplicemente un rapporto di “ti invito a una riunione”, ma che era in qualche modo un rappor-to di confronto, di aiuto, un darsi una mano in un percorso.

Si è arrivati a questa proposta proprio in forza di quello che si diceva prima: è il fatto di una compagnia tra famiglie che aiuta e costituisce un legame educativo, non soltanto nei confronti di chi è accolto, ma per ciascuno, perché ognuno di noi educa ed è educato da questi rapporti. Per questo il primo tema è quello della “paternità e maternità nell’accoglienza del reale”. Vuole es-sere una riflessione su come il fatto di diventare adulti e di spo-sarsi è caratterizzato comunque dall’apertura alla paternità e alla maternità, magari non necessariamente fisica, ma dell’accogliere tutto ciò che la realtà ci fa incontrare. Un secondo passo vuole essere una riflessione su come tutto ciò si articola nell’esperien-za più comune della famiglia, che è quella di accogliere i figli. E, successivamente, vogliamo riflettere insieme su come la famiglia arriva anche a realizzare delle opere che hanno un’incidenza so-ciale. Non che la famiglia in quanto tale non abbia un’incidenza sociale di per sé, ma si può arrivare anche a promuovere iniziati-ve molto più visibili e significative.

Capisco che da soli è impossibile vivere un’esperienza così.

Grazie!

Mario Branduardi, se tu dovessi dire quante persone, quanti ragazzi, quanti bambini avete accolto in affido o avete aiutato, a che numero arri-veremmo?

Accoglienza come dimensione personale, accoglienza che è molto impor-tante anche per quelle persone che magari hanno bisogno e si trovano da sole in situazioni difficili, talvolta gravi e trovano attorno a sé la possibilità di condividere la loro fatica. È una dimensione che sarà riproposta in un seminario organizzato da Famiglie per l’accoglienza su “Compagnia per famiglie, un legame educativo vincente”.

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25 gennaio 2008Francesco Fumagalli

POLVERE DI STELLE

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Presentare Francesco Fumagalli può essere un po’ complicato, per le diverse sfaccettature, tra l’altro, tutte interessanti. Con Francesco ci siamo incontrati la prima volta quattro anni fa. Da lì è iniziato, più che un rapporto tra un’associazione e un associato, quello che nel tempo è diventato un rapporto di amicizia e non solo di lavoro.

Legato a una fede comune, come dire: “Le vie del Signore sono davvero infinite.”

Il mio lavoro nasce da una serie di coincidenze che si sono ma-nifestate nella mia vita. Mio papà un giorno porta a casa un pic-colo telescopio - lui era appassionato di fotografia e di queste cose. Guardiamo la luna insieme una sera sul terrazzo ed io re-sto stupito dalla bellezza di questa visione. Avevo appena letto le prime cose su Galileo, mi sono immaginato cosa poteva aver visto, che cosa potesse avere provato quest’uomo. Ho detto: “Mamma mia!”. E da lì è iniziata la mia passione per l’astrono-mia. Una passione anche tecnica: capire i telescopi, anche per potere risparmiare sui costi, perché all’epoca poi, parliamo dei primi anni ’70, non c’era in giro nessuno che costruiva telescopi. Il caso ha voluto che, nei primi contatti, incrociassi una persona a Locarno, che è stata un po’, come dire, il mio spirito-guida. È il direttore dell’Osservatorio di Locarno-Monti, Sergio Cortesi, che è un monumento nella storia dell’astronomia. Egli mi fece vedere il disegno che aveva fatto su Giove la sera che io sono nato. Un disegno che fece su Giove col telescopio costruito completamen-te da lui. Mi ha fatto da maestro. Nel frattempo ho cominciato a insegnare e a fare il mio lavoro. Ho partecipato ad alcune gare di

Esatto. Poi, tra l’altro, Francesco fa un lavoro che in Italia fanno in pochi. Costruisce osservatori astronomici, mettendo insieme in maniera originale da un parte la tecnica e la scienza, ma dall’altra parte anche uno spunto assolutamente interessante sull’uso del-la ragione applicato allo studio e quindi agli strumenti che vengo-no messi a disposizione.

Partiamo con l’appuntamento quindicinale con la Compagnia delle ope-re. Con il direttore della CDO di Varese, Juri Franzosi che presenta il no-stro ospite.

(Francesco)

(Francesco)

(Juri)

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Spiegando magari anche come costruirli.

la vostra società è la Dub Optika. Sul Gran Sasso che cosa è accaduto?

assunzione negli Osservatori, ma i contratti erano bloccati. Così ho iniziato a insegnare astronomia in Svizzera. E accanto alle le-zioni, già di per sé interessanti, mi sono messo a insegnare anche cos’erano le caratteristiche degli strumenti, dei telescopi.

Tra alcuni di questi ragazzi s’è creato un notevole entusiasmo. “Uh, che bello! Anche noi vorremmo comprarci un telescopio”. Allora io a dire: “Ragazzi, se li comprate spendete tanto e avete delle cose mediocri. Invece se li facciamo insieme si spende di meno”. Con questi ragazzi abbiamo cominciato a costruire i pri-mi strumenti e, naturalmente, essendoci di mezzo una frontiera, c’erano problemi. Ho messo sulla dicitura della mia azienda, poi-ché io all’epoca facevo il fotografo, la frase: Fotografo e costrut-tore di telescopi. Sono stato raggiunto, proprio grazie a questa dicitura, dall’Istitu-to Nazionale Fisica Nucleare, che cercava costruttori in Italia di telescopi, per costruire al Gran Sasso telescopi molto particolari che dovevano misurare fenomeni atmosferici, cioè l’interazione di particelle cosmiche provenienti da stelle che esplodono, da galassie che interagiscono, particelle, protoni, neutroni, tutto quello che arrivava da quelle regioni e impattava sulla nostra at-mosfera, per vedere l’effetto che facevano. Cioè, usare la nostra atmosfera per quello che è, cioè un bersaglio di queste particelle, e vedere che cosa succede. Abbiamo vinto quella gara di appalto battendo aziende blasonate.

Di tutto. Abbiamo letteralmente inventato questo telescopio. E da lì è iniziata la nostra avventura imprenditoriale nella veste at-tuale.

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Quale è stata l’idea che è piaciuta in particolare a Francesco Fumagalli della Compagnia delle Opere?

Guardando l’infinito, queste domande aumentano.

Io ho frequentato Gioventù Studentesca, quindi partiamo da un alveo comune. Poi ho fatto la mia strada, un percorso guidato dalla fede. Ognuno è figlio delle proprie esperienze, chi non vive niente non riconosce niente. Chi invece vive, malgrado se stesso a volte, anche per stupidaggini, chi vive col cuore in mano è in grado di capire, di risolvere e di discernere. Il mio percorso a un certo punto mi ha portato alla lettura degli scritti dei padri della Riforma protestante e anche lì, come con la luna, sono rimasto fulminato da questa idea del contatto diretto con il Padre Eterno. In questa visione non c’è nessuna autorità, cioè se qualcuno ti propone di fare una cosa per il bene della comunità tu lo fai per il bene della comunità, quindi devi stare attento trenta volte a quello che fai, a rispettare le leggi, le regole. Soprattutto non c’è nessuna proprietà. Nessuno può arrogarsi il diritto di dire: “Que-sto è mio, tu sei mio”. Tutto appartiene solo al Signore. Quindi sono dei comunisti, libertari anarchici. Io ho fatto parte anche di queste organizzazioni. Oggi mi definisco anarchico spiritualista. Queste due visioni, quella calvinista e quella anabattista, storica-mente si sono unite anche qui a Varese nella Chiesa Battista.

Sì. E il bello è che trovano risposta. C’è una sinergia, fede e ra-gione non solo sono contrapposte, ma hanno bisogno una di quell’altra. C’è una frase lapidaria: “La fede ha bisogno di tutta quella descrizione del mondo reale che solo la scienza può veico-lare. La scienza ha bisogno di quella visione complessiva dell’uo-mo che solo la visione di fede può veicolare. A che pro? Per fare in modo che l’una e l’altra non creino delle mostruosità”. È Leone XIII nella “Rerum novarum” ad affermarlo. Io non sono cattolico. La Chiesa cattolica è l’unica Chiesa al mondo che ha sviluppato, mantiene e sovvenziona un Istituto di ricerca che è un osservato-rio astronomico, nato con queste premesse, per volere di Leone XIII. Con lui la ricerca scientifica entra organicamente nel dibatti-to teologico. Fede e ragione si incontrano come ci ricorda ancora oggi Benedetto XVI.

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SCEGLIERE,IN UNA MANCIATA

DI SECONDI

6 febbraio 2008Marina Corradi

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Marina, spesso ci imbattiamo in tuoi articoli che ci fanno riflettere. Ieri su Avvenire hai scritto: “Un neonato che si mostri vitale deve essere ria-nimato anche se mancasse il consenso dei genitori. Dal momento che ha vita autonoma, ha diritti pari a quelli di ogni altro”. Osservavi che questa affermazione, tratta da un documento di neonatologi, ha destato scandalo. Addirittura il ministro Turco ha detto che si tratta di un’ipotesi “crudele”.

Proprio perché è nato.

Siamo nell’ambito della complessa questione della rianimazio-ne dei prematuri gravi, cioè i bambini tra le 22/23 settimane di gestazione, in quell’area grigia in cui la sopravvivenza è al 6% di possibilità. Riguardo a questa delicata “area grigia” le Università di Roma, laiche e cattoliche, hanno prodotto un documento che inizia così: “Ogni neonato prematuro ha diritto a essere rianima-to”. E questo, appunto, ha destato rumore. Tuttavia non parliamo di creature che non hanno possibilità di vita, perché subito dopo il documento aggiunge: “Se successivamente ci si rende conto dell’inutilità degli sforzi, bisogna evitare a ogni costo che le cure intensive possano trasformarsi in accanimento terapeutico”. Non siamo di fronte dunque a un oltranzismo di vita, ma parliamo di ciò che sembra dovuto a una creatura che si presenta, benché prematura, vitale; e a cui perfino secondo le linee guida del Mi-nistero queste cure sono dovute, nel momento della nascita. In attesa che ci sia il tempo per valutare ciò che è opportuno fare. Allora stupisce che desti scandalo un’affermazione simile. Anche perché la tradizione del Diritto occidentale, a partire dal Diritto romano, dà al nato autonomia di diritti. Il neonato non è proprie-tà dei suoi genitori”.

Già: è nato, e dunque è soggetto di diritti. Solo certe culture asia-tiche e africane determinano il potere di vita e di morte del padre sul figlio. Con il cristianesimo noi ci siamo staccati da queste tra-dizioni. Quindi che il ministro Turco venga a dire che è “crudele” rianimare un bambino se non c’è il consenso della madre, desta molto stupore. Sembra un’affermazione giuridicamente insensa-ta. Un medico di fronte a un prematuro che mostri vitalità ha l’obbligo di rianimare: si renderebbe colpevole di omissione di soccorso se non lo facesse”.

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Tu citi il professor Fabio Mosca, direttore dell’Unità di Patologie neonatali alla clinica Mangiagalli, che dice: “Ci sono solo pochi secondi a disposizio-ne in sala parto. In sala parto dunque il medico rianima, senza se e senza ma”.

Credo che la cosa più sensata sia quella di riconoscere che ci si trova di fronte a una vita, a una persona.

Infatti. Ne parlavo ieri con il professor Bompiani, che è il presi-dente onorario del Comitato di Bioetica. Bompiani diceva: “Oc-corre lasciare la scelta, in scienza e coscienza, ai medici”. Non si può dire a un medico: “No, per legge tu non rianimi questo neo-nato”. Devi lasciare al medico, che ha il modo e la coscienza per stabilirlo, la decisione di dare o no una possibilità, senza fissare alcun limite teoricamente prestabilito.

Senza se e senza ma, esatto, in quella manciata di secondi. Do-podiché, quando il bambino è rianimato, con più calma valuti la situazione e capisci se dargli l’ossigeno e le altre cure. Se que-ste servono a rinviare solo di pochi giorni una morte inevitabile, oppure no. Siccome però mi pare insensata una reazione come quella della Turco su delle raccomandazioni che sono sostanzial-mente le stesse delle linee guida del Ministero, mi viene il dubbio che il problema sia in fondo culturale. C’è stato poche settimane fa un documento firmato da un gruppo di neonatologi laici che proponeva l’affermazione di un “paletto”, di un limite prima del quale non si rianima automaticamente. Dicevano quei neona-tologi: prima delle 23 settimane di gestazione, non rianimiamo. Che è la forma mentale dell’Olanda, dove prima delle 26 setti-mane di gestazione non rianimano i neonati, in quanto, dicono, le possibilità di sopravvivenza non sono molte. ( Ma, soprattut-to, hanno il timore degli handicap). Allora, non è più una scelta terapeutica, ma ideologica. Se si afferma: “Automaticamente, qualunque siano le condizioni di questo bambino prematuro, noi non rianimiamo” è una scelta eugenetica. Cioè: non vogliamo saperne, in quanto magari poi ci ritroviamo un handicappato. Questo è l’oggetto dello scontro. Il senso del documento dei neo-natologi romani invece è dire: “Valutiamo caso per caso, e diamo una chance a ciascun neonato che mostri un minimo di voglia di vivere; nelle ore successive vedremo se non c’è alcuna possibi-lità, se è accanimento”. Mentre la scelta nordica a cui una certa medicina laicista vorrebbe appellarsi è: “No, prima di una certa soglia lasciamo perdere comunque, perché andiamo incontro a un sacco di grane”. Sono due culture a confronto.

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Sulla questione della vita ogni giorno viene fuori un problema. Oggi un lancio dell’Ansa annuncia che è stato creato un embrione con tre genitori. l’altro giorno si parlava di nascita senza padre. Mi sembra che ci sia quasi una forma di accanimento.

Tutto ciò fa impressione. Significa non appartenere più a nessuno.

Ma quale può essere il punto di incontro, un punto in cui ci si fermi, un punto su cui si possa riflettere?

La nascita senza padre, cioè con i geni della sola madre, per ora è irrealizzabile. Sembra la sparata di uno scienziato che è ben al di là dal poter fare concretamente ciò che annuncia. È una cosa, naturalmente, con fortissime controindicazioni etiche; però mi sembra che il discorso di fondo sia come al solito culturale. Si assiste a una volontà di andare contro il dato di natura. È quel-lo che scriveva Hannah Arendt: “Una delle caratteristiche della modernità è l’avversione al dato”, a ciò che ci è stato dato dalla natura, o, per noi credenti, da Dio. Sembra che ci si accanisca per ribellarsi contro questo ordine naturale, come se fosse un nemi-co. In una concezione assurda della libertà.

Non appartenere più a nessuno, essere padroni di se stessi, con derive che si possono immaginare. Fare figli senza padre né ma-dre. Del resto già in Inghilterra lo hanno detto: “Non usate le espressioni “mamma” e “papà” nelle scuole, perché sono parole che turbano chi ha i genitori gay.

Io ho la sensazione che, almeno in Italia, questo accanimento, questo laicismo sia numericamente più limitato di quanto sem-bra, e molto amplificato da media conniventi. Non tutti sono cri-stiani o cattolici nel nostro paese, però su alcune cose, come sul diritto di essere rianimato di un bambino che ha qualche chance di farcela, penso che ci possa essere un ampio consenso.

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9 febbraio 2008Michele Brambilla

DIETRO LA PRIMA PAGINA

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Ho avuto la fortuna di lavorare in un grande giornale come il Corriere e di lavorare con grandi giornalisti: con Montanelli, Bia-gi, Mieli, Feltri, Luca Goldoni. Siccome percepisco che l’argomen-to giornalismo interessa anche i non giornalisti ho pensato che fosse interessante raccontare da dietro le quinte il nostro mestie-re, come si fanno i giornali, come lavoravano i giornalisti che ho nominato prima, quale è l’affidabilità delle notizie pubblicate.

Sono ritratti di personaggi che popolano le redazioni. Io non ho voluto scrivere un libro serioso, non è un saggio sulla comunica-zione, non è un saggio sul giornalismo, è un affresco, un ritratto di un mondo. Ho cercato di cogliere anche il lato autoironico, cioè di prendere in giro i nostri difetti, i nostri vezzi. E ho tentato di disegnare ritratti di personaggi tipo che stanno nei giornali e che sono abbastanza caratteristici, appunto, quello che ruba sul-le note spese, il grande inviato che a volte copia da un giornale locale. Ho cercato, insomma, di descrivere, in modo spero diver-tente, miserie e nobiltà, il lato umano dei giornalisti.

Oggi con Michele Brambilla parliamo del libro: “Sempre meglio che lavo-rare: il mestiere del giornalista”. Noi ci sentivamo spesso quando eri diret-tore del quotidiano la Provincia, dopo sei stato vicedirettore di libero e ora vicedirettore del Giornale. In precedenza hai trascorso 18 anni al Corriere della Sera. Una lunga esperienza dentro le redazioni.

Nel tuo libro ci sono anche tantissime curiosità. Cito dalla presentazione di Dino Messina: “Troviamo tutta una serie di personaggi che abbiamo conosciuto in una lunga pratica di redazione, c’è il mago della cresta sulle note spese, il mobbizzato, l’innominabile, per via di alcune proprietà che inducono i deboli di nervi a gesti apotropaici, il sindacalista in servizio permanente effettivo, che ha organizzato tante assemblee e scritto pochi pezzi, c’è poi il grande inviato, sacerdote della notizia, sempre pronto a vantarsi, ma restio a partire per destinazioni nelle quali non sia accolto da un albergo a 5 stelle”. Questo è un po’ il racconto anche di colleghi, insomma.

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Si parla tanto del sindacalismo nei giornali, dell’eccesso di sinda-calizzazione. Invece di tentare un ragionamento sui sindacati, io ho raccontato un piccolo fatto, che adesso riassumo il più veloce-mente possibile, e che accadde quando lavoravo al Corriere della Sera. C’erano ancora le macchine per scrivere, era il 1985, io ero appena stato assunto e a un mio collega, si ruppe la Olivetti. Al-lora, c’erano dei tecnici al Corriere, dipendenti, che riparavano le macchine da scrivere e che vennero a ritirare la sua. Il mio colle-ga, che si chiama Adolfo Fiorani, si fece dare provvisoriamente in cambio una Lettera 22, che era una portatile, piccolina. Se la fece dare dalla segreteria di redazione, in attesa che gli riparassero l‘altra. Un giorno tornano questi tecnici con la macchina riparata e Fiorani dice: “Per favore potete restituire questa portatile che ho avuto in cambio, alla segreteria di redazione?”. E i tecnici di-cono: “No, noi siamo tecnici, siamo addetti alla riparazione, non possiamo spostare una macchina per scrivere”. Allora Fiorani ri-sponde: “Non importa, chiedo al fattorino”. Chiama il fattorino e dice: “Può portare, per favore, questa Lettera 22, che tra l’altro non pesa niente, alla segreteria di redazione?”. E il fattorino dice: “No, io sono il fattorino del pian terreno, la segreteria di reda-zione è al primo piano, mi spiace non compete a me, chiami il mio collega del primo piano”. Fiorani chiama il collega del primo piano e il collega del primo piano dice: “Sì, la segreteria di reda-zione è al primo piano, ma io per venire a prendere la sua dovrei scendere al pian terreno e non è mia competenza”. A un certo punto Fiorani prova a tagliare corto: “Non preoccupatevi, la por-to su io alla segreteria di redazione”. E i fattorini dicono: “No, lei non si permetta di fare una cosa del genere, perché quella è un mansione nostra, lei non può usurpare una nostra mansione, se no ci porta via il lavoro”. Insomma, scende alla fine il capo dei fattorini e, seriamente, dice a Fiorani: “Guardi, lei non può dare questa macchina al fattorino del pian terreno perché la segre-teria di redazione è al primo piano, non può darla al collega del primo piano perché lei sta a pian terreno, non è pensabile che i due si incontrino a metà strada e lei non si permetta di portare su la macchina perché ci ruba una mansione”. Morale: per ragioni di ordine sindacale la macchina per scrivere di Fiorani non poteva essere spostata. Un episodio grottesco che risulta più efficace di mille ragionamenti astratti sul ruolo e sull’abuso del ruolo del sin-dacato. Nel libro si racconta il nostro mestiere attraverso episodi, con aneddoti, con curiosità.

Un aneddoto da proporre ai nostri ascoltatori?

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Buzzati non l’ho conosciuto, perché è morto nel ’72. Infatti, il capitolo si chiama “il fantasma di Buzzati” perché racconto che, quando sono entrato nell’85, il Corriere della Sera era ancora il Corriere di Buzzati, c’erano ancora i dimafonisti, gli stenografi, c’era ancora la cabina del telefono in cronaca per le chiamate ri-servate, c’erano ancora le macchine per scrivere e così via. Sem-brava di respirare ancora l’aria respirata dal grande giornalista e scrittore, di cui il giornale era intriso. Era uno spirito presente e ho dedicato un capitolo a questo grande autore che non ho potu-to conoscere per motivi anagrafici. Oriana Fallaci l’ho conosciuta rapidamente nel 2004, quando era già malata. Fu un brevissimo incontro con una persona molto affascinante. Aveva un caratte-re difficile, complesso. Ho invece conosciuto molto bene Biagi e Montanelli. Soprattutto con Montanelli ho avuto un rapporto intenso, un piccolo sodalizio. Ho curato i suoi ultimi due libri. Lui mi ha aiutato a preparare la tesi di laurea. Andavo spesso da lui, c’era un legame di affetto. Aggiungo un altro personaggio, a cui ho dedicato un capitolo, un personaggio per me importantissi-mo, che è Luca Goldoni. Io sono diventato giornalista perché da bambino, avevo nove anni, ero al mare a Milano Marittima, nello stesso albergo dove soggiornava Luca Goldoni. Sono diventato amico di suo figlio e sentendo raccontare da lui le avventure e le gesta del padre, grande inviato, sono rimasto affascinato da questo lavoro. Ho continuato a frequentarlo e l’ho ritrovato al Corriere tanti anni dopo. Goldoni per me è un maestro perché ha raccontato l’Italia della gente normale, la cronaca di vita ordina-ria, quotidiana, le persone che vanno a fare la spesa, che vanno in vacanza, che hanno figli. Ha fatto una sorta di cronaca parallela dell’Italia. Non il Paese ufficiale, che tutti noi raccontiamo tutti i giorni, quello dei politici e del Palazzo. E’ entrato nelle case par-tendo dalla propria esperienza. Io lo considero un grandissimo maestro. Per questo a lui ho dedicato un capitolo.

Nel volume compaiono numerosi personaggi, tu li hai detti subito all’ini-zio, per esempio un capitolo è dedicato a Oriana Fallaci, uno a Enzo Biagi, uno a Dino Buzzati e tre, addirittura, a Indro Montanelli.

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Sì, ricordo in particolare i pranzi, quando lui mi invitava a pranzo a casa sua, in viale Piave, al sesto piano di un palazzo sopra l’Esse-lunga. Tutt’altro che un palazzo nobiliare. Era un uomo assoluta-mente disinteressato ai soldi e si pranzava, lui mangiava pochis-simo, raccontava molto di quello che aveva vissuto, pochissimo di sé. A differenza di altri grandi uomini non era egocentrico e dava consigli che, a volte, potevano sembrare paradossali, come quando diceva: “ Non leggere i giornali, soprattutto il tuo, tanto ormai è già uscito”. Oppure quando diceva: “ Quando scrivi un articolo di fondo ricordati che devi avere un’idea sola, perché se no il lettore si confonde, non mettere troppe cose. Quando devi fare un fondo devi avere un’idea, meglio se mezza”. Era, così, un invito a essere secchi e a non mettere troppa carne al fuoco, perché gli “articoli minestrone” con troppe cose dentro alla fine disorientano il lettore.

Ancora una richiesta a Michele Brambilla. Un aneddoto legato alla tua amicizia con Indro Montanelli.

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4 marzo 2008Renzo Dionigi

QUANDO UN’UNIVERSITà

GERMOGLIA

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Esattamente 10 anni or sono, nel luglio del 1998, viene fonda-ta l’Università degli Studi dell’Insubria, istituita dal ministro Ber-linguer. Era la prima università italiana a sistema di rete, ovvero un’università con due sedi, la sede di Varese e la sede di Como. Abbiamo iniziato con quattromila studenti, oggi sono più di un-dicimila. Avevamo 90 docenti, oggi sono più di 300, uno sviluppo particolarmente veloce, talmente veloce, che in un certo senso ci preoccupa. Il Sole 24 Ore, ad esempio, ci pone al 17esimo po-sto su 78 università, prendendo in considerazione tutta la nostra attività, sia quella didattica, sia quella di ricerca, sia quella as-sistenziale. Insomma, abbiamo motivi per essere orgogliosi del nostro ateneo.

Sono cinque facoltà e rimangono cinque facoltà, sono nate come tali, non solo gemmate dall’Università di Pavia, ma anche dall’Università di Milano. Più esattamente a Varese, Economia e Medicina sono state gemmate dall’Università di Pavia, mentre la Facoltà di Scienze, unitamente a quella di Scienze di Como e di Giurisprudenza, sono state gemmate dall’Università di Milano.

Non conosco a memoria le cifre esatte, posso solo dirle che dal 1998 ad oggi stanno progressivamente aumentando di anno in anno, non sono mai diminuite. L’attrazione dell’Università dell’In-subria è andata aumentando nel tempo. Alcune cifre che posso-no essere utili sono il fatto che mentre inizialmente, nel 1998, la popolazione studentesca era rappresentata nell’80-85% di stu-denti locali, provincia di Como e provincia di Varese, ora questa percentuale è scesa al 60%. Il che significa che il 40% della nostra popolazione studentesca ormai proviene da altre province e da altre regioni e anche dall’estero.

la nostra chiacchierata di “Cappuccino e Brioche” di questa mattina è con il professor Renzo Dionigi, rettore dell’Università dell’Insubria, in occasio-ne dei dieci anni dell’ateneo. Credo che sia un momento particolarmente importante. Si è partiti il 14 luglio del ’98 da una costola dell’Università di Pavia, ma come ripercorrere questa storia, professor Dionigi?

Certamente. Cinque facoltà, diceva.

Quante matricole si iscrivono ogni anno?

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Il problema dell’accoglienza esiste, lo stiamo risolvendo. Avrem-mo potuto risolverlo sin dall’inizio, perché avevamo disponibi-lità finanziarie, avevamo il terreno su cui costruire un collegio, ma la burocrazia non ci ha consentito di realizzare questo sogno. Per fortuna ormai siamo riusciti a iniziare i lavori per il Collegio Universitario in Varese. Esiste un Collegio Universitario in Como, quello di Varese penso sarà completato nel giro di un anno o un anno e mezzo, ospiterà 93 studenti e una decina di docenti, visi-ting professor, che saranno invitati presso il nostro ateneo giusto per aggiornamenti.

Noi vogliamo assolutamente evitare il pendolarismo dei docenti, perché per poter insegnare e stare vicino agli studenti è assolu-tamente necessario che il docente sia in sede. Questo per me è uno dei requisiti che noi dobbiamo assolutamente difendere, perché gli atenei piccoli o di medie dimensioni come il nostro, rispetto ai mega atenei come Milano, Roma, Napoli, Torino, han-no il vantaggio che il docente può contattare, conoscere e stare vicino allo studente.

Sono perfettamente d’accordo. Ogni tanto si pretende troppo dall’università in una città, nel senso che non è nostro compito istituzionale fare cultura per la città, però molti degli avvenimen-ti, molti dei seminari che sono sempre aperti al pubblico, posso-no rappresentare questo moto iniziale per aumentare i contatti con la cittadinanza. E a questo proposito devo riconoscere che almeno a Varese vi è stata un’attrazione da parte dell’università nei confronti della cittadinanza.

E questo naturalmente creerà problemi di accoglienza...

Il problema di chi risiede fuori città riguarda anche i docenti, non soltanto i ragazzi.

l’università è una presenza importante in città. I docenti, nel tempo, di-ventano interlocutori in relazione a numerosi aspetti della vita sociale.

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Questa diffidenza nasce dal fatto che l’università in Varese nasce come Facoltà di Medicina, e la Facoltà di Medicina viene a turba-re determinati equilibri storici. Superata questa diffidenza, ecco che è più facile accettare una Facoltà di Economia, una Facoltà di Scienze. Accettare dei medici che vengono da fuori.

Posso dare alcuni dati. Noi abbiamo avuto la fortuna o l’intuizione di mettere la nostra aula magna a disposizione della cittadinanza. Noto che non esiste giornata in cui l’aula magna non sia piena di attività culturali o di seminari, non solo organizzati e gestiti dall’università, ma aperti. Questo purtroppo non siamo ancora riusciti a realizzarlo a Como. L’aula magna, soprattutto se è nel cuore della città, rappresenta un punto di attrazione e di parteci-pazione della cittadinanza alla vita culturale della città stessa.

Innanzitutto la serie dei concerti e la musica classica. Abbiamo organizzato concerti con l’aula magna sempre piena.

Facendo il chirurgo sono in sala operatoria tutte le mattine. Fac-cio il Rettore pomeridiano, mi hanno accettato in questo modo, il pomeriggio è molto impegnativo ovviamente, però si riesce a far tutto. Se riesco a far tutto è perché non sono solo, ma sono cir-condato da ottimi collaboratori. In base alle competenze bisogna saper delegare e fidarsi delle persone di cui si è circondati.

All’inizio la presenza dell’ateneo era stata percepita con una certa freddez-za, quasi con diffidenza.

Entrare nel tessuto della città che cosa vuole dire per l’università? Ci sono differenze tra Varese e Como?

Ci sono momenti particolari che ricorda a questo proposito?

Come riesce, professore, a seguire tutto, compreso l’ospedale?

Come è stato possibile portare un così grande numero di docenti a Varese. Esiste una campagna acquisti?

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La campagna acquisti in un certo senso esiste all’interno delle Facoltà. Le Facoltà hanno la capacità e il potere, in base alle loro disponibilità finanziarie, di reclutare nuovi docenti. Il recluta-mento dei nuovi docenti avviene, nel sistema universitario italia-no, attraverso concorsi. È ovvio, che è nell’interesse della facoltà andare a cercare i docenti più preparati e motivati.

È difficile farsi una ragione, forse ci sono altri interessi …

Lo stato di salute, se parliamo sempre di questioni di caratte-re finanziario, è simile a quello di altri atenei, forse stiamo me-glio di altri, perché abbiamo avuto un’amministrazione virtuosa, quindi ci siamo preoccupati di non spendere inutilmente e anche nell’ambito del reclutamento, sia dei docenti che del personale

Dobbiamo constatare amaramente che la percentuale del PIL del-lo Stato italiano che viene devoluta al sistema universitario è mo-desta ed è inferiore rispetto a tutti gli altri paesi della Comunità Europea. Questo mi dispiace, perché personalmente ritengo che i beni più importanti, per una società che si autodefinisce civile, siano la salute, la giustizia e l’istruzione. Ebbene, queste tre voci purtroppo sono trascurate da decenni e il sistema universitario è quello sicuramente più penalizzato. I fondi che vengono messi a disposizione degli atenei sono veramente esigui. Si potrebbe seguire la strada dell’autonomia definitiva e completa dell’uni-versità di Stato. Si potrebbe ricorrere alle Fondazioni, ma istituire una Fondazione in Italia non è così semplice. Ci stiamo riuscendo all’Insubria, grazie alla benevolenza e alla generosità di alcuni, però è una strada difficile da percorrere, perché la defiscalizza-zione di alcune donazioni non è tale da favorirle. Il sistema sta-tunitense è tutto basato sulle Fondazioni, il nostro purtroppo è tutto basato sui finanziamenti governativi.

lei, in una recente intervista, ha affermato che lo Stato ha riservato poca attenzione agli atenei.

Perché, a suo giudizio, lo Stato interviene così poco a sostegno delle fami-glie e dell’educazione?

Com’è lo stato di salute dell’Insubria?

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tecnico e amministrativo siamo stati prudenti, abbiamo seguito i suggerimenti che vengono dati da norme e leggi di non superare il 90% del fondo di finanziamento ordinario per spese di perso-nale e siamo riusciti a rimanere al di sotto di quella percentuale. Quindi è un’amministrazione nel complesso virtuosa. Un’ammi-nistrazione virtuosa, ovviamente, può scontentare alcuni perché le facoltà vorrebbero continuare a crescere, addirittura si vor-rebbe una nuova facoltà, una facoltà a carattere umanistico. È una cosa utile, è una cosa bella, indiscutibilmente, però bisogna reclutare altri docenti, quindi ci vogliono altre risorse che devono comunque venire dallo Stato.

Innanzitutto noi siamo nati perché alcuni enti ci hanno dato in concessione determinate sedi, altrimenti non saremmo mai par-titi. Ci hanno messo a disposizione il Collegio Sant’Ambrogio nel centro città, ci hanno dato alcuni terreni a Bizzozzero e Villa Toe-plitz. Accontentiamoci, anche se stiamo andando incontro a spe-se per la ristrutturazione, soprattutto degli edifici più datati come quello di via Ravasi.

Inizialmente all’estero erano incuriositi per un nuovo ateneo, per un nome insolito, quello dell’Insubria. Abbiamo dovuto spiegar-lo, posso citare alcune cifre: abbiamo più di 90 convenzioni con atenei stranieri, è una cifra enorme. Convenzioni significa rap-porti di cooperazione, di scambi culturali, di ricerche, di progetti in comune. Solo con Harvard a Boston, dove io sono spesso, ab-biamo quattro convenzioni con tre facoltà differenti: Medicina, Economia e Giurisprudenza. Siamo conosciuti nel mondo. Ci fa anche piacere la valutazione che il Comitato Nazionale per la Va-lutazione e la Ricerca ha fatto nei confronti del nostro ateneo, ove si riconosce che i prodotti scientifici, ovvero le pubblicazioni su riviste internazionali, ci pongono al diciottesimo posto a livello nazionale. Indiscutibilmente l’attività di ricerca ci ha consentito di farci conoscere all’estero.

E magari un’altra sede. A questo proposito è soddisfatto della soluzione che avete adottato con più sedi distribuite in città?

l’immagine dell’Insubria nel mondo. Io so che lei viaggia moltissimo e che è negli Stati Uniti spesso, che immagine ha l’Università dell’Insubria laggiù?

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Mi spiace dire con franchezza che, purtroppo, vengono mandati all’università con una preparazione sicuramente insufficiente e non raffrontabile a quella che avevamo noi un tempo. Più volte io ho insistito sul fatto che non sanno far di conto, che non sanno scrivere in italiano, che non sanno esprimersi in modo corretto, tutto questo purtroppo è vero. È ovvio che noi dobbiamo, duran-te l’anno, durante il percorso universitario, anche pensare a que-ste insufficienze con iniziative che sono state anche di successo, quali il corso, appunto, di lingua italiana o il corso di matematica. Nelle scuole di specializzazione, soprattutto quelle di area me-dica, assistiamo a fenomeni nuovi. Innanzitutto alcune scuole di specializzazione, che una volta erano in voga, ormai sono meno appetite, altre invece sono molto rigogliose; il fenomeno nuovo direi che è la presenza femminile. Se io dovessi vedere ad esem-pio alla Scuola di specializzazione in Chirurgia generale, un me-stiere ritenuto da tempo tipico dell’uomo, siamo a un rapporto di 6 a 1 a favore delle donne. La donna, anche in Chirurgia, ha grandi capacità: la sua manualità, la sua dedizione, il suo prag-matismo, l’essere vicino al paziente sono fattori positivi.

Ogni Facoltà avrà proprie iniziative, propri convegni e propri se-minari, il conferimento di lauree honoris causa. Come ateneo, è nostra intenzione organizzare due importanti convegni, uno a Como e uno a Varese, convegni in cui vorremo soprattutto pre-sentare i risultati di una ricerca che è già in corso, che ha preso in considerazione i rapporti e l’influenza dell’ateneo sul territorio. Stiamo raccogliendo dati molto importanti, verranno esposti da uno dei nostri ricercatori e docenti d’ateneo, verranno commen-tati da persone di grande prestigio, lo chiederò personalmente a un caro amico, il professor Quadrio Curzio, che ha già dato la di-sponibilità in questo senso, e vorremmo fare il tutto alla presenza dei sindaci, dei presidenti di Provincia e, se possibile, anche dei ministri che ci hanno seguito in questa fase: da Berlinguer alla Moratti, a Mussi o a chi altro sarà in quel momento presente.

Parliamo un attimo degli studenti. Con quale livello di preparazione arri-vano in università?

Eravamo partiti per festeggiare i dieci anni dell’università e giustamente abbiamo raccontato l’università. Ci saranno tantissimi momenti impor-tanti, state organizzando qualcosa di particolarmente significativo?

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Un best seller, nel senso che effettivamente molti sanno che io sono appassionato pescatore a mosca, però ho voluto congiun-gere due passioni, quella delle indagini storiche e quella della pesca mosca e, siccome questi sono argomenti quasi tipicamen-te dettati dalla letteratura anglosassone e in Italia molto trascu-rati, ho voluto approfondire le origini storiche della pesca mosca e così sono risalito, appunto, ai tempi dell’antichità greca e ro-mana e ho pubblicato questo libro con una serie di illustrazioni particolarmente pregevoli. Un libro di ricerca, perché ho dovuto girare per molte biblioteche: da Harvard a Boston, alla Vaticana, alla Braidense, alla Sormani, alle biblioteche inglesi. Ho raccolto il materiale, poi ho scritto il libro.

Sì, con alcune fotografie: quando pesco sui laghi alpini della Val Sesia oppure in Alaska. Un’esperienza personale particolarmente piacevole.

Un’ultima domanda. Fra i tanti testi da lei pubblicati, ce n’è uno che mi ha incuriosito in modo particolare: “Anelli sull’acqua”, testi e immagini per storie di pesci e di pesca alla mosca.

Ma ci sarà sicuramente anche una componente di esperienza personale.

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RINASCERE CON CRISTO

Magdi Cristiano AllamFabio Cavallari

21 maggio 2008

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Magdi Cristiano Allam è con noi. Entriamo subito nel tema di questo nostro appuntamento: il 21 marzo il tuo nome era Magdi Allam. Ci hai concesso un’intervista in cui abbiamo parlato di ciò che ti stava capitando, del cambiamento in atto nella tua vita. Un cambiamento che ti ha condot-to a ricevere il Battesimo.

Quando sento dire così provo freddo nelle vene e mi viene da ascoltare in silenzio. lascio subito la parola a Fabio Cavallari.

Esatto, è cambiata in modo radicale con l’adesione piena e con-vinta alla fede in Gesù.

Presentando “Grazie Gesù”, ho detto che questo è un libro che testimonia un incontro ed è un incontro ovviamente personale tuo con Cristo, ma è un incontro anche con molte persone che ti sono state vicine in questi anni. Il libro è uscito il 9 maggio e da quella data ad oggi tu hai già fatto una decina di presentazioni che hanno rappresentato veri e propri incontri. Il tema dell’in-contro è centrale in questo libro. È un incontro con la fede, ma anche un incontro con la ragione. Non a caso il discorso di Bene-detto XVI a Ratisbona, a mio avviso, costituisce un punto centrale della tua conversione e ovviamente anche del libro. Ti chiedo se confermi questa impressione.

Assolutamente è corretta. Io rimasi sin dall’inizio impressionato dalla spiegazione datami dalla mia guida spirituale, monsignor Rino Fisichella, il rettore dell’Università Pontificia Lateranense, quando mi chiarì che il cristianesimo non è né la religione del libro, né la religione della parola, bensì la religione della testimo-nianza, testimonianza tramite l’incontro con Gesù. E lì compresi che c’era stato un lungo percorso nella mia vita, costellato da una serie di incontri con testimoni che, tramite le loro opere, mi avevano convinto della bontà della fede cattolica. Questi incontri risalgono già a quando avevo 4 anni, a quando cioè io per la pri-ma volta cominciai a frequentare una scuola italiana cattolica al Cairo, gestita dalle Suore Comboniane, e toccai con mano l’opera di persone che avevano sacrificato tutta la loro vita per realizzare il bene comune, il bene altrui. E fu questa testimonianza, attra-verso la condivisione di esperienze e di vita che cominciò a sedi-mentare in me uno strato di spiritualità e di fede, di cui io all’epo-ca non ero minimamente consapevole, ma che aveva lasciato

(Magdi)

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Questa narrazione è presente in “Grazie Gesù”, un libro che con-sigliamo a tutti di leggere, quasi pedagogico. Magdi, a un certo punto tu parli di un Islam che è fisiologicamente violento e sto-ricamente conflittuale. Alcuni intellettuali ti hanno rimproverato di essere stato troppo duro, nella realtà tu non neghi mai il dia-logo, anzi tu parli del dialogo con le persone, del dialogo con i musulmani. A me sembra che tu sia stato in grado di interpretare al meglio una massima di Papa Giovanni XXIII, il quale diceva: “Bisogna distinguere tra l’errore e l’errante”. È corretto?

una traccia. È uno strato di spiritualità e di fede che è rinato e si è rinvigorito recentemente con altri incontri, fino ad arrivare al testimone che più mi ha appassionato, mi ha affascinato, mi ha convinto, che è Benedetto XVI. Una sua testimonianza, in cui affermava l’indissolubilità del rapporto tra fede e ragione, è riu-scita a convincermi.

(Fabio)

(Magdi) Sicuramente. E tutto ciò si traduce anche nel sacrosanto diritto e dovere di poter affermare pienamente la libertà testimoniando la verità della propria fede, quindi assumendo un atteggiamento chiaro nei confronti di altre religioni, di altre fedi, di altre ideo-logie, senza venir meno a quel messaggio cristiano di amore nei confronti del prossimo che ci porta a essere sempre disponibili al dialogo vero con l’altro, a costruire insieme con l’altro una civile convivenza, un mondo migliore, nella chiarezza di valori e di di-ritti inalienabili, inviolabili, per il bene comune e per l’interesse di tutti. Io ritengo che sia non solo legittimo, ma doveroso per un cristiano avere la certezza della propria verità e la capacità di discernimento rispetto ad altre religioni. Nel mio caso, dopo aver vissuto per 56 anni da musulmano, laico e liberale e dopo essere stato costretto dalla situazione particolare in cui mi sono venuto a trovare con oltre cinque anni ormai di vita blindata, sono stato costretto ad andare alla radice dell’Islam e alla radice dell’azione del pensiero di Maometto. Ed è in questo percorso di riflessione profonda che io ho compreso come effettivamente ci siano radi-ci del male insite in tanti versetti del Corano, legittimanti l’odio, la violenza e la morte, così come ci siano effettivamente nella biografia ufficiale di Maometto, la Sira, che è riconosciuta dagli stessi musulmani come testo autentico e fonte della legislazio-ne islamica, la Sciaria, dei fatti che incontestabilmente attestano la natura violenta dell’azione di Maometto. Quindi io ho preso in modo consapevole, definitivo e totale, le distanze dall’Islam come religione, ma al tempo stesso ero e resto fermamente

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È stato come se in quelle straordinarie tre ore della sera del 22 marzo si azzerassero 56 anni vissuti da musulmano e comincias-se una nuova vita in Cristo, con la necessità di muovere i primi passi come un bambino per imparare sempre di più, per essere sempre più aderenti al messaggio di Cristo. Il fatto poi che tutto ciò sia avvenuto da parte del Vicario di Cristo sulla terra, Papa Benedetto XVI, ha creato in me una tensione emotiva e una gio-ia interiore che mi hanno completamente fatto perdere, come dire, quello che è un equilibrio, un sano equilibrio interiore, al punto che mi sono reso conto che senza la guida del cerimoniere difficilmente avrei ricordato persino i passi che dovevo fare, non soltanto le frasi che dovevo pronunciare. L’emozione e lo smarri-mento dentro di me erano veramente totali.

Tornando al libro tu, tra l’altro, scrivi: “Grazie Gesù, è il punto di approdo, ma è anche il punto di inizio, è come se fosse una rinascita”. E ancora: “E’ stato il giorno più bello della mia vita. Ricevere il dono della fede cristiana nella ricorrenza della Resurrezione di Cristo per mano del Santo Padre è un privilegio ineguagliabile e un bene inestimabile”. Volevo chiederti se vuoi raccontare questa esperienza così personale ai nostri ascoltatori.

In “Grazie Gesù” c’è un’ulteriore particolarità: tutti quelli che hanno in mano il libro possono accorgersene immediatamente, alla fine ci sono i ringraziamenti, ci sono alcune lettere che Magdi Cristiano ha ricevuto dopo la notte di Pasqua. Ti chiedo la ragio-ne di questa scelta editoriale.

convinto che con i musulmani come persone, e le persone non sono mai la trasposizione automatica e acritica dei dogmi della fede, si debba dialogare, si debba costruire insieme, partendo dal rispetto comune di valori e di regole inviolabili.

Ho voluto chiarire ai miei lettori, all’opinione pubblica, che la stragrande maggioranza delle reazioni che ho ricevuto per il mio Battesimo, impartito dal Papa, sono state estremamente positi-ve. La stragrande maggioranza delle persone ha condiviso la mia gioia e io ho voluto offrire semplicemente un assaggio di que-ste reazioni, perché sono state tantissime e da sole avrebbero richiesto la pubblicazione di un altro libro. Così come ho voluto ringraziare personalmente, citandole una ad una, le circa 1200 persone che, aderendo all’associazione “Amici di Magdi Cristiano

(Fabio)

(Magdi)

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Allam”, hanno voluto esprimere affetto, vicinanza e solidarietà e condivisione di valori comuni e mi auguro anche disponibilità a percorrere un cammino che porti ad una riforma etica di un in-sieme che parte dalla persona, dalla famiglia, dalla società, dalle istituzioni e dallo Stato, affinché prevalga il senso del bene comu-ne e dell’interesse della collettività.

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SCOUT AGGS VARESE:

UNA PASSIONE EDUCATIVA

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SCOUT AGGS VARESE:

UNA PASSIONE EDUCATIVA

Patrizia ReggioriStefano De Palma

25 maggio 2008

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Il movimento dell’AGGS nasce attraverso l’unione tra il gruppo delle ragazze, coccinelle e guide, e un primo gruppo di ragazzini. Nel 1978 nasce il gruppo guide e scout Varese 2 che poi diven-terà AGGS, e si formalizzerà in questa associazione. In realtà la storia è più antica e risale ai primi anni ’70. Questa associazione si attacca a un pezzo di storia che era già cominciata e che vede come protagonista don Giulio Greco, che allora era uno dei sa-cerdoti della parrocchia di San Vittore. A lui era stato affidato il compito di seguire l’AGI e l’ASCI, movimento scout già esistente a Varese da tempo. A un certo punto, nel ’72, don Giulio aveva de-ciso di continuare l’esperienza degli scout secondo una modalità diversa da quella tradizionale.

Una proposta educativa che non è nata tanto da un’idea di edu-cazione, ma da un’esperienza. Lo scoutismo non ha in sé la forza e il valore educativo globale. Lo scoutismo è come un contenito-re. Don Giulio diceva che la Chiesa è l’unico soggetto veramente in grado di educare, perché la Chiesa è la riproposta di un senso e di un significato alla vita che vale sempre e comunque in qualsiasi circostanza, un significato su cui tu puoi costruire la tua esistenza personale, familiare, di popolo. Da questo punto di vista lo scou-tismo è una forma geniale di vita, che va benissimo a una certa età che è quella delle scuole elementari e medie e dell’inizio del-le superiori. Don Giulio decise dunque di continuare l’esperienza dello scoutismo nella sua forma, che è geniale perché forma di bellezza, di gusto della vita, di valorizzazione delle proprie capa-cità umane, di contatto con la natura, di apertura alla realtà vera-mente coinvolgente, riempiendola di un contenuto educativo.

Siamo con Stefano De Palma e Patrizia Reggiori, voce storica degli Scout Aggs che sono presenti a Varese da trent’anni. Oggi sono cinquecento ragazzi divisi in diversi gruppi. Si parte dai bambini, coccinelle e lupetti, mentre scout e guide sono più grandi. Patrizia, visto che sei la voce storica, vale la pena ricordare cosa è successo da trent’anni a questa parte. Come è nato il movimento dell’AGGS, e soprattutto come si è sviluppato?

Una modalità educativa diversa, in cui ha poi coinvolto tantissime perso-ne.

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Questo metodo educativo è la risposta alla domanda: chi educa me? Chi conduce me alla riscoperta della vita?

Si rimane, se si vuole rimanere. Tanti ragazzi che hanno fatto questo percorso, tornano con il desiderio di fare i capi e di co-minciare a vivere questa responsabilità insieme a noi, in questo modo si conferisce continuità alla storia. Però la questione fon-damentale è tenere aperta la domanda della vita su che cosa e su chi veramente educa.

Quando noi stiamo con i ragazzi abbiamo sempre alcune riunioni tra noi capi e persone adulte che ci seguono, ci aiutano nella re-sponsabilità. Cerchiamo sempre di richiamarci al motivo per cui li facciamo giocare insieme, perché li facciamo pregare, perché cantiamo insieme o raccontiamo loro una storia. Niente è lascia-to al caso. E quando questo succede, c’è sempre qualcuno che ti richiama, che ti corregge.

Sì, il campo è il centro per quanto riguarda la loro esperienza per-sonale. È una settimana in cui vivono insieme, in cui l’esperienza di condivisione è massima. Il nostro ruolo è guidarli in questo.Sono divisi in piccoli gruppi da sei per quanto riguarda i lupetti. Anche questo fatto anche dal punto di vista educativo è incredi-bile. Si vive spalla a spalla con i tuoi amici, con la tua squadra. Ci sono giochi che danno punti e alla fine c’è un gruppo vincitore del campo. I ragazzi sono i primi a voler fare le cose bene e a vivere il campo insieme. Per aiutare in questo ci sono i bivacchi la sera, siamo in Svizzera, non ci sono comodità, siamo in mezzo ai boschi.

Questo metodo educativo vale per i bambini, ma anche per tutti voi adulti che li seguite.

È evidente che se il progetto è questo, prima si diventa lupetto, poi scout, e poi in questa storia si rimane, si diventa capo e si continua questa espe-rienza.

Stefano, tu devi fare i conti con Patrizia e con quello che vi dice.

Nel corso dell’anno, il campo estivo diventa il clou dell’esperienza. Anche qui c’è una proposta particolare per i ragazzi?

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Nel ‘78 alcuni genitori delle guide, vedendo la bellezza dell’espe-rienza, hanno cominciato a chiedersi come mai questa proposta non potesse essere vissuta anche dai loro figli maschi. In quel periodo c’era don Luigi Balconi, anche lui prete della parrocchia di San Vittore, a cui questi genitori hanno proposto di diventare assistente del nascente ramo maschile. Insieme con don Luigi, il primo giovane che ha cominciato questo cammino è stato Lan-franco Ferrazzi, che oggi è il responsabile ultimo dell’esperienza dell’AGGS. Per noi Lanfranco è sicuramente il punto di continuità di questi trent’anni, perché partendo come capo dei lupetti di allora e come scout ha sempre servito e dedicato la sua ener-gia, la sua intelligenza e la sua creatività a far sì che la passione educativa che aveva incontrato e che aveva vissuto sulla sua pel-le diventasse una possibilità per tantissimi ragazzi di Varese. In questo certamente aiutato e sostenuto da un’amicizia grande a cui lui partecipa e da persone come me, Maria Gandolla, Elena Petroni e da molti altri che nel tempo sono stati incontrati e con cui si condivide questa autentica passione educativa. Il desiderio di educare nasce da un’esperienza ecclesiale che dà gusto alla vita, e che hai voglia di comunicare a tutti, a quel pezzo di mondo che hai vicino.

Non vorrei ripetermi, ma vi racconto un episodio: ieri siamo an-dati a incontrare don Giulio, perché volevamo fargli qualche do-manda. Noi avevamo deciso di porre come titolo della festa del trentennale “Un’instancabile passione educativa”. Lui ha detto: “No; instancabile è un termine sbagliatissimo perché presuppo-ne che uno si possa stancare, e questo non è possibile”. Perciò il titolo è diventato “Un’autentica passione educativa”. Perché non ci si può stancare se non ci si stacca dalla sorgente e finché il Padre Eterno darà alla nostra libertà questa possibilità. Ci sono momenti, per carità, in cui si è più deboli, più fragili, meno chiari, ma siccome è un’esperienza che modella la nostra vita, la nostra persona, che dà sostanza e significato alla nostra persona è ine-sauribile perché è data. E mi ha colpito molto don Giulio, quando ha reagito di fronte a questa parola “instancabile”, dicendo che

Patrizia, nel ‘78 è avvenuta una svolta ...

Parlando di un’esperienza di questo genere, si dice sempre che i numeri sono importanti ed è vero perché cinquecento ragazzi, sessanta respon-sabili, che li seguono, più la fedeltà degli adulti, è una storia grande che cammina e va avanti.

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Durante la festa per i trent’anni, ci sarà anche un momento di parola? Di racconto di questa storia?

era riduttivo. Se non ti stacchi da ciò che continuamente ti fa, è un Altro che ti dà le energie ed è una comunione reale concreta vissuta, che sostiene il cammino di tutti dando continuamente gusto e voglia di incontrare, di esserci, di dare a questi ragazzi quello che oggi è vero per noi, non quello che è stato, ma quello che oggi sostiene la nostra vita. Ed è entusiasmante, da questo punto di vista, capire che il cuore dell’uomo è fatto per l’infinito, è fatto per la grandezza totale, è richiesto un significato totale a sette anni, a quindici, a venti, a cinquanta, e capire che realmen-te non c’è differenza, non c’è possibilità di ridursi, cioè io non posso guardare il capo che è con me, o il bambino senza capire che in lui c’è lo stesso desiderio di significato che ho io. E questo senza soluzioni di continuità.

Sì, dopo la messa ci sarà una testimonianza di Lanfranco Ferraz-zi.Un’ultima cosa: noi abbiamo deciso di fare questa festa, e di far-la in qualche modo pubblica, per la città perché è evidente che non si può non ringraziare dell’abbondanza di cui siamo stati fat-ti oggetto in tutti questi anni. L’abbiamo voluta in questo modo proprio perché fosse un invito a tutti quelli che stanno facendo questa esperienza in questo momento, ma particolarmente un invito a tutti quelli che nella città di Varese in qualche modo sono entrati in contatto con la nostra storia, e credo che siano tan-tissimi, qualcuno che è rimasto un anno, sei mesi, o anni e anni e poi ci si è persi di vista. Un invito che non vuole essere tanto l’invito nostalgico ma la riproposta di un’esperienza che, proprio perché legata alla Chiesa e quindi al significato totale della vita, veramente può continuare nel tempo, anche se evidentemente le forme cambiano. La festa vuole essere questa proposta perché l’educazione oggi è per noi una questione così seria da desiderare con tutto il cuore, come adulti e genitori, ciò che può sostenere la speranza nostra e dei nostri figli, ciò che può permettere l’in-contro con una bellezza, con un gusto per la vita, con la risposta alla domanda del nostro cuore.

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16 luglio 2008Felice Achilli

IN QUELLA CLINICA

DI LECCO

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Fondamentalmente per due ragioni. La prima è che quello che è successo è un avvenimento assolutamente importante e decisivo per chi fa il medico. Perché è la prima volta che una sentenza, quindi un atto di legge, entra nella dinamica, tutta assolutamente relazionale, che c’è nell’esperienza dell’assistenza e della cura fra malato e medico: pretendendo di dire e di dettagliare il compor-tamento della medicina. Questa è la prima ragione. La seconda ragione è che ci sembrava esistesse una grande confusione. Elua-na Englaro non ha un quadro di coma, ma ha uno stato vegetati-vo persistente, che è una cosa diversa. Eluana Englaro si sveglia, cioè ha il sonno-veglia, il ritmo sonno-veglia, in qualche modo vede, in qualche modo probabilmente sente o comunque muove gli occhi, ha dei movimenti, ha delle espressioni. Questo non è coma. La prognosi di questi pazienti è una prognosi diversissima da quella del coma, soprattutto nei post-traumatici. Eluana En-glaro non è attaccata a tubi, non bisogna staccare alcuna spina, è semplicemente una paziente sulla cui condizione di coscienza nessuno può dire nulla; è una donna che ha bisogno di essere alimentata e idratata né più né meno di moltissimi altri pazienti. Possiamo dire poco sulla sua capacità di coscienza e di relazione. Penso ai malati con un Alzheimer grave, penso ai malati che han-no avuto un ictus importante e che dipendono da chi li assiste. Ora, che la magistratura entri in merito dicendo quello che ha detto sul caso Englaro, è cosa di una gravità assoluta.

Assolutamente sì, nel senso che l’alimentazione e l’idratazione non costituiscono un atto medico, tant’è che di solito vengono praticate da tutti, dai familiari, dagli infermieri. Ma l’alimenta-zione e l’idratazione, come la detersione delle piaghe, non sono un atto medico e non sono una terapia. Ora, uno dei punti di maggiore discussione è esattamente questo, cioè se alimentare e idratare un paziente costituisca un atto medico, una terapia. Non lo è, evidentemente. Lo stesso Comitato nazionale di Bioetica lo ha affermato nel 2005. L’altro aspetto è che la sentenza si occupa

Pochi giorni dopo l’annuncio della sentenza della magistratura riguar-dante Eluana Englaro è uscito un vostro comunicato. Perché Medicina e Persona ha pensato di reagire subito su questo argomento?

Questo è il primo problema: una decisione in cui non dovrebbe entrare la magistratura. In questo caso non si può parlare di accanimento terapeuti-co, mi pare di capire, ma alla fine si arriva invece a parlare di eutanasia.

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di ricostruire la volontà della ragazza in base ad alcune testimo-nianze, alcune frasi: ma è evidente che questo non coincide con la modalità con cui si può riconoscere la disponibilità della per-sona a decidere della propria vita e anche della propria morte. Ci sono forzature drammatiche, ma soprattutto c’è l’idea che la legge debba prevalere sull’assistenza, sulla carità, sull’amore, La cosa più impressionante di questa settimana è la testimonian-za delle persone che assistono Eluana e che hanno con lei un rapporto affettivo, tant’è che hanno chiesto che venga lasciata a loro per essere assistita. Abbiamo a che fare con un’imposta-zione antropologica che afferma la vita come un proprio bene disponibile, di cui si deve poter decidere tutto. È una posizione assolutamente astratta, ideologica. Pensate a cosa può succede-re quando sei in sala operatoria per un intervento chirurgico e si verifica una complicazione. In quel momento tu non decidi nulla, ti affidi alla competenza, alla passione, alla dedizione di un altro uomo che ti assiste. Questo fa parte della natura della medicina ed è questa sua stessa natura che è messa in discussione dalla sentenza.

Voi avete pensato di organizzare un incontro proprio a lecco sul mistero della vita e sul miracolo dell’accoglienza. Un incontro pubblico con Clau-dia Mazzuccato, ricercatrice di Diritto penale dell’Università Cattolica di Milano e con Giancarlo Cesana. Che cosa è emerso?

Sono emersi due ordini di considerazioni. Innanzitutto questa idea forzata della vita come bene disponibile, come un diritto, come una proprietà. Questa idea del disporre di sé che implica, dal punto di vista giuridico e dal punto di vista medico, conse-guenze catastrofiche. Un’impostazione che praticamente tra-sforma qualsiasi atto medico in un atto potenzialmente illecito, a meno che vi sia il passaggio del consenso informato.La medicina è una pratica che certamente ha bisogno del con-senso informato, ma dentro un contesto di certezza in cui il me-dico e il paziente hanno una specie di alleanza terapeutica, sono insieme per un bene che devono costruire.Questa impostazione invece, che fa diventare la vita un proprio bene disponibile, in qualche modo burocratizzando il rapporto medico-paziente, separandone gli attori, tenendoli distanti quasi si guardassero con sospetto, rischia di avere delle implicazioni notevolissime per quanto riguarda la pratica medica.Penso poi che la cosa emersa in modo impressionante nell’incon-tro con Giancarlo Cesana e Claudia Mazzuccato è che la vita di questa ragazza, che rimane un mistero, e la sofferenza del-la famiglia, che rimane un mistero, e la sofferenza di chi l’ha

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conosciuta, che rimane un mistero, non sono però senza signifi-cato. In qualche modo bisogna riconoscere che questa presenza silenziosa è un fortissimo richiamo a quale sia il significato della vita: a domandarsi cos’è che tiene su la vita. Ieri veniva fatto il fa-moso esempio evangelico, appunto, del cieco nato che incontra Gesù e a cui viene posta la domanda: di chi era la colpa, se aves-se peccato lui o i suoi genitori. E in quel passo c’è la prima do-cumentazione storica da cui nasce la medicina occidentale, cioè l’idea che la vita è più forte della morte e della malattia, e che la malattia è come una condizione misteriosa - come una testimo-nianza. Paradossalmente, da quell’episodio del Vangelo in poi il limite umano non ha più la meglio sulla positività della vita: il limite può essere vinto, accolto e, misteriosamente, dentro que-sta accoglienza, provocare tutti sul vero significato del vivere.Ieri sera è emersa una domanda autentica: su quale sia il signifi-cato della vita nostra, e sulla responsabilità cui siamo chiamati. Ci siamo chiesti se vogliamo costruire una società che accoglie il livello di vita di Eluana e di altri malati perché lo ritiene misterio-samente indispensabile per vivere, o se invece tendiamo a elimi-narlo. Perché, appunto, la presenza di un handicap, di un limite, di una malattia grave o sono un mistero da accogliere, oppure diventano un problema da eliminare. Io penso che noi siamo a questo bivio, e per questo la vicenda di questa ragazza tocca così profondamente tutti.

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UN’OLIMPIADE DA SCOPRIRE

Roberto Bof22 settembre 2008

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È vero. Ci sono state poche notizie da Pechino sui giornali e in Tv, anche se Rai sport ha prodotto molte ore di trasmissione. Pur-troppo, però, il fuso orario ha penalizzato il grande lavoro del mio amico Lorenzo Roato. Internet ha consentito di seguire mol-tissimo le Paraolimpiadi, ma è ancora un mezzo circoscritto a una determinata fascia d’età della popolazione. Diciamo che la sfida adesso è fare capire alle grandi testate giornalistiche che non esi-ste solo Pistorius, ma che c’è un movimento diffuso e importante a livello sportivo e sociale.

In una prossima serata, che sarà dedicata agli atleti reduci dalle Paraolimpiadi.

Un’esperienza irripetibile, vuoi per lo scenario dove si è sviluppa-ta, vuoi perché ho vissuto davvero con lo zainetto, senza privile-gi, senza auto sulla famosa corsia olimpica. È stata un’esperien-za fantastica e ho cementato ancor di più l’amicizia con questi ragazzi, soprattutto quelli del canottaggio e del ciclismo che ho seguito con più intensità perché sono “targati” Varese. Ripeto: un’esperienza fantastica con tantissime storie da raccontare al di là delle medaglie. Io non ricordo tutte le medaglie, ma ci sono vicende umane bellissime su e giù dal podio. Ad esempio la set-tima posizione di Silvana Vici. Nel 2002 questa ragazza era in un letto di ospedale, ritenuta inguaribile dai medici. Invece ha ga-reggiato, ha corso con la maglia dell’Italia. Una storia veramente fantastica. Da far conoscere.

Roberto Bof, giornalista varesino, è uomo ricercatissimo per il suo viag-gio a Pechino, città dove ha seguito le Paraolimpiadi, una manifestazione importante, alla quale è stata tuttavia riservata scarsa attenzione da parte dei media.

Quando racconterai queste storie ai varesini?

Io volevo chiederti che esperienza hai fatto in queste giornate.

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Dall’ufficio stampa perché faccio parte del comitato organizzato-re e avrò l’incarico di occuparmi dei media. Sarà la prima volta, dopo sei anni in cui ho girato l’Europa, per imparare che cosa c’è dietro un Mondiale. Più che l’aspetto tecnico, mi interessava l’aspetto organizzativo. Sarà sicuramente una settimana intensa. È un grande evento. Varese deve partecipare, è un’occasione da non perdere. Molti hanno lavorato senza risparmiarsi in questi anni, rubando il tempo alla famiglia e sacrificando ore di sonno. Un mondiale è un’organizzazione mastodontica e incredibilmen-te complicata. Ma Varese saprà essere all’altezza della sfida.

Avremo la grande possibilità di ascoltare queste testimonianze e anco-ra una volta vedremo trasparire una grande amicizia che dura da tempo. Adesso cambiamo argomento e parliamo dei Mondiali di ciclismo a Varese. Come li vivrai?

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9 ottobre 2008Marina Corradi

CONTRO L’ASSEDIO DEL NULLA

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Mi verrebbe da risponderti con le parole dell’arcivescovo di Bologna, cardinale Caffarra, che torna spesso sull’argomento dell’emergenza educativa. Sono andata recentemente a intervi-starlo e alla stessa domanda che tu poni Caffarra ha risposto: “Ciò che manca è l’autorevolezza dei padri”. Intendendo per au-torevolezza il fatto che un padre abbia un’idea sulla realtà che ha accertato nella sua vita, e che presenta al figlio come ipotesi da verificare. Il padre cioè dice: “Io credo in questo, te lo propongo, prova”. Libero il figlio, poi, di negare e rifiutare. Però se non c’è un’ipotesi di partenza, c’è solo un nulla, o il puro relativismo. Che sembra una parola grossa, ma è esperienza quotidiana, è il dire al figlio: “ Vedi tu, scegli tu, sei libero”. Senza dargli alcuna lettura, alcuna chiave della realtà. E condivido ciò che dice Caffarra: così si va verso un nulla. A un bambino invece devi dire: “Questo per me è buono e vero, e questo non lo è”. Se dici: “Sceglierà lui” in realtà non lo porti verso la libertà, ma verso la disgregazione”.

Credo che il problema dell’educazione, che la Chiesa denuncia da anni - da Giussani, a Caffarra, al Papa - sia oggi la più grave emer-genza di questo paese. Mi ha colpito positivamente il fatto che Napolitano, che è un uomo che proviene da tutt’altra storia, ab-bia usato – può sembrare una sottigliezza – l’identica espressio-ne che la Chiesa ha usato per prima, “emergenza educativa”. È un segno questa convergenza al Quirinale, e d’altra parte è un segno mosso anche da cronache che si ripetono ormai costantemente. Per esempio il recente fatto di Roma, del giovane cinese malme-nato senza ragione da dei ragazzini, secondo me ha una chiave di lettura anteriore al razzismo. Voglio dire, quei ragazzi avrebbero

Marina, oggi vorrei affrontare con te il tema dell’emergenza educativa. Proprio due giorni fa hai scritto, guardando alla recente visita del Papa al Quirinale, del simmetrico sguardo dei due ottantenni Ratzinger e Na-politano sulle giovani generazioni. leggo un passo del tuo articolo, che poi commentiamo: “la convergenza fra il Presidente della Repubblica e Benedetto XVI al Quirinale sull’emergenza educativa in Italia è un fatto che non dovrebbe finire dimenticato nella massa delle tante nostre parole quotidiane”. E ancora: “Al Quirinale due ottantenni, provenienti da fronti diversi della storia, si sono trovati concordi nel dire che a molti figli qual-cosa di fondamentale manca”. Ecco, io partirei da qui: cosa di fondamen-tale manca?

Certamente verso una grande confusione.

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Le cronache ci dicono che quasi ogni giorno c’è una di queste sto-rie, uno stupro collettivo, botte contro un handicappato, vandali-smi: e magari poi molte storie non vengono fuori, perché spesso la loro gravità oggettiva non è così terribile, e sembrano solo bra-vate. Tanti, poi, non finiscono affatto sui giornali, sono bravi ra-gazzi che non fanno male a nessuno. Ma se parli con gli insegnan-ti, ti dicono: “Sì, non fanno male a nessuno: però non sanno dove vanno, non capiscono in che direzione andare”. E quindi temo che il fenomeno dell’emergenza educativa sia ampio, e riguardi magari anche molti nostri figli, figli magari di borghesi, appunto bravi ragazzi che non fanno nulla di male. Però il problema nella vita non è non fare nulla di male, è fare qualcosa di bene.

Tu scrivi: “Troppi ragazzi, cui non manca niente, ma con il nulla nel cuore”.

André Glucksmann sul Giornale ha scritto: “la sfida al nichilismo – che è poi la sfida al relativismo– è la più vasta, la più profonda, la più intima delle prove contemporanee. Occorre – scrive – fare e dar voce ai diffidenti del nichilismo”- che mi sembra una frase bellissima.

potuto indifferentemente prendersela con un clochard, con un drogato, con una prostituta. Sì, può essere che poi nasca anche il razzismo, ma in fondo la vera ragione di queste aggressioni è il nulla. In fondo dei ragazzi di modesta famiglia, che però immagi-no avessero tutti i loro telefonini, i loro jeans firmati, non sapen-do che diavolo fare di una sera noiosa hanno preso a schiaffi un qualunque povero cristo.

Glucksmann è un intellettuale molto avvertito sul nichilismo, sulla sfida del nichilismo. Lo ho intervistato per Avvenire, sicu-ramente non è un cattolico né un credente, quindi fa ancora più piacere che individui e condivida il senso del discorso che ha fat-to il Papa a Parigi: quel possente “quaeremus Deum”, “cerchiamo Dio”, rivolto alla intellighentia francese. Pare di ascoltare in quel discorso, e nella reazione di un laico come Glucksmann, quasi un principio di rivolta contro il relativismo e il nichilismo. Il di-scorso del Papa in Francia, e anche la risposta di Sarkozy, che i nostri giornali non hanno sottolineato molto, mi sembrano quasi fatti storici. Nel senso che in un paese come la Francia, laicista più che laico, e che ha una legge che all’inizio del secolo scorso ha quasi fatto fuori la Chiesa dalla presenza pubblica, il Papa ha

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Credo che sia importante riuscire a capire che l’emergenza educativa è una questione profonda che deve stare a cuore a tutti; e cominciare a fare una barriera, come dicevi. Occorre dire che questa è la cosa più grave nel nostro paese, perché è da qui che nascono poi i nostri mali. Capendolo, forse si può cominciare a ragionare.

Almeno ammetterla.

Per cominciare, occorre ammettere questa emergenza.

Ammetterla, perché anche da tanti buoni cattolici quando parli di questi argomenti spesso la reazione è: “Ah, ma via, ma sono pochi casi, gli altri sono bravi ragazzi”. Per carità, certo che sono bravi ragazzi, anche io spero che i miei figli, il maggiore ha quin-dici anni, siano bravi ragazzi. Però a me non basta che i miei figli siano bravi ragazzi che “non fanno nulla di male”: io vorrei che avessero una speranza, una voglia di costruire, una voglia di cre-scere, di avere figli, di continuare la storia. È questo il punto, non basta non fare nulla di male. Ecco, finché si dice: “Ma in fondo sono pochi, non drammatizziamo”, senza capire l’ampiezza del vuoto educativo, temo che continuiamo a non voler vedere la realtà”.

detto: “Noi non vogliamo prevaricare, ma solo ricordarvi che la forma mentis cristiana, basata sull’antico “quaeremus Deum” dei monaci, ha salvato la nostra civiltà”. E Sarkozy da parte sua ha risposto proponendo una nuova laicità, che accolga positivamen-te qualsiasi istanza, anche cristiana, che si proponga di cercare un disegno buono della vita. E questo mi sembra molti anni luce avanti rispetto a certo laicismo nostro, in stile Università La Sa-pienza. Cioè sembrerebbe il germe, volendo essere ottimisti, di un formarsi di un fronte non solo cristiano, ma di uomini di buo-na volontà che si accorgono che a una generazione qualcosa è mancato. Che è quello che Mario Luzi, il poeta, intuiva già diversi anni fa, l’aveva detto anche a me in un’intervista a Firenze. Luzi aveva scritto una poesia che diceva dei figli: “Che cosa non ricor-dano? Che cosa non sanno?”. Individuando, da poeta, quell’anel-lo mancante fra le generazioni”.

Mons. Massimo Camisasca

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15 ottobre 2008

DIO CHIAMA ANCORA

Mons. Massimo Camisasca

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Eravamo un gruppo di sei sacerdoti, all’inizio, nel 1985, che per ragioni diverse ci si siamo trovati a Roma e abbiamo detto: per-ché non dare la nostra disponibilità alla Chiesa per formare un Istituto missionario secondo il carisma che aveva mosso le nostre vocazioni, il carisma di Comunione e Liberazione? Tutti venivamo dal movimento, tutti avevamo sentito una chiamata al sacerdo-zio e tutti, chi più chi meno, avevamo il desiderio di vivere questa vocazione, secondo gli orizzonti del mondo e di tutta la Chiesa. E così andammo dal cardinale Poletti che allora era il cardinale vicario e gli chiedemmo di fondare un’associazione. All’inizio si trattava semplicemente di un’associazione, il primo gradino ca-nonico previsto dalla Chiesa, poi a poco a poco diventammo un vero e proprio Istituto missionario, riconosciuto nel 1999 come Società di vita apostolica di diritto pontificio. Ma, al di là delle parole, che cosa siamo? Siamo una realtà di sacerdoti, oggi poco più di cento, che entrano in questo Istituto, primo per essere educati da giovani al sacerdozio, secondo un orizzonte totale. C’è, infatti, un’educazione che parte proprio da tutti gli aspetti della personalità: educazione alla conoscenza, educazione affet-tiva, educazione allo studio, educazione al lavoro, educazione a vivere assieme agli altri, questo ovviamente dentro lo scopo di diventare sacerdoti. Viene richiesta in secondo luogo una dispo-nibilità missionaria: andare dovunque capiterà di essere manda-ti, certo non per estrazione, ma tenendo conto della sensibilità, della storia, delle doti di ciascuno e in terzo luogo la disponibilità a vivere assieme ad altri, perché noi, nel mondo, formiamo delle case, delle piccole case di tre sacerdoti, qualche volta anche case più grandi, di sei, sette a seconda delle possibilità.

E siamo arrivati all’appuntamento con l’ospite. Un ospite particolarmente significativo e importante: Monsignor Massimo Camisasca.Grazie davvero di essere con noi. Volevamo iniziare la nostra chiacchierata partendo proprio dalla Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo, fondata nel 1985 da lei, e che conta più di cento sacerdoti, più di trenta seminaristi ed è presente in una ventina di nazioni, quindi con lo scopo precipuo di essere missionaria.

Quindi i giovani quando vengono da voi sanno già che comunque andran-no per il mondo. Anche durante il corso di studi vengono inviati all’este-ro?

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Nel percorso ci sono numerose occasioni di verifica.

Sì, il nostro itinerario si compone adesso di due anni di studi fi-losofici, che avvengono a Roma. Non abbiamo una nostra uni-versità, gli studenti frequentano le università pontificie. Dopo il secondo anno di studi filosofici, abbiamo previsto un anno di vita all’estero in una delle nostre case, per varie ragioni: in primo luogo, per vedere se realmente la persona ha una disponibilità effettiva, non solo intenzionale, a vivere lontano dall’Italia, lon-tano dalla propria casa, lontano dai propri amici, se ha una capa-cità minima di inserimento in una situazione diversa, di appren-dimento di lingue, che in taluni casi possono essere anche più semplici, come lo spagnolo o l’inglese, oppure molto più com-plesse come il russo o il cinese. Dopo questo, seguono tre anni di teologia. È un percorso di sei anni, fino all’ordinazione diaconale e di sette, fino all’ordinazione sacerdotale. L’anno di diaconato generalmente avviene in una nostra casa all’estero.

Sì, molte. Anche per quanto riguarda lo studio. In genere lo studio è possibile per tutti, devo dire che in ventitre anni non mi è mai capitato di dimettere una persona a causa dello studio, invece ci sono verifiche ben più severe e ben più importanti, dal punto di vista dell’adattamento a questa vita, della capacità di vivere con gli altri e, alla fine, più profondamente ancora, del discernimento della vocazione stessa: perché non è detto che una persona che intuisce questa come strada possibile per sé, poi realmente sia chiamata ad essa.

Monsignor Camisasca, se mi permette, vorrei farle due domande in una. la prima è questa: quando si parte in sei, è possibile prevedere di avere frutti di questo genere? E ancora: è così vera la crisi delle vocazioni nei giovani?

Per quanto riguarda la prima domanda, io non ho mai pensa-to niente, non ho mai pensato che saremmo diventati né sedici, né sessanta, né seicento. Ho sempre vissuto giorno per giorno, certamente non disattento alle prospettive dell’Istituto, perché si deve sempre guardare avanti, però senza preoccuparmi dei numeri, assolutamente. Per quanto riguarda la crisi delle voca-zioni sacerdotali, certamente le ragioni sono molte, però io riten-go che Dio chiami sempre e chiami abbondantemente. Si tratta di un problema che vive nelle famiglie: ormai la maggior parte

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l’educazione è per noi una questione molto importante. Abbiamo avu-to la fortuna di ospitare in radio, Marina Corradi, che ha scritto il libro, “Innanzitutto uomini”, che parla di ragazzi che frequentano la vostra Fra-ternità sacerdotale. Questi ragazzi hanno colpito Marina Corradi proprio per questa passione educativa, per questa passione alla vita, mentre noi continuiamo a parlare di emergenza educativa.

Prima di tutto c’è il grande terreno educativo che ci precede, che è il terreno educativo del Movimento. Queste persone vengo-no già da un’esperienza molto viva, molto efficace, molto forte di rinnovamento della loro vita, poi, quando arrivano da noi si tratta di iniziare un nuovo tratto educativo. Le preoccupazioni e le attenzioni che io ho sono queste: primo, per educare bisogna accogliere e quindi bisogna ascoltare, quindi bisogna mettere a disposizione molto tempo per conoscere chi si ha davanti, per comprendere la sua storia; poi, in secondo luogo, bisogna impli-carsi con lui, implicarsi anche affettivamente, bisogna far sentire che si è un padre per questa persona, senza sostituire la pater-nità carnale, senza sostituire la paternità di Dio. E poi bisogna correre con lui questo rischio, questa avventura. Queste persone imparano a loro volta a diventare padri per gli altri proprio facen-do l’esperienza di essere figli.

delle famiglie ha un figlio solo e i genitori sono poco disposti a cederlo per questa vocazione. In secondo luogo la crisi delle fa-miglie genera molta insicurezza nei ragazzi e quindi anche poca disponibilità a una vocazione così ampia, così aperta e anche così complessa come è la vocazione sacerdotale. Poi direi che è anche una crisi delle nostre comunità, perché uno diventa sacerdote o inizia questa strada se vede davanti a sé delle figure affascinanti, e oggi forse queste figure affascinanti sono meno numerose di un tempo. Inoltre, il sacerdote è anche più lontano dalla gente, perché, essendo meno numerosi, si sono dovute restringere in comunità che hanno responsabilità più vaste e quindi si è ridot-to il contatto con le persone; dunque tante sono le ragioni. Io ritengo però che Dio chiama sempre, che Dio chiama molti e, se c’è una disponibilità delle famiglie e della comunità, le vocazioni sacerdotali ci sono. Certamente è più difficile oggi condurre ver-so il sacerdozio, siamo in presenza di personalità più deboli e qui arriviamo all’altra questione, quella dell’educazione.

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È fondamentale per un ragazzo incontrare sulla sua strada un maestro.

Quindi l’incontro è fondamentale.

Io approfitto ancora un poco del tempo di monsignor Camisasca per porre un’altra questione. Il vostro orizzonte è il mondo, mentre da noi la quoti-dianità propone continui episodi di divisione, intolleranza, razzismo.

Assolutamente. Posso dire che fra le persone che ho con-dotto al sacerdozio e che ho dimesso, circa duecentocin-quanta, trecento giovani che ho accostato a fondo, ebbene l’ottanta, novanta per cento delle vocazioni hanno alla loro origine una grande figura sacerdotale.

È fondamentale avere davanti persone da cui ci si sente amati e che hanno in sé un’attrattiva, perché si vede in loro un’umanità compiuta, realizzata, affascinante.

Innanzitutto bisogna dire con molta chiarezza che il razzismo è l’opposto del cristianesimo: Dio ha creato tutti gli uomini, Cri-sto è venuto per salvare tutti. In questa nuova nascita, in questo nuovo popolo, lo dice con molta chiarezza San Paolo, non esiste né greco, né barbaro e quindi tutti sono figli di Dio e tutti sono chiamati alla salvezza. Però questa affermazione deve passare attraverso un’educazione delle persone. Penso che le respon-sabilità più gravi siano delle famiglie e della scuola, cioè non si improvvisa l’accoglienza dell’altro: occorre che la persona venga aiutata a comprendere che nell’altro c’è una parte di se stesso e che quindi è vantaggioso il rapporto con l’altro. Sto parlando, ovviamente, da un punto di vista educativo ed umano.

Quindi solo se siamo radicati nelle nostre origini possiamo confrontarci e parlare con tutti.

D’altra parte la storia è una prova di questo: il cristianesimo ha saputo portare dentro di sé, prima il mondo greco, poi il mondo germanico e tanti altri mondi proprio in ragione di questa forte identità e non ha avuto paura di questi incontri. Quando invece si ha una perdita di identità, allora cominciano le guerre e purtrop-po la storia recente dell’Europa ne è una dimostrazione.

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11 novembre 2008

Suor Marcella Catozza

HAITI, CRISTO FRA LE BARACCHE

Marco Salvini

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Suor Marcella, da quanti anni lei è ad Haiti?

Nove anni in Albania.

E anche lì devi avere visto una distruzione umana notevole.

Non c’è speranza nella popolazione?

Ad Haiti due anni e mezzo. Cinque in Amazzonia prima e nove in Albania quindi vent’anni che sono in giro per il mondo.

Sì. Però la differenza con Haiti è che già allora in Albania, e anco-ra di più adesso, si percepiva una speranza. Ad Haiti quello che colpisce invece è l’estrema disperazione che questa gente vive, legata proprio alla drammaticità della condizione storica, sociale, economica, che Haiti attraversa come conseguenza di una storia disastrosa.

Tanti mi chiedono: “Ma che speranza c’è? Ma perché siete qui? Perché restate? Perché non andare, invece, a investire risorse umane ed economiche in posti dove si può costruire qualcosa?” Perché effettivamente oggi ad Haiti non si può costruire. Ci sono, è vero, associazioni che in venti o trent’anni che hanno costruito qui delle opere, e che le stanno gestendo benissimo. Arrivare, però, oggi ad Haiti significa incontrare un contesto tale di dispe-razione, di dolore, di fatica della vita, che rende tutto molto dif-ficile. Ad esempio, nella baraccopoli dove noi siamo arrivati con l’idea di costruire anche un centro per i bambini, ci siamo resi conto che non è il momento in cui si può costruire, perché la gente è talmente disperata che, se inizi a costruire, ti assalta-no il giorno dopo. E li capisci se ti assaltano, perché i bambini muoiono di fame ad Haiti, la gente muore di fame ad Haiti. Io ho un ambulatorio pediatrico dove mediamente, in una settimana, vedo dai dieci ai dodici bambini arrivare in una condizione termi-nale, vedo cioè bambini che muoiono nel giro di poche ore o po-chi giorni. Bambini per cui tante volte anche la corsa in ospedale è un tentativo disperato, spesso inefficace. Settimanalmente mi

Dal ’90 al ’99, nel dopo comunismo.

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Questa situazione da cos’è determinata? Dalla situazione politica?

Ma perché nessuno vuole intervenire? A quaranta minuti da Miami si potrebbe intervenire.

occupo di seppellire i bambini morti che non vengono sepolti dalle famiglie che non hanno la possibilità economica. Ogni set-timana, da un anno e mezzo, seppellisco dai centocinquanta ai duecentocinquanta bambini morti di fame. E stiamo parlando di un paese che si trova a quaranta minuti di aereo da Miami, non siamo nel Centro Africa, siamo alle porte del Primo mondo.

Certo. Io ho una mia idea, che non so quanto sia fondata: non c’è un interesse generale, non parlo di una nazione o di un’altra, par-lo di un interesse mondiale, non c’è interesse ad aiutare Haiti. Haiti è grande quanto una regione italiana, ha otto milioni e mezzo di abitanti, meno della Lombardia. La vicina Santo Domingo è meta di turismo, è non dico ricca, ma ci si va in vacanza, le strade sono asfaltate, il turismo dà da vivere. Haiti, il cui confine è una monta-gna, è il disastro: non ci sono strade, non c’è acqua, non c’è luce, non ci sono scuole. Avete sentito l’ultima tragedia della scuola caduta tre giorni fa, con settecento bambini dentro? Non sappia-mo neanche quanti ce ne sono ancora sotto, perché non sappia-mo quanti erano presenti in quel momento … Le tragedie fanno parte della vita di tutti i giorni. Siamo in uno stato piccolissimo. Basterebbero sei mesi a metterlo a posto se ci fosse l’impegno di tutti, di tutte le potenze economiche mondiali: quattro strade, servizi primari, turismo, Haiti diventerebbe una meraviglia. Non c’è, questo interesse. Perché? Io sono convinta che all’interno dell’equilibrio del continente americano serva continuamente un punto di destabilizzazione. Pensiamo all’Honduras, al Guatemala, al Nicaragua, tutti questi Stati oggi stanno trovando un loro asse-stamento, una loro forma politica, una loro economia. Pensiamo al continente sudamericano che si sta sempre più consolidando. Allora, un punto che continui a provocare un dolore, un punto di destabilizzazione lo chiamo io, la spina nel fianco di un continen-te ci vuole. Così ragiona il mondo. E Haiti è un focolaio di desta-bilizzazione. Io credo che ci siano interessi di questo tipo, oltre sicuramente al grosso business del passaggio della droga. Tutta la droga in uscita dal Venezuela e dalla Colombia è smistata ad

Dalla situazione politica e storica.

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Haiti, dove la dogana non funziona bene, dove la Polizia è quel-lo che è. L’esercito è stato addirittura soppresso perché fonte di tutti i colpi di Stato… È un paese piccolo che può esplodere da un momento all’altro perché la disperazione della gente è tale che basta un nulla perché la situazione sfugga di mano.

Certo. Il motivo per cui restare è proprio sostenere la speranza di questa gente e non avere la pretesa di essere “la loro unica spe-ranza”, perché sappiamo benissimo che non è così. Restiamo per mostrare loro quello che noi intendiamo come “speranza” che abbiamo sperimentano nella vita. Che per me, francescana, mis-sionaria, si chiama Gesù Cristo. Vorrei che Cristo fosse speranza anche per loro. Per cui la ragione per cui si sta lì è Cristo, spe-ranza dell’uomo, anche ad Haiti, dentro una drammaticità come quella che io tocco con mano.

Esatto. Da una parte l’ambulatorio classico, quindi l’accoglienza quotidiana di circa un centinaio di bambini con le loro mamme, unico punto sanitario della baraccopoli che ha trentasettemila abitanti registrati dal sindaco, settantamila con tutti gli amici, pa-renti e bambini mai registrati. L’unico punto sanitario è questo. Io vedo mediamente cento bambini ogni giorno. Non riesco chiara-mente a seguire tutti, perché non è possibile visitarli e prendersi cura di tutti, capire bene cosa hanno, spiegare alla mamma…

Con suor Cristina e tre giovanotti haitiani, Alex, Pujon e Nicolà, che volontariamente ci hanno affiancato in quest’opera e non sanno né leggere né scrivere, ma sono pieni di buona volontà e ci aiutano anche nelle incombenze gestionali.

Ed ecco il motivo per cui restare.

l’Opera è un ambulatorio pediatrico con due programmi.

Suor Marcella, con chi svolge questo lavoro?

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Io ho avuto la grazia di incontrare durante questi anni numerose associazioni di volontariato internazionale, per cui, ad esempio, ogni due mesi ho un’infermiera americana che viene per quattro settimane ad affiancarmi. Sta imparando anche la lingua, per cui è un grossissimo aiuto. Spesso arrivano amici medici che vengo-no dall’Italia, piuttosto che dagli Stati Uniti, piuttosto che dal Ca-nada, che si fermano magari anche 15 giorni e diventano preziosi all’interno di un lavoro immane. Perché se hai due medici, invece che cento di bambini ne prendi anche duecento.

L’ambulatorio è intitolato a San Francesco. Job è il nome del pri-mo bambino che mi è morto in braccio, essendo arrivato ormai stremato dalla fame. Il missionario non può arrivare in un luogo con un progetto preparato a tavolino e cercare di incastrarlo nel-la realtà, per quanto possa essere geniale, bello e realizzabile. Il missionario è quello che si mette in ascolto, che guarda che cosa la realtà domanda e si chiede come può rispondere. Per me que-

Le malattie principali sono da una parte l’Aids e la sieropositività di tantissimi di questi bambini, le cui mamme neanche sanno che sono ammalate. E poi la tubercolosi e tutte le malattie conse-guenti alla gravissima denutrizione. Il vero problema di Haiti è la denutrizione. Ad Haiti tre bambini su cinque non arrivano a compiere otto anni perché muoiono di fame. Chi ce la fa, nor-malmente, ha dei ritardi mentali non trascurabili. Io vedo le con-seguenze della denutrizione: diarree, otiti, broncopolmoniti che in un bambino non in forze, ma ampiamente sottopeso, possono provocare la morte. I bambini più gravi cerco di farli arrivare, là dove si può, negli ospedali. Non è sempre facile farli ricoverare perché non ci sono posti. Io mi appoggio molto alla struttura dei Padri Camilliani italiani, che hanno un ambulatorio. Non hanno letti per i ricoveri, ma hanno la diagnostica. Quindi quando ho bisogno di lastre o di esami del sangue mi appoggio a loro. Tante altre volte, se il bambino è grave, prendo uno dei miei tre ragazzi, lo mando con la mamma e con un po’ di soldi all’ospedale pubbli-co e li affido al buon Dio, perché non so neanche se riusciranno a entrarci, in ospedale.

Una seconda esperienza nell’ambulatorio pediatrico è conosciuta come “Una speranza per Job”.

Quali malattie mietono più vite ad Haiti?

Era per capire meglio, perché un tale lavoro da sola sembrava impossibile.

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sto ha voluto dire rendermi conto, a partire dalla morte di questo bambino e poi di tanti altri bambini come lui, che il problema pri-mo era la fame, e dunque anche dirmi: “Sono venuta qui per fare una scuola, visto che suor Cristina è insegnante, ma la realtà cosa mi chiede, innanzitutto?”. E quindi è nato “Una speranza per Job”, che è il programma che accompagna i bambini gravemente mal-nutriti. Nel 2007 abbiamo chiuso per quindici giorni l’attività am-bulatoriale normale e abbiamo aperto lo screening peso/altezza. Abbiamo invitato tutte le mamme della baraccopoli a venire con i loro figli sotto i cinque anni e abbiamo incontrato migliaia di donne. Per quindici giorni abbiamo visto solo bambini, prenden-do peso, altezza, età, insomma tutti i parametri che ci vogliono per arrivare a definire il grado di malnutrizione. Sono emersi dati terrificanti. La prima settimana, su seicento bambini visti, ne ave-vo trecentocrentaquattro in condizione di malnutrizione grave. Pian piano la cosa è cresciuta, gli amici qua in Italia sono cresciuti e oggi abbiamo centocinquanta bambini nel programma di nu-trizione. Stanno recuperando, ed è una bellezza vederli tornare ogni settimana più in carne, riprendendo vita. La vita rinasce, e rinasce la speranza. Quindi veramente “Una speranza per Job” sta accadendo, in questa baraccopoli schifosissima. È chiaro che è un puntino. In una baraccopoli di settantamila persone di bam-bini ce ne sono ventimila, probabilmente, e noi ne curiamo solo centocinquanta; però il missionario non va a risolvere il problema della fame nel mondo, né il problema della morte dei bambini ad Haiti. Il missionario è uno che inizia a spendere se stesso, testi-moniando quello che ha incontrato e partendo da un puntino di realtà: cambiando sé, cambiando quella realtà.

l’altro atteggiamento potrebbe essere la rabbia e la disperazione.

Marco Salvini di Associazione Kayla ci può dire ora come si può aiutare suor Marcella.

La rabbia e la disperazione, certo. Il rischio del missionario è quello di sostituirsi alla speranza, di volere fare sempre più cose, di trovare sempre più aiuti. Di diventare un manager bravissimo. Però diventi schiavo del bisogno. Fino a rischiare di perdere la vocazione.

“Associazione Kayla”, che è nata tra degli amici italiani di suor Marcella per sostenere la sua opera, ha un sito dove si possono trovare tutte le informazioni in maniera molto dettagliata. Il sito

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Siccome abbiamo pochi minuti volevo dare la parola ancora a suor Mar-cella. Il passaggio sull’ascolto e sull’obbedienza alla realtà credo sia la cosa più importante per tutti, per noi che viviamo qui, come per voi che vivete lì. Come si traduce?

Quando si parla di obbedienza tutti pensano, perlomeno tra noi religiosi, all’obbedienza ai superiori: mentre l’obbedienza è al Mistero. Il Mistero accade, è accaduto, accadrà dentro la re-altà. Il metodo cristiano dell’Incarnazione capovolge il metodo che l’uomo si era immaginato per arrivare a riconoscere Dio. L’In-carnazione capovolge, perché è Dio che si rivela all’uomo. Dio ha scelto l’Incarnazione, cioè l’entrare nella realtà per incontra-re l’uomo. Il punto è guardare la realtà con la domanda: cosa c’entra con me? È vivere l’istante che ho davanti come dato e pensato per me. Io non sono ad Haiti perché ad Haiti i bambini muoiono di fame, perché altrimenti se domani arriva l’Unicef e risolve i problemi, io da Haiti me ne devo andare perché è finita la ragione del mio essere lì. Io non sono lì per questo. Io sono ad Haiti perché è data a me quella realtà, quella circostanza, così come a ognuno è data la circostanza di vita che gli accade perché è quella scelta dal Mistero, cioè da Cristo per incontrarlo. Haiti è scelta, oggi, da Cristo per incontrarmi. E questa è la sfida. Questo solo la Chiesa lo insegna, e questo è quello che rende bello, per me, il mio andare in giro per il mondo da vent’anni in situazioni sempre drammatiche e tuttavia vivere una gioia e una letizia, per dirla francescanamente, che riempie il cuore.

è www.associazionekayla.org. Vi si parla del programma “Una speranza per Job”, per salvare un bambino dalla fame. Per ridare vita ai bambini di cui parla suor Marcella, perché possano segui-re tutto il programma che, da uno stato di malnutrizione a rischio della vita, li porta a uno stato di malnutrizione meno grave, ba-stano 100 euro. 100 euro per salvare la vita di un bambino. Se qualcuno poi volesse accompagnare il bambino in un program-ma che lo porti veramente a guarire al 100% può donare 25 euro al mese e il bambino sarà seguito in un programma che gli fa superare in via definitiva lo stato di malnutrizione. Poi c’è “Donna non piangere”, un programma in cui si dà il latte a figli di donne sieropositive. Per questo programma sono sufficienti 30 euro al mese. Mi rendo conto che le cifre sono abbastanza elevate per cui, eventualmente, noi accettiamo anche donazioni inferiori, se-condo quello che le persone ritengono opportuno.

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24 dicembre 2008Marino Zerbin

IN SCENALA MISERICORDIA

QUOTIDIANA

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È con noi, Marino Zerbin, per parlarci della storia di Andrea, il Santo Bevitore. Marino Zerbin è il protagonista della commedia, insieme con Carlo Pastori. Marino, ti chiedo di farci entrare nel vivo di questa comme-dia, di questo racconto.

Quante repliche avete fatto?

La versione teatrale è curata da Carlo Pastori come traduzione e come adattamento teatrale. La regia è di Carlo Rossi. L’idea è quella di trasportare l’ambientazione parigina del racconto origi-nale di Roth a Milano. Per cui il clochard protagonista l’è un bar-bun di Navili e tutti gli altri personaggi appartengono all’universo milanese, non a quello parigino. La struttura, però, è rimasta tale e quale. È stato evidenziato lo spirito del racconto: l’intuizione straordinaria di Roth che, qualunque persona, anche il “paria” più abietto, anche la persona socialmente più emarginata ha la possibilità di essere accolta, perdonata. È uno spettacolo sulla misericordia quotidiana. È questa motivazione, mi spiegava Carlo Pastori, ad avere mosso lui, e ovviamente anche me, nell’accet-tare di vivere quest’avventura meravigliosa. Lo spettacolo è nato all’interno di una rassegna teatrale patrocinata dalla Diocesi di Bergamo, dal Comune di Bergamo, dalla Provincia di Bergamo - una rassegna teatrale estiva intitolata DeSidera o Desidera…. Con tutti gli impliciti significati di questo termine - ed è stato allestito nell’estate del 2004.

In due anni e mezzo avremmo fatto una cinquantina di repliche. Per me, in ogni caso, si tratta di un ritorno a Varese, dove ho in-terpretato due anni fa “El Vangel per el dì d’incoeu” con padre Edo Morlin Visconti. Fu un evento, perché il teatro era gremito. Poi era stata registrata un’intervista con padre Edo per una tv locale e furono pubblicati articoli su La Prealpina. Abbiamo una rassegna stampa meravigliosa di quello spettacolo.

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Speriamo che sia lo stesso anche per il Santo Bevitore. Tu e Carlo Pastori siete sempre in scena, però tu interpreti una serie di personaggi. Aiutaci a entrare all’interno della vicenda.

È un compito particolarmente complicato.

La storia è abbastanza nota. C’è questo barbone che viene inter-pellato da un benefattore misterioso che è un angelo in realtà … o comunque una figura che viene dall’alto, che gli offre dei soldi. Lui è restìo ad accettarli perché, per quanto “paria”, per quan-to una persona ai margini della società, ha comunque un punto d’onore e dice: “Io comunque, se li accetto, poi voglio restituirli e quando li posso restituire”. Allora questo dice: “Vai a restituirli, ma non a me, assolutamente, perché anch’io condivido il tipo di vita degli ultimi, come vivi tu, restituiscili a santa Teresa alla quale io devo molto, perché mi ha regalato conversione, che è il regalo più bello…”. Il barbone accetta e poi promette di anda-re a Parigi alla chiesa di Santa Maria de Batignol - qui abbiamo pensato, volgendolo in milanese, che sia l’Abbazia di Chiaravalle. Dice: “Sì, sì, andrò a Chiaravalle a restituirli”. Poi però, invece di andarci, ogni due per tre, trova un impedimento… un amico che lo travia, una sua vecchia fiamma che reincontra e con la quale passa notti e notti e per la quale spende anche tutti questi po-chi soldi che aveva ricevuto. Poi la Provvidenza provvede ancora e viene assunto per fare un trasloco e gli viene data di nuovo quella stessa cifra. Lui allora si ripropone di andarla a restituire a Santa Teresa, ma tutte le volte ci casca e non riesce mai a man-tenere questa promessa e questo impegno d’onore. Il compito è dare vita, sul palcoscenico, a tutti gli altri personaggi che non siano il barbone: dal benefattore iniziale - che poi ritorna verso la fine dello spettacolo -, all’uomo che gli dà il lavoro del trasloco, al barista, all’amico che lo travia fino alla fine e ad altri ancora.

Sono alle prese con tanti caratteri da far vivere in pochissimi minuti e questo è abbastanza difficile, perché un personaggio, durante uno spettacolo, cresce mano a mano. Qui la difficoltà è concentrare in poche battute un personaggio che sia efficace e teatralmente credibile. Però è una sfida che a me piace e ogni volta mi diverto.

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Tra i tanti personaggi che interpreti, ce n’è qualcuno a cui sei più legato, che ti piace di più?

Sul piano affettivo è quello del benefattore. Perché è il ruolo di una serietà, di una semplicità umana, di una grandezza che è dif-ficilissimo rendere. È quello a cui sono più legato, perché è un po’ il motore di tutta la storia. Altri personaggi mi divertono di più ma sono, come dire, anche più facili, perché sono caratteriz-zazioni teatralmente più ovvie. In questo spettacolo, su autoriz-zazione dell’autore che è il poeta milanese Franco Loi, nei due momenti in cui appaio come benefattore, recito due brevi poesie di straordinaria bellezza e intensità. Sono due momenti magici dello spettacolo che, inoltre, è tutto punteggiato da una colonna sonora molto interessante e molto pertinente, che accompagna benissimo la trasposizione in milanese del racconto. Questa co-lonna sonora è stata registrata in sala d’incisione da un quartetto d’archi ed è stata arrangiata da Walter Muto, che è un grande musicista ed eseguita da strumentisti straordinari. Ebbene, nella replica che proporremo qui a Varese i musicisti suoneranno dal vivo. Se vogliamo, è un omaggio in più che abbiamo riservato a quella che io considero la mia città.

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UNO SPETTACOLO MONDIALE

Renzo OldaniSilvano ContiniStefano Zanini

settembre 2008

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Renzo Oldani, presidente della società ciclistica “Alfredo Binda” e vice-presidente del Comitato organizzatore dei Mondiali di ciclismo a Varese, è con noi questa mattina per parlare della manifestazione iridita a quindici giorni dall’inizio delle gare.

Avete ricevuto anche i complimenti dell’équipe del commissario straordi-nario Guido Bertolaso per come state operando. È già una bella soddisfa-zione.

Pensare in positivo mi sembra la posizione più adeguata. Una battuta, Renzo, sui volontari che si stanno impegnando al vostro fianco.

Siamo sulla rampa finale, è il momento di massimo sforzo. Stia-mo affrontando gli ultimi problemi organizzativi. Sono giornate frenetiche, che cominciano all’alba e finiscono a notte fonda. In ogni caso, al di là delle difficoltà contingenti, è una grande soddi-sfazione vedere crescere passo dopo passo questo grande even-to.

Sicuramente. Anche perché questi complimenti arrivano da per-sone di grande esperienza e sono stati estesi a tutti i soggetti, pubblici e privati, coinvolti nell’organizzazione e nella promozio-ne del territorio varesino a livello mondiale. A volte dispiace leg-gere di persone che si organizzano per lasciare Varese nei giorni del Mondiale. Non hanno capito molto dello spirito di questo evento, che non è solo ciclismo. Questa manifestazione deve essere un veicolo per fare conoscere le nostre bellezze e anche per mettere in luce i problemi che abbiamo, così che qualcuno ci aiuti a risolverli.

I volontari saranno almeno seicento, più altri centocinquanta dell’Associazione nazionale alpini, più la Protezione Civile, più gli operatori sanitari. Avremo tre elicotteri all’Ippodromo per fron-teggiare ogni possibile emergenza, due ospedali da campo e non meno di mille uomini del Soccorso Sanitario distribuiti lungo i circuiti dove saranno disputate le gare. Sanità e sicurezza sono

8 settembre 2008Renzo Oldani

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Silvano Contini è con noi. Un grande campione di ciclismo, che ha dispu-tato cinque edizioni del Campionato del mondo tra i professionisti. Che tipo di esperienza è vivere questa gara che brucia tutto in un solo giorno?

Hai detto che non sarà durissimo, nonostante la salita dei Ronchi da ripe-tere diciassette volte.

È una gara molto difficile da interpretare, soprattutto di questi tempi, perché il ventaglio dei possibili favoriti è molto più ampio di quando correvo io. Il circuito di Varese è impegnativo, ma non impossibile, per cui potrebbero esserci anche delle sorprese. È un percorso spettacolare, per di più su strade cittadine. Così il pubblico che avrà la possibilità di vedere la gara da diversi punti e perché è un circuito cittadino.

Dipenderà dalla tattica che verrà adottata dalle squadre. Oggi non sappiamo che assisteremo a una gara tirata dall’inizio oppu-re a una corsa controllata, gestita attendendo i giri finali. Quella dei Ronchi non è una salita impossibile, ma ripetuta a certi ritmi e dopo avere percorso duecentoquaranta chilometri può diven-tare selettiva.

15 settembre 2008

la prima regola del Mondiale di Varese. Un Mondiale così capita una volta ogni cinquant’anni. Sarà un grande incontro, il mondo si incontrerà a Varese. Viviamo insieme questo evento, tenendo-ci per mano per vincere insieme questa sfida.

Silvano Contini

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Silvano Contini, che giudizio dai del Mondiale in svolgimento?

Nostro ospite è Stefano Zanini. Siamo all’indomani del Mondiale. Che corsa è stata?

Una domanda tecnica: lo spostamento dei Mondiali alla fine della stagio-ne complica la preparazione delle squadre e dei singoli?

Sta emergendo un bellissimo Mondiale. La vittoria di un ciclista italiano nella prima gara è stata un evento straordinario. Mi sono piaciute le sue lacrime sul podio. Mi ha davvero emozionato. Il ciclismo sta ancora una volta rivelando il proprio volto umano, bello, soprattutto semplice.

Una corsa azzurra. Dominata dalla nostra Nazionale. Controllata e vinta bene, usando la testa. Io l’ho vissuta da tifoso, con gli ami-ci lungo la salita dei Ronchi, a bordo di un camper con la televi-sione per seguire tutte le fasi della corsa. Il gioco di squadra degli Azzurri è stato veramente forte, sono arrivati in tre al traguardo dominando la corsa.

Le squadre ormai programmano la stagione non più solo sul Mondiale, sulle grandi corse a tappe o sulle classiche, ma su tanti appuntamenti, per cui si rischia di arrivare un po’ logori a fine stagione. È un peccato. Magari, anticiparlo di un mese, nel cuore della stagione, potrebbe giovare.

25 settembre 2008

29 settembre 2008

Silvano Contini

Stefano Zanini

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Siamo ancora una volta collegati con Silvano Contini, un altro grande campione, per commentare una grande giornata di sport.

Tutto ha funzionato a meraviglia. Un grande risultato sportivo e uno spettacolo davvero mondiale. Io l’ho vissuto lungo le strade, a diretto contatto con la gente. Ed è stato fantastico.

7 ottobre 2008Renzo Oldani

Ora con Renzo Oldani ripercorriamo oggi la settimana dei Mondiali di ciclismo, una settimana bellissima che ha mostrato, forse per la prima volta dopo tanto tempo, Varese città turistica. Io credo che Varese debba ringraziarvi. Quale è il complimento più bello che hai ricevuto?

Quale è stata invece la critica che ti ha fatto più male?

Mi hanno chiamato tante persone. È stata un’emozione unica, un’esperienza da vivere. Ne è valsa la pena, nonostante tutti i problemi che abbiamo dovuto affrontare e risolvere. Ringrazio tutti coloro che ci sono stati vicini, che hanno fatto gruppo per portare in porto questo Mondiale che è il Mondiale di tutta la città di Varese.

Voglio dimenticare velocemente. In alcuni frangenti mi ha ferito non percepire un clima di fiducia attorno all’organizzazione. Ma il bilancio è ampiamente positivo. Oggi posso solo ringraziare tutti coloro che hanno lavorato con noi, da Amedeo Colombo alla so-cietà Binda. Tutti si sono mossi non solo con impegno, ma soprat-tutto con passione. E la passione è risultata determinante.

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Per la prima volta è stato creato uno stadio per il ciclismo. Da questa espe-rienza può derivare una modalità diversa di utilizzare in futuro l’Ippodro-mo delle Bettole come una vera cittadella dello sport?

Il Mondiale ha mostrato il popolo del ciclismo. Una testimonianza bellis-sima.

Per te è stata una fatica immane, un grande sacrificio, ma oggi la tua sod-disfazione è grandissima ed evidente.

Parliamo delle gare.

L’ippodromo è stato importantissimo. Si è visto un nuovo tipo di ciclismo. Un luogo dove la gente si riunisce per godere di uno spettacolo, per trascorrere un po’ di tempo assieme. Spero che l’ippodromo possa servire alla città di Varese per valorizzare altri avvenimenti. Sarebbe bello che Varese sfruttasse appieno l’espe-rienza di questo Mondiale con altre proposte e iniziative. Tutto il mondo ha visto e apprezzato i luoghi dove noi viviamo.

Il ciclismo ha mostrato di essere uno sport assolutamente matu-ro dal punto di vista del pubblico. Abbiamo assistito ad uno spet-tacolo esemplare di civiltà. È uno sport che aggrega, che unisce, che crea comunità.

Circuiti selettivi, ottime squadre e bel tempo. Anche il buon Dio ci ha dato una mano. E poi i risultati degli italiani. Tutto ha con-corso al successo della manifestazione. Ricordo la frase di Ballan dopo la vittoria: “Mi ha spinto la gente”. È stato letteralmente sospinto da due ali di folla. E poi i bambini che abbiamo portato sotto il podio e che sono stati una festa nella festa.

Tutti hanno avuto la possibilità di vivere la propria città in una dimensione particolare. È stato entusiasmante. Sono commosso dalle manifestazioni di affetto e di gratitudine che abbiamo rice-vuto.

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lo rifaresti?

Il gruppo della società ciclistica Binda è più che mai compatto e ha voglia di continuare ad essere protagonista. Abbiamo progetti per il futuro. Il Mondiale è stata un’esperienza umana e profes-sionale grandissima. Sicuramente la rifarei. Correggendo alcuni errori che pure ci sono stati, ma trattenendo tutto il positivo che abbiamo potuto vivere. Abbiamo mostrato al mondo il volto più bello di Varese.

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Mons. Gilberto DonniniAngelo Monti

I MONELLI DI SANT’ANTONIO

14 gennaio 2009

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Questa mattina abbiamo la possibilità di parlare di una doppia festa. Con noi sono monsignor Gilberto Donnini, prevosto di Varese, ed An-gelo Monti, da ventisei anni presidente dei Monelli della Motta. Doppia festa, perché venerdì prossimo ci sarà il Falò di Sant’Antonio alla Mot-ta, una delle tradizioni più antiche e autenticamente popolari della città, che quest’anno coinciderà con la riapertura della chiesa dedicata al Santo, dopo un accurato e riuscitissimo intervento di restauro. Comincerei que-sta nostra conversazione proprio dall’opera di restauro che ha impegnato così tanto la Chiesa varesina.

Il restauro è durato più di due anni. Quando ho fatto il mio in-gresso come prevosto di San Vittore, la chiesa della Motta era già stata chiusa per l’avvio dell’intervento. Oggi devo ringraziare monsignor Giuseppe Maffi, mio predecessore, che ha dato inizio all’opera. Un altro sentito ringraziamento deve essere rivolto alla Fondazione del gruppo Ubi Banca che ha stanziato una cifra con-sistente: quattrocentocinquantamila euro per il recupero di que-sta chiesa che è patrimonio di tutta la città, un gioiello di arte, di storia, di cultura e di fede. All’inizio si era pensato di intervenire solo sulla parte pittorica che ricopre praticamente ogni centime-tro quadrato delle pareti interne, rimuovendo la patina di sporco e di umidità che oscurava i colori. Andando avanti, ci siamo poi accorti che avremmo ottenuto un buon risultato, ma non suffi-ciente. Se, infatti, avessimo lasciato il vecchio impianto di riscal-damento ad aria, il nostro intervento sarebbe stato vanificato nel giro di pochi anni. Abbiamo perciò deciso di sostituire l’impianto e anche il pavimento della chiesa, al di sotto del quale sono state collocate le fonti di calore. Il pavimento è stato rifatto, secondo canoni antichi, in cotto lombardo. Poi, quando con i ponteggi si è arrivati sotto la volta, ci si è accorti della presenza di alcune crepe e, soprattutto, del fatto che il tetto poggiava direttamente sopra le volte. È stato pertanto deciso di rifare anche la copertura. A quel punto restava da mettere mano solo alla parte esterna e ci siamo detti: perché non completare il restauro? A consuntivo sono stati investiti circa un milione e 200mila euro, una somma importante. Devo riconoscere che le istituzioni varesine hanno colto lo spessore di questo lavoro: alla Fondazione Ubi si sono aggiunti la Fondazione Cariplo, la Provincia e il Comune. Alla fine abbiamo raccolto un milione di euro. Manca ancora la parte re-stante, ma confidiamo nella Provvidenza.

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Un aiuto ve lo daranno sicuramente i Monelli della Motta… È stato realiz-zato un grande intervento su un edificio sacro che è patrimonio di tutta la città.

Angelo Monti, la centralità della chiesa di Sant’Antonio per i Monelli della Motta è evidente.

la sagra di Sant’Antonio ha una dimensione religiosa importante. Quali sono i momenti fondamentali.

Sant’Antonio, a Varese, incarna una tradizione antica. La chiesa sorgeva nel luogo del mercato, ritrovo abituale delle persone. Uno di quei luoghi di cui c’è bisogno per recuperare una vita di comunità che è fondamentale.

Storicamente è la nostra chiesa. Un gioiello d’arte e di fede cui, in occasione dell’ultimo Anno Santo, abbiamo donato un nuovo organo. Le cronache dell’Adamollo ricordano che nel Seicento, mentre si stava edificando il campanile del Bernascone, i ragazzi del luogo trasportavano sui carri i massi per la costruzione. Quei ragazzi, che sarebbero stati successivamente chiamati i Monelli, avevano già allora un riferimento esplicito nella comunità cristia-na varesina.Hai fatto un riferimento al falò, una tradizione secolare che ha assunto anche una dimensione istituzionale a partire dal dopo-guerra, da quando è diventata una tradizione la presenza delle autorità religiose e civili, che hanno il privilegio di accendere la fiamma. Dai Monelli, che nei primi anni del Novecento rubavano la legna per realizzare la pira e per questo venivano amabilmente rimbrottati, siamo arrivati alla presenza ufficiale del sindaco e del prevosto in rappresentanza di tutta la comunità cittadina.

Ci sono molte celebrazioni che si susseguono in queste giornate, cominciando dalla benedizione delle candele che vengono accese in segno di devozione all’esterno della chiesa. Saranno celebrate Messe nella chiesa restaurata e avremo la presenza del vicario episcopale monsignor Stucchi. Ricordo poi la benedizione degli animali. Quest’anno, per solennizzare la circostanza dell’inaugu-razione del restauro, è stato organizzato anche un concerto. Per-ché la bellezza dell’arte e della musica aiuta a elevare lo sguardo verso Dio.

(Donnini)

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C’è una profonda unità tra il significato religioso e la festa popolare. Un’unità che trova riscontro nella grande partecipazione di Varese a que-sti momenti.

Vorrei lasciare l’ultima parola a don Gilberto per concludere questa nostra conversazione. Angelo Monti ha utilizzato la parola gioia.

Sono occasioni di incontro che rendono possibile anche il so-stegno concreto ad opere di solidarietà. Penso, ad esempio, al banco gastronomico che per tre giorni sarà a disposizione dei cittadini. Ed ancora, alle bancarelle presenti lungo via Carrobbio, che saranno dedicate esclusivamente alla proposta di prodotti dell’agricoltura e della zootecnia locale varesina. Da quindici anni c’è poi il momento del lancio dei palloncini in cui sono coinvolte le scuole elementari della città. I bambini affidano a un biglietto i loro desideri, i loro auguri di bene, le loro speranze. I biglietti vengono attaccati ai palloncini e lanciati verso il cielo con un ge-sto di grande suggestione e valore simbolico.

Questi bigliettini volano fin oltre le Alpi. Sono arrivati in Germa-nia, a Strasburgo e in altre zone d’Europa. È un messaggio di gioia davvero per tutti.

È un segno che significa anche affidamento.

La gioia è la caratteristica di tutte le feste autenticamente po-polari, feste che hanno le proprie radici in una comunità che si ritrova attorno ai segni di una fede antica e operosa.

(Monti)

(Monti)

(Donnini)

(Donnini)

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INTERVISTA A CARLO CHIODI

a cura di Roberto Bofmarzo 2007

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Carlo, direttore di Radio Missione Francescana, che inizia con Cappuccini e Brioches.

Notizie dal mondo, dal Vaticano, notizie da Varese, da tantissimi volontari che con te lavorano ogni giorno alla radio.

Cappuccini e Brioches è l’inizio delle dirette di Radio Missione Francescana; dobbiamo tenere presente che Radio Missione Francescana lavora insieme a In Blu, che è il circuito nazionale voluto dalla CEI a cui partecipano duecento radio; prima di Cap-puccini e brioches ci sono tante notizie di interesse nazionale. Collaboriamo anche con Radio Vaticana – e i notiziari di Radio Va-ticana, lasciamelo dire, sono decisamente superiori, migliori, con più notizie di quelli della Rai. Se tu vuoi avere notizie dal mondo devi ascoltare questi notiziari.

Sì, sono tantissimi i volontari, ma prima di pensare ai volontari, pensiamo ad Enrico e a Vladimir che sono i tecnici della nostra radio e che sono fondamentali. Se non ci fossero loro, noi non andremmo in onda, nemmeno Cappuccini e Brioches tutte le mattine con ospiti in studio. Solo da Cappuccini e Brioches l’anno scorso sono passate duecentosessanta persone, duecentoses-santa interviste durante l’anno, quindi la possibilità di parlare per tutti. Dopo Cappuccini e Brioches, ogni mattina, ci sono altre dirette con conduttrici che, quasi sempre, hanno ospiti. Nel pomeriggio, dopo gli appuntamenti con In Blu alle 17.00, ci sono sempre del-le rubriche specialistiche: dalla musica particolare, a un incontro molto interessante con i ragazzi di una cooperativa di handicap-pati, che fanno una trasmissione intitolata “Grillo Parlante”.E poi la nostra perla, la nostra punta di diamante, Pier Fausto Vedani, che collabora con noi e tutti i venerdì e, in replica la do-menica mattina, fa la trasmissione “Gente così”, in cui fa parlare le persone di Varese. Così come Cesare Montalbetti, altro nostro collaboratore, fa parlare i protagonisti della Chiesa varesina.

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Carlo, tu hai uno sguardo privilegiato sulla la gente: la gente che cosa dice di questa società?

Ecco, la gente è bello ascoltarla. È bello farla parlare. Io mi sono accorto, facendo Cappuccini e Brioches tutte le mattine, che a Varese c’è tantissima gente che ha tanto da dire, organizza tante manifestazioni. Tantissime realtà che hanno molto da racconta-re. Il nostro compito qual è? È semplicemente di dare spazio a persone che magari non hanno voce e che qui possono trovarla. Il sistema è facilissimo e ce ne stiamo accorgendo sempre di più: il sito internet funziona, le e-mail arrivano, la gente dice: «io fac-cio questo o quello e mi piacerebbe raccontarlo», e la possibilità di raccontarlo qui c’è sempre.

Conferenze stampa, giornali, telegiornali: Carlo, tu come ogni cittadino, li ascolti, ti interessi della vita della nostra città, poi però parli con la gente. Quanto vedi vicina o lontana la realtà dell’informazione rispetto a quelle che sono le reali esigenze della gente comune?

Io la vedo vicina, almeno sulle problematiche che noi trattiamo, perché quando tu parli del fatto che la gente fa fatica, quando parli dei Dico, dei Pacs, cose che sono vicine al sentire comune, senti che la gente partecipa, che è vicina.Il nostro compito non è tanto quello di fare le prediche, ma quello di far parlare il nostro territorio e di essere testimoni delle cose che capitano.Se sei testimone di quello che capita intorno a te, per forza c’è l’attenzione delle persone. Magari non è il grande tema, ma è la cosa che sta a cuore a tutti.

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Carlo Chiodi era tutto in quella faccia di uomo lieto e cordiale. L’ho conosciuto da vicino quando si die-

de al giornalismo dai microfoni di una radio di Varese. E fummo amici subito. Credo dalla prima telefonata che mi fece per chiedermi di Tempi.Ci siamo voluti bene. Ci ha voluti bene, Carlo.

A Carlo.Ti ho conosciuto che non avevi ancora i baffi. Ma

la voce profonda, la risata travolgente e gli occhi curiosi erano già il tuo biglietto da visita. Abbiamo fatto un bel pezzo di strada insieme. Ci siamo persi di vista e ritro-vati molte volte. E sempre è stato una specie di ritorno a casa, nel porto sicuro degli affetti e delle consonanze.Non te l’ho mai detto, ma se nella mia fragilità tento di seguire la via di Cristo, lo devo a te. Non me l’hai chiesto, non hai tentato di convincermi. Semplicemente mi hai fatto vedere che ne valeva la pena. Anche nelle ultime occhiate che ci siamo scambiati in ospedale il tuo sguardo sembrava volesse ricordarmelo.Grazie, amico mio.

luigi AMICONE

a Carlo

Marco DAl FIOR

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È metà mattina quando squilla il telefono.“Mi hanno proposto di lavorare a Radio Missione

Francescana! Che ne dici? Mi licenzio?”“Perché no? Non è forse quello che hai voluto fare per tutta la vita ?”“A 50 anni ricomincio da zero?”In verità Carlo non doveva iniziare da zero, lui, anche se il tesserino bordeaux - quello dei giornalisti profes-sionisti - non lo ha mai avuto in tasca, questo mestie-re lo ha amato. Prima di un mestiere era un modo di guardare la vita. Era sempre pronto a mettersi in gioco quando si trattava di comunicare un giudizio, di rac-contare un fatto, di rendere ragione di una presa di po-sizione. Era stato così già con Radio SuperVarese, dove mi aveva invitato a collaborare alla fine degli anni Set-tanta. Per me era stata la prima palestra di quello che sarebbe poi diventato il mio lavoro. Lui ha sempre avu-to la preoccupazione di giudicare insieme la realtà.è capitato spesso in questi anni: se mi vedeva in diretta in TV, appena finito il collegamento mi chiamava per confrontarsi con me, per accertarsi “in diretta” della cronaca che aveva appena ascoltato. Ho sempre avuto la sensazione che per Carlo il giornalismo sia sempre stato una “scusa”, un’occasione per incontrare e vedere da vicino, con i suoi occhi curiosi e buoni, la realtà: fatti e soprattutto uomini, persone.Le interviste che qui vengono raccolte sono una chiara testimonianza di questa sua passione umana, frutto di un giornalismo vissuto senza pregiudizi capace di in-contrare chiunque nella ricerca di un bene comune.

Enrico CASTEllI

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Carlo Chiodi, un amico e un uomo straordinario! Proprio nel senso etimologico: fuori dall’ordinario!

Bastava incontrarlo una volta per capire che sotto il baffo riluceva un’umanità formidabile e assolutamente benevola. Sì, la benevolenza è stato il suo tratto carat-teristico: ogni volta che l’ho incontrato mi ha sempre sorpreso la sua capacità di vedere e sempre tirar fuori il bene, il buono, il positivo in ogni cosa e in ogni per-sona.Nel suo lavoro a Radio Missione Francescana, Carlo ha dimostrato che anche i media possono praticare la be-nevolenza! In un settore in cui tutti amano “guardare dal buco della serratura” e strumentalizzare ogni debo-lezza, buttando in piazza il limite e l’errore di ciascu-no (e chi non ne ha e non ne fa?), le interviste di Carlo hanno invece sempre sottolineato il positivo, il buono di cui pure ogni uomo, anche il più limitato, è capace! E per questo scommetteva su ogni relazione e valorizzava ogni rapporto umano.Carlo è stato così profondamente uomo, perché profon-damente cristiano. In lui la fede non ha mai puzzato di sacrestia e non è mai stato un di meno di umanità, ma, al contrario, la chiave e la via per un di più, per essere più intensamente padre, marito, amico e compa-gno di strada.Un compagno di strada che so di non aver perso e di cui oggi sento la vicinanza in un modo diverso eppure così concreto. A Dio! Cioè a ora, a questo stesso istante! E grazie per tutto quello che ci hai lasciato, a cominciare dai tuoi figli e dalle opere che hai costruito e che nel tuo nome e nel tuo segno continueranno.

Raffaele CATTANEO

a Carlo

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Carissima, non è facile usare la parola “ricordo” per parlare di Carlo e di quanto ci ha accomunato

in questi anni. Non è facile, perché mi aspetto ancora una sua telefonata, la richiesta di un’intervista, l’invito a una sua trasmissione. Sempre con la sua voglia di capire, di far partecipare, di rendersi interprete delle domande più semplici, magari banali, ma anche per questo più vere.Tra di noi c’era qualcosa di meno e qualcosa di più di un’amicizia.Qualcosa di meno, perché la differenza di età era co-munque tale che, pur nello stesso grande abbraccio del movimento, avevamo incontrato persone e ambienti di-versi. Qualcosa di più, perché ci ha legato una stessa passione: quella di comunicare, di svolgere un mestiere che permettesse di esprimere in qualche modo le proprie idee e soprattutto la propria passione.A questo Carlo ha prima dedicato il suo tempo libero e negli anni pionieristici di Radio SuperVarese, aveva iniziato a prendere confidenza con cuffie e microfoni, con le sigle e gli stacchi musicali, con quel mondo com-plesso e affascinante che costituisce un’emittente radio.Ma poi, negli ultimi anni ha gettato il cuore oltre ogni ostacolo e si è buttato anima e corpo in quella Radio Missione Francescana che, grazie a lui, è diventata un sicuro punto di riferimento nella realtà varesina. Sempre con la stessa volontà lo stesso slancio, la stes-sa disponibilità ad ascoltare per poter comunicare. Un esempio di quella logica che fa grandi le persone: quel-la di considerare ciascuno uno spicchio di umanità e quindi ogni persona degna di rispetto, di comprensione e di necessità di confronto.è questo il mio ricordo. Nella certezza che le sue parole, la sua testimonianza, le sue doti di cordialità non si sono perse.

Gianfranco FABI

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Attilio FONTANA

Conoscevo Carlo sin dai tempi del liceo classico. La nostra amicizia è nata lì sui banchi del ginnasio.

Ed anche sui campi di calcio. Lui mi batteva sempre. La sua classe, la E, immancabilmente vinceva contro la nostra A. Sono ricordi indelebili, che custodisco ge-losamente.Poi ci perdemmo di vista. Gli studi successivi, la profes-sione. Ci si incontrava ogni tanto. La nostra frequenta-zione è tornata invece assidua quando sono stato eletto sindaco di Varese. E la nostra amicizia si è rafforza-ta. Abbiamo avuto tante interviste, telefonate dirette. Carlo in studio a Radio Missione Francescana, io aPa-lazzo Estense. E poi i convegni e gli incontri. Carlo aveva una dote speciale, sapeva ascoltare e consigliare. Quando mi sono trovato in momenti di difficoltà, per problemi politici, Carlo mi ha sempre dimostrato la sua amicizia, dandomi spazio per parlare e ribattere alle critiche, spesso assumendo anche posizioni che poteva-no metter lui stesso in difficoltà.L’ultimo mio ricordo è forse il più condiviso da coloro che lo hanno conosciuto: quello di una persona ottimi-sta, sorridente .Quando lo sentivo, tornavo subito di buon umore, anche se la giornata era iniziata male.Grazie Carlo!

a Carlo

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Ho cominciato a conoscere bene Carlo Chiodi quan-do prestava la sua collaborazione a Radio Su-

perVarese e la prima cosa, quella che colpiva imme-diatamente, era la sua grande cordialità, quella risata facile e spontanea che sapeva mettere immediatamente a proprio agio le persone. Un tratto di carattere, quin-di, molto bello, molto amabile, che rendeva gradita la sua compagnia.Ma, frequentandolo e andando più a fondo, ci si rende-va anche conto di qualcosa d’altro che stava alla base della sua cordialità e della sua facilità di incontro: era il rispetto nei confronti delle persone, un rispetto non fondato su una specie di qualunquismo, per cui ogni cosa andava bene. Pur avendo una visione precisa della vita con annessi saldissimi valori, una fede profonda, un impegno senza risparmio nella comunità, non face-va di tutto questo una specie di arma da far valere nei confronti degli altri, ma il motivo per cui si stava volen-tieri con lui era la serenità che veniva da tutto questo, il fatto di aver trovato qualcuno con un indirizzo, un senso preciso alla vita che portava a trovare sempre il lato positivo delle cose e che rendeva l’incontro con lui una cosa attraente e ricercata.Ma Carlo non soltanto ha mostrato una personalità estremamente accogliente, non solo con questo ha avuto un ruolo importante nella costruzione di una comuni-tà aperta e dialogante, ma è stato, per la nostra città, un punto di riferimento significativo anche per quanto riguarda il campo difficile e delicato della comunica-zione sociale, specialmente quella radiofonica che ha rappresentato un po’ la sua passione. Una passione che, per molto tempo, ha dovuto fare i conti con le esigenze di lavoro (occorre pur vivere e far vivere la propria famiglia), ma che si è manifestata in pieno nella collaborazione con Padre Gianni a Ra-

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Monsignor Gilberto DONNINI

dio Missione Francescana. La scioltezza e la facilità di comunicazione che aveva con le persone gli veniva spontanea anche quando parlava davanti ai microfoni. Proprio questo clima amico, questa cordialità, che era capace di creare anche nel corso delle trasmissioni, ri-usciva a “cavar fuori” dai soggetti che, di volta in volta andavano “in onda”, idee, proposte che nemmeno loro sapevano di poter dare. Oserei dire che, in quei momen-ti, ciascuno riusciva a dare il meglio di se stesso. Non trasmissioni, commenti, interviste preordinate: tutto era sempre molto spontaneo, ma proprio per questo molto coinvolgente e, alla fine, molto ricco. Una capacità che trovava certamente un fondamento nelle sue doti, ma che era anche frutto di una grande professionalità.Dobbiamo ringraziare molto il Signore - io personal-mente e tutta la nostra città - di avercelo dato. Magari ci dispiace un po’ che lo abbia richiamato così presto a parlare da qualche microfono del Paradiso. Credo che abbiamo avuto molto da lui e il suo esempio dice che, oltre evidentemente le doti personali, quando si affron-tano le cose con fede e con passione non solo si lascia una profonda traccia nei cuori, ma si rende anche un grande servizio alla comunità.Vogliamo ricordarlo così, come un collega giornalista che ci ha aiutato a capire che anche questo lavoro - spesso così vituperato perché talvolta contribuisce a cre-are pesanti conflitti - vissuto così, può essere invece un elemento importante di bene e contribuire ad un clima più disteso e sereno nella città e nella società.Grazie di tutto questo.

a Carlo

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Salvatore FURIA

Carlo Chiodi,l’ho rivisto una sera di metà maggio al crepuscolo

serotino… stava in piedi sulla punta di Vetta Paradiso, a meno di 100 metri dalla cupola di levante dell’Osser-vatorio di Campo dei Fiori. Immobile, il volto rivolto verso un tramonto di fiamme e giade. Sull’orizzonte di ponente una raggiera di luce rossastra si proiettava su candidi cumuli altissimi, oltre il massiccio del Rosa innevato, con riflessi di verde azzurrino.Si voltò verso di me che giungevo trafelato nell’erta ri-pida di un prato magro, con migliaia di candide corolle di narcisi odorosi. Con un gesto della mano mi indi-cava i riflessi dorati sul Verbano, oltre lo sbocco della Valcuvia, oltre Laveno.Carlo mi chiese quasi sottovoce: “Che dici di questo spettacolo?”Dissi: ”Questi sono momenti incantati.”. E lui: “Sì, di bellezza e di mistero. Quanta pace e quanto silenzio quassù... ma è l’ora di tornare a valle, vado in radio.”Guardai il suo viso pensoso di un sorriso lieve, mentre una brezza frusciava tra i vertici dei vecchi abeti in ombra.Fu l’ultimo incontro con un amico vero come vero fu il suo spirito sempre proteso verso l’Assoluto.Arrivederci a Dio, Carlo.

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Matteo INZAGHI

O scar Wilde scriveva che “il mistero dell’amore è più grande del mistero della morte”. Aveva ragione.

Perché il distacco da te, caro amico Carlo, è stato dolo-roso. Un livido tumido e violaceo ancora ben visibile. Ma a fare davvero male non è mai la morte. E la for-zata rinuncia alla serenità. A farci piangere è l’addio a quell’isola placida e incontaminata sui cui cercano ri-fugio i naufraghi. Noi naufraghi. Noi tanti. Noi tutti. Persi tra i flutti di un mare perennemente in tempesta. Sbatacchiati come spighe di grano da venti impetuosi, da noi stessi scatenati e oramai implacabili, sapevamo di poter contare su un approdo sicuro. In cui riprender fiato, prima di ripartire. Prima di sfidare nuovamente i tanti buffi fantasmi che affollano il nostro tempo. La pace aveva un nome e un indirizzo. I tuoi. In quella nicchia di viale Borri, nel rifugio di una fugace tele-fonata, o tra le rassicuranti pieghe di un fuorionda, io trovavo riposo grazie alla tua ricca semplicità. Non servivano voli pindarici. Né poesie, né confidenze di chissà quale portata. Bastavano i tuoi occhi sornioni, i tuoi baffoni morbidi e irrequieti. E quella voce, simile a un vigorosa, franca e leale stretta di mano. Parlaci ancora, Carlo. Parlaci adesso. E non smettere.

a Carlo

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Carlo lUCCHINA

I l tuo sorriso, quando scendevi dalla macchina per arrivare nel nostro “ufficio” di piazza Libertà, riem-

piva il cuore.Sempre quattro battute scherzose, il Milan, e anche le chiacchiere e le discussioni sui problemi più seri scivo-lavano in un simpatico scambio di opinioni con i tuoi spunti di umanità e di comprensione per le persone cer-tamente non comuni.La tua voce e i tuoi commenti, a volte pepati, a Ra-dio Missione Francescana mi hanno fatto spesso com-pagnia e mi hanno spiegato con semplicità tante cose della nostra città.Quando vengo a trovarti a Giubiano rivedo il tuo sor-riso, ma mi manca la tua voce e soprattutto la tua dol-cezza.Ciao Carlo.

Carlo con il tuo silenzioso esempio in più occasioni hai ricordato al vecchio cronista valori e stile tra-

scurati se non dimenticati. La tua vita e la professione non sono state una corsa a vincere, ma solo generoso impegno per la civiltà della ragione e della pacatezza.Hai combattuto la buona battaglia costruendo un me-raviglioso ricordo di te. A Radio Missione ti sentiamo sempre vicinissimo. E a volte dolcemente scomodo per-ché inimitabile. Ma, l’esempio rappresenta la migliore eredità possibile. Perciò Carlo non sarai mai dimenti-cato.

Pier Fausto VEDANI

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S erenità. Non c’è termine più adatto per ricordare Carlo.

Può nascere un’amicizia tra persone che hanno idee po-litiche diverse?Sì. Come è spiegabile? Difficile rispondere. Sicuramen-te ci accomunavano due valori importanti: l’amore per la libertà e la solidarietà.Quella praticata. Sta di fatto che ci “prendevamo”. Quando lavoravo in banca all’Ospedale di Circolo, ci capitava al lunedì di parlare del nostro Milan.Anni fortunati.Dal febbraio 1999 ho avuto per 5 anni la mamma in coma. Non dimentico la garbata sensibilità con cui mi esprimeva la sua solidarietà.Il 24 maggio 2008 organizzai una partita di calcio per Radio Missione Francescana tra frati e politici. I frati persero. Anche perché avevo rafforzato la squadra dei politici con qualche giocatore del Varese. Quel sabato piovigginava. Eppure ero felice come un bambino.Provavo un piacere sottile quando mi chiamava dalla radio alla Camera per un’intervista, un commento.Andai a trovarlo all’ospedale. Il suo tempo stava finendo. Eppure trovò il modo di scherzare, sdrammatizzare.Da cosa dipendeva quella forza? Dal carattere, dalla fede? Non lo so.So che l’ho lasciato coricato su quel letto ordinato con infinita tristezza, ma con tanta, tanta serenità.Sua moglie e i suoi figli possono essere orgogliosi di lui, perché a Varese ha lasciato un segno importante.

Daniele MARANTEllI

a Carlo

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G li anni di SuperVarese, anni di grande impegno, ma ci siamo anche divertiti tanto. Mi ricordo quel-

la volta che ti abbiamo fatto trovare la radio occupata con tanto di inni e bandiere. Quante mattine, insieme, a sfogliare i giornali per “tra le righe”, commento ai fatti del giorno, la “bandiera” della radio.Io che facevo il confronto fra le posizioni dei vari quo-tidiani, tu che osavi il giudizio forte della tua intensa esperienza. Capace di giudicare i fatti, ma il tuo vero carisma era la capacità di incontro con gli altri. Una simpatia umana immediata, che superava le differenze, e accoglieva le persone, senza farle sentire giudicate.Radio SuperVarese prima, Radio Missione Francescana poi. Per te la radio non era un mezzo di comunicazio-ne anonimo, ma la “piazza” dell’etere in cui incontrare gli altri.

Alberto MENTASTI

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Caro Carlo,ti ricordi di quella cena in cui chiedesti se fosse

giusto cambiare lavoro per dedicarti a tempo pieno al giornalismo, alla radio? Ero stupito del tuo coraggio e dissi subito che sarebbe stato per te il lavoro più con-sono ai tuoi talenti. Ti puoi allora immaginare come io sia contento, che alcune tra le tue interviste più si-gnificative vengano pubblicate, e che confermano che il giornalismo era l’espressione professionale più adegua-ta della tua umanità. Il tuo modo di fare domande, di dialogare con gli ascoltatori, di presentare le notizie non era solo di alto livello professionale, ma al contem-po caratterizzato da quella tua particolare capacità di accogliere e valorizzare persone ed eventi. Chi ti incon-trava in studio o attraverso il telefono si sentiva sempre a proprio agio, si sentiva proprio invitato ad esprimere con libertà se stesso ed i suoi punti di vista, senza quel-la più o meno sottile strumentalizzazione che troppo spesso governa il giornalismo attuale. E i giudizi che esprimevi durante le trasmissioni erano sempre del-le proposte positive, con le quali era per tutti possibile confrontarsi ragionevolmente e non secondo tante mo-dalità giornalistiche pregiudiziali o addirittura cini-che. Proprio perché eri per tutti noi un maestro di vita, che ci ha insegnato a sorprendere in tutto, con realismo e passione, quella positività ultima che ci attira verso il Bene, così anche il tuo giornalismo ci ha insegnato che è possibile leggere e presentare la realtà scoprendo in essa quei tratti che ci permettono di accoglierla e di tra-sformarla in una dimora più umana. Grazie di cuore!

Bernhard SCHOlZ

a Carlo

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Carissima Jizel – e voi, Andrea e Giovanni – carissima signora Gabriella. Ci troviamo qui, a qualche anno di distanza, ancora per un dolore drammatico per lei, ma questo ancora più drammati-co. Avevamo celebrato qui i funerali di suo marito, il papà di Car-lo. Adesso dobbiamo celebrare quelli di Carlo. Carissima Rossana … Permettete innanzi tutto che io rivolga il mio ringraziamento a monsignor prevosto, che nella sua conosciuta, a me e a tutti, at-tenzione all’umano, compassione, energia di affezione, permette che io dica queste parole per unire al vostro dolore il mio, per testimoniare che cosa è questo momento per voi e per noi. Ci ho pensato tanto… 42 anni di amicizia non si risolvono in un giorno, e potremmo ben parlare di tante cose. Ma non credo di poter salutare Carlo se non rifacendomi a un episodio della nostra co-mune vita, ma di cui nessuno ha mai saputo niente.

Ci siamo trovati, più di trent’anni fa, a mangiare, una sera, con don Luigi Giussani, perché il movimento di Comunione e Libera-zione secondo don Giussani aveva bisogno di un uomo che espri-messe pubblicamente la forza del suo giudizio, così quella sera ci trovammo a mangiare… Poi le cose non andarono, per quanto riguarda Carlo, in questa direzione. Però, ritrovandolo pochissi-mi giorni dopo, don Giussani mi disse: “Ti raccomando molto, quel ragazzo”. Con la genialità classica dell’educatore, bastava un incontro per leggere, cogliere fino in fondo la predisposizione, l’apertura all’esistenza, che un ragazzo portava con sé. “Ti rac-comando molto questo ragazzo”. E naturalmente gli chiesi: “Per-ché?” “Perché ha due virtù. La prima è l’eutrapelìa…” Avevo stu-diato San Tommaso. Ma andare a scomodare San Tommaso per definire la figura di Carlo, mi sembrava perfino esagerato. Eutra-pelìa, cioè capacità di rendere l’esistenza umana più buona, più benevola, più accogliente, più vivibile per tutti. Le testimonianze numerosissime di questi giorni tutte hanno sottolineato questo. Carlo è stato in mezzo a noi questa grande testimonianza. Era una frase che ci accompagnava a partire dalla mitica terza E di quegli anni, al liceo classico di Varese: “Homo sum, et nihil humani e me alienum puto”. Per definire chi era cristiano nel mondo, “Sono un uomo” – si riprendeva Terenzio, ma soprattutto la rilettura che San Paolo aveva fatto di Terenzio – “Sono un uomo, e nulla di ciò che è umano ritengo estraneo a me”. Tutti questi anni han-no documentato questo. Questa passione formidabile all’umano che lo ha reso caro, prezioso in mezzo a noi. Tanto è vero che di

Il SORRISO SOTTO Il BAFFOdi don Fabio Baroncini

Omelia per il funerale di Carlo Chiodi, Varese 30 aprile 2009

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lui possiamo dire, come di altri si è detto nella storia cristiana, che nessuno di noi incontrandolo poi si sarebbe allontanato da lui intristito, peggiorato, incattivito nella sua umanità. Sospinti, dalla sua presenza, al bene. Neanche quando perdeva il Milan – il che era tutto dire – c’era questa possibilità di essere indotti a una tristezza nella vita. Era una cosa spettacolare. Prima virtù, questa. E Dio sa quanto ci manca e quanto ci mancherà. Perché spesso nella vita, mentre tu stai nuotando, per la serietà umana che hai, stai facendo il possibile per affrontare i flutti dell’esisten-za, come direbbe il Vangelo, stai facendo quello che puoi, ti si avvicina qualcuno che, per naturale o cristiana generosità, apri il cuore, cerchi di aiutare, e questi si aggrappa e ti tira a fondo. Mai nessuno che si accompagni a te correggendoti – cum regere – so-stenendoti, spalancandoti alla bellezza di questo nostro mondo, di questa esistenza che è impagabile. Se questa nostra esistenza è così bella, chissà che cosa ci aspetta dopo. Ma neanche nostro Signore Gesù Cristo ha perso molto tempo a descriverla, se non citandola come “vita beata”.

Vi dicevo che don Giussani innanzitutto sottolineava questo primo aspetto, che io ho sempre avuto caro. Eutrapelìa. E il secon-do aspetto, mi disse, “guarda che è un ragazzo che ha la passione per giudicare la realtà: spalancato alla realtà”. Ero ancora un pre-te giovane, la cosa riverberò in me come una forza ideologica. Un accento, una sottolineatura ideologica. Poi negli anni ho dovuto riscontrare che nulla di ideologico c’era nella sua posizione. Noi in tutte queste cose - come dice San Paolo, contraddizione, fame, nudità, spada – forse che siamo ingenui? Non sappiamo qual è il peso, il duro peso dell’esistenza? Se siamo qui è perché lo cono-sciamo. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori, per l’amore che Cristo ha avuto per noi. Questo amore per Cristo in lui si traduceva come passione e amore all’umano per decifrar-ne, scoprirne la verità. Ma che cos’è la verità? È l’applicazione di un giudizio che io a priori ho? O è l’incontro con l’umano nel suo ultimo significato? Così che io sempre sono teso a imparare da ciò che incontro, da ciò che mi accade, ciò che il mistero dell’esi-stenza vuole comunicarmi.

Io sono stato accompagnato in tutti questi anni da questa du-plice sottolineatura. Si poteva anche giocare a carte insieme, si poteva andare in montagna insieme, perché amiamo questa no-stra umanità, e il mondo e le cose e tutto. Si poteva, come sape-va fare Carlo, andare insieme, ma senza mai dimenticare questa tensione, questo anelito, questo desiderio. Ecco, questo deside-rio: l’anima mia ha sete del Dio vivente. Ma cos’è l’uomo perché tu te ne ricordi? Ma l’uomo siamo noi! L’uomo è la realtà molte-plice, bene e male secondo la sensibilità che abbiamo, ma dentro queste cose tutto viene riscattato perché abbiamo incontrato la persona di Gesù Cristo e ci sollecita, ci sospinge a riconoscere che

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il mistero dell’esistenza ultimamente è buono. E dobbiamo avere il coraggio, in questo momento, di aspettare questa rivelazione futura. In tutte queste cose noi siamo più che vincitori, in virtù di Colui che ci ha amati, nostro Signore Gesù Cristo.

Solo un’ultima cosa, perché davanti a tanto dolore molto più servirebbe forse stare in silenzio. Ma quest’ultima mi dovete per-mettere che venga espressa. Voglio formulare un sincero grazie, la mia gratitudine totale a Jizel. Perché Carlo è andato, e la nostra fede, la nostra speranza ci dice che è andato verso qualcosa di meglio, di umanamente più compiuto e ultimamente definitivo. Ma noi siamo ancora qui. In tutta l’avventura di questi ultimissimi mesi mi hai testimoniato, carissima Jizel, che cosa voglia dire ave-re una grande tradizione alle spalle, nutrita della fede di Abramo. Ad Abramo è stato chiesto di offrire suo figlio, a te è stato chie-sto di offrire tuo marito. I tuoi figli andranno, hanno la loro vita, troveranno conforto e consolazione. Per te sarà più dura. Ma noi tutti dobbiamo esserti grati per quello che sei stata in mezzo a noi, in questi giorni, in questi tempi, vivendo così il vostro desti-no, così come nei confronti di Carlo dobbiamo essere grati. Uno di voi me lo diceva ieri: basta un sì semplice, come quello che ha detto lui, con la chiarezza del destino che gli stava davanti, che lo portava alla morte, il sorriso sotto il baffo ce l’aveva. E le volte che sono andato a trovarlo – l’estrema unzione, la comunione – questa disponibilità profonda, ha testimoniato che la morte non vince, che vince la possibilità di vita, fondata sulla risurrezione di Gesù Cristo. E voi, che lo avete avuto vicino, che lo avete avuto caro, che lo avete amato, siate ancora in mezzo a noi testimoni di questo.

Solo un’ultima cosa, rischiosissima da parte mia. Però io voglio salutare personalmente un amico. Io non ho ancora capito fino in fondo oggi che cosa sia l’esperienza cristiana. Forse mi sarà dato di capirlo domani. Tanto meno, sebbene abbia frequentato don Giussani per 50 anni ho capito cos’è Comunione e Liberazione. Ma una cosa è certa: se io avessi dovuto indicare qualcuno in cui il carisma, come si dice in linguaggio ecclesiastico-teologico, di don Giussani si realizzava, avrei indicato Carlo. Questo amore all’umano, fondato sull’amore a Cristo, che rende capaci di giudi-care l’esistenza abbracciandola e amandola sino in fondo.

A Dio, Carlo!

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ACHILLI FELICE Primario di Cardiologia all’Ospedale di Lecco

ALLAM MAGDI CRISTIANOGiornalista, Europarlamentare

ANGELINI BETTY Volontaria dell’Associazione Famiglie per l’Accoglienza di Varese

BENZONI ANDREA Presidente del Associazione Banco di Solidarietà Alimentare “Non Solo Pane”

BERNASCONI DAVIDE “VAN DE SFROOS” Cantautore

BERTOLASI FRANCESCO Presidente della Sezione ANA di Varese

BOF ROBERTO Giornalista, presidente dell’Associazione Sestero

BRAMBILLA MICHELE Giornalista, vicedirettore de La Stampa

BRANDUARDI MARIOPresidente dell’Associazione Famiglie per Accoglienza di Varese

CALO’ LIVNE’ ANGELICA Insegnante di teatro, in Galilea

CAMISASCA MASSIMOSacerdote, fondatore della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo

CATOZZA MARCELLASuora dell’ordine dei Francescani Missionari ad Haiti

CHIODI ANDREARegista

CIANTIA FILIPPOMedico chirurgo , collaboratore AVSI

CONTI STEFANOSacerdote nella Parrocchia di Settimo Milanese

CONTINI SILVANOCampione varesino di ciclismo

CORRADI MARINA Giornalista, editorialista di Avvenire

CREMONESI PAOLOGiornalista, capo redattore giornale radio RAI

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DANZI SILVANOAllenatore di mezzo fondo della Nazionale Italiana di Atletica

DE PALMA STEFANOStudente

DIONIGI RENZOOrdinario di Chirurgia Generale, rettore dell’Università degli Studi dell’Insubria

DONNINI GILBERTOPrevosto di Varese

FERLINI MASSIMO Presidente CDO Milano

FUMAGALLI FRANCESCOImprenditore e astronomo

MEAZZA CARLOFotografo

MONTALBETTI CESAREVolontario nelle Cooperative di Federsolidarietà

MONTI ANGELOPresidente Associazione “I Monelli della Motta” Varese

OLDANI RENZOImprenditore, presidente della Società ciclistica Alfredo Binda, vice presidente di Varese2008

PADOVESE LUIGIVicario Apostolico in Anatolia

PESSOTTO GIANLUCATeam manager Juventus FC

REGGIORI ALBERTOMedico chirurgo, responsabile AVSI Varese

REGGIORI PATRIZIAResponsabile Associazione Gruppi Guide Scout Varese 2

SALVINI MARCO Associazione Kayla, Amici di suor Marcella

TORNIELLI ANDREAGiornalista, scrittore, vaticanista de “Il Giornale”

ZANINI STEFANOCampione di ciclismo

ZERBIN MARINOAttore

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“Desidero di cuore ringraziare tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione di questo libro” Jizel

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Finito di stamparenel mese di aprile 2010 da AGF - Sesto Ulteriano (Mi)