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Altri misteri Il mostro di Firenze Atto III: la pista esoterica La villa dei misteri

QUELLA VILLA IN FONDO AD UN VIVOLO CIECO

di Mario Spezi “Un medico chiedeva a Pacciani di fare dei lavoretti...”. Non era un gran che come inizio della nuova storia. Con quella frase, che dissero di avere sentito dire a “Katanga” Lotti, tornava vent'anni dopo la vecchia leggenda metropolitana, secondo la quale dietro il Mostro di Firenze ci dovesse essere per forza un medico, “il chirurgo della morte”, meglio se ginecologo, vista la zona anatomica violata dal maniaco. Ora che gli esecutori erano considerati Pacciani e i compagni di merende, il medico veniva riproposto come mandante. Il professionista avrebbe commissionato i delitti, mentre il gruppo che prestava la mano d'opera avrebbe ucciso come un solo maniaco, commettendo delitti uguali l'uno all'altro, scegliendo vittime uguali, adottando lo stesso modo di sparare, di tagliare, di muoversi sulla scena e senza mai lasciare nessuna traccia. Usava sempre la medesima pistola e il medesimo coltello, come un maniaco che si affeziona alle proprie armi feticcio. Mai che al gruppo fosse venuta voglia di cambiarle, almeno la pistola, che era pure vecchia e difettosa. Gli assassini spostavano sempre il cadavere della ragazza trascinandolo in una zona bene esposta, ubbidendo tutti allo stesso impulso oscuro ed esponendosi alla vista degli eventuali passanti. C'era il vuoto, a questo punto, del delitto del 74, quello con il tralcio di vite spinto nella vagina della vittima e nessuna amputazione. Che cosa erano, allora, andati a fare se non prelevarono il trofeo? Perché quelle novantasette punture di coltello sul corpo della ragazza? Che ordine aveva dato il medico? Oppure loro avevano capito male? O dovevano fare un delitto di prova? C'era il delitto del '68. Dicevano: “Ma quella è un'altra storia”. Però la pistola era la stessa, le pallottole pure. In fondo anche la situazione delle vittime, chiuse in una macchina a fare l'amore. Erano le obiezioni che facevano gli scettici, e tra loro anche il giornalista Mario Spezi che in più aveva il torto di scriverle, quelle cose. Gli inquirenti non si lasciarono certo condizionare dalle critiche, tra l'altro decisamente di

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minoranza, e lasciavano capire di avere di più, molto di più di quanto fosse finito sui giornali. Loro, la storia, volevano continuarla, fino in fondo. Fu allora - era il 14 luglio '99 - che il commissario Giuttari fu mandato a dirigere l'Ufficio stranieri. O, come disse lui, fu buttato fuori dalla stanza di capo della Mobile. Normale avvicendamento, dissero al ministero, ma Giuttari non lo prese come un complimento e, questa volta, aveva davvero ragione. Non s'era mai visto un “superpoliziotto” all'Ufficio stranieri, anche perché di lì non passava mai un giornalista. Inoltre, Giuttari pensò che gli altri vedessero la sentenza di condanna dei compagni di merende come la pietra tombale posta sopra tutta la storia del Mostro, incluso Pacciani, perché andare avanti non era più utile a nessuno. Allora protestò, dicendo che gli volevano chiudere la bocca, fece ricorso al Tar, poi al consiglio di Stato, stritolò alcuni sigari tra i denti, ma vinse. Gli dovettero ridare la poltrona dell'ufficio al primo piano all'angolo tra via Zara e via Duca d'Aosta, quella di capo della Mobile. Non gli lasciarono il tempo di scaldarla che gliela tolsero di nuovo, spostandolo ancora all'Ufficio stranieri. Era come se quell'inchiesta sui mandanti non dovesse essere fatta. I maligni, quelli che erano sempre stati innocentisti, dicevano che qualcuno aveva paura che, a forza di metterci le mani, uno maldestro, un apprendista stregone della criminologia, avrebbe finito col far cadere tutto il castello di carte1. I sostenitori di Giuttari, di Canessa e della loro inchiesta si indignarono perché quel trasferimento era un siluro alla verità che non si voleva venisse a galla. Giuttari puntò i piedi, si ammalò, rimase lontano dalla Questura per parecchio tempo, ma riuscì a seguire il suo piccolo esercito di avvocati. Passò il tempo mettendosi a scrivere un romanzo, roba di serial killer fiorentini, e a rileggersi le carte dell'indagine su Pacciani & Co. Vinse una seconda volta, perché fu stabilito che lo spostamento all'Ufficio stranieri sembrava una punizione, non una promozione come lui meritava, e stavolta gli diedero un posto tutto per lui. Lo mandarono all'ultimo piano di quel mostro di cemento chiamato, senza ironia, il Magnifico, a due passi dall'aeroporto di Peretola, un sacco di grandi stanze vuote dove rimbomba ancora oggi l'eco dei passi dei pochi occupanti. Inventarono un ufficio nuovo, il Gides, Gruppo Investigativo dei Delitti Seriali, gli diedero anche una squadra di agenti e i finanziamenti necessari. Giuttari aveva varie cose su cui soffermarsi. C'era quella frase di Lotti, “Un medico chiedeva a Pacciani di fare dei lavoretti...”, ma c'erano anche i soldi di

1 Lo sostiene lo stesso Giuttari ne II Mostro, attribuendone la paternità al sostituto procuratore Paolo Canessa.

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Pacciani che non gli tornavano. Era stato accertato che Pacciani aveva in poco tempo guadagnato troppo e senza spiegazioni, soprattutto se si metteva in conto che per un sacco di anni era stato in galera. Risultava che dal 1979 al 1984 Pacciani aveva comprato a Mercatale due case da sessantun milioni e le aveva ristrutturate. Va detto che “ristrutturare” per i' Vampa voleva dire fare tutto con le proprie mani e con quello che trovava in giro, soprattutto nelle discariche e nei cantieri incustoditi. Aveva comprato anche una macchina, una Ford da sei milioni, e aveva pagato sempre in contanti. E sempre in contanti, dal 1981 al 1987, aveva acquistato buoni postali per un totale di centocinquantasette milioni e, ... fra il novembre 1985 e il maggio 1987, aveva versato agli sportelli di tre diversi uffici postali altri cinquantasette milioni. Quei soldi erano davvero troppi per un tipo come , i' Vampa. Però si sarebbero potute trovare decine di spiegazioni, dal furto ai traffici illeciti di qualsiasi cosa, ai risparmi fatti, come raccontarono le figlie, preparando cene a base di scatolette di cibo per cani. Si scelse, però, di interpretarli come l'osceno prezzo pagato dal mandante laureato in Medicina per i delitti e per i feticci. Se, poi, Katanga e Torsolo non avevano in conto corrente niente di sospetto, be', si sapeva che tra i compagni di merende il furbo era Pacciani. Vanni, interrogato in merito, non rispondeva. Lotti non poteva rispondere perché una cancrena fulminante a un piede l'aveva portato all'altro mondo a raggiungere i' Vampa. Comunque c'era di che lavorare, non si poteva certo chiarire tutto al primo colpo. L'indagine sui mandanti, partita da quella frase di Lotti e da quel dubbio sui soldi di Pacciani, è ancora oggi coperta dal segreto istruttorio. Tutto quello che è stato scritto ufficialmente è solo il risultato di “indiscrezioni” o fughe di notizie; la responsabilità, insomma, di ciò che viene raccontato, cavolate incluse, è solo dei giornalisti. Ufficialmente non è stato detto niente. Tutto o quasi potrebbe essere smentito, o almeno corretto, in ogni momento. Il problema maggiore, però, a raccontare questa ultima parte della storia è che ogni capitolo sembra diverso da quello precedente e non si capisce se devono essere tenuti tutti in vita o se l'ultimo sostituisce quanto detto prima. Tutti insieme mettono a dura prova la capacità di sintesi di chiunque, perché la scena è molto affollata, i personaggi assai diversi e spesso senza rapporti apparenti tra loro. Le storie di ognuno sono complicatissime e non sono solo slegate l'una dall'altra, ma a volte sembrano contraddirsi. Il misterioso medico indicato da Lotti, per esempio, diventò un pittore. Mezzo svizzero e mezzo belga per di più, caratteristica che aveva il vantaggio di agguantare un'altra leggenda metropolitana storica, quella del Mostro calato dal Nord, da dove, era stato scritto, “i tetti hanno un'altra forma e un altro colore di quelli toscani di cotto rosso”.

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Poi, dicevano, era un pittore che dipingeva strane donne, peggio di Picasso, addirittura con gli arti staccati. L'esperienza avrebbe dovuto insegnare ai poliziotti di tenersi alla larga dai quadri, perché dai tempi delle pitture attribuite a Pacciani decisamente la critica d'arte si era dimostrata non essere il loro genere. L'ipotesi investigativa che portò al pittore dovette aver preso forma durante la malattia del commissario Michele Giuttari e le lunghe ore impiegate a rivedere tutta la vicenda. Nel chiuso del suo studio dalle parti della Porta al Prato il poliziotto ripercorse per l'ennesima volta la storia del Mostro, e quando tornò alla guida del suo Gides, un'idea certa ce l'aveva: l'orribile saga dei delitti sulle colline di Firenze era una vicenda di satanismo. Una potente quanto oscura setta, della quale avrebbero fatto parte insospettabili personaggi che nella vita sociale occupavano posti anche importanti, aveva dato incarico a i' Vampa, Torsolo e Katanga di uccidere le coppie per procurarsi il sesso delle ragazze, l'oscena, blasfema “ostia” che serviva per celebrare i diabolici riti in onore di Satana che, in cambio, avrebbe elargito loro potere. Non è chiaro a questo punto se la setta satanica per iniziati upper class debba essere messa al posto di quella per disgraziati che si sarebbe riunita, tra puttane e compagni di merende, nella casa semidiroccata del mago Indovino, oppure se quest'ultima debba essere considerata la copia povera della prima. Bisognerà aspettare. Ma, intanto la supersetta aveva anche un nome, Schola della Rosa rossa, antichissimo quanto sconosciuto ordine diabolico che avrebbe attraversato sotto traccia secoli di storia di Firenze, una sorta di perverso Priorato di Sion al contrario, tutto caproni, pentacoli, messe e candele nere, omicidi rituali e altari demoniaci. Stando a chi dice di intendersi di quelle faccende, la Schola sarebbe una loggia deviata di un antico ordine, l'Ordo Rosae Rubae et Aurae Crucis, organizzazione massonica-esoterica discendente dalla Golden Dawn inglese e, quindi, dal cattivissimo Aleister Crowley, il più grande satanista del Novecento, autonominatosi “La Grande Bestia 666”, che negli anni Venti fondò una sua Chiesa a Cefalù, l'Abbazia di Thelema. C'erano tre elementi che, incrociati, avevano dato la certezza al commissario Giuttari. Da una parte la traccia di un dossier preparato dal criminologo Francesco Bruno, che aveva collaborato con i difensori di Pacciani nel processo d'Appello e che, escluso che il contadino avesse la personalità per essere il Mostro, aveva vagliato diverse ipotesi alternative. Bruno era passato dal nobile fiorentino al geometra autodidatta, finendo per sostenere la pista satanica, anche se da attribuire a un assassino solitario.

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C'era poi, ad aumentare il mistero, che il dossier, commissionato a quanto pare direttamente dal fu capo del servizio segreto, il Sisde, Vincenzo Parisi, era sparito. Insomma non era mai arrivato alla Polizia o alla Procura di Firenze. Morto Parisi, la faccenda diventò il sentiero su cui far correre, all'italiana, sospetti di coperture o depistaggi. E se le trame si intessevano a quei livelli, voleva dire che la setta era davvero potente. Poi c'era una nuova superteste. Era Gabriella Carlizzi, piccola, bionda e distinta signora romana che scriveva articoli sul suo sito Internet e aveva pubblicato un paio di libri a sue spese. Nel sito della Carlizzi uno spazio era riservato ai colloqui fra lei e la Madonna di Fatima, faccenda che dava al suo intervento nella storia del Mostro anche l'aspetto della lotta del Bene contro il Male. Lei non ha mai detto se riceveva le sue informazioni esclusive direttamente dall'alto dei cieli oppure da qualche fonte più terrena, ma affermava di sapere un sacco di cose di tutti i più clamorosi gialli italiani, dal caso Moro al delitto di via Poma, da quello di Arce alla storia dei pedofili nostrani attivi in Belgio. Dietro, sempre loro, gli adepti della Schola della Rosa rossa. Era l'estate del 2001, l'anno dell'11 settembre, anzi, era proprio quel giorno. Le Due Torri si erano appena accartocciate su se stesse, che ai giornali arrivò un fax della signora Carlizzi: “Sono stati loro, quelli della Rosa rossa. Ora vogliono colpire Bush!”2. La Carlizzi divenne, lo disse lei nelle sue stesse deposizioni, la superteste dell'accusa. È certo che riempì pagine e pagine di verbali sulle imprese della sua setta nascosta tra le dolci colline di Firenze. Certo che per ore, per giornate intere, in Questura la stettero a sentire. Lei disse che le avevano concesso anche la scorta, perché quelli erano pericolosi e avrebbero fatto di tutto per metterla a tacere. Vero o falso, di sicuro le diedero credito, dimenticando, forse, che la signora si era già presa una condanna per avere scritto anni prima che il Mostro di Firenze era lo scrittore Alberto Bevilacqua, evidentemente segretamente affiliato alla Rosa rossa. Il terzo elemento che fece pensare a Giuttari di trovarsi in mezzo a una straordinaria storia esoterica e criminale furono alcune pietre. A distanza di oltre dieci anni si era presentato un testimone, un guardacaccia che lavorava nella zona di Sesto Fiorentino, dalla parte opposta, cioè, di San Casciano rispetto a Firenze, che raccontò un'altra storia inquietante. Disse che, pochi giorni prima del delitto degli Scopeti, aveva visto i due turisti francesi piantare la tenda in un bosco da lui sorvegliato. Li aveva mandati via, avvertendoli del pericolo. Ebbene - affermò - pochi giorni dopo notò,

2 Cfr. Alessandro Cecioni e Gianluca Monastra – Il mostro di Firenze – Nutrimenti, 2002.

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proprio dove erano stati i francesi, dei cerchi di pietra, alcuni concentrici, che, sicuramente, avevano significati esoterici se non diabolici. L'altra pietra che convinse Giuttari era il fermaporta che il colonnello Olinto Dell'Amico aveva raccolto, tanto per non trascurare niente, a qualche decina di metri dal punto dove, nell'ottobre 1981, erano stati uccisi due ragazzi. Per il commissario quella pietra era qualcosa di molto diverso e di molto più grave. La definì una “piramide tronca a base esagonale che serve a mettere in contatto il mondo terreno con gli Inferi”3. Per lui, quella pietra non era uno dei tanti oggetti che si ritrovano in campagna, ma la firma che gli assassini avevano lasciato sul delitto. Gli investigatori dovettero incrociare le pietre, la storia dell'ipotesi esoterica del criminologo Bruno e la Rosa rossa della Carlizzi, per arrivare alla conclusione che, visto che i sicari erano di (…), la sede, o almeno una delle sedi, della diabolica setta non doveva essere lontana dal fino allora felice paese toscano. E, infatti, credettero di scoprire che la sede era stata involontariamente segnalata alla Polizia addirittura da due adepte, evidentemente non troppo furbe, proprio qualche anno prima. Il solito documento che non era stato giustamente valutato. Era accaduto che, nella primavera del 1997, due donne, madre e figlia, (…), che gestivano come casa di riposo per anziani una villa in mezzo a un piccolo parco, (…), si erano rivolte alla Squadra Mobile. Un loro ospite, un vecchio pittore svizzero, un certo C. F., era sparito all'improvviso e aveva lasciato non solo un gran disordine nella sua stanza, ma un sacco di roba sospetta. Roba che poteva avere a che fare con il Mostro di Firenze, dicevano le due donne. C'erano quei brutti disegni di figure femminili con le braccia, le gambe e le teste staccate, c'era un blocco Skizzen Brunnen, proprio la stessa marca di quello che aveva Pacciani, c'era una pistola. Le due donne avevano messo tutto in una scatola e l'avevano dato alla Polizia. Giuttari ci tornò sopra e vide la faccenda diversamente. Le due donne, che avevano chiamato la Polizia di loro volontà, da testimoni e magari parti lese diventarono, sgomente, indagate. Già, anche perché il commissario scoprì che Pacciani, che abitava più o meno a tre chilometri di distanza, aveva lavorato per qualche tempo a (…). Gli inquirenti sospettarono che l'ex casa di riposo per anziani di (…) potesse essere stata il punto di riferimento della Rosa rossa, che avrebbe commissionato a Pacciani e ai suoi compagni di merende i feticci da utilizzare in riti satanici. La stampa, con in testa La Nazione, ricominciò a battere la grancassa.

3 Questa tesi fu pubblicata in prima pagina sul Corriere della Sera. La stessa definizione è usata, nel verbale di

sequestro, per descrivere il fermaporta che fu sequestrato a Mario Spezi.

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“Sotto accusa le titolari del ricovero. La villa dell'orrore. Sarebbero in un ospizio i segreti del Mostro di Firenze”. “’Dopo le dieci in quella villa nessuno poteva mettere più piede. Arrivavano diverse persone e compivano riti magici e satanici.' A parlare è una delle ex infermiere di (…) dove Pietro Pacciani, l'accusato storico degli omicidi del Mostro di Firenze, ha lavorato come giardiniere. La Villa degli orrori ospitava al tempo dei delitti toscani un ricovero per anziani dove per qualche mese ha soggiornato anche il pittore C. F., prima indagato per possesso illegale d'arma da fuoco e poi diventato il teste chiave dell'inchiesta sui possibili mandanti degli omicidi del serial killer”. Non solo teste chiave, l'ignaro pittore in giro da qualche parte per l'Europa, era inquisito addirittura come mandante dei delitti. Lo scrivevano a tutta pagina i giornali e nessuno si dava la pena di smentire. Si misero a cercarlo dappertutto, anche con l'Interpol, fino a che lo trovarono a Montelieu, un paesino della Costa Azzurra, a due passi da Cannes. Fu allora che scoprirono che C. F. era venuto per la prima volta in Toscana nel 1996, undici anni dopo l'ultimo delitto del Mostro. Comunque, F. decise di collaborare e fu portato a Firenze. C'era il problema che, non solo per l'età avanzata, la sua mente apparve a molti qualcosa di più che bizzarra. “A (…)venivo drogato e chiuso in una stanza. Mi hanno rubato miliardi. Succedevano cose strane, soprattutto la sera”, disse agli investigatori e parlava delle due donne, madre e figlia, proprietarie della casa di riposo. Strano, si sarebbe detto qualcuno, che due con quella roba sulla coscienza avessero attirato l'attenzione della Polizia su di sé4. Fu così che Giuttari e Canessa accusarono le due donne di sequestro di persona e truffa. Perché, come scrisse La Nazione, “dalle deposizioni del vecchio personale del ricovero sono venuti a galla indizi più importanti. In cinquanta pagine di verbale sarebbero nascoste le prove di inquietanti segreti. Gli anziani ricoverati a (…)vivevano abbandonati tra le loro feci e le loro urine senza l'indispensabile assistenza. Di notte agli inservienti veniva assolutamente vietato di mettere piede all'interno della villa che si trasformava in un punto di ritrovo dove venivano celebrate messe nere. Giuttari sospetta che gli organi genitali e le parti di seno amputati e asportati alle vittime dal Mostro siano serviti proprio per il compimento di tali riti satanici”.

4 Deposizione di F.. Cfr. Alessandro Cecioni e Gianluca Monastra, op. cit.

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Come facessero i dipendenti a sapere che venivano celebrate messe nere, visto che era loro vietato parteciparvi, non fu spiegato, ma Villa (…) divenne subito per tutti la Villa degli orrori. Se lì si erano svolti i satanici e orribili riti della Rosa rossa, qualcosa doveva pur essere rimasto. Non solo, ma se era così, doveva esserci da qualche parte, inaccessibile e segretissimo, l'osceno tempio del sacrificio, l'autentica stanza degli orrori. Bisognava trovarla, perché lì sicuramente dovevano essere rimaste tracce significative, capaci di portare anche ai misteriosi adepti, di certo gente molto più importante di quelle due donne, pure un po' strane. Intanto Giuttari cominciò a indagare su qualche personaggio di San Casciano, gente in vista, altolocata, perché gli adepti della setta dovevano per forza essere persone che contavano. Fra le tante vecchie denunce che riempivano parecchi armadi in Questura, il poliziotto ne tirò fuori una che era partita proprio da San Casciano5. Non era anonima, la firma era di una certa Mariella Giulli, la moglie del farmacista del paese Francesco Calamandrei. La donna era da anni precipitata nel tunnel della malattia mentale, vera schizofrenia, tanto che era stata interdetta. Molti anni prima aveva denunciato il marito come Mostro di Firenze e nel suo delirio, messo nero su bianco, aveva raccontato che un giorno aveva addirittura trovato in frigorifero i raccapriccianti feticci strappati alle vittime. Nonostante l'assurdità della storia, a scanso di equivoci, c'erano stati allora dei controlli e anche una perquisizione che avevano portato a escludere lo sfortunato farmacista dalla lista dei sospettati. Di nuovo, però, quel documento fu valutato diversamente, anche perché fu messo in rapporto con un altro giudicato parecchio sospetto. Era la vecchia denuncia che aveva fatto anni prima il farmacista, quando qualcuno aveva dato fuoco alla sua Jaguar parcheggiata sotto casa, proprio in piazza Pierozzi, in pieno centro del paese. Storiaccia di donne e di mariti scontenti, a quanto pareva, niente a che fare con delitti e satanismo. A ogni buon conto la Polizia andò a perquisire la casa del farmacista che si ritrovò nome e faccia spiattellati sulle prime pagine. Risultato della perquisizione: ancora una volta, zero. Lo stesso destino fu riservato a un notissimo medico di San Casciano, che aveva anche il torto grave di essere ginecologo, Giulio Zucconi, fratello di un ambasciatore, pure lui, per via della parentela, finito sotto la lente dell'investigatore del Gides. Sarebbe esistito un legame tra il medico, la villa degli orrori e Pacciani. La Polizia sospettò addirittura che la moglie del ginecologo, Maria Ines, fosse la protagonista di un oscuro episodio accaduto il 26 gennaio 1996 in casa di Pietro Pacciani.

5 Mario Spezi possiede una copia della denuncia.

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Era successo che una donna, bionda e distinta a quanto pare, fosse entrata nell'abitazione del contadino, facendosi aprire la porta dalla moglie Angiolina. La misteriosa visitatrice avrebbe dato un sonnifero alla vedova de i' Vampa, per poter frugare tranquillamente nella casa del Mostro. Gli inquirenti riconobbero nella moglie del ginecologo Zucconi la donna del mistero e la informarono che era indagata per rapina. Per Giuttari la signora Zucconi si sarebbe introdotta nella casa di Pacciani per fare sparire le prove contro il marito. I giornali - La Nazione, la Repubblica, il Corriere di Firenze - ricevettero tempestivamente le informazioni sufficienti per titoli a cinque colonne. Non molto tempo dopo, il ginecologo passò a miglior vita e molti a San Casciano dissero, e dicono ancora, che morì di crepacuore. Visti i deludenti risultati delle perquisizioni, l'attenzione della Polizia e della Procura si concentrò tutta su (…). Obiettivo: la stanza degli orrori. Dopo una sola giornata, gli uomini del Gides penetrarono in quello che ritenevano il sancta sanctorum di tutte le nefandezze, il tempio dove, tra satanici orpelli, erano state officiate le messe nere con annessa offerta al demonio dell’”ostia” blasfema, il sesso strappato alle ragazze dal Mostro di Firenze. Trovarono alcuni scheletrini di cartone, qualche pipistrello di plastica, di quelli in vendita in qualsiasi cartoleria, e la conferma che quella era rimasta la terra di Boccaccio e di Benigni. Il calendario, poi, si incaricò di ricordare che mancavano pochi giorni a Halloween. “Sicuramente un depistaggio”, commentò senza battere ciglio Giuttari, chiuso nel suo cappotto nero una misura troppo grande. La Nazione riportò la frase in un titolo. L'indagine sembrò finita in un vicolo cieco. Fonte: Mario Spezi e Douglas Preston – Dolci colline di sangue. Il romanzo del mostro di

Firenze - Sonzogno editore, 2006