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Ampio raggio - Esperienze d'arte e di politica n. 2

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Ampio Raggio in an independent cultural magazine published by Laminarie theatre company based in Bologna, Italy, at theatre DOM. www.laminarie.it www.lacupola.bo.it

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Ampio raggioEsperienze d’arte

e di politica numero 2

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Ampio raggioEsperienze d’arte e di politicaNumero due | Febbraio 2011 Laminarie editrice ISSN 2037-3147 Direzione Bruna GambarelliCura Federica Rocchi Hanno collaborato Maria Amigoni, Andrea Bruno, Alice Zelda Franceschi, Giancarlo Gaeta, Nader Ghazvinizadeh, Vittorio Giacopini, Giuliano Guatta, Maria Concetta Sala Un ringraziamento a Gianni Berengo Gardin, Donatella Pollini, Alessandra EspositoTraduzioni in inglese Gabriele Ferri, ad eccezione di “Carpe Diem”, tradotto da Susanna GhazvinizadehProgetto Grafico Alex WesteFotografie Gianni Berengo Gardin, giugno 2010Per gentile concessione dell’autoreDidascalie tratte da Trenta Racconti Brevi, progetto di Laminarie con Elena Di Gioia

Questo numero è stato chiuso il 10 febbraio 2011 © Laminarie Associazione Culturale 2011

Associazione Culturale LaminarieCorte de’ Galluzzi 11, 40124 Bologna www.laminarie.it

DOM la cupola del Pilastrovia Panzini 1, 40127 Bolognawww.lacupola.bo.it

AbbonamentiÈ possibile sottoscrivere l’abbonamento a tre numeri della rivista al costo di 20 Euro. Per informazioni e sottoscrizioni: [email protected] | T 051.6242160 La redazione accetta collaborazioni esterne. I dattiloscritti vanno inviati all’indirizzo: Associazione Culturale Laminarie Corte de’ Galluzzi 11, 40124 Bologna, o a [email protected] autori degli articoli accettati saranno contattati dalla redazione.

DOM la cupola del Pilastro

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indice

PremessaCentodiquestigiorni p. 09 Bruna Gambarelli

Monopolio.Quattrovitediun’altrafibra p. 10 Laminarie

BobbyFischer.Incontrotempo p. 14 Vittorio Giacopini

SimoneWeil.L’artedileggere p. 24 Maria Concetta Sala

VarlamŠalamov.Lascritturadell’indicibile p. 31 Giancarlo Gaeta

JacksonPollock.Totem p. 39 Giuliano Guatta

((( Conversazione Trentaraccontibrevi p. 44 Intervista a Gianni Berengo Gardin

((( Incontri Unagiornataqualunque p. 58 Maria Amigoni

((( Il racconto CarpeDiem p. 62 Nader Ghazvinizadeh

((( La recensione UominidiDio p. 69 Zelda Alice Franceschi

((( Una striscia BlackSample p. 75 Andrea Bruno

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D OM ha compiuto un anno.Abbiamo festeggiato con Monopolio, una rassegna teatrale dedicata a quattro vite di un’altra fibra, di cui presentiamo gli

interventi scritti da chi insieme a noi l’ha nutrita.Il fotografo Gianni Berengo Gardin racconta in

un’intervista il suo reportage nel Quartiere San Donato, di cui pubblichiamo cinque immagini. Abbiamo affidato le parole che accompagnano le fotografie di Gardin ai cittadini del Pilastro e così sono nati i Trenta racconti brevi.

L’ex dirigente scolastica Maria Amigoni, con il diario di una giornata qualunque, descrive il suo rapporto speciale con il Pilastro, costruito in trent’anni di lavoro.

Il cinema di Beauvois viene ritratto con gra-zia dallo sguardo antropologico di Zelda Alice Franceschi.

Due giovani autori ci consegnano senza media-zione opere create appositamente per questo nu-mero della rivista: con il suo racconto Carpe Diem lo scrittore Nader Ghazvinizadeh ci descrive un’inizia-zione, mentre Andrea Bruno in Black Sample propone un esperimento di montaggio di segni inediti.

A tutti, cento di questi giorni.

Cento di questi giorni• Bruna Gambarelli

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Monopolio. Quattro vite di un’altra fibra• Laminarie

Il festival Monopolio – quattro vite di un’altra fibra ha inaugurato il secondo anno di attività di DOM. Monopolio ha riunito i quattro spettacoli Bobby Fischer. Il Re Indifeso, Un senso nuovo. Tre lettere

di Simone Weil, Jackson Pollock on the other hand e Esagera, Da I racconti della Kolyma di Varlam Šalamov, frutto del lavoro degli ultimi anni e composti in una proposta unitaria di lettura drammatica del presente. I tre incontri intitolati Duale, esperienze e riflessioni hanno accompagnato gli spettacoli, chiamando di volta in volta al confronto persone le cui pratiche stanno nel solco di quelle delle figure di riferimento, con l’intento di affiancare in una conversazione alcune significative esperienze concrete con i pensieri e le idee.

Ci teniamo stretti a quattro vite di un’altra fibra, che hanno negato consenso alla forza cieca del po-tere. Quattro figure che, con la coerenza delle loro vite e il rigore delle loro opere, hanno aperto varchi nel vortice rumoroso in cui stiamo.

In un momento di disgregazione collettiva ci prendiamo il lusso di volgere lo sguardo a vite altre rispetto a ciò che definiamo come monopolio, vale a dire un “regime di mercato” che ci costringe dentro un discorso precostituito e ci obbliga ad azioni cal-colate.

Monopolio è frutto di una forza-debolezza che orienta il nostro lavoro in direzione di un senso

Mani che resistono nel tentativo

di non soccombere, in un paesaggio

di bellezza che necessita

del nostro sguardo.

"

"

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nuovo della ricerca artistica e della vita in comune. Monopolio esprime vocazione al contatto - con la

materia, con gli oggetti, con la parola, con le paro-le, con i corpi, con il mondo dentro e fuori la scena teatrale, con i luoghi - e procede attraverso pratiche d’interconnessione fra fiaba e tragedia, fra gioco, riflessione, eventi creativi e esperienze di resisten-za, fra centro e periferie.

Nelle prossime pagine sono presentati quattro interventi scritti per la rivista dagli ospiti di Duale, che raccolgono la testimonianza degli incontri e degli spettacoli di Monopolio. Studiosi, artisti e in-tellettuali che ci hanno donato riflessioni dense e preziose su queste quattro vite di un’altra fibra.

• •Monopolio. Quattro vite di un’altra fibra (four lives of a different mould)• Laminarie

DOM’s second year of activities opened with the “Monopolio – quattro vite di un’altra fibra (four lives like no other)” festival, which reunited four performances, Bobby Fischer. Il Re Indifeso, Un senso nuovo. Three letters by Simone Weil, Jackson Pollock on the other hand and Esagera. Taken from Kolyma Tales by Varlam Šalamov. Those shows are the results of the last years’ work and were composed in a unique proposal for a dramatic reading of the contemporary. Three lectures titled Duale accompanied the performances. They brought together several guests whose practices somehow follow those of the reference figures for each show. The aim for those meetings was to weave in a conversation some significative practical experiences with thoughts and ideas.

In the next pages we present four written contributions by our guests at Duale, collecting some evidence of the lectures and the shows at Monopolio. Scholars, artists and intellectuals left us as gifts precious and dense thoughts on these four “lives like no other”.

{ ven 22 Ottobre 2010 ore 21.30 Bobby Fischer Il re indifeso ☞ anteprima nazionale{ sab 23 Ottobre 2010 ore 18Ancora Antigone Domande portate da donne di diversa generazione☞ oratoria pubblicaore 19 DualeEsperienze/riflessioni a proposito di Bobby Fischer☞ conversazione con Vittorio Giacopini e Marco Borsariore 20.30 aperitivo ore 21.30 Bobby Fischer Il re indifeso ☞ spettacolo { dom 24 ottobre 2010ore 19 Ampio Raggio, esperienze d’arte e di politica☞ presentazione della rivista Laminarie editriceore 20.30 aperitivoore 21.30 Bobby Fischer Il re indifeso ☞ spettacolo

{ ven 29 Ottobre 2010 ore 21.30 Un senso nuovo Tre lettere di Simone Weil ☞ spettacolo{ sab 30 Ottobre 2010 ore 19 DualeEsperienze/riflessioni a proposito di Simone Weil☞ conversazione con Maria Concetta Sala e Associazione Femminile Plurale del movimento No Dal Molin di Vicenzaore 20.30 aperitivo

ore 21.30 Un senso nuovo Tre lettere di Simone Weil ☞ spettacolo{ dom 31 ottobre 2010 ore 21.30Jackson Pollock on the other hand ☞ spettacolo

{ ven 5 novembre 2010 ore 21.30 EsageraDa I racconti della Kolyma di Varlam Šalamov ☞ spettacolo{ sab 6 novembre 2010ore 19 DualeEsperienze/riflessioni a proposito di Varlam Šalamov☞ conversazione con Giancarlo Gaeta e Francesco Bigazziore 20.30 aperitivo ore 21.30 EsageraDa I racconti della Kolyma di Varlam Šalamov ☞ spettacolo{ dom 7 novembre 2010ore 21.30 EsageraDa I racconti della Kolyma di Varlam Šalamov ☞ spettacoloore 22.30 Bandiga☞ festa di chiusura

Laminarie presenta

rassegna teatrale monografica 4 vite di un’altra fibraBobby Fischer Simone Weil Jackson Pollock Varlam Šalamovdal 22 ottobre al 7 novembre 2010Domla cupola del Pilastro via Panzini 1 40127 Bolognawww.lacupola.bo.it T 051 6242160

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Bobby Fischer: in controtempo• Vittorio Giacopini

In controtempo

Quello che è straordinario nello spettaco-lo di Laminarie dedicato a Fischer è la scelta dei protagonisti, dei tre Bobby. Il ragazzino, il giovane campione, il

vecchio matto: in scena quei tre (Lorenzo Benini, Alessandro Cafiso, Emilio Vittorio Gioacchini) sono perfetti. Basterebbe guardarli cinque minuti, fermi immobili. E infatti non c’è bisogno di parole. Tre Bobby Fischer e, in fondo uno soltanto, uno e os-sessivo. Il tema dell’ossessione (“voglio solo giocare a scacchi”, diceva lui), e questo suo essere sempre in controtempo rispetto alla storia, agli altri, alla politica, è il nodo anche del mio romanzo non-romanzo Re in fuga. Lui era sempre una cosa e il suo esatto contrario, senza volerlo. L’esempio classico?

Bobby Fischer rifiuta la logica del pareggio e al tem-po stesso lo fa vivendo tutta la sua vita di scacchista proprio durante la guerra fredda, cioè una fase in cui gli equilibri politici del mondo si reggono esat-tamente sulla logica del compromesso; sulla logica di un compromesso basato sulla paura reciproca, una doppia paura. E Fischer in tutto ciò non è certo una figura marginale. Dei vari terreni di scontro su cui si misuravano Stati Uniti e Unione Sovietica, gli scacchi non era uno dei meno rilevanti. La guerra fredda era equilibrio obbligato e insieme sfida. Sul fronte delicato – gli armamenti nucleari, la bomba atomica – c’era bisogno di un pareggio assoluto, dell’equilibrio; su tutti gli altri fronti invece Stati Uniti e Unione Sovietica si dovevano sfidare. Le olimpiadi, la corsa alla conquista dello spazio, gli… scacchi. Il terzo grande terreno di confronto erano infatti proprio gli scacchi e quello era il campo in cui il predominio dei sovietici era incontrastato. Bobby Fischer è affascinante, perché – lui che vuole “soltanto” giocare a scacchi - a un certo punto vie-ne investito della grande missione americana di ribaltare questo predominio. Deve essere il primo americano che batte i russi e la cosa straordinaria è che ci riesce. Da quel momento in poi inizia la sua seconda vita. Rinnega gli Stati Uniti e si… rinnega.

Nello specchio della storiaLa vicenda di Fischer (o dei tre Bobby) in tutte le sue tappe, o le sue età, è un pretesto perfetto per rac-contare la storia del nostro mondo dalla fine della seconda guerra mondiale al 2001. Già nella sua prei-

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storia c’è un po’ tutto. La madre in fuga dalla Ger-mania nazista che cresce lui e sua sorella da sola. La madre, sospetta comunista, era spiata notte e gior-no dall’FBI. (Questa cosa Fischer la scoprirà solo da vecchio, ma il sospetto c’era sempre stato, natural-mente. Molti dicono che lui fosse un paranoico ma, come diceva il poeta Delmore Schwartz: “Anche i paranoici hanno nemici veri”). Ecco, questo nucleo famigliare così fragile, delicato e nevrotico, diventa protagonista di una vicenda che alla lunga assume una rilevanza di portata nazionale, tutta politica. Il ragazzino spiato dall’FBI diventa la grande speranza americana. Riesce a battere i russi e siamo nel pie-no della guerra fredda, è il 1972.

E poi cosa succede? Appena Fischer arriva in cima, si rende conto che lo stanno manipolando, cioè che sta diventando - lui che è così irregolare, così individualista, così pazzoide - il pretesto di qualcosa d’altro, una pedina. E non ci vuole stare. Un po’ per motivi caratteriali, un po’ anche perché ha un’intuizione politica, per quanto confusa, ma-gari del tutto aurorale, ancora inespressa. Vincere quel campionato mondiale è stata la sua impresa e non vuole farsela scippare. Non vuole diventare il simbolo o il portavoce di nessuno. Nemmeno dell’America, di Nixon, dell’Occidente. Lo vogliono usare. Lui questo lo capisce, e non lo accetta.

Voglio solo giocare a scacchi Diceva “voglio solo giocare a scacchi” e in questa monomania non è difficile leggere anche una totale incapacità a relazionarsi col mondo, con le persone.

Ma Fischer non è un disadattato, o non soltanto. Non riesce a entrare in relazione con gli altri e col mondo e allora si rifugia in un mondo altro, logico, completamente cartesiano, di cui riesce ad avere il controllo totale. Qui si può isolare dalla politica, dalla storia, dai sentimenti... E la grande beffa di Fischer è che proprio quando questo suo isolamento è massimo, quando diventa campione mondiale, viene risucchiato dalla storia e dalla politica, che diventano dominanti rispetto agli scacchi e a quella forma alternativa di mondo nel quale si era rifugia-to e di cui era il padrone senza rivali. Molti hanno parlato anche di autismo per Fischer, o di sindro-me di Asperger. Sono psicologismi riduttivi. Nella sua vicenda c’è l’ambizione di vivere in un mondo parallelo, cartesiano, e l’insidia costante dell’im-prevedibilità della storia, della politica. È una dia-lettica strana e spietata. Per chi la racconta – o per chi la mette in scena – la vicenda di Fischer diventa appassionante quando comincia a non interessare più agli esperti di scacchi. Immagino che per loro Fischer sia interessante dalle sue prime partite fino al mondiale vinto. Per me invece quella è la parte meno significativa della sua storia, mentre narrati-vamente ho trovato bellissimo scrivere dell’infanzia di Fischer - un bambino povero di Brooklyn che fini-sce nel nobilissimo universo degli scacchi - e poi mi affascina moltissimo questo personaggio che vive nella rinuncia, che vive nascosto, fino al paradosso: una delle persone più famose al mondo che vive buona parte della sua vita nell’anonimato.

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Scompari e poi riappariDavvero, parlare di lui significa parlare di ambi-zione e del contrario dell’ambizione: della scelta di rinunciare, di uno svanire. E poi non finisce lì. “Scompari e poi riappari”, cantava Dylan. Fischer riappare nel 1992 rigiocando la stessa partita con Spasskij, dopo vent’anni esatti, quando si sta chiu-dendo la fase della Guerra Fredda. Dopo vent’anni, dal nulla in cui si era andato a confinare, quest’uo-mo riappare e gioca la parodia del suo grande trion-fo. In questa parodia io ci leggo anche la parodia della storia che ripete il suo percorso, amaramente. E ancora non è finita, non ancora. Fischer, adesso, scompare un’altra volta dopo aver fatto una serie di riflessioni sugli scacchi e la morte degli scacchi... ma quando riappare, riappare esattamente all’al-tezza delle torri gemelle, dell’11 settembre 2001. In un’intervista a una radio filippina tira fuori tutto il suo odio per gli Stati Uniti. Bisogna considera-re che la scelta di andare a giocare la partita con Spasskij nel 1992 gli era costata il bando, la cacciata definitiva dagli Stati Uniti perché c’era l’embar-go sull’Ex Yugoslavia e qualsiasi americano che trafficasse o avesse rapporti con la Ex Yugoslavia incorreva in sanzioni. Ovviamente c’erano molti americani che lì vendevano armi, facevano traffici di ogni genere, e se ne stavano in casa, tranquilli. Ma Fischer per essere andato a giocare una partita di scacchi finisce sul libro nero, è perseguito e non può più tornare in patria, nemmeno per assistere la madre in punto di morte. È l’ennesimo affronto, l’ennesima ferita. Così, l’11 settembre gli sembra

un pretesto di rivincita. Dice: “Chi semina vento raccoglie tempesta, se lo sono meritato” e aggiun-ge una serie di sparate antisemite che sono la sua costante. Paradossale, considerato che lui era ebreo al 100%. Ma chi semina vento raccoglie tempesta, e vale anche per lui, naturalmente. Questa sua ven-detta postuma gli costa parecchio; a un certo punto quel mandato di cattura nei suoi confronti viene applicato e il Giappone decide di dargli esecuzione. Fischer viene arrestato e resta più di un anno in carcere a Tokyo. Come finisce la vicenda? Finisce in Islanda, nell’unico paese in cui continuavano ad adorarlo, senza riserve, dove infatti aveva vinto il suo campionato mondiale, rendendo l’Islanda ce-lebre, a sorpresa. Per questo motivo, Reykjavík gli diede asilo politico e lui in Islanda svanirà di nuo-vo, un’ultima volta. Scompare in questo territorio che è una sorta di compendio della sua vita. Campi gelati e bianchi, del tutto piatti, segnati solo dalle file di pali dove restano appesi gli stoccafissi. Un paesaggio che sembra una scacchiera, in bianco e nero. Ormai si era ritirato da tutto, chiudendosi nel silenzio assoluto della mente. Voleva solo giocare a scacchi e finalmente trovava pace. Adesso il mondo era davvero diventato una scacchiera.

“Io credo solo nelle buone mosse”. Non credo nella psicologia, ha detto una volta, io “credo solo nelle buone mosse”. È una visione pla-tonica, la sua. Ornette Coleman, uno degli ultimi grandi jazzisti, in un’intervista recente in cui gli chiedevano che musica ascoltasse, rispose: “Io

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ascolto qualsiasi cosa. Non esiste cattiva musica, esistono solo cattive esecuzioni”. Come dire, solo gli umani possono rovinare la musica... Questo è lo stesso ragionamento di Fischer: solo gli umani pos-sono rovinare gli scacchi. A lui non importava nulla di chi aveva di fronte. La psicologia è l’ultimo dei suoi problemi: esistono le mosse, le idee platoniche che si devono in qualche modo contemplare, sapen-do che si è dentro alla caverna, che è tutto riflesso, che ogni cosa che ci appare è ombra di ombre. Ma questo è secondario, non importa. È l’idea che con-ta, non il personaggio che casualmente l’incarna muovendo bene o male sulla scacchiera. Esistono soltanto le “buone mosse”.

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Bobby Fischer. Il re indifeso• Laminarie

con Lorenzo Benini, Alessandro Cafiso, Emilio Vittorio Gioacchini

regia, scene e suoni Febo Del Zozzocura Bruna Gambarelli

organizzazione Federica Rocchitecnica Carlo Colucci, Matteo Chesini

Off beat • Vittorio Giacopini

Fischer’s tale, in all its stages, is a perfect pretext to tell the story of our world, from the end of World War II up to 2001. Bobby Fischer is fascinating because - while he would “just” like to play chess - he was entrusted with the great U.S. mission of being the first American to beat the Russians at the World Chess Champion.

This is what is so extraordinary in Laminarie’s performance Bobby Fischer il Re Indifeso is the choice of three protagonists, three Bobbies. The kid, the young champion, the old loony: those three are perfect on stage. It would be enough to look at them, standing still, for five minutes. And, as a matter of facts, they don’t need any word. Three Bobby Fischer and, finally, just one, a single obsessive one. The theme of obsession and its being always off-beat with history, with the others, with politics.

Il testo è tratto dall’incontro Duale - esperienze e riflessioni: a proposito di Bobby Fischer a cura di Laminarie,

tenutosi a DOM La cupola del Pilastro a Bologna nell’ambito della rassegna Monopolio quattro vite di un’altra fibra

il 23 ottobre 2010. Ospiti della serata sono stati Vittorio Giacopini, autore del libro Re In fuga. La leggenda di Bobby

Fischer (Mondadori 2008) e Marco Borsari, Presidente del Comitato Regionale Emilia-Romagna

della Federazione Scacchistica Italiana.

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Donne semplici, spesso silenziose ma determinate e coraggiose, madri di famiglia, educatrici, ma anche lavoratrici serie e instancabili, oggi come ieri

assumono un ruolo sempre più importante nella società e nei luoghi dove lavorano e vivono. Così sono le donne del Pilastro.Vinka Kitarovic

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Simone Weil: l’arte di leggere• Maria Concetta Sala

La riflessione e la meditazione di Simone Weil scaturiscono dal legame e dalla con-nessione fra concepire, sentire e agire, per-ché “non si dà riflessione filosofica senza

una trasformazione essenziale nella sensibilità e nella pratica della vita”. Per questo, accostarsi alla

sua filosofia non solo esige la re-visione della gram-matica del vivere e lo scardinamento della sintassi abituale del pensare come della morfologia del con-vivere, ma richiede altresì e in primo luogo un lavo-ro di depurazione orientato a un’azione su di sé che addestri a dimenticare il proprio io fino a eroderne la tendenza a occupare il centro del mondo. Proprio per evitare di cascarsi addosso, bisogna, da una parte, esercitarsi a liberare spazio dentro se stessi, fare il vuoto e, dall’altra, senza smarrire i vincoli invisibili con tutto ciò che è, trovare il coraggio di affacciarsi inermi sull’imprevisto, di esporsi senza balaustre al mondo, stretti come siamo fra necessi-tà cieca e desiderio di bene, fra potere della forza e aspirazione alla giustizia.

Questo lavoro non è un’operazione indolore e tuttavia, qualora lo si conducesse senza tregua, in umile attesa, con vigile attenzione, provando e ri-provando, darebbe i suoi frutti: una crescita lenta e inesorabile della disponibilità a incontrare le cose e a vedere realmente ogni altra creatura; un’apertura all’amore più grande, quale è il rispetto della facol-tà di libero consenso nell’altro; dei sommovimenti impercettibili eppure incisivi sui piani molteplici della vita individuale e collettiva... Perché un’ac-quisizione sempre più grande della consapevolezza di sé e della condizione umana, mentre sottrae po-tere all’io e dà significato alle esperienze singolari e alle pratiche in presenza, non può che contribuire a tessere, con i fili ereditati dal passato, un ordito e una trama che compongono un disegno nuovo e mai definitivo.

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C’è una dimensione poco esplorata della nostra esistenza che riguarda l’arte di leggere il mondo: da una parte siamo afferrati dal di fuori attraverso i sensi; dall’altra parte, siamo noi stessi ad attribuire dei significati alle apparenze - sottolinea Simone Weil: noi non pensiamo le sensazioni, eppure attra-verso queste leggiamo qualcosa che ci afferra dal di fuori e che allo stesso tempo dipende anche da noi. Non c’è da una parte il soggetto e dall’altra la realtà oggettiva; essi sono sì distinti ma non separati, si incontrano di continuo, interagiscono. Se vogliamo a nostra volta agire sul mondo, sugli altri o su noi stessi, dobbiamo agire sui significati stabiliti, dob-biamo leggere e far leggere altrimenti quel testo dai molteplici significati che è il mondo. L’arte, l’inse-gnamento, la politica, la guerra sono per l’appunto azioni sugli altri che consistono essenzialmente nel mutare ciò che gli uomini leggono e quindi nel mo-dificare i rapporti di forza.

Noi non solo leggiamo ma siamo a nostra volta letti e fra queste letture avvengono delle interfe-renze. Possiamo disporre le nostre letture secondo una gerarchia di valori: “leggere la necessità dietro la sensazione, leggere l’ordine dietro la necessità, leggere Dio dietro l’ordine”. Passare da un gradino all’altro in questa scala di letture sovrapposte non implica soltanto una sospensione e un arresto nella lettura, ma anche una trasformazione continua mediante quell’operazione non indolore che com-porta il de-centrarsi per far posto al centro vero, dal quale è dato vedere le diverse e molteplici letture possibili e la nostra soltanto come una di esse. Si

tratta di sforzi negativi a vuoto, senza ricompen-sa; si tratta di un lavoro metodico che coinvolge il corpo, l’anima e lo spirito; è questa la filosofia in atto e pratica che scorgiamo nella vita e nell’opera di Simone Weil.

La decisione di lavorare in fabbrica, il coinvolgi-mento nella guerra di Spagna, la passione per la ve-rità sono scelte e tratti esemplari sia di un’esistenza protesa a spostarsi di continuo dal centro del pro-prio sistema di riferimento sia di un metodo orien-tato verso la lettura vera; essi aprono un varco verso qualcosa che ci supera infinitamente, in direzione del bene. Attorno alla vicenda singolare della filo-sofa francese si accentra uno dei quattro spettacoli di Laminarie dedicati a quattro vite di un’altra fibra, vite altre rispetto al regime di mercato vigente, ri-spetto a un monopolio che mortifica i corpi e le anime dei singoli e delle collettività. Lo spettacolo Un senso nuovo propone infatti una successione di tre scene che si aprono l’una sull’altra dedicate a tre lette-re di Simone Weil: la prima indirizzata all’amica Albertine, il cui oggetto è la lettura della sua espe-rienza come operaia; un’altra inviata a Bernanos, nella quale si ri-legge l’atmosfera della guerra civile spagnola; infine, quella da Londra ai genitori, una delle ultime scritta prima della morte, che impone di metterci in ascolto delle verità che i pensieri della filosofa contengono.

Nella prima scena Febo Del Zozzo traduce, attra-verso lo scontro con la materia e i colpi che ne affer-rano dal di fuori il corpo e attraverso una trama di suoni assillanti e ripetitivi, l’ossessività del lavoro

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lavoro, abbiamo preferito farci fecondare da loro in attesa di trovare una lingua efficace che ne suppo-nesse la forza. Questa lingua non c’era perché non c’erano più i discorsi, allora occorreva rifondare i di-scorsi. Nel far questo abbiamo dovuto spazzare via la persona, la biografia, la narrazione, i prima: ri-partire dal vuoto, dalla grammatica, dalla sintassi e dalla morfologia” (Laminarie, Tragedia e fiaba, a cura di Bruna Gambarelli e Claudio Meldolesi, Titivillus Edizioni, 2008).

L’attesa ha dato e continua a dare i suoi frutti: Laminarie rende sensibili il legame e la connessio-ne tra concepire, sentire e agire, quella relazione tra piani molteplici di lettura che è relazione simul-tanea tra i pensieri. Grazie alla necessariamente lunga gestazione di una modalità di lettura e me-diante la trasposizione dell’attesa in azioni teatrali fondate su tecniche sonore e scenografiche vieppiù affinate nello scartare ciò che può “velare il model-lo”, Un senso nuovo non solo ci restituisce i riflessi del-la scrittura e della vicenda umana di Simone Weil ma anche tenta di cogliere attraverso il linguaggio molteplice del teatro “la cosa muta che deve essere espressa”.

• •

in fabbrica e la conseguente frantumazione che umilia e uccide la facoltà di attenzione nei lavora-tori, un delitto imperdonabile, perché è il “delitto contro lo spirito”. Alla seconda scena dà sostanza, al di là dello stesso sipario dinanzi al quale si è svolta la prima, un’ombra e danno suono una pluralità di echi, quasi ad evocare la distanza necessaria a rileg-gere la follia omicida che in circostanze di guerra può abbrutire tutti, persino coloro che apparirebbe-ro schierati dalla parte del bene. Cade il sipario-velo e una rete di coppie di fili molteplici tagliano il ri-quadro delimitato sui due lati verticali e riempiono lo spazio da ogni parte con linee intersecantisi in più punti eppure convergenti in un unico centro luminoso. Questo nuovo sipario lascia intravedere un fondale formato di lunghe strisce fissate in alto composte di foglietti tremolanti cuciti l’uno all’al-tro. Pur richiamando i foglietti tibetani di preghie-ra e quelli che compongono la massa non ordinata di frammenti dei Quaderni, la parete di fondo con il suo reticolo minuto afferra dal di fuori me spetta-trice dando quasi un corpo al mondo in quanto testo dai molteplici significati: da laggiù si leva la voce ferma e vibrante di Bruna Gambarelli che legge le ultime volontà di Simone Weil indirizzate anche a noi po-steri.

E a Bruna Gambarelli lascio il compito di chia-rire un aspetto essenziale della pratica teatrale di Laminarie: “Ogni nostro spettacolo è iniziato pen-sando ad autori incontrati in precedenza. [...] le loro opere contenevano ciò che per noi è il teatro. Non ci siamo arresi all’idea di utilizzarli nel nostro

The art of reading• Maria Concetta Sala

Of the four Laminarie’s performances presented at Monopolio festival and dedicated to four lives of a completely different quality, different from those you could find on the market today, one is centered around the peculiar story of the French

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Il testo è stato scritto in seguito all’incontro Duale - esperienze e riflessioni: a proposito di Simone Weil a cura di Laminarie, tenutosi a DOM La cupola del Pilastro a Bologna nell’ambito della rassegna Monopolio quattro vite di un’altra fibra il 30 ottobre 2010. Ospiti della serata sono state Maria Concetta Sala, studiosa di Simone Weil con Antonella Cunico e Lucia Catalano dell’associazione Femminileplurale del movimento No Dal Molin di Vicenza.

Un senso nuovo. Tre lettere di Simone Weil• Laminarie con Bruna Gambarellisuoni e scene Febo Del Zozzovideo Lino Grecotecnica Carlo Colucci, Matteo Chesini, Filippo Deambrogiocura Federica Rocchi

philosopher Simone Weil. The Un senso nuovo performance shows a sequence of three scenes dedicated to three letters by Simone Weil: the first addressed to her friend Albertine, whose subject is a rereading of her experience as a factory worker; another one sent to Bernanos, in which the atmosphere of the Spanish Civil War is retold; and, finally, the one from London for her parents, one of the last written before her death, that forces us to listen to the truths contained inside her thoughts.

Laminarie makes perceptible the connection between to conceive, to perceive and to act. Through […] theatrical actions based on aural and scenographic techniques apt to discard what could “veil the model”, Un senso nuovo not only reflects glimpses of Simone Weil’s writing and story but also attempt at finding “the mute thing that must be expressed” through the multiple language of theatre.

Varlam Šalamov: la scrittura dell’indicibile• Giancarlo Gaeta

Colui che per il potere sovietico è stato un «nemico del popolo» condannato a quin-dici anni di lavori forzati in Siberia, è per noi, suoi lettori, il più grande narratore

russo del Novecento accanto a Boris Pasternak e ad Aleksàndr Solženicyn, ma con un tratto di verità più forte, più universale, poiché è nella sua scrittu-ra che ha trovato espressione compiuta l’indicibile messa in atto dell’annichilimento dell’umano, da Auschwitz alla Kolima a Hiroshima, marchio di-stintivo del secolo.

Una vita terribile, spezzata una prima volta nel 1929, a 21 anni, quando fu arrestato e condannato a tre anni di lager per aver diffuso il cosiddetto

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vissuta da esigere una nuova forma letteraria, ora-mai distante da quella incarnata dalla grande tradi-zione del romanzo russo.

È stato lo stesso Šalamov a rilevarlo, sia rifiu-tando l’eredità della letteratura umanistica russa del XIX secolo, dunque innanzitutto la tradizione tolstoiana, sia affermando l’esigenza, nel tempo della disumanizzazione dell’uomo, di rendere indistinguibile il racconto dal documento, la cui autenticità è attestata dallo scrittore senza interpo-sizioni. In definitiva è la forma romanzo a venire meno, vale a dire la creazione di una complessa architettura narrativa demandata a riflettere l’epo-ca attraverso lo schermo della creazione letteraria; dunque un artificio, ai suoi occhi insufficiente a dar conto di un’epoca «senza pari», anche quando raggiunge la perfezione de Il dottor Živago o di Una giornata di Ivan Denisovič. Non per nulla il libro che raccoglie i racconti relativi alla sua prima, giovanile esperienza del campo, Višera, porta come sottotitolo «Antiromanzo».

Spezzata la forma romanzo, tolto il velo della finzione, i Racconti di Kolima fluiscono sull’onda di un «ricordare senza fine», appena contenuti dalla partizione in cicli narrativi, i cui titoli sembrano pensati più come i tempi di una composizione sin-fonica che come enunciazione di linee tematiche. In tal modo di racconto in racconto eventi che sono indelebilmente iscritti nel corpo stesso del narra-tore, diventano visibili contemporaneamente ai suoi occhi e a quelli del lettore, senza che lo stile letterario faccia da schermo: «Tutto quello che già

Testamento di Lenin; poi di nuovo e definitivamente nel ’37, tradotto nei geli dell’estremo nord per at-tività controrivoluzionaria a scavare oro e carbone nelle miniere, a tagliare boschi, infine, e fu la sua salvezza, a servire come infermiere nell’ospedale per detenuti. In mezzo c’era stato tempo per il ma-trimonio e la nascita di una figlia.

Dopo la liberazione ci fu lo strazio per l’impossi-bile ricongiungimento con la donna amata tanto a lungo e il ripudio da parte della figlia che non aveva potuto crescere. Ma anche l’intensa frequentazione di Pasternak e l’incontro con Irina Sirotinskaja, che lo sostenne negli anni della creazione letteraria e si prese cura di lui in quelli ultimi, quando, come lei ebbe a scrivere, «raggiunto dall’ombra dei lager, i frammenti della sua personalità, cementata dalla volontà e dal coraggio, si erano disgregati».1 Morirà nel 1982 a 74 anni, fino alla fine posto sotto l’occhio vigile del potere, impossibilitato a pubblicare in Russia il suo capolavoro.

Venti anni di vita da «morituro» tra lager e confi-no, venti anni in un appartamento angusto a depo-sitare nella scrittura i fatti indelebilmente impressi in ogni giuntura di un corpo imprevedibilmente sopravvissuto: tale è stata l’esistenza di Varlam Šalamov, divisa tra il tempo imposto dalla volontà insindacabile dello Stato totalitario, e il tempo au-toimposto per documentare la verità sull’inferno dei campi, attraverso un processo di rammemora-zione che fa dei Racconti di Kolima un’opera letteraria unica per concezione e scrittura. Un’opera a tal punto inseparabile dalla specificità dell’esperienza

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è accaduto è come se languisse nel cervello, basta abbassare una leva nel cervello, prendere la penna e il racconto è scritto».2

D’altra parte quel che è accaduto non riguarda soltanto l’autore, non si tratta di «ritrovare» fram-menti del proprio passato, bensì di dire la verità su ciò che si è visto, scrivere «la storia non soltanto del mio corpo, del mio destino, della mia anima, ma anche dello Stato, dell’epoca, del mondo».3 La potenza della scrittura di Šalamov discende dall’as-sunzione di un siffatto compito morale, che si fa puro sguardo sulla realtà, uno sguardo che non la-scia scampo: nessuna compensazione, nessun giu-dizio di valore, consapevolezza della totale inutilità del sapere legato a una siffatta esperienza; bastano i fatti a gridare la verità su ciò che ne è dell’uomo condotto fino all’ultima spaventosa nudità.

È innanzitutto questo, mi sembra, lo Šalamov messo in scena dal teatro delle Laminarie: l’uomo chiuso tra le strette pareti della sua stanza, sedu-to in un angolo, un libro aperto tenuto di piatto, proteso verso lo spettatore. Un uomo ora libero, ma legato per sempre ad un passato di schiavo, che riemerge nella memoria con forza dirompen-te, abbattendo le pareti del rifugio, invadendo lo spazio di rumori ossessivi, di gesti meccanici, di figure agitate da fili di marionette in convulsioni insensate. Nella messa in scena non importa infatti tanto la descrizione della vita dei campi di lavoro, quanto consentire la percezione, attraverso il ritmo della rappresentazione, dello sforzo di documentare l’indicibile, ciò che doveva restare nascosto, e che

Note 1. Ricordi, in V. Šalamov,

I racconti di Kolima, Einaudi, Torino 1999, p. XXXVI.

2. Ibid., p. XIX.

3. Ibid. p. 1074.

4. V. Šalamov, Alcune mie vite, Mondadori, Milano 2009, p. 17.

poteva essere detto in verità soltanto trovando per esso la sua forma, una forma artistica aderente alla materia della vita. Perciò a sua volta l’azione teatra-le tende a un processo di spoliazione di tutto quanto è gioco della finzione, puntando a creare immagini sensibili dell’irrappresentabile. Come a voler ap-plicare al teatro la lezione essenziale di Šalamov, ricapitolata in queste parole: «Penso che chiunque legga le mie storie si renda conto di quanto siano futili le vecchie idee e gli schemi della letteratura tradizionale».4

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Varlam Šalamov: writing the unspeakable• Giancarlo Gaeta

So, this is what Šalamov’s work performed by Laminarie seems to me: the man caged between the narrow walls of his room, sitting in a corner, an open book held on a plate […]. A man who is now free, but who is forever bound to his past as a slave that reemerges in his memory with a disruptive force, tearing down the walls of his shelter, filling the space up with obsessive noises […]. In the performance, describing the life in work camps does not matter as much as allowing a perception, through the rhythm of the representation, of the

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effort to document the unspeakable, what […] could only be said by finding form of its own, an art form that is coherent with the matter of life. […] As if Šalamov’s essential lesson, sketched in the words «I believe that whoever reads my stories will understand how futile are old ideas and traditional literary schemata», was to be applied to theatre. He, who for the Soviet power was an «enemy of the people» charged with fifteen years of forced works, is for us, his readers, the greatest Russian narrator of the XX Century.

Il testo è stato scritto in seguito all’incontro Duale - esperienze e riflessioni: a proposito di Varlam Šalamov a cura di Laminarie, tenutosi a DOM La cupola del Pilastro a Bologna nell’ambito della rassegna Monopolio quattro vite di un’altra fibra il 6 novembre 2010. Ospiti della serata sono stati Giancarlo Gaeta, docente di Storia del cristianesimo antico presso l’Università di Firenze e Francesco Bigazzi, addetto Cultura e Stampa presso il Consolato Generale d’Italia a San Pietroburgo, che conobbe personalmente Šalamov a Mosca.

Esagerada I racconti della Kolyma di Varlam Šalamov• Laminarie con Febo Del Zozzoregia e scene Febo Del Zozzodrammaturgia Bruna Gambarellimacchinisti in scena Carlo Colucci, Filippo Deambrogioassistente tecnico Matteo Chesinisuoni Febo Del Zozzo, Luca Ravaiolivoce di Irina Sirotinskaja Annunciata e Sara Gambarelli

Jackson Pollock Totem• Giuliano Guatta

Questo è quello che leggo dai gesti e dagli og-getti nello spettacolo Jackson Pollock on the other hand di Laminarie.

RepertiJackson Pollock si è agganciato ad un momento pri-mordiale della storia dell’umanità in cui non c’era distinzione tra segno gesto e danza… dove ancora non esisteva la distinzione dei generi e ancora non si era formata l’esigenza di contemplare immobili un’immagine. Questa, in fondo, credo sia stata la sua grande crisi, un conflitto che non ha saputo superare, il dover essere a tutti i costi un pittore e dover conservare una superficie imbrattata e cercare di piazzarla su qualche parete di un’importante gal-leria o della casa di un grosso collezionista e mi pare che J.P. puntasse alto in quanto a mecenati, e poi questo dover trattenere i reperti di questa danza/lotta, l’esser costretto a guardarli e vedere cosa fun-zionava e cosa non funzionava, lo poneva, io im-magino, in una condizione insopportabile, perché quando sei dentro il quadro, quando fai, non ti poni il problema di cosa funziona e cosa non funziona, è quando ti allontani che escono le rogne, ed è quella la sua verità, credo, il resto è solo ciò che è rimasto.

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movimento base della Capoeira (l’arte marziale bra-siliana nata come lotta di liberazione), la ginga: un incedere senza incedere, ondeggiando ritmicamen-te, danza e lotta, il corpo piegato in avanti come a sorvolare, esplorare la terra, la tela.Il corpo del pittore funge da guida sul territorio.

GhiaccioIl pittore/attore è un pattinatore scalzo, scivola su questa lastra sottile di ghiaccio, sotto la quale si muovono le acque. Superficie liscia che non spinge il corpo in una direzione, ma lo lascia, lo invita a lasciarsi versare nuovamente, e questa apertura implica uno sforzo fisico, mentale e spirituale, un coinvolgimento totale, l’essere contemporanea-mente padrone e servo. L’espandersi del corpo in ogni direzione permette l’equa distribuzione del peso sulla superficie. Ciò che non è prevedibile è lo spessore della lastra, la sua tenuta. Il suo possibile cedimento lascia il vuoto sotto i piedi ma permette di scorgere le profondità. L’attore/pittore è disposto a rompere il ghiaccio. TotemPicasso cammina attorno al totem scrutandolo e facendolo a pezzi. Pollock danza attorno al totem girando cento volte su se stesso. FiltroGrate metalliche verticali dove l’attore/pittore intravede ed è intravisto, vengono da lui lasciate

VersareLasciar piovere, lasciar cadere le cose sulla terra. Mi piace come è reso questo momento nello spettacolo, le foglie e i rami che cadono, la ventola che fa ven-to, i suoni della natura, il canto indiano… sì perché il segno di J.P. non si imprime ma si deposita sulla superficie. Di fatto è un approccio naturale questo: le cose cadono, cadono le foglie, cadono pezzi di meteorite, piove, nevica. “Io sono natura”, ripeteva. Non c’è mai l’invasione organizzata di un corpo se-gnante, l’aratro non è ancora stato inventato, non si scava, non si zappa, siamo in una dimensione pre-contadina, nomadica, si viaggia; J.P., versando il colore viaggia, e a quanto pare sta bene, e quan-do smette di versarlo sta male, e allora il colore lo versa dentro, illudendosi di star meglio e continua a star male. Alla fine si tratta sempre di versare del liquido, o fuori, o dentro. Il suo stesso modo di gettare il colore sulla tela mi fa pensare all’atto di battezzare, ma anche al muratore che getta la mal-ta con la cazzuola. Viaggiare, versare, l’acqua che scorre, versarcisi dentro, immergersi, credo abbia a che fare con quanto è scritto nella presentazione dello spettacolo, riguardo a quel momento prezioso che non può essere cercato, ma deve essere atteso. Il pensiero è vuoto, sospeso, pronto a ricevere l’opera, e mi pare che lui più che a ricevere sia stato disponibile ad essere ricevuto, a lasciarsi trascinare per alcuni attimi lungo il corso del fiume. PosturaLa sua postura mentre dipinge mi ricorda il

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precipitare al suolo. Trattiene e lascia, filtra e con-cede, tra un buco e l’altro.

Precipitando l’aria sibila attraverso i fori come a svuotare i polmoni tutto d’un fiato.

BandieraLa fresca brezza muove la bandiera, il forte vento la alza, l’alito cattivo l’affloscia.

AncoraUn oggetto respinto, espulso dalle profondità, ri-spedito al mittente che non ricorda quando lontano nel tempo lasciò sprofondare negli abissi quel pezzo di ferro. Vaghe reminescenze di quell’atto, di quella forma, riaffiorano. Prova una certa familiarità toc-candolo, accarezzandolo, baciandolo, come se già l’avesse tenuto tra le mani un tempo e prova quasi un senso di adorazione per quel pezzo di ferro piega-to, battuto, e lo getta a terra, come quando lo gettò negli abissi, anticamente. VascaEsigenza di contenimento della consistenza liquida della natura di J.P.: scorrere, versare, espandersi. Esigenza periodica di darsi una forma, di essere contenuto, di riposare.

La vasca è uno stagno. Non si naviga, ci si riflette nell’immobilità dell’acqua.

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Jackson Pollock Totem• Giuliano Guatta

Jackson Pollock connected himself to a primordial moment in human history when there was no distinction between gesture and dance... when there wasn’t yet a distinction between genres and there was no need to stand still contemplating an image. Making rain, making things fall on the ground. I enjoy the way that moment is represented in the performance, leaves and branches falling, the ventilator blowing, the sounds of nature, an Indian singing... yes, J.P.’s sign is not written but deposited on a surface. That is actually a natural approach: things fall, leaves fall, pieces of meteorite fall, rain falls, snow falls. “I am nature”, he used to repeat. The organized invasion of a sign-making body never happens, the plow is not yet invented, nobody is digging, nobody is shovelling, we are in a pre-agricultural, nomadic dimension…

Il testo è stato scritto da Giuliano Guatta, artista visivo, dopo la partecipazione a Monopolio – quattro vite di

un’altra fibra e la visione dello spettacolo di Laminarie Jackson Pollock on the other hand.

Jackson Pollock on the other hand• Laminarie

regia Febo Del Zozzovideo Bruna Gambarelli, Fabio Fiandrini, 

Lino Greco, Hans Namuthcon Febo Del Zozzo

suoni Febo Del Zozzo, Andrea Martignoniallestimento Febo Del Zozzo

tecnica Carlo Colucci, Matteo Chesini, Filippo Deambrogio

cura Federica Rocchi

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((( ConversazioniTrenta racconti brevi Intervista a Gianni Berengo Gardin • Bruna Gambarelli

 Nel maggio 2010, il fotografo Gianni Berengo Gardin ha realizzato un reportage nel quartiere San Donato a Bologna nell’ambito del progetto “Bella Fuori dentro San Donato” della Fondazione Del Monte di Bologna e Ravenna, scattando trenta fotografie a famiglie ed

edifici dell’area.Laminarie, insieme a Elena Di Gioia, dopo aver seguito il fotografo nel percorso del suo reportage, ha affidato la scrittura delle didascalie a trenta autori che abitano o lavorano a San Donato, e che per vie diverse contribuiscono a comporre un ritratto del quartiere. Nell’abbinare gli scritti alle fotografie, è stato scelto un metodo di accostamento non illustrativo, che generasse uno scarto, in grado di raccontare la complessità di un territorio e moltiplicarne le interpretazioni e i punti di vista. Le didascalie hanno accompagnato le immagini durante la mostra fotografica del 13 giugno 2010 nella nuova piazza di San Donato.

((( Bruna Gambarelli: Quando abbiamo saputo che lei sarebbe venuto a fotografare il Pilastro, ne siamo stati molto felici perché abbiamo sempre pensato che questo quartiere abbia bisogno di essere rac-contato. La maggior parte dei cittadini di Bologna infatti non lo conosce, se non per i fatti negativi che hanno attraversato la sua storia.

((( Gianni Berengo Gardin: Voi mi giudicate più di quello che posso fare! No, per un racconto serio sul quartiere bisognerebbe stare qui un mese e non tre giorni. Per questo ho trovato questo escamo-tage delle famiglie, perché si potevano fare più velocemente. Si tratta di uno sguardo abbastanza interessante e affatto superficiale, anche se le foto sono fatte in modo superficiale, nel senso che in ogni casa siamo stati poco, in media dieci – quindici minuti. Ma dico uno sguardo interessante perché abbiamo visitato le case di famiglie provenienti da varie classi sociali, in vari ambienti, dai single fino a gruppi famigliari di 12-13 persone, dai borghesi, agli anziani, agli operai fino a una famiglia Rom. Insomma, fino ad ora sono state tutte delle sorprese e credo che, collettivamente, queste immagini pos-sano raccontare qualcosa di questo quartiere.

((( BG: Lei ha scelto di fotografare queste famiglie all’interno delle loro case attraverso un gioco di composizione, come un vero e proprio ritratto di famiglia.

((( GBG: Sì, è un po’ il modo di fotografare dei nostri

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Visi di bambini, adolescenti, giovani ormai padri, madri. Visi sorridenti, imbronciati, in lacrime, pronti a ritornare sorridenti, sereni.

Sono artefici ed attori di una storia costruita tutti insieme, a volte faticosamente ma sempre con tenacia. È una storia (o una favola?) di sogni e realtà confusi in un tutt’uno tanto da non

distinguere più dove finiscono gli uni e comincia l’altra.Una storia che non si esaurisce. Un viaggio che continua senza mai arrivare alla fine.Maria Amigoni

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avi. Quando nel passato facevano proprio il gruppo di famiglia e studiavano tutte le posizioni. Non è farina del mio sacco, ma è un modo per rifarsi un po’ all’origine della fotografia, per così dire.

((( BG: Un modo di fotografare che ricorda quello dei fotografi ambulanti di un tempo, quando nei paesi arrivavano e facevano il tipico ritratto in posa.

((( GBG: Io ho un grande rispetto per la cultura della fotografia e dei grandi maestri stranieri che ne han-no fatto la storia. Mi riferisco soprattutto alla Farm Security Administration, grazie alla quale alcuni tra i fotografi più importanti del Novecento docu-mentarono la crisi del ‘29 negli Stati Uniti. La FSA nacque nel 1935 per documentare la situazione del settore agricolo nel periodo del New Deal di Roose-velt e diede origine a un grande reportage collettivo sul malessere delle campagne. Certo qui a Bologna nella maggior parte delle case abbiamo al contrario documentato il benessere!

((( BG: Che impressione ha avuto dalle famiglie che ha visto qui a San Donato? Che storie ha tratto?

((( GBG: Ho avuto un’ottima impressione, certo cir-coscritta a quelle venti famiglie. Ma ho sentito una bella unità, uno spessore, più affiatamento di quel-lo che sento nelle famiglie milanesi. Tutti nuclei famigliari molto dignitosi, anche i più poveri. E poi mi sembra un bel quartiere, pieno di verde.Naturalmente si tratta di impressioni circoscritte

a quel poco che ho visto. Ma una critica devo farla – perché un fotografo deve sempre essere critico: troppi giocattoli a questi bambini! Li si abitua ad avere tutto, quando poi nella vita non avranno niente.

((( BG: Una cosa che mi ha colpito in questi giorni in cui ci ha permesso di seguirla è stato vedere che relazione instaura con la persona che fotografa, la sua delicatezza. ((( GBG: Beh sì c’è molto rispetto da parte mia, e poi la lezione di Henri Cartier-Bresson è proprio quella che bisogna farsi vedere il meno possibile, quando sei per strada la gente non si deve quasi accorgere che li stai fotografando. Però sulla relazione mi sa che pigli una cantonata perché io ho un pessimo rapporto con quelli che fo-tografo. Non mi interesso mai delle loro necessità, delle loro storie: fatta la fotografia, basta, chiudo. Non riesco ogni volta a stare lì: “Che carina questa bimba, ha avuto le tonsille? Poverina!”. Io ho foto-grafato la bambina e basta. Mentre altri tendono a parlare, ad avere un rapporto con le persone foto-grafate, io egoisticamente, fino a che non ho scat-tato la foto mi barcameno un po’, ma una volta fatto lo scatto basta, arrivederci. E nello stesso tempo, quando come oggi in una famiglia abbiamo dovuto aspettare che tornasse il marito di una signora, mi prende un’angoscia terribile di non riuscire a foto-grafare, magari succede qualcosa, lui non arriva… Ed è incredibile che ancora adesso, dopo 50 anni,

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mi venga questa paura di non poter scattare la foto-grafia come la voglio io.

((( BG: In questi giorni ha fotografato non solo le venti famiglie, ma anche dieci edifici del Quartiere San Donato. Lei infatti si è occupato di architettura per molti anni.

((( GBG: Sì ho fatto architettura per tanto tempo, anche per grandi architetti, soprattutto per Renzo Piano, e poi per Scarpa e per alcuni designer come Sottsass, Mari, Castiglioni. Di architettura poi ne ho fatta tanta anche per il Touring Club e per l’Isti-tuto Geografico DeAgostini. Quindi le foto degli edifici fatte qui a San Donato sono state un po’ non dico ritornare alle mie origini, ma comunque a quello che facevo vent’anni fa.

((( BG: E il teatro l’ha mai fotografato?

((( GBG: No, il teatro l’ho fotografato pochissime volte, soprattutto come architettura. In genere il te-atro non mi interessa. Non vorrei che mi giudicaste male, ma io voglio fotografare la verità e il teatro non è verità, è rappresentazione, recitazione. E poi, mi piace avere la libertà di fare quello che vo-glio. Figuratevi che mi sono fatto crescere la barba per non dover tutte le mattine andare davanti allo specchio a radermi! In teatro non posso assolutamente fare quello che voglio. Perché non posso andare in mezzo alla sce-na, devo stare ai margini, non c’è luce: non c’è la

libertà di fotografare e io che sono un pigro tremen-do voglio le cose abbastanza comode. In teatro, qualche volta ho fotografato nei cameri-ni. Lì mi piace perché è un ambiente vero, dove si può fare un reportage.Quando ero un ragazzo, a Parigi avevo una fidan-zata che faceva lo spogliarello al Concert Mayol, per pagarsi gli studi. Era l’opposto del Casinò, dove andavano i ricchi stranieri. Invece al Concert Mayol c’erano i parigini del popolo, era bellissimo. Così feci delle foto nei camerini a queste donne, c’era questa atmosfera parigina meravigliosa. Allora lavoravo in albergo alla mattina dalle sette a mez-zogiorno e poi avevo tutto il pomeriggio libero e ho conosciuto fotografi importanti, il mio maestro era Willy Ronis, un grande fotografo francese.

((( BG: Dunque la fotografia per lei è principalmente reportage…..

((( GBG: Le dirò di più, io ho una visione un po’ col paraocchi della fotografia, non mi piacciono nem-meno gli altri generi fotografici. Io accetto solo re-portage, tutti gli altri li combatto!Ora scherzo, ma devo dire che io mi sono sempre interessato dell’uomo. Per questo a un certo punto mi sono stufato di fotografare delle architetture – perché un edificio, per quanto interessante, è pur sempre un cubo! E così sono ritornato al reportage. Mi sono sempre interessato di più all’uomo. Non perché penso che Dio sia l’uomo, come direbbe il mio amico Giovanni Chiaramonte - perché non

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credo in Dio - ma per una questione di rapporto con il sociale. Ho sempre pensato che il mio lavoro so-ciale potesse aiutare qualcuno: nei manicomi, per migliorare le condizioni di vita dei degenti; nelle cooperative sociali, per dare una mano ai lavoratori; con gli zingari perché penso che siano stati sempre perseguitati. Insomma, forse questo interesse sociale deriva dalla mia formazione politica comunista. In realtà mio papà era fascista, e io stesso ho avuto un’educa-zione fascista, a scuola ci inculcavano il fascismo, a casa pure. Ma invece io, mia moglie, i miei figli siamo sempre stati comunisti, anche se adesso devo dire la verità non so più cosa sono. Direi di sinistra, ma così, generico e disperato!

((( BG: Ho visto una sua fotografia di lei scolaro col colletto bianco...

((( GBG: Ah sì, era una tale vergogna! Allora mia mamma aveva un albergo a Santa Margherita Li-gure e non aveva tempo di accudirmi e quindi io ho avuto sempre delle balie. Andavo a scuola con l’au-tista dell’albergo, non potendo mia mamma accom-pagnarmi, e i miei compagni mi sfottevano, così come per la erre moscia, mi chiamavano “il signori-no” e per il colletto bianco, ero l’unico vestito così.Ma forse è stata una fortuna perché io in albergo giocavo con i figli dei cuochi e dei camerieri. Pare addirittura che i Savoia mi abbiano tenuto a batte-simo, ma devo dire che ancora non capivo niente e non potevo oppormi! Per la mia mamma, per l’al-

bergo e tutto, avere questo rapporto con i Savoia, che venivano lì a svernare era una cosa ottima ma invece io… non so, forse questo rapporto con i figli dei proletari mi ha fatto diventare comunista ante litteram, senza leggere Marx o Lenin o i libri sacri. È un discorso difficile. Mio papà era fascista. Com’era? Dio, patria, famiglia: gli calzava proprio a pennello, però allo stesso tempo era un fascista one-sto, per così dire. Tant’è vero che fece la prigionia in India, prigioniero di guerra, e quando è tornato a Santa Margherita nel dopoguerra quelli del PC, i comunisti stessi, volevano che lui si candidasse a sindaco del paese. Lui non ha accettato perché or-mai era distrutto da cinque anni di prigionia, aveva la piorrea, male alla schiena, diarree continue. Però fu una soddisfazione che questi, che lo avevano combattuto politicamente fino a prima della guer-ra, lo abbiano poi riconosciuto come una persona per bene.

((( BG: È molto bella questa storia che ci racconta. Lei è venuto qui a fotografare le famiglie del Pila-stro e siamo arrivati alla storia della sua famiglia. Un racconto che forse era già presente in quella sua foto col colletto bianco…

((( GBG: Io credo molto in questo valore documen-tario del mio lavoro o di altri fotografi di reportage. Quando non ci saremo più, tra venti, cinquanta, cento anni, il milione e duecentocinquanta negati-vi che ho fatto nella mia vita saranno dei documen-ti importanti per ricordare come eravamo.

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Anche per questo il digitale non esercita alcun fasci-no su di me e continuo a scattare su pellicola. Certo per molti professionisti il digitale è importante, fanno una foto e due minuti dopo possono inviarla a New York, a Mosca. Ma io sono un privilegiato che può permettersi ancora il lusso della pellicola, e poi sono un fondamentalista dell’analogico! Col digitale oggi si scatta a caso, moltissime foto-grafie che poi si buttano per metà. Qualche anno fa c’era una grande società giappo-nese che faceva questa pubblicità con dei manifesti che dicevano: “Non pensare, scatta!”. Io ai miei allievi dico: “Prima pensa per due ore e poi, eventualmente, scatta.”

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Thirty short stories A conversation with Gianni Berengo Gardin• Bruna Gambarelli

((( Bruna Gambarelli: I think that this reportage of yours at the Pilastro district is very important to narrate this neighbourhood, that only a few people in Bologna really know.

((( Gianni Berengo Gardin: For a serious retelling of the neighbourhood I should have stayed here a month, not three days. Because of this, I’ve found the solution of photographing families, because that was much quicker. You need to have a quite interesting, and not superficial at all, point of view because we visited houses where different families were living - from different social classes, in different situations, from singles to groups of 12-13 people, from bourgeois, to the elderly, to the working class up to a Rom family. So, finally, I believe that these images, taken together, may have something to say about this neighbourhood.

((( BG: You chose to take pictures of these families inside their houses, as if it was a family portrait. Something that makes me remember how ambulant photographers, many years ago, arrived in villages and took the typical staged portraits.

((( GBG: Yes, it has something to do with how our grandparents used to take pictures. When, in the past, they organized the family group and studied every position. It’s not exactly my business, but that’s a way of referring to the origin of photography, as if to say. I deeply respect the culture of photography and the great foreign masters that made its history.

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Sotto casa mia due ragazzi urlano nel cuore della notte, rimproverandosi con violenza tradimenti. Ogni tanto, specie d’estate, qualcuno sembra voglia ammazzarsi, nel cortile o

in strada. Al di là del tabaccaio d’angolo, di fronte al mercato, ci sono bar, muretti e giardini pieni di arabi e di pensionati, con qualche bambino, e solo un muro sottile divide il negozio di oggetti

marocchini dalla macelleria equina. Un ponte separa le nostre notti dalla città, sopra binari che ci porterebbero lontano, nei luoghi da dove molti di noi sono fuggiti.

Nel nostro orizzonte, gli alberi illustrano i palazzi.Massimo Marino

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((( IncontriUna giornata qualunque• Maria Amigoni

ex direttrice Istituto Comprensivo 11 di Bologna

Martedì 18 gennaio 2011h. 7,00 – Come al solito la gatta mi sveglia: vuole

mangiare. Faccio finta di niente, spero che se ne vada ma non demorde.

h. 7,30 – Alzarsi: bisogna preparare i bambini, Mattia va al nido, Marta alla materna. È tutto sincronizzato: mia figlia alza uno, io l’altra. Dopo proteste e pianti (“Mi tiri i capelli..”), finalmente partono (h. 8,30).

h. 8,45 – Messo un minimo in ordine, chiudo e vado a scuola, anzi alla mia ex scuola (dimenticavo di dirti, caro diario, che da settembre scorso sono in pensione) come tutti i giorni.

h. 9,15 – Lungo il tragitto mi ricordo di essermi presa l’incarico di andare a prendere il sale per even-tuale ghiaccio se dovesse nevicare: da quest’anno

il Comune non assicura più il servizio e le scuole si devono premunire del necessario autonomamente.

h. 9,45 – Con la macchina piena di sale arrivo a scuola e faccio il giro dei vari plessi depositando i contenitori che, peraltro, non saranno senz’altro sufficienti al fabbisogno: poi si rifarà il giro!

h. 10,30 – Arrivo alle Scuole Medie Saffi e pro-grammo con la responsabile il cambio dei laboratori pomeridiani, che deve essere operativo all’inizio del secondo quadrimestre. Ci scambiamo, come tutti i giorni, le informazioni sui fatti del giorno prece-dente, sulle decisioni da prendere per affrontare i vari problemi creati dai ragazzi ma anche dagli adulti. Seguono alcune telefonate: una Preside di Trento vuole venire a visitare la scuola e quindi prendiamo accordi sui possibili giorni; la Regione Emilia Romagna mi chiede di partecipare a uno scambio con colleghi svedesi sulle cosiddette “buo-ne pratiche” per l’inclusione degli alunni stranieri e le loro famiglie (dovrei andare in Svezia!).

Sgrido alcuni alunni che sono in giro per i corri-doi, ma devo correre via perché alle 13.00 c’è in pro-gramma un incontro al Quartiere San Donato.

h. 13,00 – In Quartiere si riunisce il Tavolo Adolescenti, di cui fanno parte le istituzioni e le as-sociazioni del territorio che intervengono a vario ti-tolo sull’aggregazione giovanile e sui problemi degli adolescenti. Purtroppo mancano in molti e comin-ciamo solo alle 13,30 a ranghi ridotti. Mancando gli interlocutori, ci si limita a informazioni di routine e non si entra nel merito della programma-zione. Peccato, avrei voluto, ad esempio, iniziare a

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condividere con i colleghi del Tavolo il progetto di Scuola Aperta alle Saffi, che ho intenzione di effettua-re anche quest’anno nei mesi di giugno e luglio.

h. 15,00 – Termina la riunione con la decisione di verificare le motivazioni delle tante assenze. Faccio un salto a portare alcune lettere importanti sia all’ex Provveditorato che alla Ragioneria Provinciale dello Stato prima di andare a prendere da scuola i due nipoti (mia figlia deve partecipare alla presen-tazione di una scuola elementare per l’iscrizione della grande il prossimo anno).

Alle 17,00 – Sono di nuovo alla “mia” scuola con i bimbi che affido ad un’amica. Prendo accordi con l’ANPI per l’allestimento a rotazione nelle scuole di una mostra sui luoghi della resistenza a San Donato. Poi, siccome la nuova Dirigente è impegna-ta in un incontro urgente con educatori, docenti e genitori di un alunno, io devo presiedere una riunione con i genitori dei bambini di 5 anni per le prossime iscrizioni. È la quinta che facciamo da Novembre, ma i dubbi e le incertezze dei genitori sono sempre tanti: fomentati, purtroppo, da pre-giudizi verso plessi come il nostro, da dove tutti gli anni si ripete inesorabilmente la “fuga”.

h. 18,45 – Finita la riunione, prelevo i nipoti e vado verso casa. Accidenti: ho dimenticato la “pap-pa” dei gatti, devo trovare un supermercato!

h. 19,30 – Arrivo a casa, mangiano i piccoli e intanto preparo la cena. Ho ospiti come spesso ac-cade.

h. 21,00 – Si va a cena, la conversazione sci-vola inevitabilmente sulla situazione politica di

Bologna, sui presunti candidati delle prossime elezioni. La discussione si fa accesa, non si è mai d’accordo anche se si è nella stessa area!

h. 24,00 – A letto. Mi avevano detto che in pen-sione tutti i tempi si dilatano… Cosa non funziona?

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A day like every other • Maria Amigoni

h. 7,30 - Waking up: we need to get the kids dressed, Mattia goes to nursery, Marta does preschool. Everything is synchronized: my daughter wakes the first up, I take care of the other.

h. 8,45 - I get out and go to school, actually to my former school (I forgot to mention, dear diary, that I retired last September) like every other day.

h. 9,15 - I’ve got to go and buy some salt to take care of the ice, just in case it will snow: from this year on, the Municipality has stopped providing that service and schools have to cover for it.

h. 10,30 - I arrive to Saffi Middle High School. The responsible for the labs shares some news with me, as usual. After that, there are some phone calls: a headmaster from Trento would like to come and visit our school, the regional administration asks me to participate to an exchange about “good practices” for the inclusion of immigrant students with some Swedish colleagues. I tell some students off because they’re hanging out in the corridors, but I have to run away because there’s a meeting with other colleagues from Pilastro district at 1pm.

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((( Il raccontoCarpe Diem• Nader Ghazvinizadeh

Ho sedici anni, non ne ho mai avuti più di sedici, dunque sono molti, otto anni fa di questi tempi ero in terza elementare, non sapevo il latino, passo spesso da-

vanti alle mie scuole elementari, perchè devo capire ancora molto, non sono mai andato a salutare le vecchie maestre.

Da stasera il liceo è occupato, io dormirò qui, ho convinto i miei genitori parlando loro del fatto che, se avevo dormito regolarmente fuori con gli scout, era altrettanto naturale che lo facessi nella mia scuola.

I miei genitori, indistintamente padre e madre: “Devi saper condurre un rapporto con i professori, con gli adulti, anche se sono cattivi, cattivi con te, solo così potrai capirli, crescere, se li eviti, li osteg-gi, ti sentirai inizialmente libero, ma poi sarai solo, sono persone, come te, devi credere che tu potrai diventare come loro”.

Ancora i miei genitori: “Devi anche non reprime-re la rabbia, perchè i repressi non sono lucidi e non sono utili: a se stessi ed agli altri”.

Degli scout mi ricordo l’odore di legno bagnato e di piedi, ma anche l’impossibilità a dire di no: mi

ripetevo sempre che, non fosse stato per loro, mai avrei costruito tante cose, mi ricordo anche quando c’erano le emergenze e si lavorava senza parlarsi, anche tra sconosciuti e ci si godevano le pause.

Con gli scout ho chiuso, maturando nel tempo tanta disistima per i capi che erano degli sfigati, ho osservato senza intervenire lo scalfirsi della loro autorevolezza sino a quando lasciare è stata una naturale conseguenza: ho lasciato all’età in cui tutti lasciano.

Ma non sono riuscito a finire su di uno scooter a fumare e bere come molti altri, sono rimasto a metà strada incapace di decidermi, di lasciarmi an-dare ad un qualsiasi male minore.

Oggi comincerò con la cocaina, è deciso, sono già chiusi nell’aula da tempo, Mara Sarcinelli è uscita, sembra normale, come sembra normale chi perde l’altra verginità, è un coraggio strano quello che ci vuole.

Cammino per la scuola, entro nelle aule degli altri, come si va in spiaggia in inverno, è sera, ab-biamo sorpreso la scuola nel sonno, sono arrivate le pizze d’asporto.

Scendo di sotto, stanno consegnando i cartoni con le pizze, guardo tutti e faccio il gioco di in-ventare chi ha pippato e chi no, mi soffermo sugli insospettabili, ora faccio il gioco di aver pippato io, faccio il gioco di parlare ai commensali, di tenere banco, mi immagino visto dagli occhi della Sarci-nelli mentre tengo banco.

Ora mangiamo, penso che ho raggiunto il punto più lontano dagli scout, ora li immagino tutti boy

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– C’è la nevica! –. Sulle punte dei piedi, mento in su che spinge lo sguardo infantile, stupito per i fiocchi bianchi, oltre il vetro della finestra.

Anni cinquanta in via Beroaldo, case dei profughi istriani, i “Giuliani” per le graduatorie pubbliche.– Bambini guardate, nevica –, aveva detto al mattino la maestra.

Alla bambina quel verbo, per un errore diventato nome, consente di nominare quei fiocchi bianchi, in una lingua che sta diventando sua e la vedrà crescere.Tiziana Sgaravatto

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scout, penso che prima di pippare voglio andare nella mia aula da solo al buio, a salutare la mia vita precedente.

Sono entrato nella mia aula, non mi ha fatto impressione, mi sono seduto nel banco a fianco al mio, fatto il gioco di essere il mio compagno e di ve-dermi dal suo punto di osservazione.

Ora mi alzo e raggiungo la cattedra, il rumore dei compagni di sotto è meraviglioso, quindi non posso unirmi a loro, mi immagino un’interrogazio-ne di latino.

Cammino per i corridoi periferici, la scuola è di-ventata una strada, ogni tanto incontro convegni, mi spingo all’ultimo piano, è più freddo, c’è il ron-zio delle automatiche, prendo un caffè, penso che è il primo della vita dopocena, faccio il gioco di essere un Re della scuola, destabilito da una rivoluzione francese e tornato in incognito.

Penso che se non dovessi pippare non mi godrei tutto questo far finta di niente, entro nell’aula della cocaina.

Benetti ha in mano una sportina della pizzeria d’asporto ed un paio di forbici, taglia un angolo del-la sportina, mette la cocaina nell’angolo, lo chiude, Covelli sta tagliando la cocaina con la sua patente, la cocaina è sul quadrante dell’orologio a muro della classe che ora è sul banco centrale.

Stanno ascoltando la musica, la musica non la conosco, Liparoti sta estraendo tabacco da una si-garetta poi striscia la sigaretta sul banco dove c’è la cocaina, prendo la mia banconota.

Mara Sarcinelli sta pippando, sembra che pre-

ghi, ora tocca a me, faccio il gioco che mi stiano guardando i miei genitori, penso al prete, alla par-rocchia.

I miei genitori in coro: “Era necessario provare, provare qualcosa a te stesso, non agli altri, ora devi fuggire le mistificazioni, sugli effetti, ad esempio, sul fatto che certe cose le pensi perché hai preso la droga, ricorda: la dipendenza nasce dalla pigrizia, chiunque può scoprirsi pigro”.

Torno nella mia aula, accendo la luce, mi siedo al mio banco, prendo da sotto il banco il vocabolario di latino, penso a Mara Sarcinelli che pippa e prega e chiede l’elemosina.

Ero bravo in latino, studiavo come fosse un vizio, non riuscivo a non farlo, poi ho osservato il crollo delle mie azioni senza far nulla, riflettendo su tutta quella accidia: era davvero per la curiosità di veder cosa si prova ad andare male a scuola?

Durante le versioni mi perdevo nel vocabolario pensando che era impossibile tradurre, che chi ci riusciva aveva scavato tra lui e me un solco.

Fingo un compito in classe di latino, fingo che a farlo sia Mara Sarcinelli, questa è la versione:

Ho assunto della cocaina e mi sembra di reprimere la rabbia, vorrei addormentarmi abbracciato con Mara Sarcinelli, mi sento di non poter mai più tornare in terza elementare e di dover chiedere scusa alle maestre, mi rendo conto che fino ad ora ave-vo vissuto con il dubbio di tornare in terza elementare. Vorrei scendere al piano terra e tenere una conferenza sulla cocaina all’interno di un dibattito al quale possa prendere parte soltanto chi l’ha usata.

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((( La recensioneUomini di Dio Des hommes et des dieux regia di Xavier Beauvois, Francia 2010• Zelda Alice Franceschi

Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stra-nieri che vivono in Algeria, vorrei che la

mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ri-cordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese.

Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di una tale offerta? Che sapessero as-sociare questa morte a tante ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.

La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca.

«

Nader Ghazvinizadeh (Bologna, 1977) è di origine iraniana, si è occupato di musica ed urbanistica su quotidiani e radio. Ha scritto la sceneggiatura per il cortometraggio Drobgnac, finalista a Visioni Italiane.

Con le sue poesie ha vinto il concorso Iceberg, ha pubblicato la raccolta Arte di Fare il Bagno con prefazione di Roberto Roversi. La sua ultima raccolta, Metropoli, è stata appena pubblicata. È presente una selezione dei suoi versi nell’ Annuario di Poesia diretto da Giorgio Manacorda, ha partecipato ai Festival Internazionali della Poesia di Parma e Roma. La mostra fotografiaca AngoloB, di Mattia Insolera, è tratta dai suoi versi. È allenatore di calcio.

Carpe Diem• Nader Ghazvinizadeh

I’m sixteen years old, I’ve never been older than sixteen years old, so that’s very old, eight years ago at this time I was in third grade, I didn’t know Latin, I often walk by my elementary school, as I still have a lot to understand, I’ve never gone to say hello to my old teachers.

From tonight my high school is occupied, I’m going to sleep here, I’ve convinced my parents by telling them that, since I’ve already had regular sleepovers with the boy scouts, I might as well have them at my own school.

My parents, indifferently father and mother: “You have to know how to conduct a relationship with your teachers, with adults, even if they’re mean, mean to you, it’s the only way to understand them, to grow up, if you avoid them, if you are hostile to them, you will feel free at first, but eventually you will be alone, they are people, just like you, you have to believe that you can become like them.”

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Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdo-no di Dio e quello dei miei fratelli in umanità e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.

Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come po-trei rallegrarmi del fatto che questo popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio.

Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che for-se chiameremo “grazia del martirio”, il doverla a un algerino o a chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam.

So il disprezzo con il quale si è arrivati a circonda-re gli algerini globalmente presi. So anche le carica-ture dell’islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza identi-ficando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti.

L’Algeria e l’Islam per me sono un’altra cosa: sono un corpo e un’anima. L’ho proclamato ab-bastanza, credo, in base a quanto ne ho concre-tamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore dell’evangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti mu-sulmani.

Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ra-gione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: “Dica adesso quel che ne pensa!”. Ma costoro devono sapere che sarà final-mente liberata la mia più lancinante curiosità.

Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua pas-sione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e ri-stabilire la somiglianza, giocando con le differenze.

Di questa vita perduta, totalmente mia, e total-mente loro, io rendo grazia a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia attraverso e nono-stante tutto.

In questo grazie in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso!

E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio da te previsto. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen!

Inšallah! †ChristianAlgeri 1 dicembre 1993 – Tibhirine, 1 gennaio 1994»�

Questo il testamento spirituale di Padre Christian, priore della comunità di Tibhirine,

del monastero di Notre-Dame-de-l’Atlas. Nella not-te tra il 26 e il 27 marzo del 1996 Christian ed altri sei monaci furono rapiti da un gruppo di uomini armati. Le loro teste sono state trovate il 30 maggio nei pressi del villaggio di Médéa. Questo episodio

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debolezze: dubbi, timori, gioie, solitudini e condi-visioni. Beauvois coglie con grande intuito e profon-dità la vita degli uomini di fronte agli accadimenti della storia. I percorsi delle vite di ognuno di questi monaci emergono con delicatezza e precisione in ogni momento del film per ricomporsi in un desti-no comune, fatto di scelte eticamente complicate. È un destino che si compie nella quotidianità del lavoro dell’orto, nella contemplazione della bellezza dell’Atlante, nella preghiera, nel canto, nell’ap-prendimento della diversità attraverso la lettura co-stante del Corano. È proprio l’impegno intellettuale e spirituale che rende l’esperienza dei monaci di Tibhirine sublime. L’impegno a capire, la vocazione ad accettare, la volontà di restare per essere “segno sulla montagna”, un segno non una imposizione: un seme di presenza e di fratellanza.

Il regista attraverso una ricomposizione dei percorsi biografici di ognuno dei monaci, lavoro attento e senza sbavature, indaga il significato di traiettorie umane unite da un discorso comune nel-la fede.

I monaci di Tibhirine sono uomini di fronte alle divinità (questo il titolo originale del film, Des hommes et des dieux), “uomini normali, come lo sono tutti i monaci” scrive Guido Dotti “ricchi di doni e debolez-ze, nutriti di coraggio e frenati dalle paure, carichi di speranze e fiaccati da disillusioni. Intellettuali alcuni, più fattivi altri, taciturni, meditativi o do-tati di capacità comunicative”3. Affresco che diviene ritratto corale quando ritroviamo i monaci riuniti nell’ultima cena accompagnati dalla musica di

rimane uno dei tanti atti di feroce violenza che dal 1992 hanno coinvolto l’Algeria. La comunità di Tibhirine si trovava proprio sul fronte di quelli che i monaci chiamavano “i fratelli della montagna”, cioè i combattenti islamici, e i “fratelli della pianu-ra”, militari e forze di polizia.

Questa la vicenda al centro del film Uomini di Dio di Xavier Beauvois1, portato in concorso al 63esimo Festival di Cannes e uscito nelle sale qualche mese fa.

È nel testamento di Padre Christian e nelle testi-monianze2 (epistole, omelie, conferenze, riflessio-ni) dei sette monaci uccisi durante la guerra civile algerina, che sono riuscita a ripensare al film di Beauvois. Colpisce, in ognuno dei documenti dei monaci, la profondità di una vita donata, la volontà a non cercare mai scorciatoie, la capacità, tutta an-tropologica, nel volere “ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze”, il valore della testimo-nianza di una vita condivisa con altri per compren-dere in maniera profonda, densa. Ed infine colpisce la gioia, la gioia nel perdono ma anche nella con-divisione, nella capacità di avere saputo trovare nell’Algeria e nell’Islam “spiriti e corpi”, “corpi e spiriti” che fanno di ogni uomo, donna e bambino conosciuti, persone.

Ed è esattamente nella difficoltà, tutta uma-na, che caratterizza ognuno dei singoli percorsi biografici dei monaci, che ho trovato il filo rosso della ricomposizione cinematografica di Beauvois. Una riscrittura, quella del regista, sublime nella consuetudine quotidiana della prova delle umane

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Čajkovskij e da un bicchiere di vino rosso che Frère Luc Dochier aveva custodito con cura.

Qui il sublime raggiunge il suo grado massimo laddove ogni gesto, sguardo o riflessione umana trascende quella breve esperienza che è la vita dell’uomo.

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Of God and Men Des hommes et des dieuxDirection Xavier Beauvois, France 2010• Zelda Alice Franceschi

Xavier Beauvois’ movie Des hommes et des dieux tells the story of the monks who lived in the Tibhirine community in Algeria and were kidnapped and killed in 1996 by a group of armed men. The director proposes a sublime rethinking of human weaknesses in everyday practices: doubts, fears, joy, loneliness and sharing. Beauvois depicts with considerable insight and deepness those men’s lives in front of historical events.

((( Una strisciaBlack Sample• Andrea Bruno

Black Sample è una breve, silenziosa scena a fumetti frutto di un “ricampionamento” digitale di disegni provenienti da diverse storie precedemente edite. Un esperi-

mento di montaggio e “remixaggio” che amplifica i segni di partenza fino a generare una sequenza originale.Andrea Bruno (Catania, 1972) è autore di fumetti. È tra i fondatori del gruppo Canicola con il quale ha dato vita all’omonima rivista. Vive e lavora a Bologna.

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Note1. Regista nel 1991 di Nord.;

N’oublie pas que tu vas mourir del 1995, potente rappresentazione della guerra nei Balcani e insieme dramma di un uomo che scopre d’essere sieropositivo.

2. Le testimonianze sono raccolte nel testo dal titolo Più forti dell’odio, op.cit.

3. Introduzione a Più forti dell’odio, cit. p. 19.

Black Sample • Andrea Bruno

Black Sample is a short and silent comic, made through a digital “sample” of drawings taken from different stories which had been already published before. This editing and remixing experiment enhances the original signs and gives birth to a new narrative sequence.

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•finito di stampare nel mese di febbraio 2011 a Bolognapresso la tipografia Rabbi