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Associazione Culturale Euphonia Via Le Cole,1 – 37030 Bolca di Vestenanova (VR) Italy [email protected]

ANDARE a PIEDI II Edizione Novembre 2013

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Thirteen walking routes through Europe.

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Associazione Culturale EuphoniaVia Le Cole,1 – 37030 Bolca di Vestenanova (VR) Italy

[email protected]

Osvaldo Benetti

Andare a piediRitorno all’umanesimo

Disegni di Galliano Rosset

PREFAZIONE

E’ con grande piacere che mi appresto a presentare a “piccolipassi” – è proprio il caso di dirlo – e su richiesta dell’autore,questo libro. È un diario nel quale vengono scrupolosamentenarrati alcuni dei molti viaggi compiuti dal Signor OsvaldoBenetti, accompagnato immancabilmente dalla moglie, SignoraImelda, nel corso dei quali funge oltre che da moglie anche daconsigliere, segretaria, cuoca, lavandaia, un vero fac-totum anchenel “rimbrottare e brontolare” come: “Te l’avevo detto io…”anche se in maniera molto pacata ed educata.

Sono grato all’amico Osvaldo per aver concesso a me, unpellegrino non del “Camino de Compostela” ma di MonteBerico, questa opportunità che mi permette di esprimere tutta lamia ammirazione per i suoi viaggi ed anche un po’ di sanainvidia per non essere capace di fare come lui.

Osvaldo e Imelda, come si può facilmente comprendereleggendo la quarta di copertina, nonostante l’età e gli acciacchi,sono dei veri appassionati dell’andar per il mondo usando ilcavallo di Sant’Antonio, un mezzo con trazione a “natiche” equindi abbastanza economico e che, soprattutto, dà la garanzia dinon trovare chiusi i distributori per il rifornimento, né le officinenecessarie per rimettere a punto eventuali guasti o anomalifunzionamenti.

L’autore, ci tiene a sottolinearlo, è socio del CAI diMarostica, iscritto nella sottosezione di Sandrigo. Una voltaraggiunta l’età pensionabile, anche se la passione è di gran lunga

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antecedente, ha rivolto tutto il suo impegno prima alla famiglia,figli e nipoti, poi a praticare il suo hobby preferito: i lunghiviaggi a piedi per visitare e gustare tutte le bellezze del Creato,sia naturale che opera dell’uomo. Basterebbe solo questo perfarci capire che Osvaldo ha davvero compreso quali sono i verivalori della vita e come attuarli nel modo più naturale possibile.Siamo certi che queste, almeno per noi, “faticacce”contribuiscono ad alimentare nel suo intimo un vibrare dolce, unprofumo ed un sapore buono ma raro che tutti in fondo andiamocercando: una gioia profonda e indescrivibile che si prova allafine di ogni avventura.

E’ ovvio che tutto questo vale anche per l’adorata compagnadi tante camminate, la Signora Imelda e non solo per non esseretacciati di maschilismo, ma perché avere a fianco un“navigatore” consumato come Lei è un lusso ed un vantaggioprezioso che non tutti si possono permettere, specie al giornod’oggi e per i motivi che conosciamo.

Una volta iniziato un piccolo viaggio, fatto apposta per tastareil polso e valutarne le conseguenze, i due camminatori non sisono più fermati, anzi hanno continuato a macinare, “pedibuscalcantibus” chilometri su chilometri, allungando di anno in annole mete da visitare, anziché accontentarsi di ridurre le distanze,dato che ad aumentare c’era l’età e mi pare che ciò fosse giàabbastanza.

Credo che per fare questo sia necessaria una intesa particolarefra i due “complici”, altrimenti non sarebbe possibile concepire aattuare cose, o meglio viaggi, così ardui per i più di noi chepreferiamo godere gli agi e le comodità correnti. Infatti credo chead Osvaldo, nei giorni di pausa a casa, manchino un poco irichiami, gli ammonimenti, i “te l’avevo detto”, insomma iripetuti borbottii della Signora Imelda, quella stessa che spinge ilmarito a fare dei nuovi viaggi, incurante dell’età e della fatica,unico cruccio la nostalgia dei nipoti, rivolgendosi a lui inmaniera così ingenua ed infantile che sembra studiata apposta, inquesto modo: “Andiamo a …Praga?” – e senza aspettare una

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qualche risposta aggiunge: “A piedi, naturalmente!”, quasi chePraga o Vienna fossero lì dietro all’angolo.

Questa domanda così birichina ma disarmante e sincera hadato il titolo al libro e Osvaldo, che dapprima finge di non avercapito, ma, una volta chiarito che l’intenzione è seria e non sitratta di uno scherzo, si mette subito di buzzo buono nel reperiretutta la documentazione necessaria per garantire un esitopositivo, come carte geografiche con scala ridottissima, elencodegli alloggi in cui sostare durante il viaggio, non senza peròtenere un occhio anche al portafoglio, frutto di errori passati cheper comodità chiamiamo esperienza.

Osvaldo opta sempre per i tragitti meno agevoli ma piùpanoramici e con traffico limitato, stillando alla fine la conta deichilometri da fare giorno per giorno indipendentemente dallesituazioni meteorologiche: mantellina e ombrello sono di rigoredue tra gli accessori più importanti.

Qualche giorno prima della partenza è d’obbligo unminuzioso e certosino controllo, affinché nulla abbia a mancare,ad iniziare dai documenti, quindi vestiario appropriato a secondadella stagione - anche se sono soliti viaggiare in stagioni menofredde, durante il tragitto si possono verificare tante sorprese -macchina fotografica, torcia per far luce, batterie, telefonino,coltello svizzero, creme solari e antistaminiche per la puntura diinsetti, medicinali per l’automedicazione e quanto altrol’Osvaldo che ho conosciuto può sapere tornargli utile.

Il marciatore, man mano che si avvicina l’ora della partenza,si carica di un entusiasmo contagioso ma sempre in assolutatranquillità perché, da saggio qual è, sa che la fretta è la cosa cheti fa perdere più tempo.

E finalmente si parte! Durante il viaggio Osvaldo annota nell’immancabile diario

ogni e qualsiasi evento, bello o brutto, per un ricordo personaleed anche per chi avrà la fortuna di poterlo sfogliare ecomplimentarsi con i viaggiatori.

Curiosamente ho dato una scorsa ai suoi appunti, riportati ora

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in questo volume, e sono rimasto benevolmente impressionato,non tanto dal modo corretto di esprimersi, in quanto Osvaldo siavvale della saggezza d’altri tempi, ma soprattutto per i calcolisia economici che altimetrici, di tempo e di percorso (non pernulla è ragioniere) e per la semplicità e chiarezza, direi unichepiù che rare, con le quali espone il tutto.

Leggere i suoi “diari di bordo” è una cosa piacevolissima chenon stanca mai anche per il suo modo di renderti partecipe dellesituazione che incontra strada facendo. Ti sembra di sentire l’ariafresca che ti accarezza il volto, mentre quella afosa lo rendemadido di sudore; la stessa pioggia battente, che lo perseguita avolte per ore, sembra penetrarti nelle ossa, facendoti rabbrividire;per non parlare della stanchezza che a volte lo coglie stremato edimpreparato e che sembra coinvolgere anche il lettore.

Non mi dilungo oltre. Credo di aver rubato fin troppo spazioall’autore, ma vorrei permettermi un consiglio: leggete il libro,fatelo leggere agli amici, regalatelo per qualche occasione, statecerti che avrete scelto bene perché un libro, specie un diario,rappresenta l’espressione più intima e sincera del suo autore. “Unlibro è per sempre”!

Toni Fabris

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E’ sostenibile quello sviluppo che soddisfa i bisogni delpresente senza compromettere la capacità delle generazionifuture di soddisfare i propri bisogni

Bruntland Commission 1987

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RITORNO ALL’UMANESIMO

Sollecitato da amici e parenti, ma anche da motivazionipersonali, ho pensato di unire in un unico volume alcuni diaridella nostra più che decennale esperienza di camminatori.

Il nostro terreno preferito è la montagna, ma non disdegniamola pianura, il mare, i fiumi, i colli e tutto quel meravigliosomondo che ci accoglie.

Non cercate nella mia prosa qualcosa di letterario: ho scrittoquesto libro con … i piedi. La sera, stanco dopo una giornata dicammino, mi appartavo per fissare sulla carta le vicende delgiorno. Troverete le solite cose: ci siamo svegliati, abbiamo fattola colazione e siamo partiti; in salita o in piano abbiamocamminato per venti o trenta chilometri, a volte più, a voltemeno e, alla fine, abbiamo trovato la cuccia per la notte.

Vita semplice, da pellegrini.Poche cose nello zaino, il minimo indispensabile. Nessuna

certezza più avanti, per la notte, ma sempre fiduciosi che lagiornata si sarebbe conclusa bene. Un rifugio, un hotel, unacamera, una Zimmer o Lager, una chambre d’hôtes ci avrebberoaccolti. Male che andasse si sarebbe potuto dormire accoccolatiin un sentiero, sotto il cielo stellato. Oltre allo zaino, un paio discarpe e un bastone: tassativamente bandito qualsiasi mezzo ditrasporto; solo qualche traghetto per attraversare eventualmenteun lago. Ma la più grande soddisfazione viene dall’andare apiedi.

E’ stata la mia seconda giovinezza, forse più bella della

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prima, e il merito va anche alla mia compagna di tanti viaggi,mia moglie Imelda.

Devo aggiungere che non tutti i miei viaggi a piedicompaiono in questo volume; altre avventure, con diversecompagnie, rimangono in archivio perché non voglio appesantirel’eventuale lettore.

Ho cercato, invece, l’appoggio di un artista, Galliano Rosset,per abbellire e documentare i viaggi con le varie fermate, i passipiù importanti, le città, le montagne e gli incontri peculiari.

Osvaldo Benetti

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GIUBILEO - 2000Pellegrinaggio a Roma per il Giubileo - Km. 600 gg. 20

E’ vero, siamo dei crociati miserabili, e lo sono anche queicamminatori che, ai nostri giorni, non affrontano imprese tenacie di lunga durata. Le nostre spedizioni non sono altro che gite eci ritroviamo, la sera, accanto al vecchio focolare da cui siamopartiti. Dovremmo avanzare con imperituro spirito di avventura,come se non dovessimo mai far ritorno, preparati a rimandare,come reliquie, i nostri cuori imbalsamati nei nostri desolati regni.

Se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino.

Henry D. Thoreau

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A mano a mano che i giorni passano dopo l’aperturadell’Anno Santo 2000, mia moglie ed io parliamo quasi ognigiorno di compiere un pellegrinaggio a piedi a Roma. Sembrache ci prenda una febbre ad alta tensione per preparare le coseprincipali e iniziare l’avventura.

Se la memoria non ci tradisce, ricordiamo che parlavamo digiorno e di notte, programmando giornate, tappe, fermate, strade,case di accoglienza dove sostare per dormire, soldi persopravvivere, carte geografiche con itinerari chiari e dettagliatinei minimi particolari. Agli amici che ci interrogano rispondiamodicendo la verità, aggiungendovi la data approssimativa dipartenza.

Arriva il mercoledì 8 marzo 2000. Diamo inizio alla primatappa con gli zaini sulle spalle e il cuore pieno di trepidazioneper la nostra tanto agognata avventura. Partiamo da Vigardolo,che è una frazione di Monticello Conte Otto. Conta circa 1300abitanti e si trova a circa 7 chilometri a Nord Est di Vicenza.Piccolo paese, ma con la Villa Valmarana del Palladio.

Partiamo alle 5,30 del mattino, presto, per evitare il trafficodei pendolari lungo la via Nicolosi. Arrivati a Vicenza verso lesette, sostiamo in Piazza dei Signori per una foto ricordo. Ciavviamo quindi verso Porta Monte per via Ss. Apostoli, SanRocco e Santa Caterina. A Porta Monte sostiamo in un bar per uncaffè. Il barista ci riconosce, per esserci passati altre volte, e cichiede dove siamo diretti. “A Roma”, è la nostra risposta.“Ricordatevi di me quando sarete dal Papa”, ci prega il barista.Prendiamo qui la pista ciclo-pedonale che fiancheggia la RivieraBerica, già sede delle tramvie. Alla destra notiamo la splendidaRotonda, villa capolavoro del Palladio. Giunti a Longara eattraversato il paesino, prendiamo la strada di San Rocco che saleverso i Colli Berici.

Alle dieci arriviamo a Villabalzana, dove sostiamo per unospuntino. Proseguiamo per Olmi ma qui, erroneamente,prendiamo la stradina che scende a Mossano, dove non troviamonessuno a cui chiedere informazioni. Dopo aver consultato la

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cartina, ci dirigiamo verso Barbarano Vicentino alle pendici Sud-Orientali dei Colli Berici, luogo di buona produzione vinicola e,sui colli, coltivazioni di ulivi. Da qui ci dirigiamo verso Toaraper riprendere l’itinerario programmato. Attraversiamo la stradache da Toara porta a Pozzolo, un piccolo altopiano sempre suicolli Berici, arriviamo a Campolongo per una stretta stradina.Arrivati a una fontanella, ci fermiamo a osservare le primule e glialtri fiori che fanno capolino tra le foglie secche e risaliamo unsentiero che supera il colle sopra Sossano. Si tratta di un vecchiosentiero solcato dalle ruote dei carri, ormai in disuso, che sfociasu una strada sterrata; scendiamo per questa tra vigne e ulivi,anticipo del paesaggio toscano, e giungiamo finalmente al nostroalbergo in posizione panoramica sopra Sossano, altro importantecentro di circa 4000 abitanti situato all’estremità meridionale deiColli Berici, nel cui centro sorge la bella chiesetta del ‘700 diforma ottagonale, detta dell’Olmo, dell’architetto venezianoGiorgio Massari.

Così concludiamo la prima giornata di cammino. Siamo unpo’ stanchi, per la prima giornata da pellegrini, ma felici. E’ laprima vittoria del lungo viaggio. Ci consoliamo e parliamo dellameta che ci attende. Ogni volta che penso a quella prima serafuori casa mi vengono i brividi, brividi di gioia, perché noncredevo di riuscire a mantenere e realizzare il progetto di unpellegrinaggio nella città eterna.

Giovedì 9 marzo. Questa mattina prima di partire per laseconda tappa faccio una riflessione. Dico a me stesso che nonho alcun merito se la Provvidenza, l’educazione ricevuta infamiglia e in chiesa mi hanno inculcato un enorme patrimoniospirituale. Per fortuna ne conservo qualche briciola e ringrazio ditutto cuore Iddio e mia moglie. Quindi partiamo, poco primadelle otto, dopo una buona colazione. Abbiamo davanti ancorauna lunga camminata che deve portarci a Badia Polesine.Qualche chilometro dopo Sossano, attraversiamo PoianaMaggiore, ultimo paese in provincia di Vicenza, dove si trovauna bella villa palladiana; di fronte a questa, c’è un’antica

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costruzione medievale in cui fervono lavori di restauro.Facciamo delle foto e ci avviamo verso Montagnana per unastrada alquanto trafficata. Dobbiamo stare in fila, uno dietrol’altro e stare attenti alle macchine che ci sfiorano. Finalmentesiamo a Montagnana, importante e bella cittadina della BassaPadovana, ricca di monumenti, con una bella cinta muraria fattacostruire dalla Signoria dei Carraresi a difesa degli Scaligeri diVerona. La cinta muraria parte dalla Rocca degli Alberi fino alCastello di San Zeno. Oggi c’è il mercato. Compriamo dellafrutta e ci sediamo nella bellissima piazza per una sostarigeneratrice. Osserviamo il duomo di stile tardo-gotico, al cuiinterno ci sono dipinti di Paolo Veronese e tre tavole del pittoreGiovanni Buon Consiglio. Non c’è che dire: Montagnana è ungioiello di cittadina, famosa in tutta Italia.

Proseguiamo il nostro cammino verso Casale di Scodosia,altro centro della Bassa Padovana, per una stradina tra i campicon poco passaggio di auto. Ai lati della strada sorgonoparecchie fabbriche di mobili d’epoca, per lo più sedie di stileantico. Casale di Scodosia è un centro irregolare, dove è difficileorientarsi, anche perché manca la segnaletica. Usciti da questaspecie di dedalo, cerchiamo la strada di campagna che conduce aMinotte, frazione di Merlara, altro comune della BassaPadovana. Chiediamo informazioni a una signora che viaggia injeep, la quale gentilmente si ferma e ci dà precise indicazioni. AMinotte sostiamo per lo spuntino dell’una seduti su una panchinavicino alla chiesa. Entriamo nell’osteria che sta di fronte per uncaffè e apprendiamo che il barista ha due figli preti. Ci fa icomplimenti per il viaggio intrapreso e ci consiglia la strada daseguire per raggiungere Castelbaldo, graziosa cittadina lungol’argine dell’Adige, famosa anche per le sue coltivazioni di mele.Percorriamo l’argine dell’Adige che fa da confine tra le provincedi Padova e Rovigo e, attraversato il ponte, siamo a BadiaPolesine, importante centro con 11000 abitanti dell’AltoPolesine, sulla direttrice stradale e ferroviaria Verona – Rovigo.Inoltre a Badia Polesine c’è la famosa Abbazia Benedettina di

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Vangadizza, edificata dai monaci benedettini prima dell’annomille sui resti di un tempio pagano. Il centro della cittadina èattraversato anche dal naviglio Adigetto che contribuisce a dareun tocco grazioso all’abitato. Tutte queste cose interessanti nonci trattengono, perché siamo ansiosi di andare avanti. Poichésono solo le quattro del pomeriggio, decidiamo di proseguire perTrecenta, altro centro agricolo del Polesine, dove sappiamo ditrovare un piccolo albergo poco costoso. Facciamo i diecichilometri che mancano con qualche difficoltà. Ci rendiamoconto che le nostre gambe hanno già percorso 37 Km. Per giunta,nel tentativo di trovare una scorciatoia sulla Transpolesana, lasuperstrada a scorrimento veloce che unisce Verona a Rovigo,allunghiamo il percorso di un altro chilometro e arriviamo aTrecenta piuttosto tardi. Una buona doccia, una buona cena e unabella dormita ci rimettono in sesto per il giorno successivo.

Prima di addormentarmi leggo in un opuscolo portato da casache il “Giubileo” è l’evento che ci permette di meditare sullestrade della vita, sulla meta del nostro pellegrinare. Bisogna cheognuno di noi, per un momento, si fermi, faccia una sosta e sidomandi: “Da dove vengo? Dove vado? Cosa si presenta davantia me?. Domande a cui non rispondo, perché assonnato, ma chericordo più volte durante le mie giornate da pensionato.

Venerdì 10 marzo. Appena alzato leggo un pensiero di donGiacomo Alberione, che ci offre la forza per iniziare bene lagiornata. “Il Signore accende le lampadine in avanti, man manoche si cammina e occorrono; non le accende tutte subito,all’inizio, quando ancora non occorrono; non spreca la luce, mala dà sempre a tempore opportuno”. Usciamo dall’albergo etroviamo la nebbia. Percorriamo la strada di campagna che giàconosciamo, perché eravamo già venuti in precedenza a tastare ilterreno, coltivata a frutteti e altri terreni pronti per la semina.Incontriamo casolari, costruiti nei tempi della bonifica e oraabbandonati, poche auto e rettilinei che non finiscono mai.Giungiamo a Ficarolo, paesino sulle rive del Po, sempre immersinella nebbia. Facciamo una breve sosta per acquistare la frutta e

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prendere un caffè, osserviamo il campanile che pende come latorre di Pisa o, forse, anche di più, risaliamo l’argine eattraversiamo il Po, entrando nella provincia di Ferrara, cioè inEmilia Romagna.

Imbocchiamo poi la stradina sopra l’argine del Panaro, fiumelungo circa 155 Km., che nasce sull’Appennino Modenese a1500 metri di altitudine e che attraversa tutta la provincia diModena e si getta nel Po in provincia di Ferrara. Verso l’unaarriviamo a Bondeno, cittadina di 15000 abitanti, situata nelferrarese, sulla strada che da Ferrara conduce a Mantova, centrodi produzione e manifattura della frutta. Nella vicina frazione diOspitale c’è il santuario della Madonna della Pioppa, protettricedegli aviatori. Anche qui breve sosta.

Cerchiamo quindi l’argine del Canale Napoleonico, checollega il Panaro con il Reno, altro fiume importante dell’EmiliaRomagna che nasce nell’Appennino Pistoiese e scorre per 211Km., sfiora i sobborghi di Bologna per poi sfociarenell’Adriatico presso Comacchio. Quante nozioni di geografia siraccolgono andando a piedi! Camminando piacevolmentesull’argine del canale, in posizione elevata e fuori dal traffico,raggiungiamo Sant’Agostino, piccolo centro del ferrarese.Consultando l’elenco telefonico troviamo un piccolo albergo, cheinvece è solo un affittacamere, dove passiamo la terza notte. Lacena in camera viene consumata con pizza al taglio in beatasolitudine, seguita da una tranquilla dormita.

Sabato 11 marzo. Ci svegliamo presto, partenza alle 7.30.Prendiamo ancora l’argine del canale sulla sinistra, passiamo ilponte sul Reno e decidiamo, a causa della nebbia e del terrenobagnato, di prendere la strada asfaltata. C’è poco traffico epossiamo camminare tranquilli. Attraverso campagne coltivate afrutteto incontriamo i paesi di Poggetto, Asia, Paltrinieri,Crocifisso e Venenta. A Malacappa ritroviamo l’argine del Reno.Sostiamo a Bonconvento per un caffè e riprendiamo l’argine delReno fino a Lippo, frazione vicino all’aeroporto, poco lontana daBologna, dove prendiamo alloggio in un albergo a tre stelle.

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Oggi sono “solo” 38 Km. e quindi una giornata tranquilla. E’vero! La provvidenza s’incarica di mettere a posto le cose e nonci domanda che un po’ di pazienza e coraggio.

Domenica 12 marzo. Partiamo da Lippo alle 7.45 riprendendol’argine del Reno. Passiamo sotto la trafficatissima tangenziale diBologna e sotto la ferrovia. Entriamo in città attraversando unponte che immette verso Casalecchio di Reno, sobborgo diBologna. Cosa si può dire di Bologna che, oltre ad essere unadella principali città d’Italia, è anche un punto nevralgico dicomunicazione tra il Nord e il Centro-Sud dell’Italia? E’soprannominata la Dotta, la Grassa, la Rossa: dotta, perché sededella più antica Università d’Europa; grassa per la sua cucinasaporita, nota in tutto il mondo; rossa, perché le sue case e i suoitetti sono rosso-mattone. E’ ricca di monumenti tra cui lacattedrale di San Petronio, patrono della città, la torre degliAsinelli e della Garisenda, la sua bella Piazza Maggiore, laBasilica di Santo Stefano, i suoi caratteristici portici, dove si notail carattere estroverso della gente che fa di questa città uno deiposti più piacevoli e vivi d’Italia.

A Casalecchio di Reno, guardando verso Sud, si nota sullasinistra il colle dove è situato il famoso santuario della Madonnadi San Luca a 350 metri di altitudine. San Luca ricorda un po’Monte Berico per la serie di portici che, partendo da PortaSaragozza in Bologna, salgono fino al santuario. Ormai lasciamoalle spalle la pianura Padana per inoltrarci nelle prime propagginidell’Appennino Tosco-Emiliano. Qui mi accade un incidente,forse a causa di una bibita troppo fredda presa il mattino. Mivengono dei capogiri. Non ne parlo con Imelda per timore dispaventarla, ma inciampo sul marciapiede e mi procuro unasbucciatura al ginocchio e una al braccio. Fingo che non sianiente e tengo duro. Dopo un po’ arriviamo al parco diCasalecchio, che già conosciamo per la Bologna – Firenzedell’anno scorso, e qui sostiamo per uno spuntino e perriprendermi dalla crisi momentanea. Entriamo in una chiesa dovesi celebra la messa domenicale. Non supponevo che Dio mi

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stesse aspettando al varco. Ascolto attentamente le parole delsacerdote, che insiste molto sull’amore di Dio: “Dio mi amavatanto che, per me, ha sacrificato suo figlio!”. Queste parole misconvolgono: Dio mi ama? Esco stralunato dalla chiesa e permolte ore il pensiero dell’amore di Dio è un chiodo fisso. Il miosguardo cade spesso sul Crocifisso che tengo in tasca e torna lasperanza. Mormoro un “Grazie” per questo nuovo sentimentoche mi pervade e che mi riconcilia con il progetto del Giubileo.Riprendiamo la strada per i sentieri che fiancheggiano il Reno,incontrando spesso ciclisti e camminatori. Oggi è domenica percui molta gente cerca svago in questa periferia. Usciamo in unastrada asfaltata e, dopo qualche chilometro ancora, riprendiamo isentieri di montagna che dovrebbero portarci a Bàdolo, frazionedi Sasso Marconi. Forse non è giornata, questa, infatti sbagliamosentiero. Per nostra fortuna incontriamo un podista a cuichiediamo informazioni.

E’ pratico dei luoghi e ci spiega che stiamo andando per ilverso opposto e che stiamo tornando a Sasso Marconi.Gentilmente ci riaccompagna sui nostri passi e ci riporta sulsentiero giusto. Per una discesa assai difficile e a volte incertaarriviamo sulla strada per Bàdolo. Consultando spesso le nostrecartine, risaliamo in mezzo al bosco e finalmente usciamo nelpiccolo paese. Dimenticavo di dire che i sentieri qui son moltobelli, ancorché incerti, e contornati da fiori di montagna:margherite, primule, bucaneve e orchidee. E tanti altri fiori di cuinon conosco il nome.

Intanto sono le 16 e dobbiamo ancora fare 13 Km perraggiungere Monzuno, centro dell’Appennino Bolognese, doveabbiamo prenotato per la notte. Cerchiamo di allungare il passo,ma intanto arriva il buio. Imelda telefona con il cellulare perinformare che faremo tardi e l’albergatore si offre di venirciincontro con la macchina. Io mi arrabbio perché non voglioderogare e non voglio mezzi meccanici. A due chilometridall’arrivo ci raggiunge, con il buio pesto, l’albergatore e ci fasalire nel suo mezzo. Qualche volta bisogna essere più morbidi,

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mi fa Imelda, e accettare l’aiuto del prossimo. L’albergoMontevenere, che già conosciamo, mi rimane gradito anche perl’ottima cucina casalinga e per il prezzo modico. Ci tornerò.

Lunedì 13 marzo. Oggi riposiamo un po’ più del solito persmaltire la fatica del giorno precedente e ricuperare energie. Incinque giorni abbiamo percorso un tratto che era previsto in sei,guadagnando un giorno, ma rimettendoci in salute e stanchezza.Il pellegrinaggio va dosato sulle proprie forze e sulla resistenzafisica, senza mai voler esagerare. Questo leggo dal libretto cheporto con me per avere qualche consiglio spirituale: “Gli scopiper cui fare un pellegrinaggio giubilare ad un santuario marianopossono essere diversi: fare un cammino di conversione e diriconciliazione, che si conclude con il sacramento dellapenitenza; onorare la Vergine Maria, madre di Cristo Salvatore;chiedere il suo aiuto per crescere nella fede e nella carità.

Accogliendo le indicazioni date da papa Giovanni Paolo IInella bolla Incarnationis Mysterium, proponiamo di realizzare ilpellegrinaggio giubilare “per contemplare e approfondire insiemeil mistero dell’incarnazione”. D’ora in poi faremo in modo dirispettare la tabella di marcia e non superare mai più i 30chilometri giornalieri.

Ci incamminiamo per un sentiero che risale il monte Venere ealle ore 12 siamo a Madonna dei Fornelli. Si ritiene che il nome“dei fornelli” derivi dall’usanza di accendere il legname perprodurre la carbonella o carbone di legna. Sostiamo peracquistare frutta, pane e companatico e risalire il monte Bastione,m.1190 di quota, che segna anche il confine di regione, perchéstiamo entrando in Toscana. Percorriamo sentieri sulle creste,ammirando ampi paesaggi. Troviamo anche le antiche vieconsolari romane, riscoperte di recente, con il selciato messo inbella mostra. Alle quattro del pomeriggio siamo al Passo dellaFuta, nome noto dai tempi della Mille Miglia, e verso le cinque aMonte di Fo, dove conosciamo l’albergo “Il Sergente” e dove cifermiamo a pernottare.

Martedì 14 marzo. Partiamo in discesa verso Santa Lucia e

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Panna, centro di acque termali, quindi verso Galliano, graziosocentro del Mugello. Inoltrandoci per una strada sterrata tra icampi arriviamo in prossimità di San Piero a Sieve, che lasciamosulla sinistra, perché intendiamo portarci più avanti, almeno finoal santuario di Monte Senario. Risaliamo di nuovo al Trebbio,antico castello mediceo, dove sostiamo per alcune foto. Di nuovoscendiamo fino al torrente Carza, nei pressi di Tagliaferro, e ciarrampichiamo, letteralmente, attraverso un ginepraio,graffiandoci sui rovi che infestano il sentiero, per uscire in unavalletta allietata dalla Badia del Buon Sollazzo, un monastero dimonache in stato di abbandono. E’ riprovevole che un taleedificio, in bella posizione panoramica, sia lasciato andare inrovina ma, si sa, le ragazze oggi non si fanno più suore.

Ci avviciniamo ora al monastero di Monte Senariopercorrendo un sentiero ombreggiato da castani, certi di trovarein questo luogo una buona accoglienza. Purtroppo il Padreguardiano è indaffarato con dei turisti e non ci dà retta. Un altro“fratello” ci dice che manca il Priore, impegnato altrove, e luinon è autorizzato a darci ospitalità. Ci spiace, perché un anno fasiamo stati qui ospiti.. Il convento fu eretto nel 1234 da settenobili fiorentini, fondatori dell’ordine dei Servi di Maria, chelasciarono le loro ricchezze per vivere in povertà, dedicandosicompletamente al servizio della Madonna, e farsi frati. Sonochiamati i Sette Santi Fondatori. Ancora adesso il convento ètenuto dai Servi di Maria, gli stessi che custodiscono anche ilsantuario di Monte Berico. Il buon pellegrino accetta tutto quelloche gli viene elargito e non si arrabbia mai per quello che nonpuò avere.

Scendiamo quindi a “la Fornace” dove si trova un piccolomonastero di suore, le quali non hanno tempo da perdere con duevagabondi come noi. Troviamo accoglienza in un albergo diBivigliano, un paio di chilometri fuori mano, dove prendiamoalloggio e dove possiamo conversare lietamente con illocandiere.

Mercoledì 15 marzo. Da Bivigliano scendiamo sempre

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seguendo “il sentiero degli dei”, attenti a non prendere quellosbagliato come ci era già capitato l’anno precedente, e alle ore 11siamo a Fiesole, dove facciamo una bella sosta. Fiesole è anticacittà di 14300 abitanti, fondata in epoca etrusca, che possiedemonumenti storici, tra cui un teatro romano, e una decina dialberghi. E’ meta prediletta di molti turisti, che da questapanoramica possono ammirare la sottostante Firenze, da cuiemerge la cupola del Brunelleschi. Qui facciamo anche un po’ dirifornimenti, non di benzina s’intende, ma di frutta e di qualchepanino. Ci fermiamo anche in farmacia perché devo medicare undisturbo che mi perseguita fin da Bologna.

Scendiamo ora verso Firenze per un’antica via panoramica,fermandoci spesso a fare delle foto alla bella città. All’una siamoa Firenze. Entriamo a visitare Santa Maria del Fiore, almeno unadelle splendide chiese, ed attraversiamo il Ponte Vecchio,luccicante di ori e pieno di turisti. Ora siamo di fronte a PalazzoPitti e cerchiamo di entrare nei giardini di Boboli, ma ci vorrebbepiù tempo. Siamo diretti a Impruneta e dobbiamo accontentarcidi quello che abbiamo visto, perché il tempo stringe. AttraversoPorta Romana e il Bobolino arriviamo a Piazzale Galileo. Siamoad Arcetri, sede di un famoso osservatorio astronomico, escendiamo attraverso gli orti a Cascine di Riccio, piccolo paesinoalla periferia di Firenze sul fiume Ema. Sul ponte chiediamoinformazioni, perché da questo momento in poi l’itinerario saràdel tutto nuovo. Avuto conferma che siamo sulla strada giusta,passiamo sotto l’autostrada del Sole e risaliamo i colli su cui sitrova Impruneta, dove arriviamo alle 17.30. L’albergo checerchiamo è chiuso per lavori e un altro si trova a sei chilometri.Siamo stanchi e cerchiamo un posto dove passare la notte; seichilometri sono troppi, ma la fortuna ci soccorre, perchétroviamo l’unica camera disponibile presso un affittacamere incentro. Troviamo anche una rosticceria che ci cuoce un polloarrosto e dell’ottima verdura. Ceniamo in camera e ciaddormentiamo (io almeno) di botto, non prima di averetelefonato a casa per sentire la nostra piccola Rebecca, che ci

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manca tanto. Giovedì 16 marzo. Impruneta è una bella cittadina sul Chianti.

Facciamo delle foto e compriamo alcune cartoline che illustranola graziosa chiesa con i portici. Io non conosco gli stiliarchitettonici, ma so apprezzare le bellezze come questa piazzaBuondelmonti e non voglio dimenticarla. Le fatiche dei giorniscorsi sono passate e la speranza di concludere il nostro viaggiosi fa certezza. E’ una bella giornata limpida, la prima da quandosiamo partiti. Ci avviamo verso Ferrazzo per una stradasecondaria priva di traffico. Dopo aver seguito per un tratto ilcorso del Greve, ci inoltriamo per un sentiero che passa vicinoalla pieve di Sant’Angelo in Vico. Attraversiamo tenute vinicole(siamo nel Chianti) sempre con uno splendido panorama davantiagli occhi.

Presso la tenuta di Vignano, villa-castello che domina la valle,usciamo sulla strada che da San Casciano porta a Panzano. Quisostiamo per chiedere dell’acqua ad una signora che ci stavasalutando, quando il marito ci invita a entrare per offrirci unbicchiere di Chianti. Ringrazio, ma devo rinunciare perché cirimane ancora molta strada. Notiamo, un po’ discosto dallastrada, un altro paese tipico del Chianti, Panzano, e ci dirigiamoper attraversarne il centro: ne valeva la pena! Sul sagrato dellachiesa facciamo la nostra piccola sosta e ripartiamo in discesa,attraversando alcuni orti e vigneti. Troviamo subito un altrogioiello, la pieve di San Leolino, che ci trattiene per ammirarnele forme rinascimentali e le pitture. Si fa tardi perché oggi cisiamo fermati più del solito.

Dopo aver camminato sulla rotabile che porta a Greve inChianti per circa un chilometro, cerchiamo un sentiero chedovrebbe farci risparmiare strada; nell’incertezza chiediamoinformazioni a un uomo che sta potando le viti e costui ciassicura che il sentiero porta a Castellina in Chianti, meta dellanostra passeggiata odierna. Dopo aver vagato a lungo per vignetie oliveti, usciamo su una strada nei pressi di Pietrafitta, altragraziosa pieve. Qui nessuno sa darci notizie sicure sul sentiero e,

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allora, seguiamo la via Cassia per gli ultimi chilometri e siamoalla meta.

Ci fermiamo al primo albergo che troviamo all’inizio dellacittadina e usciamo la sera per una pizza. Prima di coricarmi,prendo dalla tasca il mio libretto – guida per il Giubileo – e leggoil seguente passo sul volontariato: “Il Giubileo è unastraordinaria occasione di gioia che si manifesta ancheall’esterno, nel sereno e festoso incontro tra coloro che si recanoin pellegrinaggio e le comunità che li accoglie. Aderire alprogramma di accoglienza dei pellegrini del Giubileo 2000 è unmodo diverso e più intenso di vivere l’Anno Santo. Possono farloin molti, prestando per un breve periodo la propria opera comevolontari”.

Venerdì 17 marzo. Partiamo un po’ più tardi per smaltire lefatiche di ieri. Ci eravamo proposti tappe più brevi, ma labellezza dei luoghi e le pievi e tutto qui congiura a farcidimenticare il trascorrere del tempo. Una breve visita alla chiesadi Castellina e via per la Cassia 222 solo per pochi chilometri.Troviamo una deviazione a sinistra lungo una strada sterratapriva di traffico, che passa accanto ad alcune necropoli etrusche.Non manchiamo di visitare queste antichità, sostando spesso perammirare il paesaggio: immense vigne su cui troneggiano ville ecastelli ci accompagnano fino alla strada che da Vagliali porta aSiena. La abbandoniamo subito per seguire una carrareccia che sisnoda sempre tra vigne e ville. Ho finito il rullino e non so comeritrarre una villa, “La Madonnina”, di cui non posso perdere ilricordo. Prendo carta e matita e cerco di disegnarla, ma non èlavoro per me. Qui ci vorrebbe Galliano Rosset. Scendiamoinfine sulla statale 408 e, dopo un’ultima breve sosta, in un’orasiamo a Siena.

Sono soltanto le 16 e abbiamo tanto tempo per visitare la piùbella città d’Italia. Lo dico senza timore di essere smentito.Troviamo alloggio presso la “Casa del Pellegrino” che giàconosciamo per una precedente visita alla città, con finestra dellacamera che dà sulla Torre del Mangia e sul Duomo. Abbiamo

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adocchiato un ristorantino dove si mangia leggero e si paga poco.Dobbiamo tenere conto anche delle spese, perché saremo in giroper le contrade d’Italia almeno per altre due settimane.

Sabato 18 marzo. Aprendo la finestra che dà sulla cittàabbiamo la sorpresa della nebbia. Non pensavamo di trovarenebbia da queste parti, invece attraversiamo il centro fino a PortaRomana e seguiamo la strada della Certosa sempre accompagnatidalla nebbia. Prendiamo un sentiero tra i campi passando per unafattoria con i cani liberi. Imelda ha paura. Qualcuno intantotrattiene i cani e ci fa passare per seguire una carrareccia tra ipascoli e gli allevamenti di cavalli. La nebbia persiste, ma iofotografo queste belle bestie: sono cavalli morelli, simili a quellidel palio. Tornati sulla via Cassia, prendiamo la decisione diseguire questa via fino a Buonconvento, perché il traffico cisembra accettabile. Pian piano il sole vince la nebbia, facendorisaltare il dolce paesaggio toscano sparso di ville, castelli, tenuteviticole e uliveti.

Arrivati a Buonconvento alle quattro del pomeriggio,cerchiamo alloggio presso un agriturismo che abbiamoindividuato consultando l’elenco telefonico. Il locale si trova inalto, in bella posizione sopra una collina. Prima di salirci,visitiamo il centro della cittadina e acquistiamo vettovaglie per ilgiorno dopo, che è domenica, e i negozi saranno chiusi. Intantoveniamo a sapere che nostra nipote Paola ha messo al mondo ilsuo rampollo Pier, e questo ci allieta. Saliamo poi la collinasudando e faticando. Non c’è niente di peggio che trovaredifficoltà quando si crede di essere arrivati. Però ne valeva lapena: assistiamo da quassù a un tramonto stupendo, il cielosoffuso di nubi leggere e rosseggianti. Anche la cena è ottima:una ribollita come solo qui sanno fare. Solo il dormire vienedisturbato da un tale che russa rumorosamente nella cameraaccanto alla nostra. Ciò mi consente, allora, di leggere qualcosadal mio calepino: “Il Giubileo è l’avvenimento o, meglio ancora,l’evento – Il Kairos – che il Padre ricco di misericordia ci offreper meditare sul senso del nostro andare per le strade della vita,

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sulla meta del nostro del nostro pellegrinare… Si vuole mettere afuoco il Mistero per calarlo nella vita di ogni giorno, perilluminare l’accadimento che avviene nell’esistenza quotidiana,per sentirsi protagonisti di una storia personale che va al di là deipropri fini umani”.

Domenica 19 marzo. Scendiamo sulla Cassia al Km. 200 daRoma (noi ne faremo di più perché andiamo per vie traverse) eproseguiamo per circa sei chilometri con le auto che ci sfiorano.Troviamo allora un sentiero che s’inerpica per il colle dove c’èuna piccola borgata. Chiediamo a una donna che sta sul cortile dicasa se il sentiero porta ancora sulla Cassia. Avutane conferma,ci intratteniamo a parlare e a raccontare del nostro viaggio versoRoma. Ormai siamo sicuri di farcela. Scatto una foto a questadonna assieme a mia moglie e prometto di spedirgliene unacopia. Il sentiero scende tra casolari e piccoli borghi sulla strada,ma io intendo, consultando la mia cartina, trovare l’antica Cassia,ora abbandonata. Propongo così a Imelda, per niente convinta, disalire sopra un’erta collina, da dove non vediamo nessuna strada,né antica, né moderna. Scendiamo allora attraverso i campicoltivati e siamo fortunati che il terreno è asciutto perché nonpiove da tempo; dobbiamo attraversare un fossato e alla fine, conqualche difficoltà, ci troviamo di nuovo sulla Cassia. Abbiamosprecato quasi un’ora inutilmente e io devo sopportare anche irimbrotti. Di chi, non lo dico.

Arriviamo frattanto a Torrenieri, piccolo centro dovetroviamo, finalmente, l’antica strada Cassia priva di traffico. Sicammina piacevolmente, ammirando il dolce paesaggio collinareda cui emergono i cipressi, come si vede nei quadri dei pittoririnascimentali. Troviamo anche la chiesa dove il sacerdote haappena iniziato a celebrare la messa. Ci uniamo agli altri fedelidella piccola comunità e ringraziamo il Signore. Usciti, parliamodel nostro viaggio a piedi con la gente del posto, lasciandolisbalorditi. Dopo breve tratto di cammino siamo a San Quiricod’Orcia, dove sentiamo le urla dei tifosi alla partita di calcio.Cerchiamo il sentiero per raggiungere Bagno Vignoni, che mi era

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stato descritto come luogo interessante. Su consiglio della gentedel posto, attraversiamo orti e colture fino ad un’altura coperta dicipressi, per scendere in breve alla località termale.

Begno Vignoni era già conosciuto in epoca romana. La piazzadel paese è formata da un’enorme piscina di acque calde esolforose. Ora non è più concesso fare il bagno, ma una volta lagente ci veniva proprio per tuffarsi e ritemprarsi. Io miaccontento di mettere le mani nell’acqua e sentirne il tepore.Dopo le solite foto ricordo, ci avviamo per Castiglione d’Orcia,dove contiamo di pernottare. Notiamo intanto l’indirizzo di unagriturismo e ne prendiamo nota, non si sa mai. Risaliamo versola rocca di Castiglione, entrando nella cittadina per una portamedievale e cercando subito l’albergo. Pensavo di passare qui lanotte, ma mi sbagliavo: l’albergo è chiuso e in restauro. Telefonoallora al Borgheretto di cui avevo il numero e fisso una cameraper la notte. Mancano ancora due chilometri per arrivarci e siamostanchi ma, una volta arrivati, troviamo la camera e non la cena.Il gestore dice che non tiene servizio ristorante e che cidobbiamo arrangiare con la cucina attigua. Allora mia moglieincomincia: “Te l’avevo detto! Bisogna informarsi bene, primadi fissare un posto”. I gestori del locale, una coppia di insegnantiin pensione, sentito il nostro bisticcio ci invitano allora a cenarecon loro, come fossimo loro amici. La serata si conclude nelmigliore dei modi, anche perché queste persone istruite ciparlano della via “Francigena” di cui mai avevamo avuto notizia.E’ questa la più bella serata di tutto il viaggio, passata in lietacompagnia come tra amici.

Qui devo dilungarmi a descrivere l’ambiente che ci accoglie.Si tratta di un vecchio rustico ristrutturato per ricavarne quattro ocinque camere, alcune servite anche di cucina. Pure le vecchiemaniglie e le serrature sono state ricuperate e rimesse inefficienza così come le inferriate e gli oggetti in ferro battuto.Siamo fuori dalla strada abbastanza per non sentire i rumori deltraffico per cui si gode una pace a una tranquillità che non sonopiù dei nostri giorni. I clienti abituali sono per lo più di

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nazionalità inglese o americana e amano in modo particolare laToscana. Noi, invece, abbiamo una meta più lontana e piùimportante: stiamo calcando le antiche orme dei “Romei”, e cisentiamo partecipi di una storia che emerge dalle brume delmedioevo.

Lunedì 20 marzo. Durante la notte abbiamo sentito il ventoululare e, quando al mattino guardiamo fuori, vediamo le cimedei monti innevate. Tira ancora vento. Dobbiamo vestirci conquanto più vestiario abbiamo nello zaino e tenerci stretto ilberretto in testa. Riprendiamo la statale n.323 e poi la strada che,risalendo le falde del monte Amiata, ci porterà ad Abbadia SanSalvatore e infine a Piancastagnaio. Sostiamo a Vivo d’Orcia peracquistare un po’ di frutta e un rullino. Scattiamo subito alcunefoto per documentare la neve, caduta durante la notte, che ricopreancora i tetti delle case e le auto in sosta. Più avanti, al passoSeragio m.1120 sul livello del mare, troviamo un paesaggioinvernale con la neve che fa piegare i rami degli abeti.Scendiamo ad Abbadia San Salvatore, sede di una bella e famosacattedrale con la parte più antica, la cripta, di epoca longobarda.

Restiamo meravigliati e affascinati dalla splendidaarchitettura in un paese tanto remoto. Scendiamo infine aPiancastagnaio, meta della giornata, e prendiamo alloggio in unalbergo agli inizi del paese. Deponiamo gli zaini e, prima di sera,visitiamo la cittadina, ammirandone la Rocca Aldobrandesca,alcune delle numerose chiese e gli altri preziosi edifici.Raccogliamo da terra le castagne, cadute già nell’autunnoprecedente, che si sono conservate buonissime.

Martedì 21 marzo. Lasciamo Piancastagnaio percorrendo unastrada in discesa molto ripida e annusiamo uno strano odore.Sono vapori di zolfo che emanano dal terreno, come ci vienespiegato dagli abitanti del luogo e come possiamo notare noisubito, vedendo colonne di fumo uscire dal terreno. Sono ifamosi soffioni sfruttati qui per produrre calore per le case,energia elettrica a per riscaldare le enormi serre dove si coltivanofiori e piante.

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La strada conduce alla Cassia, ma noi cerchiamo e troviamocon qualche difficoltà una strada secondaria che dovrebbeportarci a Proceno e quindi ad Acquapendente. Purtroppo unaenorme serra, costruita di recente, ci sbarra il passo e ci costringea fare a ritroso alcuni chilometri. Imelda si arrabbia un po’, ma èd’accordo con me che conviene evitare la Cassia. La stradina,dopo superato un piccolo torrente, s’inerpica per i colli, spessoaggirandoli, sempre in un paesaggio gradevole, dove pascolanole greggi. Il percorso sembra interminabile, ma è tranquillo esenza traffico. Finalmente vediamo Proceno appollaiato sopra uncolle, come tutti i paesini da queste parti. Prendiamo un caffè inun bar, ci riposiamo un po’ e scendiamo ad Acquapendente, cittàin provincia di Viterbo.

Intanto siamo entrati nel Lazio. La nostra meta si avvicina epensiamo a quanto letto su un giornale locale: “la città di Roma,con le sue memorie apostoliche e le sue chiese, è ancora al centrodel pellegrinaggio. La città che accoglie i pellegrini è chiamata,secondo l’intenzione dei papi, a santificarsi per non offrire aivisitatori motivi di scandalo: parecchie volte i pontefici insistonosu questa necessaria coerenza dei romani, che sono l’unicopopolo che non si fa pellegrino per l’Anno Santo”. Sembraassurdo, ma è vero. I lontani sono quelli che pensano eprogettano di più dei vicini.

Mercoledì 22 marzo. Riprendiamo il nostro itinerarioseguendo la Cassia solo per un chilometro, poi voltiamo a destraper una strada secondaria che dovrebbe uscire a Purgatorio. Nonconfondiamo questo Purgatorio con quello di Dante o con quellodelle anime sofferenti: qui si cammina piacevolmente. Ora lecolline cedono il posto a qualche piccola altura o avallamento.Un signore in auto si ferma e ci offre un passaggio. Saputo chesiamo diretti a Roma a piedi, ci fa mille complimenti e auguri.Arrivati al bivio della statale, raggiungiamo in breve l’anticocentro di Grotte di Castro. Visitiamo le grotte, ora adibite alavanderia perché troviamo donne occupate a lavare i panni.Risaliamo verso il centro della cittadina, vivace e ben tenuto, in

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cui fervono grandi lavori di restauro delle mura e degli antichiedifici. Non mi stanco mai di scattare foto, specie lasciandoGrotte di Castro, voltandomi spesso per ammirare il profilomedievale della cittadina, che risalta tra piante di mimosa infiore.

E’ strano, ma succede spesso che ad attirare la mia attenzionesia il nome di un paese, piuttosto che la sua consistenza.Buonconvento – Bagno Vignoni – Castiglione – Abbadia SanSalvatore – Piancastagnaio – Acquapendente – Grotte di Castro –Capodimonte – Montefiascone – sono nomi che danno sapore aogni viaggio. Nessuno che ci passi rimane deluso.

Ma lasciamo queste divagazioni e proseguiamo. Arrivati sullastatale n. 489, che da Gradoli porta a Bolsena, la seguiamo percirca due chilometri e procediamo verso sinistra, lungo lastradina che costeggia il lago di Bolsena sul lato occidentale. E’una strada sterrata, non transitabile ai mezzi motorizzati, quindiideale per noi che siamo a piedi. Da un lato abbiamo il lago,dall’altro campi coltivati a frutteto. Il passo si fa lento e le sostefrequenti. Notiamo un cigno fare la guardia alla compagna chesta covando. Mi arrampico sopra un albero per fotografare unmeleto in fiore. Vi sono grosse querce molto antiche e ancoraspoglie di vegetazione. Due cuccioli si accodano a noi e ciseguono per un lungo tratto. Per un po’ stiamo al gioco e lifotografiamo, ma alla fine dobbiamo ricacciarli per non averli alseguito fino a Roma. Sempre seguendo il lungo lago e in vistadell’isola Bisentina, giungiamo a Capodimonte. Litighiamo,Imelda e io, per telefonare all’albergo, che troviamo subito sullungolago, prima di arrivare in centro.

Dopo la doccia e smessi gli zaini (come ci si sente leggeri,senza lo zaino!) andiamo a visitare la rocca, appollaiata sopra uncolle che sovrasta il lago. La cena è abbondante, i prezzi sonomodici: qui come nelle precedenti fermate, ci troviamo ad averespeso meno del previsto. Cominciamo a sentire nostalgia di casa,di Pallina, la nostra cagnolina, e di Rebecca (anche se spesso cifa arrabbiare).

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Giovedì 23 marzo. Cerchiamo di pagare il conto con ilbancomat ma, chissà perché, l’apparecchio dà come risposta“fondi esauriti”. Imelda si arrabbia, dice che non è vero e che ifondi ci sono. Sono i misteri degli apparecchi elettronici.Cerchiamo di pagare con un biglietto da cinquecentomila lire ma,anche qui, la commessa non ha il resto da darci. Alla finetroviamo un distributore di benzina (strano per gente che va apiedi) in cui ci viene cambiato il bigliettone.

Partiamo da Capodimonte con la nebbia. Arrivati a Marta,sempre sul lago di Bolsena, la nebbia si dirada. Saliamo su di untorrione che sovrasta il lago, sostiamo brevemente per mangiarequalche frutto e riprendiamo la strada Martiana verso Viterbo.C’è molto traffico, le auto si sorpassano e ci sfiorano. Si notanospesso armenti di pecore, colture di ulivi e prati. Ogni tanto unafattoria e, in lontananza, il profilo di Montefiascone. Incontriamogruppi di ciclisti ma pedoni, come noi, mai. Verso l’una sostiamoper mangiare qualcosa in un luogo che ci sembra molto bello epanoramico, ma che troviamo imbrattato di rifiuti. Qui di solitosostano i gitanti per un pic-nic e lasciano i rifiuti: bottiglie diplastica e di vetro, pacchetti vuoti di sigarette, carta e cartaccia,tutto rimane sul posto per la delizia degli occhi e del naso.

E’ questo un vizio tipicamente italiano: sembra che noiitaliani, nauseati da tante bellezze naturali, ci impegniamo adeturpare quanto più ci è possibile. Sarebbe molto facileraccogliere i rifiuti e depositarli nel primo cassonetto, ma pochiancora lo fanno.

Dopo questo piccolo sfogo, riprendo a raccontare del viaggio.Arriviamo all’incrocio della Martiana con la Cassia verso le duedel pomeriggio e, un’ora dopo, siamo prossimi a Viterbo.Passando davanti a una banca proviamo a usare il bancomat perritirare dei soldi. La carta funziona benissimo, “scorre comel’olio” dice un bancario che sta entrando, e questo citranquillizza per le nostre finanze. Entriamo in Viterbo perun’antica porta e ci troviamo subito su una grande piazza. I nomiandremo a cercarli in qualche foglietto illustrativo. Notiamo

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l’insegna di alcuni alberghi e prendiamo alloggio in quello chesembra più adatto alle nostre esigenze. E’ un albergo frequentatoda reclute di avieri, non ha la doccia in camera, ma questo non cispaventa. L’albergatrice, saputo che siamo in cammino daquindici giorni, ci invidia. “Anch’io vorrei staccare la spina eandarmene in giro senza pensieri, ma non posso: il dovere mitrattiene”. Usciamo per visitare la città, ricca di palazzi e dichiese, specie nella parte più antica. Il palazzo dei papi ricordaantichi fasti. Ora la città sembra angusta per le esigenzemoderne; le viuzze sono strette, ancorché percorse da trafficoautomobilistico.

La sera ceniamo in un ristorante pieno di giovani reclutemilitari e questo ci mette allegria. Così finisce bene una giornatanon proprio brillante.

Venerdì 24 Marzo. Si parte di buon’ora alla volta di Sutri perla strada che porta a San Martino al Cimino, delizioso centro conuna bella piazza, in fondo alla quale si trova una chiesa goticache mi affascina e mi incanta. Forse, penso, non è tenuta inconsiderazione come altre chiese più famose. Le colonne e levolte ogivali sono purissime, senza sovrapposizioni successivebarocche. La macchina fotografica, chissà perché, non funziona.Passiamo da un armaiolo indicatoci e scopriamo che il rullino èfinito. Ritorniamo per ritrarre la chiesa e il centro e ci avviamoverso il lago di Vico. Il cielo è coperto di nubi, ma non piove.Siamo fortunati perché ancora non abbiamo dovuto metterel’impermeabile o aprire l’ombrello. Il paesaggio è grigio e sinotano estese coltivazioni di noccioli. Presso una fontanellafacciamo la solita fermata di riposo e notiamo che l’acqua èleggermente gassata naturale, anche se nessun cartellopubblicitario ce ne avverte. Per terra vediamo un istrice che ci halasciato le penne… scusate, gli aculei.

Lasciando il lago di Vico entriamo in Ronciglione. Ci vuoleun’ora buona per attraversare quest’altro centro medievale,camminando per la via principale, assolutamente pedonaleperché formata da scalinate. Verso le cinque del pomeriggio

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siamo a Sutri, cittadina di seimila abitanti. Sorge su unimponente rilievo di tufo che domina la via Cassia, dove c’è unachiesa intitolata alla Madonna del Parto, e il duomo di origineromanica. Qui prendiamo alloggio in un albergo vicino al centro.Visitiamo una mostra di pittura di Cigalini nella chiesa di SanFrancesco. Il pittore stesso si offre di accompagnarci a Roma ilgiorno dopo. Ringraziamo, ma ormai è fatta. La sera ceniamo inuna trattoria tipica, dove ci viene servita una zuppa di porcini.Facciamo conoscenza con l’assessore al turismo di Sutri, che cidescrive i tesori architettonici del luogo e ci offre un depliantillustrativo. Un buon gelato completa la giornata.

Sabato 25 Marzo. Partiamo da Sutri con la pioggia.Vorremmo visitare la chiesa, ma è chiusa per lavori di restauro.Più avanti troviamo l’anfiteatro romano, le cui gradinate sonoricavate nella roccia di tufo, così come i corridoi e le entrate.Sembra un piccolo Colosseo. Anche se piove, facciamo alcunefoto ricordo e ci avviamo verso il lago di Bracciano per unastrada abbastanza tranquilla. La strada ora sale verso i MontiSabatini, dove, raggiunto il passo più alto, si entra in provincia diRoma. Scendiamo verso Trevignano Romano per una stradadismessa, non segnata neppure sulla nostra cartina, molto ripidae piena di buche, proprio adatta per chi va a piedi. Trevignano èuna cittadina turistica adagiata sulla parte Nord del lago diBracciano. Anche noi ci adagiamo sulle panchine del porticciolo,osservando le anatre e i cigni e sorbendo il nostro gelato. Non c’èfretta, per oggi.

Aggirando un’ampia cala, ci avviamo verso Poggio delleGinestre, che lasciamo sulla sinistra, perché ci teniamo sempresul lungo-lago fino ad Anguillara Sabazia, dove arriviamo versole 15 e trenta. Ci viene voglia di proseguire ancora per accorciarela tappa del giorno successivo, l’ultima, ma non troviamo puntid’appoggio per la notte. Restiamo, prendendo alloggio in unalbergo piuttosto scassato, con le porte che cigolano e la docciache spruzza acqua per tutta la camera. La finestra dà sul lago, lavista è panoramica e questo ci gratifica. Usciamo a visitare il

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centro, la chiesa, la torre adibita a scuola di musica, dove ciintratteniamo a parlare con una cantante che ci ricorda nostrafiglia Raffaella. Scendiamo sulla spiaggia e rientriamo non primadi avere fatto gli acquisti per il giorno successivo: domenica. E’stata una giornata tranquilla e per niente faticosa. L’albergatriceci sembra un po’ tonta e forse lo è davvero perché la mattinadopo dimentica il cambiamento dell’ora legale. Eravamo prontiper le sette, come d’accordo, ma la signora scende dalla suacamera solo verso le otto.

Domenica 26 marzo. Un po’ arrabbiati e impazienti di partireper l’ultima fatica, lasciamo Anguillara Sabazia per la strada checonduce a Osteria Nuova. Troviamo gli impianti di Stato“ENEA”, recintati come una prigione. Incontriamo auto d’epocache vanno ad un raduno e scattiamo la foto ad una bella auto anniventi. Seguiamo quindi la strada Braccianese, che da Braccianoconduce a Roma immettendosi nella Cassia. Il traffico si fapesante mentre io cerco una via alternativa che, passando perCasale San Nicola, deve condurci sulla strada Boccea. Intantoincontriamo un tale che, vedendoci incerti, ci dice senzapreamboli che stiamo sbagliando strada: “Dovete tornare suivostri passi, entrare nella galleria e portarvi sulla Cassia, sevolete raggiungere Roma”. Io insisto e noto l’indicazione di unastrada secondaria, che dovrebbe essere quella desiderata. Ilnostro volenteroso interlocutore ci spiega allora che si tratta dellastrada “degli onorevoli”, dove hanno l’abitazione i nostriparlamentari, ma che più avanti si riduce a una carrarecciapiuttosto sconnessa e dove non passano le auto. “E’ proprioquello che cerco”, dico io; e così andiamo per il più bel viale cheio abbia mai incontrato, dove passeggiano famigliole e doveincontriamo podisti e ciclisti.

Finito il viale alberato, la strada prosegue lunghissima (diecichilometri), incontrando solo bestiame al pascolo e fattorie.Arrivati alla Boccea, dopo una sosta per riprender fiato erifocillarci, siamo alle porte di Roma. Il traffico non ci disturbapiù di tanto, perché abbiamo il marciapiedi. Passati sotto il

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raccordo anulare, troviamo il cartello che indica il centro diRoma. Scattiamo la foto per ricordare questo momento, anzi,fermiamo una persona e la invitiamo a farci la foto insieme.Parliamo, chiediamo e raccontiamo del nostro viaggio a piedi daVigardolo in Vicenza anche agli sconosciuti. Chissà cosapensano di noi. Siamo allegri e giubilanti. La strada Boccea è uncontinuo saliscendi: sembra che i colli di Roma siano settanta enon solo sette. Ormai niente più ci pesa, né la fatica, né lastanchezza. Ci sembra di avere le ali ai piedi. Raccontiamo a tuttila nostra storia. Sembriamo fuori di testa. Una signora, a piedi, ciaccompagna fin quasi al Vaticano, dove arriviamo poco primadelle cinque del pomeriggio. Facciamo subito una bella fotoricordo, ancora con gli zaini sulle spalle. I turisti ci guardanosbigottiti o, forse, siamo noi a pensarlo. E qui, osservando laBasilica di San Pietro, ringraziamo Dio di averci aiutato asuperare le diverse difficoltà e di essere giunti alla meta tantosognata e sperata. Raggiungiamo quindi l’albergo, che si trova acinque minuti da piazza San Pietro presso i Padri Trinitari diSanta Maria alle fornaci.

Lunedì 27 marzo. Finalmente possiamo lasciare lo zaino epartire leggeri. Prima meta è naturalmente San Pietro. Entriamoalle 10 e c’è subito la messa. La “Pietà di Michelangelo” è lì checapta la nostra attenzione. Passiamo poi a prendere laprenotazione per l’udienza del mercoledì con il Papa.

Ci avviamo lungo il viale della Conciliazione e arriviamo aCastel Sant’Angelo. Saliti, facciamo alcune foto del panorama diRoma da questa posizione privilegiata. Ci avviamo lungo ilTevere fino al ponte Cavour. Entriamo verso Piazza di Spagna eLa Trinità dei Monti. Sostiamo senza fretta. Dalla Trinitàscorgiamo in lontananza, in fondo a una lunga via, una Basilica.Arriviamo così a Santa Maria Maggiore, una delle quattro chiesegiubilari. Anche qui, come a San Pietro, entriamo dalla PortaSanta. Non mi dilungo a descrivere questi luoghi molto noti.Pensiamo subito di raggiungere San Giovanni in Laterano,percorrendo la via Merulana.

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In San Giovanni ammiriamo in modo particolare il chiostro.Rientriamo verso il Colosseo, via dei Fori Imperiali e PiazzaVenezia, di fronte al Vittoriano. Imelda vorrebbe entrare in ognichiesa, ma io dico che dobbiamo scegliere perché a Roma dichiese ce ne sono a centinaia, se non a migliaia. Facciamo inveceuna puntatina alla Fontana di Trevi e quindi rientriamo passandoper il Pantheon, dove arriviamo mentre stanno chiudendo. Siamocontenti di avere visto e ammirato molto.

Martedì 28 Marzo. Oggi puntiamo decisi, sempre a piedi,verso San Paolo fuori le Mura, l’ultima delle quattro Basilichegiubilari. Ci arriviamo percorrendo il lungotevere fino al ponteSublicio. La nostra andatura è sciolta e spesso superiamo la filadelle auto che si muovono come lumache. Arrivati a porta SanPaolo, prendiamo il viale che fiancheggia la via Ostiense.Visitiamo la Basilica, dove stanno celebrando la messa ungruppo di neocatecumeni inglesi. Visitiamo il chiostro, preziosocome quello di San Giovanni in Laterano e rientriamo verso ilcentro di Roma per raggiungere la stazione Termini, doveintendiamo prenotare il biglietto di ritorno. Fatti i biglietti eprenotato il treno, che partirà domani mercoledì alle ore 15,passiamo a visitare la chiesa di Santa Maria degli Angeli e deiMartiri. Gironzoliamo ancora per la città eterna, visitandol’interno del Pantheon e altri luoghi che non ricordo e rientriamoper riordinare le nostre cose e prepararci al ritorno. Tralascio didescrivere alcuni episodi spiacevoli, come il tentativo di rubarciil portafoglio o le lusinghe di un pataccaro che cercava dicircuirci.

Mercoledì 29 Marzo. L’ultimo giorno è riservato all’udienzadel Papa in Piazza San Pietro. Dagli altoparlanti si annunciano ledelegazioni venute da tutto il mondo in almeno dieci lingue. Alleore dieci, puntuale, arriva il Papa per il suo giro tra i fedeli. Poiascoltiamo il suo racconto del viaggio in Palestina, commoventee interessante.

Dopo la benedizione, usciamo svelti per non essere presi tra laressa, avviandoci alla stazione. Piove a dirotto dopo ventidue

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giorni di bel tempo. Anche la pioggia è benedetta. Alle orequindici precise lasciamo Roma in treno. Paesi, città, piazze,chiese, montagne verdeggianti, altopiani dai colori vivaci e vari,grandi fiumi: il Tevere, l’Arno, il Po e l’Adige; e vigneti, oliveti,laghi – tutto questo continua a sfilare davanti ai nostri occhi alritorno da Roma, dove abbiamo sperimentato la bellezza dellospirito.

Per noi Roma è stata l’occasione di un incontro con le novitàdel Giubileo, così ricco di testimonianze cristiane, umane euniversali. Questo pensiero ci dà gioia, gratitudine e input avivere di grandi ricordi.

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VIENNA - 2001Km 900 gg. 27

L’avventura non può più manifestarsi là dove nell’uomoscadono l’ingegno, l’immaginazione, la responsabilità ; là dovesi demoliscono o banalizzano fattori naturali come l’ignoto e lasorpresa. E ancora non può sussistere avventura là dove vengonoalterate, persino distrutte, peculiarità come l’incertezza, laprecarietà, il coraggio, l’esaltazione, la solitudine, l’isolamento,il senso della ricerca e della scoperta, la sensazionedell’impossibile, il gusto dell’improvvisazione… Tutte cose chesono oggi ormai represse o addirittura cancellate… Solo là doveil mazzo non è stato truccato per vincere ad ogni costo esistonoancora il gioco, la sorpresa, la fantasia, l’entusiasmo dellariuscita e il dubbio della sconfitta.

Walter Bonatti

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Il viaggio a Roma è stato un bel successo. Anche il Giornaledi Vicenza ha pubblicato la notizia e la TV di stato ci ha invitati,insistentemente, a raccontare del nostro viaggio al programma diMassimo Giletti.

Così ci viene l’idea di raggiungere, sempre a piedi, la bella egrande città di Vienna. Vienna è stata per cinquant’anni la nostracapitale e rimane sempre un grande richiamo per il suo Danubioblu, la sua Orchestra filarmonica e la sua Ruota panoramica.Dunque, il prossimo sogno è questo: arrivare a Vienna con inostri piedi. In mezzo ci sono le Alpi, c’è Salisburgo patria diMozart e tante cose che rappresentano una bella sfida. Ormainiente più ci spaventa. Già nel duemila si comincia a studiare ilpercorso, sulle carte e in pratica. Sulle carte si osservano le vallie i monti da superare, le strade da evitare per il trafficoautomobilistico e le località in cui si può pernottare. Riteniamodi non usare la tenda, che sarebbe un fardello troppo pesante, e ciaccontentiamo del lenzuolo a sacco, utile nei rifugi montani onelle dimore poco igieniche.

Nel mese di Agosto, lasciato il nostro rifugio Refavaie e lesolite vacanze estive, ci incamminiamo verso San Martino diCastrozza per la Valsorda, una valle piena di sinfonie. Ruscelli,cascatelle e vari corsi d’acqua intonano i loro mormorii con unacontinua variazione di motivi. Da San Martino raggiungiamoPasso Rolle, proprio sotto le Pale, magnifiche cattedrali di pietrarosea. Attraverso i passi di Valles e San Pellegrino arriviamo aMalga Ciapela, dove troviamo da pernottare. Salendo alla Fedaiae alle Crepe Rosse, giù per la Pieve di Livinallongo, arriviamo alValparola, di fronte al magnifico Lagazuoi. Attraverso l’alta viadolomitica n.1 si raggiunge Forcella del Lago, quota m. 2480, escendiamo per la splendida valle del Fanes, circondati dalleConturines e dal Lavarella, riposando nell’omonimo rifugio.Affrontiamo poi l’ardito sentiero Banedalse e scendiamo al lagodi Braies per raggiungere Brunico, graziosa cittadina in valPusteria. Il nostro viaggio esplorativo ci deve portare alla Vettad’Italia e al confine austriaco e quindi risaliamo la valle Aurina

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fino a Predoi e Casere, graziose località turistiche incastrate tra leVedrette. Saliamo ora al rifugio Tridentina, quota 2440 m., dovesiamo colti da una bella nevicata, pur trovandoci in pienoAgosto. Si conclude qui il nostro viaggio di prova senza poterraggiungere la Vetta d’Italia e il confine di stato.

Il viaggio di ritorno è una cosa da raccontare. Partiamo almattino in discesa, pestando la neve. A Predoi attendiamo lacorriera per raggiungere Brunico. Qui saliamo sul treno fino aFortezza, dove cambiamo e raggiungiamo Trento per lacoincidenza con la linea Val Sugana. Fin qui sono già cinquecambi: piedi, pullman, treno, treno e treno. Ora un altro treno ciporta fino a Levico, dove bisogna scendere a causa di lavori sullalinea. Prendiamo una corriera fino a Borgo Valsugana erisaliamo su un altro treno fino a Primolano. Da qui prendiamola corriera per Fonzaso e un’altra per Imer, dove ci aspetta Flavioper condurci a Refavaie. Qui troviamo la nostra auto e siamo,finalmente, a casa. Oggi abbiamo utilizzato in tutto undici mezzidiversi: è un record! Comunque l’esperienza ci sarà preziosaperché quando partiremo per Vienna, nell’Agosto del 2001,sappiamo che ci si deve aspettare di tutto e che nulla si dà perscontato.

Giovedì 16 Agosto 2001 ci facciamo accompagnare aBreganze perché fa un caldo afoso e vogliamo evitare la pianuraassolata. Neanche a dirlo, siamo in due: io e mia moglie. Giàlungo la valle del Chiavone l’aria è più fresca, accompagnatadalle acque che scendono gorgogliando dalla conca di Lusiana.Passiamo per Fara Vicentino e risaliamo, attraverso vigneti in cuil’uva sta colorando, per scendere a Valle di Sotto, la contrada deimulini. Seguendo un sentiero arriviamo a Valle di Sopra e allaMadonna del Covolo. Ora comincia la vera salita, segnalataanche da un sentiero C.A.I. n. 874 che ci conduce, toccando lecontrade di Perpiana e Campana, sul monte Corno a m. 1300 edove troneggia il monumento agli alpini in getto di cemento.Scendiamo ora per la Granezza di Gallio, lungo una stradamilitare in splendido ambiente montano, tra bosco di abeti, prati

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e malghe, fino a raggiungere la località del Turcio. Da qui aGallio ci toccano cinque chilometri di asfalto e di traffico.Qualche volta bisogna mettere in conto questo inconveniente.Giunti a Gallio, siamo in difficoltà per trovare una camera: glialberghi sono ancora pieni per le ferie estive e ci dobbiamoaccontentare di una camera privata, piuttosto cara, per giunta.

Il giorno successivo, venerdì 17 Agosto, ci incamminiamo peril sentiero n. 850 che risale le alture di Longara e che offre unamagnifica panoramica sulla conca di Asiago. Raggiunta malgaFiara in tre ore di marcia in quota ci prendiamo una pausa diristoro e ripartiamo per la strada sterrata che conduce a malgaMandrielle. Ora teniamo la destra e scendiamo al rifugioBarricata, già in territorio trentino, per un’altra sosta. Essendoprestino, decidiamo di raggiungere Grigno, in Valsugana,seguendo il sentiero n. 213, subito in leggera discesa e quindiripido e scabroso. Giunti a Grigno troviamo il nostro bell’albergo“Al Sole” per un giusto riposo. Mi rimane anche il tempo perispezionare un sentiero che dovrebbe portarci a Cinte Tesino, mache non dà troppo affidamento.

Difatti la mattina seguente, sabato 18 Agosto, piove.Mettiamo l’impermeabile e ci avviamo per il sentiero giàispezionato. Più avanti, però, il percorso diventa franoso epericoloso. Dobbiamo fare dietro-front e tornare a Grigno perriprendere la strada, ora chiusa al traffico stradale, ma buona pernoi che siamo a piedi. Possiamo così raggiungere Castel Tesinoin santa pace, superando alcune strettoie per lavori in corso,sostando nel grazioso centro turistico e procurandoci ilnecessario per continuare il nostro cammino. Risaliamo ora lastrada del Broccon, deviando per un sentiero poco segnato epoco battuto e invischiandoci tra le alte erbacce. Usciti di nuovosulla strada, cerchiamo di non abbandonarla più fino al passo delBroccon. Intanto piove. La pioggia si fa insistente e stiamopensando di fermarci qui. Ma a Refavaie ci aspetta nostra figliaElisa con Luca e Rebecca. Un tale si offre di portarci fino alponte del Vanoi, presso Canal San Bovo, dove riprendiamo la

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nostra marcia sulla sinistra del torrente fino a Caoria e dovesiamo attesi. Oggi abbiamo percorso quasi quaranta chilometri,in parte sotto la pioggia, e siamo stanchi. Ci rincuora lacompagnia dei vecchi amici di Refavaie, ma abbiamo anche unmomento di ripensamento e di dubbio.

Domenica 19 Agosto ci avviamo verso San Martino diCastrozza, partendo dal laghetto di Calaita, dove ci accompagnaLuca con il suo camper. Ci fanno compagnia Elisa, Luca eRebecca, almeno fino in prossimità di San Martino, poi risaliamoda soli verso Malga Ces per il sentiero che porta ai laghetti diColbricon e al Passo Rolle, dove troviamo alloggio presso ilrifugio Capanna, incantevole luogo sotto la Cima Vezzana e ilCimon della Pala. Oggi sono solo cinque ore di cammino e unbuon riposo ci potrà rinfrancare.

Il giorno 20 Agosto, lunedì, superata Baita Segantini,percorriamo la Val Venegia che ci ricorda altre avventure: ilMulaz, le marmotte, le stelle alpine e una scorribanda intorno alCastellaz. Giunti alla forcella Venegia, m. 2300, vediamo sottodi noi il passo Valles, verso il quale scendiamo per risalire subitoil monte Pradazzo, punto d’arrivo di molte sciovie. Si aggira illaghetto di Cavia e si scende verso il passo di San Pellegrino. Daqui, con il cellulare, prenotiamo due posti-letto al rifugioFuciade, un’ora di strada più avanti, per passarvi la notte.Comincia a piovere e dobbiamo sfoderare le nostre ombrelline e inostri impermeabili per l’ultimo tratto di sentiero. Dopo unabella doccia siamo pronti per la cena e a familiarizzare con ungruppo di escursionisti del C.A.I di Bassano. Veniamo a sapereche loro vengono da Bressanone e stanno facendo il sentierodolomitico n. 2, fino a Feltre. Ci uniamo a loro percommemorare, presso la cappella, un loro amico caduto daidirupi di un monte. Loro rimangono un po’ stupefatti della nostraidea di raggiungere Vienna a piedi, comunque ci fanno i miglioriauguri di buon viaggio.

Martedì, 21 Agosto, prendiamo il sentiero che porta alleForche Rosse, un passetto a 2500 m. di quota, per scendere

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lungamente una mulattiera della Grande Guerra fino a MalgaCiapela, m. 1440. Qui ci fermiamo in mezzo a un prato per lospuntino e, dopo un buon caffè, riprendiamo la salita per il passodella Fedaia, trovando alloggio nell’omonimo rifugio. Ci rimaneanche il tempo per un giro sul lago sotto la Marmolada e perscattare alcune foto dei luoghi.

Il tempo intanto è migliorato e il giorno successivo, mercoledì22 Agosto, saliamo verso il monte Padon, di fronte al ghiacciaiodella Marmolada. Ora prendiamo un sentiero sulla destra che,evitando il Padon, risale le Crepe Rosse, un crinale che separa lavalle del Cordevole dalla Fedaia. Da questo crinale si puòammirare tutta la magnificenza delle cime dolomitiche fino ailontani Adamello e Presanella. Più vicini sono i gruppi del Sellae del Civetta, ma sono evidenti anche il Catinaccio e ilSassolungo. Ora noi dobbiamo scendere verso la valle delCordevole, lunghissima valle che tocca piccoli villaggi fuori dalmondo e da qualsiasi centro turistico, attenti a non perdere ilsegno dei sentieri. Arriviamo verso mezzogiorno presso alcunipiccoli centri sperduti e dimenticati, come Davedin e Molinat.Risaliamo ancora verso Pieve di Livinallongo, dove ciriforniamo di soldi presso l’ufficio postale e di viveri alsupermercato. Dobbiamo affrontare ancora una lunga camminataper giungere a Valparola, nostra meta odierna. Chiediamoinformazioni a un tale per sapere quanto tempo si impiega araggiungere quel posto e costui ci consiglia di prendere unmezzo: “E’ troppo lunga, a piedi!” Questo non ci scoraggia ecosì riprendiamo il nostro cammino per una strada che conduceai paesini di Palla e Agai, seguendo poi un sentiero chefiancheggia il Col di Lana e raggiunge una quota di 1900 m.,dalla quale si vede in lontananza il nostro bel rifugio. Rincuorati,scendiamo al villaggio di Castello, dove si sta ricuperando daldegrado un antico castello. Ancora un’ora e mezza per risalireuna splendida valletta tra pini mughi e fiori di ogni specie esiamo al rifugio Valparola, che si trova appena sotto al PizzoLagazuoi.

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Giovedì 23 Agosto ci addentriamo in una delle zonedolomitiche più belle. Superata la forcella Salares a m. 2283,scendiamo al rifugio Scotoni per risalire, dopo breve sosta dipreghiera presso la chiesetta del rifugio, verso il laghettoLagazuoi, e quindi alla forcella del Lago a quota 2486, alla basedi pareti vertiginose e di cime favolose: Fanes e Ciampestrin adestra; Conturines e Lavarella a sinistra. Il sentiero che stiamopercorrendo è l’alta via dolomitica n.1, la più rinomata, e aragione: il panorama che si gode da quassù è magnifico.Raggiunto il rifugio di Fanes nel primo pomeriggio, scendiamoal Pederù a quota 1548 m. Il locale è strapieno di turisti perchéqui arriva la strada carrozzabile e c’è l’invasione di auto. Noiallora ci avviamo in salita, anche se fa caldo, verso il FodaraVedla e quindi al rifugio Sennes, nostra meta odierna.

Ora abbiamo trovato l’affiatamento giusto per fare ognigiorno circa nove ore di cammino, naturalmente con le dovutepause per ammirare il paesaggio che, come sanno i frequentatoridella montagna, varia in continuazione. Preso come sono daldescrivere l’itinerario, ho trascurato di parlare dei fiori che quicrescono abbondanti: stelle alpine intorno al laghetto Lagazuoi,ranuncoli gialli e genziane blu, cuscini multicolori poggiati sullerocce dal Grande Giardiniere. Difficile, invece, vedere animali,se non qualche uccello fuggire davanti ai nostri passi. Il giorno24 Agosto, raggiunto il rifugio Biella, si risale la selletta Porta am. 2380, appena sotto la Croda del Becco e qui si vedonopascolare gli stambecchi. Alcuni escursionisti ci avvertono:“Troverete stambecchi perfino lungo il sentiero”. Scendendo, mifermo per ritrarne uno che sta pascolando proprio sul sentiero edietro di me due turisti austriaci si fermano ad attendere lo scatto.“Mandi una foto anche a me” mi fa poi il turista e mi dà il suoindirizzo di Lienz. Così si incomincia a dialogare anche conpersone d’oltralpe in una lingua che a me sembra arabo. Però cisi capisce. Scendiamo quindi fino al lago di Braies, tenendo lariva destra, meno affollata di gitanti e arriviamo a Villabassaattraverso pascoli, prati, fattorie e giardini. Bisogna dire quello

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che si vede: qui è tutto un giardino, gerani alle finestre e puresulle finestre delle stalle; depositi di letame che sembranogioielli, tanto sono ben tenuti, e niente rifiuti. In Alto Adige chibutta rifiuti come barattoli, bottiglie di plastica o fazzolettiniviene considerato un criminale e punito. Il territorio è sacro e chilo inquina è un sacrilego. Impariamo da loro e avremo anche noiun paesaggio da fiaba. Da Villabassa a Dobbiaco seguiamo lavecchia stradina che corre in alto in mezzo ai prati ed è percorsadai carri di fieno, che lasciano scie di buon profumo dicampagna. Arriviamo a Dobbiaco e troviamo una cittadinaconvulsa. Siamo ancora in piena stagione turistica e tutti glialberghi sono sovraffollati. All’ufficio turistico ci consigliano diprendere un treno e di portarci in Austria, dove certamente sitrova posto. Noi , però, in Austria ci vogliamo andare a piedi eallora cerchiamo a destra e a sinistra lungo il vialone che portaalla stazione, finché troviamo una camera d’albergo libera peruna notte.

Sabato 25 Agosto, dopo avere ben dormito e pagato un contopiuttosto salato, ci dirigiamo verso il Rio San Silvestro e quindi asinistra per superare un’altura che porta nella valle del Casiès. E’questa valle che intendiamo seguire per arrivare in Austria.Giunti a Planca di Sopra non ci resta che risalire la vallata,superando i deliziosi paesini di San Martino e Santa Magdalenain Casiès. Verso le tre del pomeriggio siamo sulla forcella diCasiès a m. 2205, dove si trova il posto di frontiera, oraabbandonato in seguito agli accordi CEE. Prese le foto di rito,scendiamo dal versante opposto, seguendo una segnaletica in usooltre confine e arriviamo dopo alcune ore ad un paesino chiamatoMariahilf, che si trova nella valle dello Schwarzach, affluentedell’Isel e quindi del Drau.

I nostri timori nell’affrontare un ambiente nuovo esconosciuto spariscono subito quando chiediamo e troviamo unacamera (Zimmer) per la notte e una trattoria (Gasthof) dovecenare. L’accoglienza è calorosa e i prezzi non fannorimpiangere la nostra Italia.

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Il 26 Agosto è domenica, giorno di riposo. Ci incamminiamoquindi per la Defereggental, sostando a St. Jakob per visitare ilcentro cittadino e assistere alla Messa. Per l’offerta si accettano,come indicato sulla cassettina: 7 scellini - 1 marco - mille lire.Oggi non ci sono salite in programma e quindi, prendendola perle lunghe, arriviamo verso sera a Huben, lindo paesino a m. 800di quota e dove in ogni casa è esposta la bandierina con la scritta“Zimmer frei”.

Lunedì 27 Agosto riprendiamo il nostro cammino in salitalungo il corso del Kalser Bach, fiume che scende dalGrossGlockner, e arriviamo a Kals prima di mezzogiorno. Kals èuna cittadina turistica ben attrezzata per gli sport invernali, comesi nota dai numerosi impianti di risalita. Noi ci accontentiamo diprelevare scellini dalla locale banca e acquistare qualcosa per lacolazione al sacco nei giardini pubblici. Il pranzo di mezzogiornoce lo siamo scordati da parecchio tempo perché ci farebbeperdere troppo tempo e ci appesantirebbe lo stomaco e le gambe.Ci siamo abituati, come i tedeschi, a una buona colazione lamattina e una sostanziosa cena alle sei di sera. Affrontiamo ora,nel pomeriggio, una lunga salita per raggiungere il rifugio KalserTauernhaus, sostando nella località di Spotting, dove si trova ungrande albergo e un grande affollamento di turisti, giunti fin quiin auto. Il posto è veramente spettacolare: sulla destra incombe ilmassiccio del GrossGlockner con i suoi ghiacciai e la valle èscavata da un torrente che scende precipitoso dal Dorfer See. Piùche la descrizione, scatto numerose foto che mi aiuteranno aricordare questa valle meravigliosa. Il sentiero cammina a voltein galleria per evitare gli strapiombi, finché si riesce in alto nellapiana in cui si trova il nostro Kalser TauernHaus, a m. 1750.

Passata qui una buona notte, ci accingiamo ad affrontare unalunga tappa piena di incognite, perché la mia cartina dei sentieriKompass arriva poco più avanti e non se ne trovano altre, oltrequella su base centomila, poco chiara nelle altimetrie. Segnaloquesto particolare, che sarà causa delle disavventure narrate piùavanti. In questo giorno, martedì 28 Agosto, partiti da quota

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1750 m. del rifugio, risaliamo verso il passetto Kalser Tauern am. 2515, ammirando i ghiacciai circostanti e un limpido laghetto,il Dorfer See. Scendiamo poi su un altro lago, il Weiss See am. 2250, per prendere il sentiero che conduce a un terzo lago aquota 2023 m., il Tauernmoossee. Incominciano qui i nostri guai,perché ci accorgiamo di essere fuori rotta. Abbiamo preso unsentiero sbagliato che porta verso i ghiacciai e dobbiamoscendere una parete attrezzata con cordini e scale di ferro. Più inbasso ci immergiamo in un acquitrino senza via d’uscita.Finalmente troviamo un ponticello di legno, messo lì apposta perchi si perde nei meandri acquitrinosi, ma non riesco a capire piùdove mi trovo. Per nostra fortuna noto una ragazza, forse unagiovane ricercatrice che sta facendo dei rilievi ambientali inquesta plaga sperduta, e mi rivolgo a lei per trovare il sentierosmarrito. La vedo trasalire, ma poi ci indica la via perraggiungere il nostro “Gleiwitzer Hohenweg”, che sarebbe l’AltaVia dei Monti Austriaci. Abbiamo perduto forse due ore delnostro tempo, ma non ho rimpianti perché i luoghi sonobellissimi e fuori dal mondo: non si dimenticano più. Ciaffrettiamo adesso per il Kapruner Torl a m. 2640, vantando conImelda di non aver mai raggiunto simili altezze a causa dei suoianeurismi e affrettandoci a ridiscendere verso un altro lago, loStausee Mooserboden (non so che significato abbiano questistrani nomi, ma li trovo nella mia cartina). Camminiamo per nonmeno di tre chilometri sul fianco di questo lago, che si trova aquota 2023 m., superando continui ponticelli fatti con tavole dilegno e inzuppandoci i piedi nelle acque che scendonoscrosciando dai ghiacci. Ora non dovrebbe essere lontano ilprossimo rifugio, ma le mie supposizioni sono vaghe, perchéstiamo arrivando al limite della mia cartina. Secondo i mieicalcoli, da qui si sarebbe dovuti arrivare al rifugio Gleiwitzer incirca due ore. Invece il sentiero continua a salire a zigzag finché,sopraggiunta la notte, ci fermiamo per accamparci sotto le stellea m. 2800 di altitudine. Senza cena e privi di qualsiasiprotezione, ci mettiamo addosso tutta la roba che abbiamo nello

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zaino e ci accoccoliamo sul sentiero per passare la notte. Se iltempo dovesse peggiorare c’è il pericolo di rimanere assiderati.Per nostra fortuna tutto rimane calmo. In vita mia non ho maivisto un cielo così limpido e una luna tanto abbagliante. E’ unasituazione terribile e meravigliosa. “Per chi intraprende cosebelle è bello soffrire, qualsiasi cosa gli tocchi”, come dice ilpoeta.

Alle sei del mattino seguente, mercoledì 29 Agosto, dopo unanotte passata nel dormiveglia per paura di restare assiderati edopo aver raccolto le cose sparse sotto di noi, riprendiamo asalire e arriviamo finalmente, dopo un’ora, alla forcellaKempsenkopf, a 3090 m. di quota. Con mia grande sorpresa nonmi sento affaticato mentre cammino per un vertiginoso crinale,strapiombante da ambo i lati, ma ben attrezzato di cordinod’acciaio. Finalmente incontriamo alcuni escursionistiprovenienti dal lato opposto, prima una coppia di anziani e poidue giovani. Questo ci rallegra, anche se le difficoltà non sonofinite. Dobbiamo scendere ancora per una scaletta ferrata,tenendoci nel cordino, in fondo alla quale c’è un nevaio. Provo amettere il piede e lo sento scivolare. Allora decidiamo discendere tra le pietraie aggirando la neve. Superate queste ultimedifficoltà, riprendiamo spediti verso il rifugio Gleiwitzer,arrivandoci verso le dieci. Dopo una bella abbuffata con uova eprosciutto, caffelatte, burro e marmellata e aver riempito lapancia di liquidi, riprendiamo a scendere verso lo Zeller See pertrovare, finalmente, un buon letto. Alla periferia di Brucknotiamo la solita bandierina “Zimmer” appesa all’esterno di unabella casa piena di fiori. Dopo la doccia ristoratrice, usciamo nelpiccolo centro turistico dove troviamo anche una bella pizza. Ladisavventura del giorno prima è già dimenticata.

Il 30 Agosto, alle nove e mezza, riprendiamo il nostrocammino lungo la sponda dello Zeller See e raggiungiamo lacittadina di Maishofen. Seguiamo quasi sempre piste pedonali eciclabili, abbondanti da queste parti. Arriviamo così a Saafelden,altra graziosa cittadina, di cui ci piace visitare il centro e la

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cattedrale. Avendone abbastanza di alte vie, decidiamo diproseguire verso Weissbach seguendo una pista poco discostadalla carrozzabile, forse una vecchia strada ora ad uso di pedonie biciclette. Poco prima di arrivare alla cittadina, notiamo unafattoria con del movimento che ci incuriosisce: andiamo a vederee troviamo una specie di agriturismo. Chiediamo una camera eun vecchio ci fa cenno di attendere; torna quasi subito dicendoche la camera c’è e sarà pronta a breve. Qualcuno si saràsistemato di fortuna pur di lasciarci il posto e incassare l’affittodella camera. Il ristorante si trova lontano tre chilometri e alloraci facciamo preparare una cena fredda e restiamo a cuccia.

Il 31 Agosto, raggiunto il centro di Weissbach, breve sosta perammirare alcune case caratteristiche e la chiesetta circondata dalcimitero. Riprendiamo a salire per raggiungere alcune localitàturistiche al confine con la Baviera, arrivandoci versomezzogiorno. Al posto di dogana, ora abbandonato, sostiamo perle foto ricordo e ci avviamo in discesa verso Ramsau. Cifermiamo ancora presso un bel lago, popolato di anatre e dicigni, e ammiriamo la cittadina di Ramsau piena di turisti, per lopiù tedeschi. Noi contiamo di raggiungere Berchtesgaden evorremmo seguire un sentiero per evitare il traffico. La nostracartina è poco chiara e così ci smarriamo. Tento di chiedere aqualcuno informazioni, ma il mio tedesco lascia a desiderare.Alla fine, dopo un giro a vuoto, si torna nella strada e troviamouna signora che ci dà un passaggio. Qualche volta bisogna saperaccettare anche questo. Raggiunta così Berchtesgaden,decidiamo di pernottare in un buon albergo. Sarà anche caro, maci dicono che qui veniva a riposare lo stesso Hitler durante le suevacanze nel Nido d’Aquila.

Sabato 1 settembre, invece che puntare su Salzburg, comeavevamo preventivato, decidiamo di andare verso Hallein e diraggiungere la zona dei laghi, risparmiando un giorno di viaggioe forse più. Hallein è una cittadina industriale, come si nota dallenumerose ciminiere, ma anche turistica perché troviamo il centropieno di gente in ferie. Non possiamo visitare la chiesa, affollata

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per un matrimonio, ma il posto è carino e pieno di negozi, tra cuiuna cartoleria dove mi procuro una cartina dei luoghi che stiamoper attraversare. La nostra strada risale la Vorderwiestal e quindila Interwiestal, seguendo un torrente sbarrato da una chiusa, cheforma un invaso lungo almeno sei chilometri. A valle della digarimane una profonda voragine in fondo alla quale notiamoescursionisti attrezzati di tute ed elmetti: forse stannoispezionando antri e caverne. Superato il lungo specchio d’acqua,ci avviamo verso una località in cui si dovrebbe trovare un localeper la notte. Qui, però, non si trovano camere e ci vieneconsigliato di raggiungere Faistenau, qualche chilometro piùavanti. Ormai stanchi per il lungo cammino, incontriamo unasignora alla quale mi rivolgo con la solita frase in tedesco che soa memoria:”Wir suchen ein Zimmer für zwei Personen” Lasignora mi risponde in italiano che una camera si trovacertamente in quel posto. Mi dice anche di essere una interprete edi conoscere sei lingue. Ci accompagna quindi per alcunecontrade, finché troviamo quanto fa per noi. Intanto la signoranon solo pretende di farci sapere quante più cose possibile, mavuole vedere la camera assegnataci e controlla che sia in ordine,mentre io desidero soltanto andare sotto la doccia.

Il 2 Settembre è ancora domenica, la terza da quando siamopartiti. Il paese di Faistenau si sta preparando per una festa, comela sagra dalle nostre parti, con fuochi d’artificio già di buonmattino. Siamo svegliati da una cannonata alle sei e mezzo efuori spacciano già birra e wurstel; le donne arrivano alla chiesacon i cesti pieni di doni e, davanti ad ogni casa, sono espostipupazzi di fieno e di stoffa. Questo clima festoso ci accompagnaper la strada che percorriamo verso St. Gilgen ed è documentatodalle foto nel mio archivio. La strada risale verso alcune localitàturistiche e qui si arresta verso i 1000 metri di quota. Scendiamoora per un sentiero in mezzo al bosco fino al lago di Wolfgang, am. 545, dove si trova la pittoresca cittadina di St. Gilgen, e ciimbattiamo subito in un ristorante molto invitante. Questa voltafacciamo eccezione e ci sediamo a tavola a mezzogiorno,

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facendoci servire come si deve. Seguendo poi la costadisseminata di barche, ci avviamo verso un altro lago, il MondSee per una strada fiancheggiata da pista ciclabile ma, giunti allago, troviamo la nostra strada sbarrata da un cartello:“Verboten”. Chiuso il passaggio, anche ai pedoni! Cerchiamoallora un sentiero che si arrampica per il monte, ma dopo poco loabbandoniamo per rientrare sulla nostra strada chiusa al traffico.Ci avventuriamo sperando che nessuno ci colga, superando trattidisseminati di pietre cadute dall’alto. Sono in corso lavori diripristino, ma oggi è domenica e quindi la passiamo liscia. Uscitidall’inghippo, troviamo presto la nostra “Zimmer” nei pressi diUnterach. E una buona pizza come cena.

Lunedì 3 Settembre. Le ultime giornate erano state lunghe efaticose. Imelda cominciava a brontolare, mentre io cercavoqualche diversivo per rendere il viaggio più interessante. L’ideami viene quando, arrivati nel porticciolo di Unterach, notiamo unbattello che fa la spola tra i paesi del lago stesso. L’Attersee è unbel lago, lungo una ventina di chilometri ed è servito da questobattello, su cui ci imbarchiamo assieme a un gruppo di anzianitedeschi con le loro biciclette. Mi informo dalla loro guida evengo a sapere che le bici sono a noleggio e che biciclette anoleggio si possono trovare anche nelle stazioni ferroviarie lungoil Danubio. Questa notizia mi fa cambiare il programma diviaggio per dirigermi verso Linz e il Danubio. Giunto il battello aWeyregg, invece che puntare su Gmunden, ci teniamo più asinistra per raggiungere Aurach. A dire il vero, a portarci inquesta direzione è un errore di percorso. Salendo per un sentieropanoramico in vista del lago, raggiungiamo quota 1000 m. esostiamo presso una chiesetta isolata sul monte. Poi, seguendo unsentiero privo di segnaletica, arriviamo ad un punto morto inmezzo al bosco. Allora, per non fare a ritroso alcuni chilometri,ci avviamo per una strada sterrata in discesa, ben sapendo cheuna strada conduce sempre a qualche posto. Dopo un paio di orein mezzo ai boschi, arriviamo finalmente presso un gruppetto dicase e ad un bar, dove chiedo quale sia il paese più vicino.

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Saputo che siamo nei pressi di Schorfling, trovo subito la stradaper raggiungere Aurach, arrivandoci verso le cinque di sera.Facendo i calcoli, oggi pomeriggio abbiamo sprecato quasi tutti ichilometri risparmiati al mattino in battello. In compenso mirimane il ricordo di una deliziosa cenetta a base di finferli inbesciamella, canederli e patatine: un piatto squisito, che rimaneancora tra i miei desideri più intensi.

Martedì 4 Settembre. Il tempo volge al brutto e le strade, inpianura, sono monotone. Ci dirigiamo su Pucheim e quindi,come accade spesso, sbagliamo strada. Ci ritroviamo sulla stradaprincipale che porta a Wels e a Linz, troppo trafficata. Imeldanon ne può più e vorrebbe fermare qualche auto e chiedere unpassaggio. Io noto, anche consultando la cartina, che un po’ oltrela ferrovia corre una strada secondaria. Attraversati i binari,possiamo percorrere tranquillamente il tratto che ci separa daSchwanen-Stadt e da Lambach. Qui, durante una sosta al bar,veniamo a sapere che in queste località non si trovano alberghi,né camere private. La barista stessa ci consiglia di prendere iltram e di portarci a Wels, quindici chilometri più avanti. Giunti aWels abbiamo difficoltà a trovare un albergo che non sia full,cioè pieno ed esaurito. Finalmente, in centro, troviamo l’albergoche fa per noi e veniamo accolti calorosamente dal Mister, cheparla bene l’italiano e si complimenta per la nostra avventura.

Mercoledì 5 Settembre. Il cielo è carico, ma non piove.Imelda soffre per le vesciche ad un tallone. La prego dipazientare ancora per oggi, perché a Linz troveremo le biciclette.Attraversiamo la ferrovia per un sottopasso e percorriamo lepiste ciclo-pedonali alla periferia di Wels. Fiancheggiamo unimmenso stabilimento della Ikea, lungo più di un chilometro eservito da un raccordo ferroviario. A Ottering Imelda si leva lescarpe e mette le ciabatte; ora cammina più agevolmente emagari l’avesse fatto prima! Più avanti, a Pasching, sostiamosulle panchine per mangiare un panino, come fanno i barboni ogli extracomunitari. Qualcuno ci guarda con sospetto, ma noisappiamo che la nostra prossima meta è vicina e che stiamo per

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completare una bella avventura. Linz è una grossa città, la cuiperiferia raggiunge i centri di Traun e Haid, formando unagglomerato di almeno quindici chilometri. Dalla periferia, civogliono almeno tre ore di cammino per raggiungere la stazioneferroviaria, dove mi fermo per chiedere informazioni sulnoleggio delle biciclette. Cerchiamo ora un ostello della gioventùin cui pernottare. Un passante, forse vedendoci perplessi, ci vienein aiuto per indicarci l’indirizzo che cerchiamo. All’ostello ciriceve un tale che, vedendo i nostri documenti, ci fa: “Italiani,mafia!” Imelda si arrabbia e ribatte: “Noi siamo veneti e nonitaliani mafiosi!” Io sto allo scherzo e racconto del nostro viaggioa piedi (zu Fuss von Breganze, Vicenza) fino a Linz. Alloraquesto signore corre a prendere la macchina fotografica e chiamala moglie per farsi fotografare in nostra compagnia e tutto finiscetra grandi risate. Avuta la camera, mentre Imelda rimane asistemare le sue cose, io esco per vedere il centro della città.Noto subito un ristorante messicano e, più avanti nella bellapiazza, un’edicola dove si trovano giornali italiani. Acquistocartoline da spedire ad amici e parenti e mi dirigo poi verso ilnord, dove intravvedo un ponte sul Danubio. Sulla riva delDanubio piango di gioia: da Breganze a Linz a piedi, cavalcandole più belle montagne italiane e austriache, affrontando difficoltàe paure, ma godendo di paesaggi indimenticabili. Rientratoall’ostello, porto anche Imelda, ora rilassata, a visitare la città e ilDanubio. E, tanto per cambiare, a cena nel ristorante messicano.

Giovedì 6 Settembre. Piove. Dopo aver consultato la cartina,pensiamo sia meglio andare a piedi ancora per oggi, almeno finoa Mauthausen. Messi gli impermeabili e aperto gli ombrelli, ciavviamo lungo il Danubio, fotografando spesso i cigni e leanatre, ma il paesaggio è monotono, forse anche a causa delmaltempo. Sarebbe meglio andare in bicicletta. Con questodesiderio arriviamo in prossimità di Mauthausen, dove notiamoun cartello indicante il luogo in cui vennero martoriati gli Ebrei ei prigionieri insubordinati. Non ce la sentiamo di visitare ilcampo di sterminio, che si trova a un paio di chilometri, anche

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perché ne abbiamo quasi trenta sulle gambe. Arrivati allastazione del treno, chiediamo come avere le biciclette a noleggioe ci vien detto di tornare il mattino dopo alle ore otto e trentuno.Non capivo perché proprio trentuno e seppi poi che il funzionariodella stazione prendeva servizio alle ore otto e trenta ed eradisponibile per i clienti un minuto dopo. Precisione tedesca!Intanto vicino alla stazione troviamo il nostro albergo conGasthof e camera. I clienti dell’albergo, saputo da dove veniamo,ci apostrofano: “Bella Italia, tanto sole!” Cosa ci fate qui, chepiove sempre? Paese che vai, bellezze che trovi.

Venerdì 7 Settembre andiamo a ritirare le biciclette, paghiamoil noleggio, carichiamo i nostri zaini sul portapacchi e ci avviamobarcollando verso il centro di Mauthausen per acquistare lemantelle da usare in caso di pioggia. Quindi, emozionati e felici,partiamo per la nuova avventura, percorrendo la Fahrweg, unapista per biciclette che da Passau arriva a Vienna e oltre, semprecosteggiando il Danubio da ambo i lati e staccandosi soltanto perentrare nelle cittadine che sorgono in prossimità del fiume. Amezzogiorno arriviamo in una di queste, che si chiama Grein. Ilcentro è così carino che ci fermiamo, sia per le foto, sia perritirare un po’ di scellini dalla banca, sia anche per pranzare in untipico locale. Anche più avanti ci fermiamo spesso per osservarei cigni o qualche paesino sull’altra sponda del fiume. Inprossimità di Melk, nostra meta odierna, notiamo un grande e belmonastero. Molti turisti, come noi, si sono fermati perfotografarlo. Giunti nel centro della cittadina, cerchiamo l’ostellodei giovani, nel quale prendiamo alloggio. Ora abbiamo ilpensiero delle biciclette, che qualcuno non ce le rubi. Nellacamera i termosifoni sono accesi e fa troppo caldo. Vorremmochiudere, ma la manopola è rotta e non si sa come fare. Per nonmorire dal caldo apriamo la finestra e ci lamentiamo presso laportineria, dove ci dicono che non sanno cosa farci. Neapprofittiamo allora per lavare un po’ della nostra roba e metterlaad asciugare. Usciamo poi a cena in un locale che si chiama“Pizzeria Venezia”, dove nessuno sa una parola di italiano.

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Abbiamo difficoltà anche per ordinare da mangiare; alla fine ciportano degli spaghetti che fanno orrore. Quando paghiamo ilconto, il cameriere non sa darci il resto. Prendo allora la penna efaccio io il conto, calcolo il resto e aspetto che il cameriere sidecida. Con un sorriso, questi allunga le ultime due banconote dacento e se ne va felice di averci ben servito.

Sabato 8 Settembre. Risaliamo, spingendo la bicicletta amano, per raggiungere il monastero benedettino che avevamovisto la sera prima e che è meta di numerosi turisti. Certamente sitratta di un santuario famoso, che però noi non possiamo visitarea causa della bicicletta e dello zaino. Pazienza, mi riprometto divenirci un’altra volta, magari in auto, e intanto mettiamo lemantelle per la pioggia e ci avviamo verso Krems. Spesso cisorpassano gruppi di turisti in bici. Altre volte siamo noi asorpassare comitive di turisti, oppure ci accodiamo a una dellenumerose comitive. Sostiamo solo per qualche foto, per ritrarreun battello che scende lungo il fiume, qualche paesino sull’altrasponda o anche solo per riposare. Non siamo abituati allabicicletta e la sella ci disturba. A metà giornata siamo a Krems,altra graziosa cittadina distante qualche chilometro dal fiume. Lavia centrale oggi è piena di bancarelle per il mercato e affollatadi turisti. Ripartiamo quasi subito verso Tulln, dove intendiamoarrivare questa sera. Il Danubio ora si distende in larghezza e lacorrente si fa più lenta per una chiusa che ne imbriglia le acque.Giunti a Tulln, anzi prima di entrare in questa cittadina, troviamoun locale proprio lungo il fiume. Qui, sempre a buon prezzo,troviamo la camera, la cena e così abbiamo il tempo di visitare ilpiccolo centro, dove fa bella mostra una gelateria. Il gelataio è unnostro connazionale di Belluno, lieto di poter parlare con noinella nostra lingua, anzi nello stesso dialetto veneto. Posso alloraraccontare dei sentieri percorsi nelle prime tappe del nostroviaggio, dei passi montani e dei rifugi, che il nostro conoscebenissimo ed è felice di sentir nominare.

Domenica 9 Settembre. E’ la quarta domenica, ed il 25mogiorno, da quando siamo partiti. Vienna è vicina e quindi

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abbiamo tutto il tempo per fermarci alla Messa nella cittadina diKlosterneuburg, attirati dalle campane a festa. Riprendiamo lanostra passeggiata verso Vienna, senza dimenticare il nostropranzetto sul lungofiume. Forse sono pignolo, ma tutte questedescrizioni mi fanno riassaporare i piaceri e le emozioni delnostro lungo viaggio. Entriamo in città seguendo un ramo delfiume e siamo ben presto in centro, davanti alla cattedrale diSanto Stefano. Dobbiamo ora depositare le biciclette allastazione e ci portiamo quindi verso il Prater dove, consultando lamia piantina della città, vediamo una Bahnhof, la stazioneferroviaria. Questa, però, non è la stazione indicataci perdepositare le biciclette. Dobbiamo riattraversare la città, sempreseguendo piste ciclabili e attenti - vero, Imelda?! - a non invaderei marciapiedi, perché qui non si tollerano svarioni. Raggiunta lastazione di Wien Süd, possiamo riconsegnare le biciclette daspedire a Mauthausen. Ci accasiamo quindi in un albergo nellaLuxemburgstrasse, a circa tre chilometri dal centro di Vienna.

Lunedì 10 Settembre, lasciati gli zaini nella nostra camera, ciincamminiamo verso il centro, ammirando gli splendidi palazzidi epoca imperiale. Raggiunta la cattedrale di Santo Stefano, nevisitiamo a lungo l’interno e abbiamo anche il piacere diascoltare l’organo. Rifacendo poi la strada percorsa il giornoprima in bicicletta, arriviamo al Prater e saliamo sulla famosaruota, ammirando il panorama e scattando parecchie foto.Percorrendo poi un lungo viale, arriviamo presso il Danubio perun ultimo saluto al grande fiume. Nel pomeriggio gironzoliamoqua e là, finché giungiamo ai palazzi imperiali, dove possiamoammirare splendidi lampadari e suppellettili di epocasettecentesca. Sotto un portico troviamo un botteghino dove sivendono biglietti per un concerto di Strauss. Io ne approfitto peracquistarne due, anche se Imelda non ci vorrebbe venire a causadel suo abbigliamento. Siamo ancora vestiti dei panni con cuiabbiamo attraversato le montagne e camminato sotto la pioggia.“No problem” ci fa l’addetto al botteghino, qui tutti vengonovestiti come possono. Così, la sera stessa, possiamo ascoltare la

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“Salonorchester ALT WIEN” nella esecuzione delle musiche diStrauss. C’è anche una brava cantante e le danze per tutti ipresenti in sala, ma Imelda non se la sente di danzare con lescarpe rotte. Questa è anche la conclusione della nostraavventura, ma prima di mettere il punto, devo ricavare la moraleda questa favola; perché di una favola si tratta.

Abbiamo imparato a vivere con poco: un paio di scarpe pernon rovinare i piedi delicati; poco vestiario, essere eleganti nonserve, come dice lo Steward; si può dormire in qualsiasi letto,anche sui sassi, purché si abbia il sonno e una moglie morbida;per mangiare basta avere fame, ché i piatti delicati si trovanodappertutto e, infine, il divertimento si trova in ogni luogo.

Non solo a Vienna.

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IL SENTIERO DEGLI EROI - 2002Montagna – gg. 8

Godere di qualcosa in modo esclusivo generalmente significaessere esclusi dal suo autentico godimento.

Henry D. Thoreau

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Questo è il resoconto di un viaggio che, pur non avendoraggiunto le falde del Kilimangiaro o superato qualche ottomilametri di quota, mi sembra comunque degno di essere raccontato.

In un afoso sabato di giugno dell’anno 2002, lo zaino sullespalle, con mia moglie siamo saliti sull’autobus delle AIM fino aVicenza. Qualcuno a questo punto penserà: è una bufala. Unviaggio in autobus da Vigardolo non può arrivare che a MonteBerico. Seguitemi invece attraverso Campo Marzo fino allastazione FTV: Con un altro mezzo raggiungiamo Valdagno, dovecomincia veramente la nostra avventura.

A piedi risaliamo dapprima le contrade di Castello, Fontana eTomba, sudando copiosamente, fino alle pendici del monteMarana, che sovrasta Valdagno con i suoi 1545 metri dialtitudine. Su per una strada forestale raggiungiamo malgaRialto, dove alcuni giovani si dilettano con il parapendio. Livediamo librarsi in alto, sopra le cime dei monti, sospinti dallecalde correnti ascensionali. Noi invece dobbiamo sudare ancoraparecchio su per la “lasta cattiva”, seguendo una labile traccia.Finalmente nel primo pomeriggio siamo in vetta, dove possiamoristorarci e godere un po’ di frescura. Seguiamo ora il crinale,avendo in basso sulla destra il paesino di Fongara e sulla sinistraCampodalbero. Il sentiero prosegue in quota fin sopra il rifugioBertagnoli, dove scendiamo per la notte.

Il mattino seguente ci avviamo per un altro sentiero che dovràriportarci in quota. Ci procura qualche timore una scritta cheinvita gli amanti della montagna a dotarsi di corde ed elmetti;l’invito non fa per noi, ma per i rocciatori che si avventuranosulla vertiginosa parete che ci sta di fronte. Il nostro sentiero ciriporta sulla dorsale che, costeggiando le cime di Gramolon,Zevola e Tre Croci, conduce al rifugio Scalorbi, in una piccolapiana cintata dai monti Obante e Carega. Ci riforniamo di acquaprima di risalire quest’ultima cima, dove arriviamo riarsidall’aria e dal sole. Scendiamo quindi, dopo una breve sosta alrifugio Fraccaroli, seguendo il sentiero europeo E5, che porta aCampogrosso, località assai frequentata, al centro delle Piccole

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Dolomiti. Dopo il Carega, la nostra meta è il Pasubio, ma nonprima di essere passati per il Sengio Alto, sfiorando le cime delBaffelan e del Cornetto. Al Pian delle Fugazze, dove passa lastrada Schio – Rovereto, non ci fermiamo più di tanto, marisaliamo subito la Val di Fieno per un sentiero che incrociaspesso la Strada Degli Eroi. Breve sosta presso la galleria D.Havet, all’ombra, per ripararci dalla calura che arriva fin quassùe siamo subito al rifugio A. Papa, dove intendiamo pernottare.Lasciati i nostri zaini, risaliamo fino a Cima Palon e visitiamo itrinceramenti italiani della Grande Guerra. Dobbiamo peròrientrare precipitosamente per ripararci da un temporaleincombente.

Il giorno successivo ci attende una lunga camminata fino aLavarone. Ormai posso dire che è nostra intenzione cavalcaretutte le bellissime montagne ai confini del Vicentino, dal Maranaa occidente fino al Grappa, toccando i luoghi storici delle grandibattaglie: Pasubio, Ortigara e Melette.

Seguendo sempre il sentiero E5, passiamo accanto aitrinceramenti austriaci, ancora ben conservati perché costruiti insolido cemento. Scendiamo ora tra le nubi al passo della Borcola,per risalire subito la Borcoletta, seguendo un’erta fino a quota1800 m. Siamo tra le nuvole e non vediamo quasi niente,all’infuori dei segni biancorossi traccianti il sentiero. Finalmenteincontriamo alcuni escursionisti che scendono dal Monte Maggiotutti infreddoliti. Ci salutiamo frettolosamente dopo cinque o seiore di cammino solitario. Notiamo con difficoltà la croce delmonte Maggio, sempre ovattata di nuvole, e scendiamo versomalga Zonta seguendo una strada militare austriaca. Raggiunto ilrifugio Malga Coe, entriamo tutti fradici per ristorarci con uncaffè. Abbiamo appena finito di rosicchiare il nostro paninoquotidiano, che rappresenta sempre il nostro pranzo dimezzogiorno. Saliti sopra Valle Orsara, in posizione panoramica(finalmente troviamo il sereno) scendiamo ora dolcementeattraverso il bosco di abeti. Notiamo un cartello posto su deiruderi: si tratta di un ospedale militare austriaco, collegato con

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una scalinata di pietre alla sottostante carrozzabile che daiFiorentini porta a San Sebastiano. Subito dopo ci imbattiamo neiresti imponenti del forte austriaco Cherle, dopodiché scendiamoin mezzo al bosco fino a Carbonare. Ci ristoriamo presso unabella fontana e, dopo mezz’ora, siamo a Lavarone.

Dopo aver cenato e passato la notte in un tranquilloalberghetto, riprendiamo il nostro cammino per le contradeBertoldi e Slaghenaufi, fino a raggiungere la località diMonterovere, da dove parte il sentiero che ci condurrà alleVezzene e sul pizzo di Levico, a quota 1900 metri. Anche questavetta era stata attrezzata a forte militare austriaco, come si notadagli imponenti ruderi. Noi, più fortunati dei nostri nonni,possiamo frequentare questi luoghi per diletto, ammirando losplendido panorama sottostante, dove brillano i laghi di Levico eCaldonazzo, sul fondo della Valsugana. Scendiamo ora il crinaleche separa la Valsugana dalle Vezzene, di là ripido e scosceso, diqua dolce e prativo e popolato di mandrie, fino a toccare Boccadi Forno, per risalire quindi il Mandriolo e toccare di nuovo laquota di 2050 metri. Tra le bellezze floreali che abbiamoammirato, qui troviamo le stelle alpine. Scendiamo lungo ilcrinale, attenti a non avere un capogiro ogni volta che si sbirciala sottostante valle, fino a raggiungere Porta Manazzo e quindi ilrifugio Larici, a quota 1625 metri. Il clima intanto è cambiato, siaper l’altitudine, sia perché è piovuto e fa più fresco. Il fatto è chequesta sera ceniamo al fuoco del caminetto, mentre in pianura sisoffre il gran caldo.

Il giorno successivo ci attende una lunga e faticosacamminata, non trovandosi altri punti di riferimento per cenare etrascorrere la notte che un bivacco ai piedi di Cima Dodici. Noinon siamo attrezzati con sacco a pelo e non abbiamo altre cibarieche qualche biscotto e un paio di panini. Risaliamo quindi dibuon mattino Cima Larici a quota 2033 metri, per scendere aPorta Renzola, dove si incrocia il sentiero che risale dalla stradamilitare austriaca denominata Herzog Eugen Strasse.

Riprendiamo la salita lungo un costone che sovrasta la val di

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Sella fino alla quota 2308 m. di cima Portule.Il panorama è incantevole: si scorgono le Dolomiti di Brenta,

l’Adamello; più vicino la catena dei Lagorai e il Cima d’Asta,oltre al quale svettano le Pale di San Martino. Tutto intorno ilpaesaggio è selvaggio, ma pieno di fiori. Il giardino di Dio.Scendiamo ora l’altro versante del Portule fino a Porta Kempel equindi, costeggiando monte Trentin, ci portiamo fin sulla CimaDodici, quota 2336 metri, la più alta del nostro fantasticoviaggio. Scendiamo adesso, pestando la neve rimasta sulle buchedella parete Nord, al bivacco Busa dei Dodase, in mezzo a unprato pieno di fiori, dove sostiamo per il nostro pranzoquotidiano, fatto di pane con prosciutto e formaggio, racimolatocon la colazione del mattino.

Beviamo solo acqua, di cui portiamo buona scorta perché inquesti luoghi sperduti non ci sono fontane. Una indicazione cisegnala che fra un’ora saremo sull’Ortigara. Non indugiamo oltree ci avviamo verso questo Monte, dove soffrirono e morironotanti nostri giovani soldati. Raggiunto il cippo italiano e quindil’austriaco, eretti a ricordo delle battaglie che qui infuriarono nel1917, scendiamo al passo dell’Agnella, per risalire l’ultimamontagna sopra i 2000 metri, Cima Caldiera. Qui troviamo unsentiero, aperto di recente, che scende a Porta Moline e conduceai Castelloni di San Marco. In un luogo solitario, quasiabbandonato, si scorgono tre tombe, le cui lapidi riportano i nomidi un sottotenente e di due soldati, qui caduti. A Porta Molinaseguiamo le tracce di una strada militare che serviva il fronteitaliano sulle trincee della Caldiera e dell’Ortigara eraggiungiamo, ormai stanchi, la chiesetta di Malga Fossetta,presso un ex cimitero militare. Finalmente, dopo dieci e più oredi cammino, arrivati al rifugio Barricata dove siamo attesi,possiamo ristorarci e riposare.

Superate le cime più alte e, speriamo, le fatiche più grosse, ciavviamo sotto la pioggia attraverso le praterie di Marcesina, tramalghe e mandrie di bovini. Nei pressi del rifugio Marcesina sinota una cappella dedicata a San Lorenzo ed eretta a ricordo dei

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nostri caduti. Una scritta mi rimane impressa e voglio quiriportarla: “Dei Prodi – discesi dai monti – tra bende vermiglie disangue – la Patria riconoscente – qui custodisce le spoglie – inomi e la gloria”. Giunti presso malga Casonetto, riprendiamo asalire verso le Melette di Foza, chiamate monte Miela, monteFior e monte Castelgomberto, dove si arrestò l’avanzata austriacanel giugno 1916 - nota come Strafexpedition - e dove si combattéancora alla fine del 1917.

Scendiamo adesso verso Campomulo per una sosta e unospuntino; ed anche per un caffè nell’omonimo rifugio,importante meta turistica estiva e invernale. Risaliamo le alturedi Longara sotto la minaccia di un temporale, che ci raggiungeben presto, rendendoci fradici. Subito dopo, a Gallio, l’aria si fafrizzante e il cielo sereno.

Questo ci invoglia, dopo aver cambiato gli abiti inzuppati, aproseguire per il Sisemol e la Valbella, alture teatro delle ultimebattaglie della Grande Guerra e dove si arrestò l’avanzataaustriaca. Il terreno è ancora cosparso di buche , prodotte dallegranate di ambo le artiglierie. Scendiamo poi a Sasso per l’ultimanotte in Altopiano.

Rientriamo il sabato, seguendo il sentiero n. 800, verso il Cold’Astiago, la Valleranetta, il monte Caina, Val Rovina e Bassanodel Grappa. La domenica ci vede ancora a Ponte San Lorenzo,per la Maratona del Grappa. La marcia si svolge sulle pendici delMonte Sacro. Partiamo leggeri, senza più lo zaino, da mille metridi quota per raggiungere la cima del Monte a m. 1775, passandoper l’Ossario e scendendo dall’altro versante. Non sto adescrivere tutto il percorso di 42 chilometri, che noi completiamoin circa nove ore, ammirando successivamente la valle del Piave,la valle del Brenta, gli Altipiani e le Melette. Più lontano siintravvedono le vette dolomitiche, ma noi, in questi nove giorni,abbiamo fatto il pieno di meraviglie.

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TRANSCARNICA - 2002solo montagne – gg. 11

Vi è qualcosa nell’aria di montagna che pervade lo spirito e lonutre.

Henry D. Thoreau

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Mia moglie Imelda ed io abbiamo capito che viaggiare a piediè il modo migliore per vedere il mondo, tenersi in forma econoscere tante persone nel loro ambiente, con i loro costumi, illoro stile di vita e, in particolare, la loro cucina. Mai chiederespaghetti a un tedesco! Chiedi patate e ti serviranno patatesquisite. Le Alpi sono ancora il mondo dei sogni a patto che silasci perdere Cortina o Dobbiaco, disumanizzate da troppoturismo. Quando consultiamo una carta geografica cerchiamosempre le montagne meno assediate dal turismo di massa, comela catena dei Lagorai o le Alpi Carniche. Conosciamo bene iLagorai, che sono la nostra seconda patria, ma non conosciamoancora le montagne della Carnia. E’ questo il motivo che cispinge a organizzare una escursione in questa catena, anche senon possiede il richiamo magico delle Dolomiti.

Questa volta partiamo in treno per raggiungere San Candido,in Val Pusteria, da dove intendiamo incamminarci con zaino ebastone su per le montagne al confine tra Italia e Austria, fino araggiungere il Tarvisio e addentrarci poi in Slovenia per scenderefino a Trieste. Il programma è ambizioso, ma ormai siamoabituati alle lunghe camminate.

Il giorno 18 Agosto del 2002, di domenica, prendiamo iltreno a Vicenza e sostiamo per il cambio a Verona, dovesalutiamo nostra figlia Raffaella e le lasciamo in consegnaRebecca. A casa abbiamo salutato il nipotino Lorenzo, un annodi età, con la promessa di un regalino. Ora ci staccheremo per unbel po’ da amici e parenti e andremo per contrade sconosciute.Intanto arriva il treno per Bolzano e Fortezza, dove si cambia e siprende la linea della Val Pusteria. A mezzogiorno scendiamonella linda cittadina di San Candido e ci avviamo per il centro.Fermandomi per una foto, perdo di vista la moglie Imelda.Comincia bene! Cerca che ti cerco, nella via affollata, la ritrovosui gradini della chiesa e insieme ci avviamo verso il monteElmo. Arriviamo in vetta verso le quattro del pomeriggio, stanchie sudati: abbiamo raggiunto la quota di m. 2493 superando undislivello di milletrecento metri. Ora manteniamo la quota

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raggiunta fino al rifugio Gallo Cedrone e al Sillianer Hütte, dovearriviamo alle sei di sera quasi sfiniti.

Il giorno successivo ci alziamo presto e ci avviamo lungo ilsentiero n. 403, che corre sul confine italo-austriaco dalla città diSillian in Pustertal al passo del Tarvisio. Tocchiamo alcune cime:monte Arnese, monte Pantegrotta, Monte del Ferro (Eisenreichm. 2645) e cimone Frugoni. Superiamo quindi cima Vanscuro am. 2678 e monte Cavallo a m. 2682, girando attorno al lagoObstansersee e relativo rifugio; le cime descritte non sono picchi,ma rilievi della catena, sulla cui cresta corre il sentiero. Ilpanorama è splendido avendo sulla destra, verso Sud, le dolomitidi Sesto con i Tre Scarperi, le Tre Cime di Lavaredo e tutte lecime sopra Cortina; mentre verso Nord possiamo ammirare iMonti Tauri e le Vedrette. Scendiamo ora dal monte Cavallinoverso un piccolo rifugio, Filmoore-home, per una sosta di ristoro.Paghiamo due caffé cinque euro e riprendiamo il cammino versol’Oberer Stuckensee, piccolo lago sul versante austriaco,risalendo verso la forcella Heretriegel per scendere infine alrifugio Porze Hütte dopo dieci lunghe ore di cammino. Nelnostro girovagare non siamo soli: molti escursionisti europeiconoscono il sentiero n. 403 e praticano come noi questabellissima attività sportiva.

Il 20 Agosto risaliamo verso forcella Dignàs, incerti seprendere la strada delle malghe, più in basso, o il crinale chesegue i cippi di confine. Quest’ultimo sentiero è segnato apuntini nella nostra carta, il che sta ad indicare percorso scabrosoe accidentato ma, in compenso, più bello e panoramico.Seguendo il crinale, notiamo in basso a destra la strada dellemalghe e la valle del Piave da Santo Stefano a Sappada. Asinistra si stagliano le Lienzer Dolomiten e, più lontano, i MontiTauri dove biancheggia la cima del GrossGlockner. Superiamo laCroda Negra e il Monte Cecido per ricollegarci, alla forcellaManzon, con il sentiero proveniente dal versante austriaco. Sisegue ora un tratto in territorio italiano, segnato con numero 172,che corre sotto il crinale di confine e tocca nuovamente il n. 403

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alla forcella Val Carnia. Aggiriamo il monte Vancomun(Hochspitz) seguendo il nostro n. 172 per incontrare, sotto ilmonte Antola (Steinkarspitz), per la terza volta il n. 403 e seguirequest’ultimo fino al rifugio Hochweisssteinhaus. Ogni sera, dopoil piacere della doccia e di una buona cena, si fanno nuoveconoscenze, come questi due friulani, insegnanti in pensione, checi raccontano di aver raggiunto il rifugio in bicicletta e che sifanno fotografare con noi.

Il dì seguente, 21 Agosto, si preannuncia piovoso. Risaliamoverso il giogo Veranis per seguire la variante in territorio italianoe scendiamo in val Fleons, dove incontriamo il sentiero n. 140proveniente dal rifugio Calvi. Il monte Peralba, che ieri sistagliava bianchissimo davanti a noi, oggi è completamentecoperto di nubi. Piove, ma questo non ci impedisce di scattarealcune foto per ricordare le valli, le casere, i ruscelli scroscianti equant’altro di bello si vede camminando. Fleons di Sotto, CretaVerde e Sissanis sono nomi di casere che incontriamo oggi, finoa toccare Sella Sissanis e risalire per una valle ghiaiosa sopra illago Bordaglia e il passo Giramondo, m. 2005 di quota. Quiritroviamo il sentiero n. 403 che correva a nord delle creste, interritorio austriaco e lo seguiamo fino a incontrare una malga,Ob.Volayer Alm, dove pascolano liberi i cavalli e dove Imeldatrema dalla paura quando mi faccio fotografare vicino ad uno diessi. Giunti all’Ed Pichl Hütte, un rifugio sul Volayersee, non ciresta che un quarto d’ora per raggiungere il rifugio RomaninLambertenghi sul versante italiano. Come si vede, siamocontinuamente o di qua o di là del confine, ma la moneta èsempre la stessa: l’euro. Le lingue che si sentono parlare lungoquesto cammino sono per lo più il tedesco, poi l’inglese,l’olandese e il francese. L’italiano poco. Noi italiani preferiamoguardare la TV e la partita di calcio.

Il rifugio Lambertenghi ci accoglie con un bel camino acceso,dove mettiamo ad asciugare i nostri panni bagnati e gli scarponi.E’ preannunciato l’arrivo di una folta comitiva di gitanti, almenoquaranta, ma non sono italiani: sono sloveni, arrivati per scalare

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il monte Coglians che ci sovrasta. Noi intendiamo evitare di scalare questo magnifico Monte

perché altra è la nostra meta; il 22 Agosto ci incamminiamoverso il sentiero Spinotti, numerato 145, che ci porta sotto unaparete rocciosa. Solo all’ultimo momento ci accorgiamo deicordini e delle scalette di ferro che si devono usare per superarel’ostacolo della parete rocciosa. Armati di pazienza, risaliamocon difficoltà i duecento metri di dislivello per ammirare la vallesottostante, dove risaltano gli abitati di Collina e Collinetta.Verso le dieci siamo al rifugio Marinelli; sostiamo per ammirarele bianche vette che circondano la splendida località: Creta delleChiavenate, Creta di Collina, Cresta Verde e, dalla parte opposta,Monte Crostis. Seguendo ancora il sentiero n. 171, in territorioitaliano, raggiungiamo abbastanza presto il passo di Monte CroceCarnico, prendendo alloggio presso l’albergo “Al Valico”Abbiamo il tempo per visitare il Museo Storico della Guerra,allestito all’aperto nella parte austriaca, e risalire il monte PalPiccolo, dove si trovano ancora i trinceramenti rimessi in ordinead uso dei turisti. Quel che più ci resta impresso, al passo, sonole scritte doganali, le caserme e tutto l’armamentario di confineche ora, con l’avvento dell’euro, è reso inservibile.

Il 23 agosto ci avviamo su per un sentiero che raggiunge il PalPiccolo dal versante italiano, trovandovi le postazioni militariitaliane della Grande Guerra. Penso spesso alle sofferenze deigiovani di allora, costretti a combattere e a morire in questemontagne, e alla nostra fortuna di poter percorrere i medesimiluoghi per diletto. Anche se questo piacere ci costa parecchiafatica, ora che risaliamo verso il passo Palgrande, sopra illaghetto Avostanis, che dobbiamo poi raggiungere, prima diriprendere la salita verso Sella Cercevesa. Abbiamo evitato ilrifugio Casera Pramosio, perché è nostra intenzione raggiungereil rifugio Fabiani, qualche ora di cammino più avanti. Forsestiamo chiedendo troppo alle nostre membra in questa vallettasperduta, dove non si vede anima viva. Finalmente incontriamoun tale che ci alletta così: “Il rifugio vi aspetta con il caminetto

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acceso; tra un’ora sarete arrivati”. Ci vorrà ancora un’ora emezza per trovare questo bel rifugio, da poco restaurato, eun’ottima cena. Il gestore ci indica come meta, per il giornosuccessivo, il rifugio Lanza, che si trova nel Friuli, appena sottoMonte Zermula.

Il 24 agosto, di sabato, partiamo baldanzosi e prendiamo,neanche a farlo apposta, un sentiero sbagliato. Ce ne accorgiamoa Casera Lodin Bassa e dobbiamo tornare sui nostri passi, invista del rifugio Fabiani, per ripartire con il sentiero n. 448, cherisale verso Casera Lodin Alta. Abbiamo perduto un’ora ditempo, ma in realtà non abbiamo perduto niente in quanto ilpaesaggio, ovunque si vada, è sempre bellissimo. Notiamo qui latransumanza: una mandria di bovini, esauriti i pascoli in alto,viene spinta verso il basso, verso altri pascoli integri everdeggianti, da un gruppo di mandriani. Si cammina in alto,sullo spartiacque che segna anche il confine italo-austriaco,osservando in basso le casere e i pascoli. Si vede anche la caseraCason di Lanza, accerchiata e soffocata dalle auto dei week-endisti. Telefoniamo se c’è posto per noi e ci viene detto: “Siamoal completo, non ci sono posti disponibili”. Non ci resta chepassare oltre confine e cercare di là un posto per la notte.Seguendo sempre il sentiero n. 448, ci troviamo presso la caseraValbertad, dove la segnaletica non è chiara. Qui ci sono dellepersone, alle quali chiediamo consiglio e così, al primo bivio,risaliamo verso Sella Cordin e ritroviamo il n. 403. Ora siamotranquilli. La segnaletica, sul versante austriaco, è migliore dellanostra e ci ripromettiamo di farlo presente alle sezioni CAI diSappada e di Forni Avoltri. Intanto, seguendo il crinale, siamogiunti al bivio che conduce al villaggio di masi Zanklhütte equindi al Rattendorfer Alm. E’ questa una casera piena di bidoniper il latte, dove si può cenare e pernottare. Ci viene chiesto sevogliamo la camera privata, a 24 euro, o il camerone a 14 euro.Scegliamo il camerone, dove scopriamo di essere soli con unatrentina di brandine a disposizione e con la comodità di poterstendere ad asciugare i nostri panni lavati. Il sito è molto bello,

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sovrastato dal monte Creta di Aip o Trogkofel, in tedesco, la solalingua parlata dalla gente del luogo, e non rimpiangiamo affattola superaffollata Casara di Lanza.

Domenica 25 agosto risaliamo i cinquecento metri di quotache ci separano dal crinale di confine e ritroviamo il nostro 403,che corre adesso sotto la Creta di Aip, in territorio italiano. Quiincontriamo due alpinisti che si apprestano a raggiungere la cimadel monte con cordini e piccozze. Auguriamo loro buona fortuna,non essendo impresa a nostra portata, e ci avviciniamo alla Selladi Aip, dove il sentiero si divide in tre direzioni: una porta albivacco Lomasti, un’altra entra in territorio italiano per unsentiero attrezzato e molto difficile. Noi scendiamo a sinistra,dove si notano impianti di risalita per sciatori e turisti delladomenica, e raggiungiamo Passo Pramollo verso le due delpomeriggio, avendo così il tempo per visitare il sito turistico,molto affollato in questa stagione. Troviamo alloggio quasi percaso al Rifugio Forcello, dove ci siamo fermati per chiedereinformazioni. Il resto del pomeriggio è dedicato alle passeggiatefino a Watschiger Alm, che avevamo pensato di raggiungere perla notte, e per girare attorno al bellissimo laghetto Stausee,scattando fotografie ai cartelli di confine “Austria” e “Italia”.

Lunedì 26 agosto ci avviamo per una strada sterrata e quindi,giunti alla casera Auernig, prendiamo un sentiero che ci riportasul crinale. Poco dopo scendiamo in territorio austriacoattraverso un tratto accidentato e parecchio difficile, per ritrovareil n. 403, che cammina ora tra le malghe e i prati, fino alla Selladella Spalla (Schutter Sattel) e rientra ancora in territorioitaliano. Come si vede, passiamo continuamente il confine,tracciato da burocrati che non si curavano di dividere comunitàmontane, tra di loro affratellate. Loro, i burocrati, dovevanoobbedire a padroni lontani, forse a Roma o in qualche altracapitale europea. Ormai il confine più non si nota, essendo imonti più bassi e boscosi. Passando per Sella Zille, rientriamo,quasi a nostra insaputa, in Austria e arriviamo a Egger Alm inpieno pomeriggio. Trovato il nostro rifugio per la notte, andiamo

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a visitare il grazioso alpeggio: la chiesetta, i masi e un piccololago, Egger Alm See.

Il giorno seguente ci avviamo sotto una leggera pioggerellaverso Poludniger Alm, raggiungendo quasi senza volerlo la cimadel monte Poludnig, quota 1999 m. Qui arrivati, dobbiamoscendere per almeno cinquecento metri di quota, fino a ritrovareil nostro n. 403. Siamo ancora sul Karnischer Hohenweg, la viaprincipale che unisce la città di Sillian, in Austria, e il Passo diTarvisio. Come si vede, noi l’abbiamo lasciata più volte perseguire altri sentieri, tornando sempre sulla via maestra, lanumero 403. Dico questo perché, sia per indisciplina che persmemoratezza, ancora una volta ci troviamo fuori strada. Chissàdove abbiamo perduto il sentiero, fatto sta che ci troviamo in unsito sconosciuto e non sappiamo dove dirigerci. Il cielo è copertoe, quindi, il sole non ci può fare da guida. Per nostra fortunavediamo due cercatori di funghi, ai quali chiediamo informazionicirca il sentiero 403, mostrando loro la cartina. Costoro cicaricano in macchina e ci portano giù, in fondo alla valle da cuieravamo risaliti, e si fermano davanti a una sbarra, indicandoci lastrada da percorrere per ritrovare il nostro 403. Abbiamo perdutoinutilmente due ore, ma adesso siamo di nuovo sulla buonastrada. Risaliamo di quota, 1600, 1700, 1800 e da qui notiamo unvillaggio fantasma: casupole abbandonate, dove non vive piùnessuno, Görtschacher Alm. Da questo belvedere si nota in bassoun rifugio. Scendiamo per almeno seicento metri di quota esiamo allo Starhand Alm, dove facciamo sosta di ristoro. Siamoin territorio austriaco, ma si parla friulano. Abbiamo ancora unpaio di ore e ci avviamo per un’erta, fino a raggiungere la malgaOsternig, appena sotto il monte omonimo, a quota 1720 m.Troviamo anche la nostra camera con il gabinetto in fondo alcorridoio, senza acqua corrente. Un tale ci porta un secchio diacqua da buttare nel cesso, quando si fa uso del gabinetto.Proprio come ai bei tempi di quand’ero bambino. A sera, durantela cena, siamo asfissiati dal fumo delle sigarette. Nessuno si fascrupolo di fumare, nemmeno le donne con i bambini in grembo.

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Mercoledì 28 agosto contiamo di arrivare al passo Tarvisio inbreve tempo, perché ingannati da un cartello che indicava:“Thörl ore 5”. Seguendo i cippi di confine, arriviamo ad unachiesetta dedicata alla Madonna delle Nevi “Maria Schnee” eraggiungiamo Achomitzer Alm, un rifugio che avremmoraggiunto il giorno prima, se non avessimo sbagliato percorso.Non perdiamo tempo, ma, seguendo una strada forestale,arriviamo a Sella di Bartolo e a Goriacher Alm, piccolovillaggio, le cui case sono un po’ al di qua e un po’ al di là delconfine. Troviamo anche due guardie forestali friulane, alle qualichiediamo dei viveri, pane e qualcos’altro da mettere sotto identi, perché in questi luoghi fuori mano non si trovano negozi.Ci avviamo in leggera discesa, tra prati fioriti, e poi sotto gliabeti di un fitto bosco. Raggiunto un luogo strapiombante, inbella vista sulla valle del Tarvisio, notiamo una capanna quasisospesa e vi entriamo. C’è un quaderno per raccogliere le firmedi coloro che hanno completato la Trans-Carnica e ci mettiamoanche la nostra, accanto a quella di un gruppo di escursionisti diBassano del Grappa: Piero V., Aronne, Dario. Noi siamo del CAIdi Sandrigo, sottosezione di Marostica, e ci teniamo a farlosapere. Non ci rimane che scendere quasi a precipizio fino alpaese di Thörl, lungo la strada che collega il Tarvisio a Villach,dove troviamo alloggio per tre giorni. Abbiamo deciso di tornarea casa prima del previsto perché sentiamo nostalgia di Lorenzo,nostro nipotino, e anche perché la mia pressione arteriosa è cosìbassa che mi preoccupa.

Giovedì 29 agosto, lo dedichiamo a una camminata fino aTarvisio per cercare la stazione ferroviaria. In questa cittadinatroviamo il mercato pieno di bancarelle. I venditori provengonoda tutte le località limitrofe, sia italiane che austriache o slovene.E’ un mercatino internazionale. Ne approfittiamo per acquistareregalini e anche per divertirci un po’ tra la gente, dopo tantigiorni passati nei monti solitari. La stazione si trova lontana dalcentro di Tarvisio e noi fatichiamo parecchio per trovarla.Rientrando a Thörl, passiamo per alcuni graziosi centri montani:

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San Michele e Coccau, riservando il giorno dopo, venerdì, perandare a Hohenturm e a Draschitz, due villaggi austriaci pocolontani dal nostro soggiorno. Nel pomeriggio del medesimogiorno ci prendiamo lo sfizio di passare da una bravaparrucchiera per rimettere in sesto le nostre zazzere. La testa diImelda è un capolavoro.

Il sabato 30 agosto, l’ultimo giorno, è dedicato a unaescursione sul Monte Forno, che segna il confine tra Austria,Italia e Slovenia. Ci sono parecchi sentieri che salgono al Monte,e questo ci crea confusione ma, giunti sulla cima, lo spettacolonon manca. Troviamo le tre bandiere affratellate e troviamo tantagente di diversa nazionalità. Permangono ancora i segni dellaGrande Guerra: trincee, casermette e fortificazioni. Dobbiamoessere grati agli uomini che hanno costruito l’Unione Europea,rendendo inutili i confini, le dogane e tutto l’armamentario cheseparava i popoli europei.

Dopo aver preso le foto ricordo, scendiamo da Monte Fornoper altro sentiero e arriviamo ad una località chiamata Madonnadella Neve, sotto la cima del monte Cavallar. Il luogo è allietatoda una compagnia di cantori, che interrompono i loro inni perbrindare con i fiaschi di vino. Verso sera arriviamo per caso aMaurer, piccolo villaggio austriaco, dove si sta celebrando unmatrimonio. Tutti sono vestiti in costume tirolese ed è unameraviglia assistere all’allegria e al buon umore che sprigionadalla festa. Purtroppo la nostra macchinetta non ci permette diimmortalare la scena, avendo esaurito il rullino. Domenica primosettembre, piove. Ci facciamo accompagnare in macchina allastazione di Tarvisio per prendere il treno e tornare a casa nostra.

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EL CAMINO DE SANTIAGO DE COMPOSTELA - 2003Santiago di Compostella – Altopiani – gg. 30 Km. 800

Lasciatemi andare – per le stoppie infiniteLungo questo sentiero interminabileDove fiumane di pellegriniVengono dai secoli lontani e vanno verso il mareLa fine delle terre – verso il tramonto.

Osvaldo Benetti

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Venerdì 12 settembre 2003 partiamo per una nuova avventura.Questa volta siamo in quattro: Giovanni, Luciano, Imelda e ilsottoscritto. Dobbiamo raggiungere Roncisvalle, al confine tra laFrancia e la Spagna, da dove partiremo a piedi con lo zaino inspalla e con tanta buona volontà per arrivare, in trenta giornicirca, al santuario di Santiago di Compostella. Oggi prendiamo iltreno a Vicenza per raggiungere Milano e quindi, a mezzopullman, l’aeroporto della Malpensa, dove un aereo a buonprezzo ci solleva e ci deposita a Bilbao. Qui giunti a mezzanotte,pernottiamo in un albergo già prenotato da Luciano e il giornoseguente, sabato 13 settembre, un pullman ci porta a Pamplona.Abbiamo il tempo per visitare la parte nuova di questa splendidacittà perché solo alle ore sedici un altro pullman ci trasporta finoa Roncisvalle, dove arriviamo alle diciotto, stanchi dei varimezzi di trasporto e desiderosi solo di usare le nostre gambe. Giàdurante i vari trasferimenti Giovanni continua a ripetere che luinon ce la farà: non so se dice sul serio o per scaramanzia,vedremo. La prima sorpresa è questa: siamo in tanti, forsecentoventi o forse di più, tutti intenzionati a partire per questoitinerario. I locali sono pieni, tanto che dobbiamo accontentarci,per cena, di un panino annaffiato con un po’ di vino. Ci vieneconsegnata, intanto, la “charta peregrini”, dove sono annotati inostri dati personali, predisposta per ricevere il “sillo”, il timbro,nei vari luoghi che incontreremo lungo il cammino, a comprovadell’avvenuto passaggio.

Assistiamo alla messa del pellegrino e preghiamo Santiago etutti gli altri Santi che incontreremo per avere aiuto e soccorso,perché ce ne sarà bisogno.

Dopo una notte passata in camerata, abbiamo già sentore dellevarie sinfonie dei russatori che accompagneranno i nostri sonni.

Prima di iniziare il racconto vero e proprio sarà megliodefinire alcuni termini: per “El Camino de Santiago” userò: ilsentiero; per “Albergue de Peregrinos” userò: ostello.

Domenica 14 settembre alle sette del mattino, con il buio,comincia veramente il nostro pellegrinaggio. Il sentiero si inoltra

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tra una rigogliosa vegetazione montana (siamo appena sotto imille metri) formata da abeti, roveri e pini. Incontriamo duecomaschi partiti il giorno prima da Saint Jean Pied de Port, inFrancia, insieme a due loro parenti svedesi. Parliamo anche conuna coppia di americani partiti due mesi prima da Parigi, semprea piedi. Scendiamo intanto verso Espinal, Biscarreta e Lintzoain,nomi doppiati in lingua navarra con termini impronunciabili.Basti dire che Pamplona si chiama Iruña. Si delinea intantoquello che sarà il tema dominante: Luciano tira davanti, semprepieno di fretta, Giovanni che segue con il solito ritornello: nonvoglio esservi di peso, andate pure che io arriverò più tardi. A uncerto punto mando avanti Imelda a seguire Luciano per prenotareil posto a Larrasoaña. A Zubiri, dove si pensava di pernottare,non ci fermiamo perché l’ostello sta un po’ fuori percorso.Notiamo qui un bel ponte antico, il primo di tanti cheattraverseremo e che sono una caratteristica del paesaggio.Arriviamo, Giovanni ed io, con due ore di ritardo su Luciano eImelda, ma sempre in tempo per un letto e una cena.

Il giorno seguente, domenica 15 settembre, dobbiamoraggiungere Pamplona con una breve passeggiata di 15chilometri. Lungo il percorso incontriamo due ragazze con ipiedi gonfi di vesciche. Luciano si improvvisa chirurgo,togliendo il liquido dalle vesciche e disinfettando. La camminatatermina al centro della città vecchia alle undici del mattino,lasciandoci tutto il tempo per visitare e fotografare le bellissimevie e gli splendidi palazzi. Mentre Giovanni riposa e russa nelsuo lettino, noi percorriamo le vie dove si liberano i torelli inmezzo alla folla due volte l’anno. La sera usciamo per la cena inuno dei tipici locali, dov’è esposto il menù del pellegrino, dasette a nove euro in tutto, paella, pescado, vino e dolce compresi.

Il 16 settembre ci incamminiamo verso Puente la Reina (ilPonte della Regina) per un percorso impegnativo. A Cruz Menorsostiamo per una visita all’abbazia e proseguendo poi perZiriqueni notiamo in lontananza una lunga fila di mulini eolici.Sembrano i giganti descritti dal Cervantes nel Don Chisciotte.

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Finalmente raggiungiamo l’Alto del Perdon, un’alturapanoramica arredata con delle sculture metalliche dedicate al“Peregrino”. Di continuo s’incontrano pellegrini provenienti datutto il mondo: Australia, Canada, Stati Uniti, Svezia, Svizzera,Austria, per non parlare di alemanni in gran quantità e francesi,spagnoli, sudamericani. Tutta gente che viene qui perdimenticare l’assillo della vita moderna e vivere, in pace, povertàe tribolazione, un tipo di vita ormai perduto. C’è chi zoppica, chiporta fasce elastiche per rinforzare qualche parte indebolita, matutti avanzano senza perdersi di coraggio. Finora abbiamo sentitoparlare quasi tutte le lingue della terra. Mi viene in mente unapoesiola che recitava: “Son negromanti, magi, persiani, egizi,greci – il campanile scocca lentamente le dieci”. Ora scendiamoper un tratto sassoso, che Giovanni affronta con difficoltà,mentre Luciano stacca il gruppo. Raggiungiamo Uterga,Muruzabai e saliamo verso Obanos, bel paesino dotato di unpiccolo albergo privato. Mentre osserviamo un gran palazzocintato di mura, arrivano Giovanni e Imelda e insieme ciavviamo per Puente la Reina, nostra meta odierna. La lindacittadina offre un bell’ostello dotato di tutto il necessario: docce,letti a castello e sala lettura. In tre visitiamo il piccolo centro,mentre Giovanni deve ricuperare in branda. Arriviamo al famosoponte romano, che ci dilettiamo a ritrarre dal verso delle arcate ein posizione dirimpetto, cerchiamo un locale per la cena e unnegozio per procurarci le vettovaglie del giorno dopo.Chiudiamo la giornata con la solita cenetta a quattro e la solitachiacchierata. Giovanni manifesta la sua gioia per trovarsi cosìinsieme e questo ci fa ben sperare.

Il giorno 17 settembre, martedì, il cammino si presentaabbastanza facile: solo 22 chilometri. Raggiunta in breve lalocalità di Maneru, abbiamo la gradita sorpresa di trovare unlocale di ristoro tenuto da una signora, con l’aiuto di volontari,che offre una colazione a base di caffè, marmellata e fettebiscottate senza chiedere mercede. Il locale è sempre pieno,figuriamoci! Si fa un’offerta e si riprende il locale con la brava

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signora e tutto il giardino pieno di pellegrini festanti. Purtroppole foto risulteranno annerite perché, per errore, ho aperto,credendo il rullino finito. Pazienza, Luciano mi farà avere unadelle sue. Arriviamo a Cirauqui, il cui nome in basco significa“nido di vipere” e dove Imelda, che teme questi rettili, si guardabene attorno. Dopo Cirauqui il sentiero percorre zone di campicoltivati con pratiche agricole moderne. Ci era stato raccontatoche qui si usava ancora l’aratro attaccato ai buoi; notiamo,invece, grossi trattori con aratri quadrivomere. Finoral’impressione che abbiamo avuto di questa regione, la Navarra, èdi un grande cantiere avviato per ricuperare e ristrutturare tuttigli antichi edifici, le piazze, i monumenti e tutto quello che èritenuto interessante per l’ambiente locale. Giovanni ripete chenon ce la fa e noi riteniamo di non insistere oltre; domani ci saràancora una tappa facile, poi si vedrà. Intanto la strada devia versodove è indicato un vecchio monastero. Attraverso un anticoportale notiamo una piccola chiesa rimessa a nuovo e nientealtro; non si può entrare nel cortile interno perché è ancorachiuso: il guardiano sta nel suo letto fino a tardi e non sipreoccupa dei visitatori. Il sentiero si riaccosta quindi allacarrozzabile per raggiungere prima Lorca e poi Villatuerta.Breve sosta in questa località per un piccolo ristoro e via per gliultimi chilometri che ci separano da Estella. Il rifugio modernodescritto nel nostro libretto è già completo e quindi veniamoalloggiati in una vecchia barchessa. Ci sono almeno ottanta postiletto sistemati su brande a castello ed è inutile lamentare lapromiscuità o la confusione. Basta che non ci sia qualchetrombone che ronfa nel sonno, ma anche per questo c’è ilrimedio dei tappi alle orecchie. Intanto, però, siamo nel primopomeriggio e abbiamo il tempo per visitare la cittadina. Ci sonodue grandi chiese, una dedicata a San Pedro e una a San Miguel.Visitiamo anche il palazzo reale di Navarra, ora adattato permanifestazioni culturali varie, come l’esposizione di quadri dipittori locali. Cerchiamo anche un buon ristorante per la cena,dove ci ritroviamo la sera in lieta compagnia.

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Il 18 settembre si presenta con una camminata piuttosto breve:solo 21 chilometri. Partiamo sempre con il buio, verso lesette/sette e mezzo dopo una colazione fatta in vari modi: o neilocali dell’ostello, se c’è una cucina, o in qualche locale aperto dibuon’ora, se siamo fortunati. Perché qui i locali pubblici apronotardi, mentre la sera non chiudono che dopo mezzanotte. Paeseche vai, costume che trovi. Devo precisare che in Spagna si usa ilfuso orario dell’Italia, pur trovandosi spostati a occidente diun’ora abbondante e quindi il buio si protrae fino alle otto emezza. Subito dopo Estella si trova il monastero di Irache:chiuso, naturalmente. Non ci resta che proseguire il cammino perAzqueta e Villamayor. Prima di entrare in quest’ultima località siincontra una fonte, “fuente de los moros”, dove venivano adabbeverarsi i mori, che da queste parti imperversarono per tutto ilmedioevo. Anche noi ci abbeveriamo perché fa ancora caldo eabbiamo sete; riempiamo le nostre bottiglie di plastica edentriamo a Villamayor nel cui parchetto sostiamo per il pranzo alsacco. Percorriamo quindi, attraverso la campagna, gli ultimi 12chilometri che ci separano da Los Arcos. Giovanni, che dovevafermarsi ad Azqueta per prendere il bus, ci segue invece fino aLos Arcos, dove troviamo alloggio presso un ostello privato cheoffre tutto compreso: cena, pernottamento e colazione – permeno di 15 euro. La cena è orribile, specie per Imelda che nontollera le uova, e il resto è men che meno con due pezzettini disalsiccia quasi invisibili. La notte si presenta anche peggio, conGiovanni che russa a tutto gas, tanto che io prendo lenzuolo ecoperta e mi trasferisco in cucina a dormire sul pavimento. Lasera prima, nella chiesa di Santa Maria, avevamo ricevuto labenedizione del pellegrino e questo mi aveva ridato un po’ disperanza, perché mi sentivo depresso.

Il giorno 19 settembre si apre con una sorpresa: Giovanni cilascia; non per arrivare in bus a Logroño, come era pattuito, maper tornare a casa. Non insistiamo più di tanto a trattenerlo,perché è evidente che Giovanni ha fatto il massimo alla suaportata, ma partiamo spediti verso Torres del Rio dove è

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segnalata la chiesa del Santo Sepolcro che merita una visita,come indicato nella nostra guida. Approfittiamo per mettere un“sillo” sulla charta peregrini, ma non possiamo visitare la chiesa,ancora chiusa. Sarà un tema ricorrente, purtroppo, trovare chiusibar e chiese almeno fino alle undici del mattino. Ci consoliamoraccogliendo nei vigneti della Rioja i grappoli d’uva rimasti dopola vendemmia. L’uva è buonissima, come ottimo è il vino che sibeve da queste parti. Raccogliamo anche mandorle, more e altrebacche commestibili, che arricchiscono il nostro sangue divitamine naturali. Ci siamo fatti degli amici tra gli altri gruppi dipellegrini: una signora canadese, le due ragazze medicate ai piedida Luciano, che lo venerano come un guaritore, un ragazzoaustraliano e tanti altri. A Viana, ultimo paese prima di Logroño,sostiamo per acquistare dei panini da consumare seduti sullepanchine del parco, annaffiati con acqua; il vino è riservato allacena. Solo tre euro ci sono richiesti per dormire in una lindacamerata, così anche per oggi siamo a posto.

Il giorno 20 settembre si parte prima del solito, alle sei e ventidel mattino, con il buio. Ci mettiamo parecchio tempo per uscireda questa città, Logroño, grossa almeno come Padova. Dopo dueore, mentre albeggia, arriviamo nei pressi di un piccolo lago.Sostiamo per la solita preghiera del mattino, quella che Lucianoha portato da Monte Berico, ed è la preghiera recitata dal Papanella sua visita a Vicenza. Il sentiero si snoda ora tra vigneti ecampi di stoppie, fiancheggiato da alberi di pere, mele, noci,nocciole e mandorle. Noi, e specialmente Imelda, ne facciamoman bassa, riempiendo le varie sacche dello zaino. Non so sequesto si concilia con il nostro pellegrinaggio, ma la coscienza ètranquilla perché quasi tutta la frutta viene raccolta da terra.Arrivati in prossimità di Navarrete, notiamo che si stannoarrostendo i peperoni rossi sopra a dei bracieri. Mi fermo perprendere una foto ricordo e un tale mi offre peperoni appenacotti, mi riempie un panino e con questo raggiungo i mieicompagni presso un bar, facendo venir loro l’acquolina in bocca.Pausa di ristoro con caffè e “leche” in compagnia di numerosi

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altri pellegrini. Si riparte tra i vigneti e a mezzodì siamo su diun’altura, chiamata Alto de San Anton, da dove si intravvedeNajera (si pronuncia Nàchera, come sento da gente del luogo),nostra meta odierna. Il piccolo centro non offre granché: iristoranti aprono alle otto e mezza di sera e quindi ci resta moltotempo per gironzolare, visitare il complesso monastico dedicatoa Santa Maria la Real e scrivere queste righe.

Oggi, 21 settembre, per raggiungere Santo Domingo de laCalzada, ci alziamo a partiamo ancora presto, alle sei e trenta.Luciano è sempre sollecito a scrollarmi nella branda per farmialzare. Il motivo è che temiamo di trovare completo l’ostello diarrivo, se arriviamo tardi, ma oggi intendiamo anche allungare ilpercorso. Appena usciti da Najera, mi giro verso oriente erimango incantato dal cielo limpido dove si staglia l’ultima falcedi luna, attorniata da poche, brillanti stelle. Luciano accende lapila per avvistare i segni del sentiero: la freccia gialla e laconchiglia. Pian piano viene l’alba e si intravvede la campagnacircostante e il continuo alternarsi di stoppie e di vigneti. Pocoprima delle otto siamo ad Azofra, dove si trova un piccolo ostelloe un bar. A noi interessa il bar per fare colazione e prendere unbuon caffè. Ci riforniamo anche di acqua presso una bellafontana a tre getti e riprendiamo il cammino per la solitacampagna solitaria. Io mi stacco dalla compagnia di Imelda e diLuciano perché desidero stare solo con me stesso. Nel silenzio,lascio andare il mio cervello per il suo mondo di sogni o, forse,per ricuperare un po’ di sonno. Passano alcune ore tranquille e,dopo una breve sosta a Ciruena, raggiungiamo Santo Domingode la Calzada verso l’ora di mezzodì. In una tranquilla piazzettaconsumiamo il nostro solito panino e riposiamo. Luciano nontrova il suo telefono portatile e lo cerca rovistando nello zaino.Rovescia fuori tutto, ma del telefono non c’è traccia: che siarimasto a Najera nella confusione o nel buio? Impossibile! Ilcellulare salta fuori nella scatoletta del sapone al posto delsapone stesso. Tutti soddisfatti per il ritrovamento, si entra in unbar per festeggiare. Visitiamo anche la bella cattedrale e veniamo

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a conoscenza della leggenda che corre in questo luogo. “Unafamiglia di pellegrini, padre, madre e giovane figlio, provenienteda Colonia, sosta in una locanda di Santo Domingo pertrascorrervi la notte. La figlia del locandiere si invaghisce delfiglio e cerca di sedurlo. Il giovane resiste e la ragazza,indispettita, per vendicarsi nasconde nella sua bisaccia una coppad’argento, poi lo denuncia per furto al magistrato del paese. Ilragazzo viene perquisito e gli si trova addosso la refurtiva:riconosciuto colpevole viene quindi impiccato come ladro. Igenitori, affranti dal dolore, continuano la loro peregrinazioneverso Santiago; sulla via del ritorno, con grande stupore, trovanoil figlio appeso alla forca, ma ancora vivo, sostenuto per i piedida San Giacomo. Corrono dunque a dirlo al magistrato, perché ilmiracolo testimonia l’innocenza del giovane. Il giudice,interrotto durante il pranzo, non trova di meglio che ridere diloro, dicendo: - Vostro figlio è vivo come sono vivi questi polliarrostiti che sto mangiando-. Ma, come finisce di parlare, eccoche i polli si rivestono di piume, riprendono vita e si mettono acantare…”. Morale della favola? Non la so, ma sono molti igiovani che vengono a Compostela con la segreta speranza diincontrare la figlia del locandiere. Abbiamo a disposizioneancora un paio di ore e quindi decidiamo di proseguire fino aRedicilla del Camino, essendoci in tal luogo un ostello concinquanta posti letto. Arriviamo verso le quattro del pomeriggiodopo avere percorso, oggi, circa trentacinque chilometri. Sipoteva pernottare anche a Granon, dove il parroco ci avrebbeaccolto volentieri, ma c’erano già arrivati parecchi pellegrini e iposti erano limitati. Anche perché ci si sarebbe dovuti coricaresul pavimento. Comunque Redicilla del Camino è di nostrogradimento per cui possiamo riposare, cenare e passaretranquillamente la notte.

Martedì 22 settembre è il decimo giorno del nostropellegrinaggio. Partiamo sempre con il buio perché nelle orecalde il sole picchia forte e ci conviene sostare. Intanto siamosaliti, quasi senza accorgercene, fino a mille metri di quota.

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Il paesaggio si è fatto arido; si vedono solo stoppie di grano, chequi viene coltivato su vaste estensioni. La produzione non èabbondante, ma arrivano, come ci spiega un coltivatore di qui, icontributi dell’Unione Europea. I paesini che incontriamo sonomolto poveri: le case vecchie e cadenti, pochi bambini per lestrade e i locali pubblici chiusi. Per fare colazione dobbiamoraggiungere Belorado, dodici chilometri e tre ore di cammino piùavanti e dove saremmo dovuti arrivare la sera. A Belorado c’è unostello gestito da due volontari svizzeri; sono molti coloro che sidedicano a gestire questi centri di accoglienza. Sostiamo perporre un “sillo” sul nostro libretto e cerchiamo un bar nel centroper la colazione. C’è anche il mercato come usa dalle nostre particon banchi di frutta e ogni ben di dio. Ci riforniamo di quantooccorre per oggi, perché la strada da percorrere è ancora lunga e iminuscoli paesini quasi disabitati. Luciano trova anche un paio disandali, li calza subito e prosegue la via da autentico pellegrino.Manca solo il bastone per essere un perfetto pellegrino, osservoio, ma Luciano ripete che del bastone non ne vuol sapere,essendo solo un impiccio. Poco prima di Tosantos si nota pocolontano, scavato nella roccia, l’eremo della Virgen de la Pena.Riprendiamo questa scultura da lontano per conservarne ilricordo, evitando di avvicinarci per non allungare troppo ilpercorso. Superato il paesino di Villambistia, raggiungiamoEspinosa del Camino dove sostiamo per il pranzetto di mezzodì.Un cagnolino ci osserva e noi lo accontentiamo con qualcheritaglio di prosciutto. La tappa odierna è stata di soli ventiduechilometri ed è trascorsa tranquilla. A Villafranca Montes de Ocatroviamo l’ostello aperto e senza custode. Un cartello ci avverteche, per dormire la notte, il prezzo è di sei euro. Siamo i primi eci accomodiamo nei posti che riteniamo migliori. Troviamo lacucina a disposizione e quindi, per questa sera, Imelda ci preparala cena. Mentre Luciano e Imelda fanno la spesa in un negoziodel luogo, io trovo zucchine e peperoni in un orto vicino.Raccolgo anche mele, nocciole e altra frutta, tanto abbondante esparsa ovunque. Con noi a cena c’è anche Francesco, un tale di

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Milano, conosciuto stamane e unitosi a noi. Oggi 23 settembre ci prepariamo la colazione nella “nostra”

cucina e ci avviamo, sotto un cielo coperto di nubi, verso l’Altode la Predaia, un’altura che si raggiunge tra boschi di querce. Laleggenda racconta che i pellegrini, nei tempi andati, eranoattaccati dai lupi e dai briganti. In seguito i boschi furono tagliatiper la legna e per fare largo alle colture. Ora si stanno rimettendoa dimora pianticelle di pino e di quercia per il rimboschimento.Da quello che ho notato, la Spagna si sta trasformando in un belpaese, moderno e insieme attento ai suoi beni ambientali earchitettonici.

Stamane mi succede poi una cosa strana: la mia testa ciondolapiù del solito forse a causa della mia pressione arteriosa, assaibassa anche per le continue sudate degli ultimi giorni. SeguoLuciano e Imelda con fatica e intanto medito sulla mia precariacondizione e prego San Giacomo di darmi una mano. Dopoun’ora di patimenti, vedo improvvisamente la polvere delsentiero cambiar colore, farsi più viva e rossiccia, la vegetazionepiù verde e brillante e il mio passo più sicuro e spedito.Raggiungo i miei compagni e propongo addirittura di arrivare ingiornata fino a Burgos. Verso le dieci siamo a San Juan deOrtega, un antico monastero, dotato di una splendida cattedralemirabilmente restaurata e dove si trovano le spoglie del Santo.C’è anche l’ostello nel quale entriamo per mettere il “sillo” e peruna sosta di ristoro. Luciano, a sorpresa, acquista un bastone dapellegrino, smentendo tutto quello che aveva detto nei giorniprecedenti, così da confermare il detto: “Mai dire mai”. Pocodopo mezzogiorno siamo già ad Atapuerca, prevista come metaodierna, ma non si trova un ostello decente, per cui decidiamo diproseguire fino ad Olmos, perché li si trova un locale piùconveniente per la sosta. Il paesino è dotato solo di una trattoria,senza negozi. E’ presto e allora andiamo alla ricerca del sentieroper il giorno successivo, perché abbiamo lasciato il camminoclassico e temiamo, con il buio, di non sapere che stradaprendere. Avanziamo per un chilometro circa, individuando i rari

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segni gialli, per ritornare a Olmos e cercare un altro paese che sivede a un chilometro e mezzo e che si spera sia fornito diqualche negozio. Un ponte rotto ci costringe a ritornare sui nostripassi. Chiamiamo Luciano e insieme torniamo ad Atapuerca, duechilometri più indietro, per fare le nostre spese. Atapuerca èfamosa per un sito paleontologico in cui sono stati rinvenutiinsediamenti dell’uomo di Neanderthal. In conclusione oggi,dopo venti chilometri per giungere ad Olmos, ne dobbiamoaggiungere altri otto in sovrappiù.

Il 24 settembre ci alziamo presto, come al solito, e ciprepariamo una buona colazione nella cucina dell’ostello, ancheper non correre il rischio di rimanere a digiuno fino a mezzodì.Al buio risaliamo il sentiero esplorato il giorno prima. Giuntisulla sommità di un monte, notiamo una grande croce di legnodedicata al pellegrino. Che sia una croce, il nostro camminare,non direi: nessuno ce l’ha imposto ed anche ci divertiamo. Ilsentiero scende ora verso Burgos, grande città capoluogo dellaCastiglia, dove arriviamo verso mezzogiorno. Per la grandeperiferia e per i lunghi viali quasi ci si perde ma, arrivati incentro, possiamo ammirare la splendida cattedrale e gli edificicircostanti. Mentre Luciano e Imelda, gli affaristi, cercanonegozi dove acquistare vettovaglie, io mi interesso per visitarel’interno della cattedrale: si chiedono tre euro per i turisti e unsolo euro per i pellegrini di Santiago. Per prenotare la visita devocorrere a prendere la “charta peregrini” e infilo il portafogli sottoil braccio. Nella confusione dimentico questo particolare e cercoancora il portafogli nel marsupio; non lo trovo e penso chequalcuno me l’abbia rubato. Corro come un forsennato da Imeldae da Luciano e mi accorgo della “gaffe”. Intanto un vasetto dimiele, appena acquistato, cade per terra e si rompe; lo fasciamocon del nastro adesivo e lo riponiamo nella tasca dello zaino diLuciano. Mi siedo per riposare nella panca vicino all’immaginedel “Peregrino” bronzeo e un gruppo di turisti mi invita aspostarmi per le loro foto ricordo. Mi sento umiliato per questoaffronto: io valgo meno di un pezzo di metallo! Racconto queste

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cose per dire che ormai siamo piuttosto stanchi e confusi: troppecose si sono succedute dalla nostra partenza da Roncisvalle, tantepersone abbiamo conosciuto e linguaggi di ogni genere:spagnolo, francese, tedesco, inglese, slavo e, qualche volta,italiano. All’ostello di Burgos rivediamo parecchie conoscenze,pellegrini che qui si fermano, mentre noi intendiamo proseguirefino a Villalbilla. L’ostello in tale località è chiuso, perciòproseguiamo fino a Tardajos, dove arriviamo alle cinque di sera.Ci accoglie una signora chiacchierona che non smette mai diparlare. Sta parlando anche adesso, mentre scrivo. Proprio oraarriva Luciano per dirmi che tutti e due i ristoranti del luogo sonochiusi e che quindi dobbiamo cenare al sacco. Amen.

Oggi 25 settembre solita alzata e colazione in cucina concaffè, pane e miele. Il vasetto ha tenuto abbastanza ma non deltutto, perché si vede una macchia emergente dal tascapane diLuciano. Sua moglie avrà un bel daffare per pulire lo zaino. Ilsole spunta quando siamo su di un’altura. La giornata sipreannuncia splendida, mentre il paesaggio si delinea spoglio eriarso. Non si vedono alberi, né case, né altro se non stoppie digrano e qualche collinetta altrettanto riarsa. E’ la Meseta, regionedesolata anche se coltivata a grano. Io cerco di stare solo, perchédesidero attraversare così la Meseta. Forse sto pensando a unapoesiola che mi rumina per la testa. Cosa ci viene a fare tantagente in questi luoghi abbandonati da Dio? Perché si camminatanto con un peso sulle spalle che ti lascia i lividi sulla pelle?Che premio si rincorre alla fine del cammino? Niente! Solo unpezzo di carta scritto in latino, con cui ci si può vantare presso gliamici e i parenti. Il sentiero si snoda tra carrarecce ai lati dellequali, ogni tanto, si notano cumuli di pietre a formare ometti,depositate dai pellegrini al loro passaggio. E’ una bellaesperienza: da anni non ero mai stato solo con me stesso e ora il“Camino de Santiago” me ne offre l’occasione. Il primo paesinoche incontriamo sta ancora dormendo; inutile aspettarci il caffènell’unico bar. Ripartiamo mogi mogi per la delusione, ancheperché la guida informa che il paese è sorto in funzione del

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Pellegrino. Continua la splendida meseta desolata e solo dopolungo camminare notiamo una conchiglia dipinta sul muro di unabaracca. Siamo a Fuente del Bol, un piccolo locale con dodiciposti letto, un bricco di caffè e, poco lontano, una fonte. Unvolontario gestisce il locale per amore del “camino”. Un’oradopo appare, dentro un avallamento, Hontanas. Arrivato perprimo, acquisto due filoni di pane da un fornaio ambulante eattendo l’arrivo di Imelda e Luciano. Imelda entra in un negozioper acquistare del prosciutto o qualcos’altro di companatico e neesce schifata per un gesto volgare del gerente, con solo unascatoletta di tonno. La nostra meta odierna è Castrojeriz, dove cisono due ostelli. E’ sempre Luciano a organizzare il tragitto,cercando il posto migliore in cui sostare, i posti letto disponibili esi incarica di cercare se ci siano altri locali di ristoro. Così ioposso andarmene con il cervello per aria a fantasticare. Intanto,mentre sto osservando una torre solitaria e cerco di capire cosasia, inciampo in un sasso e cado di schianto, come “on peromarso”. La botta è tremenda, penso di avere rotto la testa e gliocchiali. Mi rialzo a fatica, aiutato da Imelda e da Luciano evedo che gli occhiali sono integri; anche la testa mi sembraintera. Il male più grosso me lo sono procurato ad un ginocchio,una botta che mi fa zoppicare e, peggio che peggio, mi fa temeredi dover interrompere il cammino. Zoppicando, ci portiamoavanti e troviamo un posto per la sosta di ristoro. Mi rendo contoche i danni sono limitati e che, pian piano, posso ancoracamminare. Più avanti troviamo i ruderi di una cattedralededicata a San Anton (abate). Suggestivo! Poco prima dellequattro pomeridiane siamo a Castrojeriz. Io, davanti, prendo lastrada verso uno dei due ostelli e Luciano, fermatosi a chiedereinformazioni, si dirige verso l’altro. Imelda, confusa, si perde perle strade del paese. Arrivato all’ostello di Luciano non trovo piùmia moglie; deposito il mio zaino e corro a cercarla; raggiuntol’altro ostello vengo a sapere che lei era passata di lì, ma ora nonsi sa dove sia finita. Chiedo presso un bar e mi risponde unasignora slovena di Porto Rose, dicendo di aver visto una donna

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alla ricerca di qualcuno, ma di non sapere altro. La signora diPorto Rose parla veneto, così come si parla quasi veneto inCatalogna e in altre parti della Spagna. Rientro nel primo ostello,dove avevo lasciato lo zaino, e ritrovo la moglie. Impossibileperderla! Intanto qualcuno mi consiglia di farmi visitare da unmedico per le contusioni alla testa e al ginocchio, ma io nonaccetto, per paura di dover interrompere il pellegrinaggio.Meglio soffrire in silenzio.

Venerdì 26 settembre ci alziamo un po’ più tardi del solito.Dopo mezz’ora affrontiamo un dislivello di 150 metri in salita,che mi permette di sciogliere la gamba ammaccata il giornoprima e mi ridà fiducia di poter continuare il cammino. Sul collenotiamo una selva di molini eolici per la produzione di energiaelettrica. In discesa, mentre rallento per la gamba dolorante,vengo superato da una donna con passo da valchiria. Ciscambiamo un saluto e qualche frase: “Io italiano e tu?”“Chicago, buen camino”. Un po’ più avanti supero un tale;nuovo scambio di saluti e poi: “Io italiano e tu?”- “Ich alemannodi Bavaria”. Più avanti mi avvicino a un tale dal pelo rosso,stesso fraseggio e vengo a sapere che proviene dall’Irlanda. Tuttequeste divagazioni servono a interrompere la monotonia diquesta landa desolata. Siamo ancora nella Meseta e lo sguardo siperde nelle stoppie, intervallate solo da qualche arida collinetta.Dopo alcune ore appare un avvallamento coperto da unarigogliosa vegetazione. Imelda dice, rivolta a Luciano: “Guardalà, un vigneto”. “Tu hai le traveggole! Siamo a quota 800 e quinon vengono le viti”. Se non che, subito dopo, troviamo unvigneto e possiamo gustare dell’ottima uva. La zona è floridaperché bagnata da un fiume e nell’avvallamento si raccoglie piùfacilmente l’acqua. Intanto notiamo un ponte e, poco discosto dalsentiero, un piccolo monastero. E’ l’eremo di San Nicola,restaurato e gestito da tre italiani: due preti e un insegnante inpensione. Ci accolgono a braccia aperte, rimproverandoci di nonessere arrivati la sera prima. Raccontiamo del mio infortunio edel percorso già lungo che ci aveva costretti a sostare a

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Castrojeriz. Per qualche momento ci siamo trovati a casa, aparlare la nostra lingua. Foto ricordo, saluti e via di nuovo:Fromista ci attende quindici chilometri più avanti. A Boadilla delCamino troviamo un posto di ristoro con acqua che sgorgafacendo girare una ruota. Solito spuntino, con fichi, mele e altrifrutti colti (o rubacchiati) nei paraggi. Costeggiando un lungocanale che porta l’acqua a irrigare le campagne assetate,arriviamo alla meta verso le ore 14.30. Troviamo una camerettadi sei posti: noi tre e una giapponese, una francese e unaspagnola di Saragozza. Meglio di così? Però, quante donneviaggiano da sole in questo lunghissimo cammino! E’ ancorapresto; abbiamo tutto il tempo per la doccia, il risciacquo dialcuni indumenti e per uscire a visitare il paese. Si trova qui unachiesa in puro stile romanico spagnolo, San Martin, mirabilmenterestaurata e meta di numerosi visitatori. La sera troviamoun’ottima cena a base di paella, trota, vino dolce: il tutto per solisette euro. Ormai ci stiamo adagiando in una vita lussuosa.

Sabato 27 settembre partiamo lungo il marciapiedi di unastrada e subito deviamo per il sentiero che la costeggia, però oltreun fossato e fuori dal traffico. L’interminabile rettilineo conducea un paesino non segnato nella nostra guida, dotato pure di unpiccolo ostello. Ora il sentiero si inoltra nella campagna, la solitaMeseta, fiancheggiato da una canaletta per l’irrigazione e da unfilare di alberi. Mi duole la gamba destra per la botta alginocchio, che mi costringe a camminare male. Così rimangostaccato dalla compagnia e mi assale la malinconia: posso daresfogo alle mie fantasie e piangere sui miei malanni. Ieri misentivo bene, forse perché avevo pregato Santiago di aiutarmi eoggi non avevo pregato. Ma forse sto solo bestemmiando, perchéattribuisco a Santiago una grettezza che è solo mia. Ora ricordo:ieri ho commesso un atto riprovevole. Luciano aveva postoalcune robe sulla branda sopra la sua, quand’era entrato untedescone di quelli che russano. Il vecchio osservava perscegliere un posto e io non ho mosso dito, sperando che se neandasse. Poco dopo entrava una giovane spagnola e, subito,

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Luciano ed io abbiamo liberato il posto e indicato che era libero.Forse, penso ora, il vecchio altri non era che il buon Dio, mentrela giovane era il diavolo che io avevo accolto e favorito. PregoSantiago di intercedere il perdono e di allontanare gli acciacchiche mi perseguitano. Mi passo intanto un buon unguento sulleparti doloranti perché, come si dice, aiutati che il ciel ti aiuta. Ilsentiero continua quasi sempre rettilineo, mettendo in evidenzala lunga teoria di pellegrini, sia davanti che di dietro. Cosa attiratutta questa gente?, mi chiedo, La tomba di San GiacomoApostolo? Non solo. I paesaggi? Non sembra: il mondo è pienodi luoghi più belli. Le cattedrali? La fine delle terre e l’oceanopotevano attrarre l’uomo medioevale, ma noi ora? Ed io, cos’èche mi attira? Forse è una illusione o una speranza oppure unafuga da tutti quei legami che ci rendono la vita una prigione.Cerco di capire, ma non capiremo mai ciò che spinse gli uominidi mille anni fa a innalzare questa splendida cattedrale cheincontriamo più avanti, a Villacàzar de Sirga. Qui venne eretta, esi trova ancora ben conservata, la chiesa dedicata a Santa Mariala Bianca. Entrati, rimaniamo estasiati ad ammirare le voltegotiche che formano la navata centrale, le due navate laterali e ilrosone che sovrasta le tombe di alcuni re, lasciando filtrare unaluce paradisiaca. In questo paese è d’obbligo la sosta di almenoun’ora. Foto, panino, caffè e un po’ di riposo ci vogliono a metàgiornata. Percorriamo poi gli ultimi chilometri che ci separano daCarrion de los Condes, cittadina agricola il cui panorama ècoperto da due enormi silos e in cui troviamo il nostro ostello perquesta notte. I locali hanno una copertura moderna, con granditravature listellari e perlinato con gradevoli tavole di quercia.

Domenica 28 settembre ci dirigiamo verso Terradillos deTemplarios per un lunghissimo sentiero attraverso la Meseta. Lamia gamba va meglio: ieri sera la messa con comunione, labenedizione del pellegrino e un energico massaggio condito diunguento hanno ottenuto l’effetto sperato. Comunque mi sonolasciato staccare dalla compagnia e da Luciano, il quale tentavadi erudirmi con le sue preziose cognizioni, varie ed esaurienti.

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Purtroppo il mio cervello è saturo: giunto alla bella età disettant’anni, troppe cose sono entrate nei miei meandri cerebrali.Già da bambino la maestra mi erudiva sulla Patria, grande e riccadi manodopera a buon mercato. Tanto eravamo poveri! Miparlava anche di una grande Vittoria. Poi seppi che si trattò dellafine di una grande carneficina tra le genti europee. In seguitovennero gli “eroici destini e progressivi della Patria edell’Impero” e fu un’altra catastrofe. Mi rintrona ancora laResistenza, madre di tutte le virtù: libertà, giustizia e progresso.Il progresso arrivò dopo qualche anno, rumoroso, caotico,asfissiante; libertà e giustizia sono altre cose. Ora l’imbonitrice cialletta con le grandi telenovelas senza fine. Basta! Voglio andareper le stoppie infinite – lungo questo sentiero interminabile –dove fiumane di pellegrini vengono dai secoli lontani – e vannoverso l’oceano, la fine delle terre – verso il tramonto. Assorto neimiei pensieri, mi vedo staccato da Imelda e da Luciano; acceleroil passo, fischiettando la marsigliese per dare tono al mio passo.Una coppia di pellegrini mi saluta: “Bonjour, sei francese?” No,rispondo io, italiano. Quelli mi guardano perplessi e allora dico,per convincerli, “Légion étrangère”. Quelli si allontananostimandomi, di certo, suonato. Intanto l’interminabile sentiero,dopo oltre quattro ore di cammino, si introduce in un paesino,Calzadilla de la Cueza, dotato di un ostello e di un bar. Sostiamoper uno spuntino e per un buon caffè, che ci mancava da troppotempo. Più avanti Imelda mi avverte di avere avvistato unvigneto; a Imelda non sfuggono mai le piante da frutto: mele,pere, mandorle, noci, nocciole, uva, bacche di ogni genere sonoper i suoi occhi come i pulcini per la poiana. Raggiungo ilvigneto, un po’ fuori sentiero, e ritorno carico di uva chepilucchiamo nel parchetto dell’ultimo paesino, Lédigos, primadella meta odierna. Alle due del pomeriggio siamo già all’ostellodei Templari, dove si conclude la nostra quindicesima fatica.Terradillos è un paese di pastori, con le stradine punteggiate diescrementi di pecora e con case ancora intonacate di terra e dipaglia. Uscito per visitare il luogo, incontro una signora

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australiana, già conosciuta in precedenza, che mi fa vedere lestuoie intercalate da punte di pietra dove anticamente si batteva ilgrano e che ora servono da portone delle stalle. La pellegrina mispiega che suo marito si è fermato nell’albergo privato, anzichéall’ostello, perché malato di stomaco. E’ un tale che di solitorussa durante il sonno e che Imelda ha già istruito a dovere sucome coricarsi a letto, non supino ma girato di fianco.

Lunedì 29 settembre stiamo per superare la metà del nostro“camino”. Ho calcolato che da Roncisvalle a Santiago ichilometri sono settecentocinquanta, secondo la nostra guida. Neabbiamo percorsi trecentosettanta e quindi, fra poco, passeremoper il nostro equatore, la linea immaginaria che divide in due ilnostro viaggio. Ci facciamo fotografare da due pellegrini francesiper fissare questo momento, ma loro non capiscono cosa cifaccia gioire. Siamo entusiasti; abbiamo alle spalle un percorsosempre maggiore di quello che ci aspetta. Ringraziamo Santiagocon la consueta preghiera del mattino e ripartiamo. Lucianoallunga il passo, Imelda lo segue mentre io rimango staccato. Misembra che Luciano abbia sempre fretta: per trovare l’ostello, perla cena, per partire la mattina. Io penso che “El Camino” sia daprendere con più calma. Oggi la tappa non è difficile, anche sepiuttosto lunga. Preferisco sostare ogni tanto, osservare ilpaesaggio e meditare: magari i pensieri che mi girano non sonostraordinari, ma sono i miei e me li tengo cari. Stamane ho vistola luna nuova; un po’ più avanti, sul muro di una casa, ho letto lascritta che dà ragione alle mie meditazioni. “Pellegrino” dicevain spagnolo “se hai fretta non hai capito il cammino!”. Propriocosì: la fretta, l’ansia di arrivare sono le malattie della vitamoderna che il cammino di Santiago dovrebbe aiutarci a guarire.Più avanti una deviazione ci conduce a un’antica chiesettasperduta. Intanto arriviamo a Sahagun, vivace cittadinaabbastanza grande per trovare una farmacia e un negozio dibatterie per pila. Imelda ha i talloni ammaccati e Luciano haesaurito le batterie della pila, mentre Osvaldo spera di trovarepasticche di liquirizia per la pressione sempre bassa. Troviamo

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anche un bar pieno di pellegrini per la dovuta sosta di riposo evisitiamo l’antica chiesa del monastero benedettino, oraricuperata come centro culturale. Per raggiungere Bercianos,nostra meta odierna, mancano ancora dieci chilometri.Ripartiamo, sempre attraverso l’arida meseta, notando gliagricoltori che arano il terreno e preparano la semina del grano.Ogni tanto appare un gregge al pascolo e, a fianco del sentiero,una strada rettilinea quasi priva di traffico. Penso alle nostrestrade intasate e mi fa quasi rabbia notare tanta tranquillità. Adun certo punto il sentiero si divide: alcune frecce gialle indicanoCalzadilla de los Hermanillo, altre indicano Bercianos del RealCamino, che è la nostra meta. Sperduta nella campagna vediamoun’antica chiesetta, dedicata a Santa Maria la Bianca. Sosta efoto ricordo. Intanto vedo un vigneto le cui viti sono giovani enon ancora in produzione; però qualche piccolo grappolo si trovae ciò basta per riempire una borsetta d’uva. Come mai Imeldanon se n’è accorta? Luciano tira sempre e io, rimasto indietro,intono una canzoncina per darmi il passo: ogni volta – ogni volta– che torno – non vorrei – non vorrei – più partir… RaggiungoImelda e Luciano, che frattanto mi aspettavano, e mostro loro ilmalloppo dei grappoli d’uva. Non ho perso tempo invano. Alledue del pomeriggio siamo già all’ostello. Il posto è suggestivo:una soffitta con sole reti a terra, sul pavimento assi di legnosquadrate alla buona. Altra gradita sorpresa: ci offrono gratiscena, alloggio e colazione. Facciamo la nostra debita offerta e ciaccomodiamo. Al tramonto la custode dell’ostello ci invita peruna preghiera su una piccola altura a ciel sereno perché, ci dice,il tetto della chiesa è crollato. Si recitano preghiere in spagnolo efrancese e quindi, su invito, Luciano intona la “Salve Regina” inlatino. Imelda e io stesso accompagniamo Luciano e, alla fine,riceviamo gli applausi della piccola folla per la nostra esibizione.Poi ci ritroviamo tutti nella grande sala adibita a refettorio doveviene distribuita la cena. Suggestivo! Si incrociano, in unaconfusione babelica, spagnolo, francese, tedesco, inglese,italiano e chissà quali altre lingue.

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Martedì 30 settembre troviamo il cielo coperto di nubi.Partiamo già sazi per l’abbondante colazione, per nostra fortuna,perché non si trova nulla per otto buoni chilometri. Al primopaesino, El Burgo Ranero (il borgo delle rane), troviamo solo unfilone di pane da un fornaio ambulante. Non ci sono altri negozi,né bar, così come nient’altro si trova per i successivi tredicichilometri. Intanto comincia a piovere. Sono gocce d’oro perquesti terreni aridi e riarsi. Ora gli agricoltori potranno arare eseminare il grano. Vedo già le piantine spuntare dal terreno,crescere e mettere la spiga, maturare il grano; sento il profumodei filoni di pane. Piano! La mia fantasia galoppa, anche perchéoggi ci resta poco da vedere. Continua a piovere, gli acquazzonisi susseguono e non abbiamo la possibilità di una sosta perchénon c’è alcun riparo lungo il sentiero. Non ci lamentiamo, però.Quest’anno l’estate è stata particolarmente lunga, calda e arida.Che gioia la pioggia! Finalmente giungiamo a Reliegos nell’oradi mezzogiorno e qui, tutti fradici, entriamo in un bar e cirifocilliamo: pane, miele e un buon caffelatte. Ora manca pocoalla meta odierna, solo un’ora e mezza. Alle due del pomeriggiosiamo a Mansilla de las Mulas e anche per oggi siamo a baita,come si dice.

Mercoledì 1 ottobre. Oggi sarò prosaico perché mi duole lagamba, stanotte ho dormito in cucina a causa di un tale cherussava e ancora minaccia pioggia. Partiamo alle sette, dopocolazione, diretti a Leon; tappa non lunga ma noiosa perché ilsentiero corre a fianco di una strada trafficata con i fari delle autoche ci abbagliano. Comincia a piovere e in breve siamo fradici.A Puente de Villarente ci lusinga la scritta di un bar che invita ipellegrini a fermarsi; Luciano vorrebbe proseguire, ma io insistoverso il centro del paese, anche per trovare un riparo dallapioggia scrosciante. La delusione è grande quando vedo il barchiuso. Piove a catinelle, i piedi sono inzuppati e io canto.Durante la nostra torrida estate avevo sempre sognato la pioggia:una pioggia così che ti entra di traverso e ti bagna fino al midollodelle ossa. Finalmente siamo alla periferia di Leon. La pioggia

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cessa e troviamo anche un bar aperto per una cioccolata calda.Mi duole la gamba, cerco di riscaldarla con il mio unguento econ il fon che trovo nel servizio, dove si usa asciugare le mani.Troviamo il ponte sul Rio Torio dove il sentiero devia percondurci al monastero delle benedettine, nostro rifugio per oggi.Il pomeriggio è dedicato alla visita della bella città. Ci fermiamonella piazza antistante la splendida cattedrale per fare delle foto,mentre Luciano si informa presso un’agenzia per il viaggio diritorno. Anche noi siamo invitati a esibire le nostre tessere e benpresto, artefice Luciano, abbiamo in tasca i biglietti del treno daSantiago a Bilbao e dell’aereo fino alla Malpensa. Il resto dellagiornata è riempito con la visita alla chiesa di Sant’Isidoro, acercare un locale per la cena e a scrivere cartoline ad amici eparenti.

Giovedì 2 ottobre, la giornata si annuncia uggiosa. Piove giàmentre attraversiamo la città di Leon. Cerchiamo il ponte SanMarco, attraverso il quale passa il sentiero. Luciano si diletta achiedere informazioni ad ogni persona che incontra. Trovato ilponte, ci si infila per un lunghissimo viale molto trafficato. Giàcon il buio molte persone vanno al lavoro; perché Leon è unacittà moderna e molto attiva. Dopo un’ora di cammino ancoranon siamo usciti dalla città, anzi troviamo un bar aperto per ilcaffè del mattino. La televisione sta dando le previsioni deltempo: tutta la Spagna è sotto una coltre di nubi e questo non cilascia speranza; anche oggi ombrello e mantella ci sarannoindispensabili. Giunti a La Virgen del Camino, il sentiero sidivide in due: a sinistra il “camino spagnolo” a destra il francese.Noi, dopo esserci consultati e seguendo i preziosi consigli diLuciano, prendiamo quest’ultimo per raggiungere nelpomeriggio San Martin del Camino. Camminiamo sempre sottola pioggia fino a Villadangos del Pàramo, cittadina di origineromana che assomiglia a Caldiero, località termale sulla stataleVicenza-Verona. Breve sosta in questo luogo e, appena usciamodal locale, improvvisamente il cielo ci appare sereno, spazzato daun forte vento contrario che rallenta il nostro andare. Giunti a

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San Martin del Camino, troviamo un ottimo ostello, dotato dibella cucina e di ottimi servizi. Battezzo il paese “San MartinoBuon Albergo” che mi ricorda un centro presso Verona e così,anche per oggi, siamo a posto.

Venerdì 3 ottobre il cielo è coperto, ma non piove. Comunquepartiamo coperti da impermeabile. Il primo paesino cheincontriamo vanta un bellissimo ponte romano che gli dà ilnome: Puente de Orbigo. Qui, nel tentativo di trovare l’ostellocomunale, prendiamo una variante che ci fa percorrere un paio dichilometri prima di ritrovare le indicazioni del nostro sentiero.Superati alcuni paesini e raccolto dell’uva nei vigneti (giàvendemmiati, per carità), verso l’una siamo ad Astorga, bellacittà che vediamo stagliarsi su di un colle davanti a noi. Solo cheil sentiero ci fa deviare a sinistra, prima per evitare una ferroviae, quindi, per farci infilare il centro cittadino dall’antica viaprincipale, chiamata Calle Mayor, in modo da farci vedere tutti ipiù begli edifici. Le vie sono piene di gente, turisti e villeggianti,tra i quali ci perdiamo. Prima rimane staccata Imelda poi, mentrecerchiamo l’ostello per mettere il “sillo” sul nostro libretto,Luciano sparisce. Troviamo un ostello vicino alla cattedrale, cifacciamo mettere il timbro e aspettiamo Luciano in centro. Altripellegrini vagano in cerca dei loro compagni e chiedono a noi seli abbiamo visti. Che bella confusione! Dov’è, dove non è,Luciano lo troviamo senza zaino che sta cercando noi. Ha trovatol’ostello comunale un chilometro più avanti e lì ci conduce. Maanche qui c’è grande ressa e confusione, tutto per metter untimbro sulla carta, per cui io me ne vado fuori a mangiare unpanino in una piazzetta solitaria. Dopo quasi un’ora vedo passareLuciano, il quale mi dice: “Imelda ti aspetta in una panchinavicino alla cattedrale”. Ritrovata Imelda, Luciano prende i nostrilibretti e si avvia in tutta fretta per raggiungere Santa Catalina deSomoza e prenotare il posto anche per noi. La bella città diAstorga ci rimarrà impressa nella mente non solo per le suebellezze monumentali. Intanto ci avviamo verso la nostradestinazione, dove arriviamo verso le cinque del pomeriggio,

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piluccando gli acini di un grappolo d’uva, colto da una vitesolitaria e abbandonata. Oggi, tra deviazioni, ricerche deglismarriti e altro, abbiamo fatto una quarantina di chilometri e ciaspettiamo una buona serata ristoratrice. Santa Catalina è unminuscolo paesino quasi disabitato: solo trentasei abitanti, ci diceun tale, e un piccolo rifugio che ospita, oltre a noi, solo quattropellegrini. Per la cena dobbiamo accontentarci di pane e affettati,vino e acqua per Imelda e, alla fine, il gelato. Il tipo che ci serveannota con cura ogni portata di pane e affettati, ogni bicchiere divino e infine, gongolando ci presenta un conto di sedici euro. C’èun silenzio e una pace da non credere e nessuno russa.

Buona notte. Sabato 4 ottobre. E’ tornato il sereno e fa freddo. Partiamo

ben coperti per difenderci dal vento e, dopo tre ore di camminosolitario, siamo a Rabanal del Camino, paesino dotato di unottimo ostello, con sala da pranzo e bar. Per noi, digiuni da ierisera, viene servita una buona colazione. Intanto vediamo passareil furgone del panettiere, dal quale prendiamo pane e brioches. Ilsentiero si innalza costeggiando a volte una strada deserta otagliando attraverso i cespugli, fino a raggiungere quotamillecinquecento metri. Ci appare intanto la famosa croce diferro, issata sopra un lungo palo di legno coperto da un monte dipietruzze, depositate dai pellegrini attraverso i secoli. Anche noiportiamo il nostro contributo, ma io approfitto per raccogliereuna di queste pietruzze e nasconderla nel mio zaino. La porterò acasa come ricordo. Intanto, un pellegrino in bici sente parlareitaliano e si presenta: è un piemontese trapiantato in Spagna checonosce anche Lugo di Vicenza per averne sentito parlare dalpadre. Si offre di farci una foto, tutti e tre insieme, e quindi si fariprendere da Luciano per avere un ricordo di noi in questo postospeciale, la “Cruz de Hierro”. Dopo i saluti e dopo il pranzetto suuna panca, ripartiamo ora in discesa e poi ancora in salita, finchénotiamo uno strano locale pieno di cianfrusaglie e allietato dauna bella bambina: è un posto di ristoro gestito da alcuni pacifistiche qui vivono solitari e contano sulle offerte dei pellegrini,

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offrendo loro caffè, dolcetti e pittoreschi souvenirs. Prendiamoun caffè, paghiamo il nostro obolo e ce ne andiamo per arrivare aEl Acebo, quasi mille metri più in basso. E’ questo un paesinoagricolo, con le stalle che danno sulla via principale, nel qualetroviamo alloggio presso una trattoria con servizio completo:cena, pernottamento e colazione. Abbiamo ancora il tempo per ladoccia, per lavare qualche indumento e stenderlo ad asciugare,per visitare il paesino e per scrivere queste brevi note.

Domenica 5 ottobre ci alziamo un po’ più tardi del solito,anche perché le giornate si sono accorciate e noi ci siamo portatia occidente di oltre cinquecento chilometri. Il sole sorge verso leotto e trenta, tanto che si parte sempre al buio e solo dopo un’oraalbeggia. Niente colazione perché l’oste dorme ancora. Passiamoper un paesino, Riego de Ambros, ancora addormentato e solo aMolinaseca troviamo un bar aperto per la colazione. Lucianovorrebbe fermarsi per la messa domenicale, ma io penso chepossiamo arrivare fino a Ponferrada e soddisfare in quel luogo lenostre esigenze religiose. A Ponferrada, grande centro industrialesorto in una regione piena di miniere di ferro, si vedono molteferriere in disuso, ma anche nuove fabbriche moderne. Giriamoper il centro in cerca di una buca per impostare le cartoline,l’ostello per mettere un “sillo” sul nostro libretto e la chiesa perla messa. Salta la messa, che viene celebrata alle due delpomeriggio, troppo tardi per noi: ci aspetta Cacabelos, sedicichilometri più avanti. Sostiamo nella periferia, vicino a unafontana, per mangiare qualcosa e riposare. Riprendiamo acamminare tranquilli. Anche Luciano ha perduto quella smaniadi correre, forse perché la stanchezza comincia a farsi sentire.Passiamo ancora tra vigneti già vendemmiati, ma che offronoqualche grappolo succoso. Perché siamo scesi a quotacinquecento metri e le colture sono abbondanti e rigogliose:ortaggi, mais e vigne. Prima di giungere a Cacabelos ci fermiamopresso una villetta di campagna, dove alcuni villeggiantitrascorrono il giorno festivo con caldarroste e vino del Bierzo.Invitano noi pellegrini a sostare e assaggiare quelle buone cose,

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tanto che non sappiamo dire di no. Accettiamo anche il vino, aparte Imelda che beve solo acqua, perché manca poco all’arrivo.Il paese di Cacabelos si snoda lungo una strada molto lunga, infondo alla quale vediamo una chiesetta e pensiamo di esserearrivati. Macché! Si deve percorrere ancora un chilometro traviuzze piene di locali, bar, trattorie, negozietti e attraversare unponte prima di raggiungere il nostro ostello. Ci informiamo perla messa, ma ci dicono che qui si celebra solo al mattino.Pazienza! Santiago val bene una messa… perduta. La sera ciconsoliamo con un’ottima cena a base di paella e pescado.L’ostello è formato da camerette a due posti, così che questa seraImelda ed io possiamo starcene in santa tranquillità. Il custode,però, vuole accertarsi che Imelda sia la mia donna e quindi devoesibire, a conferma, il reggiseno messo ad asciugare appeso almio zaino. Durante la notte io mi devo alzare più volte perandare ai servizi, che si trovano dall’altra parte del cortile,costringendomi a fare la spola in giro per il piazzale. Alle tre dinotte, approfitto di un’alzata per concedermi un caffè neldistributore automatico. Il cortile è pieno di pellegrini coricatiper terra, nei loro sacchi a pelo, essendo esauriti tutti i lettidisponibili.

Lunedì 6 ottobre partiamo per Villafranca del Bierzocosteggiando una carretera, come si dice in spagnolo, moltotrafficata. Solo dopo quattro chilometri il sentiero si stacca dallastrada per salire una collinetta tra i vigneti e giungere ben prestoa Villafranca, apparsa quasi all’improvviso sotto di noi. Sostiamopresso un ostello per il “sillo” e ci introduciamo per le stretteviuzze, fino a sfociare in una grande piazza. Cerchiamo alcunecose che ci assillano da giorni: Luciano ha perduto il suo coltelloe cerca un ferramenta per acquistarne un altro; io cerco un otticoper aggiustare la stanghetta dei miei occhiali e Imelda un negozioper la spesa. Un orologiaio mi tiene in sospeso per mezz’ora incerca di una piccola vite e, alla fine, me ne esco senza. Lucianonon trova il coltello e quindi ripartiamo, non senza avere visitatola bella cattedrale, per un sentiero in salita. Un ramo del

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“camino” corre anche lungo la strada, sul fondovalle, ma noipreferiamo il sentiero panoramico che si inoltra in un castagneto.Raccogliamo anche molte grosse castagne che verranno buone lasera, quando saremo a Vega de Valcarce. Ritroviamo per questosentiero alcune vecchie conoscenze: due giovani tedeschi con uncane pastore e una coppia di francesi. Arrivati all’ostello, nontroviamo nessuno, né la custode, né alcun pellegrino. Essendoaperto, ci accomodiamo in una cameretta, ci facciamo la docciamentre Imelda cucina le castagne e, per giunta, troviamo unabottiglia di ottimo vino della Rioja quasi piena. Arrivano anche idue giovani con il cane, assaggiano le castagne e si fannoinsegnare da Imelda come cuocerle. Pasteggiamo a castagne evino, stendiamo al sole alcuni indumenti lavati e, quando arrivala custode, annotiamo le nostre generalità nel libro delpellegrino. Intanto Imelda e Luciano, vista la cucina funzionante,escono per acquistare spaghetti e altro per la cena, tornandoanche con una camicia per me. Non gradisco la camicia, troppoelegante per un pellegrino; torno al negozio per cambiarla e, allafine, rientro con un completo: camicia e pantaloni. Mai darlavinta alla moglie! La serata si chiude piacevolmente, ma amezzanotte arrivano altri pellegrini a turbare i nostri sonni.

Martedì 7 ottobre ci alziamo sempre di buon’ora. Fa freddo, ilcielo è sereno e c’è la brina. Partiamo imbacuccati seguendo unastrada e quindi, superati alcuni paesini incassati in una valle, ciinerpichiamo per un sentiero di montagna che sfocia tra pascolidi pecore in una zona molto bella e panoramica. In vista di unripetitore, Imelda prova il telefono portatile per vedere seRaffaella ha fatto la carica. Raffaella dice meravigliata che lavoce pare appena fuori della porta di casa, tanto è nitida.Parliamo con nostra figlia vicino al cippo che segnacentocinquanta chilometri da Santiago. Incontro qui duepellegrini francesi che mi raccontano di essere partiti ilquattordici agosto da Lione. Dopo un po’ siamo a O Cebreiro,paesino turistico con le case coperte di paglia. Ritraggo unartigiano che sta ricoprendo il tetto di una casa per averne un

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ricordo visivo. Entriamo quindi nel rifugio per un piccolo ristoroe per raccogliere il solito “sillo”. Usciti da questo paese pieno dituristi festanti, che meriterebbe una fermata più lunga, ciavviamo per una larga strada in quota, del tutto priva di traffico.In un locale ci riforniamo di pane e companatico e proseguiamoseguendo i saliscendi fino all’Alto de San Roque, dove una pietraci avverte che siamo entrati in Galizia. Superiamo un’altra altura,Alto do Poio, e scendiamo verso Fonfrìa, paesino agricolo le cuistrade sono lastricate di “boasse”. Una signora ci offre dellecrêpes, ma poi esige l’obolo. Intanto Imelda e Luciano, perevitare incontri con le vacche, scendono sulla strada, mentre ioseguo il sentiero con l’intenzione di fotografare le bestie.Purtroppo inciampo e, appoggiandomi sulla gamba che ancoraduole, cado in modo rovinoso, lasciando andare la macchinafotografica, che si apre e perde il rullino. Per fortuna, poco malee niente danni; solo un po’ di spavento. Raggiungo Imelda eLuciano che mi stanno aspettando e insieme scendiamo versoViduedo, superando alcune ragazze fermatesi per la stanchezza.Ci consoliamo: non solo noi siamo stanchi, dopo trentachilometri e parecchia salita. Ancora una valletta ci separa daTricastela, dove arriviamo verso le cinque del pomeriggio.Purtroppo la stanchezza ci gioca un brutto scherzo, perchésuperiamo l’ostello senza accorgersene e perdiamo un’altramezz’ora prima di trovare la nostra cuccia. Tutto è bene quel chefinisce bene perché abbiamo una cameretta di soli quattro posti edue ospiti simpatici. Luciano si arrangi.

Mercoledì 8 ottobre troviamo un locale aperto per lacolazione. Buon per noi, che di solito arriviamo a mezzodì primadi incontrare un bar aperto. La tappa odierna sarebbe breve, maci lusinga un’alternativa: visitare il monastero di Samos.Seguendo questa deviazione, percorriamo un tratto di stradaattraverso alcuni paesini in disfacimento: c’è la chiesa, c’è ilcimitero, ma di abitanti neanche l’ombra. Finalmente arriviamoal monastero verso le dieci e trenta, ma il custode ci dice che siapre alle undici. Se vogliamo, possiamo acquistare souvenirs o

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cartoline, ma noi mandiamo il frate a quel paese e ci dirigiamoverso il centro, dove trovare una cassa continua per prelevarecontante, un negozio per le vivande e altro di necessario. Intantofacciamo conoscenza con un pellegrino, spagnolo di Tarragona,che si mette a parlare con Imelda e con Luciano. Tra catalano eveneto ci si capisce, anche perché Jaume, così si chiama il nuovocompagno, conosce l’italiano, avendo lavorato alla Pirelli. Allasosta dell’una Jaume ci offre noccioline, nove per ciascuno, ecioccolato. Accettiamo per non essere scontrosi, ma così facendoci troviamo appiccicato un nuovo amico. Jaume in catalano eJago in castigliano, come Jacopo e Giacomo, sono sempre lostesso nome che si addice al cammino che stiamo facendo.Giunti a Sarria, grosso centro della Galizia, Jaume ci salutaperché deve fermarsi in questo luogo, così dice. Più avanti,invece, ce lo troviamo al seguito fino a Barbadelo, dovearriviamo dopo le quattro del pomeriggio e dopo circa vent’ottochilometri di percorso. Jaume conosce il locale di una certaCarmen, poco discosto dall’ostello, che sa fare delle ottimecenette, così che anche per oggi tutto si risolve bene.

Giovedì 9 ottobre troviamo la foschia. Intanto devo dire cheCarmen non è una donna, ma un uomo grande e grosso, forse ilmarito o forse il figlio. Aspettiamo Carmen fin quasi alle otto perla colazione - sempre in ritardo e sempre a dormire questispagnoli - e ci avviamo avvolti nella nebbia verso Portomarin. AFerreiros, Jaume ci offre il caffè in un bar, ma questa sarà laprima e l’ultima volta, perché diciamo a questo signore che noidividiamo sempre le spese fra tutti e tre. Da questo momentofaremo diviso quattro, così ognuno paga il suo. Jaume stavolentieri con noi ed ha intenzione di accompagnarci fino aSantiago. Avendo già fatto altre volte l’ultimo tratto del“camino”, ci dà spesso consigli: dove trovare un bar, dovemangiare o quali monumenti visitare. Si ferma per aspettarmiquando resto indietro, chiedendomi se sono stanco, mentre io lofaccio apposta per non stare a sentire le chiacchiere. Allora miirrito e rallento il passo: voglio restare solo, non voglio angeli

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custodi. Siamo a Portomarin verso l’una e quindi troviamo apertibar e negozi. C’è anche il mercato e tanta gente in una bellapiazza con una chiesa alta a sovrastare l’intera cittadina. Nelcentro della piazza si trova un grande monumento dedicato al“Peregrino”. La mia compagnia, Imelda, Luciano e Jaume, èsparita per un’altra via alla ricerca di un negozio, mentre io mene sto ad aspettarli seduto sui gradini della chiesa per osservare ituristi che si fanno fotografare accanto al monumento delPellegrino. Finalmente ci ritroviamo, mandiamo Imelda acomprare due bottiglie di vino per la cena della sera e facciamocolazione al sacco nei locali dell’ostello, dove possiamo anchemettere il “sillo”. Sarò pignolo a raccontare tutte queste perditedi tempo, ma devo ricordare che Santiago de Compostela non èsolo camminare. E’ ancora presto e quindi pensiamo diraggiungere Ventas de Naron, dodici chilometri più avanti.Riattraversiamo il centro, scendiamo verso un ponte che scavalcauna valletta e risaliamo verso Gonzar, Castromajor, Hospital dela Cruz e la nostra meta, Ventas, dove non ci sono locali percenare. Ma noi abbiamo provviste sufficienti per piatti freddi eanche il vino, perché Jaume, conoscendo il luogo, ci avevaavvertiti in tempo. Completa la serata una telefonata a Rebecca,che sta sola in casa e non si stacca dal telefono, sempre in attesadi una nostra chiamata. Mi racconta di Lorenzo, il nostronipotino, che a tavola aveva chiesto: - Dove sono i nonni?

Venerdì 10 ottobre ci alziamo verso le sette. Non c’è più lafretta di arrivare, perché i pellegrini si sono diradati. Forse alcunihanno mollato e son tornati a casa; forse sono passati avanti orimasti indietro, fatto è che la ressa non c’è più. Stamattina,colazione nella cucina dell’ostello e poi fuori nella foschia.Siamo in Galizia e si sente il clima umido dell’Atlantico.Attraversiamo alcuni paesini agricoli camminando per viottolicintati di pietre a secco. Dalle querce secolari gocciola l’umiditàche sembra pioggia. Solo qualche foto per ricordare i luoghi dacui siamo passati. Inutile citare i nomi di questi paesini che,quasi sempre, hanno il centro con chiesetta e cimitero. Forse un

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tempo qui ci viveva tanta gente, ora trasferitasi nelle grandi cittàindustriali. Alle ore undici sostiamo nei pressi di un bar ancorachiuso. Si mangia qualcosa e, come aprono, ci viene servito uncaffè appena tiepido che mi lascia la bocca schifata. Come alsolito, cerco di rimanere staccato dalla compagnia: ormai midanno noia le solite osservazioni di Luciano, che con la cartina inmano ripete: “Ora si sale di cento metri, poi si scende diduecento; tra un chilometro troveremo un ponte; mancano ventichilometri all’arrivo”. A me piacciono le sorprese: scoprire unponte, un paesino non segnato nella guida, una mandria o ungregge.

A differenza della Meseta, il paesaggio galiziano è moltovario. Difettano le colture, mentre l’erica e le altre pianteselvatiche riempiono di colori vivaci il verde della macchia.Questa varietà alleggerisce il cammino perché, a dir il vero,siamo ormai stanchi. Siamo nervosi, ci risentiamo per unnonnulla, facciamo muso e altre piccole cose che dimostrano ilnostro stato d’animo. Imelda non vede l’ora di abbracciare inipotini Lorenzo e Marta. Non vediamo l’ora di ritrovare lanostra Rebecca. Intanto Jaume ci promette, appena arrivati aMelide, di farci mangiare il polipo in un locale caratteristico.Con questa prospettiva saltiamo lo spuntino di mezzogiorno earriviamo stremati a Melide verso le tre e mezzo del pomeriggio.La mangiata è solenne, come lungo era stato il digiuno. Jaumenon sta più nella pelle: gli piace fare da anfitrione, presentarci igestori del locale come amici. Arrivati all’ostello, che lui giàconosce, ci mostra la cucina, la sala di lettura e le camerettecome fosse casa sua. A me scoccia quel suo continuocanticchiare mentre fa la doccia, mentre prepara il letto,intrattiene gli altri pellegrini o usa il suo cellulare. Credo proprioche, per levarmelo dai piedi, andrò a dormire in un’altra camera.Questa sera, al posto della cena, Imelda ci prepara una zuppacondita con una bottiglia di “tinto”, perché il nostro stomaco èancora saturo di polpo. Usciti per una passeggiata nel centrodella cittadina, udiamo una musichetta di pifferi e sonagli

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proveniente da un locale; ci avviciniamo incuriositi e vediamo ungruppo di bambini e bambine che battono i loro strumenti guidatida un pifferaio con una lunga barba. Mando Imelda a prendere lamacchina fotografica per riprendere la scenetta e, con questoepisodio, si chiude la giornata.

Sabato 11 ottobre ci alziamo con la luna piena. Camminandoper viottoli di campagna che salgono e scendono con continuegiravolte, attraversiamo piccole contrade. Anche la vegetazione èmolto cambiata: oltre alle solite querce e ai pini, troviamo glialtissimi eucalipti. Verso le undici, a sorpresa, dopo una curvatroviamo un localino aperto; il parchetto è arredato con attrezziagricoli disusati: carri, aratri e altre macchine usate in tempilontani anche da noi. Mi sorprende invece notare, in un campo,una schiera di contadini mentre sta raccogliendo il granoturco amano, come usava da noi quarant’anni fa. Le pannocchie, cosìraccolte, vengono poste nei caratteristici silos, piccolecostruzioni per l’essiccazione, sospese a mezz’aria, che si notanoun po’ ovunque. Non manco di ritrarre la scena campestre chericorda gli anni della mia gioventù, quando salivo sul carro difieno per sistemare il carico. Arrivati intanto ad Arzùa, grossocentro moderno, si vedono esposte per la vendita macchineagricole di recente produzione, che fanno contrasto con le sceneagresti precedenti. Ci forniamo del necessario per il solitospuntino dell’una e ci inoltriamo ancora nel paesaggio galiziano:mucche e pecore al pascolo, appezzamenti di prato, orti e colturedi granoturco, qualche vite e piante da frutto; il tutto intervallatoda zone incolte dove vegetano pini, querce, eucalipti esottobosco di erica. Pensavamo di fermarci, questa sera, aSalceda ma non vi troviamo ostello. Siamo costretti a proseguirefino ad Arca e intanto si fa sentire il peso dello zaino e deichilometri. Jaume rimane staccato; lo aspettiamo e intantocomincia a piovere. Tiriamo fuori i nostri impermeabili e nostriombrelli per l’ultimo tratto di sentiero, che non finisce mai.Costeggiando un tratto di strada, arriviamo finalmente alla meta.Jaume dice che si sente mezzo morto: trentatré chilometri non

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sono alla sua portata, ma oggi non c’era altra scelta. Anche noisiamo stanchi, ma ci esalta il pensiero che domani saremo aSantiago.

Domenica 12 ottobre. Piove per tutta la notte e piove ancoraquando ripartiamo attraverso le strade di Arca. Luciano tira comeSchumacher (così dice Jaume), mentre io rimango staccato;anche per cogliere un grappolo d’uva da una pergola con il miobastone, sul quale avevo praticato una forcella. Oggi le mie forzesono al lumicino per le lunghe fatiche, per il tempo piovoso eanche perché mi sono lasciato andare, mancando alla meta soloventi chilometri. Desidero rimanere staccato perché Jaume è unbrav’uomo, ma troppo invadente: si fa in quattro per aiutarmi, miaspetta, mi chiede se serve qualcosa. Imelda stessa mi chiedecos’ho stamane, proprio lei che mi conosce. “Niente, rispondo,voglio stare solo, non voglio compagnia, non voglio angelicustodi”. Nella società un uomo non può isolarsi; deve stare nelgregge, altrimenti è considerato pericoloso: un alienato, unbrigatista, un lebbroso o un untorello, a seconda delle epoche.Rallentando tengo a freno chi vorrebbe arrivare presto. Misovviene sempre il motto: “Pellegrino, se hai fretta non conosci ilCamino”. Il sentiero si snoda sempre tra boschi di eucalipti,querce e castagni. Non si raccolgono castagne, avendone già unariserva nel nostro zaino, ma intanto il paesaggio agreste fapassare le mie fisime, tanto che allungo il passo e raggiungo lacompagnia. A mezzogiorno e mezzo siamo al Monte del Gozo(monte della gioia) da dove si intravvedono le torri dellacattedrale di Santiago. Il luogo si presenta come una grandespianata, disseminata di locali dormitorio che sembrano caserme.Vi sono anche ristoranti e self-service dove si può mangiare, maaprono all’una e mezzo. Dobbiamo aspettare, anche perché nonintendiamo raggiungere subito Santiago in quanto, ci dicono,sabato e domenica c’è troppa gente e troppa confusione. Jaume èin preda a una sindrome da foto: ci fa salire su di un’altura dovesi trovano delle statue metalliche e si diletta a fotografarci. Poi sirivolge a qualcuno e si fa riprendere assieme a noi. Comincia a

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stufarmi e divento sgarbato con lui, come l’altra sera, quandol’avevo mandato a dormire lontano da me per non sentirlorussare. Caso volle che si fosse piazzato al lato opposto delseparé, ma così vicino al mio posto da costringermi a cambiare.E’ vero, sono veramente schizzinoso. Perché racconto tuttequeste bagatelle? Ma perché la vita è fatta anche di questo:piccole cattiverie, piccoli sgarbi e altre cosucce di cui ci sivergogna. Intanto, dopo avere pranzato al self-service, passiamoa mettere il “sillo” nell’ufficio apposito e ci dirigiamo verso lameta. Entrati in città, ci dirigiamo verso l’ostello del seminariominore, dove si trovano quattrocento posti letto a cinque euro lanotte. E’ nostra intenzione sostare qui almeno per tre giorni.Depositati i nostri zaini, raggiungiamo il centro della città e lacattedrale di Santiago. Finalmente! Ammiriamo l’interno dellachiesa, le grandiose arcate e ci accomodiamo su un banco inattesa della messa serale. Mi prende una stanchezza infinita; escoa prendere un caffè, trovo la piazza principale e rimango seduto esvuotato in attesa che mi tornino le forze. Finalmente rinfrancato,rientro in chiesa accanto a Imelda e Luciano. Jaume è andatosull’altare a leggere le preghiere, beato tra i beati. Finita lamessa, cerchiamo il locale di “Manolo” per la cena. Jaumeconosce questo locale a buon mercato dove si mangia per euro5,50 escluso il bere. Dobbiamo aspettare l’apertura del locale perle ore otto e trenta, non un minuto prima, e intanto seguiamoJaume per le viuzze del centro, piene di locali caratteristici, conl’acquolina in bocca, accettando assaggi dalle ragazze che lioffrono sulla porta dei ristoranti e delle pasticcerie. Torniamo da“Manolo” perché è giunta l’ora sospirata e siamo serviti in unbatter d’occhio. Complimenti, Jaume, qui si mangia bene e sipaga poco, anche se aggiungiamo tre euro per la bottiglia di“tinto”.

Lunedì 13 ottobre è dedicato alle pratiche ufficiali. Si torna incentro per il “sillo finis peregrinationis”, per ricevere l’attestato eper la Messa del Pellegrino. Jaume, interessatosi presso i preti,ottiene per noi un posto sull’altare, vicino ai celebranti. I quali

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salutano tutti nelle loro lingue nazionali, come fa il Papa nellabenedizione in piazza San Pietro. Ci sono altre cerimonie dacompiere, che Luciano non perde di sicuro, come porre la manosulla colonna sormontata dall’Apostolo Giacomo e che io rifuggocome il diavolo l’acqua santa. Usciamo piuttosto in libera uscitaa visitare ancora il centro cittadino. Per le vie rivediamo moltipellegrini conosciuti lungo il “camino”, salutiamo felici e,all’una, siamo da “Manolo” per l’ultimo pranzo con Jaume.Saluti, addii e senso di liberazione per me. Finalmente possoandarmene a zonzo senza il mio angelo custode.

Martedì 14 ottobre prendiamo il bus per Finisterre, sulla rivadell’oceano. Arrivati, Imelda e Luciano si introducono tra lebancarelle del mercatino, dove sono esposte tutte quellecianfrusaglie che si trovano in qualsiasi paese delle nostre parti.Li richiamo per visitare il faro, la cittadina e il porto pieno dinatanti multicolori e poi mi sdraio sul molo, sotto il sole, stanco esoddisfatto.

E finalmente giunti a Finis Terrae, “le nostre membra ariposar gettammo”.

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STRASBURGO PER SENTIERO E5 - 2004Sentiero E5 – lago di Costanza e Strasburgo – Monti, colli

Km. 900 – gg. 28

Che esista un’esigenza primaria di movimento è confermatoda studi recenti sull’evoluzione umana. Spesso i bambinistrillano soltanto perché non sopportano di starsene sdraiatiimmobili. Noi sedentari ci liberiamo dalle frustrazionicamminando. La Chiesa medioevale istituì il pellegrinaggio apiedi come cura contro la depressione omicida

Bruce Chatwin

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E’ nostra intenzione percorrere quest’anno il sentiero europeo,che collega il lago di Costanza a Verona. Alcuni tratti ci sono giànoti, come quello che va dalla Giazza, un paese cimbro situatoalla base delle Piccole Dolomiti, a Saline, in Valpolicella,attraversando la Lessinia. Tre volte siamo andati a trovare nostrafiglia, Raffaella, che abita una casupola in questa contrada diNegrar. Un’altra volta ci siamo andati per raggiungere ilsantuario di Madonna della Corona, che sta oltre l’Adige,arroccato su una parete del Monte Baldo. Torneremo a parlare diquesti luoghi in altra occasione; per ora volgiamo tutte le nostreattenzioni al sentiero E/5.

Ci avviamo una mattina di luglio dell’anno 2004 lungo viaSpine, con i nostri zaini carichi a dovere. Raggiunto l’arginedell’Astico presso Lupiola, lo seguiamo fino al ponte diBreganze, quello, per intenderci, con gli archi rovesciati versol’alto. Da lì raggiungiamo Fara Vicentino e la contrada di Mare.Poco oltre si trova un sentiero antico con le pietre messe adovere, come usava una volta, quando non c’erano strade. Unasinello si accoda e ci segue, forse annusando qualcosa damangiare che sta nei nostri zaini. Cerco di mandarlo indietro mapoi, appena usciti dal sentiero e mentre ci riposiamo, rivediamol’asinello, curioso come un bambino che vuole la marmellata.Rinuncio a metà del mio panino e lo rimando indietro: non vorreiproprio averlo in nostra compagnia quando pernotteremo inqualche ostello o in qualche bivacco. Raggiunta la contrada diPerpiana, nei pressi di Lusiana, si ritrova il sentiero nel bosco,fino a uscire sulla “Strada Bianca”. È così chiamata una pietraiaun tempo priva di vegetazione ed ora costeggiata di ville con illoro bel parco alberato. Si esce all’osteria “Al Ristoro”, sullastrada che porta a Camporossignolo e al monte Corno. Di nuovotroviamo il sentiero, n. 874 CAI, che sale verso le alture,attraversando ancora un gruppo di villette. Finalmente siamo sulmonte Corno, quota 1300 metri, proprio sotto il monumentoall’alpino. Si scende ora per uno sterrato in mezzo al bosco nellaGranezza di Gallio. E’ un luogo magico, fuori da ogni traffico,

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silenzioso. E’ facile immaginare fate e folletti rincorrersi traqueste radure. Più avanti si odono le auto che salgono dal Puffelee siamo al Turcio, noto locale al crocevia Asiago/Gallio. Noiprendiamo verso Gallio e in breve siamo all’ostello Ekar per ungiusto riposo.

Il giorno seguente riprendiamo la strada per Gallio, dove ciriforniamo di vettovaglie anche per la sera, perché intendiamosostare in un bivacco. Ci inoltriamo nella valle di Nos, che sta trale alture di Longara e il monte Zebio, per uscire nel Bosco Secco,così chiamato per la scarsità di acqua. Sono luoghi desolati,disabitati e piuttosto aridi. Si nota ancora qualche malgaabbandonata, ma si notano di più i resti delle opere militari.Negli anni 1916, ‘17 e ‘18 qui infuriava la guerra e in questetrincee dimoravano centinaia di migliaia di soldati. Usciti dalbosco, troviamo la strada militare austriaca, proprio sotto monteForno. Noi dobbiamo andare verso l’Ortigara, a nord, e seguiamoil sentiero per malga Pozze e Campo Casara. Fa caldo e le nostreriserve di acqua sono calate quasi del tutto. Ci stiamo dirigendoverso il Fontanello del Covolin con la speranza di trovare acqua.Due donne, due escursioniste, ci assicurano che al Covolinzampilla l’acqua, ma poco più avanti un tale, che si spaccia perguida alpina, ci giura che l’acqua del Covolin non è potabile. Cidice anche che non si può dormire in nessun posto, perché tutti ibivacchi sono occupati dai pastori. Ma il suo fiato puzza dialcool e chiacchiera troppo. Lasciato questo esperto, ciavviciniamo con ansia al Covolin, dove vediamo uscire un filod’acqua così sottile che ci vogliono dieci minuti per riempire lenostre bottiglie. Rinfrancati, risaliamo le alture fino all’Ortigaraper scendere dall’altra parte di qualche centinaio di metri, fino albivacco “De Meda”. Non c’è anima viva e quindi prendiamopossesso del locale per passare la notte. Troviamo anchedell’acqua piovana, che ci servirà per il bagno. Difatti, avendosudato abbondantemente, mi sento tutto attaccaticcio e non vedol’ora di spogliarmi e di darmi una bella sciacquata. A quest’oratutti i turisti sono rientrati. Ci avvolge il silenzio e la solitudine.

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Accendiamo la stufa, prepariamo la cena, riscaldiamo l’acqua perla doccia e per lavare i piatti e ammiriamo il cielo stellato. Chi èpiù ricco di noi?

Il giorno successivo è domenica. Sentiamo in valle suonare lecampane a festa, quando ci avviamo in discesa. Sarà una lungadiscesa: dall’Ortigara al Brenta il sentiero si abbassa di 1700metri, zigzagando nei canaloni e sfiorando spesso i precipizi.Imelda si lamenta per i dolori ai polpacci: la discesa è peggiodella salita. Finalmente siamo a Castelnuovo e riprendiamo asalire verso Telve e Campestrini. Troviamo qui il sentiero dellapace, ben segnato, che ci guida fino alla valle del Calamento,percorsa dal torrente Maso. Da questa strada è passato più volteil giro d’Italia e anche oggi si vedono molti ciclisti percorrerequesta via, che porta al passo del Manghen, 2050 metri di quota.Noi ci fermiamo all’albergo Calamento per un buona notte diriposo. Questo luogo ci è caro anche per una avventura occorsaqualche anno addietro. Avevamo pernottato in questo albergo eintendevamo raggiungere il rifugio Refavaie, nella valle di CanalSan Bovo. L’albergatore, conoscendo i luoghi, ci avevaconsigliato di seguire il sentiero che parte da malga Baessa persalire verso il lago Montalon e il passo Val Sorda. In alto, sopra i2000, avevamo trovato la neve; neve che cancella ogni sentiero,per cui non sapevamo più dove ci trovassimo. Dopo aver cercatodi orientarci con il sole e aver vagato a lungo, ecco apparire inbasso la malga Stellune, già conosciuta in altra occasione. Inquesto bivacco avevo già passato una notte con Corrado, che silamentava per il freddo e per i disagi. Quest’altra volta, conImelda, non intendevo fermarmi, ma arrivare a Refavaje. Si stavaavvicinando la sera e dovevamo ancora superare il passoValsorda, innevato. Per farla breve ci sono venuti a cercare e cihanno trovati di notte con i fari. “E’ solo quando ci siamocompletamente perduti, o abbiamo fatto un giro vizioso, cheapprezziamo la vastità e la singolarità della Natura. Solo quandoci siamo perduti, cominciamo a trovare noi stessi”.

Lasciamo ora i ricordi di avventure su questi monti, che sono

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molteplici e indimenticabili, per tornare a noi. La stradas’inerpica a tornanti. Ai lati scrosciano cascatelle, il tempo èbuono e si cammina che è una meraviglia. Al passo Manghentroviamo alcuni turisti olandesi, con i quali ci scambiamoqualche foto. Scendiamo ora verso Molina di Fiemme, ridentelocalità turistica, cercando un posto per la notte. Con qualchedifficoltà, troviamo una camera all’Ancora e usciamo a visitare ilpiccolo centro. Sono ansioso di trovare già oggi il sentiero cheseguiremo domani, in modo da partire senza incertezze.

Il quinto giorno del nostro viaggio ci farà incontrare ilsentiero E5, nei pressi di Fontanafredda.

Da Molina di Fiemme ci incamminiamo per la val Bredaia,toccando alcuni villaggi: Aguai, San Lugano e Bosnia. Troviamouna deviazione per Redagno ed è qui che ci appaiono i segni delsentiero E5. Non ci resta che seguire le indicazioni per Redagnodi Sotto e Redagno di Sopra. Intanto si cominciano a incontrare ituristi che scendono dal Lago di Costanza, in Germania. Vannoanche a gruppi: famigliole e comitive, gruppi di due e anchequalche solitario. Più avanti si trova un inghiottitoio, causatodalle acque che precipitano in un orrido. Il sentiero ci fa scenderefino sul fondo, per risalire su una strada che conduce allaMadonna di Pietralba. Il santuario ci appare d’un tratto sulladestra, in basso, in tutto il suo splendore. E’ qui che ci fermiamoquesta sera, presso questo monastero, proprietà dei Servi diMaria e gestito in modo esemplare.

Dopo una buona colazione, riprendiamo il nostro camminoverso il basso per attraversare una valle prativa, oltre la quale c’èun fitto bosco di abeti. Il sentiero fiancheggia il bosco, seguendopoi uno sterrato e quindi una strada turistica, fino a NuovaPonente. Le strade sono piene di bancarelle per il mercato, tantoche perdiamo il segno E5 e siamo costretti a girare a vuoto,finché in centro ritroviamo i nostri segni. Attraversiamo un altropaese, Lupino o Wolflof. Cammina e cammina, alle tre delpomeriggio siamo a Colle di Villa. Per scendere a Bolzano,attendiamo l’arrivo della vettura della funivia, dalla quale scende

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un nutrito gruppo di giovani gitanti. Non prendiamo il biglietto,perché manca la biglietteria e, arrivati in fondo, ce ne andiamotranquillamente fino alla stazione del treno per tornare a casa,avendo compiuto la prima parte del nostro viaggio.

La seconda parte incomincia un mese dopo, il 16 di agosto,arrivando in treno giusto a Bolzano. Troviamo subito il camminoE5 che porta alla base della funivia per San Genesio. Risaliti inquota, ci si avvia per raggiungere la nostra meta odierna, chesarebbe il rifugio Merano 2000. Si cammina tra i prati, lasciandosulla sinistra il centro turistico di Molten. Al rifugio arriviamoche fa quasi notte, ma siamo ben accolti. Troviamo anche lacena: qualcosa era rimasto per noi perché, secondo il costumetedesco, di solito si cena alle cinque del pomeriggio.

Il giorno successivo, il 17, si riprende in salita, verso ilmassiccio Verdinser Plattenspitze. Passiamo accanto al laghettodi San Pancrazio, dove si notano alcune tende di escursionistiche qui hanno passato la notte. Il cielo è offuscato da nubi enebbie, mentre il cammino si fa aspro e roccioso. Versomezzogiorno siamo al passetto Hirzer Spitze, quota 2781:usiamo anche le mani per non cadere nei precipizi. Si odono ituoni e, dopo poco, incomincia a piovere. Incontriamo un taleche ci avverte: “In questi luoghi piove ogni giorno”. Per nostrafortuna vediamo già in basso il rifugio Hirzer Hütte, cheraggiungiamo un’ora più tardi. Oggi abbiamo fatto il pieno dipietre, rocce, passaggi scabrosi e tutte quelle cose che fanno lagioia di noi camminatori.

Il giorno 18 agosto partiamo alla volta di San Leonardo. Ilsentiero compie un lungo giro per evitare i contraffortidell’Hirzer Spitze, mantenendo quota per lunghi tratti. Siincontrano spesso escursionisti provenienti dal senso opposto,con i quali si scambia qualche impressione. Ci avvertono chetroveremo una brutta discesa, ed è così più avanti, quando siscende attraverso il bosco, attenti a non scivolare sui tronchibagnati e viscidi. Eccoci ora al Pfandleralm per una sosta diriposo e di ristoro. Il sentiero corre adesso in alto, sopra la val

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Passiria. Vediamo in basso il torrente e vediamo anche il centroturistico di San Martino in Passiria. L’ultima parte del sentiero èpiacevole e, nel tardo pomeriggio, siamo a San Leonardo in ValPassiria, desiderosi di fermarci in questa amena cittadina.

Il 20 agosto abbandoniamo l’E5 per seguire una stradasecondaria sulla sinistra del torrente Passer. E’ una viadisseminata di piccoli alberghi, dove si sarebbe potutopernottare, ma ormai è mattina e abbiamo davanti una lungacamminata. Dopo Platt, la strada scende per superare un pontesul Pleiderer. Arrivati a Moos, ci addentriamo per le viuzze diquesto caratteristico paesino di montagna e riprendiamo ilsentiero E5, che ora corre lungo il torrente e in mezzo al bosco.Ci si innalza più avanti, quando si incontrano i paesini di Gastele di Rabenstein, o Corvara in Passiria. Qualcuno in auto si fermaper chiederci se è questa la famosa Corvara, centro turistico. Miricordo che esiste una località con questo nome in val Badia, benlontano da questi luoghi. Buon per loro che sono in macchina. Sisegue ancora la Passertal per qualche ora, finché si arriva a unbivio. Sopra di noi c’è un albergo, Hochfirst, stazione di sostaper gli escursionisti dell’E5. Per arrivarci, prendiamo un’ertasalita che ci fa evitare un lungo tornante, ma ci fa ansimare esudare. Incontriamo anche una comitiva di francesi; li contiamo esono quarantasette. Vengono dal lago di Costanza e quando sifermano in un rifugio fanno il pieno. Essendo ancorapomeriggio, lascio mia moglie a riordinare le sue cose e me nevado in avanscoperta, per capire il percorso che faremo domani.Il tempo è buono e io indugio a raccogliere fragole e frutti dimontagna. Incontro due ragazze provenienti dal passo e chestanno facendo, a ritroso, il nostro medesimo percorso. Ci siamoinformati su cosa troveremo più avanti, quali difficoltà, ma saràdel tutto inutile.

Difatti, il giorno dopo il tempo volge al brutto. Ci avviamoper il sentiero conosciuto ieri, con le nubi incombenti. Cominciaa piovere all’improvviso, tanto che non sappiamo come mettercil’impermeabile. Per fortuna, c’è una casa diroccata che offre un

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momentaneo rifugio. Ci mettiamo quello che serve per ripararcidalla pioggia e saliamo l’erta senza vedere quanto ci circonda. Sisbuca così al passo del Rombo, dove ci rifugiamo per un caffè eper riposare un poco. Il commesso, però, vedendoci pocopropensi per il pasto di mezzogiorno, ci serve con cattiveria e ciinvita a uscire al più presto. Buttati fuori in malo modo, ce neandiamo ora in discesa, consumando il nostro panino sotto lapioggia. Per nostra fortuna il tempo migliora, tanto dacamminare spediti e arrivare a Zwieselstein di buon pomeriggio.Riguardo al fatto di non pranzare nell’ora di mezzogiorno, èun’abitudine consolidata. Sappiamo per esperienza che una sostapranzo al ristorante ci mette in difficoltà per riprendere ilcammino, tanto più se si beve un bicchiere o due di vino. Legambe non sono più quelle e spesso ti prende anche lasonnolenza. Meglio un panino e acqua fresca. Se si trova poiqualche fragola o qualche lampone, si sta meglio e si camminaspediti. A Zwieselstein cerchiamo e troviamo un bell’ap-partamentino, dove possiamo anche preparaci la cena. Questo èun centro di passaggio degli escursionisti, che trovano in questovillaggio tutto ciò che serve, camere per dormire, negozi dialimentari, ombrelli e scarpe, se il maltempo le ha rovinate.Possiedo un album di foto che documentano tutto del nostropercorso, così potrò trascorrere gli anni della vecchiaia aricordare questi bei momenti. Per ora accontentiamoci dei nostrisettanta e passa, vissuti tra queste belle montagne.

Al risveglio notiamo il cielo coperto. L’E5 s’inerpica fino atremila metri, tra i ghiacciai. Meglio evitare i pericoli di questopassaggio e scendere a valle. Ci avviamo verso Solden per unsentiero che sovrasta la strada. Qui ci sarebbero impianti dirisalita, ma noi non siamo fatti per la neve. Seguendo l’Ötztal,troviamo sentieri che portano a valle passando per Längenfeld,Oetz e Zams, nostra meta odierna. Qui giunti, cerchiamo una“Zimmer” e fermiamo una signora per chiedere informazioni.“Venite con me” ci dice, ed è proprio questa signora che ci affittauna camera per la notte.

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Abbiamo ritrovato il sentiero E5, abbandonato ieri. Dopo ilponte sull’Inn, troviamo un capitello per una preghiera.Dobbiamo affidarci a Qualcuno, perché la giornata sarà lunga,faticosa e pericolosa. Notiamo l’altimetria: 767 metri sul livellodel mare, mentre incomincia la salita. Ci alziamo quasi a piccosopra la valle, con bella panoramica sul fiume, su Zams eLandeck. Si entra poi in una valle oscura, che esce in alto su unaradura boscosa. Troviamo un bivacco per una sosta di ristoro, mariprendiamo subito, attraversati alcuni ponticelli di legno, peruscire all’aperto verso i duemila metri, dove finisce il bosco. Ilposto è stupendo e desolato, disseminato di rocce e di fiori dimontagna. Troviamo ancora un bivacco, creato appositamenteper escursionisti. Il cortile è pieno di zaini, lasciati da chi si starifocillando all’interno. Entriamo anche noi per uno spuntino eper un caffè. Quando riprendiamo, mia moglie si accorge di averperso una lente degli occhiali. Ritorno al bivacco e, con l’aiuto divolonterosi, spazzando sotto il tavolo, ritrovo la lente. Ci rimaneancora un buon tratto di salita lungo il torrentello Lochbach, cheaffrontiamo con difficoltà per la fatica accumulata. Finalmentesiamo al passetto Schweine Rücken, 2700 di quota, e da qui ciappare come un paradiso terrestre. Sotto di noi sta una concapiena di nevai, laghetti e prati. In fondo notiamo anche il rifugioMemminger, che ci accoglierà questa sera. Sentieri vengono dapiù parti e convogliano tutti verso il rifugio. Più in basso, nellaghetto, notiamo parecchi turisti tutti nudi che stanno facendo ilbagno. Non li turba la neve e nemmeno il passaggio di tantagente. Il rifugio non è dotato di acqua calda e chi vuole lavarsi siarrangia con l’acqua fredda o con la neve. In questo luogo nonmanca l’allegria e si sentono canti intonati da più compagnie. Lecomodità della vita non rendono certo felici, almeno da quanto sipuò osservare qui. Per dormire dobbiamo accomodarci in un lettoa castello e accettare la musica dei tromboni che russano. Perfortuna, la stanchezza non ci permette di pensare ad altro che adormire.

Al risveglio, il 23 di agosto, dopo la solita buona colazione, ci

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immettiamo in discesa, aggirando il monte Seekogel tra lecascatelle. L’acqua scende abbondante da questi luoghi piovosi.Fortuna per noi che oggi fa bello e possiamo seguire un sentieroin mezzo al bosco, anziché seguire la strada che scende a Bach.Lasciando questa località sulla destra, ci dirigiamo versoHolzgau percorrendo una strada asfaltata. Non è un guaio, perchéil traffico è limitato e ci consente di fare strada. Osservando lenostre cartine, nei giorni scorsi siamo avanzati di poco: sempresu e giù o a zig-zag. Giunti a Holzgau, riprendiamo a salire.Sbagliando, abbiamo preso un sentiero senza uscita, che cicostringe ad una deviazione per rientrare sull’E5. Troviamo unposto di ristoro, dove ci servono in modo egregio. Megliosostenerci perché anche oggi sarà dura: dobbiamo superare unpasso a 1974 metri per entrare in Baviera e raggiungere ilKemptner Hütte. Ieri quasi duemila metri di salita; oggimillecinquecento di discesa e altri milledue di salita. Per fortunale nostre gambe tengono bene e così anche le nostre scarpe.Raggiunto e superato il passo a 1974 metri di quota, scendiamoal nostro rifugio, cento metri più in basso per un giusto riposo.

Il giorno seguente, niente salita. Il sentiero ci conduce alvillaggio di Spielmannsau e quindi, in mezzo ai prati, inprossimità di Oberstdorf. E’ questa una bella e vivace cittadinaturistica, piena di gente e in piena festa. C’è anche il mercato,che ci consente di rinnovare il guardaroba per la pioggia.Dobbiamo prendere un nuovo ombrello e un nuovoimpermeabile. Ne approfittiamo anche per altre spesucce e pervisitare la chiesa. A malincuore ci allontaniamo da Oberstdorfper raggiungere Sonthofen o qualche altra località più avanti.Troviamo alloggio nella periferia di quest’ultima località, neipressi del fiume Iller.

Quando ripartiamo, dobbiamo scegliere se portarci in alto, sulcrinale dei monti, o tenere la strada in basso, per risalire piùtardi. Teniamo la strada, anche perché il tempo non promettenulla di buono. La strada più avanti è chiusa al traffico epossiamo camminare tranquillamente lungo il fiumiciattolo

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Aubach. Dovendo pernottare presso il rifugio Staufer Haus, a1640 m di quota, dobbiamo per forza risalire e riportarci sulcrinale. Aggirato il monte Rindalphorn, cominciamo ad allungaregli occhi per vedere il rifugio. C’è un altro monte da aggirare,l’Hochgrat, e finalmente, sul far della sera e quando sta perpiovere, troviamo il nostro Staufner Haus. Il posto è tranquillo ec’è la stufa accesa. Passiamo così una piacevole serata senza TVe senza chiacchierare con nessuno, non conoscendo la lingua diqueste regioni.

La mattina dopo piove a dirotto. Chiedo a mia moglie: “Cosafacciamo?”. “Partiamo” fa lei. Così ci avviamo sotto un diluviodi pioggia e vento. Non riusciamo a vedere altro che il sentierodove mettiamo i piedi. Il vento ci costringe a stare in guardia pernon cadere nei precipizi e non prestiamo più attenzione a dovesiamo diretti. Dopo alcune ore arriviamo ad un rifugio che non sitrova lungo il sentiero E5. Entro per vedere dove siamo e scoproche abbiamo sbagliato percorso. Un po’ frastornati, cerchiamo dicapire come rientrare nel sentiero giusto e raggiungere Hittisau.Un tale mi fa cenno di attendere mentre sta per finire il suo pastoe poi, preso un cestino da funghi, con sua moglie ci invita aseguirlo. Camminiamo per più di un’ora sotto la poggia;attraversiamo il confine con l’Austria per un posto dove passanole capre e siamo, finalmente, in un luogo in cui c’è l’indicazioneper Hittisau. Ringraziamo questi due sconosciuti che ci hannoriportato sulla strada giusta e, poco più avanti, ritroviamo l’E5,che ora seguiamo con attenzione. Prima di Hittisau, bisognaattraversare un fiume, il Bolgenach, passando per un ponte dilegno, così bello che mi vien voglia di fotografarlo. Lamacchinetta, però, non funziona: è troppo bagnata e non c’èverso di farla scattare. Lasciamo il fiume che ribolle di acquepiovane e siamo subito nella cittadina che dovrà accoglierci.Cerchiamo ora una “Zimmer” presso una casa dove c’è uncartello esposto. Vediamo solo un bambino di tre anni che ciguarda con due occhioni. “Dov’è mamma?” chiedo, ma lui noncapisce e in casa non c’è nessun altro. Dopo avere aspettato per

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dieci o quindici minuti e, non vedendo arrivare nessuno, ce neandiamo in cerca di un altro posto, che troviamo poco più avanti.Siamo tutti fradici e mollicci. Non vediamo l’ora di cambiare inostri abiti e di mettere ad asciugare il bagnato. Per nostrafortuna, in questa casa c’è il fuoco acceso in cantina, una bellacantina grande, dove possiamo stendere tutto il nostro vestiariobagnato.

Passata una buona notte e asciugati i vestiti, ci avviamo perLingenau e Alberschwende seguendo la strada. Troviamoqualche deviazione fuori strada, per evitare il traffico che divienesempre più noioso. Decidiamo allora, giunti ad una fermata, diprendere l’autobus per arrivare a Bregenz senza correre il rischiodi essere stirati. Bregenz è una bella città sulle rive del lago diCostanza, che visitiamo volentieri. Ma poi decidiamo di portarciavanti fino ad Hard, vicino al confine con la Svizzera. Troviamoqui da sostare per la notte e rilassarci un po’ nei giardini in rivaal lago. Abbiamo lasciato per sempre le alte montagne e oracosteggeremo il lago per più giorni. Acquistiamo anche dellecartoline, perché la nostra macchina fotografica non vuol piùsaperne di funzionare.

Oggi dovremo attraversare il confine con la Svizzera e ilfiume Reno, che ritroveremo ancora più avanti. Seguendo lacosta, dobbiamo poi rientrare lungo il corso del Reno, fino atrovare un ponticello di legno pedonale. Attraversato questo,siamo a Hinterburg e cerco un negozio di rullini per fotografare.Cambiato il rullino, la macchina ricomincia a funzionare e mipermette di riprendere ancora i paesaggi che si incontrano. Sicammina ora in un posto magico, un po’ più alti della strada, invista del lago. Il tempo è bello e nel pomeriggio siamo sopraRorschach. Chiediamo informazioni per trovare un alloggio a untale che incontriamo e questi, gentilmente, ci indica un paio diposti non troppo costosi. Raggiunto l’albergo Lerche, prendiamoalloggio per due notti, essendo il posto molto bello, e perconcedere un po’ di tregua alle nostre gambe. Il giorno dopo èdomenica e quindi entriamo in una chiesa. I cantori eseguono

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una messa di Mozart in modo perfetto. Alla comunioneassistiamo a un saggio di organizzazione svizzera, che superaperfino la tedesca. I fedeli escono dai banchi ordinatamente versoil centro della chiesa, finito un banco, segue l’altro e così via finoall’ultimo. Fuori passeggiano i cittadini con il loro cane che tienein bocca il sacchetto per raccogliere la cacca. Una donna si fermaa togliere un filo d’erba cresciuto tra i fiori. Insomma, tuttosembra preciso e ordinato come un orologio svizzero. Dopo duesettimane passate tra i monti, ci concediamo una pausa in questobellissimo centro sul lago, tra giardini, chiese e gente in festa.Anche l’albergatore, sapendoci a piedi, ci fa uno sconto sulprezzo.

Il lunedì 31 agosto ci avviamo verso Horn ed Arbon. Daquesta località parte il traghetto per Kreuzlingen, città svizzeraconfinante con Konstanz. Ci concediamo anche quest’altrosfizio, perché il traghetto va lentamente e ci permette diammirare tutte le caratteristiche di questo bel lago. Consumiamoi nostri ultimi franchi svizzeri per non avere altra zavorra quandosaremo di nuovo in Germania, dove vige l’euro. Avevamo presodei francobolli in Austria per spedire le nostre cartoline, ma ora,dalla Svizzera, non li possiamo utilizzare. Imbucheremo le nostrecartoline da Costanza, sperando bene. Sapete com’è andata? DaCostanza hanno spedito le cartoline in Austria, a Bregenz, e daqui sono state inoltrate regolarmente. Ora, però, lasciamo perderequeste piccinerie e oltrepassiamo nuovamente il confineSvizzera/Germania. Nessuno ci chiede mai documenti e quindice ne andiamo tranquilli a visitare la cattedrale di Costanza, chemerita una sbirciatina, e proseguiamo per Stade. Non sappiamoquale malattia ci abbia preso, ma sentiamo la necessità di andareavanti, chissà fino a dove. Il lago di Costanza si biforca in duerami: uno volge a sud verso Radolfzell e Stein am Rhein, l’altropiù a nord, verso Bodman. Seguiamo quest’ultima direzione e,verso sera, siamo a Dettingen. Dobbiamo faticare parecchio pertrovare da dormire. Un tale, che esponeva il cartello “Zimmer”,voleva che ci fermassimo per due notti; una, niente. Per nostra

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fortuna troviamo un albergo lì vicino che ci accoglie per unabuona serata e una buona nottata.

Il primo settembre ci vede in cammino lungo il litorale dellago. Un sentiero ci permette di evitare il traffico delle strade e ciconduce alla località di Bodman e poi, aggirando il lago a nord-ovest, fino a Unterach, amena cittadina, dove troviamo unacamera. Ci aggiriamo per le vie fotografando le case, tutteaddobbate con travi di legno, sia orizzontali, sia oblique eintrecciate. E’ una caratteristica che avevamo visto anche dalleparti di Stoccarda, Heilbronn e Tübingen. Ormai è chiaro:vogliamo attraversare la Selva Nera e raggiungere Strasburgo.

Oggi, due settembre, lasciamo il lago per addentrarci versol’interno. La prima città che incontriamo è Stockach, che meritauna sosta e una visita, per proseguire poi verso Tuttlingen.Entriamo adesso nella Selva Nera. Si alternano boschi ecoltivazioni e prati. Sembra l’altopiano di Asiago. Vedo anchel’indicazione di una località che richiama il mio nome: Hus Wald= Osvaldo. Che sia originario di queste parti il mio nome?Vorrebbe dire l’uomo del bosco, oppure l’orso. Imelda ride perqueste mie osservazioni.

Il tre di settembre ci vede seguire una strada che fiancheggiala ferrovia. Il traffico non è malvagio e possiamo raggiungereSpaichingen con passo tranquillo. Tentiamo a volte di attaccarediscorso con qualcuno, ma la lingua tedesca non è il mio forte.Superati alcuni piccoli centri, nel pomeriggio siamo a Rottweil,dove notiamo subito la scritta “Centro Cattolico Italiano”. Pensodi fermarmi in questo locale per chiedere qualche informazione,ma ne ricavo una delusione. Suonato il campanello, mi rispondeuna voce, che chiede chi è. “Siamo italiani, qui giunti a piedi evorremmo parlare con qualcuno nella nostra lingua”. Mirisponde la stessa voce, dicendo che non ha tempo da perderecon chicchessia, perché lo trattiene un impegno importante.Lasciamo con risentimento questo luogo, dove neanche unaparola si concede a chi chiede. Poco più avanti troviamo subitoun bell’albergo alla nostra portata e tanti saluti al “Centro

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Cattolico”. Rottweil, anche se il nome richiama una razza di caninon proprio mansueti, è una bella città. Le terme romane sonotenute in bella evidenza e tutto rispecchia pulizia e lindore.Malgrado qualche episodio, rimane un bel ricordo di questa città.

Il quattro settembre tentiamo di uscire da Rottweil per unastrada secondaria, allungando un po’ il percorso. Tocchiamo ilsobborgo di Zimmern e superiamo l’autostrada intasata daltraffico. Le colonne di mezzi sono bloccate chissà perché, forseper un incidente. Commiseriamo gli automobilisti intrappolatinelle loro comode macchine, mentre superiamo il cavalcavia.Dalla nostra cartina rileviamo un sentiero, che dovrebbe condurcifuori anche da questa strada, in mezzo al bosco. Chiediamoinformazioni a un tale, il quale ci indica dettagliatamente ilsentiero da seguire in mezzo al bosco. Qualcosa abbiamo capito,qualche altra cerchiamo di indovinarla, fatto sta che sbagliamopercorso. Dopo un po’ ci raggiunge quel signore a cui avevamochiesto informazioni, con il suo fuori strada, e ci spiega ancoraqual è il giusto percorso. Per fortuna, non ci sono solo cattolicida queste parti. Camminando in mezzo al bosco, notiamol’indicazione delle terme romane. Si vede proprio che i romani,quelli antichi, avevano il pallino della pulizia. Usciti dal bosco,camminiamo ora tra i prati e vediamo un paesino, Weiler. Qui cisono solo fattorie e bestiame al pascolo. Prendiamo ora perHardt, mentre il tempo peggiora. Improvvisamente arriva lapioggia che ci obbliga a tirar fuori ombrello e impermeabile.Troviamo riparo in un locale di questa cittadina e cerchiamo unabanca per prendere un po’ di soldi. Ancora un’ora o poco più esiamo a Schramberg.

Avete notato anche voi come sono complicati i nomi di questecittà tedesche! E che fatica a pronunciarli! Per nostra fortuna, cifermiamo a prendere un gelato e il gelataio è italiano. Ci parlasubito di Giovanni, un tale venuto da Bari e che gestisce unristorante. Quando ci vede, costui rimane allibito, udendo chesiamo arrivati a piedi. Ci fa una grande festa e ci trova subito unacamera per la notte, presso una locanda vicina. Insomma

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abbiamo trovato una bella accoglienza.Ci incamminiamo, il cinque di settembre, per un sentiero che

dovrebbe uscire a Lauterbach, ma non troviamo via d’uscita.Siamo costretti a prendere la strada, bella strada panoramica,costeggiata proprio da un sentiero per pedoni. Incrociamo anchealtri sentieri che scendono dal nord, da Pforzheim e diretti inSvizzera. Noi, però, dobbiamo raggiungere Hausach e, forse,Haslach, sulla strada per Offenburg e Kehl. Ci avviamo inleggera discesa per piste ciclo-pedonali e, a sera, siamo adHaslach.

Dobbiamo raggiungere ora Offenburg seguendo una stradapiuttosto noiosa e trafficata. Pazienza, non sempre si può avere ilmeglio. Imelda spera di finire presto il viaggio, perché le si èrotta la dentiera. Quindi oggi niente perditempo e via diritti finoa Offenburg. Appena fuori da Offenburg, troviamo un percorsopedonale lungo il fiume Kinzig. Meno male, la strada asfaltatanon fa per noi. Si incontrano parecchi escursionisti che praticanoquesto bel percorso, allietato dalle acque di questo affluente delReno. A mezzogiorno siamo a Willstätt, che si scrive con ladieresi sopra la a, e ci fermiamo in un parchetto per il nostrosolito spuntino. Verso le tre del pomeriggio siamo a Kehl, cittàtedesca al di qua del Reno, e ci fermiamo presso una gelateriaper chiedere qualche informazione. Siamo fortunati: la gelataia èdi origine friulana, Pordenone. Questa signora ci fa una grandefesta e ci trova anche una camera d’albergo presso suoi amici.“Se vi fermate questa sera” dice “avrete lo sconto del cinquantaper cento”. Come si fa a perdere l’occasione? Per oggi siamo aposto. Depositiamo i nostri zaini in albergo e ci avviamo versoStrasburgo, che dista solo cinque chilometri. Arrivati in centro,però, si fa tardi e rientriamo a Kehl per la cena e per passare lanotte.

Il giorno dopo lo dedichiamo tutto a visitare Strasburgo. Lacittà è attraversata da alcuni canali, alimentati dal fiume Ill etributari del Reno. Ci sono traghetti che percorrono in lungo e inlargo la città e ne approfittiamo. Abbiamo così modo di vedere il

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moderno centro con i palazzi del Parlamento e del GovernoEuropeo. Torniamo poi a visitare la cattedrale gotica, con unasola torre campanaria, perché l’altra è rimasta incompiuta. Non sitiene più conto dei giorni e domani visiteremo anche Molsheim.

L’ultimo giorno è dedicato alla visita di alcuni amici,conosciuti durante il cammino di Compostella, con i quali cieravamo promessi di ritrovarci. Purtroppo, giunti a Molsheim,non troviamo questi conoscenti, che hanno disseminatoconchiglie di bronzo dalla loro casa fin nella piazza del paese. Ivicini ci dicono che sono partiti per chissà dove da almeno ottogiorni. Torniamo allora alla stazione del treno e prendiamo lalinea per Basilea e Milano. Finisce così il nostro bel viaggio,durato in tutto una trentina di giorni e che ci ha fatto conoscereuno scorcio meraviglioso della nostra Europa.

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GRAN SASSO D’ITALIA - 2005Gran Sasso d’Italia/ L’AquilaMontagne – gg. 22 – Km. 500

UN PIACERE – E’ difficile spiegare a parole quanto sia bellocamminare. Posso solo assicurare che è un’attività praticabile datutti, in qualunque stagione, a qualunque età, che non richiedecostose attrezzature, che non inquina e non fa rumore. E’un’azione lenta, che permette di osservare anche le piccole cose;silenziosa, ritmica, che non disturba il pensiero - anzi stimola lariflessione – faticosa ma non estenuante, consente di sentire ilproprio corpo e le distanze guadagnate un passo alla volta;autonoma, non si deve fare ricorso a mezzi meccanici, si parte eci si ferma quando lo si desidera, si procede con il proprio ritmo.Si può camminare da soli o in compagnia, in silenzio,chiacchierando, fischiettando o, se uno ha fiato, anche cantando.Camminando si può andare ovunque e questo contribuisce a dareun senso di grande libertà.

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Cerco di fare ordine nei miei ricordi che riguardano questoviaggio quasi dimenticato, perché non ho tenuto il solito diariogiornaliero: volevo le mani libere ed ora sono costretto aricostruire ogni movimento. Siamo verso la fine di agostodell’anno 2005, quando prendiamo il treno per raggiungereRimini. Avevo trovato una cartina dov’era descritta la StradaRomea, da Rimini a Sansepolcro, percorsa già nel Medioevo daipellegrini che si recavano a Roma per il Giubileo. Noi, miamoglie Imelda ed io, intendiamo raggiungere il crinaleappenninico e scendere verso i Monti Sibillini e il Gran Sassod’Italia.

Non spendiamo molto tempo per visitare la bella città diRimini, ma usciamo subito dalla cinta muraria attraverso un arcoe ci incamminiamo verso Ospedaletto. Ci informiamo qui se piùavanti si può trovare alloggio per la notte e ci viene indicato unlocale a Mulazzano, dove arriviamo ben presto, trovando la veraaccoglienza romagnola. Ottima cena e ottima dormita.

Il giorno dopo scendiamo per un viottolo fino a ritrovare ilsegno della “Via Romea”, che corre lungo il torrente Marano, invalle. Saliamo poi verso la Repubblica di San Marino e troviamoun bel cartello “Confine di Stato”. Non ci sono agenti per ilcontrollo dei documenti, così passiamo la dogana senza formalitàe senza esibire il passaporto. Faetano e Montegiardino ci vedonotransitare un po’ faticosamente, perché non abbiamo ancorapreso il passo. Comunque si va avanti e, dopo Cerbaiola, si tornaa calpestare il suolo patrio: siamo nelle Marche. Ci inoltriamoora per sentieri scoscesi e stradicciole di campagna, lasciandofuori i centri più grossi. Superate alcune alture - Monte Bono,Monte Grillo e Monte San Paolo - ci avviciniamo a MonteCerignone, lasciando il sentiero nel bosco, perché piove. Qualcheora dopo, eccoci a Monte Cerignone con la speranza di trovarequalche alloggio. Niente da fare; bisogna arrivare più avanti, aSan Bonaventura. Ma anche lì c’è una locanda già al completo.Troviamo, finalmente, un albergo a Villagrande diMontecopiolo, un po’ fuori dal nostro itinerario.

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Il giorno successivo dobbiamo ripercorrere un buon tratto,fino a Serra Nanni, per ritrovare la strada Romea. Da qui a SanLazzaro il percorso è tutto un belvedere. A rovinarci il panorama,però, ci pensa il temporale, che ci coglie di sorpresa: piove acatinelle e, per metterci l’impermeabile, ci rifugiamo in unafattoria. C’è il fieno e ci sono le vacche, ma non vediamo nessunaltro. Possiamo sostare finché, cessata la pioggia, eccoci dinuovo in cammino per Ponte Cappuccini. Nel piccolo centro c’èuna chiesa dedicata a San Lazzaro con una lapide che ricorda ilpassaggio di Garibaldi con Anita morente, in fuga da Roma.Usciti da questo borgo, notiamo sulla destra la Costa dei Salti,erosa dall’acqua e dal vento e solcata da canaloni privi divegetazione e dilavati dall’acqua, sempre attenti a non scivolarein qualche crepa. Giunti al santuario di San Leo, siamo subito aCarpegna, nostra meta odierna.

Il quarto giorno ci vede in marcia verso Cima di Reggio. Nonci accorgiamo di una deviazione della Romea e, dopo un po’, citroviamo fuori strada. Succede! Consultando la nostra cartina,risaliamo un pendio e ritroviamo il nostro segnale, in alto sulcrinale del colle. Ora vediamo lontano le cime dei monti di SassoSimone e Simoncello, costituiti da rocce cretose e friabili.Notiamo anche dei turisti intenti a salire su queste cime, che noiignoriamo, avendo ben altre mete nelle nostre intenzioni. Intantoil terreno, cretoso e scivoloso, ci costringe a lunghe giravolte peraggirare i profondi solchi scavati dalle acque. Finalmente a CaseBarboni, un piccolo villaggio, possiamo parlare con alcunianziani stanziati in questi luoghi fuori mano. Saputo che siamovicentini, un tale ci racconta di aver fatto il militare di leva aBassano del Grappa e di conoscere bene la zona.

Per evitare una salita al Monte di Scura, seguiamo ora unastrada che attraversa un’altra borgata, Petrella Massana, eritroviamo il nostro sentiero al passo Petrella. Seguiamo ilsentiero in leggera salita fino al Poggio delle Campane e quindi,in leggera discesa, a Cella di San Cristoforo. Attraversiamo lastrada che da Badia Tebalda conduce a Fortino e giungiamo a

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Montefortino e a Ca’ la Checca: si tratta di piccoli gruppi di casesemi-abbandonate con i cortili ancora pieni di antichi attrezzi indisuso. Ora il sentiero compie un ampio giro sul crinale di MonteBello e Poggio della Regina ma noi, per tagliare, ci immettiamonel bosco, seguendo una carrareccia che scompare, lasciandocidisorientati. Volevamo risparmiare tempo e invece ci perdiamonel bosco. Scendiamo allora per un canalone, fino a raggiungereuna strada e qui troviamo due uomini che cercano funghi;finalmente qualcuno ci spiega come arrivare a Montelabreve eall’agriturismo di Caindrea per un meritato riposo.

Senza accorgercene siamo in Toscana, provincia di Arezzo,ma ora dobbiamo raggiungere Parchiule, di nuovo nelle Marche,seguendo una stradina sul fondovalle, lungo il corso del torrenteAuro. Notiamo delle fumarole e vediamo cataste di legna copertedi terra; alcuni abitanti del luogo si danno da fare per tagliare eaccatastare legna che serve, ci spiegano, per fare la carbonella, ocarbone di legna. “Cosa ne fate?” chiedo io. “La vendiamo airistoratori di Rimini che la usano per le grigliate.” Avevo sentitoparlare del carbone di legna, ma non mi era mai capitato divedere della gente che pratica ancora questo antico mestiere.Giunti a Parchiule, abbandoniamo la Strada Romea per seguire lanostra peregrinazione verso altre mete. Ci dirigiamo verso BorgoPace per una strada poco trafficata e arriviamo a Mercatello sulMetauro verso l’ora di mezzodì. Sosta di ristoro e visitaall’ufficio postale per raccogliere un po’ di soldi. Usciti dallacittadina, ci inoltriamo per un sentiero che porta a unagriturismo: Ca’ Luce. Seguendo il sentiero lungo un torrente cialziamo fin sopra Poggio San Leonardo. Siamo in bellaposizione, panoramica, ma ci sono molte stradicciole che nonsappiamo dove conducano: l’incertezza ci accompagna semprefinché passa accanto a noi un tale di corsa. Lo fermiamo perchiedere informazioni e costui ci indica un passaggio attraverso iprati, per raggiungere una carrareccia agricola e uscire, qualchechilometro più avanti, su una strada asfaltata. Superato il MonteAcuto, giù per un prato di erba medica e altri coltivi, cammina e

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cammina, siamo alla Pieve di Graticcioli. E’ un anticomonastero, uno tra i tanti disseminati in questi monti, tra laToscana, l’Umbria e le Marche; ora adattato a casa di soggiornoper villeggianti, dopo essere stato casolare agricolo. E’ un luogoincantato: silenzio da mettere paura e panorami sconfinati. Gliantichi frati sapevano come trovare la quiete e la pace! Ora virisiedono quattro donne tedesche che, mi dicono, hanno requisitoquesto luogo per le loro ferie e si alternano la residenza tra amicie parenti per tutto l’anno. Chiedo se possiamo pernottare anchenoi per questa notte e, avutone il consenso, ci troviamo in unacamera ristrutturata. La sera ci viene portata la cena“All’italiana”, come dice la signora tedesca che ci serve.

È una notte indimenticabile: si sentivano perfino gli spiritialeggiare intorno alla pieve e nel cielo stellato biancheggiava lavia lattea.

Lasciato con rammarico questa pieve incantata, andiamovagabondando per San Martino in Piano, altra pieve circondatadal cimitero, da dove parte un sentiero, il n. 44, che dovrebbeportare ad Apecchio attraverso il bosco. Il sentiero, però, sismarrisce nel fitto degli alberi e noi siamo costretti a ritornaresulla strada e seguire i lunghi tornanti per aggirare una valle. Pernostra fortuna non c’è traffico e il panorama si distende in basso,verso Urbania, sempre gradevole. Finalmente eccoci adApecchio, bella cittadina dove si trova un po’ di tutto: ristorante,albergo, campo di calcio e santuario, come pure i ruderi antichi.E’ ancora presto per fermarci e allora, fatte le nostre scorte dicibo e bevande, riprendiamo la strada contrassegnata con la siglaT5C, che non so cosa voglia dire ma che, comunque, ci conducedove vogliamo andare. Abbiamo abbandonato l’idea di seguire isentieri che, pur contrassegnati in rosso, si perdono regolarmentenei boschi. Costeggiamo un’altura denominata Serra dellaStretta, sul cui crinale corre il sentiero n. 36, fino a raggiungerela località di Acquapartita, svoltando a sinistra, verso Trebbio.Giunti sul far della sera, troviamo il nostro bell’albergo e unapizza per cena. Siamo ai piedi del Monte Nerone, centro turistico

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sia estivo che invernale, alto 1575 metri, attrezzato con impiantidi risalita per sciatori.

Il settimo giorno del nostro cammino, se non erro, ci vede inleggera discesa verso Serravalle di Carda e quindi, costeggiandoil Fiumicello, di nome e di fatto, scendiamo per una serie ditornanti fino a raggiungere Pianello. Di qui passa una strada cheva da Pietralunga a Cagli ed è seguendo questa via che arriviamoal bivio per Moria. Ora siamo in salita lungo una stradina cheattraversa alcune borgate: Calapace, Palcano e Mocale, tutti nomiche dicono poco o nulla, perché si tratta di gruppi di casupole.Più avanti si trova qualche segno di modernità, quando siraggiunge Pontedazzo, località servita da una superstrada e,superata una zona industriale, Cantiano.

E’ un peccato non fermarci in questo bel centro, dove cisarebbe un po’ di tutto, ma è ancora presto. Visitiamo la chiesa ealcuni palazzi storici; ci rifocilliamo e riprendiamo il camminoverso Chiaserna, dove abbiamo saputo che si trova un piccoloalbergo.

A Chiaserna l’albergo c’è, ma alle quattro del pomeriggio nontroviamo nessuno. E’ chiuso sia l’albergo che l’attiguo negoziodi alimentari. Cerchiamo di saperne il motivo e chiediamo in girocome mai sia tutto chiuso. Alcuni rispondono che, forse, i gestorisono in gita o sono in giro per affari. Ci fermiamo in un bar piùavanti e la barista ci dice che l’albergo e il negozio sono dei suoigenitori e che aprirà non prima delle cinque. Meno male, perchésarebbe stata dura tornare a Cantiano, cinque chilometri piùindietro, o proseguire fino a chissà dove per trovare un altroposto. Ci fermiamo al bar, facciamo merenda e, alle cinque,torniamo all’albergo, finalmente aperto. Purtroppo il nostromodo di viaggiare non ci concede mai nessuna certezza. Dicopurtroppo, ma è anche piacevole vivere nella incertezza e nellacontinua ricerca di un sentiero, di una strada o di un posto per lanotte: la vita non è più vita, se tutto viene stabilito a priori. Avolte compiango quei vacanzieri che si affidano ad una agenziaper avere un viaggio organizzato, quasi come fosse un funerale.

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Abbandonata l’idea di seguire sentieri inaffidabili,riprendiamo il nostro cammino lungo la strada che aggira ilmonte Forcello seguendo il Fosso delle Gorge fino a Valdorbia.Giriamo a destra per raggiungere Scheggia, cittadina pocolontana da Gubbio. Ora ci conviene abbandonare la strada perseguire il sentiero E1, molto ben segnato, e innalzarci lungo laCosta San Savino fino a superare i mille metri, dove si trovanomandrie al pascolo e greggi e pastori o bovari. Un cervo pascolatra le mucche e il bovaro ci spiega che ad ogni stagione dialpeggio il cervo esce dal bosco e si aggrega alle mucche. Siamoal Pian di Spilli e intendiamo raggiungere un rifugio nei pressi diMonte Cucco, abbandonando il sentiero E1 e seguendone unaltro in mezzo al bosco. Imelda ha paura: teme che ci perdiamo.E infatti, inoltrandoci nel bosco, i segni diventano sempre piùlabili. Però ci raggiungono delle voci e subito dopo incontriamodei villeggianti, segno che non siamo lontani da luoghifrequentati; in breve siamo all’albergo da Tobia, locale spartanoche ci ospita per la notte.

Il nono giorno ci trova incerti sul da farsi: o raggiungereMonte Maggio, dove si trova un locale per turisti, o scendere aFabriano e fermarsi in questa bella e importante città delleMarche. Optiamo per quest’ultima meta, perché ci avvertono cheal Monte Maggio il locale è chiuso. Seguendo il crinaleappenninico, che scende dai milleduecento del Montarone aimillecento del monte Pratiozzo, prendiamo a sinistra la stradinaper Bastia, dove ci concediamo una breve sosta, e raggiungiamoFabriano attraversando la zona industriale, molto trafficata.Fabriano merita una bella sosta per visitare i notevoli monumentimedievali, restaurati dopo il terremoto che sconvolse queste zonenon molti anni fa, quando anche Assisi, Gualdo Tadino eCamerino subirono ingenti danni.

L’albergatrice, saputo che siamo arrivati a piedi da Rimini, ciconcede un bello sconto e ci fa gli auguri di buonacontinuazione. Siamo al decimo giorno di cammino e dobbiamoseguire un percorso contorto e in continuo saliscendi, per

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superare i torrenti che scendono dal crinale appenninico.Arriviamo così a Collamato e scendiamo di nuovo versoEsanatoglia. Lasciando Matelica alla nostra sinistra, ci dirigiamoora per Fiuminata, località in cui si trova anche un piccoloalbergo, come ci viene segnalato da un locandiere lungo la via.

Il mattino seguente ci vede costeggiare il fiume Potenza fino aPioraco, dove attraversiamo un ponte e raggiungiamo Seppio.Seguendo una carrareccia tra i prati, ci troviamo in vista diCamerino, città storica e sede universitaria. Fatichiamo in salitaper raggiungere la cittadina, arroccata sopra un colle come Todi,Assisi, Gubbio e tantissime località dell’Umbria, della Toscana edelle Marche. Anche se non ci fermiamo qui, almeno un paiod’ore le dobbiamo spendere per visitare la basilica e la sedeuniversitaria. Si notano ancora i danni del terremoto, ma si vedeche molto è stato fatto per riportare all’antico splendore questoimportante centro. Un tale, che ci vede curiosi e perplessi, civiene a raccontare un po’ di storia, precisando che Camerinovenne fondata prima di Roma; ci invita anche a passare da casasua a qualche chilometro dal centro, ma noi dobbiamo declinarel’invito perché ci aspetta ancora molta strada. Scendiamo oranella valletta del Rio di San Luca fino a Sfercia, per dirigerciverso Polverino, dove troviamo sistemazione presso unagriturismo.

Siamo al primo giorno di settembre e al dodicesimo del nostroandare a piedi, quando ci dirigiamo verso una meta sognata tantevolte: i monti Sibillini. Passato un ponte sul fiume Chienti, c’èun bivio con due strade dirette entrambe a Fiastra. Noiprendiamo la più disagevole per camminare tranquilli, senzatraffico. Incontriamo alcuni borghi semi-abbandonati: Moregine,San Martino e Bolognesi; prima di arrivare a Collesanto sull’oradi mezzogiorno. Ci prendiamo del pane e della frutta nell’uniconegozio del piccolo paese, dove è aperto anche l’ufficio postale,e consumiamo il nostro solito pranzo sulla panchina osservando,sotto di noi, il lago di Fiastra. Per evitare la strada, scendiamoattraverso gli orti, fino a raggiungere il lungolago. Il sentiero,

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disagiato, compie tante giravolte per seguire la costa ed eccoci,finalmente, a San Lorenzo. Qui ci sarebbe un posto in cuifermarsi, ma è ancora presto e quindi ce ne andiamo versoBolognola, passando per Acquacanina, anche questo bel centroantico, dove non si manca di fare qualche foto. Ancora un paiod’ore di cammino e siamo a Bolognola, certi di trovare alloggionell’albergo Bucaneve, indicato anche nella nostra cartina.L’albergo è aperto, ma non si vede nessuno. Aspettiamo,proviamo a suonare il campanello, ma nessuno si fa vivo.Chiediamo allora al vicino ufficio del parco e l’impiegata cispiega che l’albergo è chiuso. “E’ stato chiuso ieri, ultimo giornodi agosto e ultimo giorno di stagione turistica”, ci dice.Dobbiamo salire a Pintura di Bolognola, quattro chilometri piùavanti, per trovare, finalmente, una pensione aperta eaccogliente. Il locale si trova ad una quota di millecinquecentometri ed è frequentato da una compagnia di studenti delconservatorio di Milano. Si mangia bene: risotto coi funghiraccolti nei dintorni e altre prelibatezze, che mi riempiono lostomaco come da tempo non succedeva. La sorpresa viene almattino, dopo colazione, quando il gestore ci chiede in tuttocinquanta euro per cena, pernottamento e tutto il resto per duepersone. Spero di tornare ancora in questa simpatica località.

Oggi partiamo già dai milletrecento di quota per uno sterratoche si eleva pian piano, fino a raggiungere il rifugio del Farno aquota 1811 m. Il rifugio è chiuso per fine stagione, anche se sivedono molti turisti girovagare per queste montagne; quindiproseguiamo per il solito sentiero sterrato, mantenendo la quota.Vedo volteggiare in alto alcune aquile e cerco di fotografarle. Lamia macchina, però, non è adatta per questo tipo di riprese, tantoche nelle foto appaiono poco più che due puntini. Ci sarebbe unsentiero per scendere velocemente a Ussita, ma Imelda teme checi perdiamo. Scendiamo per la solita strada sterrata, più comodae più rilassante, fino ad arrivare a Casali, minuscolo centroservito di una pensione. La pensione è al completo e non ci puòricevere; non ci resta che proseguire fino a Ussita, bella cittadina

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turistica prossima a Visso, ed è qui che troviamo da pernottare. Oggi dobbiamo ricuperare quota e fare una lunga camminata

per raggiungere Castelluccio, come ci è stato consigliato, o altrameta; staremo a vedere. Intanto ci innalziamo fino alla stazionedella seggiovia del Bove. Prendiamo questo mezzo per superareun dislivello di seicento metri e portarci a quota duemila; cidirigiamo verso la cima del monte Bove e, ivi giunti, ciaccorgiamo che il nostro sentiero corre più in basso; scendiamolungo la scarpata, con il pericolo di prendere una storta, e siamoal Passo Cattivo. Facciamo una sosta per ammirare intorno ilmeraviglioso paesaggio montano e per parlare con alcuni ciclisti,giunti da Rubbiano per una stradina sterrata. Percorriamo ora unsentiero che corre sul crinale in magnifica posizione panoramica.Le cime intorno si chiamano Pizzo Berro, Monte Sibilla e MontePorche, sotto la cui cima passiamo per raggiungere PalazzoBorghese: è così chiamato un luogo in cui troneggiano dueroccioni caratteristici, avvolti dalle nuvole, che somigliano a unaimponente costruzione. C’è dell’altra gente in questo posto e cirivolgiamo a loro per avere qualche consiglio su comeproseguire. Loro consigliano Castelluccio, ma io intendo andareper un’altra via e arrivare, possibilmente, al Monte Vettore. Nontengo conto delle proteste di Imelda e insieme ci avviamo per unsentiero che segue il crinale dei monti. A un certo punto, inprossimità di Casaletto, vediamo due escursionisti intenti aprendere misure. Sono del club alpino di Perugia e ci dicono chestanno segnando ora il sentiero. Ci chiedono da dove arriviamo eper quale via intendiamo proseguire, visto che la segnaletica èfresca di vernice. Avuto alcuni consigli, ci dirigiamo verso ForcaViola, passando accanto alla Fonte delle Fate, dove troviamoacqua potabile. Giunti a quest’altro passetto, il tempo si starannuvolando e la visuale è molto limitata. Gli ultimi turisti cheincontriamo ci chiedono dove stiamo andando con quel tempo,ma ormai io sono deciso a raggiungere i laghetti di Pilato,proprio sotto il Pizzo del Diavolo. Imelda è presa dalla tremarellae io non capisco: ci troviamo in un posto meraviglioso,

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circondati dal mistero, con nuvole incombenti che minacciano dirovesciarci addosso il diluvio e lei ha paura. I laghetti di Pilatosono deserti perché l’ultimo turista è scappato, ma questo non ciimpedisce di fare una sosta per una merendina e proseguire lungoun sentiero erto e scabroso. Finalmente usciamo in alto su unpianoro, dove pascola un gregge. Ci fermiamo a parlare con ilpastore e osservare tutt’intorno il prato pieno di stelle alpine. Ilpastore chiede: “Stelle alpine? Cosa sono? Queste per me sonoerbe infestanti, non buone per il pascolo”. Passato l’incubo, cifacciamo alcune foto con il pastore e le pecore, ammirando lacima del Monte Vettore, la più alta dei Sibillini e ci avviamo indiscesa per raggiungere il rifugio degli alpini, settecento metripiù in basso. Lungo la discesa incontriamo alcuni escursionistiche intendono passare la notte sul monte Vettore, all’aperto. Noitroviamo alloggio nel rifugio gestito dall’ANA, a quotamillecinquecento metri, affollato di amanti della montagna.

Superati i monti Sibillini, riprendiamo in discesa per unastrada sterrata, percorsa da pedoni e da ciclisti, e arriviamo aduna località piena di alberghi. Ci fermiamo solo per un caffè eripartiamo con l’intento di raggiungere Accumoli, sulla stradaper Amatrice, ma il nostro senso dell’orientamento ci fa prendereuna strada sbagliata. Non ce ne accorgiamo subito, ma soloquando siamo avanti, sulla strada che scende ad Arquata delTronto. Seguendo il susseguirsi dei tornanti arriviamo nelpaesino di Capodacqua e decidiamo, già che ci siamo, di arrivaread Arquata del Tronto, passando per Pescara del Tronto eVezzano del Tronto, seguendo, naturalmente, il corso del fiumeTronto. Ad Arquata chiediamo se ci sia un albergo, ma qualcunoci dice che dobbiamo fare ancora molta strada. Imelda siarrabbia, dicendo che la sto portando in luoghi pessimi e fuoridal mondo. Non è vero, perché troviamo alloggio in un locale aun chilometro di distanza: per gli abitanti del luogo fare unchilometro a piedi è già un’impresa! L’albergo Regina Giovannaci accoglie volentieri e ci permette, smessi i nostri zaini, divisitare la bella cittadina. Ricordo solo la chiesa antica, dov’era

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esposto un artistico crocifisso del 1200 e rimpiango di nonessermi fermato più a lungo in questa magica località.

Il giorno seguente, accortici di avere fatto molta strada aritroso, allontanandoci dalla nostra meta e per evitare di ripeterela strada già fatta, cerchiamo un mezzo pubblico che ci riporti,almeno, ad Accumoli. Succedono cose strane: saputo in giro chedue avventurieri a piedi se ne vanno per queste contrade, tutti siavvicinano per darci consigli, per metterci sull’avviso ondeevitare i pericoli, apprezzando il nostro coraggio. Qualcuno haavvertito il conducente del bus che due viaggiatori lo aspettano, equesti si ferma davanti all’albergo, invitandoci a salire. Nonpossiamo rinunciare, tanto che in breve tempo siamo adAccumoli, giusto la località dove saremmo dovuti arrivare ieri.Ringraziamo l’autista e ci avviamo per la destinazione odierna,Amatrice, percorrendo una strada secondaria che interseca piùvolte la superstrada Ascoli-Rieti. Giunti ad Amatrice, cerchiamoun locale dove pernottare, anche per depositare i nostri zaini evisitare la città che ha dato il nome a un famoso piatto dipastasciutta. Lungo il corso principale si trovano negozi enegozietti pieni di cianfrusaglie; ma la cosa che più ci colpisce èun funerale. Deve essere morto un pezzo grosso del luogo,perché vediamo avanzare per la via del centro un carro funebretrainato da quattro cavalli e seguito dalla banda locale con gliottoni lucidi. Tutti i negozi abbassano persiane e saracinesche enoi ci rifugiamo in un locale, in attesa che passi il corteo. Non hoil coraggio di fotografare il funerale che, invece, lo avrebbemeritato. Dopo questa manifestazione, non folcloristica maautentica, ce ne andiamo a cercare il sentiero Italia, che è anche ilnostro, e rientriamo all’ora della pastasciutta. All’amatriciana.

Il sentiero Italia passa da qui e corre lungo il fiume Tronto.Giunti a Fiumatello, perdiamo i segni del sentiero. Ci convieneseguire la strada, poco praticata, attraverso un ponte sul fiume,per giungere in breve a Cornillo Nuovo e prendere informazionidagli abitanti del luogo. Qualcuno ci consiglia una stradina chescende di nuovo verso il fiume, attraversato il quale si trova il

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sentiero Italia sulla destra. Così facciamo e ora ci innalziamosulle pendici del monte Gorzano: l’andare è piacevole, anche sela segnaletica lascia a desiderare: si alternano boschi e prati.Incontriamo anche una mandria di cavalli al pascolo sul PratoGrande. Il sentiero si fa incerto, tanto che, a un bivio, nonsappiamo da che parte andare. Intanto sentiamo alcuni spari. Lastagione della caccia non è ancora aperta, ma si vede chequalcuno, qualche bracconiere, non rispetta le regole. Intantoesce dal bosco un tale, subito seguito da un amico, per chiedercidove stiamo andando. Spiego che siamo diretti a Campotosto equesti gentilmente ci spiega come proseguire: “Troverete unachiusa; dovete tenere la destra… e via dicendo”. Forse erano loroi bracconieri. Intanto siamo arrivati alla sorgente del Tronto, insecca nel periodo estivo, e ci avviamo a superare una piccolaaltura, oltre la quale si vede apparire il lago di Campotosto.Questo ci conforta e ci rallegra, ma non è finita. A un bivioprendiamo ancora la strada sbagliata perché il cartello che indicala via è stato manomesso, forse apposta, da chi non vuoleforestieri. Comunque, gira e rigira, siamo infine a Campotosto.In una delle prime case sentiamo dei rumori ritmici e, incuriositi,mettiamo dentro la testa e vediamo una filanda artigianale.Alcune donne stanno lavorando al telaio e ne traggono bellissimimanufatti in lino e cotone. “Lavoriamo per i turisti chefrequentano il lago e i dintorni”, ci spiegano. Anche a noipiacerebbe prendere qualche capo, ma il nostro zaino non ce lopermette. Ci ripromettiamo di tornare da queste parti in altraoccasione e intanto andiamo a cercare un posto per la notte.Troviamo una cameretta poco lontano e il gestore ci indica ancheil posto auto. “Non abbiamo auto, siamo qui a piedi da Rimini eintendiamo proseguire, almeno fino al Gran Sasso”. “Non avetepaura di andare per luoghi sconosciuti, dove si possonoincontrare lupi, bracconieri o malintenzionati?” E’ come metterepaglia sul fuoco: Imelda si spaventa ancora di più e, qualchevolta, mi fa arrabbiare.

Lasciato Campotosto, ce ne andiamo per una strada

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panoramica sopra il lago, lasciando a lato, in alto sopra di noi, unresidence turistico chiamato “Saint Andrew”, frequentato daturisti inglesi o anglofoni, visto il nome. Siamo arrivati, intanto,al limite orientale del lago, che ha la forma di una V, con ilvertice rivolto a Est e le estremità ad ovest. Aggirato il vertice,notiamo un albergo, non segnato nella mia cartina, dove parteanche una strada per Ortolano, una località più in basso, sulfiume Vomano. Risaliamo ora verso il laghetto di Provvidenza,da dove parte un sentiero che porta al Gran Sasso. Gliavvertimenti degli abitanti e il tempo incerto ci consigliano diproseguire per la strada, seguendo il corso del Vomano, fino araggiungere la località di Varco delle Capannelle, una decina dichilometri più avanti. Percorriamo ora una bellissima stradapanoramica, fiancheggiante il massiccio del Gran Sasso. Ilpaesaggio è stupendo, anche se i prati sembrano aridi permancanza di piogge. Pascolano greggi e mandrie di bovini,segno che non è del tutto arido quel terreno sparso di secchiarbusti. Un tale in auto ci chiede se abbiamo bisogno di unpassaggio, ma noi rifiutiamo. Il camminare è così piacevole e lastrada comoda che non sentiamo alcuna fretta di arrivare. Intantoil tempo passa e la strada mai non finisce. L’altro tempo, iltemporale, irrompe improvvisamente con tuoni e fulmini, tantoda coglierci impreparati. Avvistiamo un paesino poco lontano ecorriamo a rifugiarci in qualche abitazione. Tutte le porte sonochiuse. Perfino la chiesa, chiesa di San Pietro, come vediamoscritto su una lapide, è chiusa. Non ci resta che tirar fuori ilnostro impermeabile addossati al muro e quando, alla fine,riusciamo a infilarlo, siamo già tutti fradici di pioggia. Assergidista sì e no cinque chilometri, che percorriamo lungo il ritrovatosentiero Italia, con i piedi immersi nel fango. Si entra nellacittadina ai piedi del Gran Sasso per alcune viuzze, fiancheggiateda casupole semi-abbandonate, per arrivare all’albergo sullastrada, in alto. L’albergatrice ci accoglie con l’espressione:“Forse avete bisogno di una doccia!”. Ben venga la doccia, lacena e il letto, dopo una giornata così lunga e piena di imprevisti.

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E’ l’otto di settembre e ci sarebbe da raggiungere la cima delGran Sasso, ma il tempo non è buono. Promette pioggia e in altole cime dei monti sono coperte. Meglio rinunciare: inutile saliresu un monte solo per lo sfizio di dire “Ci siamo stati” e nongodere di nessuna vista. Capiterà un’altra volta, speriamo.Scendiamo quindi verso L’Aquila, seguendo una strada sul fondodella Valle Verde. Notiamo un gruppo di scalatori intenti adarrampicarsi sugli speroni rocciosi che fiancheggiano la valle ene ricaviamo alcune fotografie. Attraversiamo Camarda, unacittadina montana e scendiamo a Paganica, importante centroprossimo a L’Aquila. A Tempera troviamo di che ristorarci neigiardini attraversati dal fiume Vera e ci avviciniamo all’auto-strada, che si vede in alto, percorsa da una fila interminabile diautomezzi, fermi e immobili per chissà quale inghippo. Allasorgente Finocchio ci riforniamo di acqua e, un po’ più avanti,vediamo il cartello “L’Aquila”, davanti al quale ci facciamoritrarre da un passante. Arrivati in centro città, non ci resta chetrovare alloggio e depositare i nostri zaini, per uscire e visitare labella città. Non saprei descrivere L’Aquila più di tanto. Nei mieiricordi ci sono alcune chiese: San Francesco, il Duomo e unagrande piazza nel centro, dove c’è anche il nostro albergo.Ritenendo concluso il nostro viaggio a piedi, ci dirigiamo versola stazione per prendere visione degli orari. Ci divertiamo lungoil tapis roulant, che dal centro della città porta fino alla stazionedelle corriere. E’ nostra intenzione tornare a casa fino a Pescaracon l’autobus e quindi il treno per il resto del viaggio di ritorno.

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MARIENPLATZ - 2006Marienplatz – Monaco di BavieraAlpi, colli, laghi – Km. 600 gg. 23

L’unica vera prigione è la paura; e l’unica vera libertà è lalibertà dalla paura.

Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace 1991.

Nessuno in Italia vuole correre rischi. E’ un paeseconformista. Che si è ormai seduto sulle poltrone che occupa.Non ha grandi visioni né del futuro né del presente. Diciamo chesostanzialmente è un paese che tira a non perdere il posto.

Giovanni Sartori

Non avete paura a girare in questo modo? – E’ la domandapiù ricorrente che ci sentiamo rivolgere. Qualche volta cipensiamo, ma siamo protetti. “Il nostro angelo c’è”.

Osvaldo Benetti

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Quando è il momento di progettare il nuovo viaggio diquest’anno, veniamo a sapere che è appena stata inaugurata lapista ciclabile da Monaco di Baviera a Venezia. Ci viene cosìl’idea di percorrere a piedi lo stesso itinerario. Ma con unavariante. La pista ciclabile è sicuramente bella, però si snoda inbasso, nel fondo valle, mentre a piedi si può salire là in alto, sulleDolomiti. Considerate tra le più belle montagne del mondo.

Eccoci dunque qui, a Breganze, con lo zaino in spalla,domenica 20 agosto 2006: comincia la nostra ennesimaavventura. Tra Breganze e Fara Vicentino infiliamo la valle delChiavone, allietata dal fresco gorgogliare delle acque. Superatala strada del Tajarolo, che unisce Fara Vicentino a Salcedo,proseguiamo fino a un piccolo ponte, restaurato di recente, cheanticamente collegava le medesime comunità di Fara e Salcedo.Ora comincia la salita tra i verdi prati, in parte falciati, che ciporta presso un agriturismo sulla strada per Val di Sotto, lacontrada dei molini, ricca di acque. Il percorso si infila poiattraverso alcune vecchie contrade ed esce a Valle di Sopra. Daqui raggiungiamo Madonna del Covolo per un’antica viaselciata, rimasta miracolosamente intatta. Siamo nel comune diLusiana e quindi già in Altopiano di Asiago. Troviamo qui lasegnaletica CAI (Club Alpino Italiano) ed è seguendo il sentieron. 874 che raggiungiamo le contrade più alte, Perpiana eMarziele, per uscire all’osteria al Ristoro. Ancora un po’ di faticae siamo a monte Corno, nostra vecchia conoscenza. Si scendeadesso per una strada militare nella valletta di Granezza diGallio, per uscire al Turcio. Si incontra qui la strada che risale daBassano e da Marostica, per raggiungere Asiago, da una parte, eGallio dall’altra. Noi proseguiamo per Gallio, ma ci fermiamoprima, all’ostello Ekar: abbiamo già percorso una trentina dichilometri ed è tempo di sosta.

Lunedì 21 agosto, la colazione è buonissima e in più(meraviglia!) possiamo acquistare formaggio stravecchio da unrivenditore piazzato davanti all’ostello.

Ci incamminiamo verso Gallio per risalire il sentiero 850,

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dapprima ripido e panoramico, poi più dolce, quando siamo allamalga Longara di Dentro. Ora camminiamo quasi in piano inposizione panoramica: alla nostra destra, in basso, si nota lastrada per Campomulo e a sinistra la valle di Nos e le alture diMonte Zebio. Non ci perdiamo l’occasione di fotografare unalapide a ricordo di una visita fatta a questi luoghi da papaGiovanni Paolo II. Più avanti troviamo malga Fiaretta, dove cifermiamo a scambiare quattro chiacchiere con un gruppo digitanti. Giunti a malga Fiara, dove arriva la strada sterrataproveniente da Campomulo, troviamo un gruppo di ciclisti insosta e ci fermiamo anche noi per una pausa di ristoro. La sosta èmolto breve, giusto il tempo per mangiare un panino. Scendiamoora lungo la strada sterrata che porta all’Ortigara, frequentata daautomezzi zigzaganti tra le buche. Per nostra fortuna, svoltiamosubito sulla destra, verso il basso, per raggiungere RifugioBarricata, dove intendiamo pernottare. Sorpresa! Il rifugio non èagibile, perché si sta lavorando al suo restauro. Dobbiamo alloracercare un altro posto per la notte e decidiamo di ritornare versol’albergo Marcesina, alcuni chilometri da qui, il che significaun’altra ora di cammino, ma non c’è alternativa. Troviamol’albergo pieno di cercatori e raccoglitori di funghi che stannoprenotando la licenza, ma troviamo anche la nostra camera e unabuona cena, forse un po’ cara, ma molto gradita.

Martedì 22 agosto, scendiamo verso la valle del Brenta,percorrendo dapprima una strada montana e prendendo poi unsentiero che scende a Grigno, località sulla valle del Brenta. Ilsentiero presenta dei passaggi difficili, ma è ben tenuto, constretti ponticelli per superare alcuni canaloni scivolosi.Incontriamo anche un giovane ricercatore che, ci spiega, stafacendo uno studio sulle antiche vie per raggiungere l’altopianodalla valle del Brenta. Giunti a Grigno sull’ora di mezzodì, ciriforniamo di soldi presso l’ufficio postale e di viveri in unsupermercato. La nostra meta odierna è Castel Tesino e quindi ciincamminiamo lungo la strada. Non vorremmo ripetere l’errorefatto altre volte per raggiungere Cinte Tesino, quando ci siamo

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trovati in difficoltà sulla parete franata insieme a un tratto disentiero. Per la strada passa qualche auto, ma si procedeagevolmente. Su questa salita incontriamo anche uno stranomezzo: visto davanti sembra una moto guidata da un barbuto concappellaccio, mentre la parte posteriore poggia su due ruote, conun baldacchino su cui troneggia una signora bionda con occhiali!Ce ne sono di tipi ben più strani di noi!

D’improvviso mi fermo perché non vedo più Imelda dietro dime. La trovo che si è fermata a chiacchierare con una donna.Andando a piedi, come facciamo noi, succede spesso che siincontrino abitanti del luogo incuriositi nel vedere duegiovanotti… maturi con lo zaino che se ne vanno a zonzo. Sonocuriosi di sapere da dove veniamo e dove intendiamo andare.Non vi dico l’espressione sul loro viso quando sentono parlare diMonaco: Monaco di Baviera, si intende! Giunti a Castel Tesino,troviamo aperto l’ufficio turistico, che ci indirizza versol’albergo più adatto alle nostre esigenze.

Mercoledì 23 agosto ci avviamo verso Pieve Tesino, dapprimain discesa fino a 800 metri di quota e quindi in salita, lungo iltorrente Strigno. Siamo ora in Val Malene. Più avanti la valle sibiforca: a sinistra verso Malga Sorgazza, a destra verso ValTolvà. Noi prendiamo a destra, attraverso un campeggio digiovani, per raggiungere una malga con acqua sorgiva epanchine. E’ un bel posto di ristoro, tanto più che il malgaro, ungiovane romeno, ci offre anche il caffè. Il giovane ci mostra lafoto della figlioletta, lasciata in Romania con la moglie, mentrelui viene a servizio in queste malghe durante l’estate. Loascoltiamo con interesse parlare della sua vita, mentre ricordacon nostalgia la famiglia e gli amici lasciati nella sua patrialontana. Risaliamo ora la valle che culmina al passo Val Regana,sopra i 2000 metri, e incontriamo qui altri escursionisti, chescendono da Cima d’Asta. Anche con questi ci si scambianoinformazioni: “Dove siete diretti?” ci chiedono e, saputolo,sgranano gli occhi e ci fanno mille auguri. Scendiamo per la valRegana, conosciuta e percorsa già parecchie volte, sia con il bel

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tempo che con la pioggia. Il sentiero, dapprima scoperto, siinoltra più avanti nel bosco, sempre radente il torrente, per uscirein una strada sterrata che serve al trasporto dei tronchi. Si giungequindi alla chiesetta del Pront, sulla strada che sale da Caoria perarrivare a Refavaie. Al ponte di Refavaie, sul torrente Vanoi,incontriamo il nostro amico Corrado. Prendo la macchinafotografica e lo ritraggo mentre, ignaro, sta per andare a funghi.Troviamo qui anche le nostre vecchie conoscenze: Paolo eMarina, i gestori del rifugio, Elena e Pinky, moglie e figlia diCorrado, e tanti altri amici, conosciuti durante le ferie estive perun periodo di almeno dieci anni. La sera, a cena, ci chiedonodove intendiamo arrivare in quelle condizioni e noi, sempre unpo’ perplessi, diciamo qual è la nostra meta finale, ma che siamopreparati anche a fermarci in qualsiasi momento, se sopravven-gono difficoltà. Per domani, intanto, la nostra meta è Bellamonte,in val di Fiemme.

Il mattino del 24 agosto salutiamo e ci incamminiamo per ilsolito sentiero che risale la valle del Coldosé. Ci si arrampicasubito per un acciottolato, fino a sbucare, presso un capitello, suuna strada sterrata, usata da camion carichi di tronchi e dacercatori di funghi, spesso in auto. Un’ora dopo si arriva a unbivio: a destra per malga Fossernica, a sinistra per i boschi delColdosé. Questi luoghi erano, un tempo, occupati da prati emalghe, mentre ora si vedono solo giovani abeti, cresciuti da unatrentina di anni Più avanti si trova l’insegna del sentiero 339,che si inoltra in un bosco di alberi secolari, a volte ripido, a voltequasi pianeggiante, per uscire tra i mughi, verso i 1900 di quota.Il panorama si fa sempre più ampio, fino a raggiungere ilmassimo belvedere ai 2200 metri del Coldosé. E qui ciconcediamo una sosta per ammirare le lontane Dolomiti.Possiamo individuare il gruppo del Sella, la Marmolada, ilLatemar e altri famosi gruppi dolomitici più lontani. Si odonosolo le grida delle marmotte, disturbate dalla nostra presenza. E’davvero un luogo incantevole! Eppure in queste meravigliosemontagne incontriamo rari escursionisti: meglio così, troveremo

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gente dove possono arrivare le macchine. Scendiamo verso illago delle Trote, per risalire una mulattiera militare, costruitadagli Austriaci durante la Grande Guerra. E’ una bella stradalastricata con pietre di porfido, molto regolare, ma interrotta avolte da frane. Ora scendiamo verso il laghetto Moregna, altropittoresco specchio d’acqua, e ci avviamo verso malgaValmaggiore, sul versante della valle di Fiemme. Il posto èaffollato di turisti, però giunti in auto. Ormai sappiamo comestanno le cose: dove arriva la carrozzabile si trova un sacco digente e, dove non arriva, si gode la solitudine. Intanto siamovicini a Bellamonte ed è tutto pieno l’albergo che ci era statoindicato. Troviamo però un’ottima sistemazione in centro, pressol’Albergo Antico. Siamo serviti da camerieri in costume,godiamo di un trattamento speciale e non paghiamo più di tanto.Alla sera assistiamo ad una festa folcloristica dei pompieri,pardon, vigili del fuoco! Insomma, è proprio una seratadivertente.

Venerdì 25 ci aspetta una nuova salita. Faremo il conto allafine di quanto siamo saliti e di quanto siamo discesi in tuttaquesta scarpinata. Raggiunto il passo di Lusia ci dilettiamo afotografare un tronco antico artisticamente scalpellato. Troviamociclisti e gente a cavallo. Il posto è una meraviglia, e sullo sfondorimane costante il gruppo del Catinaccio. Scendiamo per unaripida stradicciola e siamo presto, verso le ore quattordici, aMoena. Ci verrebbe voglia di proseguire, ma ci gradirebbe anchevisitare la graziosa cittadina. Decidiamo così di fermarci etroviamo alloggio presso l’Hotel Ancora, anche perché dobbiamofar riposare le nostre gambe travagliate da tante salite e discese.Chi non è abituato a camminare, forse non sa che, per le gambe,la discesa è peggiore della salita!

Sabato 26 agosto ci rivede in salita. Il sentiero 519 ci conduceal passo Costalunga, a quota 1745 metri. Non è finita, dobbiamosalire ancora verso il rifugio Roda De Vael a m. 2280. Qui, però,non ci fermiamo perché intendiamo raggiungere il Vajolet, unposto sempre sognato, una delle più belle guglie dolomitiche.

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Seguendo il sentiero, ora coperto di neve, attenti a non scivolaree prendendo spesso foto dei paesaggi, arriviamo al Vajoletquando è ormai tardi. Il gestore del rifugio, scherzando, dice chec’è posto solo per una persona; l’altro dovrà stare all’aperto.Invece troviamo una buona accoglienza e una buona cena, incompagnia di una famigliola di turisti padovani. “siamo arrivatiin auto fino a Vigo di Fassa, siamo saliti con la funivia ed eccociqui. Domani faremo il passo Antermoia e torneremo a Vigo. Voi,dove avete la macchina?” ci chiedono. “A casa” rispondo io.“Ma qui con che mezzi siete arrivati?” torna a insistere il nostrointerlocutore. “Con gli scarponi”. Concludo io. Dopo qualchesonora risata, siamo tutti nelle nostre brande per una dormitaristoratrice, anche se fuori tuona e lampeggia.

Al mattino del 27 ci alziamo tardi e i nostri conoscenti sonogià partiti. Zaino in spalla ci avviamo in salita e troviamo laneve. Durante la notte, al Vajolet pioveva, ma più in alto cadevala neve. Al rifugio Principe, metri 2600, c’è già parecchia neve.Dobbiamo salire verso l’Antermoia, 200 metri più in alto. A ognipasso si rischia di scivolare, tanto che una comitiva di giovani fadietro front e non si arrischia a proseguire. Seguiamo le orme dichi è passato prima di noi e, pian piano, arriviamo al passo, quota2800 metri. E’ un paesaggio fantastico: neve e roccia. Fa freddocon il nostro abbigliamento estivo e quindi ci affrettiamo indiscesa, verso località in basso. Arrivati al rifugio Antermoia, cifermiamo per un ristoro e per riscaldarci. Le mani sono gelate emi dà noia anche usare la macchina fotografica. Abbassandociancora, arriviamo a delle praterie, dove pascolano mucche ebufale. Si scende ancora per una mulattiera fino alla malgaMicheluzzi, 1860 m. di quota, per risalire verso le pendici delSassopiatto e fermarsi al rifugio omonimo, metri 2300.

Il lunedì 28 ci vede aggirare il Sassopiatto per un magnificosentiero in quota, avendo di fronte lo Sciliar e l’Alpe di Siusi e,più in basso, la val Gardena. Aggiriamo anche il Sassolungo,lasciando sulla destra in alto il rifugio Vicenza, incastrato tra idue Sassi, sempre mantenendo la quota di 2000 m., per scendere

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ora a Santa Cristina di Val Gardena. In questa graziosa cittadinafacciamo alcune spese: una pila, una ricarica per la macchinafotografica e qualcosa da mettere sotto i denti. Ci avviamo quindiin salita per raggiungere il rifugio Firenze o Regensburger Hütte,secondo la lingua che si usa da queste parti. E’ un postomeraviglioso, con la corona delle Odle sullo sfondo e un pratopieno di animali e di bambini intenti al gioco.

Martedì 29 agosto partiamo in salita. Dai duemila del rifugiosi raggiunge la forcella De Roa a 2620 m. di quota. Passa da quil’alta via n.2 delle Dolomiti, già percorsa qualche anno fa conMariano. Questa volta andiamo a ritroso, sempre in posizionepanoramica, ancora una vallata dove pascolano cavalli lungo ilsentiero. Imelda ha paura e quindi giriamo al largo e finalmentesi arriva alla forcella di Furcia, per scendere al rifugio Genova,pieno di gente fino all’inverosimile. Dobbiamo pazientareparecchio per essere serviti ma, alla fine, sorbiamo il nostro caffèe ce ne andiamo per la Forcella de Putia e al passo Rodella,fermandoci al Halse Hütte, gestito dalla famiglia Messner.

Mercoledì 30 agosto fa freddo: sui tavoli all’aperto c’è ilghiaccio e la brina bianca sull’erba. Torniamo a salire per unastrada forestale che, stranamente, non conduce da nessuna parte.Imelda vorrebbe tornare indietro, ma io insisto per tagliareattraverso il bosco perché, consultando la mappa, vedo che ilsentiero sta più in alto. Usciti finalmente sul sentiero, che portal’insegna del triangolino con il numero 2 “Alta Via Dolomitica n.2”, siamo sulla strada giusta per arrivare alla Valcroce, dovearriva la seggiovia da Sant’Andrea di Bressanone. Ci lusinga,però, un percorso alternativo che, passando per alcuni piccolivillaggi, aggira il Giogobello e arriva a Sant’Andrea evitando lafunivia. Il cammino è piuttosto lungo, ma sempre panoramico.Sulla nostra sinistra le Odle di Eores e, più in basso, la valle diFunes. Davanti la vallata dell’Isarco e la città di Brixen. Hoscritto Brixen, e non Bressanone, per consumare menoinchiostro. Intanto il nostro sentiero ci porta sotto la funivia, unpo’ di qua e un po’ di là, fino a sbucare in un prato e al villaggio

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di Sant’Andrea.Non ci resta che raggiungere il fondo valle per una via

pedonale che compie un lungo giro, per entrare a Brixen dal latosud. Cerchiamo ora un posto per la notte e per depositare i nostrizaini. Ce ne viene indicato uno nella parte centrale della città.Abbiamo tutto il tempo per visitare la cattedrale, un tempo sedearcivescovile, e altri caratteristici monumenti.

Giovedì 31 agosto ci vede partire lungo la pista ciclabile,quella che scende da Monaco di Baviera e arriva a Bassano delGrappa, per ora, ma che dovrebbe raggiungere Venezia. Un po’più avanti si trova il monastero di Nuovacella, molto frequentatoda turisti giunti in pullman, in auto e in bici. Non possiamofermarci più di tanto: solo per uno spuntino e per prendere alcunefoto di questo antico monastero, essendo la nostra meta odiernamolto più avanti. La valle è disseminata di serre, dove si coltivaogni sorta di ortaggi. Prima di Fortezza si esce sulla stradastatale, costretti a sopportare un bel po’ di traffico. Superataquesta caratteristica cittadina, troviamo l’indicazione diMittewald/Mezzaselva, nome che troveremo ancora in Baviera,come esiste una Mezzaselva nel comune di Roana, nell’altopianodi Asiago. Troviamo anche, stilizzato, il segnale delloJakobsweg, nome conosciuto ormai in tutto il mondo come“Camino di Santiago de Compostela”. La pista cammina ora asinistra del fiume e della ferrovia, in posizione tranquilla, mentrela valle si allarga per mostrare alcuni paesini caratteristici,disseminati di campanili, chiesette e alberghi, sulla piana adestra. Troviamo alcune persone, alle quali chiediamo un localeper la notte. Loro ci indicano alcuni alberghi lungo la statale, manoi abbiamo avvistato un locale nei pressi di Fuldres, solo unchilometro più avanti. Troviamo qui una bella accoglienza pressola pensione Wiesenhof.

Venerdì 1 settembre raggiungiamo la località di Stilvesseguendo la pista ciclabile e quindi Elzenbaum percorrendo unsentiero in mezzo ai prati. Ora ci conviene attraversare l’Isarco eraggiungere Vipiteno, passando accanto a un aeroporto turistico.

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Bella cittadina, Vipiteno, che io ho paragonato a Saint Jean Pied-de-Port, in Francia, una delle località da cui parte il Cammino diSantiago. Percorriamo la via centrale piena di botteghe dove sivende di tutto per i numerosi turisti. Anche noi ci riforniamo diquanto ci occorre e poi usciamo a nord, sotto la torre, perincamminarci verso Colle Isarco. Ci fermiamo spesso, sia perammirare il panorama circostante, sia per ritrarre alcune donneoccupate a rastrellare il fieno sul pendio. Ed eccoci a ColleIsarco. Mentre gironzoliamo in cerca di un alloggio, un tale, sullaporta dell’albergo, ci invita a entrare da lui. “Per cinquanta euroavrete camera e colazione”. Non ce lo facciamo ripetere eaccettiamo, così possiamo riposarci e prepararci per la giornatadi domani, che sarà certamente più dura.

Sabato 2 settembre ci si avvia in salita. Troviamo ancora ilsegno dello Jakobsweg, ma a noi interessa raggiungere il confineaustriaco a 2200 metri di quota, lasciando da parte la via delBrennero. Fuori da Colle Isarco si trova il sentiero n. 1 che salein maniera vertiginosa . In alto si notano le casermette di confine,ora inutilizzate, e una pista ciclabile che sale dal Brennero.Arrivato in cima, mi si presenta uno spettacolo inconsueto: unagiovane donna, accaldata, si è tolta la maglia e mostra il suosplendido seno. Appena mi vede, si rimette la maglia pertogliermi dall’imbarazzo; la moglie mi sta seguendo e potrebbefarmi pagare questo spettacolo gratuito. C’è un’altra ragazza chesta fotografando il panorama e ne approfittiamo per farci ritrarrevicino alle indicazioni di confine, con tutte le localitàraggiungibili a piedi o in bici. Scendiamo quindi verso la valleObernbergtal e troviamo un tale che sta raccogliendo mirtilli. Cene sono a iosa e anche noi ne raccogliamo. Dissetano e sonocarichi di vitamina A, che fa bene per la vista: più ne trovi e piùne vedi. Si scende ancora fino a quota 1600 metri, dove sitrovano alcuni laghetti deliziosi, una chiesetta e un rifugio pienodi escursionisti, sia a piedi che in bici. Tutto qui porta il nomeObernberg. Più in basso c’è un centro chiamato Obernberg amBrenner, ma noi troviamo un locale chiamato Waldesruh, dove si

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mangia, ma non si dorme. Però ci danno l’indicazione di unafamiglia vicina con camere disponibili. Così anche per oggisiamo a posto. La sera, poi, assistiamo ad una festa folcloristica,in cui sono richiamati i mestieri dei boscaioli e dei montanari,con canti e libagioni di birra. Insomma, qui ci si diverte un sacco.

Domenica 3 settembre torniamo alla locanda per la colazionee riprendiamo per una strada forestale, che porta il numero 99, insalita. Sentiamo parlare italiano e ci intromettiamo per sapere chipossano essere questi turisti. Sono bergamaschi, arrivati perraccogliere funghi da queste parti. Con loro ci alziamo per untratto, ma loro si fermano nel bosco, mentre noi saliamo esaliamo per un sentiero sempre più difficile, fuori dal bosco e trale pietraie. Superata la cresta a quota 2400 m. sul Muttenjoch, siscende verso Gschnitz lungo un sentiero vertiginoso, scavato suuna parete rocciosa di dolomia. Più in basso il sentiero corre trapini mughi e prati di mirtilli, ottimi per una merenda.Incontriamo parecchi turisti domenicali diretti al santuario diSancta Magdalena, che si vede un po’ più in alto. Noi peròintendiamo raggiungere al più presto la località di Gschnitz sulfondovalle. E’, questa, una cittadina agricola e turistica, percorsadal torrente omonimo, che scende dal Pan di Zucchero, un montealto 3500 metri e coperto da un ghiacciaio.

Lunedì 4 settembre si riprende in salita. Poco fuori dal paeseparte un sentiero che sale quasi a picco sopra la valle. Partiti dauna quota di 1240 m., saliamo faticosamente fino ai 2396 delrifugio Innsbrucker Hütte, dove ci concediamo una sosta diristoro. Imelda trova un rivenditore di berretti peruviani e neacquista un paio per i nipoti Andrea e Tommaso. Intanto ciraggiunge una telefonata di nostra figlia Elisa per sentire come cela caviamo. Molto bene, perché ora si scende verso Neustift, unavallata percorsa dal torrente Ruetz e disseminata di villaggituristici. Ora, però, ci addentriamo per una valletta, Pinnistal, perseguire poi un sentiero a mezza costa, che ci dovrebbe portare alrifugio Helfer Hütte, a metri 2080 di quota. Troviamo unaindicazione che ci avverte che mancano cinquanta minuti

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all’arrivo; dopo mezz’ora di cammino troviamo un’altra tabellacon l’indicazione: “Siete a cinquanta minuti dal rifugio”. Dopoun’altra mezz’ora, ecco un’altra tabella: “Mancano cinquantaminuti al rifugio”. Speriamo di non trovare altre tabelle di questogenere! Finalmente vediamo davanti a noi il tanto desideratorifugio, dove siamo i quasi unici ospiti.

Martedì 5 settembre ci alziamo prima del solito, perché lacolazione è alle sette e trenta. Alle otto si parte, in discesa, questavolta. Dapprima un sentiero e poi la strada che serve il rifugio,percorsa da ciclisti e mezzi di servizio. Mille metri più in bassosiamo a Neustift, nella valle del Ruetz. Anche questa vallescende dai ghiacciai del Pan di Zucchero ed è disseminata divillaggi turistici. Si fa una sosta e si visita il paese: la chiesa cilascia incantati per le pitture sulle pareti e sul soffitto. Insomma,non troviamo solo sentieri scoscesi e boschi e mirtilli, ma anchequalche opera artistica, come questa chiesa col suo campanile e ilcimitero tutt’intorno. I banchi antichi sono rimessi a nuovo el’organo riempie la chiesa di armonia. Dobbiamo, però, lasciarequesti particolari ai turisti della domenica, perché noi dobbiamofare ancora molta strada, in salita. Il sentiero si eleva quasiperpendicolarmente sopra la valle e i paesi, fino a raggiungereuno sterrato, mille metri più in alto. La strada, che risale dallavalle facendo un lungo giro, serve delle malghe e alcuni rifugi.Incontriamo ora parecchi turisti e mucche al pascolo. Imeldateme un po’ questi animali, mentre io non provo alcun timore,avendo lavorato tra gli animali fin da giovane. Eccoci intantoallo Starkenburger Hütte, nostra meta odierna, a quota 2229metri, come sta scritto sul timbro rilasciatomi.

Mercoledì 6 settembre si riparte di buon’ora, alle sette etrenta, Dobbiamo raggiungere il passo Seejoch a metri 2518. Lecime tutt’intorno sembrano Dolomiti; emergono bianche e rosatedai prati e dai boschi verdeggianti. Noto una croce su un monte emi vien voglia di salirvi. Si tratta del Gamskogel, che raggiungoda solo in venti minuti, lasciando Imelda sul Joch con altra gente.Soddisfatta la mia voglia di altezza, solo metri 2660, e ammirato

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il vasto panorama, me ne torno al passo e iniziamo la discesaverso la valle dell’Inn. Passiamo accanto al rifugio Adolf Pichler,dove sostiamo per un piccolo ristoro. Troviamo turisti qui giuntiin rampichino, perché ora c’è una stradina, sterrata, mapercorribile anche per le biciclette da montagna. A Grinzensusciamo sulla strada e, attraverso contrade abitate, arriviamo aKematen, centro agricolo con la sua bella concimaia in mezzoalla piazza, come costuma in Tirolo, ma per niente fuori posto.Perché qui tutto è in ordine e anche il letamaio fa la sua bellafigura. Troviamo alcuni alberghi a quattro stelle, ma nessunposto disponibile per noi. Camminando ancora lungo il fiumeInn, arriviamo a Zirl piuttosto tardi, verso le sei di sera, ansiosi ditrovare posto per la notte. Per fortuna è ancora aperto l’ufficioturistico, dove ci viene indicato il posto che fa per noi: unacamera per due con colazione, il tutto per 50 euro.

Giovedì 7 settembre si torna verso il centro di Zirl e la stradaper Scharnitz, al confine con la Baviera. Il traffico è pesante enoioso, ma per fortuna troviamo presto un sentiero che passa inmezzo al bosco. Siamo sopra la valle del fiume Inn e saliamoabbastanza agevolmente verso alcune località turistiche: Reith,Muhlberg, Auland e giungiamo a Seefeld per stradine affollate dituristi. Son tutti luoghi meravigliosi ed è per questo che i turistiamano passeggiare quassù. Imelda corre al mercato per comprarefrutta e altre cose da consumare sulle panchine dei giardini. Cisono carrozze trainate da cavalli e cavalli da sella per chi amacavalcare. Noi passiamo a visitare il duomo e riprendiamo ilcammino per Scharnitz, dieci chilometri più avanti. Veramentepiacevole, quest’ultimo tratto, tra prati e laghetti e fattorie pienedi fiori alle finestre. Troviamo alloggio in una bella pensione etroviamo una buona pastasciutta al ristorante. Intanto il tempo,rimasto bello per tanti giorni, si rannuvola e comincia a piovere.Pazienza.

Venerdì 8 settembre dobbiamo sfoderare i nostri ombrelli emettere l’impermeabile. Troviamo subito il confine con laBaviera, ma non cambia niente: tedesco di qua e tedesco di là,

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euro di qua ed euro di là. Anche il paesaggio sembra sempre lostesso. Case con gerani, giardini ben curati e paesini graziosi.Mittenwald, Mezzaselva oppure “Paese tra i boschi”, ci sipresenta nel modo migliore. Sostiamo in questo stupendo paeseper fare alcuni acquisti: cartoline, ricordini non troppo pesantima, soprattutto fare fotografie: della chiesa, del fiume Isar e delruscello che passa per il centro, scoperto, per mostrare l’acquache scorre limpida lungo i marciapiedi. Dalle nostre parti,quando c’è una roggia o un ruscello, ci si affretta a nasconderlo oa intubarlo come fosse una cosa disdicevole. Riceviamo, intanto,una telefonata da Fabiano e Cristina, nostro figlio e nostra nuora,per sentire come ce la passiamo. Lorenzo sta facendo il bagnettoe Andrea chiede alla nonna “Quando torni?”. Presso una malgatroviamo un po’ di ristoro. Ci serve una ragazza che sta badandoa quattro bambini e così, per fare un po’ di dialogo, diciamo inomi dei nostri: Lorenzo, Marta, Andrea, Tommaso e Rebecca,che ci è molto affezionata. Più avanti incontriamo dei bambiniche portano in giro dei pony; li salutiamo e li fotografiamo e lorosono felici di mostrarci i loro piccoli cavalli. Intanto, lasciatoKrun, si arriva a Wallgau, dove l’Isar si stacca sulla destra,mentre noi teniamo la direzione per Walchensee, uno dei tantibei laghi di questa Baviera. La strada è ancora lunga e quindi ciaffrettiamo per arrivare a Walchen prima che sia tardi. Lagiornata si è fatta bella, il paesaggio è stupendo e non sentiamofatica, perché si cammina in leggera discesa e siamo ben allenati.Notiamo anche alcune case con la scritta “Zimmer” e questo ci faben sperare per questa sera. Raggiunto il centro abitato, però,siamo in difficoltà, perché qui non ci sono più “Zimmer”, masolo alberghi. Alcuni sono già al completo ma, alla fine,troviamo il nostro rifugio per questa notte. Stranamente,l’albergo che ci dà la camera non può servirci la cena, perchésiamo arrivati tardi e non abbiamo prenotato. Non importa,troviamo la nostra cena in una pizzeria vicina.

Sabato 9 settembre. Le montagne sono alle nostre spalle eMonaco si avvicina. Per un po’ seguiamo il lungolago

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Walchensee finché, giunti all’ultima insenatura, ci stacchiamoper seguire un sentiero tra i boschi. Saliamo per qualchecentinaio di metri e quindi raggiungiamo il lago Kochelsee,trecento metri più in basso. Ci avvolge la nebbia e il lago siintravvede malamente. Costeggiandolo, arriviamo a Kochel,graziosa cittadina sede di un museo, di ristoranti, di alberghi,nonché di banche, presso una delle quali ci riforniamo di soldi.Usciamo in direzione di Penzberg seguendo una pista chefiancheggia la ferrovia fino a raggiungere il santuario diBenediktbeuern, antico monastero benedettino, gestito ora daiSaveriani e sede di alcune facoltà universitarie. Splendidocomplesso che ci fa sostare per oltre un’ora. Il luogo meriterebbeuna visita più lunga per conoscere la storia di questo luogo, dacui sembra derivi il cognome Benetti. I nostri antenati sono scesidagli altopiani, Asiago e Lessinia, popolati in epoca medievaleda genti provenienti dalla Baviera. La nostra meta è un’altra:dobbiamo raggiungere Penzberg e trovare un posto per la notte.Arriviamo presso una chiesetta, isolata sopra un colle e, subitodopo, ci appare un piccolo lago, le cui rive sono piene dibagnanti. Si nota anche un campeggio di roulottes, segno che illago è meta di gitanti. Nei pressi di Untereurach notiamo unlocale pieno di turisti ma sede di un golf-club, non adatto per dueviandanti a piedi. Giriamo per Iffeldorf e troviamo un locale,purtroppo pieno e senza un posto disponibile. Per fortuna lagerente telefona per noi e ci conduce alla cittadina di Antdorf, trechilometri a ritroso, dove c’è una pensione. La sera siamo a cenain un locale con il menù in tedesco e inglese. Non ci capiamoniente, non conosciamo il tedesco e dobbiamo arrangiarci amotti. Chiediamo di un piatto e qualcuno ci fa il segno del pollo,con le mani ad ala; di un’altra pietanza ci fanno “muuu” per farcicapire che si tratta di manzo o mucca. Insomma, alla fine di unafaticosa giornata con 35 chilometri sulle gambe, ci divertiamo unsacco, mangiamo bene e dormiamo anche meglio.

Domenica 10 settembre ci avviamo verso il lago di Starnbergattraverso prati coltivati, costeggiando acquitrini e zone umide,

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che fanno sentire la vicinanza del lago. A Seeshaupt troviamouna signora siciliana che gestisce un albergo in questa località.Ci invita a fermarci da lei, nel suo albergo, il Marco Polo, ma noinon possiamo accettare: abbiamo deciso di avvicinarci alla metae intendiamo prendere il traghetto che fa servizio sul lago.Spendiamo il tempo disponibile per visitare la chiesa e vedere gliorari. Alle dodici e dieci saliamo sul battello e ci mettiamocomodi. Un po’ di relax non fa male. Ci divertiamo a vedere ibambini che salgono per buttarsi in un budello e scivolare giù,nel ponte inferiore. Ci divertiamo anche ad ammirare i paesi checosteggiano il lago, la gente che scende e che sale ad ogniattracco. Insomma, oggi restiamo passivi, almeno per un paiod’ore perché, giunti a Starnberg, scendiamo. Cerchiamo subito lavia per Gauting; non la strada principale, ma una pista per bici epedoni. Per nostra fortuna qui le piste sono ben segnate, concartelli e indicazioni dei punti d’arrivo. A fianco della ferrovia sitrova una di queste stradine, che seguiamo fino a Leut, dove ioprendo a destra, attraverso la campagna. Imelda vorrebbe tenerea sinistra per raggiungere l’abitato di Gauting e qui abbiamo unaincomprensione. Io tiro diritto per la mia strada e, dopo un poco,vedo che anche Imelda mi segue. Restiamo senza parlarci permezz’ora finché non ci sbolle un po’ la rabbia. Attraversiamocampi coltivati intervallati da zone boscose e arriviamo ad unpaesino agricolo, Buchendorf, dove troviamo da pernottare. Difronte alla nostra camera c’è una stalla piena di mucche chemuggiscono, come a dialogare tra di loro, ma non disturbano enon lasciano odori. Chissà come mai qui, in Baviera, convivonoin armonia animali, abitazioni e pubblici locali.

Lunedì 11 settembre è l’ultima fatica. Ci alziamo tardi epartiamo attraverso la campagna alternata ad altre zone boscosefin quasi a Monaco. Arrivati a Neuried e Furstein siamo già allaperiferia e troviamo l’insegna “MÜNCHEN”. Ci facciamoritrarre insieme da un passante, sotto il cartello. La rabbia di ieriè già sbollita ed ora siamo preoccupati di trovare un alloggio allanostra portata. C’è stata in questi giorni la visita del Papa e i

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locali sono pieni, anche perché a breve ci sarà la festa della birra,l’“Oktoberfest”. Chiediamo informazione in un bar gestito da unconnazionale e questi ci indica una pensione poco lontano.Meglio stare in periferia, perché in centro sarebbe più difficile epiù caro. Troviamo quello che fa per noi con qualche malinteso.Ci sono due camere singole, piccoline, che andrebbero bene perdue che non vanno d’accordo. Chiediamo di essere messi nellastessa camera, un po’ più stretti, anche per spendere meno.Invece il prezzo rimane lo stesso, pazienza. Siamo al quartopiano, mentre al piano terra c’è una pizzeria che fa al casonostro. Così possiamo uscire per andare in centro, a Marienplatz.Non abbiamo una piantina della città e fatichiamo a orientarci.Chiesto a un tale dove si trovi il centro, ci viene indicata unastazione della metropolitana, ma noi vogliamo arrivarci a piedi.Abbiamo lasciato i nostri zaini nella camera e ci sentiamoleggeri; un’ora o due non fa differenza. Eccoci, finalmente, nellapiazza centrale dove troneggia la torre e il Rathaus Apotheke,grande palazzo di stile gotico fiorito, pieno di guglie, negozi diabbigliamento, banche, musei e quant’altro, secondo un modo didire che va per la maggiore. Rientrati per la cena, che troviamo alpiano terra della nostra pensione, ci prendiamo alcuni piattipronti e una bottiglia di bardolino, alla faccia di tutte le birredella Baviera.

Mi rimane il desiderio di rivedere il fiume Isar, che non passaper il centro di Monaco, ma scorre in periferia. Prendiamo lastrada che porta a Est e arriviamo a un ponte sul fiume;cerchiamo allora un percorso che lo costeggi verso nord, fino aun ponte pedonale che ci riporta verso il centro. Si vedonobagnanti sul greto tutti nudi, come costuma da queste parti.Passiamo davanti al Max Planck, istituto universitario che portail nome del grande scienziato, nel mezzo di splendidi giardini.Arriviamo ad una chiesa barocca, “Theatinerkirche”, priva diquegli orribili orpelli che si vedono nelle nostre chiese baroccheo in quelle spagnole, tutte piene di ori. Percorrendo un corsocentrale ritorniamo a Marienplatz e ci dirigiamo, infine, alla

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stazione per conoscere gli orari del treno e fare il biglietto diritorno.

Il 13 settembre prendiamo il treno per tornare a casa. Alcontrollo del biglietto, la signora in divisa, perché di una donnasi tratta, ci contesta il fatto che sul biglietto non é indicato ilnumero del vagone e il posto a sedere. Io casco dalle nuvole,perché mi fido della precisione tedesca e mai avrei pensato che ibiglietti non fossero regolari. Invece devo pagare una piccolapenalità e constatare che “Paese che vai, disservizi che trovi”.

Questo episodio non inficia minimamente la bellezza delviaggio appena concluso. Pensate: abbiamo superato gli altipianidi Asiago, i passi della catena Lagorai, le Dolomiti delCatinaccio, del Sassolungo e del Sassopiatto, le Odle e alcunealtre catene austriache, arrivando a superare più volte iduemilacinquecento/duemilaottocento metri. Facendo il calcolo,siamo saliti per sedicimila metri e scesi per altrettanti. Ma questoè niente se pensiamo ai boschi, ai laghi, ai fiumi attraversati e aigioielli di cittadine come Moena, Bressanone, Vipiteno e, oltreconfine, Gschnitz, Zirl, Mittenwald, Benedicktbeuern, Penzberg,Starnberg.

Insomma, ci siamo arricchiti di un’esperienza fantastica.

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DA BOLOGNA A SANSEPOLCRO E ASSISI - 2007Foreste Casentinesi – Bologna/San Sepolcro – Assisi

Appennino Km. 400 gg. 17

“Ama il prossimo tuo” – Prossimo è colui che si approssima,che si avvicina. Chi si avvicina armato è un nemico, mentre chisi avvicina disarmato è un pellegrino.

don Maurizio

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Già da qualche tempo meditavo di percorrere i sentieri delle“foreste casentinesi”, che si trovano tra l’alta Toscana e laRomagna. Era mio intendimento partire a piedi da Bologna perrisalire l’Appennino e seguire il crinale appenninico fino araggiungere le località sognate. Mentre stavo preparando ilpercorso mi viene a trovare Luciano, compagno di viaggio nelcammino di Santiago di Compostella, viaggio affrontato giànell’anno 2003, con un libretto che illustra i luoghi, i sentieri e lecittà più significative del passaggio di San Francesco. Con questepremesse partiamo, mia moglie Imelda con me, dopo averebisticciato come al solito per preparare lo zaino. Io tolgo tuttoquello che posso, mentre lei continua a trovare gli oggetti piùsvariati da mettere nel sacco. Alla fine si arriva a uncompromesso, anche perché lei sopporta un gravame maggiore enon se ne duole. Arrivati a Bologna in treno, siamo al 20 diaprile del 2007, ci presentiamo davanti San Petronio per unavisita alla cattedrale, quando una guardia ci intima di depositarelo zaino nella piazza: c’è il pericolo di attentati. Ci avviamoquindi per i portici che conducono al santuario della Madonna diSan Luca. Notando le torri pendenti di Bologna, Garisenda eAsinelli, ci vien voglia di fare una capatina tra questi famosimonumenti. Lo sfizio, però, ci costa caro, perché deviamo dalpercorso senza avvedercene. Il cielo è coperto di nuvole e nonpossiamo orientarci con il sole. Dopo questo contrattempo, ilprimo ma non l’ultimo, ritroviamo la lunga fila di portici esaliamo le gradinate fino al santuario. Breve sosta per unapreghiera e le solite foto. Scendiamo ora verso il fiume Reno,che corre in basso verso Casalecchio, mentre noi dobbiamorisalirne il corso fino a Sasso Marconi. E’ qui che arriviamo perla prima sosta. Il locale che conoscevamo è stato rimesso anuovo e così anche il prezzo. Ci viene assegnata una cameraproprio sopra la cucina, dove si sentono gli aspiratori. Scendiamoa protestare e ci viene assegnata un’altra camera in un posto piùtranquillo. Siamo al 21 di aprile, in piena primavera.

Il giorno seguente riprendiamo il “sentiero degli dei”, già

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conosciuto nel ’99 e nel 2000 in occasione di altri nostri viaggi.Teniamo anche la cartina del sentiero, ma ciò non ci esime dallosbagliare percorso e deviare per Torre dei Badotti, Monte deiFrati e Brento. Abbiamo aggirato Monte Adone e conosciutoaltre località, per ritrovare quindi la nostra solita via fino allameta odierna, Monzuno. L’albergo Montevenere è a conduzionefamigliare, con tortellini e dolci fatti in casa e altre specialitàlocali.

Rifocillati e riposati, partiamo alla volta di Madonna deiFornelli, altro paesino montano dotato di tre alberghi e varinegozietti che ci permettono di rinnovare le nostre scortealimentari. Abbandoniamo qui il sentiero degli dei per seguire ilnostro percorso, che ci dovrà portare chissà dove. Scendiamoverso Castel dell’Alpi, dove si trova un bel laghetto, per risalireverso il crinale appenninico, tra il passo della Futa e la Raticosa.La stradina si snoda tra casette montane e villette, superando ilvillaggio di Valdirosa per raggiungere il crinale più in alto.Superato passo Turchino, la strada scende sinuosa fino a LaMazzetta, dove si esce sulla strada della Raticosa. Il traffico qui èinfernale: auto e moto scorrazzano a tutto gas come se fosseroalla “mille miglia”. Per nostra fortuna, dopo appena mezzochilometro si devia per una strada di campagna, sterrata, chepassa per un vecchio mulino e raggiunge Le Valli, villaggioarroccato in alto sopra un esteso pianoro tra la catenaappenninica e le alture della Raticosa. Da qui si raggiungeFirenzuola, cittadina dell’alto Mugello. Firenzuola ha l’aspettomedioevale intatto, con le sue mura e le sue porte antiche, ilmunicipio e le stradine strette. Troviamo alloggio presso un barristorante in centro, con camere occasionali e un’ottima cena.

Il 23 aprile ci avviamo per Moscheta, percorrendo un tratto distrada verso Borgo San Lorenzo, deviando quasi subito verso laCollinaccia, un’altura piuttosto faticosa, prima di scendere aMoscheta. Incontriamo molti turisti, essendo domenica, intentialle più svariate attività, come la pesca, il gioco della palla esoprattutto per fare un bel pic-nic. Noi, dopo aver consumato il

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nostro panino quotidiano, ci fermiamo per un caffè e chiediamoanche quale sia il posto più vicino, raggiungibile in giornata,dove poter pernottare. Ci viene confermato che si può arrivare aCalla di Casaglia (halla di hasaglia, si pronuncia da queste parti).Prendiamo ora il sentiero n. 15 per raggiungere il crinaleappenninico. Pur faticoso, è molto bello, con un torrente chescroscia per quasi tutta la salita, attraverso una meravigliosafaggeta. Raggiunto il punto più alto, incontriamo il sentiero 00chiamato anche GEA (grande escursione appenninica) che sarà lanostra via per tanti giorni. Questi sono i luoghi che videro gliamori appassionati di Sibilla Aleramo e Dino Campana. “Esempre ho negli occhi quella strada con il sole… il primomattino, le fonti dove mi hai fatto bere, la terra che si mescolavaai nostri baci, quell’abbraccio profondo della luce.” Si dice cheDino sia finito poi al manicomio e anch’io avrei fatto la stessafine se mia moglie si fosse rivolta a me con le stesse parole. Piùavanti incontriamo una compagnia di anziani, giunti da questeparti per una passeggiata domenicale: segno, questo, che citroviamo in prossimità di una strada percorribile dalle auto.Difatti, dopo avere scambiato qualche impressione con lepersone incontrate e aver fatto le foto ricordo, raggiungiamo lastrada che collega Borgo San Lorenzo con Palazzuolo inRomagna. Ancora mezzo chilometro e siamo a Calla di Casagliaper la sosta serale e notturna.

Il 24 aprile ci avviamo, sempre seguendo il crinaleappenninico, speranzosi di trovarci la sera alla localitàMuraglione dove, ci dicono, si trova un albergo. Il camminare èveramente magico, tra faggi e castagni, con qualche spiazzoerboso e sempre in leggero saliscendi. Non si incontra animaviva e anche luoghi segnati sulla cartina - giogo degli Allocchi,poggio Castellina, poggio al Tiglio, la Colla e altre località - nonsono che piccole alture e luoghi del tutto disabitati. Superato ilGiogo di Villore, scendiamo al passo Campiglioni, ma anche quiniente. Non ci resta che raggiungere il passo del Muraglione,dove arriviamo verso le cinque del pomeriggio. Il locale è aperto

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per la ristorazione ma non per la camera: l’apertura del servizioalbergo è per il 15 di maggio e noi non possiamo aspettare quelladata. Imelda si arrabbia, come al solito quando le cose nongirano per il verso giusto. Io prendo la cosa con più calma: presoun caffè e ristorati un po’, ci avviamo verso San Godenzo, chedista solo otto chilometri più in basso. Qui la fortuna ci vieneincontro, perché un automobilista di passaggio ci prende a bordodella sua auto. E’ un giovane medico, che ci ringrazia anche peravere accettato la sua compagnia. Si meraviglia per il nostromodo di andare per il mondo, zaino in spalla e mai nessunacertezza. Arrivati al paese, troviamo subito l’albergo che fa pernoi. Il gestore è così gentile che si dà subito da fare per trovarciun posto per la notte successiva. Ci avverte che al passo dellaCalla non si trova alcun locale anche se sulle nostre cartequalcosa è segnato. Dovremo scendere a Campigna, sul versanteromagnolo, per trovare vitto e alloggio.

Il 25 aprile riprendiamo a salire verso Il Castagno d’Andrea.Dobbiamo ricuperare quota e arrivare appena sotto il monteFalterona, dove nasce l’Arno, a 1650 m. di quota. Troviamoanche la neve, qualche baito abbandonato e mai nessuna persona.Vorremmo anche salire sulla cima del monte Falterona, ma lavetta è coperta di alberi e non offre alcun panorama. Giunti alpasso della Calla, troviamo un rifugio alpino, chiuso. Proviamoanche a chiamare un affittacamere, ma il prezzo è piuttosto alto ela località scomoda. Non ci resta che il locale già segnalato, cheoffre un’ottima cena a base di capriolo. Ci rimpinziamo e neavanziamo anche per il giorno dopo, quanto basta per il pranzo dimezzogiorno.

Il giorno 26 aprile riprendiamo a salire verso il passo Calla,dove troviamo una comitiva di studenti, giunti con i loroinsegnanti per visitare le foreste casentinesi. Perché proprio inquesta zona ci troviamo. Bisogna dire che la fama di questiluoghi è meritata. Camminiamo sul crinale, avendo da una partela Romagna e dall’altro la Toscana. A volte sono gli studenti checi superano, perché più giovani e leggeri, a volte siamo noi a

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superarli, quando si fermano per ascoltare una lezione del loroinsegnante sulla flora locale. Così oggi abbiamo anchecompagnia e possiamo scambiare qualche impressione con esseriviventi. Superate alcune piccole alture, chiamate PoggioTombesi e Poggio Scali, scendiamo al passo Porcareccio, chealtro non è che un incrocio di sentieri. Qui troviamo unastradicciola usata per lo più dalle guardie forestali per il controllodella “Riserva naturale integrale di Sasso Fratino”. Più avanti,superato Giogo Seccheta, scendiamo per un sentiero numerato 68che porta al Sacro Eremo di Camaldoli. E’ l’ora di mezzodì enumerosi turisti si sono accomodati per uno spuntino. Lofacciamo anche noi, sfoderando il capriolo incartato la seraprima. Purtroppo non possiamo visitare l’interno dell’eremoperché chiuso da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Ciaccontentiamo di una sosta nel piazzale antistante, fotografandoquel che si può. Dobbiamo raggiungere Badia Prataglia e quindirisaliamo verso il crinale “GEA” fino al Passo Fangacci e allalocalità Il Capanno, dove si trovano degli impianti sportivi. Daqui scendiamo verso Badia Prataglia, nostra meta odierna. Ilpaesino, dotato di alcuni alberghi e pensioni, è in festa con unapista da ballo piazzata proprio al centro. Dopo tanti giorni disilenzi si gradisce anche un po’ di musica e di frastuono.

Oggi, 27 aprile, si dovrebbe raggiungere La Verna,importante santuario e inizio del cammino di Francesco, comedescritto nella guida donatami da Luciano. Risaliamo la stradaper Corezzo fino a una segheria, da dove parte un sentiero, ripidoin mezzo al bosco, per uscire al passo Mandrioli. Si sente ilrumore del traffico, ma noi ci avviamo lungo un sentiero chesegue il crinale. Si vede in lontananza il monte Fumaiolo dovenasce, lo abbiamo imparato già alle elementari, il fiume Tevere.Si cammina tra la Romagna e la Toscana, toccando luoghi comeMonte Zuccherodante, Passo Serra, Punta dell’Alpuccio,Montalto, Passo Rotta dei Cavalli e, finalmente, Poggio TreVescovi, forse in ricordo del fatto che qui convergevano,anticamente, tre diocesi. Ora dirigiamo i nostri passi verso Sud,

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seguendo il sentiero n. 50. Al passo Gualanciole il sentiero lasciail posto a uno sterrato che deve servire al bestiame e ai carri,perché si notano, dopo tanto, delle praterie. La fatica non èancora finita perché, dopo il passo Pratelle, la stradicciola saleverso Monte Calvano, che io ribattezzo Monte Calvario, essendoproprio affaticato e stanco. Superata quest’ultima alturapanoramica, raggiungiamo in breve La Verna, affollata di turisti.Suor Priscilla ci accoglie come pellegrini e ci affida lacredenziale “Charta Peregrini Viae Francisci”, facendociaspettare oltre il consentito, noi che avevamo solo bisogno di unacamera. Ma non era finito il nostro calvario: dovevamo scenderenel monastero più in basso, lasciare lì i nostri zaini, e tornare perla cena. Passando attraverso vari portoni, con battenti ecatenacci, si scende per oltre cento metri: cento metri didislivello, si intende, per trovare l’altro monastero, quello dellesuore, e la nostra camera. Risaliti quindi alla Verna, troviamoaccanto a noi, al tavolo della cena, una signora australiana, quigiunta per fare il cammino di Francesco. Non conoscendo lanostra lingua, spera di fare alcune tappe con noi. Come si puòimmaginare, i nostri discorsi risultano molto disarticolati. Lasignora non tollera il glutine e quindi mangia delle cose per noistrane. Restiamo d’accordo di trovarci il mattino dopo, alle oreotto, per fare insieme il cammino. Il mattino dopo della signoraaustraliana neanche l’ombra: – E’ partita da sola – ci dicono.Prendiamo il sentiero n. 61 verso il monte Calvano, già percorsoieri, fino al passo di Pratelle, dove si devia per il n. 75. Subitodopo incontriamo la signora australiana intenta a fare colazione.Senza glutine, s’intende, ma solo cioccolato e altre cosucceinnominabili. Ci mettiamo insieme, almeno fino a quando anchenoi, mia moglie ed io, ci fermiamo per una sosta di ristoro.L’australiana prosegue e la ritroviamo a Pieve Santo Stefanoverso l’ora di mezzodì intenta a mangiucchiare. Ci fermiamo inun bar per un caffè e ancora perdiamo di vista la signoraaustraliana. Attraversato il Tevere, si deve ripercorrere l’altrasponda, prima di trovare il sentiero che sale a Cerbaiola. Il

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sentiero s’inerpica tra rovi e spine, è molto scosceso e scavatodai rivoli di pioggia. Veramente scabroso e selvaggio. Arrivati inalto vediamo il santuario di Cerbaiolo, ma non sappiamo comeraggiungerlo, perché alcuni segni – freccia gialla – vanno adestra mentre altri vanno a sinistra. Noi prendiamo a sinistra,sbagliando, naturalmente, e ci accorgiamo tre quarti d’ora piùavanti che stiamo facendo il percorso del giorno seguente.Ritornati sui nostri passi, raggiungiamo finalmente Cerbaiolo,accolti da una ventina di caprette. Troviamo caprette anchedentro la cucina, appollaiate sul caminetto e sopra le sedie.Siamo quindi accolti da una donna anziana, Chiara, cui avevamogià telefonato il mattino per avvertirla del nostro arrivo. Leformalità sono nulle: ci viene assegnata una camera e siamoavvertiti che la cena è per le ore sette. Intorno alla tavola cicontiamo, siamo una dozzina, alcuni giunti a piedi, altri inmountain bike e altri ancora in macchina. Ci vengono servite unabrodaglia e delle uova, ma poi alcuni commensali tirano fuorisalame, prosciutto e dolci. Facciamo la conoscenza di duepersone, un medico e la moglie, che intendono proseguire connoi fino a Sansepolcro. Il giorno seguente ci avviamo, dopo averascoltato da suor Chiara il racconto di come, quarant’anni prima,si era insediata in questo luogo solitario e come l’aveva fattoricostruire dai ruderi della guerra. Lasciata un’offerta per iservigi ricevuti e lasciata l’Australiana che intende fermarsi tregiorni con suor Chiara, ripercorriamo il cammino del giornoaddietro in compagnia dei due veneziani, il dottore e la moglie.Giunti al passo di Viamaggio, troviamo con difficoltà il sentieroche conduce ad un’altura panoramica per ridiscendere quindi suuna strada sterrata. Camminando sciolti, chiacchierando di tantecose, non ci accorgiamo di avere perso ancora il segnale delcammino di Francesco, una tau gialla. Ritornati sui nostri passi,almeno un chilometro e mezzo indietro, troviamo il nostrocammino, che scende ora sulla sinistra del torrente, fino araggiungere la località di Montagna. Poco prima di questo paese,avevamo trovato una fontana presso una casa, il cui giardino era

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attrezzato di un’amaca. Il dottore, nostro compagno di cammino,si era adagiato su quella, cadendo rovinosamente, per fortunasenza conseguenze. Dopo questo diversivo e arrivati a Montagna,troviamo un locale di ristoro, dove ci viene offerto anche dipernottare. Noi, però, abbiamo già deciso di tornare a casa, unavolta raggiunto Sansepolcro. Evitando, per questa volta, ilconvento di Casale, scendiamo per la strada direttamente a SanSepolcro, dove termina la nostra bella camminata di dieci giorni.

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SECONDA PARTE – LA VERNA ASSISI

Siamo nel mese di luglio del tragico 2007. Tragico per i fattiche troverete narrati nel seguito di questa nuova avventura.Mariano, nostro amico di tante peripezie, ci chiede di accompa-gnarlo per le vie del cammino “Di qui passò Francesco”. Si trattadi un itinerario inventato dalla signora Angela Seracchioli, chetocca i luoghi più significativi del passaggio di San Francescod’Assisi. Si parte dal santuario di “La Verna”, che si trova pocopiù in alto di Chiusi in provincia di Arezzo e si arriva a PoggioBustone, in provincia di Rieti, toccando Gubbio, Assisi, Spello,Foligno e Rieti. Mariano ha un serio problema all’interno dellasua gabbia toracica e non vuole arrischiare da solo. Accettiamodi partire con lui, anche se siamo nel mezzo di un torrido mese diluglio. La partenza è buona: suor Priscilla viene a salutarci e ciavviamo in salita fino al Monte Calvano, godendo subito di unbel panorama. Si scende ora verso Pieve San Lorenzo, cittadinaattraversata dal fiume Tevere, povero di acque in quest’aridastagione. Ci inerpichiamo poi per un sentiero diroccato e copertodi arbusti fino ad un’altura, dalla quale si vede il santuario diCerbaiolo, che già conosciamo. Non ci resta che raggiungerlo,scendendo lungo una carrareccia per mezzo chilometro erisalendo per altrettanta strada. Ormai non è una sorpresa trovarele caprette dappertutto e i gatti adagiati su ogni dove. Alsantuario sono arrivati altri turisti in bicicletta. Fa un caldo damatti anche qui. Pazienza. Si cena tutti insieme, ci si raccontaqualche barzelletta per smuovere l’aria e si va a letto.

Il mattino seguente, 17 luglio, preghiera, colazione, offerta e,quindi, via di buon passo. Si sbaglia ancora, ma ci si correggesubito. Dopo un’ora siamo al passo di Viamaggio, sulla stradastatale n. 258 Arezzo-Rimini. Cerchiamo e troviamo con qualchedifficoltà il passaggio attorno a una recinzione. Dobbiamo anchesalire per una scaletta e scendere oltre il recinto, nel quale cidovrebbero essere degli animali, che però non vediamo. Ora ilsentiero scende da un poggio all’altro in bella posizione

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panoramica. Si vede giù la piana aretina e un lago. Arrivati alpaesino di Montagna, seguendo sempre il sentiero segnato con laTau, ci arrampichiamo di nuovo in salita per vedere il Monasterodi Casale. L’unica cosa che ricordo con insistenza è il grandecaldo. Beviamo acqua in gran quantità e ripartiamo senza averevisto granché del monastero. Arrivati a Sansepolcro ci accasiamopresso il convento dei cappuccini e più non ci muoviamo.Ventisette chilometri ieri e quasi trenta oggi, sotto un gran sole.Figuratevi se non siamo stracchi morti!

Il mattino seguente, terzo giorno, Mariano si lamenta per ilchiacchiericcio degli studenti, ospiti del convento, che non lasmettevano mai. Loro non avevano faticato come noi e nonavevano nemmeno l’educazione di rispettare il sonno degli altri.Io non avevo sentito niente. Dormito sempre! La tappa sipresenta ancora lunga. Dapprima periferia di città e poicampagna coltivata a girasoli. Più avanti, dopo Fighille, ilpercorso s’inerpica per i colli e sale a Citerna, cittadina medie-vale rimasta quasi intatta e silenziosa. Ci prendiamo dieci minutidi riposo e scendiamo verso la strada che congiunge Città diCastello a Sansepolcro. Sembra quasi fatta, ma il segnale dellaTau ci obbliga a salire all’Eremo del Buon Riposo. E’ un anticomonastero, con chiesa e parco ombreggiato. Un signor Rossi cispiega che l’università “La Sapienza” di Roma sta facendo seristudi su questo eremo, sulla sua architettura, eccetera eccetera,ma io non ne posso più per il caldo e la stanchezza. Finalmente ciavviamo verso la nostra destinazione odierna, passando per illuogo natìo della grande educatrice Maria Montessori. Unviottolo fatto a tornantini ci permette di risparmiare un po’ distrada e arrivare, passato un ponte sul Tevere, al nostro “HotelUmbria”.

Usciamo dalla Città di Castello per una stradina che corresotto il Poggio Goffara, al riparo dal sole, alzandoci pian pianofino ai seicento metri di quota. Troviamo anche un buon ristoropresso una cascina, dove una signora ci offre un bel vassoio difrutta fresca. Ringraziamo e, verso mezzogiorno, siamo alla

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Pieve di Saddi, bel complesso architettonico medioevale. Non sipuò entrare, ma si può sostare all’ombra, dove stendiamo lenostre coperte, al riparo del sole. Mariano si adagia seminudo,come un dio greco, e schiaccia un pisolino. Restiamo per ben dueore a mangiucchiare e riposare, per ripartire ancora sotto un solecocente. Imelda apre l’ombrello e io la imito. Continuo eredarguire Mariano per avermi trascinato in questa avventura evorrei anche fermarmi presso un casolare, dove ci viene offertodi passare la notte. Dobbiamo arrivare a Pietralunga e la strada èancora lunga. Scusate la cacofonia, ma il mio cervello nonfunziona più. Finalmente troviamo una bella fontana di acquechiare e fresche, che ci attira come il nettare le api. Mariano siimmerge nella vasca e io lo imito. Imelda ci sgrida: “Siete pazzi!Vi prendete un malanno!”. Beviamo acqua fresca a più nonposso e quindi, rinfrancati, risaliamo al centro di Pietralunga e alnostro albergo “Tinca Aldo”, indicato nel libretto come tappaodierna e dove siamo accolti con generosità dal titolare.

Il giorno 20 luglio ci avviamo in salita verso l’eremo di SanBenedetto Vecchio. Vediamo in alto una torre diroccata ed è lìche arriviamo in meno di un’ora. Ed è qui che mi assale undolore atroce (ora so cosa vuol dire atroce) alle reni, che micostringe a buttarmi per terra. Sudo per il caldo e per il dolore enon riesco a muovermi. Imelda comincia a consolarmi: “Tel’avevo detto che avresti preso un malanno! Sei entratonell’acqua fredda e non mi hai dato retta! Mai che tu mi dia rettauna volta!” Figuratevi come se la passa uno che soffre“atrocemente” e in più viene redarguito. Per fortuna arriva unasignora, che abita nel luogo, e con la sua macchina mi riporta inpaese, dalla guardia medica. Qui mi viene fatta una iniezione epoi un’altra. Il dolore passa, ma mi viene diagnosticata unacolica renale. Causata dall’acqua fredda: aveva ragione miamoglie! Ora mi sento meglio. Chissà cosa mi hanno iniettato nelsangue. Aspettiamo la corriera che ci porterà a Gubbio e ciarriviamo prima di Mariano, che ha voluto proseguire solo.

Aspettiamo Mariano e prendiamo alloggio presso il

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Monastero Domenicane di Sant’Antonio, che sta appollaiatosopra la città. Una camera viene assegnata a me e a mia moglie,regolarmente sposati, e una camera a Mariano, solo. Osserviamoil panorama della città, bellissimo, con tutti quei campanili echiese e palazzi. Intanto vediamo arrivare una donna piuttostogiovane, una pellegrina, che bussa alla porta e si fa accoglieredalle suore. Poco dopo la sentiamo salire le scale per entrarenella camera di Mariano. “Non può alloggiare nella mia camera”dice lui. “Siamo pellegrini e dobbiamo portare rispetto al sacroluogo che ci ospita”. “Ma io ho bisogno di compagnia, mi sentosola”. Dice lei. Almeno questo è quanto ci è raccontato daMariano stesso. Così la donna se ne va in un’altra camera. Ildiavolo a volte prende le sembianze di una donna per condurrealla perdizione gli uomini…

Il 21 luglio mi sveglio e mi sento in buone condizioni.Partiamo alla volta di Biscina seguendo una rettilinea strettastrada fino a Ponte d’Assi, inoltrandoci quindi per una vallepercorsa dal Rio Occhio. Giunti a San Pietro in Vigneto, ciinoltriamo per un viottolo, sicuri del percorso solo per i segni“Tau” e per le freccie gialle. Arriviamo a Biscina verso le quattrodel pomeriggio, dopo avere faticato sotto la calura, e nontroviamo alloggio. Si attendono commensali per un pranzo e nonc’è posto per dei pellegrini. Per nostra fortuna, troviamo alloggioin un agriturismo vicino, chiamato “La Sosta di San Francesco” eci accasiamo per la notte. Troviamo anche un’ottima cena in unlocale dei paraggi e il mio male sembrerebbe essere passato deltutto.

Il 22 luglio ci incamminiamo in discesa verso il lago diValfabbrica, un invaso sul fiume Chiascio, e arriviamo versomezzogiorno nella graziosa cittadina di Valfabbrica. Siamo in unmomento di relax, quando mi assalgono i soliti dolori viscerali.Imelda e Mariano mi accompagnano dalla guardia medica. Sonoricevuto da una graziosa dottoressa, che mi consola con unapuntura antidolorifica e mi consiglia di stare calmo e tranquillo,almeno per un’ora. Mi dice anche di tornare a casa e farmi

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curare, magari con ricovero ospedaliero, perché i calcoli renalisono pericolosi e vanno curati al più presto. Intanto Mariano sene va a piedi e solo mia moglie rimane con me. Non miabbandona, ma desidera arrivare “almeno” ad Assisi. Un tale,diretto a questa località, si offre di accompagnarmi fino alsantuario di Santa Maria degli Angeli, nei pressi di Assisi.Commosso per le mie sofferenze, causate, secondo lui, daicalcoli renali, acquista per me sei bottiglie di acqua speciale, chedovrebbe far uscire i sassolini dalle mie reni. Santa Maria degliAngeli, che in spagnolo fa “Santa Maria de Los Angeles” ha datoil nome ad una grande città americana di arciricchi, dimenticandole sue umili origini francescane. Ci presentiamo all’una delpomeriggio dalla signora Angela Maria Seracchioli, autrice dellibretto e “Patrona” del “Cammino di Francesco” e siamorespinti con brutte maniere. “Questa è la mia ora del riposopomeridiano e non voglio essere disturbata!”. Saputo poi dellemie condizioni, si scusa e mi chiede perdono. Intanto arrivaanche Mariano, che intende completare il cammino fino a PoggioBustone, in quel di Rieti. Ceniamo insieme, riposiamo nellebrande e, al mattino, ci salutiamo. Lui per la sua strada e noi acasa. All’esterno della chiesa, in posizione evidente, noto uncartello che indica le distanze: Roma – Km. 250; Gerusalemme –Km. 3000; Santiago di Compostella – Km. 2850.

In questo preciso momento e nonostante la mia salutecagionevole nasce nella mia mente malata la pazza idea diraggiungere Santiago de Compostela partendo proprio da Assisi.

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DA ASSISI A SANTIAGO DE COMPOSTELA 2008 - 2009Assisi – Santiago de Compostela – Mari, monti ecc.

Km. 3000 – gg. 120

Non c’è niente di più noioso del viaggiatore che ti assilla con isuoi racconti. Tenere il diario non è un gioco da bambini.Dialogare con se stessi non è una perdita di tempo, ma unapprofondimento e una estensione del proprio capitale mentale.

Anonimo

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La nostra avventura era cominciata dunque con una sconfitta,come ho scritto nel racconto precedente.

Ma quel cartello che indicava Santiago di Compostella – Km.2850 mi aveva messo un tarlo: è dunque possibile raggiungere apiedi Santiago di Compostella, quasi sulla costa atlantica,partendo da Assisi? Fatta la domanda, ecco pronta la risposta:faremo il cammino non tutto in una volta, ma in più riprese.

PRIMA PARTE Il 26 febbraio 2008 partiamo in treno per Assisi.

Approfittando di una sosta a Padova per il cambio, facciamo unavisita alla Basilica di Sant’Antonio; non si sa mai, anche questosanto ci potrebbe essere di aiuto, perché abbiamo il cuore gonfio.

Dalla stazione di Assisi raggiungiamo la Basilica di SanFrancesco che si vede in alto, anche per raccogliere il “sigillo”che dovrà scandire le nostre tappe: ci siamo procurati la “ChartaPeregrini” perché vogliamo marcare le tappe del nostro viaggio,com’è consuetudine per i pellegrini di Compostella. E’ piuttostotardi, le quattro del pomeriggio, ma contiamo di raggiungereValfabbrica, una cittadina in provincia di Perugia, a 16 Km. daAssisi. Il buio ci coglie prima dell’arrivo, mettendoci indifficoltà. Abbiamo con noi la pila che ci consente di noninciampare nei sassi dello sterrato. Perché il cammino diFrancesco spesso s’inoltra per sentieri o strade sterrate.Finalmente, giunti a Valfabbrica, troviamo l’albergatore adattenderci in piazza. “Albergo Villa Verde”.

Il giorno dopo, 27 febbraio, la camminata si fa lunghissima.Seguiamo un viottolo che corre lungo il fiume Chiascio finoall’invaso di Valfabbrica, un bel lago artificiale. La strada loaggira in alto, addentrandosi nelle valli, per prendere poi unsentiero panoramico fino al castello di Biscina. Qui ci sarebbe unposto tappa, almeno nei mesi estivi, ma ora è tutto chiuso.Proseguiamo calandoci per un sentiero che passa per alcunecascine. Troviamo accoglienza presso una casa in cui sta

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pranzando un gruppo di lavoratori del bosco; ci viene offerto delcibo, che noi rifiutiamo perché abbiamo con noi le nostre scorte,ma accettiamo il caffè e trascorriamo con loro cinque minuti incompagnia. Gubbio è ancora lontana. Speriamo di trovarealloggio presso un agriturismo, ma la signora che si presenta cidice che il locale è ancora chiuso. Purtroppo anche oggidobbiamo sfoderare la nostra pila, perché si fa buio e quandoarriviamo dalle Suore Domenicane di sant’Antonio son già leotto di sera. Abbiamo sfaticato tanto che il giorno successivo, 28febbraio, ci fermiamo a Gubbio. La cittadina merita una sosta.Abbiamo così modo di rivedere il Palazzo del Municipio e altrimonumenti di cui è ricca la città. Siamo ancora in inverno, legiornate sono brevi e molti locali sono chiusi per la così detta“stagione morta”.

Il 29 febbraio, dato che l’anno è bisestile, ci avviamo versoPietralunga. L’anno prima avevo dovuto percorrere questo trattoin pullman a causa del malanno che mi aveva colpito.Quest’anno le cose vanno meglio, fa ancora freddo e si camminameglio. Percorriamo ora una stradina di campagna che passa perPiangrande e attraversa poi la statale 219 per Umbertiade. Sisalgono quindi le colline che fiancheggiano Monte di Loreto perscendere verso Madonna dei Montecchi e giù fino al torrente SanGiorgio. Si risale nuovamente verso Cerqueto, attraverso sentieridi campagna, fino a raggiungere San Benedetto Vecchio, il luogodelle mie sofferenze. Vorrei salutare la signora che mi avevaportato alla guardia medica, ma non si trova in casa. La troviamopiù avanti ed abbiamo modo di salutarci. Ancora poco e siamo aPietralunga, dove ci fermiamo da “Tinca Aldo”, un locale che giàconosciamo.

Il primo giorno di marzo ci vede discendere verso il torrenteCarpino, per risalire poi alla Pieve di Saddi. Qui abbiamo lafortuna di trovare il guardiano, che ci apre e ci racconta un po’ distoria di questo antico monastero. Il cammino segue poi unastrada sterrata, priva di traffico, ma lordata spesso da bottiglie diplastica, barattoli e altre nefandezze, che alcuni automobilisti

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sono soliti buttare dal finestrino dell’auto. Sono costretto asegnalare questo incivile costume, che è indice della scarsaconsiderazione che noi italiani abbiamo per il nostro belterritorio. Il cammino segue una via panoramica in vista delfiume Tevere, per entrare a Città di Castello dopo una lungacamminata di 29 chilometri. Qui ci aspetta l’Hotel Umbria, chegià conosciamo, ma solo per la camera perché oggi è il turno dichiusura. Per la cena dobbiamo cercare un altro locale. Troviamouna pizzeria ultra affollata che ci farebbe aspettare chissà quanto.Chiediamo allora una pizza da consumare presso il nostro hotel.

Il giorno seguente, due marzo, si dovrebbe raggiungereSansepolcro, ma noi riteniamo di passare invece per Anghiari eraggiungere successivamente La Verna, lasciando fuoriCerbaiolo, che già conosciamo. Da Città di Castello seguiamo lastrada fino a Lerchi e Scarzola, per prendere a sinistra versoCiterna. Bellissima cittadina, tranquilla anche troppo. Sostiamonella piazza di questa antica città murata per lo spuntino dimezzogiorno, cercando un bar per un caffè. Troviamo tuttochiuso, chiediamo a qualche rara persona, ma ci dicono che finoalle tre del pomeriggio non c’è nulla. Scendiamo allora verso lacampagna, fino a raggiungere la località di Fighille, doveabbandoniamo il cammino di Francesco per raggiungereAnghiari. A San Leo, incrociamo la statale Sansepolcro-Arezzo etroviamo finalmente un bar aperto. Sosta e ristoro con la cronacasportiva del calcio. Ripartiamo verso la nostra meta odierna eritroviamo ancora i segni del cammino di Francesco; perchéanche da qui passa una via di fede. Abbiamo modo di visitareAnghiari, famosa per una battaglia tra aretini e fiorentini, masoprattutto per una disputa a colpi di pennello tra Leonardo eMichelangelo. Alloggio presso “La Meridiana” e visita allasimpatica cittadina.

Il giorno dopo, tre marzo, prendiamo una stradina che passaper Micciano e Albiano. Seguiamo poi un sentiero in mezzo albosco, che dovrebbe condurre a Manzi e San Cristoforo. Finiamoinvece per trovarci sperduti in mezzo al bosco. Trovato un

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sentiero che scende verso una strada, arriviamo a Ponte allaPiera, un po’ fuori dal percorso programmato. La strada sale oraverso Manzi e San Cristoforo, fino a raggiungere CapreseMichelangelo, paese natale del grande artista. Più avanti ritro-viamo il sentiero, ben segnato, che arriva fino a Chiusi, dovepossiamo sostare e ritemprarci. Non ci resta ora che risalire versoLa Verna, sperando di trovare la giusta accoglienza. Il tratto disentiero, in mezzo al bosco, risulta più arduo di quanto ci siaspettava. Finalmente siamo accolti alla Verna per una graditaserata e una buona notte.

Fin qui il “Cammino di San Francesco”. Ora ci aspettal’Appennino, la foresta del Casentino, altri santuari e altre città.Il 4 di marzo ripartiamo per Monte Calvano, che già conosciamo,per fare a ritroso il percorso compiuto l’anno prima. RitroviamoPoggio Tre Vescovi, ritroviamo la faggeta ancora spoglia eudiamo anche degli spari. Non è stagione di caccia: troviamoinfatti due guardie forestali che sparano ai nidi di processionariesugli alberi. Giunti al passo Mandrioli, scendiamo per un sentieroin mezzo al bosco fino a sbucare su una strada presso unasegheria. In breve siamo a Badia Prataglia e ritroviamo il nostroalberghetto accogliente da Spighi & C.

Il giorno seguente, 5 di marzo, ci attende una sorpresa.Guardando dalla finestra vediamo cadere la neve. Sempre piùfitta e sempre più alta. Dobbiamo rinviare la partenza, ma nonpossiamo perdere lo spettacolo della nevicata. Usciamo allorasulla piazza per calpestare la neve. Fotografiamo i ramiingrossati di bianco. Rientriamo per il pranzo nell’ora dimezzogiorno. Intanto vediamo entrare una ragazza, zaino inspalla, che viene da Camaldoli. E’ olandese e sta facendo unpercorso a piedi per vedere eremi e santuari. “I frati di Camaldolinon volevano darmi da dormire, ma io ho insistito e mi hannotrovato un posto. Ora vorrei visitare questo paesino e conoscerela gente”. Verso sera l’abbiamo rivista. Stava scrivendo forse lesue impressioni di viaggio, anche se non capiva l’italiano parlatoda queste parti.

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La mattina dopo, 6 marzo, ci facciamo coraggio e ripartiamo,pestando la neve. Più avanti la strada è abbastanza sgombra, matira un vento freddo e pungente. E’ difficile stare in piedi per lecontinue folate, almeno fino a Soci, altitudine metri 400 sulmare, dove le strade sono sgombre di neve. Dobbiamoabbandonare l’Appennino e percorrere la strada del Mugello, piùbassa, per evitare la neve. La strada passa da Poppi, Pratovecchioe Stia, dove troviamo l’albergo “La Foresta” per la notte.

Nel giorno successivo, sette di marzo, dobbiamo tenere lastrada, anche se trafficata, per evitare la neve. Arriviamo così aLonda, per una sosta, e poi Dicomano, Borgo San Lorenzo e SanPiero a Sieve. Qui pernottiamo alla “Felicina” che giàconoscevamo fin dal ’99, ma restiamo delusi perché ci chiedonosettanta euro solo della camera. Per cena e colazione dobbiamoarrangiarci.

Il mattino seguente, 8 marzo, ci avviamo verso il Trebbio,castello mediceo già conosciuto in precedenti viaggi, ma questavolta prendiamo una via differente, che ci porterà a Vaiano. Ilsentiero, selvaggio, è ben segnato e corre da Bologna a Prato. Uncarretto d’epoca porta la data di costruzione – 1939 – e neapprofitto per fotografare mia moglie accanto al reperto. Dopo ilpasso Croce, sulla rotabile per Prato, troviamo un bivio: da unaparte si arriva a Vaiano mentre a sinistra si arriverebbe a Prato.Prendiamo il sentiero per Vaiano, ma qui giunti non troviamoalberghi. Dobbiamo prendere un treno e scendere fino a Prato,dove certamente c’è qualche posto per dormire. Ne approfittiamoper visitare questa bella città, almeno nelle parte centrale. Alcunefoto merita il duomo e pure il nostro albergo Hotel Flora.

Domenica 9 marzo ci avviamo per Pistoia, seguendo lavecchia statale di Montemurlo. Marciapiedi e pista ciclabile ciaccompagnano per alcuni chilometri, poi seguiamo la strada finoa raggiungere Montemurlo. Sosta vicino alla chiesa, proprionell’ora della messa domenicale. Ne approfittiamo per seguire ilrito delle ore 11 e, quindi, via di buon passo. Intanto mi ricordodi Umberto di Pistoia, nostro compagno nel cammino Garda-

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Ortigara dell’anno precedente. Lo cerco al telefono, ma chissàdove sarà andato a camminare. Lui ha compiuto il cammino diCompostela per ben 25 volte. A Pistoia troviamo l’hotel “Patria”vicino al centro della città. Approfittiamo per visitare anchequest’altra città, che non avevo mai visto prima, e per trovareuna buona pizza.

Lunedì 10 marzo partiamo con la pioggia. Usciti verso nord,prendiamo una stradina solitaria che sale pian piano versoPrunetta. Qualche schiarita ci permette di scattare delle foto diquesti paraggi, cosparsi di casette isolate e di piccole fattorie conasini e cavalli al pascolo. Alcuni paesini, Castello e Cireglio, ciriportano sulla strada statale. Un paio di chilometri più avanti, siprende a sinistra per Prunetta, dove arriviamo fradici di pioggia.In questa località nasce il fiume Reno, che scende a Bologna esfocia in Adriatico. Ci sono qui due alberghi, chiusi tutti e due.Per nostra fortuna ci dicono di andare avanti qualche chilometroancora, dove si trova “La Dina”, una locanda a conduzionefamigliare, che ci accoglie con nostra grande letizia.

Martedì 11 marzo ci avviamo verso Piteglio, altro paesinosperduto in questa zona dell’alto pistoiese. Chiediamo delucida-zioni in merito a un sentiero, che dovrebbe accorciarci la stradaper Popiglio, località che si trova lungo il torrente Lima e lungola statale dell’Abetone. Troviamo il sentierino con qualchedifficoltà, perché non è segnato, e scendiamo al torrente, dove sitrovano alcuni antichi molini in restauro e un ponte in pietra ditipo romano, pure in restauro. Dimenticavo un episodio:scendendo per il sentierino, sento un urlo agghiacciante di miamoglie. Ecco la vipera, penso, ma invece questa volta si trattavadi un cinghiale, sbucato improvviso dalla macchia e, forse,spaventato dall’urlo stesso. Saliamo ora a Popiglio e quindi,lungo il torrente Lima, scendiamo fino a raggiungere Bagni diLucca, centro termale e turistico. Cerchiamo qui un posto dovepassare la notte, ma non troviamo nulla di buono. Troviamoinvece una camera a Fornoli, tre chilometri più avanti, pressol’agriturismo “Il Frantoio”.

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Mercoledì 12 marzo riprendiamo per Castelnovo Garfagnana,seguendo il corso del fiume Serchio e percorrendo piste ciclabilie altre stradine fuori traffico. Attraversiamo piccoli centri, comeBolognana, Gallicano e risaliamo verso Fiattone, Perpoli e altrepiccole borgate. In giro non c’è anima viva: solo cani ringhiosiche ci mettono paura. A Castelnovo Garfagnana stentiamo atrovare un albergo che non sia pieno. Finalmente, proprio incentro, ne scoviamo uno che fa per noi. La cittadina merita unavisita in centro, anche per scattare alcune foto ricordo.

Giovedì 13 marzo si apre con il tempo nebbioso. Sulla nostrasinistra si vedono le Alpi Apuane e sulla destra l’Appennino, checulmina con l’Abetone. Finalmente arriva il sole che ci permettedi apprezzare in pieno la Garfagnana, splendida regione chedesideravo da tanto tempo visitare. Seguiamo piste ciclabiliattraverso paesini ameni: Pontecosi, Villetta, Sillicagnana, SanRomano, Vibbiana e Piazza al Serchio. Cominciamo a preoccu-parci per trovare da dormire, perché non abbiamo ancora vistonessun albergo. Ne cerchiamo uno a Giuncugnano, ma ci rispon-dono che occorrono sette chilometri per arrivarci. Proseguiamoallora per il passo Carpinelli, che divide la Garfagnana dallaLunigiana, come pure le provincie di Lucca da Massa Carrara.Proprio qui, in magnifica vista, si trova una locanda accogliente.

Venerdì 14 marzo. Si scende da Carpinelli camminando dibuon passo e in breve si raggiunge Casola in Lunigiana. Lastrada è importante, ma poco trafficata. Ripeto, la posizione èsplendida, avendo di fronte a noi le Alpi Apuane innevate e, allespalle, l’Appennino, pure innevato. Peccato che il turismo siindirizzi verso altri siti, magari più famosi, ma meno belli.Scendiamo sempre seguendo il corso del fiume Aulla, accompa-gnati dal frusciare delle acque. Il traffico, quasi assente in alto, sifa noioso quando siamo a Gassano, dieci chilometri prima diAulla. Camminando spediti, arriviamo alla meta abbastanzapresto, pur avendo percorso, oggi, non meno di trentaquattrochilometri. Ad Aulla c’è un unico albergo, chiuso in questastagione. Per nostra fortuna, siamo accolti in parrocchia. È questa

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una stazione di transito per pellegrini che percorrono la viafrancigena e, anche due anni fa, avevamo trovato alloggio dalparroco di questa città. Siamo trattati con i guanti e il parrocostesso si ritiene onorato di servirci la colazione.

Sabato 15 marzo ci svegliamo con il tempo nebbioso.Prendiamo una viuzza verso Podenzana, subito dopo il ponte sulMagra, e ci innalziamo sopra Aulla, in posizione panoramica.Giunti al Gambino, come ci aveva spiegato il parroco, troviamolo sterrato in mezzo al bosco: il traffico è inesistente, che meglionon si potrebbe desiderare. Più avanti troviamo i segni dell’AltaVia dei Monti Liguri, un sentiero che corre tutto il crinale da LaSpezia a Ventimiglia. Noi scendiamo a Bolano e siamo invitati aprendere il caffè da una signora. Scendiamo quindi a Ceparanaper una sosta, pranzo al sacco, e ci avviamo verso Valeriano eSanto Stefano, una borgata sopra La Spezia, dove intendiamopernottare. C’è un albergo, ma è al completo. C’è pure un agritu-rismo, completo anche questo. Non ci resta che scendere a LaSpezia per trovare un albergo.

Domenica 16 marzo, festa delle Palme, sentiamo suonare lecampane in una chiesa vicina e quindi partecipiamo alla Messa.Ci dirigiamo quindi verso Biassa, paesino arroccato sopraRiomaggiore, seguendo un sentiero che incrocia spesso unastrada, attrezzato a scalini in più parti, tanto è ripido. Qui giunti,vorremmo proseguire lungo il sentiero alto, contrassegnato dalnumero uno, ma nessuno sa indicarci la via da seguire. Troviamoallora una scalinata che sale tra i faggi e arriviamo a un capitello,Sant’Antonio, dove passa anche il nostro numero uno. Si incon-trano turisti, tedeschi per lo più, saliti da Riomaggiore, ma lenuvole e la foschia non ci permettono di vedere granché.Incontriamo una covata di cinghialini che segue la madre eintanto dobbiamo tirar fuori impermeabile e ombrello perchépiove. Passano così alcune ore finché, giunti al passo Cigoletta,decidiamo di scendere a Vernazza, una delle cinque terre.Arrivati nella graziosa cittadina, troviamo subito alloggio allapensione “Sorriso”. Intanto è riapparso il sole, come un invito a

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passeggiare per l’incantevole porticciolo. Lunedì 17 marzo. Il tempo è buono quando ci avviamo verso

Monterosso, ma subito troviamo una sorpresa: se vogliamoandare per il sentiero dobbiamo pagare un pedaggio, cinque euroa testa. Pagato l’obolo, andiamo, così alleggeriti, per unasplendido viottolo, con il mare sempre sotto di noi. Poiché ènostra intenzione proseguire per Levanto e Bonassola il sentieros’inerpica per trecento metri, sempre costeggiando il mare traulivi e vigneti. A un tratto mi sbuca un serpente giallo-verde tra ipiedi, che mi fa prendere un bello spavento. Giunti a Bonassola,troviamo presso l’ufficio pro-loco la stanza per la notte e ancheuna cartina dei sentieri, necessaria per proseguire il giornoseguente.

Martedì 18 marzo il tempo sembra volgere al brutto. Poiappare il sole, mettendoci di buon umore. Prendiamo informa-zioni presso alcune persone di Carpeneggio o Saline, piccoleborgate che incrociamo. Anzo, Ravecca e Setta sono altri piccolicentri che incontriamo, mentre Framura ci appare di sotto, in rivaal mare. Ogni tanto un belvedere ci mostra qualche scorcio,finché scendiamo a Deiva Marina, bel centro collegato con unastrada all’entroterra. Riprendiamo quindi a salire sopra i trecentometri e, una volta raggiunto il top, come ci dice una turistainglese, scendiamo a Lomeglio per raggiungere Moneglia, nostrameta odierna. E’, questo, un altro delizioso centro della rivieraligure con una chiesa barocca, molto bella, dove un organista sidiletta con un’Ave Maria di Gounod. Lungomare arredato dipalme e aranci e gente accogliente.

Mercoledì 19 marzo si riparte in salita per un sentiero segnatocon due XX, sopra il tunnel della ferrovia, che collega i varicentri della Riviera. In discesa, quindi, ci appare Riva, grossocentro pieno di capannoni. Abbandoniamo a sinistra il promon-torio di Punta Manara e Sestri Levante, anche se molto più bello,per risalire un sentiero panoramico, dove si trova un belvedereattrezzato di tavolo e panchine. E’ d’obbligo una sosta, prima diripartire verso Sant’Anna, i cui ruderi parlano di un antico

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monastero. Scendiamo ancora sul lungomare attraverso i centridi Cavi, Ripamare e Lavagna. Superato il torrente Entella,percorriamo ancora il lungomare di Chiavari. Di nuovo si risalein quota lungo un sentiero che passa per Sant’Andrea diRovereto e scende a Zoagli, dove speriamo di trovare alloggio.Qui, però, l’unico albergo è chiuso. Troviamo, invece, un bed &breakfast presso Nicoletta Sessareno, dove possiamo anchecenare.

Giovedì 20 marzo. Dalla finestra della nostra camera si vede ilgolfo del Tigullio e il promontorio di Portofino. Ripartiamo insalita verso Sant’Ambrogio, un santuario sopra Rapallo, perscendere fino al porticciolo del centro turistico. Breve sosta inquesto centro turistico, già pieno di villeggianti, e quindi ciincamminiamo lungo l’antica via Aurelia, per superare ilpromontorio di Portofino e Santa Margherita Ligure. A Ruta, inposizione panoramica sopra Camogli, scorgiamo la città diGenova, nostra meta odierna e fine del primo tratto di pellegri-naggio. Scendiamo verso Recco e Sori, seguendo il lungomare, etroviamo a Bogliasco la passeggiata a mare che conduce a Nervi,sobborgo di Genova. In quest’ultimo tratto non si smette mai diarmeggiare con la macchina fotografica, tanto sono belli il maree la costa ligure. All’hotel Bonera, antica villa riadattata adalbergo, troviamo il giusto riposo. Domani si prenderà il trenoper tornare a casa.

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SECONDA PARTE

Domenica 29 giugno 2008. Sveglia alle cinque per essere instazione a Vicenza in tempo. Treno per Milano e cambio perGenova, dove arriviamo prima delle undici. Abbiamo conosciutoun tale che ci parla del sentiero europeo numero uno; sentieroche parte dalla Norvegia, attraversa Danimarca, Germania,Svizzera e termina a Genova, nei pressi di Pegli. Anche noiintendiamo partire da Pegli per risalire l’Appennino e seguire poil’alta via fino in Francia. Prendiamo un biglietto per Pegli, ma iltreno qui non si ferma: arriva, invece, ad Arenzano, dove ciaffrettiamo a scendere. Aspettiamo un treno di ritorno, che ciriporti verso Genova, con fermata a Pegli. Usiamo il medesimobiglietto, che ha durata di 120 minuti, e saliamo su un trenoregionale, questa volta con fermata a Pegli. Ma ecco che passa ilcontrollore e ci contesta il biglietto: “Nei tram vale centoventiminuti, ma in treno solo una corsa”. Ci sarebbe una multa dicento euro a testa, ma intanto il treno ferma a Pra, altro sobborgodi Genova. Scendiamo lasciando sul treno il controllore scon-solato. Consultando la cartina vedo che possiamo benissimoprendere la strada giusta, quella che ci porta sul crinaleappenninico e che coincide con il sentiero E1: buon per noi chesiamo sicuri del percorso da fare. Fa un caldo da matti e il solebatte sulle nostre schiene, facendoci sudare copiosamente. Untemporale sembra avvicinarsi borbottando: speriamo in unacquazzone per ritemprarci dalla calura, ma i tuoni siallontanano. Pian piano l’altimetro segna duecento, trecento,quattrocento metri di altitudine. Finalmente troviamo dell’acqua,quando i nostri due litri son finiti da un pezzo: si trova nelparchetto turistico di monte Pennello, quota 979 m. sul mare.Poco più avanti troviamo le indicazioni dell’Alta Via MontiLiguri. Seguiamo ora quest’altro sentiero, che corre in crestaverso occidente, fino a raggiungere il passo del Turchino. Qui èindicato un fine tappa, ma non troviamo da pernottare; dobbiamoscendere per quattro chilometri, fino a Masone, dove finalmente

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termina una giornata caotica presso l’albergo “Simone”.Lunedì 30 giugno. Abbiamo riposato per dieci ore,

ricuperando anche il sonno arretrato, ma sentiamo ancora lastanchezza per la convulsa giornata di ieri. Masone si trova a 400metri di quota: dobbiamo risalire fin sul crinale appenninico peruna stradina ombreggiata, attraverso piccole contrade e lafrazione di Cappelletto. Un contadino sta battendo la falce con ilmartello, come si usava in campagna ai miei tempi, per tagliarel’erba dei prati. Troviamo anche un gruppo di ciclisti in sosta eun sentiero che si arrampica verso il crinale. Verso gli 800 metridi quota, sentiamo la brezza che sale dal mare ligure portando unpo’ di frescura. Ora si cammina speditamente sul crinale a voltecomodo e a volte erto e scabroso. Giunti al passo del Faiallo,notiamo un cartello con su scritto “fine tappa”, ma niente altro.Più avanti troviamo un parco attrezzato con panchine e,finalmente, le indicazioni dell’albergo. Nel cortile sostanoalmeno quaranta giovani esploratori e io penso che non ci saràposto per noi. Invece il posto c’è: i giovani sono di passaggio.

Martedì 1 luglio ci avviamo verso cima Rocca Vaccheria, perseguire il crinale fin sotto monte Argentea. Purtroppo non si vedeniente a causa di un nebbione che sale dal mar ligure, pocolontano, sotto di noi. Il beneficio di respirare quest’aria salmastralo sentiremo in seguito: i nostri polmoni lavorano a pieno ritmo eanche Imelda si sente meglio per lo iodio di cui è impregnatal’aria. Bric Damè, Cima Frattin, sono alcune località segnatesulle carte. In effetti sono siti sperduti nel bosco: non una casa,non una torre o altra costruzione si trova lungo il percorso,almeno fino al rifugio Pra Riondo. E’ l’una del pomeriggio,troppo presto per fermarci. Salutiamo i turisti, tedeschi e olandesiin bicicletta, e ce ne andiamo verso il Colle del Giovo. Cidovrebbe essere qui un agriturismo o allevamento di cavalli dapasseggio con posti letto per turisti. Difatti vediamo delle stalleper cavalli, ma nessun essere umano. Dopo un po’ arriva ungiovanotto in bici e dice che la sorvegliante, Giovanna, se n’èandata in ferie a cavallo e che tornerà fra otto giorni. Bel modo di

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accogliere i camminatori dell’Alta Via dei Monti Liguri! Ce neandiamo, intanto, in cerca di un negozio alimentari a comprarciqualche cibaria e, quando torniamo, arriva una ragazza che ciassegna le nostre brande per dieci euro l’una.

Mercoledì 2 luglio ci alziamo presto. Abbiamo dormito dasoli in una camerata di cinquanta brandine e, dopo un cappuccinonel distributore automatico, ci avviamo per un sentierino insalita. Ci hanno avvertito che qui si incontrano caprioli e che sipotrebbero prendere le zecche. Passiamo per Bric Sportiole,Cima La Biscia e Monte San Giorgio senza vedere nulla diparticolare. Solo bosco e qualche radura dove, un tempo, esistevaqualche coltura. Dopo l’osteria La Muegge, chiusa, sbuchiamosu una strada. E’ l’ora dello spuntino meridiano. Sfoderiamo inostri panini con un cane rognoso che ci gironzola intorno.Imelda si accorge, frattanto, che alcune zecche si sono insediatenei miei polpacci striminziti. Allarme e attenzione a nonstrappare le zecche: potrebbero lasciarci la loro testa e infettarmi.Arriviamo ad Altare, sul colle di Cadibona dove si dice chetermini l’Appennino e inizi l’Alpe. Noi non notiamo alcunadifferenza, tranne che un paio di alberghi, chiusi, l’uno per mortedel titolare, l’altro per vendita del locale. In un bar ci consiglianodi andare a Cairo Montenotte, per trovare un albergo, e dimettere intanto del sapone liquido sulle zecche per soffocarle,senza cercare di staccarle. Prendiamo il biglietto di andata, eanche di ritorno, per Cairo Montenotte. In farmacia miconsigliano un antibiotico che serve per varie infezioni, rabbia,vaiolo, setticemia, ma non per il tetano, mi dice il farmacista.Meno male che io sono già immune da questo contagio. Intantoabbiamo trovato qui il nostro albergo e possiamo visitare lacittadina.

Giovedì 3 luglio. Riprendiamo il bus per tornare ad Altare eraccogliere il mio cappello, che avevo lasciato in osteria.Ritroviamo l’AV che sale verso monte Baraccone e Bric delTermine. Arrivati a Colla di San Giacomo, si dovrebbe trovareun locale per la notte: è chiuso a chiave e per aprire bisogna

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scendere a Savona, dove stanno gli uffici adeguati a tenere lachiave. Proseguiamo allora per Melogno perché troviamo l’indi-cazione di un agriturismo. Finalmente ci appare il locale “Heidi”,a gestione famigliare, con due brandine per letto, una buona cenae un conto piuttosto salato.

Venerdì 4 luglio il sentiero si snoda lungo il crinale appenni-nico, scusate, alpino perché siamo sulle alpi marittime, girandoattorno a Bardineto, il paese che si vede giù in valle a destra,verso il Piemonte. Oggi siamo tranquilli, avendo già laprenotazione per la prossima notte. Saliamo il monte Carmo,metri 1389, e ammiriamo da questo belvedere il panoramasottostante di Loano. Giunti alla Rocca Barbena e a ColleScravaion, scendiamo per due chilometri verso Castelvecchio diR.B. e troviamo il nostro “Trekking House”. Ottima accoglienzae ottimo il prezzo.

Sabato 5 luglio risaliamo i 2 chilometri fino al passo perritrovare l’Alta Via. Ora il percorso è anche ciclabile e si snodatra boschi di faggi e rende inutile il cappello di paglia. Vediamoora avanzare quello che ci sembra un solido alpinista con ungrosso zaino in spalla. E’ una giovane valchiria, bionda e confaccia d’angelo, che cammina da sola, partita, come ci dice, daVentimiglia per compiere tutta l’Alta Via Ligure. Complimenti!Noi, però, siamo avvertiti che non si trova da pernottare né aColle San Bernardo, né a Colle San Bartolomeo. Dobbiamoscendere a Garessio se vogliamo dormire su un letto. Nonabbiamo la tenda e così siamo costretti a perdere uno dei più beitratti dell’Alta Via Ligure. A Garessio troviamo alloggio pressol’albergo “Italia” ed abbiamo tutto il tempo per visitare il centroturistico.

Domenica 6 luglio. Partiamo lungo la pista ciclo-pedonale chefiancheggia, dal lato opposto del torrente Tanaro, la stradaGaressio-Ormea. Raggiunta questa località turistica sull’ora dimezzodì, ritiriamo dei contanti presso uno sportello postale e ciriforniamo di qualche panino, prima di avviarci verso il Colle diNava per una stradina che arriva a Alpisella, dove prosegue

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come sterrato in mezzo al bosco. Ci troviamo ai confini traPiemonte e Liguria e i segnali non sono chiari, o mancano deltutto. Fatto sta che sbagliamo percorso e, anziché uscire sull’AltaVia, finiamo sotto il monte Armetta, molto lontano dal colle diNava. Scendiamo, allora, per una carrareccia in mezzo al bosco.Imelda si mette a piangere e anch’io vorrei farlo. Ma dobbiamoarrivare prima di sera in qualche località, per non dover dormireall’aperto. Finalmente troviamo uno sterrato dove passano anchebiciclette, come si vede dai segni dei copertoni. Due turisti ciraggiungono e ci ragguagliano sul percorso per tornare a Ormeae ci consigliano anche l’albergo “Italia”, che raggiungiamoun’ora più tardi. Ottima cucina e ottima camera per un buonriposo.

Lunedì 7 luglio prendiamo l’autobus per raggiungere Col diNava ed evitare di perderci ancora una volta. Qui giuntiritroviamo la perduta Alta Via e ci immettiamo per un sentieroche fiancheggia una strada. Seguiamo ora l’indicazione perseguire un viottolo che s’inerpica sulla destra, a volte moltoripido, però privo di segnaletica. Usciamo poi su uno sterrato,anche questo privo di segnaletica: siamo forse sulla stradasbagliata? Dopo un’ora di cammino incerto, temendo di essere suuna via priva di uscita, decidiamo di tornare al punto di devia-zione e seguire la strada. Ritroviamo i segnali dell’Alta Via.Chiediamo informazione ad alcuni signori in macchina, maquesti, che sono turisti tedeschi, non sanno dirci niente.Arriviamo così al Colle San Bernardo di Mendatica, piccolopaesino dotato anche di un albergo. E’ ancora presto, per cui ciriforniamo di acqua e ci avviamo in salita, sperando di giungereal rifugio San Remo, come indicato nella cartina. Il sentiero saleattraverso boschi di pini e larici; l’altimetro segna quote semprepiù alte: 1600, 1700, 1800. Superata una malga, giungiamo ad uncostone erboso pieno di pecore. Più in alto vediamo alcune cimeche toccano e superano i 2000 metri. Finalmente si apre un belpanorama sul mare. La valle è cosparsa di paesini, da cui salgonoalcuni sentieri; ma ecco che arriva una telefonata: sono le sorelle

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di Imelda che si trovano al mare, a Jesolo. Ne approfittiamo peruna sosta di riposo, prima di affrontare l’ultimo tratto, che dovràcondurci al rifugio San Remo, dove si spera di trovare alloggioper la notte. Ora saliamo verso il monte Garlenda, a quota 2143,passando accanto a un gregge di pecore e capre: alcuni caproni ciosservano minacciosi e io li fotografo. Raggiunta la cima, siamocolti da un vento freddo e tagliente. Ci affrettiamo a scendereperché stanno arrivando alcuni nuvoloni minacciosi. Il vento mistrappa il copri-zaino, quando, finalmente, troviamo rifugio inmezzo ai pini mughi. La parete del monte è coperta di rododendriin fiore. E’ bello trovarsi in tali frangenti, così fuori dal solitomondo. Ora manca poco per raggiungere la meta odierna, ma unasorpresa ci coglie in modo inaspettato: il rifugio è chiuso e uncartello ci avvisa che per la chiave bisogna scendere fino aMonesi, ottocento metri più in basso. Imelda si arrabbia. Inutil-mente, perché l’unica soluzione, se non vogliamo dormireall’aperto, è di scendere in fretta. Il tempo ora è buono e più inbasso si vede una malga: ci dirigiamo verso quella correndo tra iprati. La fretta è una cattiva consigliera, perché mi prendoun’intorta al malleolo del piede, causa di tante sofferenze. Versole otto e mezza di sera troviamo un alberghetto a quota 1400metri. Finalmente.

Martedì 8 luglio. Dobbiamo risalire fino al crinale dell’AltaVia Ligure. Bellissima via, ma priva di appoggi per la notte, ameno di non percorrerla con la tenda. Intanto mi duole il piededestro, ma la voglia di andare è più forte. In due ore di salita ciritroviamo al rifugio, chiuso, e ci dirigiamo verso monteSaccarello, la cima più alta di tutta la Liguria. Si notano gliimpianti di risalita per sciatori. Si vedono arrivare fin qui alcunifuori-strada, mentre incontriamo un tale che ci dice di voleraprire un locale di ristoro in questo sito. “Ho presentato domandagià da tre anni, ma ancora non ho avuto risposta” ci dice. Sulmonte Saccarello troviamo una comitiva di uomini che stannocommemorando un loro amico defunto. C’è un frate, anziano,che celebra la messa. Noi ci uniamo alla cerimonia e

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familiarizziamo con queste persone, che ci mostrano inlontananza il cono innevato del Monviso. Dalla parte opposta civiene indicato il mar Ligure e la Corsica. Scendiamo quindi peruna parete ripidissima, vestita di rododendri. Mi duole il polpac-cio perché cammino male, mentre scendiamo a quota 1600, dove,ad un bivio, un cartello indica il sentiero per Notre Dame de laFontaine. Abbandoniamo qui l’Alta Via per addentrarci inFrancia. Ora il sole scotta, trovandoci sulla parete sud, purcamminando sui 1500 metri di quota. Il sentiero sembra nonfinire mai: finalmente incontriamo due giovani che vengono dalsantuario. Alle cinque del pomeriggio siamo alla Madonna delFontan, come si dice in lingua locale, ma di acqua non se netrova. La chiesa è decorata con dipinti che richiamano quelli diSan Francesco ad Assisi. Mi prendo alcune cartoline illustrativedel luogo e quindi arriviamo a La Brigue, cittadina già italiana epoi ceduta alla Francia, come risarcimento dei danni di guerra,nel 1947. Troviamo alloggio presso un albergo gestito da unitaliano di Città di Castello. Troviamo anche un tale che parlabenissimo l’italiano “perché” mi dice “io ho fatto le elementariquando qui era Italia”. Poi ci racconta di essere stato in guerra,preso dai tedeschi e fuggito mentre lo portavano in Germania.“Ho fatto a piedi da Brennero fino a casa”.

Mercoledì 9 luglio. L’Ufficio Informazioni, da noi interpel-lato, ci informa che al rifugio Des Merveilles, sui monti delMercantour, non c’è posto per la notte. In questa stagione, cidicono, è difficile trovare posto per pernottare. Ci fermiamo quiper riposare e per smaltire un po’ di fatiche. Ne approfittiamo pervisitare questa cittadina turistica e per decidere sul da farsi.Abbiamo difficoltà per la notte, ho il mio piede malandato equindi decidiamo di scendere verso Ventimiglia.

Giovedì 10 luglio. Seguendo un sentiero che corre in alto,sopra il torrente Livenza, arriviamo in vista di St. Dalmas deTende. Si scorge la strada che, attraverso il passo di Tenda,arriva in Piemonte. Scorgiamo al di là i monti del Mercantourche, purtroppo, dobbiamo accontentarci di ammirare da lontano.

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Seguiamo il corso del fiume Roya, sempre mantenendoci in altosul sentiero, dove incontriamo gruppetti di turisti e due lama, chestanno pascolando lungo il sentiero. A Fontan si scende sulfondo valle dove passa la strada e dove ci fermiamo, presso unbar, per lo spuntino di mezzogiorno. A Saorge, bel paesinoappiccicato sulla parete del monte Tête de Proto, non si trova dapernottare. Essendo ancora presto, riprendiamo il sentiero pergiungere in breve sul fondo valle, dove si ritrova la strada.Imelda vorrebbe seguire la strada per fare più presto, ma ioinsisto per seguire il sentiero, che attraversa una spiaggia pienadi bagnanti, per risalire in alto, sopra la valle. Purtroppo ilsentiero, mentre la strada corre diritta sul fondovalle, si addentraper seguire gli anfratti, raddoppiando le distanze. Per di piùbisogna continuare a salire e scendere. Tocchiamo i mille metridi altitudine, per ridiscendere a valle, a meno di quattrocentometri. A sera, questo saliscendi si sarà ripetuto almeno tre volte.Per giungere a Breil, ci dicono alcuni che incontriamo, ci vuoleancora un’ora e mezza. Alla fine saranno tre ore quando, stanchie spompati, arriviamo al centro turistico di Breil sur Roya.Nessuna voglia di visitare questa bella cittadina.

Venerdì 11 luglio. Ne abbiamo abbastanza di sentieri. Oggiseguiamo la strada che porta a Ventimiglia seguendo il corso delfiume Roya, in Francia, e Roia in Italia. Per nostra fortuna ilfiume, scavando tra le rocce, ha lasciato in vista le stratificazionicon piacevole gioco di colori. La mia macchina fotograficalavora molto, anche perché il traffico non è pesante. Passiamoaccanto a una centrale idro-elettrica e incontriamo unsorvegliante, il quale ci racconta che la centrale è italiana perchéi francesi, pur lascandocela in gestione, si son tenuti il territorio.Poco dopo arriviamo al confine, se così si può chiamare ilcartello, oggi privo di significato: Italia/Francia. Scendiamoquindi lungo la strada, anche se io avrei preferito il sentiero, pergiungere in breve a Ventimiglia. Oggi c’è il mercato, per la gioiadi mia moglie Imelda. Troviamo anche una buona sistemazioneper la notte presso l’Hotel “Calypso”.

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Sabato 12 luglio. Riteniamo giusto concederci una vacanza inquesta bella località della Riviera di Ponente e, quindi, oggiandiamo a passeggio per le vie del centro storico, situato sopraun cocuzzolo verso occidente. Però in mattinata avevamoraggiunto Bordighera, che dista sei-sette chilometri, seguendo apiedi scalzi la spiaggia. Le mie caviglie sono gonfie ed è giustointerrompere il nostro andare e attendere tempi migliori.

Domenica 13 luglio, alle nove del mattino, saliamo sul treno,con il proposito di riprendere da Ventimiglia il nostro cammino,in altra stagione più favorevole. A Milano si cambia e unasignora con bambino e due grosse valigie ha bisogno del nostroaiuto. Ci accolliamo anche di portare le valigie, oltre ai nostripesanti zaini. Una buona azione fa sempre bene.

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TERZA PARTE

Lunedì 22 settembre riprendiamo il treno per Ventimiglia,dove arriviamo alle tredici in punto. Abbiamo tutto il tempo perincamminarci fino a Mentone, costeggiando il litorale. La viaAurelia ci fa da guida fino alla cittadina francese, dove troviamosubito un alberghetto che fa al caso nostro. Oggi ci acconten-tiamo di aver fatto a piedi solo undici chilometri.

Martedì 23 settembre, partiamo alla volta del principato diMonaco, sempre lungo l’Aurelia. Un bel marciapiede ci riparadal traffico, mai troppo intenso. Girato capo Martin, ci sipresenta una baia bellissima, anche se deturpata da troppecostruzioni. Alcuni orrendi grattacieli svettano, a conferma che iltroppo bello fa male. Entriamo senza accorgercene in Montecarloe, a mezzogiorno, siamo di fronte al casinò. Solo qualche fotoricordo e poi avanti per una passeggiata a mare che conduce a deilocali dove c’è di tutto: negozi, ristoranti, sale per trattenimenti etoilettes, che più ci interessano in questo momento. Risaliamoquindi per delle scale mobili, affollate, fino alla piazza centraledel regno dei Ranieri di Monaco. La rocca è difesa da una seriedi cannoni con palle di ferro ben accatastate. Un mezzo deinetturbini pulisce in continuazione il piazzale antistante ilpalazzo dei principi. Scendiamo poi verso il centro di Monacoper visitare la cattedrale, dove si trovano le tombe dei principi eanche quella di Grace “Uxor Ranieri II”. Proseguendo lungo lamarina, superiamo Cap d’Ail verso Beaulieu-sur-Mer. Avremomodo di vedere dalle foto tutti i posti meravigliosi oggi visitati.Con qualche difficoltà troviamo infine il posto per la notte e unapizza per cena.

Mercoledì 24 settembre, ci avviamo verso Nizza aggirando unpromontorio con vista incantevole. Davanti a noi si stende lapenisola di St-Jean-Cap-Ferrat, mentre la strada percorre unaserie di curve pericolose. Proprio qui troviamo il cippo chericorda la tragedia di Grace Kelly, deceduta per incidente. Subitodopo un cartello indica “Nissa” con le due esse, in lingua

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provenzale. Nizza si adagia su una conca assai ampia, con bellaspiaggia, ancora frequentata dai bagnanti. Ci leviamo le scarpe epercorriamo un tratto di bagnasciuga, in modo da concedere unpo’ di ristoro ai nostri piedi. Arriviamo in questo modoall’aeroporto di Nizza, dove atterrano aerei in continuazione: unoogni due minuti. Si vede che la Costa Azzurra attira molti turisti.Una breve sosta nei giardini pubblici, anche per mangiare unpanino, e avanti verso Antibes, dove intendiamo arrivare oggi. Sicammina sempre lungo il litorale, contando gli aerei cheappaiono al Cap d’Antibes, ma ammirando anche la Baia desAnges. Arrivati in centro, abbiamo difficoltà a trovare unalbergo. “Siamo al completo” ci dicono. Finalmente troviamouna camera in un bar del centro, dove possiamo lasciare i nostrizaini e gironzolare per la città, anche se fa buio. I prezzi deiristoranti sono esorbitanti, vanno da 30 a 50 euro, ma noiabbiamo imparato a scovare quei locali dove si può mangiareanche per meno.

Giovedì 25 settembre, usciti da Antibes, ci avviamo, semprelungo la passeggiata a mare, verso Cannes. Il tempo è abbastanzabuono e il cielo azzurro. Oltre la Punta de la Croisette, che noiaggiriamo, si nota l’isola di Sainte Marguerite: sembra unaenorme nave alla fonda. Non posso nascondere il fatto che miduole l’anca sinistra e il piede destro, slogato scendendo dalmonte Saccarel. Cannes meriterebbe una sosta più lunga, ma noidobbiamo proseguire, se vogliamo raggiungere il nostroobiettivo, che è Santiago de Compostela. Quindi avanti fino a LaNapoule, dove troviamo subito un albergo a buon prezzo.

Venerdì 26 settembre, ci sarebbe un percorso interno, anchepiù breve, ma noi non ce la sentiamo di abbandonare la costa,con i suoi meravigliosi anfratti. C’è un marciapiede, la strada èpoco trafficata e le località, deliziose, sono meno frequentate dalturismo. Gli scogli che emergono dalle acque sono di un colorerossigno, così come le rocce che fiancheggiano la strada. Lecalette si susseguono e la mia macchina fotografica non smette discattare foto. Ville, fiori, giardini, piccole baie si susseguono

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ininterrotti e il mare incredibilmente azzurro ci gratifica lungo ilcammino. Dopo questo piccolo sfogo di gioia, ecco la tristerealtà: ho lasciato il giubbetto in qualche posto dove ci siamofermati. Ritorno indietro per un chilometro e mezzo, mainutilmente; devo sopportare anche i rimbrotti di mia moglie eanche il tempo ci dà addosso, perché comincia a piovere. Però iltratto di costa da Pic du Cap Roux a Cap du Dramont è la piùbella passeggiata della mia vita. Entriamo a Saint-Raphaël con ilproposito di tornare in questi luoghi, chissà. Troviamo subito unalbergo e usciamo per la cena. Il ristorante “La dolce vita” ciattira, ma i prezzi ci lasciano esterrefatti: ci accontentiamo di unpiatto di spaghetti, un bicchiere di vino e acqua, il tutto per 33euro.

Sabato 27 settembre, attraversiamo Saint-Raphaël per rag-giungere Frejus senza soluzione di abitato: le due cittadine sonounite tra loro. Alla periferia di Frejus troviamo il mercato e ioapprofitto per comprare un paio di sandali. Mi duole il malleolodel piede e non sopporto gli scarponi.

Lasciata la costa, ci inoltriamo nell’entroterra provenzale,cercando di evitare le strade più trafficate e prendendo, invece, lepiccole vie secondarie. Attraversiamo Roquebrune e arriviamonel tardo pomeriggio a Le Muy. Cerchiamo di accasarci, mal’albergo è chiuso. Chiediamo allora a un passante in bici se, percaso, ci sia qualche posto dove dormire. Premuroso, quel tale ciconduce dentro un cortile pieno di galline e ci presenta a unavecchia. Costei, smessi i suoi lavoretti a maglia, ci conduce a unacasa di fronte e cerca di aprire una porta. La porta è bloccata enon si apre che con uno spintone. Ci accoglie un signorecorpulento: sembra un fabbro e ci introduce in un locale chesembra una forgia; in un angolo c’è un soffietto di enormiproporzioni, che serviva un tempo per ravvivare il fuoco. Civiene assegnata una camera e, la sera, siamo a cena dal fabbroassieme ad altri ospiti. Così facciamo conoscenza dell’ospitalitàfrancese, anzi provenzale, tutta discrezione e allegria. Perché ilfabbro e i suoi ospiti si sbellicano dalle risa, raccontandosi

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barzellette di cui non capiamo niente.Domenica 28 settembre ci accomiatiamo dal nostro anfitrione

con il timbro sulla credenziale, lasciando cinquanta euro pertutto, cena, letto e colazione. Ci allontaniamo da Le Muy per unastrada piuttosto trafficata. Giunti a Les Valiset, deviamo per unavia secondaria, più tranquilla, fino a raggiungere Les Arcs.Sempre per vie secondarie, arriviamo a Taradeau, altra graziosacittadina. Dopo Taradeau, ci troviamo in aperta campagna e ilcielo della Provenza sfoggia tutto il suo azzurro. Oggi èdomenica e notiamo un sacco di gente che si accalca in unalocalità da dove provengono canti e suoni: ci sarà una festa oqualche manifestazione che attira le folle. Noi, però, dobbiamoraggiungere Lorgues, dove si trova l’hotel du Parc, che dovrebbeaccoglierci. Invece l’albergo è chiuso. Chiediamo alla gente dovesi potrebbe pernottare e ci viene indicato un residence, dove cisparano “quatre-vingt-quinze” euro per una notte. Non ci restache accettare, se non vogliamo accucciarci all’aperto. Cerchiamoun ristorante e, anche qui, i prezzi sono proibitivi. Ciaccontentiamo di una pastasciutta, paghiamo e ce ne andiamo. Ilnostro anfitrione, dispiaciuto per averci chiesto una cifra cosìalta, ci offre un vassoio con te e pasticcini e, la mattina dopo, cioffre gratis la colazione.

Lunedì 29 settembre partiamo leggeri, sia di stomaco che diportafoglio, per avviarci verso Le Val. Mi duole ancora il piede;una volta metto i sandali, poi mi stanco e infilo i piedi negliscarponi. Insomma, i miei piedi non trovano pace: speriamo diarrivare almeno ad Arles. Oggi, intanto, percorriamo sedicichilometri fino a Carcès e altri sedici fino a Le Val, dovetroviamo alloggio presso un “Gite de France” gestito da un tale,che vive da solo in questa casa. La camera c’è, ma per la cena“dovete andare in paese, un chilometro più avanti”, ci dice. Ioinsisto per una semplice pastasciutta, perché oggi ho già sullegambe trentadue chilometri e non me la sento. Dopo la doccia,me ne sto in giardino a scrivere questi appunti, quando il nostroospite mi dice che possiamo cenare da lui. Bene! Questa sera

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cena a tre, buona notte e colazione, tutto per sessantacinque euro.Martedì 30 settembre. Oggi la meta è St. Maximin. Seguendo

l’antica via Aurelia, che oggi è una stretta viuzza percorsa dapoche auto, attraversiamo vigneti e uliveti in continuazione. Sista vendemmiando con delle macchine che passano sopra i filaridi viti, succhiando gli acini. Così noi possiamo piluccare l’uvarimasta, che non è poca. Passiamo per Bras sull’ora di mezzodì earriviamo presto a St. Maximin, davanti alla splendida cattedralegotica. Cerchiamo il monastero delle Domenicane, indicato comeospizio per pellegrini. Qui troviamo anche la cena, a base difrittata di uova, cosa che manda in visibilio Imelda. La seraassistiamo alla Messa e ascoltiamo le Laudi cantate dalle novizie.Voci celestiali.

Mercoledì 1 ottobre. Dovremo essere oggi a Puyloubier, peressere domani a Aix-en-Provence. Quindi ci avviamo di buonpasso per una strada molto trafficata. Giunti a Pourcieux,troviamo una deviazione, che ci consente di camminaretranquilli. Per la strada passano solo carri pieni di uva, diretti allacantina. Mia moglie storce il naso, perché non tollera l’odore delmosto. Peccato. Sempre attraverso vigneti, arriviamo aPourrières, altra cittadina immersa nei vigneti, e proseguiamo perl’antica via Aurelia fino alla nostra meta: Puyloubier. Chiediamoa una signora dove si trova il Gîte de Gorgeon e questa ci fa:“Venite con me” e ci accompagna nella sua casa, dove troviamoospitalità con altri turisti.

Giovedì 2 ottobre ci avviamo, dopo le foto di rito, per l’anticavia Aurelia, avendo sulla destra una catena di alture, con nuderocce simili alle Dolomiti. Vediamo un gruppo di escursionistiche si preparano a scalare la catena, dove certamente corre unsentiero. Intanto siamo investiti da continue folate di vento. E’ ilmistral, che ci farà compagnia per tutto il cammino. Il cielo èlimpido e azzurro come può esserlo qui, in Provenza, e l’andare èpiacevole. Ma, alla lunga, il mistral diventa un tormento; nonpossiamo liberarcene. Incontriamo ancora un gruppo di giovaniscalatori, armati di corde e ramponi, diretti alle rocce chiamate

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La Croix de Provence. Superato St-Antonin, arriviamo verso seraalla città di Aix-En-Provence, cercando riparo dal vento tra lestrette viuzze. In centro, cerchiamo l’ufficio turistico per unposto in cui dormire. Trovato l’albergo, io mi rifugio nel lettofebbricitante. Neanche ho voglia di mangiare, tanto sonofrastornato dal vento di oggi.

Venerdì 3 ottobre riprendiamo il nostro cammino, sempreseguendo l’antica Aurelia, e siamo ben presto a Aiguilles. Lastrada, stretta, ma diritta come un fuso, attraversa una piccolaforesta, finché arriviamo a Les Quatre Termes. Si prosegue fino aPélissanne, piccolo centro alle porte di Salon-de-Provence. Quitroviamo alloggio da una signora, che ci offre una magnificacamera con vista panoramica. L’interno è arredato di pregevoliquadri e libri dappertutto, e poi ninnoli posti con gusto sopra imobili: quindi l’accoglienza ci è davvero gradita.

Sabato 4 ottobre ci avviamo verso Salon per una stradasbagliata: più lunga e più trafficata. Superato un pontesull’autostrada, siamo in questa bella città. Ci attardiamo perammirare una chiesa in restauro e per acquistare le batterie per lamacchina fotografica. Ci prendiamo anche frutta e viveri permezzogiorno e chiediamo a qualcuno come raggiungereEyguières. Troviamo un sentiero che passa per Aureille, anticopaesino dove cerchiamo un caffè. La locandiera sta chiacchie-rando con i suoi clienti abituali e non ci dà retta. Finalmenteabbiamo il nostro caffè e ci avviamo per Mouriès. Troviamo quidei sardi, che ci fanno una grande festa. Noi, però, abbiamointenzione di raggiungere il “Gîte equestre Mas de la Meynaude”che ci dovrebbe ospitare. Qui giunti, però, ci dicono che sono alcompleto e che non c’è posto per noi. Chiedo di essere ospitatonel camper che sta nel cortile, ma ci negano anche questo.Torniamo allora in paese e ci rivolgiamo a un albergo tre stelle.Anche qui sono al completo, ma ci trovano una “chambre” pocolontano. Dopo queste peripezie, arriva in macchina una giovanesignora che ci accompagna al suo residence: una villetta tra gliulivi. Ci fa vedere una camera signorile, dotata di tutte le

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comodità. Il marito si dilunga per accendere il termostato, di cuinon abbiamo bisogno. Per la cena ci suggeriscono diaccompagnarci in paese, ma io insisto per avere un piatto dipastasciutta. Alla fine la signora ci fa accomodare in cucina e ciprepara una cena favolosa. Antipasto con paté di cotechino,formaggio camembert e altre diavolerie che ci saziano, prima dicominciare la cena. Trattati così bene, non possiamo cheandarcene soddisfatti il giorno dopo.

Domenica 5 ottobre, ci incamminiamo lungo una stradina inmezzo alla campagna per raggiungere Arles. Si vedonoallevamenti di cavalli e di maiali. A Maussane-les-Alpilleincontriamo la processione per la festa del Rosario. Donne eragazze sono in costume, accompagnate da una banda di pifferai.Sfodero la mia macchina fotografica per ritrarre la sfilata, che siferma davanti alla chiesa. Noi proseguiamo per una stradina,forse l’antica via Aurelia, che giunge a un acquedotto romano.C’è un sacco di gente che viene a divertirsi in questo pomeriggiodomenicale. Si nota anche una schiera di turisti tedeschi inbicicletta, amanti di ruderi antichi. Visitate queste antichità, ciavviamo verso Arles, che raggiungiamo ben presto. Siamo anchefortunati a trovare subito la nostra camera, così da avere il tempoper visitare l’antica cittadina di origine romana. Giriamo intornoall’anfiteatro, perché dentro non ci è permesso: si sta allestendouno spettacolo. Girata la città per le antiche viuzze, troviamoun’ottima cena presso un ristorante greco-turco. Si sta rosolandouno jambon, che viene poi grattato per servire i clienti: abbiamoscoperto il “kebab”.

Lunedì 6 ottobre. Vogliamo oggi raggiungere St. Gilles, che sitrova a una ventina di chilometri. Dobbiamo attraversare il fiumeRodano ed abbiamo qualche difficoltà a raggiungere un ponteper passare oltre. Qui, chiedendo, troviamo una strada tra i campidi riso. Siamo nella Camargue, zona acquitrinosa e piena di zan-zare. Si vede una trebbia che gira nei campi e qualche fattoria.usciamo quindi in una strada importante, molto trafficata e moltonoiosa. A St. Gilles prendiamo alloggio in un albergo, proprio di

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fronte al porticciolo. Fin qui giungono i natanti, seguendo icanali del Rodano.

Martedì 7 ottobre ci avviamo verso Générac, dirigendociverso nord-ovest per uscire dagli acquitrini. Ritroviamo i vigneti,che ci consentono di ristorarci di uva in abbondanza. DopoGénérac, troviamo un altro paesino, chiamato Beauvoisin equindi una ferrovia dismessa. Ci serviamo di uva nei vigneti, giàvendemmiati, e arriviamo a un crocevia, dopo il quale prendiamoper i campi una carrareccia tra le fattorie. Usciamo adAimargues, dove non troviamo alloggio. Dobbiamo proseguirefino a Marsillargues, dove, finalmente, possiamo accasarci. Lacamera è senza coperte e Imelda deve protestare non poco pertrovare qualcosa da mettere sul letto. Neppure un ristorante sitrova in questo paese. Per la cena ci dobbiamo arrangiare in unnegozietto.

Mercoledì 8 ottobre. Tre chilometri ci separano da Lunel,dove cerchiamo la strada secondaria per Montpellier. Abbiamoqualche difficoltà a orientarci, ma infine siamo a Saint-Just equindi a Lansargues. Comincia a piovere: tirati fuori ombrello eimpermeabile, ce ne andiamo lentamente fino alla periferia diMauguio, dove usciamo su una strada più importante. Il traffico,anche per la pioggia, diventa noioso. Cerchiamo la via “D24”sulla destra, che conduce a Montpellier, dove arriviamo stanchi ebagnati fradici. Cerchiamo l’ufficio turistico ma troviamo primala cattedrale, Eglise de S.te Anne, dove ci viene indicato unlocale per pellegrini. La città è grande e noi ci perdiamo. Maecco l’insegna di un hotel, dove siamo accolti, proprio vicino alcentro. Montpellier è una bella città, che merita un giorno disosta. Usciamo la sera stessa, anche per trovare un locale in cuicenare. Troviamo un ristorante frequentato da studentesse dellafacoltà di medicina della locale università e ci viene servito unpiatto speciale, mai visto in vita mia. Sul tavolo viene posto unfornello sul quale si mette un pentolino di olio; con una lungaforchetta si prende la carne cruda e la si mette a cuocerenell’olio, mangiandola subito appena cotta. La pietanza ha un

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nome particolare: “fondue” o fonduta. Giovedì, 9 ottobre torniamo a rivedere il centro di questa bella

città, torniamo alla Eglise de S.te Anne per mettere il sigillo e,quindi, ci avviamo alla stazione del treno per rientrare a casa.

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QUARTA PARTE

Domenica 15 marzo 2009 riprendiamo il nostro lungopellegrinaggio, che dovrebbe portarci prima a Lourdes e poi aPamplona. Con il treno, via Milano e Genova, arriviamo a Nizza,dove cambiamo ancora. Verso sera siamo a Marsiglia, dovepernottiamo. Il mattino dopo un altro treno ci porta aMontpellier, per timbrare la nostra credenziale nella stessacattedrale. Lo stesso giorno ci avviamo verso Aniane, sperandoche qualche Santo ci aiuti. Per uscire dalla città la strada è lunga,ma poi, a Grabels, troviamo il sentiero contrassegnato con laconchiglia. Seguiamo fiduciosi il sentiero, ma subito troviamo unbivio che ci lascia incerti. Stiamo per tornare sui nostri passi,quand’ecco arrivare un pellegrino sicuro di sé, il quale ciracconta del suo viaggio da San Sebastian, in Spagna, fino adArles e ritorno per la via Tolosana. Ci dice che a Montarnaud sipuò pernottare, basta rivolgersi alla “mairie” o municipio, dovec’è un ufficio per turisti. I consigli dello spagnolo ci sonopreziosi, così che troviamo posto presso una “chambre”accogliente. La signora che ci ospita dice che è la prima volta,dopo la morte del padre, che la camera viene usata; non so comeprendere la notizia, se come buon auspicio o jella. La sera stessaqualcuno ci viene a prendere per cenare insieme con il pellegrinospagnolo e altri turisti; passiamo una belle serata, raccontandocile nostre storie in tre lingue diverse: francese, spagnolo eitaliano.

Martedì 17 marzo. Mandiamo a dire allo spagnolo che noi nonpossiamo seguirlo, perché lui cammina troppo forte e perché noiintendiamo passare da Lourdes. Ci avviamo quindi per stradinedi campagna fino a Vendémian e Betarga, dove chiediamo unachambre. Ci viene indicato un posto lì vicino, con una camera inposizione panoramica, sopra un laghetto sul fiume Hérault.

Mercoledì 18 marzo. Attraversiamo il fiume e, giunti aPaulhan, incontriamo un vecchietto, che si unisce a noichiedendoci dove stiamo andando. “A Pamplona” è la nostra

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risposta “passando per Lourdes”. Il vecchietto ci consiglia diprendere qualche mezzo di trasporto, ma noi ribadiamo che ènostra intenzione arrivarci a piedi. Adissan dista tre chilometri eil vecchietto ci segue fin lì, raccontandoci di avere un amico inquel paese. Ci dice anche di avere ottantaquattro anni e moltealtre cose, felice di stare con noi. Dopo Adissan, passiamo perNizas e arriviamo a Caux. E’ presto per fermarci e, quindi, siprosegue per Roujan e Pouzolles. Qui dovremmo trovare unachambre, ma non risponde nessuno: siamo fuori stagione.Cerchiamo allora l’albergo “Au Soleil” e ancora niente e nessunoci risponde. Desolati torniamo al bar, in centro, e chiediamo dovetrovare una camera. Ci viene indicato un indirizzo lì vicino e,anche qui non sono pronti a ricevere ospiti. Torniamo al “AuSoleil” e vediamo un tale che sta aprendo. “Siamo chiusi” ci dicecostui, “ma vi accompagno io da una signora che riceve ospiti epellegrini”. Arriviamo così, finalmente, ad una casa accogliente.La signora che ci riceve, ci racconta di essere nata a Cambridge,in Inghilterra, di avere sposato un americano e di essere vissuta aMiami, in Florida. Ci racconta ancora che suo padre perse la vitaa Trieste, durante la guerra, e molte altre cose, di cui credo diaver capito poco. Comunque, alla fine, oggi è stata un’ottimagiornata.

Giovedì 19 marzo. A colazione sono chiamato al telefono daElisa per gli auguri al “papà”. Parlo con i nipotini Tommaso eMarta e partiamo. Siamo dell’idea di fare meno strada, oggi.Alcune cittadine, Magalas e Saint-Geniès-de-Fontedit, ci fannosostare per qualche tempo e siamo a Murveil-les-Béziers. Quitroviamo alloggio presso la Mairie, ricavata da un vecchiocastello. La nostra camera è una meraviglia. Letto conbaldacchino, come si usava al tempo di Maria Antonietta,poltrone con schienale altissimo e altri mobili settecenteschi.Giù, in fondo al cortile, la banda sta suonando la marsigliese. IlSindaco e le autorità stanno festeggiando qualcosa che miincuriosisce; ne chiedo spiegazione e qualcuno mi dice che sifesteggia la fine della guerra con l’Algeria. “Ma voi l’avete

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perduta, questa guerra” dico io. “Ma noi festeggiamo la fine dellaguerra” mi risponde. Abbiamo anche tutto il tempo per visitare lagraziosa cittadina.

Venerdì 20 marzo. Ci avviamo per una strada di campagna,dopo una breve visita alla chiesa annessa al castello. Ora le vignesi susseguono ininterrotte; attraversiamo il fiume Orb, dove c’èun parco attrezzato per le gare di canoa. Parliamo con un tale checi racconta di avere ottantaquattro anni e di essere venuto aprendere un po’ di aria. Bella età, ma anche la mia, replico:“settantacinque”. Raggiunto un incrocio, voltiamo a sinistra,verso Cazedarnes, sempre tra paesaggi solitari cosparsi di vigne.Prima di entrare nel paesino, incontriamo due ragazzine, una acavallo e l’altra alla briglia. Le fotografo per averne il ricordo eci fermiamo, indecisi su dove proseguire. Non essendoci segnistradali, tiriamo diritto fino a Cebzan, all’incrocio con una stradastatale, proveniente da Béziers. La strada è molto trafficata, percui attraversiamo e proseguiamo per la campagna. La stanchezza,però, ci consiglia di deviare verso St-Chinian, dove troviamo ilnostro alloggio.

Sabato 21 marzo. Imelda non trova il giubbetto. Si ricorda diaverlo lasciato in un bar, ed è lì che lo troviamo, prima diincamminarci per una viuzza tra i campi, che conduce aVillespassan. Fa freddo e si vede la brina. Passiamo il confine tradue regioni: Linguadoca e Rossiglione, come indicato daicartelli, e attraversiamo alcuni paesini: Ages, Aigues-Vives eAigne, dove prendiamo alloggio presso la Maison de Causses,gestita da un privato.

Domenica 22 marzo. Il signore che ci ha ospitato, gentilmentesi interessa a trovarci la chambre anche per questa sera. Oggi ciavviciniamo a Carcassonne, percorrendo sempre stradinesecondarie. Passiamo per Azillanet, Cesseras, Siran e Livinières.Troviamo qui un piccolo santuario, nel momento in cui un talesta per aprire. Ne approfittiamo per entrare in una chiesa inquesto giorno di domenica e ammirare l’immagine di “Notre-Dame du Spasme”. Madre Dolorosa, abbi pietà di noi, poveri

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pellegrini. Alle quattro e mezza del pomeriggio siamo arrivatialla meta, trovando una bella camera rustica, con annesso porticoe giardino, nel piccolo centro di Peyriac Minervois.

Lunedì 23 marzo partiamo che tira vento. Sembra il mistral,che viene dall’Atlantico, per renderci più duro il cammino. Perfortuna, i nostri muscoli sono ben lubrificati e così i nostri piedi.Il fisioterapista Aurelio deve aver fatto un bel lavoro con il miomalleolo. Raggiunto Laure-Minervois, visitiamo la chiesa goticae malandata. Ci dirigiamo per Trebes. Sosta nell’ora di mezzodì,vicino al fiume Midi, dove arrivano altri turisti, in bicicletta, atenerci compagnia. Ci fermiamo in un bar per un caffè e un tale,saputo che siamo pellegrini, ci consiglia un ostello ad Arzens.Noi ci fermiamo, invece, appena giunti a Carcassonne. Questacittà merita una visita, specialmente la rocca, cinta da muraantiche. Siamo anche fortunati a trovare subito alloggio vicino alcastello, che visitiamo volentieri, girando per le piccole vie pienedi negozi, ristoranti e piazze gremite di turisti. Rientrando inalbergo, sentiamo voci nostrane: sono studenti di Verona, quigiunti in pullman per una gita scolastica.

Martedì 24 marzo. Oggi non fa bel tempo, anzi tira vento epiove. Mettiamo l’impermeabile e apriamo l’ombrello. Ancheper questo, ci mettiamo su una strada sbagliata; ce ne accorgiamoquando siamo avanti un paio di chilometri e, quindi, dobbiamoritornare sui nostri passi. Giunti a un parco alberato, ritroviamo ilnostro cammino sulla via per Arzens. Qui nessun ostello perpellegrini. Cerchiamo allora la via per arrivare a Montréal, chenon è la grande città del Canada, ma un piccolo centro di questaregione francese, e siamo fortunati a trovare ancora la conchigliadi Compostella. Ci infiliamo per un stradina quando mia moglie,insicura, vuole chiedere informazioni. Una signora, interpellata,non sa dove conduca la strada che stiamo percorrendo. Allora miarrabbio e torno indietro, per prendere una strada più importante,con i suoi bravi segnali stradali, e con il suo bel trafficoautomobilistico. Dopo cinque chilometri siamo a Montréal, dovel’unico albergo è chiuso. C’è l’insegna di una “chambre d’hôtes”

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a due chilometri da qui, giusto sulla stradina che dovevamopercorrere. Qui ci viene in aiuto un tale, che si offre diaccompagnarci alla meta, riportandoci indietro per quel paio dichilometri e lasciandoci presso una residenza favolosa, inposizione panoramica, con i Pirenei innevati sullo sfondo. Laresidenza è gestita dai signori Van Den Akker, che possiedonouna grande tenuta agricola, ospitano turisti e pellegrini, mentre lasignora insegna tedesco nelle scuole di Montréal. L’unica sala,cinquanta metri quadri, contiene la cucina, il caminetto, unpianoforte, un salotto e la zona pranzo, dove ci servono la cena.

Mercoledì 25 Marzo. La signora ci ha offerto un passaggio,ma io non mi voglio perdere questa passeggiata panoramica, cheieri avevamo fatto caricati sul furgone. Imelda si ricorda dimandare gli auguri a Tommaso, che oggi compie cinque anni. Lacolazione è abbondante, ma il colmo è che qui la chiamano“déjeuner”, che ricorda il nostro verbo “digiunare”. Misteri dellalingua! E pensare che siamo ancora sazi per la cena di ieri sera:insalata farcita con uova, tonno e salse varie. Poi una grossarazione di pollo con patatine croccanti. Ce ne portiamo i restianche per mangiare oggi a mezzogiorno, sulla strada perFanjeau, dove intendiamo arrivare. A Montréal sostiamo pervisitare la cattedrale in restauro e il piccolo centro. Troviamo dinuovo l’insegna della conchiglia, che seguiamo, incontrandoanche un pellegrino barbuto. Sta facendo un percorso da Lourdesad Arles e ritorno per la via tolosana. Questo ci rincuora, perchévuol dire che altri camminano come noi. Arrivati a Lasserre,siamo perplessi a seguire ancora il sentiero, che sembra condurcifuori strada. Chiediamo informazioni a degli operai, che ciconsigliano di tornare indietro e riprendere la strada per Prouille,perché lì si trova il monastero che cerchiamo. Giunti almonastero di Prouille, vediamo che non si tratta di un monastero,ma di una rivendita di prodotti agricoli locali, oltre che asilo perviandanti. Ci accasiamo qui e, per questa sera, siamo a posto.

Giovedì 26 marzo. Ci avviamo in salita per Fanjeaux,cittadina arroccata su un colle. Acquistiamo i francobolli per

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spedire le cartoline di Carcassonne e cerchiamo la strada perBelpech. Percorriamo ora un crinale panoramico, con vista sullacampagna sottostante e i Pirenei innevati sullo sfondo. L’andareè tranquillo, almeno fino a Pécharic-et-le-Py. Cerchiamo qui un“Gîte de France” indicatoci dalla signora Van Den Akker,quando incontriamo dei signori in auto, che ci invitano a tornaresui nostri passi e salire un’altura, sulla quale sono piazzati duesilos. Giunti ai silos, non troviamo che fattorie semideserte. Piùavanti ci fermiamo presso una casa e troviamo solo cani. Siamoperplessi, ma bisogna andare avanti. Ora non c’è più strada, mauna carrareccia tra i campi, che ci porta ad una fattoria. Anchequi solo cani e nessun essere umano. Per nostra fortunaarriviamo ad una casa dove entro per chiedere informazioni evedo il cartello “Gîte de France”. Siamo proprio dove volevamoarrivare: Chambres d’Hôtes Cathala. Una signora ci fa entrare inun monolocale e ci lascia lì per un’ora, mentre scende in paese araccogliere certi giovani studenti, a dimora in quella casa.Abbiamo il bagno, abbiamo la cucina e il letto: non ci mancaniente. Quando torna, la signora insegna a mia moglie a usare lacucina per preparare la cena. Alla fine, abbiamo trovato quantodi meglio non si poteva. La signora Cathala, venuta a conoscenzadel nostro viaggio, resta di stucco e si vuol fare la fotocopia dellenostre credenziali. Una bella accoglienza.

Venerdì 27 marzo partiamo per Belpech ma, dopo unchilometro, mi accorgo di avere lasciato la macchina fotograficaal Gîte. Torno indietro e ritrovo la signora sorpresa: “Cosasuccede?”. “Niente di grave, prendo solo la mia macchinafotografica”. La signora si offre di riaccompagnarmi da miamoglie e così riprendiamo il nostro cammino per Belpech.Ammiriamo qui l’antica chiesa gotica e ci incamminiamo perl’aperta campagna. Le piante si stanno ricoprendo di verde ed èpiacevole andare per queste viuzze. Attraversiamo alcunipaesini: Trémoulet, La Bastide-de-Lordat, George. Prima diPamier, sostiamo per riposare presso il cancello di una casa. Unasignora, forse per controllare chi siamo, finge di ritirare la posta

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e io mi presento: “Siamo pellegrini diretti a Pamplona, ma questasera ci fermiamo a Pamier”. “Entrate un momento a casa mia,che vi preparo un caffè” – dice la signora. Non ce lo facciamoripetere e sostiamo un po’, chiacchierando del nostro viaggio.Veniamo informati che a Pamier c’è un ostello per pellegrini inrestauro, ma non ancora pronto. Salutiamo, ci facciamo darel’indirizzo e ripartiamo. A Pamier cerchiamo l’ufficio turisticoper trovare una camera. “Siete pellegrini?” – ci chiedono,vedendo i nostri zaini. “Certo” rispondo io, e attendo una lororisposta. Dopo una telefonata, ci dicono di andare alla casa delvescovo che si trova vicino alla cattedrale. Qui siamo accolti daun tale con la barba bianca, accompagnato da una perpetuaorientale, che si rivolge a mia moglie facendo un sacco dicomplimenti e cercando di alleggerirla del fardello. Poi siamocondotti nella casa del vescovo e alloggiati in una bella cameraantica, con caminetto, quadri alle pareti, termosifoni e tantecomodità. Per cena, siamo invitati giù, nella ex stalla dei cavalli,ora adattata a cucina e sala da pranzo. Il sagrestano va poi adaprire una bottiglia, spaccando il collo su una pietra e mi versada bere. Insomma, siamo trattati da signori, più che da pellegrini.

Sabato 28 marzo ci alziamo presto per assistere alla santamessa, celebrata dal Vescovo. C’è il sacrestano con la barbabianca, c’è la perpetua giapponese e ci siamo noi. Dopocolazione, siamo accompagnati fino al ponte sul fiume Ariègedai due, il sacrestano e la perpetua, che ci indicano anche la viada seguire per arrivare alla meta odierna. Seguiamo una stradapriva di traffico, chiusa per lavori in corso. Intanto piove, per cuisfoderiamo impermeabile e ombrello e tiriamo avanti senza altrenovità, almeno fino a Pailhès. Abbiamo camminato per 22chilometri e sentiamo i morsi della fame, ma non troviamo né unbar, né un negozio. Bussiamo ad una porta e chiediamo un pezzodi pane a una signora che ci porta una baguette intera. Vogliamopagare, ma la signora non accetta neanche un euro. Ringraziamoe, seduti su una panca al riparo dalla pioggia, mangiamo il nostropane quotidiano con formaggio e marmellata che abbiamo

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sempre nello zaino. Ci dirigiamo verso Sabarat e, quindi, asinistra per Le-Mas-d’Azil, dove speriamo di trovare ricoveroper la notte. La strada è ancora lunga e, a sera, avremo fatto nonmeno di trentacinque chilometri. Finalmente giunti in questalocalità turistica, cerchiamo dapprima il Pastore della chiesa(protestante), che ci era stato indicato come punto d’appoggio.Non troviamo il Pastore, occupato con i riti della settimana santa.L’albergo a fianco della chiesa è chiuso e, al bar, ci indicano unaffittacamere poco lontano dove, finalmente, troviamo alloggio.Questa sera una pizza ci basterà.

Domenica 29 marzo, dopo una visita alla chiesa, riprendiamoil cammino passando per le grotte. Una sfilata di auto d’epoca cicostringe a una sosta, anche per ammirare alcuni modelli annitrenta. Le grotte formano una galleria naturale e sono moltovisitate ma noi, dopo alcune foto, allunghiamo il passo per unastrada panoramica e poco frequentata. Giunti a Lescure,prendiamo un viottolo in mezzo al bosco per sbucare in un’altrastrada, trafficata, che porta a Saint Girons. Noi, però, vogliamoarrivare a St-Lizier, che vediamo in alto sulla destra e dovesperiamo di trovare alloggio. Qui giunti, chiediamo al parroco seci può dare una camera. Lui ci chiede se abbiamo prenotato e,alla nostra risposta negativa, ci dice che non c’è posto peravventurieri e ci lascia per seguire i canti religiosi. A questopunto ci viene indicato un albergo poco lontano che, però, èchiuso per turno. Per nostra fortuna, troviamo il titolare, che ciassegna la camera. “Per la cena dovete arrangiarvi” ci dice. Lasera stessa ci sobbarchiamo altri tre chilometri per trovare unapizza d’asporto e altrettanti per rientrare al nostro albergo, Hotelde la Tour.

Lunedì 30 marzo. Questa mattina costeggiamo il fiume Salat,affluente della Garonna, lungo una stradicciola tra i prati. E’ unbel camminare, accompagnati dal mormorio delle acque. Ognitanto una presa d’acqua viene canalizzata per servire, più avanti,una centrale elettrica. Giunti a Prat-Bonrepaux, ci viene l’idea diprendere il cammino per Aspet, dove pensiamo di trovare

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alloggio. Fatti almeno cinque chilometri, per buona parte insalita, chiediamo a delle persone informazioni sulla località cheintendiamo raggiungere e ci vien detto che lì non si trova dapernottare, ma che si deve andare a Salies-du-Salat, importantecentro alla confluenza del fiume Salat con la Garonna. Torniamoallora verso il fiume che avevamo lasciato, ritrovandolo aBastide-du-Salat e seguendone il corso fino a Salies-du-Salat.Qui giunti, sempre per strada amena e tranquilla, troviamo ilnostro alloggio e possiamo anche goderci la graziosa cittadina.

Martedì 31 marzo. Ieri sera ho mangiato troppo e questa notteho “ramengato”. Dopo una leggera colazione, partiamo alla voltadi Montsaunes e incontriamo La Garonne, grande fiume chesfocia a Bordeaux. Troviamo poi una pista ciclabile che fa pernoi, perché conduce verso San Gaudens, fiancheggiando unaferrovia. Attraversiamo alcuni paesini: Beauchalot, Labarthe eMiramont. Entriamo quindi a St-Gaudens, che è un grossocentro con belle vie e una grande cattedrale gotica. Oggi è statauna giornata tranquilla, passata tra mandrie di mucche, pecore,capre, cavalli e anche cani e gatti, quasi sempre in apertacampagna. Solo l’ultimo tratto è in salita ma, in compenso,abbiamo trovato una bella sistemazione, in posizionepanoramica.

Mercoledì 1 aprile. A colazione ci viene servito un cappuc-cino con una sola porzione di marmellata; chiedo alla barista, chesta chiacchierando, dell’altra marmellata. Dopo cinque minuti lasignora si decide, con sovrana tirchieria, a portarcene un altropezzettino. Allora mi ricordo di averne io, nello zaino, un vasettoe me lo prendo. La signora, accortasi, corre ai ripari, servendocialtro caffelatte e altra marmellata. Ci dirigiamo verso Montrejéau, che raggiungiamo sull’ora dimezzodì. All’entrata della città facciamo un po’ di confusione,sbagliando percorso: andiamo fino alla stazione del treno eprendiamo una strada senza uscita. Dobbiamo ritornare e salireverso il centro della cittadina, per seguire una strada secondaria,ma panoramica, che passa per St-Laurent-de-Neste. Chiediamo

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informazioni presso un bar, dove ci siamo fermati per un caffè, eci viene consigliato di andare verso Lannemezan, dove si trovaun ottimo albergo a buon prezzo. Il consiglio si dimostraazzeccato, perché troviamo pernottamento, cena e colazione, iltutto per sessantasette euro, all’Hotel Restaurant La Demi Lune.

Giovedì 2 aprile. Due chilometri di strada trafficata ci portanoa Lannemezan, bella cittadina attiva, che attraversiamo per ilcentro. Giunti a Capvern, troviamo una strada secondaria che citoglie dal traffico e attraversa alcuni paesi, Mauvezin eBonnemazon, dove sostiamo per ristorarci nell’ora di mezzodì.Scegliamo ora una stradina secondaria e troviamo il segno dellaconchiglia: abbiamo trovato ancora una volta il cammino diSantiago de Compostela. Il sentiero attraversa boschi e alture,tanto che perdiamo l’orientamento. Chiediamo informazioni perBagnères-de-Bigorre e ci dicono che mancano ancora tredicichilometri. Finalmente a Bettes ritroviamo il nostro orientamentoe possiamo raggiungere, stanchi, la meta odierna.

Venerdì 3 aprile. Non siamo rimasti soddisfatti del servizio, aBagnères. Per avere un po’ di vino ho dovuto pagare l’interabottiglia: otto euro. Il cameriere è stato antipatico e nella cameravicina qualcuno teneva alto il volume della radio. In compenso,oggi dovremmo arrivare a Lourdes. Usciamo dalla città seguendoun marciapiede che ci ripara dal traffico. Dopo tre chilometri, aPouzac prendiamo una strada secondaria in aperta campagna, trale colline. Si vedono solo fattorie e animali. Troviamo qualchepaesino: Arrodets, Les Angles e quindi, ad Anclades, troviamol’insegna di Lourdes. Ancora qualche chilometro di trafficomolesto e siamo in centro, alla ricerca di un ostello. Cerchiamoprima dalle suore, ma queste ci indicano la “Halte St-Jacques”vicino al santuario, dove troviamo un adeguata sistemazione.Siamo accolti da un signore che, saputo del nostro peregrinare, cifa mille complimenti. Ci fa scegliere una camera di nostrogradimento e ci prepara anche la cena. Restiamo per almeno duenotti per avere modo di visitare il santuario, la grotta e le altrebelle cose di Lourdes.

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Sabato 4 aprile lo dedichiamo alla visita della città. Prima ilsantuario e la grotta delle apparizioni, dove sta per finire unasanta messa, celebrata da un vescovo tedesco per un gruppo digitanti di quella nazionalità. Subito dopo ne inizia una infrancese, a cui assistiamo anche noi. Poi facciamo il giro dellagrotta, toccando le pietre umide per l’acqua che trasuda. Bisognadire che l’acqua di Lourdes è molto buona da bere. Spendiamo ilresto del mattino acquistando cartoline e souvenirs per amici eparenti. Sul ponte del fiume Pau notiamo uno strano individuo,agghindato da pellegrino, che non posso fare a meno difotografare. Chiedo poi il suo nome e mi risponde che si chiamaAntonio, che è di Madrid e che sta girando a piedi da sette anni.“Sono stato a Gerusalemme e ad Assisi” ci dice, “sono statoanche al santuario di Sant’Antonio a Padova”. Lourdes è piena dialberghi, pellegrini, ammalati a tanta gente strana come, forse, losiamo anche noi. Assistiamo alla cerimonia delle Palme nellachiesa del santuario e quindi troviamo un ristorante vicino alnostro alloggio, dove rientriamo stanchi a riposare e ad assistere,da lontano, alla processione del Sabato Santo.

Domenica 5 aprile ci viene servita un’ottima colazione e poichiediamo per pagare. “Fate una offerta”, ci viene risposto.Lascio cinquanta euro e quel signore me ne vuole rendere dieci.Ringrazio per l’ospitalità e ce ne andiamo, passando per ilsantuario a raccogliere l’acqua. Imelda vuole regalarne a tutti e sisobbarca un peso non da poco. Oggi siamo diretti ad Asson,presso la parrocchia, dove siamo già annunciati. Seguiamo ilcorso del fiume Pau attraversando un bosco, la Forêt de Lourdes,oggi percorsa da comitive di cicloturisti. Il cammino è facile,fino a Lastelle Bétharram, dove si trova un santuario dedicatoalla Via Crucis. Anche per noi comincia la “Via Crucis”, perchéil sentiero sale ripido fino ad un sacello, dove è raffigurata unaCrocifissione. Questa è anche una posizione panoramica, che ciruba un po’ di tempo. Riprendiamo attraverso il bosco, per uscirein una zona collinare, tutta coltivata a prato. Raggiunto il fiumeOuzom, tributario del Pau, ne seguiamo il corso fino a raggiun-

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gere Asson, che si vede un po’ in alto. Troviamo subito unristorante-bar per un caffè e anche per prenotare la cena. Intantocerchiamo la “Paroisse” vicino alla chiesa e, qui, troviamo ilnostro alloggio.

Lunedì 6 aprile. Questa mattina ce la prendiamo comoda,perché abbiamo in programma solo diciannove chilometri. Ilnostro arrivo è già annunciato e non dovremo cercare il letto.Camminiamo tra colline prative, dove pascolano i soliti animali:pecore, capre, asini, cavalli e mandrie di mucche. Le case hannoi tetti spioventi, con lucernari evidenti, come costuma da noi inmontagna, specie in Alto Adige. Sullo sfondo, a sud, sempre iPirenei innevati. Attraversiamo alcuni paesi: Bruges, Capbis,Mifaget, Ste-Colome e siamo ad Arudy nel primo pomeriggio. Ilparroco non c’è, occupato per i riti della settimana santa. Una piadonna, forse commossa nel vedere due poveri pellegrini sperduti,ci conduce dalle suore. Anche queste sono fuori per la settimanasanta. Allora si ricordano che in paese c’è un’italiana e ci condu-cono in una casa, dove troviamo una vecchia di ottantotto anni,qui emigrata nel ’53 da Paularo, nel Friuli. Costei ci fa unagrande festa: ci racconta di essere venuta da Paularo con ilmarito e cinque figli, quando in Italia non si trovava da lavorare.“Qui ci hanno accolto, qui mio marito ha lavorato comefalegname, ha costruito mobili per tutti e anche per la nostracasa. Vedete questi mobili; sono suoi”. Tante altre cose ciracconta questa donna, felice di poter parlare con noi nella linguamadre. A sera, dopo aver depositato i nostri zaini nella camera incanonica, ceniamo con lei, che non smette mai di raccontare lesue storie di gioventù.

Martedì 7 aprile. Durante la notte comincia a piovere. Lapioggia ci accompagnerà durante tutto il cammino odierno. Ilprete che ci ha ospitato e offerto la colazione, ci spiega anche ilpercorso di oggi fin quasi all’arrivo. Consigli preziosi, che ciconsentono di andare tranquilli. Dopo un breve tratto di strada, siesce a Buzy e si segue una carrareccia, toccando alcuni paesiniagricoli: Buziet, Ogeu-les-Bains, dove troviamo un caffè e una

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breve sosta. Dopo Herrère, attraversata la statale, troviamo Escoued Escout e arriviamo a Précilhon. Qui pranziamo in piedi, sottouna pensilina: uova avute dal prete a colazione e messe da parte,crackers, formaggio, pomodori e altre cose che portiamo semprecon noi. Giunti al ponte del diavolo, sul fiume Escou, si segueuna stradina sterrata e si entra a Oloron-Ste-Marie, bella cittàdell’Aquitania. Un’auto si ferma e il conducente ci chiede sesiamo pellegrini di Compostella, per indicarci un posto dovealloggiare la notte. Intanto veniamo a sapere che in Italia c’èstato il terremoto e che l’Aquila è semidistrutta. Conosciamol’Aquila per esserci arrivati a piedi nel 2006, quando abbiamopercorso il cammino da Rimini, seguendo l’Appennino marchi-giano, i monti Sibillini e il Gran Sasso.

Mercoledì 8 aprile. E’ tornato il bel tempo; il cielo azzurro hasolo qualche straccio di nuvole bianche. Usciti da Oloron,imbocchiamo un bel viale fino a Moumour. Qualche chilometropiù avanti, usciamo dalla statale, a Orin, per seguire una viasecondaria, tra i campi, che tocca paesini agricoli: Géronce e St-Goin. Sosta per pranzo al sacco e subito troviamo il bar per uncaffè. La gente ci saluta e chiede se siamo di St-Jacques. Spessoci dà consigli sul percorso, anche fuori strada, e così oggiarriviamo presto alla meta, l’Hospital St. Blaise. Qui c’è soloun’antica chiesa romanica, patrimonio dell’Unesco, unalberghetto, chiuso, un ristorante, pure chiuso, e due turisti checercano di entrare nella chiesa. Sulla porta della chiesa c’è uncartello con un numero di telefono. Mi faccio aiutare dai turistiper chiamare il guardiano e, dopo un’ora di attesa, arriva un talein motorino. Questi ci apre e ci fa visitare la chiesa e ci conducepoi in un locale poco lontano, dove c’è un ostello per pellegrini,con sedici brande e una cucina. È qui che alloggeremo. Ciaccompagna poi al ristorante, chiuso per turno, e ci fa prepararela cena, che consumiamo nel nostro ostello. Anche per oggi èfatta, un sonno tranquillo e un dolce risveglio.

Giovedì 9 aprile. C’è un po’di foschia, ma poi viene il sole.Prendiamo la stradina con il numero D25 e quindi, superato un

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ponte, seguiamo uno sterrato in mezzo al bosco. E’ più tranquilloche non fare la strada, ma mia moglie continua a borbottare chesarebbe più sicuro andare per la strada. Sono punti di vistadiversi, che ci fanno anche litigare, così che il tempo passameglio. Una guida, che ci portiamo da Lourdes, dice che ilpaesaggio è bucolico, ed è vero: fattorie, mandrie, greggi, cani egalline ci accompagnano lungo il percorso con, sullo sfondo, imonti innevati. Arriviamo, così, ad una cappella dedicata a NotreDame de Lourdes; ma per entrare bisogna chiedere le chiavi aduna famiglia vicina, perciò rinunciamo e tiriamo avanti per lanostra strada, accontentandoci di qualche foto. Seguiamo ora unacarrareccia tra i campi e chiediamo informazioni, per nonsbagliare, a un trattorista (non un oste, ma un contadino). Costuidice che siamo fuori strada e che dobbiamo tornare indietro, finoalla mandria che si vede lontano. Rifacciamo l’ultimo tratto distrada, prima in discesa e quindi in salita. Ma quale fatica!Finalmente ritroviamo i segni del Compostella. Giunti sullacollina, vediamo in basso il panorama di Mauléon-Licharre,nostra meta odierna. All’ufficio turistico ci chiedono se siamopellegrini e quindi ci danno un indirizzo, vicino alla chiesa. Quitroviamo una donna, la quale dice che dobbiamo salire sul colle,dove sta il monastero dei frati. Un’altra mezz’ora di fatiche e,finalmente, ci troviamo nei giardini di un grande fabbricato, insplendida posizione panoramica, sopra la città. I frati sannoscegliere i loro soggiorni. Qui siamo accolti a braccia aperte,condotti in una bella camera e invitati, per le ore sette, alla cenacon loro. Alla cena, il priore ci racconta di conoscere l’Italia,specie una cittadina con un ponte famoso. “E’ Bassano delGrappa” dico io. Il priore si ricorda di Bassano e di Asiago.Ricorda anche una bella moto che si costruiva a Breganze, lamoto Laverda. Parliamo anche delle Rogazioni di Asiago,accompagnate da quei canti che tanto ricordano, nel tono, i cantiBaschi. Alla sera, non possiamo rinunciare alla cerimonia delGiovedì Santo, nella chiesa giù in paese. Noi andiamo a piedi e ifrati in macchina. Gli inni sacri sono cantati in latino, francese e

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in una lingua sconosciuta. Chiedo a una signora lì vicino e leirisponde che sono canti in basco, la lingua locale. Una giornatache sembrava semplice è stata davvero piena di sorprese e ditante belle novità.

Venerdì 10 aprile. A colazione, il priore ci consegna unbiglietto con un indirizzo per la sera. Dopo aver lasciatoun’offerta, ci avviamo giù per la scalinata, pieni di ammirazioneper la bella posizione. In paese cerchiamo una panetteria e delcompanatico, perché oggi sarà difficile trovare cibarie. Infatti, néa Garindei, né a Ordiarp ci sono negozi. Poi solo fattorie e greggie mandrie. Vediamo un toro accarezzare con la lingua il collo diuna vacca, la quale rovescia in alto gli occhi dal piacere. Miamoglie mi fa: “Se tu fossi così affettuoso, qualche volta!” Capitola lezione? Intanto il tempo peggiora e comincia a piovere. Perotto lunghi chilometri subiamo gli oltraggi del tempo, conpioggia battente e vento. Giunti a un paesino, stento a trovare ilbiglietto datomi dai frati. Un piccolo riparo mi consente divedere che il locale di fronte a noi è il nostro rifugio. E’ unatrattoria con alloggio, dove siamo accolti. Imelda non ne escepiù, accontentandosi della doccia, di stendere ad asciugare ipanni e a riposare. Io, invece, esco per visitare il paesino diSt. Juste Ibarre e cercare la strada per il giorno dopo, ma rientroquasi subito a causa della pioggia battente.

Sabato 11 aprile partiamo con gli ombrelli aperti per unastrada quasi priva di traffico. Dopo tre chilometri imbocchiamouna stradina sulla sinistra, che dovrà portarci al colleAskorizabal, trecento metri in alto. Il paesaggio è gradevole:sembra di essere in Alto Adige, dove i prati sono ben curati, lefattorie in ordine e le case richiamano la medesima architettura.Anche le indicazioni stradali sono bilingue: francese e basco.Una mandria di vacche ci segue per almeno un chilometro. Forsehanno capito che stiamo andando a Pamplona, dove i toricorrono liberi per le strade. Con il bastone le mando indietro, allaloro stalla. Scendiamo ora nel paesino di Bussunaritz e cifermiamo sotto un portico, vicino alla chiesa. Un gruppo di

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giovani sta allestendo un gazebo per la festa di Pasqua.Consumiamo qui il nostro pranzo e ce ne andiamo, dopo averfotografato i giovani al lavoro, fino a Saint-Jean-Le-Vieux persostare in un bar a prendere un caffè. La barista ci indica anche lavia per arrivare a St-Jean-Pied-de-Port, la nostra meta odierna.Ancora un paio d’ore di strada e siamo alle porte della cittadina,punto di partenza dei pellegrini di Compostella. Ci facciamoriprendere sulla porta di entrata e cerchiamo subito l’“AccueilSaint Jacques”. Qui dichiariamo le nostre generalità, la nostranazionalità e il luogo di partenza. Rimangono un po’ perplessi,quando dichiariamo che veniamo da Assisi, ma sono abituati atanta gente strana, che non ci fanno caso. Ci assegnano il nostroposto per dormire, dove posiamo lo zaino e dove possiamo farela doccia. Poi usciamo a visitare la cittadina attraverso una lungavia piena di turisti, pellegrini e negozi di souvenirs. Alla seratroviamo un ottimo ristorante e filiamo in branda per dormire.

Domenica 12 aprile. Oggi è Pasqua, ma noi dobbiamo salirefino a Roncisvalle per il passo Ibaneta, perché l’altra via, più altae più panoramica, è coperta di neve. Molti cartelli avvisano ipellegrini di non prendere quest’ultima via, molto pericolosa. Ieriè morto un pellegrino, che non aveva dato ascolto alleraccomandazioni. Ora incontriamo tanta gente, perché ilcammino verso Compostella è conosciuto in tutto il mondo ed èfrequentato giornalmente da centinaia di pellegrini. Seguiamo unsentiero in vista della strada che porta al passo fino a Valcarlos,dove usciamo nelle strade del paesino. Essendo il giorno diPasqua le vie sono invase da una festa folcloristica, conmanichini issati in alto da giovani in costume basco,accompagnati da una banda di pifferi e cornamuse. Non possofare a meno di fotografare questa festa paesana. Ripreso ilsentiero, sempre in salita, cominciamo a fare le primeconoscenze. Un torinese ha lasciato la famiglia per cercare undiversivo, ci dice; due ragazze, che sembrano amiche, ci diconoche sono una di Zurigo e l’altra di Bratislava. Con questipercorriamo l’ultimo tratto in salita, scivolando spesso nella

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neve. Intanto squilla il telefonino di mia moglie ed è Rebecca chechiama. “Nonni, avete mandato una cartolina al prete e a meniente” ci dice. Rispondo che la cartolina arriverà anche a lei,non ci siamo dimenticati. Tutto questo perché don Maurizioaveva letto in chiesa la nostra cartolina, il giorno di Pasqua. Alpasso Ibaneta scattiamo alcune foto per ricordare il paesaggioinnevato e ci avviamo in discesa verso Roncisvalle. Qui giunti, cipresentiamo in accoglienza per avere il posto letto. Per la cenadobbiamo prenotare un posto nel vicino ristorante. In giro c’èmolta confusione, tutti i pellegrini sembrano spaesati e anche noilo siamo. Nella camerata, vicino a noi, sento parlare veneto: sonoquattro donne ciarliere di Padova e Venezia. La sera siamo inchiesa per la messa pasquale.

Lunedì 13 aprile ci svegliamo presto e partiamo subito, allesette e mezzo, per un sentiero ben segnato con la freccia gialla ela conchiglia. Incontriamo una coppia di Cuneo e familia-rizziamo subito con loro. Staremo in loro compagnia fino aPamplona. Ritroviamo una delle due ragazze di ieri e chiediamoche fine ha fatto la sua amica. “Mi ha appena chiamato,dicendomi di avere sbagliato strada; ora deve fare due chilometria ritroso per riprendere il cammino giusto”. La tappa di oggi èpiuttosto lunga: ventisette chilometri. Ci troviamo ora in mezzoal pantano con le scarpe tutte inzaccherate, perché nei giorniscorsi è piovuto parecchio. Attraversiamo alcuni paesini agricoli,dove gli abitanti si dimostrano indifferenti alle schiere dipellegrini che passano in continuazione; ormai sono assuefatti alvia-vai. Arriviamo a Larrasoana verso sera e troviamo unbell’albergo del pellegrino, rinnovato di recente, ma senzacoperte. Durante la notte dovremo coprirci con tutti gli stracciche abbiamo nello zaino. Abbiamo passato una bella serata alristorante, dove abbiamo ritrovato il torinese che raccontavabarzellette a una tavolata, in un linguaggio colorito, un misto diitaliano, spagnolo, francese, tedesco e altri dialetti sconosciuti.Tutti ridevano a crepapelle.

Martedì 14 aprile. Siamo in cammino da trenta giorni e

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sentiamo nostalgia di casa. Ritroviamo gli amici di Cuneo,Simona e Giuseppe, e li avvisiamo che è il momento di lasciarci,perché noi, arrivati a Pamplona, prenderemo il treno. Non cisentiamo stanchi, ma il nostro programma prevede questoritorno. Comincia a fare caldo e io mi tolgo il giubbetto. Unaragazza, dietro di noi, dice “ottima idea, lo faccio anch’io”.Chiedo da dove viene, credendola italiana. Mi risponde di essereirlandese e di avere una laurea in lingua italiana. Come si vede, èfacile fare amicizie. Ritroviamo gli amici di Cuneo a Pamplona,nella piazza del municipio, dove in certe occasioni si lascianoandare liberi i tori e la gente, pazza, viene da tutto il mondo afarsi incornare. Ritroviamo altre persone conosciute, ci salutia-mo, ci scambiamo gli indirizzi e corriamo in stazione a fare ilbiglietto. Sarà un viaggio movimentato: Pamplona – Hendaye; daqui a Biarritz, dove pernottiamo. Biarritz – Toulouse – Marsiglia– Nizza. Cambio treno e viaggio fino a Ventimiglia, dovepernottiamo ancora e, il giorno dopo, 16 aprile, finalmente siamoa casa.

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QUINTA PARTE

Il 19 settembre 2009 prendiamo l’aereo Ryanair da Orio perSaragozza e ci arriviamo in un battibaleno: altro che a piedi! E’con noi Giuseppe, intenzionato a compiere il cammino da Iruna aFinisterrae, quindi oltre Santiago de Compostela. Un suo parenteci accoglie per la notte e ci esime dal cercare un albergo. Passataqui una piacevole serata e usciti per conoscere gli orari deipullman, il giorno seguente, di buon mattino, ci avviamo versoPamplona, dove arriviamo alle nove e trenta. Si potrebbe partiresubito, ma Giuseppe vuole le sue credenziali, quel libretto cheserve per apporre il timbro all’ostello di ogni tappa e nellecattedrali maggiori. All’Officina del Turismo, però, non cel’hanno e dobbiamo andare al Centro Vescovile, attraversando lacittà vecchia e passando ancora una volta per plaza de toros eaccanto alla cattedrale. Finalmente, ricuperate le credenziali,partiamo alla volta di Cizur Menor. I primi chilometri sonofaticosi, come ci si aspettava, essendo giù di allenamento, mauna sosta in questo luogo, che è anche sede di tappa, ci rinfrancaper salire verso l’Alto del Perdon. L’altura è piena di mulinieolici di cui si è dotata la Spagna per produrre energia elettricasenza bruciare petrolio. Il paesaggio mi ricorda Don Chisciotte ei mulini a vento. Si scende ora per un tratto ripido e dissestato,spezzapiedi, mi vien da dire, ed anche spezzareni. Mi consolovedendo molti altri pellegrini soffrire per le stesse difficoltà e,così, attraversiamo alcune località caratteristiche, come Uterga,Muzurrabal e Obanos. Ci concediamo qualche sosta, specie inquesta ultima località, veramente graziosa, per poi raggiungerePuente la Reina e l’albergue de peregrinos, che in seguitochiamerò sempre e solo “ostello”. Usciamo, la sera, per la cenapresso un ristorante tipico per pellegrini, pagando in tutto diecieuro, vino e bevande comprese.

Lunedì 21 settembre riprendiamo il cammino passando per ilfamoso “Puente de la Reina”, un bel ponte monumentale in stileromano, vicino a cui troviamo di che rifornirci di viveri e frutta

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per l’intera giornata. Dal ponte vediamo l’arcobaleno, segno cheil tempo volge al buono, e questo ci mette di buon umore. Intantosi fanno nuove conoscenze, sia con qualche italiano, di cuichiediamo la provenienza, sia con gli stranieri. Non chiedetemila nazionalità, perché vengono da tutto il mondo, persino dallaNuova Zelanda o dalla Corea. Passiamo la prima cittadina:Maneru, per raggiungere Ciriaqui, che vuol dire “nido di vipere”.Imelda si spaventa, ma non è il caso, perché le vipere se ne sonoandate; ne troveremo ancora qualcuna, ma di altro natura. Lungoil sentiero troviamo frutta selvatica, more, susine e spesso ancheuva, rimasta nei tralci dopo la vendemmia. Incontriamo ancoradue paesi: Lorca e Villatuerta, prima di arrivare a Estella, aconclusione di una tappa non troppo lunga. Abbiamo modo divisitare alcune chiese importanti: San Pedro e Santo Domingo;una visita merita anche il palazzo reale di Navarra, ora sede dimuseo.

Martedì 22 settembre ci alziamo presto e presto arriviamo aIrache, dove si trova un antico monastero, chiuso a quest’ora, madove troviamo una doppia fonte: di acqua e di vino. L’acquasgorga copiosamente, tanto da dissetarci a volontà; ma del vinonon si vede goccia: forse hanno pensato che non convienel’alcole il mattino presto e nemmeno più tardi, quando si cammi-na. Intanto facciamo conoscenze: una ragazza di Forlì viaggiaaccompagnandosi con un violino, con il quale intende, suonando,procurarsi qualche soldino. Con lei sta una ragazza friulana, altadi coscia e molto disinibita: la vediamo cambiarsi di abiti nelmezzo del cortile senza curarsi di nascondere le sue belle nudità.Con le due ragazze cammina un tale di Mestrino, un paese pocolontano dal luogo in cui abitiamo noi, che dice di essere uncarabiniere in licenza. Non ha l’aria del carabiniere, perché fumacome un turco e beve anche volentieri; è un tipo allegro, che satenere compagnia. Mia moglie lo sgrida perché si accende unasigaretta dopo l’altra, ma sono parole al vento. Lui promette chemetterà la testa a posto non appena avrà terminato il Camino diCompostela e tornerà a casa, dove lo aspetta la sua ragazza

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incinta. Lasciamo questi bei tipi e andiamo avanti, passando perAzqueta e Villamayor e arriviamo a Los Arcos, attraversando lacittadina per la Calle Mayor, senza fermarci nel covo conosciutonel 2003, dove eravamo stati trattati da cani, e giungendoall’ostello comunale, diretto in modo militaresco da duevolontari. Che non sono tedeschi, come si potrebbe pensare, mainglesi. Questi bei tipi ci fanno attendere in fila il nostro turno,poi ci abbracciano uno per uno e ci assegnano il posto, fisso enon discutibile, sotto o sopra non importa, ma seguendo l’ordinedi arrivo. Non so come facciano a sopportare il nostro odorenauseabondo, sudati come siamo, dopo sei o sette ore di marcia.Io sono assegnato in una branda a terra e sopra di me sta unadonna che si dà subito da fare a impomatarsi con le creme escrollando tutta la branda. Poi mette un piede sopra la mia testaper scendere e allora interviene Imelda, che assisteva alla scena,dicendo a questa energumena che la scaletta si trova nel retrodella branda ed è di lì che si scende. La ragazza, perché di unaragazza si tratta, prende l’osservazione come un’offesa e se ne vain direzione a farsi cambiare di posto; quando torna, si riprendetutte le sue robe e va nella branda di Giuseppe, nostro compagnodi viaggio. Lasciamo questo spiacevole inconveniente e torniamoa noi. Dopo la doccia, troviamo modo di prepararci la cena nellecucine dell’ostello. Giuseppe e Imelda escono per la spesa nelpiù vicino mercato e la sera ceniamo con spaghetti e tutto ilresto, come si conviene, non dimenticando neppure la bottiglia divino della Rioja.

Mercoledì 23 settembre ci aspetta una tappa lunga ventottochilometri, anche se non troppo difficile come percorso. Legambe non dolgono più e i dolori al malleolo, che mi avevanoangustiato per tanta strada in Francia e fino a Pamplona, sonorientrati, dopo le cure di Aurelio. Questa mattina abbiamoanticipato e ben presto siamo a Sansol per una sosta caffè.Quindi siamo a Torres del Rio per una visita alla chiesaottagonale del Santo Sepolcro. Ci avviamo per Viana conGiuseppe avanti a fare strada, avendo lui la gamba più veloce

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delle nostre. A proposito, succede spesso che altri pellegrini cisorpassino perché il nostro andare è piuttosto lento: bisognatenere conto anche degli anni, che non sono pochi: trentotto pergamba. Giuseppe ci telefona di essere giunto a Viana, dove ciattende, già un’ora prima del nostro arrivo. Giunti anche noi aViana, visitiamo la splendida chiesa di Santa Maria eapprofittiamo della sosta per lo spuntino di mezzogiorno. Non ciresta che raggiungere Logrono, grande e bella città, in festa nonricordo per quale ricorrenza. Qui, ci dicono, le feste duranoalmeno otto giorni: beati loro che se lo possono permettere.Trovata la nostra cuccia e fatta la doccia, usciamo per ammirare ifesteggiamenti. Ci sono cantanti e suonatori che si esibiscono adogni angolo; venditori di cianfrusaglie di ogni specie e c’è anchela banda che si esibisce su e giù per il corso, o calle mayor, condietro un nugolo di entusiasti ammiratori. Quando rientriamo,dopo esserci rimpinzati di gelato e altre leccornie, troviamo labanda nel cortile del nostro ostello. A tutti viene offerto da beresenza sapere chi paga, mentre l’entusiasmo sale alle stelle.Rientrati nella nostra branda, non vediamo Giuseppe: dove sisarà cacciato? Quando a mezzanotte mi sveglio, ancora non vedoGiuseppe nel suo posto e comincio a preoccuparmi; poi pensoche non è minorenne e che io non sono il suo tutore. Alle tre dinotte ancora niente e solo al mattino, dopo la sveglia, appareGiuseppe assonnato. Dice di avere seguito la banda fino inpiazza e di essere rientrato quando le porte dell’ostello eranochiuse. Insomma aveva passato la notte fuori, seduto su unapanchina e senza niente per coprirsi, sopportando anche il freddodella notte.

Giovedì 24 settembre partiamo con il buio lungo la viaprincipale della città illuminata; più avanti siamo nella campagnaricca di vigneti della Rioja, famosa per i suoi vini. Troviamo uvanei vigneti abbandonati e in quelli coltivati, dove spesso riman-gono grappoli non colti dalle macchine. C’è un solo paese a metàstrada, Navarrete, ed è qui che sostiamo sull’ora di mezzogiorno,per uno spuntino. Ci appare quindi un paesaggio disseminato di

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mulini eolici sull’Alto de San Anton e arriviamo a Najera nelpomeriggio presto, pur avendo camminato per quasi trentachilometri. Ormai il nostro fisico si è assuefatto a sopportare lefatiche prolungate e non facciamo più caso alla strada dapercorrere. Anche qui siamo accolti con la cerimoniadell’abbraccio, ma abbiamo tutto il tempo per la spesa e perprepararci la cena nelle cucine dell’ostello, dopo aver visitato lachiesa di Santa Maria la Real.

Venerdì 25 settembre. Come al solito, partenza con il buio,ma ci sono la luna e le stelle, l’aria è frizzante e molti partonocantando. Io non canto, ma sono contento. Perché sono contento?Mi chiederà qualcuno. E’ questo un sentimento inesplorabile. Seio comincio a pensare perché sono contento, allora non lo sonopiù: divento triste. E’ come esplorare una particella elementare.Il principio di indeterminazione dice che, se vuoi cogliere unaqualità di questa particella, ne perdi tutte le altre, che diventanoinconoscibili. Con noi sta una signora francese che ci chiede distare in compagnia, forse per paura del buio. Poi, d’improvviso,non la vediamo più: il “Camino de Compostela” è pieno di gentestrana. Camminando spediti. All’una del pomeriggio siamo aSanto Domingo de la Calzada, bella cittadina piena di monu-menti antichi e di leggende. Sostiamo per visitare la cattedrale eper lo spuntino, ma poi proseguiamo per raggiungere Granon,parrocchia ospitale del Camino. Qui notiamo brandine e sacchi apelo stesi per terra, fin sotto il campanile, ma il posto ci sembraangusto e decidiamo di proseguire fino a Redicilla del Camino.Troviamo un bell’ambiente con pochi pellegrini e tutto il tempoper smaltire la fatica dei trentun chilometri percorsi.

Sabato 26 settembre ci alziamo e partiamo sempre con il buio:teniamo il fuso orario come in Italia, anche se siamo spostati diquasi un’ora. In ogni caso non siamo i soli, perché stamane ciaccompagna una signora canadese; succede spesso che ci siunisca con altre persone per un breve tratto, lasciandoci piùavanti per mettersi con altri. A Castildelgado un micino ci seguemiagolando ma non possiamo accettarlo in nostra compagnia.

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Attraversiamo ora solo stoppie di grano, perché i vigneti dellaRioja cessano da queste parti. A mezzogiorno siamo a Belorado,sede di un ostello, ma per noi è solo una sosta di ristoro conpasticcini appena sfornati da una panetteria. Arriviamo aVillafranca Montres de Oca alle due del pomeriggio e decidiamoche per oggi basta così, perché sono ventiquattro i chilometripercorsi.

Domenica 27 settembre. Nel cercare di fare presto a prepararelo zaino faccio confusione e ci metto più tempo, ma esco perprimo perché Giuseppe è pignolo e ci tiene a preparare bene ilsuo. Fa ancora buio, ci sono le stelle e qualcuno canta: sono lecoreane e sembrano intonare la Butterfly di Puccini. Intanto sisale verso l’Alto de La Predaia per un sentiero sconnesso inmezzo al bosco. Troviamo quindi uno slargo, forse una pista antiincendio, che scende verso San Juan de Ortega. E’ questo unantico monastero con una bella cattedrale e attiguo ostello delpellegrino, adatto per una sosta e un ristoro. Proseguiamo perAtapuerca, pubblicizzata come sito preistorico dell’uomo diNeanderthal, passando per Agès, dove si trova anche dapernottare. Per noi è ancora presto, perché intendiamo raggiun-gere la località di Olmos, già conosciuta nel precedente viaggiodel 2003. Troviamo qui un ostello poco frequentato, forse perchéil gestore ci prende sette euro a testa solo per la brandina. Ilprezzo ci sembra eccessivo, perché siamo abituati a pagarequattro euro negli altri ostelli del cammino. Ormai ci siamo erimaniamo, almeno si riposa meglio. Io approfitto del tempo adisposizione per cercare il percorso che faremo il giorno dopo emi lascio andare per un’altura panoramica che non porta danessuna parte: si vedono in lontananza mulini eolici a non finire.Quando ritorno, trovo Imelda che mi viene a cercare e insiemetroviamo il sentiero che ci porterà, domani, a Burgos.

Lunedì 28 settembre riprendiamo il cammino per il sentiero diraccordo conosciuto il giorno prima. Saliamo un po’ e quindi ciavviamo in discesa verso la periferia di Burgos: i luoghi sononoiosi, come tutte le periferie delle grandi città, ma finalmente

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siamo in centro, dove il traffico è meno intenso e più popolato dituristi. Con noi c’è Ivano di Verona e una signora francese,conosciuta in precedenza. Non è strano, anzi è frequente, ritro-vare persone già conosciute: segno che teniamo il passo deglialtri pellegrini, anche se questi a volte ci sorpassano. Ritroviamoanche Marco di Trebaseleghe, il carabiniere in licenza. Burgosmerita alcune ore per visitare almeno il centro storico e,soprattutto, la splendida cattedrale.

Martedì 29 settembre ci incamminiamo per le vie della cittàancora immersa nel buio, salvo i lampioni, per uscire dopoun’ora e più nella meseta sconfinata e piena di stoppie. I terrenisono messi a coltura di grano e le stoppie rimangono fino allasuccessiva aratura, che avviene proprio in questo periodo,donando alla campagna il caratteristico colore. Il verde apparesolamente negli avallamenti dove corrono i fiumi e dove siincontrano alcuni paesini: Tardajos, Robé de la Calzadas,Hornillos del Camino e quindi Hontanas, che è anche la metaodierna. Non par vero, ma oggi abbiamo fatto una trentina dichilometri e non è poco per chi si avvicina alle settantasetteprimavere..

Mercoledì 30 settembre. Il paesaggio non cambia di molto:sempre stoppie di grano e quindi una salita di 150 metriinterrompe la monotonia. Intanto, per passare meglio il tempo,rimuginavo tra di me una filastrocca che potesse ricordarmiquesti luoghi e il cammino di Santiago:

Lasciatemi andare – per le stoppie infinite – lungo questosentiero interminabile – dove migliaia di pellegrini – vengonodai secoli lontani – e vanno verso il mare – la fine delle terre el’inizio del mistero.

A Castrojeritz facciamo una sosta dove sei anni fa avevamofatto tappa. A Puente Fitero crediamo di trovare, nell’Eremo SanNicola, accoglienza dai Padri della Confraternita, ma rimaniamodelusi: i monaci se ne sono andati chissà dove, erano tutti vecchi,e non sono stati rimpiazzati da leve più giovani. L’eremo rimanechiuso per quasi tutto il giorno e solo di sera viene aperto da

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alcuni anziani rimasti per accogliere qualche viandante. Ancoraalcuni paesini e quindi siamo a Boadilla del Camino, paesinoagricolo, dotato di un ostello comunale, ma servito anche daun’accogliente casa gestita da un privato, che sta facendo affarid’oro. Noi prendiamo alloggio o, meglio, una brandina ciascuno,nell’ostello comunale e per la cena ci portiamo nel vicinoristorante, pieno zeppo di gente vociante e allegra. Dieci euroconto tondo e una bella cena con replica di ribollita e di fagioli, iltutto condito di vino tinto e lieta compagnia.

Giovedì 1 ottobre. La notte è passata bene, anche se avevo lostomaco pieno e russavo. Siamo presto a Fromista, altrasplendida cittadina dotata di ostello e sede della chiesa romanicadi San Martin, una meraviglia. Seguiamo ora il cammino lungoun canale nel quale trovano alloggio molte zanzare. Dopo lezanzare ci vengono a tormentare anche le mosche, perché stiamoattraversando una campagna coltivata a prati e non mancano lemucche al pascolo con il loro seguito di tafani. Con noi camminauna signora francese. Strana signora: non viene mai al ristorante,né di giorno e nemmeno la sera; mangia sempre e solo scatolette,quasi di nascosto e se ne sta sulle sue, ma poi, quando ripar-tiamo, è pronta ad accodarsi: forse la rincuora e la rassicura ilnostro andare da veterani del cammino. Lo avevo osservatoanche in primavera, quando una giovane coppia di Cuneo si eramessa con noi e non ci abbandonava più. Li avevamo avvertitiche a Pamplona ci saremmo fermati per tornare a casa eriprendere in altra data, in quanto avevamo già un mese dicammino da Montpellier e che andassero pure avanti. Solo nellaplaza de toros riuscimmo a salutarci, con promessa che saremmoandati a trovarli nelle Alpi di Cuneo, dove tenevano una villetta.Promessa non mantenuta, perché ci attendevano altre mete.Attraversiamo intanto alcuni paesini agricoli, seguendo ilsentiero sterrato che fiancheggia la strada. Il paesaggio è piatto emonotono o, forse, siamo noi piuttosto stanchi. Ed eccoci aVillacazar de Sirga, che vanta una splendida cattedrale dedicata aSanta Maria la Blanca. E’ un tempio romanico con ampliamenti

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gotici, ma quando si alza la testa si rimane trasecolati. Ancora seichilometri e siamo a Carrion de los Condes, altra caratteristicacittadina sul “Camino de Santiago”. Entrando in paese si notal’antico albergo del pellegrino, ora sostituito da locali piùmoderni in centro. Abbiamo ancora il tempo per gironzolare enotiamo, di fronte all’antico ostello, il museo dedicato alpellegrino, all’interno di un antico porticato: bel porticato conalte colonne di mattoni, che molti stanno fotografando, e bellachiesa antica dedicata a Santa Maria del Camino. Del XII secolo,come ci racconta il parroco, dal quale apprendiamo che in questoluogo sostò Francesco d’Assisi nel 1210. Ma questo è anche ilmotivo ispiratore del pellegrinaggio che stiamo compiendo.Questa sera ceneremo nelle cucine dell’ostello, dotate finalmentedi pentole, teglie e piatti, oggetti che in altre cucine non sitrovano. Forse si preferisce mandare i pellegrini nei variristorantini sorti in questi ultimi anni per alleggerire i viandanti.

Venerdì 2 ottobre. Usciti dalla cittadina, dopo un chilometro emezzo Imelda si accorge di aver lasciato il cappello a larga tesa,acquistato qualche giorno prima. Cavallerescamente la lasciotornare da sola a riprendersi il cappello e io, intanto, ritaglio unpaio di bastoni dai rami di una siepe. Ci incamminiamo per lasolita campagna coperta di stoppie lungo la via Aquitania, comeindica una pietra messa lì apposta per avvertire che di quipassarono i legionari romani. Allora mi viene da pensare che il“Camino de Santiago” sia più antico di quello che si racconta.Prima di San Giacomo, di qui passarono i Romani e, primaancora, forse altri popoli nomadi: ad Atapuerca abbiamo vistoche di qui passò anche l’uomo di Neanderthal! Camminando perquesti sentieri spesso ci si annoia e allora il cervello va per la suastrada senza controllo. Intanto il paesaggio si fa più mosso: lacampagna è interrotta da qualche collina coperta di vegetazioneincolta. Ora siamo a Calzadilla de la Cueza, tipico paese sortolungo il “Camino” e attraversato dall’unica via: “Calle Maior”.Eccoci ora a Terradillos de Templarios, fondata dai romani, marimasta paese agricolo e accoglienza dei pellegrini. Ci sono due

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ostelli e noi scegliamo di raggiungere quello più avanti, giàconosciuto nel 2003, ma ora rimodernato e dotato di cucina, dovepossiamo prepararci cena e colazione.

Sabato 3 ottobre partiamo alla solita ora diretti a Sahagun,tredici chilometri più avanti. Il cielo è sereno e pieno di stelle:possiamo così ammirare l’alba e il sorgere del sole, che quiappare alle ore otto e venti. Attraversiamo alcuni paesini e,intanto, notiamo un cippo che indica la metà del Camino deSantiago: siamo a trecentosettantacinque chilometri sia daRoncisvalle che da Santiago de Compostela. AttraversataSahagun, Giuseppe trova uva bianca e Imelda raccoglie noci.Mentre loro si fermano in un negozio per certe spese, io liaspetto piluccando l’uva e rompendo qualche noce. Ancora diecichilometri e siamo a Bercianos, dove ci attende una graditasorpresa: troviamo qui, a gestire l’ostello del pellegrino, unanostra compaesana di Cavazzale: Z. Lidia, sposata a uno spagno-lo, dopo varie vicissitudini. Veniamo a sapere che il maritopossiede alcune tenute di vigne e olivi e può concedersi didedicare alcuni mesi all’anno a questo servizio per i pellegrini.Imelda vorrebbe che anche noi dedicassimo parte del nostrotempo a gestire un ostello, ma è una idea che mi mette inimbarazzo perché mi costringerebbe a rimanere fermo nellostesso luogo per lungo tempo, mentre io mi sento un girovago. Inquesto luogo è tutto offerto gratuitamente: non solo il ritoreligioso nella piccola cappella, ma anche cena, pernottamento ecolazione.

Domenica 4 ottobre ci infiliamo, sempre con il buio, per unviottolo alberato. Vediamo il cielo tingersi dietro di noi, mavediamo anche apparire dei nuvoloni: il tempo volge al brutto. E’un falso allarme, perché dopo vediamo sorgere il sole. Forseeravamo ancora addormentati e sognavamo la pioggia. Sembrastrano, ma succede a volte di desiderare la pioggia: sentirlascrosciare tutto intorno mentre noi ci raccogliamo sotto il nostroombrello e la nostra mantella. Questo è un piacere sconosciuto achi sta davanti al televisore. Siamo ora a El Burgo Ranero, che io

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traduco, sempre con il mio cervello in vacanza, “La Città delleRane”. Attraversiamo il paese ancora addormentato e ciinfiliamo per un viale costeggiato di platani, rigogliosi nei luoghibassi e umidi, ma rinsecchiti nei luoghi aridi e soleggiati. Orache il sole picchia ci è gradita l’ombra di queste piante. Intantomi succede di rallentare il passo: desidero camminare da solo evorrei che i miei compagni di cammino mi concedessero questopiacere. Invece Imelda mi aspetta, perché teme che io abbiaqualche problema di salute o di stanchezza. Niente di tutto ciò:desidero rimanere da solo e lasciare che il mio cervello se nevada per conto suo, fantasticando chissà cosa. Intanto ci sorpassala ragazza friulana, quella che stava con Marco e l’altra ragazzadi Forlì. E’ arrabbiatissima: dice che la sua amica, quella di Forlì,si è messa insieme a certi giovani drogati ed è andata a dormirenella loro tenda; dice che non è un’amica, ma una sgualdrina.Intanto la vedo passare con la sua lunga gamba ad una velocitàche io neanche mi sogno: non la vedremo più. Alle tre delpomeriggio siamo a Mansilla de las Mulas, paese dotato di unbell’ostello e di una bella chiesa: ne approfittiamo per assisterealla messa, officiata dal prete pacifista, quello con il bastoneornato di rametti di olivo. A servire da chierichetto c’è Marco, ilcarabiniere in licenza, quello che fuma come un turco, unasigaretta dopo l’altra e che a casa l’aspetta la fidanzata incinta.Imelda lo redarguisce: “Devi smettere con le sigarette, devimettere la testa a posto e comportarti da uomo serio”. Lui pro-mette che smetterà di fumare, che sarà un buon padre per la suabambina che nascerà e che è venuto al Camino proprio permaturare questi propositi. Intanto, dopo la messa, c’è la cenadove vengono stappate alcune bottiglie di vino, ne viene offerto atutti e Marco e il Prete pacifista si mettono a cantare dellecanzoncine non proprio religiose. “La bella violetta, O che belfior” e altre storielle edificanti. Il prete dice: “Io volevoconvertire lui, ma temo che sia lui a convertire me”. Intorno a noisi fa ressa e tutti vogliono cantare, così che la serata finisce inallegria.

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Lunedì 5 ottobre ci avviamo per una strada di campagna, checorre lungo un canale. Il percorso è piatto e monotono, mentre ilmio passo è piuttosto lento: forse si fa sentire la libagione di ierisera. Lasciamo andare Giuseppe, che ha il passo più veloce delnostro, mentre noi, come è nostro costume, ce la prendiamocomoda, raccogliendo uva e pere nei poderi che fiancheggiano ilpercorso. Non rubiamo niente, perché raccogliamo quello cherimane dopo la vendemmia o in orti abbandonati. Rivediamo orala signora francese, già conosciuta, intenta a mangiucchiare lesue cose e che si rimette in nostra compagnia. Alle due delpomeriggio siamo a Leon, che possiamo visitare, avendone tuttoil tempo. Leon è piena di bancarelle per una festa che non ciinteressa più di tanto. Si tratta delle festa del santo patrono, SanFrolian, cioè san Floriano, come il patrono di Vigardolo, il nostropaese. In piazza, di fronte alla cattedrale di Santa Maria la Regia,c’è una manifestazione rumorosa, con tanta gente in festa, ma anoi interessa visitare la cattedrale e il museo adiacente. Veniamoa sapere che la sera stessa ci sarà una messa con canto ingregoriano, alla quale non manchiamo. Il finale della giornatanon è molto simpatico, ma lo voglio raccontare. Nell’entratadell’ostello c’è un frigo per le bibite molto rumoroso, tanto che,una volta a letto, non riesco a prendere sonno. Chiedo alguardiano di spegnere quell’aggeggio, ma questi mi risponde chelo farà alle ore undici, non prima. Io cerco allora di staccare laspina elettrica, ma il guardiano mi richiama e riattacca. Devoaspettare che arrivino le undici per prendere possesso del mioletto e trovare la tranquillità

Martedì 6 ottobre mi avvio da solo per un lungo viale cheporta al “Puente San Marcos”. Qui giunto, vedo la francese chesta pappandosi una bella pizza e aspetto i nostri, Imelda eGiuseppe. Aspetto mezz’ora all’imbocco del ponte e poi lascioun biglietto per segnalare che sono passato da qui e che non miaspettino invano. “Ci ritroveremo a San Martin” scrivo nelbiglietto. Invece incontro subito dopo i miei compagni diviaggio, che avevano preso un’altra via e avevano attraversato il

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fiume per un altro ponte. Poco più avanti, a La Virgen delCamino, Giuseppe ci lascia per proseguire da solo. Siamod’accordo che lui, avendo il passo più veloce, arrivi in anticipo aSantiago e prosegua per Fisterra, sulla riva dell’oceano. Sono tretappe in più, ma siamo d’accordo di telefonarci e di tenere ilcontatto per il viaggio di ritorno. Il percorso oggi è noioso,perché corre su uno sterrato lungo la Carretera, strada moltotrafficata. A San Martin ci fermiamo all’Albergue Santa Ana,dove ci viene offerta una camera privata a sei euro per persona.Era ora di passare una notte tranquilla e dimenticare il frigo dellebibite. Abbiamo anche il tempo per fare la spesa per la cena,trovando anche la bottiglia di olio d’oliva da gr. 250: ne avremoper condire l’insalata per più volte. Per questa sera, intanto, cenain privato.

Mercoledì 7 ottobre. Questa mattina colazione in albergo. LaTV ci mostra tutta la Spagna coperta di nubi e le strisce dellapioggia. Difatti, appena usciti, dobbiamo sfilare i nostri ombrellie i nostri impermeabili. Camminiamo spediti fino a Puente deOrbigo. Una tregua del maltempo mi permette di fotografare ilponte romano e i luoghi tanto caratteristici. Ripreso il cammino,riprende anche a piovere e non c’è modo di fare qualche sosta diriposo. Solo più avanti, verso Santibanes, possiamo piluccare idue grappoli d’uva presi nella pergola dell’albergo. Arriviamostanchi a San Justo de la Vega per trovare un bar in cui sederci eriposare. Vediamo la città di Astorga abbastanza vicina, ma lefrecce gialle ci fanno fare un lungo giro per superare unaferrovia, attraverso un ponte pedonale che ci fa salire moltigradini e ridiscendere dall’altra parte, per entrare poi in Astorgadal lato Sud e percorrere il viale centrale della città. Arriviamopresto e abbiamo tutto il tempo per visitare la bellissima Astorga,ricca di palazzi e monumenti antichi e con una splendidacattedrale. Noi prendiamo alloggio vicino al centro della città inun ostello privato, dove rivediamo alcune vecchie conoscenze:Ivano, il giovane da Verona, che ora si è messo con una ragazzacanadese, e la signora francese, che ora sappiamo si chiama

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Bernardette. Abbiamo modo di prepararci la cenetta nella cucina,utilizzando le nostre riserve di pasta e le patate raccolte lungo ilcammino.

Giovedì 8 ottobre. “Giornata piacevole, che non presentadifficoltà” recita la guida del Camino. Difatti, dopo un’ora distrada asfaltata e raggiunto Murias de Rechivaldo, ci si inoltraper uno sterrato tra l’incolto. Ci sono roverelle e arbusti vari, piùavanti qualche campo di stoppie di grano e poi colline. Siintravvedono impianti eolici e qualche paesino semiabbandonato.Comunque oggi l’andare è piacevole e il sentiero è pulito: non cisono quei fastidiosi rifiuti abbandonati lungo il cammino, perchéqui si fa pulizia. Do la mano e faccio i complimenti a unoperatore che sta facendo questo lavoro di pulizia e sogno unmodo più civile di andare per il mondo, senza abbandonare rifiutilungo il cammino. I Predicatori e gli Uomini di Stato, invece diprodurre leggi e precetti, dovrebbero andare per le strade araccogliere rifiuti; così, almeno, avremmo un ambiente pulito. Sisa, l’uomo è una scimmia un po’ evoluta e imita quello che vedefare agli eminenti.

A Santa Catalina de Somoza facciamo una breve sosta per uncaffè e continuiamo lungo una carretera asfaltata di recente.L’acre odore del bitume ci accompagna per un bel po’, fino auscire per un viottolo in salita. Abbiamo superato la quota dimille metri e, giunti a Rabanal del Camino, cerchiamo l’ostellocomunale dove una signora analfabeta ci fa scrivere il nostronome sul foglio, mentre lei altro non fa che mettere il timbrosulla credenziale. La maggior parte dei pellegrini si ferma,invece, in un rifugio privato, dove si può anche cenare, cosa chefacciamo anche noi, non avendo altra scelta. Qui c’è una taleressa che il gestore è tutto indaffarato a servire i commensali esta facendo anche buoni affari.

Venerdì 9 ottobre ci avviamo subito senza colazione perché lacucina è chiusa a chiave. La signora che gestisce l’ostello dormefino a tardi, a quanto pare. Buon per noi che camminiamo alchiaro di luna: bella esperienza anche questa. Più avanti il

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sentiero tende a salire e, scomparsa la luna, neanche il sole si favivo. Raggiunto il paesino di Foncebadon, troviamo un baraperto per il caffè del mattino. Almeno il caffè. Ci inerpichiamopoi verso il punto più alto del Camino, dove sta la famosa “Cruzde hierro”, una grande croce dove i pellegrini sono solitidepositare una pietruzza raccolta in precedenza, ma dove, questavolta, non si vede niente a causa di un nebbione che tuttoavvolge. Lungo questo sentiero, disagevole anche per i cammina-tori, passano ciclisti non autorizzati a frequentare queste viedisseminate di pietre; difatti li vediamo scendere dalla biciclettae spingerla a mano. Le indicazioni parlano chiaro: le bici devonoseguire percorsi a loro riservati con opportuni cartelli. All’unadel pomeriggio siamo a El Acebo, bel paesino pieno di scolarigiunti fin qui per una festa. Noi però siamo diretti a Molinasecaper un sentiero in discesa, almeno novecento metri più in basso,dove arriviamo per niente affaticati.

Sabato 10 ottobre partiamo senza colazione, ripromettendocidi fare sosta a Ponferrada, importante città nata e cresciuta grazieal Camino. Notiamo un grande castello, tutto avvolto da recin-zione per lavori di ristrutturazione, e lasciamo perdere. Troviamoqui una bella piazza in cui sostano gruppi di pellegrini, seduti aitavolini del bar: il solito gruppo di Coreani, venuti da cosìlontano per compiere questa fatica, chissà per quale motivo.Spesso me lo chiedo anch’io: perché si viene via dalle comoditàper faticare e sudare, alzarsi dal letto, o dalla brandina, ad un’oraassurda e andare con otto o dieci chili di zaino per trentachilometri, camminando tra i sassi e le pietre. Quale soddisfa-zione si prova mai? Meglio non pensarci e andare avanti avisitare la cattedrale e scattare qualche foto. Attraversiamo poialtre cittadine: Columbrianos, Fuentes Nuevas e Camponaraya,dove ci prendiamo una bella sosta di ristoro. Ancora cinque o seichilometri tra i vigneti e siamo a Cacabelos, che attraversiamotutta perché l’ostello si trova dalla parte opposta della città.Vedendo venire verso di me un tale con barba e asinello alseguito, prendo la macchina fotografica per ritrarlo e mi prendo

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anche una bella sgridata. Che strani tipi si incontrano da questeparti! Cacabelos ha un bell’ostello, con camerette separate, dueper due, e un ampio cortile. I pellegrini qui arrivano numerosi emolti non trovano posto. Noi siamo stati fortunati perché siamoarrivati appena in tempo e abbiamo preso gli ultimi due posti:numero 77 e 78. Usciti per la cena, vediamo passare e proseguiremolti altri pellegrini che devono trovare posto più avanti. Per noic’è anche una bella pizza in un ristorantino. Al rientro, notiamoche molti pellegrini si sono accomodati per terra o sotto latettoia: tutto va bene pur di dormire qualche ora.

Domenica 11 ottobre. Come al solito partiamo con il buio. Cisono i lampioni e c’è la luna, quindi non serve la pila. Il cammi-no si immerge ora tra i vigneti: siamo nel Bierzo, ottima zona perl’uva e per il vino. A Villafranca de Bierzo arrivi amo verso ledieci del mattino, dopo esserci rimpinzati di uva. Ci sarebbe davisitare una bella chiesa romanica, ma anche questa è in rifaci-mento e non si può entrare; dobbiamo accontentarci di una sostanella piazza, tra i tanti pellegrini, ormai divenuti amici di viag-gio. Usciti dalla città, si presenta un bivio: o seguire in basso lavalle o salire per un sentiero che s’inerpica in alto tra i pascoli e icastagni. Noi, com’è naturale, si segue la più difficile, ma anchela più panoramica. Villafranca de Bierzo rimane in basso mentreci inoltriamo nel castagneto. Ci chiniamo a raccogliere castagnecadute dai rami e incontriamo gruppi di persone, abitanti delluogo, intenti a raccogliere sacchi di castagne, che rappresentanoper loro una bella risorsa. C’è un tale con l’asino carico di sacchidi castagne, che fotografiamo volentieri, perché rappresenta unatestimonianza della vita del posto. Qui si vive ancora povera-mente e ci si accontenta di poco. Arrivati a Pradela e lasciato indisparte questo paesino di montagna, scendiamo per un ripidosentiero fino a raggiungere Trabadelo, situato in fondo alla vallee dove troviamo alloggio. Abbiamo tutto il tempo per cuocere lecastagne raccolte durante la giornata e facciamo incuriosireanche i Coreani, che escono in cerca di castagne e rientrano piùtardi per cucinarle. Intanto siamo in difficoltà per la cucina,

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perché mancano le pentole. Chiediamo a dei Francesi di prestarcila loro e, una volta preparata la minestra, un tale ci viene achiedere la pentola. Imelda non vorrebbe farlo, perché la pentolanon è nostra, ma il tale, un francese antipatico, insiste e si portavia anche parte della nostra minestra. Bisogna arrangiarsi comesi può, senza paura di fare brutta figura.

Lunedì 12 ottobre ci incamminiamo per un sentiero a latodella strada. Ci sono le stelle e c’è l’ultimo quarto di luna. Dopooltre un’ora comincia ad albeggiare e verso le nove siamo a Vegade Valcarce, giusto per una colazione con caffè e “leche”.Assaggiamo anche i dolcetti fatti in casa e ripartiamo lungo unacaretera. La strada attraversa alcuni paesini semiabbandonati perinerpicarsi poi verso O Cebreiro. Camminiamo tra i pascoli perraggiungere questa località, piena di gente arrivata in questocentro turistico con ogni mezzo. Ci sono case coperte di paglia,come usava un tempo, e si continua a usare la paglia permantenere caratteristico il luogo. Siamo a milletrecento metri diquota, il panorama è splendido, l’aria è frizzante e l’atmosfera èfestosa. Ci fermiamo in questo luogo per il resto della giornata eper passare la notte.

Martedì 13 ottobre. Contavamo di partire più tardi del solito,ma qualcuno ha acceso le luci della sala-dormitorio alle sei etrenta e così, anche per l’abitudine, ci siamo svegliati e siamopartiti con il buio. Subito non troviamo i segni del cammino, maalla fine, consultando la mappa del percorso, ci orientiamofinalmente, incontrando altri pellegrini che avevano seguito lastrada. Con la luce del giorno tutto si normalizza fino a raggiun-gere Alto de San Roque. Notiamo qui che alcuni pellegrini hannopassato la notte in tenda e incontriamo ancora una vecchiaconoscenza: una orientale che viaggia da sola. Ci racconta diessere australiana, anche se la sua faccia la farebbe giapponese ocoreana. Il percorso sale e scende in continuazione, mantenendola quota. Si incontrano alcuni paesini: Hospital, Alto de Poio eFonfria, dove incontriamo la solita donna che vende tortillaslungo la strada. Non abbiamo lo stomaco per ingerire quella

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roba: la stessa donna, vestita allo stesso modo, avevamo incon-trato nel nostro primo viaggio del 2003; ce la caviamo con uneuro di offerta. Nello stesso paesino c’è un bar, dove sostiamoper uno spuntino, di fronte alla porta di una stalla, da doveescono una quindicina di mucche. Imelda ha paura di questebestie, che non fanno del male a nessuno, e così aspettiamo chese ne vadano. Quando ripartiamo, però, ce le ritroviamo di ritor-no dall’abbeveratoio. Passato questo ostacolo che spaventa terri-bilmente Imelda, arriviamo a Viduedo e incontriamo Giovanni,un tale di Livorno, in compagnia di una signora di nome Delia,che dice di essere svizzera, ma abita tra San Miniato e SanGimignano, in Toscana. Questa signora è una pacifista che vor-rebbe iscriverci alla sua organizzazione. Dice anche di essere unaarcheologa e di conoscere bene le tombe etrusche. Mentre ascol-tiamo questi due compagni ritrovati, arriviamo di fronte a unvecchio castagno dal tronco squarciato e deteriorato. Si tratta, cidicono, del castagno piantato da Francesco d’Assisi nel 1210,durante il pellegrinaggio del Santo a Compostella. Ci vieneindicata anche la targa che porta queste indicazioni ed è dacrederci, perché la pianta è veramente antica e malandata.Arrivati a Tricastela, prendiamo alloggio nell’AlbergueMunicipal, in una cameretta per quattro persone, due cuccette acastello da una parte e due dall’altra. Noi ci sistemiamo nellaparte di sopra e usciamo per la cena in un ristorante: Soup deGalizia, vitello e torta Santiago.

Mercoledì 14 ottobre. Dalla nostra cameretta si vede il cielostellato. Partiamo alle sette e trenta, sempre con il buio einfiliamo il cammino per San Xil. Attraversiamo un paesinofantasma e perdiamo i segni caratteristici: la conchiglia e lafreccia gialla. Ci troviamo lungo una strada sterrata in mezzo albosco e riteniamo di proseguire, in qualche posto si arriverà.Dopo un’ora, finalmente, arriviamo a San Xil e ritroviamo inostri segni. Intanto siamo giunti ad Alto de Riocabo, in vista diun panorama stupendo e una vegetazione lussureggiante; solo nelfondo valle si vede un banco di nebbia o una nuvola bassa che

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sia. Troviamo anche il bar per la colazione, più che necessaria achi intende percorrere una ventina di chilometri. Giunti a Sarria,e sono diciotto e mezzo, ci concediamo una pausa e ritroviamoGiovanni di Livorno e Delia la pacifista, nonché archeologa.Siamo invitati ancora per un cammino di pace attraverso laToscana, ma a noi sembra che già questo che stiamo facendo siaun cammino pacifico. Da almeno dieci anni siamo in cammino dipace e ancora non l’abbiamo trovata. A Barbadelo troviamoalloggio poco oltre il paesino e qui incontriamo un tale di Biellache ci racconta di essere partito il nove settembre da Saint-Jean-Pied-de-Port e di avere faticato e sofferto per un dolore alginocchio. Dice di aver tirato avanti con gli antidolorifici e dinon aver nessuna intenzione di mollare. Tanti auguri e buonproseguimento.

Giovedì 15 ottobre. Questa mattina non si vedono le stelle acausa della nebbia. Buio e nebbia ci accompagnano per duechilometri, finché troviamo un bar che ci consente la colazione abase di castagne, cotte la sera prima nella cucina dell’ostello.Ripartiamo per la strada sbagliata, ma quante volte succede!Ritornati al bar, seguiamo ora gli altri pellegrini per sicurezza. InGalizia ci sono molti allevamenti di bestiame e spesso incon-triamo mandrie lungo il sentiero, sia di pecore che di mucche.All’una siamo a Portomarin e, finalmente, appare un bel sole. Ciaccomodiamo sui gradini della chiesa per consumare il nostropanino quotidiano e osservare il via-vai della gente e deipellegrini. Facciamo conoscenza con una signora austriaca,Cristina, che ci racconta della sua vita tribolata: il marito che latradiva e la picchiava, il divorzio, la libertà di girare il mondo ela libertà di trovare anche lei un altro uomo. Ma anchequest’uomo era manesco e quindi meglio sola. Tante cose sivengono a sapere dalla gente che cammina e cammina. Cristinaha anche un’amica, che viene da Melk, sul Danubio, ma che vatroppo lenta e rimane indietro. “Ci troveremo a Santiago” dice “eintanto vengo con voi”. Si va avanti fino a Ventas de Naron,dove arriviamo verso le cinque del pomeriggio e quasi trenta

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chilometri di strada. Troppo! Di questo passo arriveremo primadel previsto e dovremo aspettare, avendo la prenotazionedell’aereo per il 22 di ottobre. Giuseppe ci chiama perannunciare il suo arrivo a Santiago. Anche a Ventas de Naron lacucina dell’ostello è sprovvista di pentole e tegami: forse lofanno apposta per costringere i pellegrini a usare i ristoranti!Imelda, però, sa trovare le pentole che occorrono e anche perquesta sera siamo a posto.

Venerdì 16 ottobre. Oggi contiamo di fermarci prima diMelide per il motivo di cui parlavo, cioè non arrivare troppopresto. Invece nei paesini che incontriamo, Casanova, Leboreiroe Furelos, non ci sono ostelli del pellegrino. Ci sobbarchiamoanche oggi 27 chilometri e arriviamo a Melide, dove cerchiamocomputer con stampante per i nostri check-in. Abbiamo laprenotazione dell’aereo, ma ci occorrono questi documentid’imbarco, che si possono ottenere solo via internet. Imelda miaiuta e così riesco a stampare tutto quello che mi serve. Ora sonopiù tranquillo. In questa città abbiamo anche ritrovato l’orche-strina con le cornamuse e i tamburelli, come sei anni fa. Accantoa noi, nelle brandine, ci sono due giovani americani, forse partitida poco, con i piedi doloranti per le vesciche. Mai partiresprovveduti per la Compostela! Ci vuole molto esercizio epazienza.

Sabato 17 ottobre ci avviamo verso Arzuà con il morale alto,avendo risolto la faccenda del check-in. Al primo barincontriamo Cristina, intenta alla sua colazione a base di würstel,come usano i tedeschi e senza farsi mancare il bicchiere di vino.Io non bevo mai vino durante il cammino per non perdere ilvigore e il controllo delle mie gambe. A proposito di gambe, lamia anca sembra avere messo la testa a posto. Il dottoredell’ospedale voleva operarmi, giusto il 14 luglio scorso,tagliandomi la testa del femore e sostituendola con una al titanio.Per fortuna, mi sono fermato in tempo e ho preferito fare questoviaggio, sperando in un miracolo. Ora vedo che ho fatto bene,perché l’anca non mi duole più e cammino sempre spedito. Ad

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Arzuà facciamo tappa e la sera usciamo a prendere la pizza.Domenica 18 ottobre aspettiamo Cristina e alle otto e trenta,

come d’accordo, ripartiamo mentre sta per albeggiare. La lunanon si vede perché proprio oggi c’è la luna nuova. Ormai siamoavvezzi alle solite facce di pellegrini, come questi tre giovaniamici: uno spagnolo, uno svizzero e un egiziano; hanno dei nomiche sembrano fiumi: Pau, Insel e Nil. Come si siano conosciuti eperché vadano insieme, non si sa. Li ho già fotografati e torno ariprenderli perché sembrano la simpatia personificata. Anche icoreani e le coreane, giovani, tornano a farsi vedere. Chissà cosali ha spinti a venire fin qui a faticare, come quest’altro Aleman-no, così si presenta un tale con cappello floscio: “Sono Hans evengo da Olanda, dove insegno a studenti piccoli” dice,inchinandosi. “Allora sei un maestro” fa mia moglie. L’altro cipensa un attimo e poi ripete: “Maestro? Magister, ià!”. E’contento di sentirsi chiamare “maestro”. Così abbiamo trovato unnuovo amico, che parla in tedesco con Cristina e con noi in unostentato italiano. La simpatia, però, non ha ostacoli di linguaggio.Verso le due del pomeriggio cerchiamo un bar per una zuppa dilenticchie. Non abbiamo fretta, perché il nostro aereo partirà ilgiorno 22 di ottobre, ma i bar sono chiusi, a quest’ora, chissàperché. Qui, in Spagna, è più facile trovare aperto di notte.Bisogna accontentarsi del pane che abbiamo con noi e di qualchescatoletta di tonno. Giunti ad Arca di Pedrouzo, cerchiamol’ostello per l’ultima notte di viaggio e usciamo a visitarel’abitato, perdendoci tra le moderne stradine.

Lunedì 19 ottobre albeggia, quando attraversiamo il centro diArca per addentrarci in un bosco di eucalipti. Il paesaggiogaliziano è in continuo saliscendi. Si alternano le zone coltivate eil bosco di querce e di eucalipti. La vigna è quasi inesistente,anche perché l’uva non è buona come nella Rioja o nella Meseta.Si vede qualche mandria di pecore e dei campi di mais, che vieneancora raccolto a mano, staccando le pannocchie ad una ad una,come costumava da noi un tempo. Ed eccoci ben presto al Montede Gozo, il monte che sovrasta Santiago e che ora è trasformato

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in un immenso centro di raccolta per pellegrini e turisti. L’alturaun tempo rappresentava la gioia di aver completato una difficilemissione, oggi è solo un centro di accoglienza per turisti, con ungrande monumento dedicato a San Francesco pellegrino e alpapa Giovanni Paolo II, venuto in visita al santuario. Scendiamopoi verso Santiago e troviamo, in periferia, un localino doveristorarci nell’ora di mezzogiorno. Zuppa di lenticchie e unbicchier di vino con la nostra inseparabile Cristina. Ci avviamoquindi verso la cattedrale e quindi al Seminario Minore, dovesaremo ospiti per tre notti e dove ritroveremo tanti e tanti amiciincontrati lungo il cammino. Giuseppe, che ci aveva lasciatosubito dopo Leon per affrettarsi ed arrivare Finisterrae, ciraggiunge giusto in tempo per prendere l’aereo di ritorno.Santiago – Francoforte e Francoforte – Orio nello stesso giorno.

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CROAZIA - 2010Croazia e Medjugorje – Pianura, collina, mare

Km. 750 – gg. 33

Le idee camminano sulle gambe degli esseri umani

Giampaolo Pansa

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Siamo nel 2010 e nuovamente si fa sentire il richiamo, pernon dire la smania, di ripartire a piedi. Sempre mi attira l’idea diraggiungere Gerusalemme, per completare la triade: Roma,Compostela e quest’altra meta. Gli anni passano e l’obiettivo sifa sempre più precario, ma mai cedere; ci accontenteremo diraggiungere Trieste, Fiume, la costa dalmata e arrivare, chissà, inMontenegro. Un bel giorno di settembre, è l’undici, partiamo allachetichella giù per la strada Morosana con i nostri zaini benstipati. C’è un sottopasso che attraversa l’autostrada e che cipermette di raggiungere Lisiera e avviarci per Quinto Vicentino.Incontriamo due amici, conosciuti in occasione della marcia dicinque giorni alla Madonna del Piné, che vanno a Monte Berico.“E voi dove siete diretti?” ci chiedono. “Alla Madonna diMedjugorje”, rispondiamo. Passato Quinto, ci avviamo perVillalta e Gazzo, dove sostiamo per un breve ristoro. Riprendiamo verso Carturo e superiamo il ponte sul Brenta,scattando le foto di prassi, per raggiungere le località di Tomboloe San Martino di Lupari. Cerchiamo sempre vie secondarie,passando per piccole contrade, casolari isolati con i polli cherazzolano nel cortile e osservando in alto i campanili perorientarci. Giunti ad un passaggio a livello, le sbarre sono statebloccate e il passaggio ingabbiato. Chiediamo a una signora inauto come sia possibile superare la ferrovia e questa ci consigliaun passo a due chilometri di distanza, a ritroso. Ma io vedo unpiccolo passaggio abusivo e ne approfittiamo per attraversare ibinari e trovarci sulla strada per Castelfranco, che raggiungiamoben presto. Siamo stanchi ma soddisfatti: oggi sono trentottochilometri macinati di buona lena. A Castelfranco troviamo unafesta folcloristica: tutta la gente è in costume, la banda in piazzae due ballerine volteggiano sui trampoli. Troviamo un buonalloggio e un’ottima cena, dopo avere assistito alla messa nelduomo, dove fa bella mostra una pala del Giorgione.

Il giorno dopo, 12 settembre, ci avviamo verso Trevisoseguendo non la Postumia, ma una via secondaria, che risulteràmolto interessante. Passiamo per Albaredo, Cavasagra e altre

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località seguendo una pista ciclopedonale. Sostiamo presso unpiccolo santuario, dedicato alla Madonna dell’Albera, dove si stacelebrando un battesimo. Alla neonata viene dato il nome diBeatrice e la cerimonia è accompagnata dai trilli di una bravacantante. Proseguendo, notiamo alcune ville venete: una è la Ca’Corner della Regina mentre dell’altra, altrettanto armoniosa nelsuo bel parco, non ricordo alcun nome. Siamo passati per icomuni di Vedelago, Istrana e Paese lasciando i centri un po’ anord. Notiamo ogni tanto qualche aereo che atterra o si alzadall’aeroporto Antonio Canova di Quinto di Treviso, nel cuicentro facciamo la nostra sosta di ristoro, proprio di fronte almunicipio. Quando riprendiamo il cammino, il sole picchia forte,tanto da farci desiderare il cappello di paglia. Alle tre delpomeriggio siamo a Treviso e cerchiamo subito il centro,percorrendo viali e strade pedonali. Sbuchiamo proprio in piazzadel duomo e gironzoliamo per trovare una gelateria: un buongelato è proprio quello che ci vuole, prima di cercare l’ufficioinformazioni. Conosciamo il centro di questa bella e caratte-ristica città per esserci stati anche con i nostri nipoti Lorenzo eAndrea. Ci rivolgiamo poi all’ufficio turistico e veniamoindirizzati all’Istituto Padri di San Nicola, dove troviamoalloggio; una bella pizza completa la giornata di ventottochilometri di cammino.

Il terzo giorno ci vede partire lungo il corso del Sile, il fiumeche passa per il centro di Treviso e volge verso Silea. Vi è unabella pista sterrata per pedoni e ciclisti che segue i meandri delfiume e ci allunga il percorso, ma non importa: camminare lungoil fiume è sempre piacevole. A Silea le cose si ingarbuglianoperché non troviamo subito la strada per Biancade, doveintendiamo arrivare. Vogliamo evitare la Treviso-mare, che,sebbene più diretta, è troppo trafficata, per raggiungere Nerbon equindi gironzoliamo per la periferia della cittadina fino a che nontroviamo l’indicazione giusta. A Biancade risiedono i nostrinipoti Lorenzo e Andrea che però, in questi giorni, sono inviaggio con i loro genitori. Ci fermiamo a salutare i consuoceri,

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Serafin, che abitano in una villetta periferica. Il cancello è aperto,ma in casa non c’è nessuno, perché nessuno risponde alcampanello; cosa facciamo? Dopo avere atteso per una ventina diminuti, lasciamo un biglietto di saluti e ce ne andiamo indirezione Monastier. Siamo avanti un chilometro, quando suonail cellulare di Imelda: è Fabiano che ci chiede di tornare daiSerafin, che ci aspettano e hanno già buttato la pastasciutta.Ripercorriamo la strada fatta e troviamo una calorosaaccoglienza, non solo per il pranzo di mezzogiorno, ma anche lacena per la sera e la camera per la notte. Oggi solo quindicichilometri. Ma ne valeva la pena.

Il quarto giorno ci vede, riposati, rifare la strada perMonastier, seguendo i meandri di un fiumiciattolo fino a unastrada alquanto trafficata. In vista del centro, svoltiamo a destraper Fossalta di Piave. Incontriamo qui due escursionisti a piedicome noi e con lo zaino in spalla; spontaneamente chiedo loro dadove vengono e mi rispondono di venire da Munek o München,cioè dalla Baviera e di essere diretti a Venezia. Ci mettiamo incompagnia per attraversare il ponte sul Piave, ponte di barche apagamento, essendo privato. Proprio nel centro del ponte c’è ilbotteghino per il pedaggio e io chiedo “Dobbiamo pagare anchenoi pedoni?” “Se siete italiani, no!” mi fa la cassiera. “Noi siamoitaliani, ma loro due sono stranieri”, faccio io. “Allora nonpassano!” ribadisce la cassiera. “Perché?” chiedo io. “Il Piavemormorò – non passa lo straniero”, è la conclusione. Ritroviamoi due stranieri la sera stessa, nel medesimo albergo: sonotransitati da un altro ponte, costruito dopo il 24 Maggio 1915.Noi invece, superato il ponte di barche, ci avventuriamo per unsentiero tra gli alberi e la macchia che avvolge le anse del fiumefino all’abitato di San Donà di Piave, città sparsa tra acquitrini ebonifiche. Oggi sono ventiquattro chilometri: una tappaintermedia.

Il quindici di settembre ci avviamo per Colnova con l’intentodi raggiungere La Salute di Livenza e proseguire, magari, piùavanti. La strada è diritta e lunghissima: un rettilineo per quindici

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chilometri. non molto trafficato, per fortuna; poco prima di SanGiorgio di Livenza vi è una rotatoria con l’indicazione di “Caorle13 Km.” E così, su due piedi, decidiamo di raggiungere questalocalità balneare, certamente ricca di alberghi e pensioni.Scendiamo lungo un canale, attenti a deviare per un ponte eattraversare una immensa campagna coltivata, fino a raggiungerel’argine della Livenza, superarlo ed entrare nella graziosacittadina veneziana. Troviamo qui, oltre a un sacco di gente, unagrande festa con bandierine e festoni da tutte le parti. A noiinteressa di più trovare un albergo in cui depositare il nostrozaino e uscire leggeri per visitare la cittadina, il lungomare, e unlocale in cui consumare una zuppa di pesce

Il 16 settembre ci riportiamo in bus alla Salute di Livenza perriprendere l’itinerario verso Est. La strada è sempre formata dalunghi rettilinei che mettono noia; per nostra fortuna troviamodei vigneti, dove piluccare qualche grappolo d’uva. Attraversiamo Sindacale e ci fermiamo presso un distributore dibenzina per riposare qualche minuto e rompere la monotonia. Ilgestore ci chiede da dove veniamo e noi rispondiamo: “DaVicenza”. “Ma proprio da Vicenza?” chiede costui. “Siamo diMonticello Conte Otto” faccio io. “E allora conoscete Galliano”.“Chi non conosce Galliano? Ce ne sono anche due, di Galliano”.“Galliano, il cacciatore e la moglie Gilberta”. “Certo che liconosciamo, sono nostri amici di Vigardolo”. “Sabato prossimonon verranno, perché c’è l’inaugurazione del campo di calcio”. Ilbenzinaio ne sapeva una più di noi, sul conto di Galliano e diVigardolo. Passata Lugugnana, ci avviciniamo al Tagliamento, ilfiume che scende dal Monte Croce Carnico e attraversa tutto ilFriuli, per sfociare nel mare Adriatico tra Bibione e Lignano. Oraprendiamo l’argine del fiume perché sulla strada il traffico èintenso, ed entriamo nella cittadina di Latisana, cercando, comeal solito, un posto per la notte. C’è un albergo, ma non rispondenessuno; allora decidiamo di proseguire fino a oltre un crocevia,passato il quale notiamo un agriturismo. La padrona ci avverte,però, di essere in attesa di un gruppo di persone e di avere il tutto

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esaurito. Ci consiglia, allora, di andare più avanti, dove si trovaun altro agriturismo, Il Milione, nel quale troviamo, alla fine, unabuona sistemazione.

Venerdì 17 settembre ci viene indicata una stradina tra ivigneti per Palazzolo, dove si ritrova la solita strada rettilinea eanche parecchio trafficata. Per nostra fortuna, in periferia di SanGiorgio di Nogaro c’è la pista ciclo-pedonale e più avanti, aTorviscosa, una vecchia strada dismessa ci lascia camminaretranquilli fino a Cervignano del Friuli, nostra meta odierna.

Sabato 18 settembre. Oggi contiamo di arrivare a Monfalcone,solo venti chilometri, ma siamo colti subito da una pioggiabattente. Camminiamo con molta difficoltà, chiusi nella mantellae con l’ombrello aperto. Il vento, a volte contrario, ci rovescial’ombrello e le macchine ci schizzano l’acqua piovana dellastrada. Sull’ora di mezzogiorno, quando il maltempo ci rovesciaaddosso una tale quantità di pioggia da non vedere la strada, cifermiamo a un distributore di benzina, dotato di bar e locale fast-food. Appena cessano gli scrosci, riprendiamo il nostro cammi-no, trovando una deviazione per San Canzian e Staranzano. Iltraffico, almeno, ci lascia in pace; non così la pioggia che scorrelungo i pantaloni e le scarpe. Il ponte sull’Isonzo mette paura: leacque, piene di tronchi sradicati, toccano quasi sotto il ponte eanche i marciapiedi laterali sono coperti d’acqua, tanto dasguazzarci dentro. A Monfalcone siamo costretti, ancora unavolta, a ripararci in un supermercato per sfuggire all’infuriaredella pioggia e del vento. Solo nel nostro albergo, l’Excelsior,troviamo finalmente un ambiente riposante. Anche per uscire acena siamo tormentati dalla pioggia e il colmo del ridicolo èquesto: Imelda mi dice: “Hai visto in TV quanti danni ha fatto ilmaltempo?” Benedetta TV: se non ci fosse lei non sapremmomai niente di quello che accade nel mondo!

Domenica 19 settembre. Ha smesso di piovere. Per uscire daMonfalcone camminiamo un bel po’, seguendo le piste pedonali.Arrivati alle sorgenti del Timavo, usciamo dalla strada, anche perammirare queste risorgive, che sono i luoghi in cui il fiume

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riemerge dopo aver percorso lunghi tratti sommerso nelle zonecarsiche della Slovenia. Troviamo anche un sentiero fuori stradache conduce a Duino. Qui succede che prendiamo una stradasecondaria, poco trafficata, che però arriva alla spiaggia del maree lì finisce. Ritorniamo per un chilometro e proseguiamo perSistiana, dove capita un bel guaio: mentre consulto la cartina,inciampo in un sasso e cado a terra sbattendo la testa. Il sangueesce dal naso e dalla fronte e chi mi vede prende un bellospavento. Così anche due giovani in auto e la donna, impressio-nata, chiama il pronto soccorso. Questa non ci voleva! Orabisogna aspettare che arrivi l’ambulanza e poi, forse, che miportino al pronto soccorso. Per fortuna, il guaio non è così gravecome sembrava e, dopo una medicazione, posso riprendere ilcammino verso Trieste. Giunti a Miramar, troviamo la passeg-giata a mare piena di gente in festa e arriviamo, percorrendoquesto bel viale, alla nostra meta odierna, nei pressi di Trieste.

Lunedì 20 settembre siamo a Trieste. Bella città, con grandipalazzi ottocenteschi e San Giusto, la cattedrale in alto, sul colle.Dobbiamo ora uscire per corso Giosuè Carducci, corso GabrieleD’Annunzio, piazza Garibaldi e piazza Alcide De Gasperi. Tuttiquesti nomi sembrano ribadire che Trieste è città italiana, ma nondobbiamo scordare che Trieste è veneta, austriaca, slava, insom-ma internazionale. Ora intendiamo raggiungere Basovizza, il cuinome sa di slavo, e Kòcina. Siamo entrati in Slovenia e quasi nonce ne siamo accorti. Si paga in euro e si parla veneto, perchémolti veneti arrivano fin qua per fare delle grandi mangiate.

Il ventuno di settembre tentiamo una strada secondaria che cidovrebbe portare a Podgorye e poi in Croazia, almeno fino aVodice. Seguiamo lungamente una ferrovia in mezzo allacampagna e siamo immersi nel silenzio e nelle quiete. Anche lastrada asfaltata è poco trafficata, tanto che passa una mezz’oraprima di vedere un’auto. Arriviamo al posto di frontiera traSlovenia e Croazia, dove ci viene chiesto di esibire undocumento. Ci chiedono anche dove intendiamo arrivare. “AFiume” dico io, per tagliare corto. Tre chilometri più avanti c’è

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l’indicazione di un locale con letto e cena. E’ presto per fermarci,essendo solo le due e mezzo del pomeriggio, quindi decidiamo ditirare avanti fino a Vodice. Qui giunti, però, vediamo un paesefantasma, le ortiche crescono sul sagrato della chiesa e sulcampanile, le case sembrano disabitate, salvo qualche personaintenta a coltivare l’orto. Di albergo non c’è neanche l’ombra eun tale interpellato mi vuol vendere un lotto di terreno. Niente dafare; bisogna tornare dove avevamo visto la scritta “sobe”,(camere) perché il primo centro successivo sarebbe a ventichilometri. Fatto a ritroso almeno cinque chilometri, troviamouna bella sistemazione e una cena abbondante a base di stinco dimaiale.

Il 22 settembre, mercoledì, riprendiamo il cammino del giornoprima, verso Vodice, con al nostro seguito un bel cane pastore,giovane, che ci mette davanti una pigna per farlo giocare. Ioraccolgo la pigna e la lancio più lontano possibile per vedere ilcane correre a riprenderla e depositarla davanti a Imelda. Anchelei sta al gioco e il cane continua a correre per riportare la pigna.Il gioco continua fin quasi a Vodice, il paesino del giorno prima,dove il cane sparisce. Noi si prosegue per Mure, dieci chilometriin avanti, senza incontrare nessuno. Il paesaggio è carsico eincolto. Poi passa qualche auto e, verso le quattro del pome-riggio, notiamo l’insegna di un letto. Scendiamo per una stradinae, dopo un chilometro, siamo presso un casale pieno di gente,con birra e bibite sui banconi. Chiedo subito due caffè e chiedose si può pernottare. L’oste ci porta i caffè con pasticcini e cispiega che non può ospitarci per la notte, ma ci indica dovepossiamo arrivare per un buon albergo e non vuole soldi né per ilcaffè né per i pasticcini. “Offro io, perché vedo che siete duebravi ragazzi!” ci dice. A Jurdane, un po’ in avanti, troviamo lanostra sistemazione per la sera e la notte.

Giovedì 23 settembre ci alziamo più tardi del solito. La stradaè trafficata perché ci avviciniamo a Rijeka e cerchiamo stradesecondarie. Verso l’una siamo nel centro di questa bella città,dove possiamo ammirare i bei palazzi e il porto. C’è anche una

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grossa locomotiva a vapore, messa lì apposta per esserefotografata. Ma anche Fiume, come si chiama questa città initaliano, non ci trattiene più di tanto, perché la nostra meta èsempre più avanti. Nel pomeriggio, verso le quattro, troviamo dasistemarci in una bella località vicino al mare: Paveki.

Venerdì 24 settembre seguiamo la costa per un buon tratto,fino ad avvicinarci ad un cancello sorvegliato. Ci viene intimatodi tornare indietro perché in quel luogo ci sono depositi dicarburanti e una centrale elettrica. Siamo costretti a risalire sullastrada principale, molto trafficata, fino a un bivio per scendere aBakar, cittadina adagiata nella parte nord di una baia: BakarskiZaljev. Qui troviamo della frutta e del pane per uno spuntino e ciavviamo subito in salita, sulla strada principale. Il traffico èveramente pesante e noioso, tanto che, giunti a Bakarac,decidiamo di uscire per una stradina secondaria: Non siamofortunati, perché la stradina si fa sentiero e poi quasi scompare inun luogo in cui fervono lavori di sbancamento: si sta costruendouna superstrada e il sentiero è cancellato. Usciamo infine pressouna casa abitata, con un cortile pieno di viti cariche di uvamatura, che ci viene offerta. Ristorati, chiediamo comeraggiungere Crikvenica. La strada sarebbe lunga altri ventichilometri, ma poi troviamo sistemazione a Tribalj, solo aquindici chilometri, in un bel locale, con cena a base di calamariai ferri.

Sabato 25 settembre comincia a piovere appena ci mettiamoin cammino e, nell’avvicinarci a Crikvenica, le macchine cischizzano l’acqua delle pozzanghere. Ormai siamo abituati atutto: caldo, freddo, vento, pioggia e nulla ci ferma e nessunmalanno ci aggredisce. Siamo immunizzati! Finalmente, giuntialla cittadina, scendiamo sul lungomare, dove si può camminarein pace. Quattro chilometri tranquilli e siamo a Selce, dovetroviamo un piatto di spaghetti ai frutti di mare in un localinosemideserto. La stagione balneare sta per finire e i turistiscarseggiano. Tornati sulla strada principale, dobbiamo soppor-tare un po’ di traffico fino a Novi Vinodolski. Per oggi basta

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così: solo quindici chilometri di cammino. Troviamo una “sobe”verso la spiaggia e troviamo un ristorante in riva al mare per unacenetta a base di pesce.

Domenica 26 settembre ci avviamo lungo la riva del marefino a rientrare sulla litoranea. Dobbiamo sfoderare l’ombrelloperché piove anche oggi. Per fortuna c’è poco traffico mentreaggiriamo una profonda insenatura, oltre la quale ci appare, inbasso, il centro di Klenovica. Restiamo all’interno per qualchechilometro, ma ecco il mare di nuovo e piccole calette epromontori si susseguono ininterrottamente. Il tempo nonpermette che di camminare sotto la pioggia, finché non arriviamoa Senj nel tardo pomeriggio. Non occorre cercare la camera,perché si avvicina un tale, in un crocevia, e ci offre una “sobe”per poco prezzo. Non vorremmo accettare per timore di qualchebidonata ma poi, visto che quell’uomo cammina sciancato, siamopresi dalla pena e lo seguiamo, trovando così l’alloggio delgiorno. Dopo la doccia, scendiamo a visitare il porticciolo e ilpiccolo centro, sovrastato da un bel castello. Nella chiesa si stacelebrando la messa, in croato naturalmente. Ma a noi fa piacereanche essere presenti a questi riti, dove cantano delle ragazzeaccompagnate dalla chitarra, come costuma anche da noi. Anchela cena è ottima, con zuppa di pesce e calamari ai ferri. Il rientroalla nostra camera è avventuroso, perché non riusciamo più aorientarci. Dobbiamo chiedere aiuto a qualcuno, che telefona allacasa dove siamo ospitati finché vengono a incontrarci. Sonodettagli, ma di tutto ci capita nei nostri viaggi.

Lunedì 27 settembre. Piove. Dobbiamo coprirci e aprirel’ombrello. Siamo sul lungomare in splendida posizionepanoramica, traffico limitato e, poco dopo, cessa anche dipiovere. Dieci chilometri di costa ci portano a Sv. Juraj, graziosocentro balneare, dove incontriamo una coppia di Scledensi.Scledensi non significa marziani, ma abitanti di Schio inprovincia di Vicenza. Parliamo nel nostro dialetto, dopo piùgiorni di gesti e mozziconi di parole, e li lasciamo allibitidicendo loro di essere giunti fin lì a piedi. Riprendiamo il

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cammino lungo il litorale, ma poi la strada s’inoltra versol’interno. Del mare si annusa ancora la salsedine, ma non si vede.Siamo preoccupati, perché le camere o sobe, come si dice qui, sitrovano per lo più lungo la costa. Invece a Klada, una contrada dipoche case, troviamo una bella sistemazione, dopo venticinquechilometri di cammino.

Martedì 28 settembre. Anche oggi piove alla partenza, masmette subito, lasciandoci camminare spediti. E’ nostra inten-zione raggiungere Novalja, mantenendoci sulla lunga penisola diPag e arrivare a Zara da quella parte. Il progetto non va in porto,perché a Prizna bisogna prendere il traghetto e non siamo sicuridi trovarlo. Proseguiamo per Cesarica, centro turistico fantasma;fantasma perché tutti i turisti se ne sono andati e tutto è chiuso:alberghi e pensioni. Una signora che vende hamburger in unlocalino di fortuna ci consiglia di raggiungere Karlobag, anche semancano cinque bei chilometri per arrivarci. Oggi, anche se dicontrovoglia, abbiamo percorso trentacinque chilometri e ciripromettiamo, per il futuro, di fare meno strada.

Mercoledì 29 settembre. Questa mattina minaccia pioggia;non piove, ma tira un forte vento di bora, che ben presto ripulisceil cielo dalle nuvole. Il mare è splendido e la strada costiera quasipriva di traffico. Vorrei continuare a scattare foto per immorta-lare questo paesaggio. L’unico guaio è che Imelda soffre e silamenta per una caduta con sbucciatura di entrambe le ginocchia.La causa è stata un pezzo di paracarro sporgente dal suolo.Dolgono anche le vesciche ai piedi e so cosa vuol dire, perchéanch’io ho fatto le medesime esperienze. Di fronte a noi, oltre ilcanale di mare, si vedono mulini eolici per produrre energiaelettrica. La vegetazione è quasi assente a causa del vento chespira ininterrotto da Est. L’altra parte dell’isola, mi diconoperché non la vedo, è ricca di vegetazione. Spero di tornare inquesti splendidi luoghi per passare qualche periodo di vacanze.Intanto si ferma un ciclista a salutarci, forse perché siamo apiedi. Ci racconta di essere venuto dalla Svizzera, da Lucerna,per la precisione, e di avere attraversato le Alpi, l’Alto Adige e la

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Val Sugana fino a Bassano. Ci racconta molte altre cose, perchéparla italiano, e che intende raggiungere Bar per imbarcarsi su untraghetto fino a Bari, da dove intende fare ritorno, sempre in bici,alla sua Svizzera. La stanchezza di ieri si fa ancora sentire eperciò, giunti al paesino di Miljkovic-Selo, quattro case, unachiesina e un locale chiuso, ci fermiamo perché troviamo unacamera e una cena che ci aspettano. La signora che ci ospitaracconta di essere stata a Zurigo a piedi! Non siamo i soli aquesto mondo ad amare le grandi camminate.

Giovedì 30 settembre. La notte è lunga da passare, perchésiamo andati a letto presto. Due volte mi alzo per ammirare ilcielo stellato, incredibilmente limpido. Ci mettiamo in viaggioprima delle otto lungo una strada deserta; sotto di noi un mareazzurro e calette che si susseguono al continuo sporgere erientrare della strada. Siamo sempre sulla riva del mare e ilpaesaggio non ci stupisce più. La stagione turistica è finita emolti locali sono chiusi. Anche per un semplice caffè dobbiamorimandare a più avanti. Alle quattro del pomeriggio siamo aStarigrad, bel centro turistico con il porticciolo pieno di natanti.Come al solito, troviamo alloggio presso una casa privata, doveabitano anche i proprietari, mentre per la cena si trova semprequalche locale aperto.

Venerdì primo ottobre troviamo la colazione pronta nel nostroappartamento e ci avviamo quindi sul lungomare, attraversoalcuni campeggi ormai vuoti. Di fronte a noi si vede l’altrasponda avvicinarsi e lo specchio d’acqua restringersi, finché ci siaddentra nel centro di Rovanjska e si arriva ad un bel ponte sulcanale che unisce il Novigradsko More al Velebitski Kanal. Sulponte c’è l’attrezzatura per il jumping e alcuni pazzoidi si stannolanciando nel vuoto sottostante. Noi prendiamo delle foto etiriamo avanti fino al paese di Posedarje, dove lasciamo la stradaprincipale e ci inoltriamo per il centro. Qui troviamo parecchieinsegne con la scritta “sobe” e ne scegliamo una, essendo ormaile quattro del pomeriggio. I due anziani che ci affittano questastanza non sanno cosa offrire per compensarci dei venti euro che

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gli diamo. L’anziana signora ci offre fichi secchi e uva:prendiamo l’uva, ma i fichi secchi ci fanno voltare il naso. Lasera, poi, siamo a cena in un locale vicino con spaghetti ai fruttidi mare e le solite bevande, il tutto per 17 euro.

Sabato due ottobre, alle sette e trenta, ci mettiamo in camminoperché intendiamo arrivare a Zara e il cammino sembra lungo. Amano a mano che ci si avvicina alla città il traffico diventasempre più pesante. Si attraversano terreni incolti e non si vede ilmare. In una bancarella lungo la strada acquistiamo dell’uva perconsumarla subito lì vicino, concedendoci una piccola sosta. Ilcielo è limpido e fa caldo. Attraversiamo alcuni paesi: IslamLatinski, Policnik e Murvica, per giungere, sempre asfissiati daltraffico, alla periferia di Zadar. Qui, almeno, troviamo imarciapiedi, ma il centro storico, al quale intendiamo arrivare,non si vede mai. Finalmente ecco la porta antica, sormontata dalleone di San Marco. Ora cerchiamo un albergo per depositare inostri zaini, ma lì intorno non si vede niente. Attraversiamo tuttoil centro storico e torniamo vicino al porto, dove un signoreanziano viene a contattarci per chiedere se ci serve una camera.“E’ quello che cerchiamo”. Ci facciamo accompagnare allaPension Marija e fissiamo due notti, perché vogliamo visitarequesta bella città e concederci un po’ di riposo. Zara è una cittàvivace, con schiere di giovani che passano in continuazione perle vie, ancora gremite di turisti. I palazzi del centro storicoricordano l’era veneziana, quando Venezia aveva qui i suoicommerci. Dedichiamo il giorno seguente, tre di ottobre, allavisita del centro, alla messa nella bellissima cattedrale e a unpranzetto a base di pesce in un locale tipico.

Lunedì 4 ottobre, per evitare il traffico lungo la stradalitoranea, prendiamo l’autobus e ci facciamo portare a Sibenik.Qui giunti, passiamo l’intera giornata a visitare la città, situata inuna rientranza del mare, al riparo dalle tempeste. Il mare s’inoltraverso l’interno per molti chilometri, toccando altre località chenon possiamo raggiungere. Anche qui, come a Zara, le viuzzesono percorse da schiere di ragazzine e di giovani che, forse,

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tornano dalla scuola. Non mi ripeto a descrivere le solite cene abase di pesce, che cominciano a dare buoni risultati. Il mio corpofunziona a meraviglia e anche l’anca, scusate il bisticcio diparole, non duole più.

Martedì 5 ottobre, rinfrancati, riprendiamo lungo la costa,camminando sempre sul lungomare. Le calette si susseguonoininterrotte. Superato Brodarica e Zaboric, arriviamo aGrebastica, incerti se inoltrarci verso l’interno o proseguire lungola costa. Scegliamo quest’ultimo percorso, anche se dobbiamoritornare verso nord per almeno sei chilometri, fino a Krbelica edirigere i nostri passi verso Primosten, il luogo che intendiamoraggiungere. Oggi abbiamo percorso almeno trenta chilometri,ma non siamo stanchi. Si vede che l’allenamento e la dieta a basedi pesce stanno dando i loro frutti. In questo grazioso centroturistico troviamo una “sobe” per duecento “kuna”, che fannocirca ventotto euro. La signora Danica, che capisce l’italiano,rimane sorpresa dal nostro modo di viaggiare e ancor di piùquando diciamo che siamo intenzionati ad andare fino allaMadonna di Medjugorie. Ci racconta che lei ci è già andata trevolte, che ha un figlio, laureatosi a Milano, e una figlia sposata auno spagnolo, che vive tutt’ora in Spagna, e che sono andati atrovarla in auto. Il marito coltiva una piccola tenuta a viti e olivi.Inoltre hanno alcune camere da affittare ai turisti e vivonoagiatamente. La sera ci offrono anche la cena, senza esigerenessun compenso.

Mercoledì 6 ottobre, mentre stiamo per andarcene, la signoraDanica tiene in mano le duecento kuna e dice che, visto cheandiamo a Medjugorie, non vuole compensi. Imelda nonvorrebbe accettarle e allora io dico: “Prendi i soldi e faiun’offerta”. Sentito che vogliamo fare un’offerta alla madonna,la signora torna a prendere altre duecento kuna e ce le consegna,dicendo di fare un’offerta anche per lei. Insomma, una scena dalibro “Cuore”. Chiediamo allora se ci conviene seguire la costa,per raggiungere Marina, o inoltrarci per l’interno, lungo unastrada secondaria e poco trafficata. Con il loro consiglio,

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prendiamo quest’ultima via e siamo in una campagna coltivata aviti e olivi. I terreni sono piuttosto aridi, adatti per queste colture,e noi possiamo prendere uva e fichi a volontà da pianteabbandonate lungo la strada. Si ferma un’auto e scende unsignore, che subito riconosciamo: è Stipe Balanca, il marito diDanica, che ci aveva ospitato. Allora Imelda prende da un suocofanetto un rosario e glielo consegna dicendo: “Lo dia a suamoglie; viene da Lourdes e lo porto con me da quando ci siamoandati, a piedi”. Passando per una piccola fattoria, ci vieneofferto del vino novello, che io non posso rifiutare, ma solo duedita per non trovarmi con le gambe infiacchite. Il sole picchia,lungo il cammino, ma ci trattiene anche l’ombra di una pianta difico, piena di bei frutti maturi. “I frutti non cedono il loro verosapore a chi li compra, né a chi li coltiva per il mercato” comeasserisce Thoreau. Quando non ne possiamo più di frutta, ciaffrettiamo attraverso alcuni paesini: Vadalj, Krusevo, Rastovace Gustirna, dove vediamo convergere l’altra strada, quella dellacosta, e subito siamo a Marina, cittadina sul fondo diun’insenatura, dotata di castello, torre e porticciolo pieno dinatanti. Trovata una camera con cucina, usciamo a fare la spesaper prepararci una deliziosa cenetta in questa deliziosa terrachiamata Croazia.

Giovedì sette ottobre ci avviamo senza fretta verso SegetVranjica, che già vediamo in alto, su un promontorio. Perdiamoun po’ di tempo per salire fino alla chiesa, chiusa per restauri. Cidilunghiamo per le vie, cercando una strada alternativa allaprincipale e notiamo spesso la scritta: “sobe”, “zimmer”,“rooms” o “camere”. Questi paesini vivono di turismo e ospitanovolentieri chi viene dalla zona euro. Intanto arriviamo a Trogir,bella e antica città, il cui centro in stile veneziano ci affascina.Decidiamo di rimanere, trovando un alloggio nei paraggi etornando a visitare il centro turistico. La cittadina è “PatrimonioUnesco” come viene sottolineato nella pubblicità turistica,essendo di origine antichissima e con monumenti di epochediverse, ma per lo più di epoca veneziana. Noi ci dilettiamo a

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passeggiare per le viuzze piene di negozi e locali di ristoro, nonmancando di visitare la bella cattedrale con iscrizioni latine.

Venerdì 8 ottobre. Siamo già fuori Trogir quando ci mettiamoin cammino per una strada piena di automezzi. Solo dopo duechilometri deviamo verso Kastela passando accanto all’aero-porto, in cui fervono lavori di ampliamento dell’aerostazione.Kastela è frazionata in parecchi piccoli centri lungo il mare, dovetroviamo dei passaggi fuori dal traffico. Stafilic, Novi, Stari eLuksic; più avanti Kambelovac, Gomilica e Sucurac.Quest’ultimo è un centro industriale servito da un portopetrolifero e da una stazione ferroviaria. Il paesaggio risente diqueste attività e non è più gradevole come prima. Intanto siamoalla periferia di Spalato, o Split, e il traffico diventa ossessivo.Cerchiamo un passaggio più tranquillo e lo troviamo in un lungoviale alberato che sovrasta il porto industriale. Giunti in centro,cerchiamo il porto turistico, che sta dalla parte opposta. Intantochiediamo alloggio per la notte presso un albergo a quattro stelle,dove ci sparano un prezzo che non sta nei nostri programmi dispesa. Giunti al porto, troviamo una vecchia signora che ci offre,sfilando dal vestito quasi di soppiatto un cartello, una camera eun alloggio per la notte. Accettiamo senza pensarci e seguiamo lavecchia nella sua abitazione per le vie quasi buie. Qualcunopenserà, leggendo questi appunti, che siamo degli ingenui oincoscienti, perché ci lasciamo convincere facilmente da gentesconosciuta. A nostra discolpa c’è l’esperienza di un lungo giro-vagare per il mondo, più che decennale, senza aver mai subito unfurto o qualcosa di spiacevole. In casa della vecchia troviamoanche il modo per farci da mangiare e parlare con il vecchiouomo che vi abita. Questi rimane esterrefatto a sentire comesiamo arrivati fin lì e quasi non ci crede. Intanto si è fatto tardi ecosì rimandiamo al giorno dopo la visita alla città.

Sabato nove ottobre scendiamo verso il porto turistico, pienodi navi da crociera e battelli. Abbiamo visto il palazzo diDiocleziano, l’imperatore romano nato in questo luogo, e le muramedievali della città. Ci sarebbe molto altro da visitare, ma la

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nostra meta ci fa camminare per uscire da Spalato. Costeggiandoil mare e sopportando con pazienza il traffico, si giunge aPodstrana e a Dugi Rat, sempre con il mare sotto di noi, tantoche la mia macchina fotografica lavora in continuazione.Seguendo una rientranza della costa più marcata, arriviamo aOmis e cerchiamo un posto per la notte. L’albergo è caro, ma lacommessa stessa ci suggerisce una “sobe” lì vicino.

Domenica 10 ottobre ci avviamo verso la chiesa. Già allecinque abbiamo sentito le campane suonare a festa. La messa stavolgendo alla fine e allora rimaniamo fino alla benedizione.Cambiano le parole, ma la cerimonia è come da noi: ci si dà lamano e si ascolta l’organo. Tornati in centro per osservare ilporticciolo e scattare qualche foto, ce ne andiamo per il lungo-mare con l’intenzione di fare, oggi, poca strada. Il mare è semprebellissimo e il sole picchia fin dalle prime ore. Abbiamo occhialida sole e il berretto con visiera per difenderci dai raggi. Unacomitiva di giapponesi, ferma in una piazzola, è lì con lemacchinette a scattare foto e io fotografo i giapponesi. La stradasale fino a un bivio per Brela, piccolo centro sulla riva del mare,dove scendiamo per restarci la notte. La signora che ci presentala camera, ci offre anche un bicchiere di prosecco, comechiamano qui un vino liquoroso, e alcuni pasticcini.Trascorriamo il pomeriggio e la sera a passeggio lungo laspiaggia, cercando qualche locale per la cena. Ormai il grosso deituristi se ne è andato; rimane solo qualche tedesco e cosìceniamo quasi da soli.

Lunedì 11 ottobre non torniamo sulla strada principale:abbiamo trovato un percorso lungo la costa e attraverso unapineta, attrezzata per accogliere turisti, ma ora deserta. Passaanche qualcuno di corsa, lungo il vialetto di cemento, ma poiimbocchiamo un vero sentiero toccato dagli spruzzi del mare. Cirincuora una scritta che indica Makarska passando per BaskaVoda e Promajna, due località lungo la costa e così arriviamoalla nostra meta senza mai salire sulla strada: oggi nientemacchine tra i piedi e sempre il fruscio del mare. Giunti a

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Makarska prima di mezzogiorno, abbiamo tutto il tempo pervedere la bella città, dotata di un porto turistico circolare, conuna entrata naturale tra due colline. Cerchiamo subito una cartinatopografica della città e una camera in cui depositare i nostrizaini e andarcene a zonzo tra le bancarelle, dove acquistiamosouvenir per noi e per i nostri nipoti. Passiamo anche per lastazione delle corriere a prenotare i biglietti. Vogliamo andarealla Madonna di Medjugorie, ma non a piedi, perché temiamo dinon trovare posti in cui pernottare nell’interno, tra le montagne.Possiamo quindi dire concluso il nostro cammino in questa città.Proseguiremo il nostro itinerario in altra occasione, se ne avremol’opportunità.

Martedì 12 ottobre, alle sei di mattina prendiamo l’autobusche ci porterà in Bosnia, perché è lì che si trova Medjugorje. Ilmezzo s’inerpica per una strada montana, proprio sopra il mare.Abbiamo modo di vedere che l’interno è arido e desolato, pochi icentri abitati e anche la dogana per passare dalla Croazia allaBosnia-Erzegovina. Medjugorje è la tipica città cresciuta attornoal santuario, con bancarelle e negozietti in cui si vende ogni sortadi cianfrusaglie. Noi assistiamo a una cerimonia nella chiesa e, lasera, a una messa celebrata nel piazzale all’aperto, dove ci sonofedeli venuti da quasi tutti i paesi europei. La messa è celebratain nove lingue diverse, da nove preti provenienti da altrettantenazioni. Non mi costa dire che il luogo non mi piace affatto.Rispetto il sentimento religioso, ma non vedo nulla di interes-sante in questi luoghi, se non che si trovano al limite di trecomunità religiose: la cattolica, l’ortodossa e l’islamica.

Mercoledì 13 ottobre partiamo molto presto con l’autobus checi porterà a Dubrovnic, passando per Mostar, la città martoriatadalla guerra civile e che porta ancora i segni delle lotte tra serbicattolici, ortodossi e la comunità islamica. Due volte dobbiamoesibire i passaporti, perché per ben due volte riattraversiamo ilconfine con la Croazia. Alla fine siamo a Dubrovnic, che sichiama anche Ragusa, come la città siciliana. Subito cerchiamouna mappa della città, che non troviamo. Troviamo, invece, il

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posto dove accasarci per un paio di giorni e andiamo subito aprenotare il biglietto di ritorno a casa nell’agenzia viaggi difronte al porto. Mi dicono che un battello parte per Spalato eAncona il giovedì sera alle ore ventidue. Sembra quello che faper noi e prendo i due biglietti per il viaggio con cuccetta, datoche si viaggia di notte. Ci aggiriamo lungo il porto, pieno dinatanti e grossi battelli per turisti, ma non ci convincel’architettura troppo moderna del luogo. Cerchiamo la parteantica, avventurandoci lungo la costa e arriviamo in un luogoquasi deserto senza vedere niente di interessante. Intantocomincia a piovere. Piove sempre più forte e la pioggia si fabattente, tanto da costringerci a trovare rifugio in un bar. Tredonne eleganti si sono rifugiate nel medesimo bar e parlano traloro; poi tentano di uscire, ma tornano al loro tavolo perché fuoripiove ancora a dirotto. Intanto il tempo passa, si fa sera e nonabbiamo visto null’altro di interessante, almeno per oggi.

Giovedì 14 ottobre. Torniamo verso l’insenatura e cerchiamoil centro storico, salendo verso un colle, dal quale si vede il portoe la città nuova. Nel tornare, vediamo l’indicazione di Dubrovnicvecchia e lì ci dirigiamo, arrivando, finalmente, alle muramedievali, ai torrioni e, infine, nella piazza di aspetto veneziano,gremita di gente all’inverosimile. I turisti stanno tutti qui, per leviuzze, sulle mura che circondano il castello e nella piazza, dovenegozietti pieni di ogni cosa espongono le loro merci. Visitiamotutto quello che si può, perché abbiamo poco tempo e questa serapartiremo per il ritorno. Invece ci attende una sorpresa: iltraghetto non c’è; il traghetto parte da Spalato e quindi avremmodovuto prendere la corriera, questa mattina, e raggiungere conquel mezzo il porto di Spalato per imbarcarci là. Abbiamo capitomale, come due incauti, e allora torniamo all’ufficio per annul-lare i biglietti ormai inutili. L’addetta capisce il nostroimbarazzo, prende i biglietti e ce li annulla, ritornandoci i soldi.Semplicissimo! Ma provate in Italia ad annullare un biglietto deltreno o di qualche altro mezzo: vi faranno l’interrogatorio, vidiranno perché non vi siete informati meglio e poi vi daranno di

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ritorno una percentuale, trattenendo, chissà perché, il venti percento. Dobbiamo ora cercare un’altra camera per la notte, cosasemplicissima, perché lì vicino c’è un tale pronto a indicarcidove possiamo accomodarci. Imelda si lamenta che il posto nonè confortevole, ma bisogna considerare tutti i contrattempi che cihanno angustiato e accontentarsi.

Venerdì 15 ottobre. Oggi, dopo trentacinque giorni divagabondaggio, speriamo di rientrare a casa nostra. Alle oreundici facciamo i nuovi biglietti per Bari e ci imbarchiamo.Finalmente posso accontentare mia moglie che sempre mi chiedeuna crociera. Sarà per poche ore, fino a Bari, ma sempre crocieraè. Arriviamo in questa città verso sera, quando sta per arrivare ilbuio. L’agente doganale trova da ridire sulla carta d’identità dimia moglie, perché è stata rinnovata con il timbro. Dobbiamocercare la stazione del treno e ci affrettiamo. Una signora staaspettando il tram per la stazione e intavoliamo un discorso:“Anche lei deve andare al nord?” chiedo. E lei: “Devo andare aBrunico”. “Allora lei è altoatesina”, faccio io. “No, sono alba-nese, ma vivo lì da quasi vent’anni. Mi trovo benissimo e nontornerei in nessun altro luogo al mondo. I miei figli parlano due otre lingue e si sono inseriti nella comunità”. Alla stazione sorgeun problema: accetteranno la nostra carta di credito o vorranno isoldi? Mentre io corro a prelevare euro presso uno sportellopostale, Imelda si mette in coda e fa i biglietti pagando con lacarta. Meno male! Ora aspettiamo il nostro treno e, la mattinadopo, siamo a Padova, dove cambiamo. Altro treno per Vicenza,altro autobus e fine della nostra ennesima avventura.

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PRAGA - 2011Praga – Repubblica Ceca Km. 1000 – gg. 43

Gli uomini giungono a casa docili, a notte, solo dal campo odalla strada vicina, dove giunge perenne l’eco delle loro case, ela loro vita languisce perché respira sempre il proprio fiato; leloro ombre, mattina e sera, giungono più in là dei loro passiquotidiani. Dovremmo tornare a casa da lontano, da avventure epericoli e scoperte, ogni giorno con esperienze e caratteri nuovi.

Ahimé! Gli uomini sono ora diventati strumenti dei lorostrumenti.

Henry D. Thoreau

Non è l’uomo che usa l’auto, ma è la macchina che accomodal’uomo (e la donna) nel suo abitacolo, gli fa distendere le gambesugli appositi pedali e le braccia sul volante, lo avvolge nelle suecomodità e gli usa il cervello. Poco, anche quello. Ora c’è ilsatellitare, il palloncino in caso di incidente e la chiamataautomatica al pronto soccorso. Il ferito sarà riparato da altremacchine!

Osvaldo Benetti

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Molti mi chiedono come faccio a preparare i miei viaggi apiedi. “Fissi già prima di partire le tue tappe?” “Prenoti l’albergoper la notte?” “Vai per le strade o per i sentieri?” Domandesacrosante, alle quali non so dare una risposta precisa. Prima ditutto fisso una meta che abbia un certo prestigio: Roma, Vienna,Parigi, la Vetta d’Italia, il Gran Sasso d’Italia; questi nomi dannola carica e allora preparo un percorso di massima per arrivarci.Poi cerco le cartine il più dettagliate possibile: scala da 1/25000 a1/50000 – 100000 – 250000. A questo punto sono in grado ditrovare l’itinerario più conveniente, che non è mai il più facile.Devo evitare, per quanto possibile, il traffico automobilistico.Scelgo il percorso più panoramico, quello più in quota, che èquasi sempre il più difficile, ma anche il più appagante.

Altra cosa importante è lo zaino; e qui avviene lo scontro conmia moglie: lei vorrebbe metterci dentro di tutto e io quasiniente. Qualcuno vorrà sapere cosa ci infiliamo nello zaino. Eccoqua: in fondo un paio di impermeabili leggeri, di quelli che usanoanche i tifosi per assistere alla partita quando piove; quindi ungiaccone caldo e leggero da usare in caso di freddo; il sacco apelo o, in alternativa, lenzuolo a sacco e coperta di lana; tre paiadi mutande, tre magliette, tre paia di calzini e un asciugamano, iltutto racchiuso in un sacchetto di plastica, perché non si bagni incaso di pioggia. In un altro sacchetto di plastica si mettono unacamicia, un paio di pantaloni e un pullover per uscire la sera,dopo la doccia; le ciabatte da usare la sera, anche per riposare ipiedi, l’ombrello piccolo e la borraccia per l’acqua; le carte deisentieri o le stradali per orientarsi e la macchina fotografica; unpiccolo asciugacapelli e il carica-batterie per il cellulare.Ricordarsi le medicine: cerotti per calli, pastiglie di magnesia,aspirine e quant’altro. Non è bello dire “quant’altro” ma a voltebisogna chiudere.

Viene ora la busta per l’igiene: rasoi, spazzolino, colla perdentiera, sapone ecc. Non è finita: pila, temperino, accendino.Non dimenticare gli occhiali da sole.

Quando tutto sembra a posto, ecco le creme: crema da sole, da

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vento, da ustione, da rossore; per le labbra, per i piedi e per leparti delicate.

Poi viene il momento di partire. Questa volta per Praga!“Possiamo prendere un mezzo fino a Bassano” dice mia moglie.“No! Io voglio partire a piedi da casa mia e arrivare in piazzaSan Venceslao, sempre con le mie gambe”. “Ma a Bassano cisiamo già arrivati, a piedi” ribatte lei. “Faremo un altro percorso”concludo io. Vedremo in seguito che, per quanto accurato sial’itinerario scelto, è sempre in agguato la sorpresa.

Giovedì 4 agosto 2011, dopo aver trascorso un mese di lugliopiuttosto fresco, ci aspettiamo a breve la fine dell’estate. Ultimamente mi sta calando l’entusiasmo per questa nuovaavventura perché si sta bene anche a casa. Invece, incomincia afare caldo e allora partiamo per la montagna. Alle cinque delmattino ci avviamo per via Villa Rossi con i nostri zaini carichi:io otto chili e Imelda quasi undici. Passando per Lupiola, il pontesull’Astico e via Tezze, arriviamo a Sandrigo, dove troviamo ilpercorso “La Motta del Diavolo” che seguiamo fino quasi aLonga. Una stradella tra i campi e qualche fosso ci conduconoalle porte di Schiavon, quand’è l’ora del caffè. Una sosta inquesta località ci permette di rinfrancare lo spirito e proseguirealla volta di Nove. Qui percorriamo la pista pedonale fino alleporte di Bassano. Passato Angarano, siamo sul Ponte degliAlpini, già gremito di turisti, per una foto ricordo. Si fa sentire ilcaldo per cui ci viene spontaneo assaggiare un buon gelato,prima di avviarci verso Romano d’Ezzelino e Romano Alto,dove ci aspetta l’albergo alla Mena, ai piedi del Grappa.

Venerdì 5 agosto, dormito bene per l’aria fresca che scendedal monte, ci avviamo in salita, lungo il sentiero n. 80, che partedal sacello attiguo all’albergo, dopo una breve preghiera. Unapreghierina ci è sempre di aiuto per affrontare gli imprevisti e ledifficoltà del nostro andare. Il sentiero s’inerpica subito in mezzoal bosco, al riparo dal sole. Il fresco ci aiuta nella nostra fatica eci mantiene in buona condizione. Un ragazzino e il nonno stannosalendo dietro di noi, ma loro deviano per altro sentiero in cerca

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di funghi. La valle è sempre stretta e ripida, finché usciamo,verso i mille metri di quota, su un pianoro erboso in cuipascolano le capre. Ci sono degli orti e c’è una casa abitata daturisti che ci offrono il caffè. Pausa ristoro e via di nuovo insalita perché mancano ancora seicento metri alla cima delGrappa. Il paesaggio è cambiato e lo sguardo spazia verso lapianura, dove si notano i fiumi: il Piave a sinistra e il Brentasotto di noi. Ora ci appare anche l’Ossario, ma noi intendiamoproseguire sulla sinistra per raggiungere il rifugio Scarpon, sullastrada che scende a Feltre. Gradita sorpresa: qui troviamo ilcaminetto acceso, mentre giù in pianura si muore dal caldo.

Oggi, sabato 6 agosto, dobbiamo tornare a quota 1770 metri,sulla cima del Grappa, per trovare il “sentiero dei salaroli” cheintendiamo seguire, ma le indicazioni che ci sono state fornite ciportano in un ginepraio inestricabile, dal quale usciamo condifficoltà. Intanto abbiamo incontrato numerosi caprioli e in altovediamo volteggiare il falchetto. Trovato il sentiero n. 156, checorre sul crinale in bella posizione panoramica, lo seguiamolungamente, senza poi scendere tanto di quota. In basso si nota lavalle dove corre il Piave e, più in alto, alcune malghe cosparse dibovini al pascolo. Incontriamo anche pastori con il loro gregge ei loro cani. Facciamo alcune foto ricordo, ma intanto il temposembra peggiorare e minaccia pioggia. Andrebbe tutto bene,sennonché il cammino non finisce più e spesso ritorniamo inquota, 1600 e 1670 metri, sul Col dell’Orso. Ora scendiamo, mala stanchezza comincia a farsi sentire e noi dobbiamo arrivare aFeltre. Alla forcella Valderoa ci avviamo decisamente verso ilbasso e troviamo una carrareccia che serve le malghe. Seguendouna di queste stradine, arriviamo ad una malga dove ci sono delleauto ferme nel cortile. Chiediamo informazioni e ci vienespiegato che Feltre è ancora molto lontana e che converrebbefermarsi qui per la notte, data la disponibilità di molti letti eanche di una bella cucina. Accettiamo l’offerta e così facciamoamicizia con un gruppo di persone meravigliose. Ci raccontanoche la malga, chiamata Stalla Cinespa, avuta in concessione dal

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Comune di Alano di Piave per ventidue anni, è stata da lororistrutturata, un gruppo di sette famiglie, e utilizzata per le loroferie estive e invernali. Siamo a quota 1222 in una radura dovepascola il bestiame, circondati dal bosco ricco di legname e difunghi. Trascorriamo così un piacevole pomeriggio e una buonanotte con questi nuovi amici, uno dei quali, soprannominatoLeonardo da Vinci per la sua abilità in ogni cosa, mi rimette insesto la macchina fotografica, che non riuscivo più a farfunzionare.

Domenica 7 agosto ci avviamo in discesa, verso la Stalla ValDumela, ma poi il sentiero torna a inerpicarsi. Troviamo modoanche di sbagliare, scendendo per il bosco, ma riprendiamoancora la nostra via, che è il sentiero n. 843. Più avantiprendiamo per una strada a tratti asfaltata, che scende aprecipizio, tanto che fatico assai con le mie scarpe perché le ditadei piedi vanno a premere sul puntale e i muscoli delle gambesono indolenziti. Finalmente arriviamo sulla strada principale,dove le nostre gambe possono andare sciolte. Cinque chilometriper raggiungere Seren del Grappa, dove avremmo potuto anchepernottare, e altri cinque per raggiungere Feltre, graziosacittadina che sta festeggiando il palio, anche se piove a dirotto.Verso sera usciamo a visitare il centro, scattare qualche foto,nonché cenare con una buona pizza.

Lunedì 8 agosto avremmo voluto evitare la statale per iltraffico, ma poi prendiamo proprio questa strada, utilizzando imarciapiedi e qualche deviazione nei piccoli centri abitati.Arrivati a Santa Giustina facciamo la solita sosta di mezzomattino, cercando l’indirizzo di qualche albergo a Sedico. Inquest’altro centro, però, è ancora presto per fermarsi e quinditiriamo avanti. Imelda mi accusa di voler arrivare dove voglio io,mentre il tempo volge al peggio e incomincia a piovere.Chiediamo a un signore, perché Belluno è ancora lontana, se sitrova nelle vicinanze qualche albergo o altro posto per dormire.Ci viene indicato un “bed and breakfast” qualche chilometro piùavanti e, qui giunti, ci accasiamo per la notte, trovando anche la

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cena offerta dalla padrona di casa. Martedì 9 agosto il cielo è sereno, quando ci alziamo dal letto

per raggiungere Belluno. Troviamo subito una deviazione persfuggire al traffico: ma quando potremo usare le piste ciclabilicome negli altri paesi europei? Entrati a Belluno, troviamomarciapiedi e viali alberati, come si conviene ad una bella cittàturistica. In centro ammiriamo i bei palazzi in stile veneziano confinestre a forma di bifore e trifore. Sulla piazza della cattedraleuna ragazza ci chiede come mai ci sono in giro tanti turisti con lozaino e io rispondo che Belluno segna l’arrivo di molte viedolomitiche, fra cui l’alta via numero uno che scende dal lago diBraies. Anche noi stiamo facendo un percorso che ci porteràprima a Salisburgo e poi, forse, a Praga. Leggo la sorpresa neisuoi occhi. Intanto ci avviamo per uscire dalla città seguendopercorsi alternativi alla grande via che porta a Ponte nelle Alpi,trovando, questa volta, una bella pista per bici (e pedoni)attraverso i paesini che stanno sopra la ferrovia. Questaoccasione ci fa cambiare idea sul percorso da seguire. Invece chescendere verso l’Alpago, ci dirigiamo verso Longarone,trovando, finita la pista per bici, una strada dismessa e priva ditraffico. Peccato che i rovi invadano l’asfalto e peccato che lastrada non venga tenuta in ordine. Ad un certo punto anchequesto percorso finisce e, per proseguire, siamo costretti asuperare un guado, dove ci inzuppiamo anche le scarpe, ma poi,usciti sulla strada principale, troviamo subito un bell’albergo,chiamato delle “Quattro Valli”, che dista solo due chilometri daLongarone e nel quale troviamo una buona cena e un’ottimasistemazione per la notte.

Mercoledì 10 agosto partiamo presto, alle otto del mattino, perattraversare il ponte sul Piave. Facciamo un po’ di confusione,perdendoci nella zona industriale di Longarone, costruita inseguito al disastro del Vajont, ma poi ritroviamo il nostrocammino verso l’altra sponda del Piave. Superiamo alcunipaesini: Provagna e Dogna, appiccicati alla parete del Col Nudoe del Monte Toc, quello da cui si staccò la frana, mentre le

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persone che incontriamo ci chiedono dove siamo diretti conquello zaino sulle spalle. Noi rispondiamo “A Erto e a Cimolais”.“Ma sono molto lontani” dicono queste persone, non sapendoche la nostra meta sta molto più in là. Sulla diga del Vajont c’èmolta gente: turisti e curiosi arrivati fin qui con ogni mezzo:auto, moto e corriera, per vedere i luoghi del disastro del 1963.Scattate alcune foto per ricordare, riprendiamo il nostro camminoe, verso mezzogiorno, siamo a Erto, paese appollaiato sullependici dei monti che separano il Veneto dal Friuli. I locali sonopieni di ciclisti e motociclisti per il ristoro di mezzodì, mentrenoi ci dobbiamo accontentare dei gradini della chiesa perconsumare gli avanzi della sera prima, raccolti da Imelda nel suocontenitore di plastica. Più avanti c’è un locale abbastanza liberonel quale possiamo prenderci un caffè e quindi, siccome fa caldo,troviamo un posto per schiacciare un pisolino all’ombra. Intantovediamo passare un ciclista speciale: l’alpinista, spaccapietre,scultore, intagliatore e scrittore Mauro Corona, con la sua barba eil suo cipiglio da orso. Raggiunto il passo Sant’Osvaldo, nonposso fare a meno di farmi ritrarre vicino al cartello che segnal’altimetria: metri 827. Non ci resta che scendere verso Cimolaisper un sentiero in mezzo al bosco, dove ci raggiunge unatelefonata di nostra figlia Raffaella, sempre curiosa di saperedove ci troviamo. A Cimolais abbiamo qualche difficoltà atrovare un posto in albergo, essendo la stagione estiva in pienaattività, ma poi troviamo la nostra camera “Alla Rosa”, unapensioncina tutta dipinta di rosa, vicino alla chiesina del piccolocentro, dove finisco di scrivere questi ricordi.

Giovedì 11 agosto rimaniamo a poltrire un po’ più del solito,perché il pane fresco arriva solo alle otto. Dobbiamo ancheprelevare dei soldi, perché nei prossimi giorni faremo montagnae avremo bisogno di denaro. Intanto siamo in camminoattraverso Cimolais, per uscire sulla strada che percorre la ValCimoliana, strettissima e percorsa da numerosi ciclisti, ma ancheda automezzi. Dove siano diretti lo sapremo poi, quandoappaiono le vette dolomitiche del Monte Duranno, Cima dei Preti

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e altri picchi svettanti. La valle a volte si restringe, lasciandotrapelare la luce solo dall’alto, a volte si allarga in radureboscose. L’andare non è faticoso, ma il caldo rende molli lenostre gambe e ci fa sudare copiosamente. L’acqua nello zaino siriscalda e diventa imbevibile, tanto che dobbiamo rinnovarla conquella dei ruscelli, molto fresca, senza curarci se sia potabile omeno. Auto, moto e biciclette sono tutte posteggiate in unaradura sottostante il rifugio Pordenone, che appare in alto, inbella posizione panoramica. Raggiungerlo ormai è cosa fatta equi troviamo, oltre a un sacco di gente venuta per ammirare ilcampanile di Val Montanaia, il nostro ristoro per la notte a 1250metri di quota.

Venerdì 12 agosto. Sulla carta sembra un percorso breve efacile, quando ci mettiamo in cammino nel bosco per salire versoquota duemila. Giunti su una pietraia aperta pensiamo sia finital’ombra del bosco, ma poi ci addentriamo ancora tra gli abeti e ilarici, che si fanno sempre più piccoli, fino a scomparire del tuttoverso i milleotto-millenovecento metri di quota. Ora il sentiero èsolo una labile traccia sulle pietre, si deve stare sempre attenti aisegni bianchi e rossi o a qualche ometto. Quando si pensa diavere raggiunto la forcella più alta, eccone apparire una ancorapiù alta. Finalmente, a 2290 m. di quota, siamo alla Forcella delLeone e vediamo in basso il bivacco Marchi-Granzotto. Notiamoanche della gente indaffarata intorno al bivacco, ma non cirendiamo conto di cosa stia facendo, quando il telefono portatilesi mette a squillare. Al “pronto” sento la voce del nostro amicoGiuseppe, ma subito la comunicazione si interrompe. Intantocomincia la discesa verso il bivacco, ripida e scivolosa. Giunti albivacco, 150 metri più in basso, vediamo alcune persone chestanno colorando di rosso la parte esterna per cui questa notte quinon si può sostare. Noi chiediamo soltanto un consiglio perscendere verso il rifugio Giaf e intanto ammiriamo l’anfiteatrodolomitico che ci sta attorno, formato da una catena meravigliosadi picchi. Poche volte si può ammirare un simile spettacolo.Superata un’altra selletta a 2200 m. di quota, troviamo un baratro

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vertiginoso che mette paura solo a guardare; dobbiamo scenderedi lì, aggrappandoci alle rocce per non scivolare. Se si mette unpiede in fallo, è finita. E’ uno di quei rari momenti della vita incui non puoi permetterti di avere una debolezza, un capogiro, néun attimo di pausa, altrimenti non potresti più raccontare la tuastoria. Come ho fatto a portare in questi pericoli la mia caramoglie? Perché l’ho fatto? Forse volevo liberarmi di lei,inconsciamente, ma lei è troppo brava, è cauta; insomma, vadotranquillo: non me ne libererò tanto facilmente, per fortuna. Piuttosto devo pensare a me stesso, non posso lasciarla sola inquesto posto desolato; se cado nel burrone, cosa farà lei? A chirivolgerà i suoi affetti e le sue cure quando non ci sarò più io?Forse a un cucciolo di pastore tedesco o a qualche altra creaturainnocente. Con questi terrificanti pensieri, per calarsi di trecentometri ci impieghiamo due ore. Poi, finalmente, troviamo ilpendio meno ripido e qualche pino mugo a cui aggrapparci.Incontriamo anche due giovani, un ragazzo e una ragazza, carichidi zaino e tenda, che stanno salendo per passare la nottenell’anfiteatro in alto. Li avvertiamo che il bivacco non èaccessibile, per questa notte, ma loro hanno la tenda e tantobasta. Ora il nostro sentiero si fa normale, quando notiamo unaschiera di escursionisti scendere da un’altra via e convergere sulnostro cammino. Ancora poca strada e siamo al Rifugio Giaf,quota 1400 metri, contenti di avere salvato la pelle in mezzo atanto rischio. Imelda continua a ripetere che non farà mai più unsimile percorso e io prometto: caso mai ne faremo degli altri. Alrifugio troviamo gente di Cavazzale (paese confinante con quelloda cui proveniamo noi) qui venuta per altre vie in cerca difunghi, e con loro facciamo una bella chiacchierata, sui loroprogrammi e sui nostri. Immaginate la loro sorpresa quandoparliamo di Salisburgo e di Praga. A sera chiamo ancheGiuseppe da Costabissara per spiegargli il posto inusuale in cuimi trovavo e ringraziarlo per la chiamata.

Sabato 13 agosto ci avviamo, dopo la foto ricordo con icompaesani di Cavazzale, verso il passo della Mauria. Il sentiero,

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in mezzo al bosco, rimane in quota, per abbassarsi e risalire sololeggermente. In meno di tre ore siamo al passo Mauria per unasosta di riposo e per ripartire verso la meta odierna, che saràpiuttosto lontana. Dal lato opposto del ristorante parte unastradina che serve numerosi villini turistici, per finire dove iniziail sentiero n. 207 che risale le pendici del monte. Ci prendequalche dubbio in quanto manca la segnaletica, ma poi vediamoun gruppo di giovani scout scendere dal medesimo sentiero e,interrogati, confermano di venire da Casera Doana. Mai conferma ci è stata tanto utile, perché mancavano i segnibiancorossi del CAI e ci siamo fidati solo delle tracce sull’erba:un cartello solo al bivio di Costa Bordona e niente altro. Al passodel Landro non si vede l’ombra di un segnale e nemmeno alpunto più alto, verso i duemila, si trova un qualche cartello cheindichi il percorso. Per nostra fortuna la visibilità è buona e sipuò vedere in basso la Casera Doana, alla quale arriviamo versole quattro del pomeriggio. Qui siamo sorpresi dai canti religiosidi un gruppo di ragazze accompagnate dalla chitarra. Un giovaneci saluta e chiede se ci occorre qualcosa. “Cercavamo un caffè,se possibile”. Ci viene servito un buon caffè ristoratore e, nelfrattempo, arriva un altro giovane dall’aria autorevole con ilberretto e la veste da gesuita. Costui ci dice che possiamo anchepernottare da loro, se ne abbiamo bisogno, ma noi avevamoprenotato al rifugio Tenente Fabbro e quindi, ringraziando, ce neandiamo per la strada sterrata, fino a uscire sulla statale n. 619che percorre la Val Pesarina fino a Comeglians. Scesi pertrecento metri di quota, li dobbiamo poi ricuperare in salita esentiamo la stanchezza legarci le gambe e offuscarci la vista. Ilrifugio Ten. Fabbro ci appare come un miraggio e lì, finalmente,troviamo riposo sul fondo di un grande stanzone già pieno diciclisti di passaggio.

Domenica 14 agosto. Siamo stati consigliati di non arrivaredirettamente a Sappada, ma di fermarci in un rifugio intermedio,il Rif. Fratelli De Gasperi. La stanchezza di ieri sembra passata,tanto più che ci avviamo in discesa. Ma che discesa! Fango e

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pantano ci inzaccherano le scarpe lungo questo sentierodisastrato dalle macchine operatrici. Forse si sta costruendo unastrada forestale, fatto sta che è difficile camminare, finché nontroviamo il sentiero attraverso il bosco dove possiamo, almeno,stare con i piedi asciutti. Raggiunta Casera Campo, ci troviamo acamminare su una bella strada sterrata e asciutta. Alla vistaappaiono le cime dolomitiche dell’Alto Cadore e di Sappada.Una ragazza sta giocando con il cagnolino mentre il suocompagno raccoglie funghi nel bosco. Raggiunta ForcellaLavardet, dove arriva una strada e si vedono parcheggiate molteauto, si scende verso Casera Lavardet per un sentiero lungo ilquale incontriamo escursionisti provenienti dal lato opposto.Imelda, insicura come sempre, chiede dove siano diretti e lororispondono: “Al rifugio De Gasperi” “Anche noi siamo diretti lì”rispondo io. La faccenda non quadra perché o hanno sbagliatoloro, o stiamo sbagliando noi. Tiriamo fuori le nostre cartine e,alla fine, li facciamo convinti a fare dietro front. Intanto abbiamofatto amicizia con questa famigliola, che più avanti ci lasciaperché noi siamo più lenti e ci portiamo uno zaino pesante. Ilsentiero, numerato 203, corre in quota 1500 metri attraverso pratie malghe con vista sulle cime che sovrastano Sappada. Notiamoanche la deviazione del sentiero 315 che conduce al passo Elbel,ma per oggi la nostra meta è il rifugio De Gasperi, cheraggiungiamo con un ultimo sforzo, in quanto si deve salireancora fino a quota 1767 metri. Qui giunti troviamo il gestore,uomo scorbutico, il quale ci intima di posare gli zaini e di salireper le scale scalzi. “Non ho personale di servizio” ci dice “e devomantenere la pulizia”. C’è solo un giovane aiutante, che devefare di tutto: servire i numerosi escursionisti di giornata, che arri-vano quassù per ammirare i favolosi panorami, e accoglierequelli che restano a dormire la notte. Tra questi vediamo alcunepersone conosciute: Gemma, del CAI di Sandrigo e altri del Clubdi Marostica. Allora si fa la solita chiacchierata e ci raccontiamole nostre avventure. La sera, poi, attendiamo a lungo per avere lacena; sempre per il solito motivo, come spiega il gestore: “Siamo

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a corto di personale”.Lunedì 15 agosto, salutati gli amici di Sandrigo e di

Marostica, ce ne andiamo in discesa verso il bivio che giàconosciamo. Qui prendiamo il sentiero n. 315 in salita, quandocomincia a piovere. Questa non ci voleva, ma noi siamoattrezzati e sfoderiamo mantella e ombrello. La salita non è durae io trovo piacevole anche la pioggia, dopo il caldo dei giorniscorsi. Raggiunto il Passo Elbel a quota 1963 metri, sotto ilCampanile di Mimoias, scendiamo lungo un canalone chepresenta dei passaggi difficili, con cordino per non scivolare,ingombrati come siamo di mantella e ombrello. Ormai l’acqua citrapassa e, in fondo, dobbiamo guadare il torrente ingrossato perla pioggia con le scarpe ai piedi. Ora percorriamo un sentiero piùcomodo lungo il Rio Enghe, ma intanto ci assale un languore checi costringe a prelevare un panino dalla sacca. Nel primopomeriggio giungiamo a Sappada, cittadina affollata di turisti edi automezzi, dove cerchiamo un albergo a buon mercato, manon è facile, in piena stagione turistica. Troviamo una cameraall’albergo Venezia e qui ci possiamo ristorare con una belladoccia e cambiare i vestiti. Abbiamo anche tutto il tempo perammirare le vetrine e osservare la splendida cornice di vettedolomitiche che circondano questo meraviglioso centro turistico,che si estende per cinque chilometri lungo la strada checongiunge il Comelico al Friuli.

Martedì 16 agosto. Siamo in cammino lungo la strada chepassa per la parte vecchia di Sappada, fuori dal traffico e ornatadi villette piene di fiori e con giardini popolati di pupazzi, comecostuma da queste parti. Usciti dal centro abitato, troviamo unastradina secondaria, molto ripida, che sfocia sulla strada delPiave, strada che finisce trecento metri sotto il Rifugio Calvi. Noila percorriamo lentamente, gustando il paesaggio, anche se ilcaldo si fa sentire e ci fa sudare da matti. Durante la consuetasosta di ristoro abbiamo la compagnia delle mucche, che vannoannusando le auto. Verso quota 1800 metri si trovano numerosi iparcheggi auto, perché ai rifugi si arriva a piedi e anche le bici

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devono cedere davanti ai sassi e alle pietre. Scaliamo gli ultimitrecento metri senza fretta, sotto l’imponente mole del MontePeralba, quota 2694 metri, osservando quelli che vi scendono,dopo averlo scalato al mattino. La signora che gestisce questo rifugio ci racconta, ancoraemozionata, la visita del papa Giovanni Paolo II, che amavaqueste montagne. “Lo vidi scendere dalla bianca montagnavestito di bianco; entrò nel rifugio e si interessò del nostro mododi vita. Chiesi la sua benedizione e Lui rispose che dove passa ilpapa tutto è benedetto”.

Mercoledì 17 agosto partiamo in salita per raggiungere ilpasso Sesis, metri 2363 di quota, seguiti da altri escursionistidiretti alla cima Peralba. Noi prendiamo il sentiero n. 448, chesupera il confine con l’Austria, e scendiamo verso il rifugioHochweissstein, già conosciuto in altra occasione. Breve sosta diristoro e via in discesa per uno sterrato agevole. Il tempo è buonoe così possiamo ammirare il panorama, almeno finché nonentriamo nel bosco. Verso mezzogiorno siamo sul fondo dellavalle dove corre il fiume Gail e dove sorgono alcuni paesini.Cominciamo subito a darci da fare per trovare una camera, ma ètutto occupato. Entrati a St. Lorenzen speriamo di avere fortuna,ma inutilmente: tutti i locali risultano pieni e anche le caseprivate. Torniamo in una casa che avevamo già visitato e questavolta ci accolgono, forse perché qualcuno se ne era andato e ciaveva lasciato il posto. Tutto è bene quel che finisce bene, perchélì vicino c’è anche un buon ristorante per la cena.

Giovedì 18 agosto, dalla chiesa del paesino agricolo parte unsentiero parallelo alla strada principale, che conduce al Tuffbad,un centro turistico a quattro stelle, molto caro, ci avevanoavvisato a St. Lorenzen. Aggirando il Tuffbad, riprendiamo asalire per un sentiero molto bello in mezzo al bosco; verso i 1500metri di quota usciamo su un ghiaione assolato e ritroviamo ilbosco più avanti. Ora il sentiero, giunti a quota 1900 metri, si fastretto e pericoloso, con numerosi cordini per tenersi aggrappati.Imelda non ne può più e continua a mormorare: “Non farò più

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queste cose”. Finalmente il sentiero diventa comodo, purcontinuando a salire fino alla quota di 2260 metri: siamo alZochenpass, ma non è finita. Ora scendiamo per centocinquantametri in una splendida zona dolomitica: siamo nelle LienzerDolomiten e non possiamo lamentarci delle difficoltà. Risaliamoquindi verso un altro passo: Thorlkopf a 2285 metri di quota eancora scendiamo per duecento metri. Sembra che mai finiscaquesto continuo saliscendi e intanto si fa sentire il temporale. Lapioggia comincia a inumidire i nostri panni quando appare ilKarlsbader Hütte dove troviamo rifugio, stanchi ma felici. Laprima cosa che faccio è ordinare un succo di mela, mezzo litro,che trangugio avidamente. Siamo a quota 2260 metri e circondatida picchi dolomitici, con due bei laghetti appena sotto la finestradel nostro camerino.

Venerdì 19 agosto. Qualcosa che ho mangiato o bevuto mi hafatto star male, ma oggi, per fortuna, si scende. Scendiamo peruna strada sterrata e subito incontriamo mezzi militari carichi digiovani soldati: stanno facendo esercitazioni. Incontriamo anchemolta gente a piedi e in bicicletta proveniente dalla valle diLienz, dove noi ci stiamo dirigendo. In basso fa ancora moltocaldo e la gente cerca refrigerio in alta montagna. Verso quotamille troviamo la strada sbarrata per il pedaggio; anche lebiciclette pagano per passare, mentre noi pedoni siamo esenti.Cerchiamo ora un posto per il nostro solito spuntino ed ecco cheuna vespa va a pungere proprio Imelda, lasciandole un belgonfiore. Giunti a fondo valle, invece che puntare su Lienz ci dirigiamolungo il corso del fiume Drau fino a un ponte che porta aDolsach, una cittadina dotata di albergo che, guarda caso, è già alcompleto. Il gerente, impietosito dal nostro stato, si dà da fareper trovarci un posto poco lontano, nella località di Godnach,nella quale possiamo cenare e dormire. Il paesino è pieno dipiante da frutto, cariche di frutta matura di cui facciamo scorta.La gente del luogo è molto chiacchierona e la sera, prima diprender sonno, la sentiamo parlare e sganasciare e anche all’una

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di notte, quando mi sveglio dopo tre ore di sonno, il vociocontinua.

Sabato 20 agosto. Oggi ci avviamo per quella che dovrebbeessere la penultima fatica di montagna. Da Godnach torniamo aDolsach e infiliamo la salita per Iselberg. Troviamo subito unadeviazione che ci permette di evitare la strada principale,piuttosto trafficata: è la strada che porta al passo Hochtor, a2576 metri di quota, da dove è passato anche il giro ciclisticod’Italia di quest’anno. Dopo Iselberg troviamo ancora una stradasterrata nel bosco, che ci permette di scendere di quota aWinklern. Troviamo un altro percorso che costeggia il fiumeMoll, allietati dal fruscio dell’acqua, perché il sentiero segue imeandri del fiume e spesso si discosta dalla strada. Intantoabbiamo lasciato le cime dolomitiche di Lienz, che ora sistagliano dietro di noi, mentre davanti appaiono le prime vettedel Grossglockner lastricate di ghiaccio. Giunti a Mortschach,lasciamo il paesino alla nostra destra per proseguire versoGrosskirchenheim, dove speriamo di trovare un albergo. Un tale,incontrato lungo il sentiero vicino a una passerella sul fiumeMoll, ci avverte che mancano sette chilometri, ma noi siamofortunati perché, già prima di quel paese dal nome così lungo dascrivere, troviamo lungo la strada un bel posto per la notte.

Domenica 21 agosto, Imelda si lamenta di non aver dormitobene. Per colazione ci sono per di più uova, che non ama: così unuovo me lo mangio io e l’altro lo tengo per mezzogiorno. Oraprendiamo la strada poco trafficata per raggiungere il centro diGrosschirchenheim. Mi chiedo come mai usino nomi così lunghiper i loro paesi, ma poi mi viene in mente che anch’io abito aMonticello Conte Otto, che non è così breve da scrivere. Lachiesina del paese è chiusa, anche se è domenica; cosìgironzoliamo per cercare una strada alternativa allaGrossglocknerstrasse, che corre sul fondo valle. Troviamo unaviuzza che sale in quota, molto panoramica e meno trafficata.Due ragazze ci osservano e si mettono a ridere: forse cicompiangono per il nostro modo di andare a piedi e con un bel

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fardello sulle spalle. Osserviamo in basso scorrere il torrenteMoll e la strada principale; più avanti si intravvede Heiligenblutcon la sua bella cattedrale e il campanile. Noi restiamo in alto,per incontrare di nuovo la strada principale dopo una curva e peraggirare un torrente. Dopo aver consumato il nostro solitopranzetto, fatto di avanzi della sera prima o della colazione,passiamo vicino alla stazione di una seggiovia e a un albergo, aquota 1900 metri, dove si trova il casello per il pedaggio degliautomezzi e delle biciclette. Solo noi siamo esentati e possiamoandare avanti, dove speriamo di trovare alloggio in un locale aduemilacento di quota. Qui giunti, però, non si trova letto, masolo da mangiare e birra a volontà. Imelda, stanca più del solito,saputo che mancano ancora dieci chilometri al prossimo albergo,chiede a un tale un passaggio per salire fino a quel punto, a quotaduemilatrecento. Io la rimprovero, perché non voglio salire suuna macchina che ti soffoca o ti procura un malanno con il suocondizionatore. Meglio l’aria sana dei monti, anche se costafatica. Di fronte al locale, al di là della strada, parte un sentieroche ci evita parecchi tornanti. Trovata la partenza del sentiero,saliamo agevolmente attraverso i pascoli, tra le mandrie dibovini; raccogliamo spesso bacche di mirtillo, buonissime, eincontriamo numerosi escursionisti in discesa sullo stessosentiero, fra i quali una signora bionda in pantaloncini davertigine. Un ruscello scorre, precipitando in numerose cascatellee l’acqua è freddissima. Prima del previsto, entriamonell’albergo, sito poco lontano dal passo Hochtor, sui duemila etrecento di quota, dove passiamo la serata e la notte al suono deicampanacci delle mucche.

Lunedì 22 agosto dobbiamo salire ancora per duecento metridi quota fino a raggiungere il passo Hochtor, dove una galleriafacilita il passo agli automezzi. Per noi pedoni, invece, si saleancora per un sentiero, fino ai 2576 metri, dove una bandiera eun cartello segnalano la massima altezza raggiunta. E’ anchel’occasione per una foto ricordo. Malgrado l’altitudine, il solepicchia e fa soffrire perfino i ghiacciai che ricoprono le alture

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circostanti. Sudiamo come dannati, ma proseguiamo fino ad unpianoro con un locale di ristoro e due laghetti. Il luogo è pieno dituristi, finiti quassù sia per sfuggire al caldo, sia per ammirare lebellezze del luogo. Un tale tiene in braccio una marmotta eintorno a lui si accalcano ragazzi e curiosi. Noi dobbiamo salireancora faticosamente per alcuni tornanti, fino a raggiungere unbelvedere affollato di auto, di moto e di pullman in sosta. Da quisi ammira un paesaggio insolito: rocce, ghiacciai, cascate e uncielo blu cupo. Ora, finite le salite, ci avviamo per alcuni tornantiin discesa fino a trovare una scorciatoia attraverso i mughi.Questo non ci agevola più di tanto perché rimaniamo impigliatinegli arbusti e non guadagnamo tempo. Spesso ci fermiamo aosservare i ghiacci e le cascate, mentre adopero di frequente lamia macchinetta da foto. Intanto il cielo si oscura per untemporale che gira tra le montagne e, infine, ci arriva sopra,costringendoci a mettere l’impermeabile e aprire l’ombrello.Benedetta pioggia! Che fresco ci porta! Ora cerchiamo unaqualche “Zimmer” o qualche albergo, di cui la zona sembrapiena, almeno sulla carta. Troviamo il nostro albergo a quotaottocento, il che vuol dire che siamo scesi per quasi duemilametri. Imelda è stanca e chiede, per il futuro, tappe più brevi.

Martedì 23 agosto. A colazione sentiamo parlare il nostrodialetto e così conosciamo persone di Creazzo, anche loro inferie da queste parti. Come al solito, rimangono sorpresi delnostro modo di andare, a piedi in giro per il mondo, e promettonodi raccontare ai nostri parenti di Olmo del nostro incontro. Ormaile montagne più alte sono alle nostre spalle e l’andare sarà piùagevole. Scendiamo verso Bruck per un sentiero che fiancheggiala strada e passiamo accanto alla casa dove ci eravamo fermatidieci anni fa, nel nostro viaggio a Vienna. Bruck è un bel centrosul fiume Salzach, lo stesso che passa per Salisburgo e cheritroveremo. Passata la cittadina ci inoltriamo per un lungo vialerettilineo, solo ciclo-pedonale, che conduce a Schuttdorf e al lagoZeller. Sulle sponde del lago il paesaggio diventa balneare contanta gente in acqua sulle spiagge e all’ombra dei boschetti.

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Arriviamo intanto a Zell am See, bella città, anche questa pienadi gente in festa, di bancarelle e di negozi, dove Imelda si sente asuo agio. Ci sono anche numerose banche, in una delle qualipreleviamo contante ed incrociamo una carrozza trainata dacavalli con due sposi. Non posso fare a meno di fotografare lascena, anche perché tengo la macchinetta a portata di mano.Proseguiamo verso il nord del lago, che è lungo circa quattrochilometri, e prendiamo una stradina sterrata che conduce aMaishofen, dove speriamo di trovare alloggio. Niente da fare; civengono indicati alcuni luoghi più avanti: Lahntal e Bergen.Fatichiamo parecchio, anche perché una pensione è piena e nonaccetta altri ospiti. Ma subito dopo troviamo una bella “Zimmer”presso una signora, che ci fa anche un buon prezzo. La nostracamera dà su un gruppo di monti di tipo dolomitico, quelli cheseparano l’Austria dalla Baviera, e che dovremo attraversaredomani. Anche la cena ci costa fatica, perché dobbiamocamminare per un paio di chilometri, prima di trovare ilristorante, ottimo, per la verità.

Mercoledì 24 agosto facciamo una bella colazione a base dicaffelatte, uova, burro, prosciutto e marmellata: più ce ne sta,meglio è; il resto si mette nella scatola per lo spuntino dimezzodì. Ci avviamo verso Saafelden, bellissima cittadina aipiedi dei monti del Berchtesgaden, le cui cime svettano solennicome un bastione inaccessibile. A mezzogiorno facciamo sostasul greto di un torrente, al fresco, e ammiriamo alcune bagnantiche si dilettano poco lontano in costume succinto. C’è anche iltempo per schiacciare un pisolino e ripartire alla volta diWeissbach seguendo la solita pista ombreggiata. Verso le cinquedi sera troviamo, lungo il percorso, un bell’albergo e decidiamodi fermarci, sentito il prezzo. Perché bisogna stare attenti ancheai prezzi, come fanno i tedeschi. Facciamo un giro fino in paeseper visitare il supermercato, che però è già chiuso. Lo troveremoaperto il giorno dopo, alle otto del mattino.

Giovedì 25 agosto comincia la terza settimana di viaggio equalche momento di nostalgia per la nostra casa e i nostri cari.

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C’è il telefono portatile che tiene i collegamenti e, come abbiamovisto, a volte si incontrano anche conoscenti. Ripassiamo per ilcentro di Weissbach per alcune spesucce e risaliamo una stradache ci porterà ai confini della Baviera. La strada è ripida, a volteripidissima, anche se percorsa da autobus, ma sempre ombreg-giata. Incontriamo anche turisti fermi su queste alture persfuggire al gran caldo e arriviamo al punto più alto, il passoHirchbichl, a 1183 metri di quota, scendendo nel versanteopposto per una strada quasi deserta. A dire il vero, c’è ancheuna pista pedonale che fiancheggia la strada, sulla quale sivedono numerosissimi turisti a piedi; ma noi teniamo la nostrastrada, più agevole e anche più ombreggiata. Di fronte sistagliano alcune vette tra il verde del bosco. Arriviamo vicino aun bel lago sulle cui rive sorgono alcune pensioni turistiche,certamente piene zeppe in questa calda stagione. Arrivati aRamsau, non abbiamo tanto tempo da fermarci, perchéintendiamo raggiungere Berchetsgaden, seguendo una stradinache s’inerpica e sovrasta la strada principale, troppo trafficata.Troviamo alloggio proprio in centro città, in un bell’albergosopra il fiume, dilettati sia dal traffico automobilistico, che dalfruscio delle acque del fiume. Comunque, chiusi i doppi vetri,non si sente più niente.

Venerdì 26 agosto. Dalla finestra della nostra camera si vedeuna rotatoria che sovrasta il fiume; più in alto una chiesa e ungrande albergo: il nido d’aquila di Hitler? Sovrastano il tutto lecime dolomitiche che fanno da cornice ai centri bavaresi diRamsau e Berchtes-Gaden. Ci avviamo in leggera discesa,sempre sulla corsia per bici e pedoni, imboccando quindi unastrada, sempre riservata a bici e pedoni, che corre parallela allavia principale. Da notare che qui, sia in Baviera che in Austria, lepiste ciclo pedonali sono numerose e continue: ti portano da unacittà all’altra. Verso mezzogiorno siamo al confine di stato erientriamo nuovamente in Austria, dirigendoci verso Salisburgo.Fa ancora caldo, anche se mitigato da qualche ventata edall’aperta campagna, quando entriamo nello splendido parco di

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Heilbrunn, sovrastato da un grande castello. Troviamo qui unacoppia di nonni con i loro nipoti che cercano di cogliere dellemele dalla pianta. Io intervengo con il mio bastone per aiutarli ecosì facciamo conoscenza. Il parco è così vasto che non si vedela fine quando, arrivati in un sito con panchine e piscine perbambini, ci fermiamo per una pausa di ristoro. Arrivano intanto inonni conosciuti poco prima e ci dicono che Salisburgo è moltocara per chi si ferma in albergo e che loro sarebbero lieti diaccoglierci in casa loro per alcune notti. Ci guardiamo, Imelda eio, e accettiamo l’offerta, anche perché questo ci esime dalcercare un albergo. Ospiti di questa famiglia, Alfred N. e lamoglie Martina, veniamo a sapere, tramite una telefonata anostra figlia Raffaella, che conosce il tedesco, che loro sonoorgogliosi di accoglierci in casa loro. Vi è una sapienza fossile,sepolta negli strati più reconditi del nostro cervello, che ci guidaa riconoscere le persone amiche. Non servono le parole, nonserve la lingua: né italiano, né tedesco, né inglese e neppurecinese. Basta un semplice gesto, uno sguardo e tutto è chiaro. E’questo il linguaggio del pellegrino.

Cenato con questa coppia di nuovi amici, partiamo il mattinoseguente senza zaino verso il centro di Salisburgo per visitare lacittà. E’ sabato 27 Agosto e questa città merita un giorno pervedere il centro, il castello e i luoghi in cui Mozart esercitò la suaarte. Durante la visita al castello si mette a piovere e cosìpassiamo il nostro tempo in giro per i saloni, lanciando soloqualche sguardo alla sottostante città, offuscata dalle nubi. Nelpomeriggio rientriamo a casa dei nostri ospiti, che frattantosapevamo essere andati a una loro festa, ma perdiamol’orientamento: non ci raccapezziamo più nei meandri dellaperiferia finché, mappa della città in mano e indirizzo di casa,riusciamo a ritrovare il nostro percorso. Abbiamo le chiavi di casa, pensate! Due forestieri venuti dalontano, trattati come fratelli!

Domenica 28 agosto ripartiamo lungo il corso del fiumeSalzach e riattraversiamo la città, fermandoci nella chiesa

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dedicata a San Francesco, dove si sta celebrando una cerimoniareligiosa con organo e cantori. Quindi, come ci aveva indicato ilsignor Alfred, proseguiamo lungo il corso del fiume, fin doveparte una pista pedonale che costeggia un corso d’acqua,tributario del Salzach. Lungo questa via incontriamo una ragazzasui diciotto anni con il fratellino di dieci, zaino in spalla, la qualeci dice che anche lei sta andando a piedi fino a Innsbruck. Forsemi ripeto, ma l’Austria è tutta disseminata di piste per bici e perpedoni ed è facile raggiungere qualsiasi località senza entrarequasi mai nelle strade di traffico. Verso le tre del pomeriggiosiamo a Eugendorf e qui troviamo anche un bell’albergo per lanotte. C’è ancora il tempo per ispezionare da dove parte iltragitto per il giorno successivo e ammirare la cittadina.

Lunedì 29 agosto. Ho la sensazione che il mio colesterolo stiaaumentando perciò rinuncio al burro e alle uova, sempre presentinelle abbondanti colazioni del mattino. Partiamo alla volta diSeekirchen, cittadina adagiata presso un laghetto, seguendosempre la solita pista fuori strada. Giunti ad un bivio, ciaccorgiamo che non serve passare da Seekirchen, ma convienescendere verso il lago Wallersee per un sentiero radente la costa:siamo tra canneti e zanzare, qualche villetta di pescatori e tantosilenzio, rotto dall’abbaiare di qualche cane. Lasciamo il lago pertoccare una borgata agricola, Enzing, e discendiamo nuovamentesul lungolago fino all’estremità superiore per giungere, versomezzodì, alla cittadina di Neumarkt. Solito spuntino e solite fotoper poi seguire il cammino fino a Strasswalchen, dove inten-diamo fermarci. All’ufficio turistico, però, l’addetta alle relazionicon il pubblico ci dice che non ci sono alberghi e che dobbiamospostarci più avanti di almeno venti chilometri. “Siamo a piedi”dico io “e so che a sette chilometri c’è un albergo, segnato anchenella mia cartina”. La signora telefona a questo albergo e ci diceche è tutto esaurito. Chiama un altro albergo e ci trova unacamera a dieci chilometri. Rassegnati, partiamo per affrontarequest’ultima fatica, ma, appena dopo cento metri, Imelda siaccorge di un’insegna con la scritta “Zimmer”. Ed è qui che

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troviamo la nostra sistemazione. Cosa farei, senza di lei?Martedì 30 agosto ci dirigiamo verso le colline che portano a

Schneegattern per evitare la strada principale, più diretta mamolto trafficata. Il paesaggio è sempre gradevole: prati, boschi efattorie piene di fiori. Dopo la pioggia di sabato scorso latemperatura è calata, fa più fresco e si cammina agevolmente.Schneegattern è un paesino fuori mano: si trovano alcunesegherie e poco altro. Nel tentativo di girare verso la chiesa,perdiamo anche la nostra direzione e ci troviamo fuori manoalmeno di un chilometro. Chiediamo informazioni ad unaragazza circa la direzione da prendere per Pondorf, e questacerca la località sul navigatore satellitare. Meglio lasciar perderee cercare da noi la strada giusta. Arriviamo a Pondorf sull’ora dimezzodì (saremmo dovuti arrivare la sera prima) e qui cerchiamodi dialogare con qualcuno per sapere se a Vocklamarkt ci siaqualche albergo; siamo fuori da zone turistiche e rischiamo ditrovarci senza letto. Verso le cinque del pomeriggio eccoci allameta, ma la periferia è piena di stalle e segherie. Solo dopo ilcentro del paese si trova una piccola pensione, il cui gerente ciparla in inglese, che non conosciamo. Ad ogni modo basta pocoper capire l’essenziale: prezzo della camera, cena e colazione.

Mercoledì 31 agosto. Non abbiamo più trovato cartine detta-gliate e quindi dobbiamo tirare a indovinare. Partiamo nell’incertezza, prendendo una stradina tra i campi.Incrociando una ferrovia, ci sembra di essere fuori mano e alloraci infiliamo in una strada che ritorna a Vocklamarkt: quattrochilometri per niente. Ora seguiamo le indicazioni stradali, sicuridi non sbagliare, ma sopportando un traffico noioso. Versomezzogiorno siamo a Timelkam dove, almeno, si cammina suimarciapiedi. Usciti da questa cittadina, entriamo subito nellaperiferia di Vocklabruck, altro centro più grosso, dove possiamoammirare le porte medievali e altre belle costruzioni. La cittadinaci piace e quindi ci fermiamo. Vorrei spendere due righe perdescrivere il lungo viale centrale, quasi del tutto riservato aipedoni, verso il quale fanno bella mostra negozi di ogni genere e

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palazzi colorati e ombrelloni sotto i quali oziano numerosi turisti,tra i quali anche noi ci confondiamo. La mia curiosità mi porta acercare anche la via che prenderemo il giorno successivo.

Giovedì 1 settembre la partenza è buona: imbocchiamo unsottopasso che esce dal lato opposto della ferrovia, per una stradasecondaria. Il percorso si allunga un po’, perché più tortuoso, masiamo fuori dal traffico, specie più avanti, tra i prati e le fattorie.Arriviamo a Puchheim, lasciando la cittadina sotto di noi sulladestra, e proseguiamo verso Schwanenstadt, bel centro il cuicampanile spicca da lontano. Volevamo lasciar fuori anchequesta cittadina, ma ci viene il desiderio di passare per il centro.Abbiamo modo di ammirare i bei palazzi e la cattedrale gotica.C’è anche il mercato pieno di bancarelle, che fanno la delizia diImelda, e c’è anche un buon caffè da sorseggiare. Un tale, incuriosito, ci chiede da dove veniamo e doveintendiamo andare. Cerco di dare un’idea di quello che stiamofacendo, anche se è difficile. Non serve dire che veniamo daVicenza, che nessuno conosce, ma diciamo “Venezia” che tutticonoscono. Dove andiamo chissà: forse a Praga. Per oggiintendiamo arrivare a Wels e il cammino è ancora lungo. ALambach ci si potrebbe fermare, ma sono deciso ad arrivare aWels, chissà perché. Entriamo qui in una specie di monastero eusciamo dal lato opposto, da dove parte una pista ciclabile epedonale. Decidiamo di seguire questa via, lunga almenodiciassette chilometri, dopo averne già fatti almeno venticinque.Il cammino è tranquillo, ma non finisce mai. Alle sette di serasiamo a Wels ed entriamo nel primo albergo che ci viene a tiro.Oggi è stata una maratona.

Venerdì 2 settembre ci alziamo con un cielo lattiginoso, con lanebbiolina che avvolge i palazzi e ci mette in confusione. Uscitidalla città attraverso un sottopasso, seguiamo una strada cheserve la zona industriale e un centro logistico. La stazioneferroviaria non finisce più e si vedono le gru al lavoro: caricanosui vagoni interi autocarri con rimorchio. Finita la zona logistica,troviamo modo di perderci ancora una volta: il cielo plumbeo

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non ci consente di orientarci a dovere e siamo costretti a chiederechiarimenti a un tale che incontriamo lungo una stradina dicampagna. Costui ci rimette sulla buona via, indicandoci unpercorso attraverso la campagna che ci fa ritrovare la strada perLinz. Intanto ritroviamo le indicazioni dello Jacobsweg, una seriedi percorsi per pellegrini e ciclisti che attraversa tutta l’Austria.Seguendo questo percorso, che costeggia il fiume Traun,arriviamo tranquillamente alla periferia di Linz, grande città sulDanubio. La periferia della città è lunghissima e, qualche volta,dobbiamo ancora chiedere informazioni per raggiungere ilcentro. Ora cerchiamo un albergo che non sia troppo caro e lotroviamo su una laterale della Landstrasse, la via principale.

Sabato 3 settembre ci avviamo per visitare almeno la catte-drale e rivedere il maestoso centro città. Troviamo anche ilmercatino dell’usato, pieno di bancarelle e dove io trovo uncappello di paglia per soli tre euro. E’ vero, sono pignolo comeun tedesco nel controllare le spese. Ma devo aggiungere che nonvi è ricchezza che possa pagare il benessere, la libertà el’indipendenza: tutti vantaggi dell’arte di camminare. Dopo averescattato le solite foto, ci avviamo per il ponte che supera ilDanubio e proseguiamo sulla stessa via, fino a trovare il sentieron. 109, che seguiremo a lungo. Il sentiero s’inerpica su un monteboscoso ed esce su una specie di belvedere, da cui si ammira ilpanorama di Linz, il Danubio con le sue anse e tutto unpaesaggio meraviglioso. C’è un locale pieno di escursionisti,arrivati a piedi o in bicicletta, e c’è un’arietta deliziosa che invitaal riposo. Noi dobbiamo proseguire perché ci aspettano ancoratanti giorni di cammino. Scendiamo attraverso prati, fattorie emandrie di bovini e di cavalli. Troviamo anche chi staraccogliendo le patate e ne facciamo la foto ricordo. Attraversatoun bosco, scendiamo in un paesino, Obergeng, e ritroviamo lastrada in direzione Zwettl, che raggiungiamo verso sera. Prima dientrare in paese, troviamo l’indicazione di una “Zimmer” e cifermiamo. Nel cortile c’è una bella compagnia dedita allelibagioni di birra, chiacchierate e risate a non finire, tanto che

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nessuno si muove per darci retta. Poi si fa avanti una vecchia e cipresenta la camera, accompagnata dalla nipote che sa l’inglese.Peccato che noi poco sappiamo di inglese, ma ci capiamo piùvolentieri a gesti. Ad ogni modo tutto si accomoda e la serausciamo per la cena al ristorante. Qui il gestore ci interroga persapere dove abbiamo preso camera, come per rimproverarci dinon essere andati da lui. In ogni caso la notte passa tranquilla e lenostre forze si rigenerano.

Domenica 4 settembre, dopo una visitina alla chiesa, ciavviamo per una strada panoramica che si eleva tra fattorie ecase di villeggianti. Le case sono rivestite di liste di legno, sullequali si sviluppano i rami degli alberi di pero: forse le piante, aridosso del muro, sentono di più il calore e la frutta maturameglio. Siamo sugli ottocento metri di altitudine, ma fa ancoraun caldo bestiale. Figurarsi giù da noi, a Vigardolo! Le notizieche ci giungono parlano di un caldo torrido. Anche i mulinieolici che si vedono in lontananza sono fermi: non tira un filo diaria. In mattinata siamo a Bad Leonfelden, bel centro turisticonel quale si nota gente in costume folkloristico. Tutti sono vestitiin modo strano, forse perché è giorno festivo e si stafesteggiando. Poi scopriamo, davanti la chiesa, una coppia dianziani che celebrano le nozze d’oro, circondati da parenti eamici. Dopo il folklore, eccoci di nuovo in cammino verso ilconfine. Sia per l’ansia di entrare nella repubblica Ceca, siaperché fa tanto caldo, ancora una volta prendiamo il sentierosbagliato e, quando me ne accorgo, ci siamo già inoltrati nelbosco per alcuni chilometri. Allora prendo la decisione discendere per una traccia di sentiero non segnato in mezzo albosco e la fortuna ci fa raggiungere la base di una funivia, cheporta a Sternstein, una località montana. Facciamo ancora duechilometri a ritroso e riprendiamo la strada giusta per giungere alconfine, che si trova subito dopo Weigetschlag. Qui sorge unaenorme costruzione, già dogana, frontiera e cortina di ferro, orain completo abbandono. Prendiamo le foto rituali e ripartiamoalla volta di Vyssi Brod. Io scrivo i nomi delle località con i

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caratteri latini, ma qui si usano altri segni, come piccoli accentisia sulle vocali che sulle consonanti. Il caldo non conoscefrontiera e ci segue anche in quest’altro paese. Non trovandoacqua potabile, ci fermiamo in un supermercato lungo la strada,pieno zeppo di gente che fa la spesa, per prenderci dei succhi difrutta. Il motivo di tanto affollamento è presto chiaro: qui tuttocosta molto meno che in Austria, addirittura la metà. Intantoarriviamo a Vyssi Brod, il piccolo centro nostra meta odierna. Laprima cosa che notiamo sono le bancarelle dei cinesi, sparse perle vie adiacenti la piazza. Che sia un centro turistico importante,lo scopriremo poi. Intanto troviamo alloggio in un localeconfortevole e usciamo per una passeggiata intorno alla piazza.Ora ci sentiamo soddisfatti del cammino fatto e quasi sicuri diportare a termine l’impresa, anche perché sembra che qui siafacile trovare da pernottare. All’inizio di questa avventura miassillavano alcuni pensieri: ce la farò con la mia anca macilenta?E gli anni che porto sulla groppa non sono troppi?

Lunedì 5 settembre, quando ci alziamo il cielo è coperto: nonpiove, ma si preannuncia burrasca; meglio così, perché il caldoinfiacchisce. Dopo la solita discussione con mia moglie sulcammino da seguire, scegliamo di prendere il percorso da meindicato, evitando la strada più trafficata. Sono fortunato, perchéanche lei mi fa i complimenti: “Hai scelto bene!”. Bisognaspiegare agli increduli il motivo delle nostre liti. Lei, mia moglie,ama la sicurezza e vuole andare per le strade asfaltate, con i lorobei cartelli indicatori; io, invece, prediligo i sentieri o le stradellesenza indicazioni e mi affido al mio intuito per orientarmi. Soche Praga si trova a Nord ed è verso quella direzione che midirigo. Superato il ponte sulla Moldava, notiamo dietro di noi ungrande monastero sul colle che sovrasta Vyssi Brod. Lascio allettore di informarsi sull’importanza storica di questo complessomonumentale. Giunti a Rozmberk, decidiamo di seguire il corsodel fiume Moldava, che qui si scrive Vltava e non so come sipronunci. Ne aggiriamo le anse, allungando il percorso, ma nonci sono altre vie più dirette, se non la superstrada. Notiamo anche

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una barchetta che scende lungo il fiume con a bordo dueinnamorati. Sorge anche una discussione su quale dei due sia ilmaschio e quale la femmina. In questi casi la ragione è sempre dimia moglie. Intanto comincia a piovere sempre più forte, tantoche le macchine ci schizzano l’acqua delle pozzanghere e ciinzuppano per bene. La cosa diventa pesante quando siamo aVetrni, un centro industriale in disfacimento con fabbriche e caseabbandonate, che ci lasciano perplessi, perché non se ne intuisceil motivo. Addio lindore austriaco, dove anche le stalle sono villepiene di fiori e tutto è pulito! Intanto siamo a Cesky Krumlov ele cose migliorano. Troviamo subito un albergo dignitoso edabbiamo anche il tempo per girare il centro della cittadina. Chemeraviglia! Tutto sembra smentire quanto detto poco prima.

Martedì 6 settembre. Colazione alle otto e trenta, un po’ piùtardi del solito, e siamo per le vie del centro, piene di turisti diogni razza: francesi, tedeschi, inglesi e giapponesi. Il motivoforse è sempre quello: buoni prezzi e molte cose da vedere,compreso un grande castello che troneggia sopra la città. Quelloche a noi sembra strano è, invece, motivato dal fatto che CeskyKrumlov è città “Patrimonio Unesco” e tutto il mondo lo sa,fuorché noi, poveri pellegrini incoscienti. Ne usciamo perdirigerci verso Vysny seguendo una strada quasi deserta. Lastrada finisce per diventare una carrareccia in mezzo al bosco enoi ci troviamo perduti chissà dove. Per nostra fortuna c’è unacasa abitata con della gente nel cortile. Un giovane, oltre aindicarci la via da seguire, ci fornisce anche una cartina perciclisti, dove sono segnati tutti i sentieri, giusto quello cheavevamo cercato invano nelle cartolerie. Ora abbiamo tuttoquello che serve per camminare sicuri attraverso il bosco e lepraterie e arrivare, sull’ora di mezzogiorno, nella località diChvalsiny e qui fermarci una buona mezz’ora. Dopo il solitocaffè o cappuccino, riprendiamo il cammino lungo una stradasolitaria. Il traffico è quasi inesistente e il camminare tranquillo.Verso sera siamo a Lhenice e intendiamo fermarci, se troviamoda dormire. Troviamo una camera, anzi due, presso una signora

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che si presenta in abbigliamento balneare, con due gambeformidabili. Prendiamo la camera che ci sembra migliore e cimettiamo comodi, dopo la doccia. Quando usciamo per la cenasono le sette e mezzo e l’unico locale ha già chiuso la cucina.Niente cena! Dobbiamo arrangiarci, ma la fortuna ci viene inaiuto: troviamo aperto un negozietto alimentare, nel quale ciserviamo di quanto basta per la cena in camera.

Mercoledì 7 settembre partiamo senza fretta, perché inten-diamo fare una passeggiata di soli venti chilometri. Il cielo ècoperto, ma non pesante. Il primo centro che incontriamo sichiama Netolice ed è una bella cittadina con una piazza spaziosae molti bei palazzi. La chiesa è quasi nascosta da una grandecostruzione moderna, forse il municipio, che troneggia quasi asignificare il potere civile superiore al potere religioso. I turisti,però, sono tutti nella chiesa, di bello stile gotico, e nel museoattiguo. Qui acquistiamo anche qualche capo di abbigliamento,una maglia per me e una borsetta per Imelda, presso alcuninegozietti cinesi. Ce ne andiamo quindi per la campagna, lesolite colline coperte di prati e di boschi di colori verdeggianti.Ogni tanto si vedono le stoppie del grano falciato e le balle dipaglia, abbandonate e sparse dovunque. Siamo scesi a quote piùbasse e ora si notano anche campi di mais. Intanto arriviamo allanostra meta odierna: Vodnany. Purtroppo qui comincia unaodissea per trovare un posto dove passare la notte. L’unicoalbergo, in centro, è pieno e altro non c’è se non un centrosportivo, dove ci sono solo panche. Tornati all’ufficio informazioni, dopo alcune risposte negative, civiene indicato un posto a tre chilometri dalla città, in unbungalow. Vada per il bungalow, purché sia un posto sicuro, e cisia anche qualcosa da mangiare.Qui devo raccontare la storia del mio lenzuolo: siccome il pesodello zaino mi dà noia, cerco sempre di lasciare quello che nonserve. Così avevo lasciato il lenzuolo, che ritenevo inutile. Ora,invece, mi sarebbe necessario: meno male che ho anche unacoperta di nailon, leggerissima, di cui mi sono servito,

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sopportando pure i rimbrotti di mia moglie. Giovedì 8 settembre, passata una notte insolita, anche se

tranquilla, rifacciamo un paio di chilometri a ritroso, fino atrovare l’indicazione per Pisek. La strada è costeggiata danumerosi laghetti dove nuotano anatre selvatiche. Dalle stoppieescono numerosi i fagiani e altri strani uccelli che farebbero lagioia dei nostri cacciatori. Bisogna arrivare alla località di Putimper trovare un bar aperto e prenderci la solita pausa di ristoro,perché frattanto è cominciato a piovere e non si può sostare aimargini della strada. Ancora sei chilometri per giungere a Pisek etrovare, per paura di restare fuori, un albergo a quattro stelle,piuttosto caro, ma confortevole: abbiamo anche il bar in camerae una finestra che dà sul centro, di fronte alla cattedrale. La serapoi rimediamo, trovando un localino in cui ci servono un’ottimapasta bolognese, acqua e vino, il tutto per meno di dieci euro.

Venerdì 9 settembre il cielo è coperto e fa piuttosto freddo. Civestiamo bene e andiamo a visitare la chiesa: si sta celebrando lamessa, ma noi partiamo subito perché ci aspetta una lungacamminata di oltre trenta chilometri. Per fortuna abbiamo lacartina delle piste ciclo-pedonali e non temiamo di perderci.Seguendo il nostro sentiero n. 1149 arriviamo sulle sponde delfiume simbolo della Repubblica Ceca: la Moldava, e lo attraver-siamo per raggiungere Milevsko. Ci sarebbe una “penzion”anche prima, a Kucer, ma siamo decisi a fare alcune tappepesanti, per arrivare a Praga il prossimo lunedì. Le gambe vannoda sole in questo paese quasi piatto e la stanchezza sembra unacosa d’altri tempi. Arrivati a Milevsko, non troviamo insegne nédi hotel, né di penzion. Eppure la città è molto lunga, con negozidi ogni genere. Tentiamo verso la stazione e mi fermo a chiederepresso un bar ristorante. “Cerchiamo una camera, zimmer, room”faccio a una ragazza che sta al bancone; e quella mi mostra unfoglio con su scritto “700 corone”. Settecento corone valgonomeno di trenta euro e io dico che sta bene: ci fermiamo lì. Per lacolazione o breakfast o Frühstück, ci vogliono altre duecentocorone, che paghiamo più che volentieri. Poi ci sarà anche la

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cena, ma il tutto ci verrà a costare circa cinquanta euro;veramente poco!

Sabato 10 settembre. Anzitutto devo raccontare dellacolazione eccezionale. Ci viene servito il tè con pane, burro,marmellata e altre cosucce in tutta abbondanza; poi arriva unafrittata di tre uova con cipolla e prosciutto per ciascuno di noidue. Io mangio la mia parte e quella di Imelda la mettiamo nellascatola per il pranzo di mezzogiorno. Imelda non mangia piùuova da quella volta, racconta lei, che trovò il pulcino nell’uovo.Saluto la locandiera con due baci, uno per guancia, e ce neandiamo sazi e felici. Sono così felice che prendo la stradasbagliata. A mettermi in confusione c’è anche il fatto chetorniamo al centro del paese per cercare un paio di occhiali, insostituzione di quelli perduti da mia moglie o lasciati in albergo aPisek. Non troviamo occhiali per presbiti, ma solo da bellezza.All’ufficio informazioni non capiscono, o non vogliono capire,che ci serve una cartina dei percorsi ciclo-pedonali, mentreImelda ne trova una frugando tra le carte e la prende! Orapartiamo verso una direzione che a me sembra il Nord ed èinvece il Sud, come ci spiega un tale fermato lungo la via. E’nuvoloso e il sole non si vede per cui non ci si raccapezza.Immaginate la gioia di Imelda! “Te l’avevo detto!”. Dopo tuttoquesto pasticcio, ci incamminiamo per la strada giusta con unpaesaggio sempre gradevole. Si fa strada anche il sole, mentrerimane il fresco e l’andatura si fa sciolta. A Petrovice troviamo ilsolito caffè “espresso”, anche se è doppio o triplo. Lungo lastrada si trovano di frequente, come dalle nostre parti, le croci aricordo di qualche motociclista schiantatosi contro un albero.Una in particolare attira la mia attenzione: c’è una croce con uncopertone di moto e un casco nel centro. Non posso fare altro chefotografarla, come ricordo. Alle cinque di sera siamo a Sedlcany,nostra tappa odierna, a soli cinquanta chilometri da Praga.

Domenica 11 settembre. Dieci anni fa avevamo preso il trenoa Vienna, per tornare da un lungo viaggio analogo a questo, ilmedesimo giorno dell’attacco alle torri gemelle di New York.

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Oggi, invece, siamo alla penultima tappa del nostro lungoviaggio e ce la prendiamo comoda, assistendo anche alla messanella bellissima chiesa di Sedlcany: stile gotico con bei finestroniistoriati a più colori, che lasciano entrare la luce, illuminandol’interno. Ritroviamo anche quel tale che il giorno prima ci avevaospitato in casa sua per offrirci da mangiare e mostrarci la suacasa, da lui stesso costruita, come cercava di farci capire a gesti.Partiamo alla volta di Nevelklov seguendo la statale n. 105. Il traffico è pressoché nullo e si cammina agevolmente: nonsembra una statale, ma una strada di campagna, percorsa più damacchine agricole che da automezzi. Solo più tardi si incontranodei motociclisti e qualche auto con il carrozzino per le bici. Negliultimi giorni abbiamo macinato più di trenta chilometri al giornoe la stanchezza reclama i suoi diritti. A Kamenny, prima diattraversare un ponte, troviamo una piccola pensione e cifermiamo.

Lunedì 12 settembre ci alziamo più presto del solito perchévogliamo arrivare a Praga. Partiamo senza colazione, certi ditrovare qualcosa più avanti. Al primo paesino, Jlove U Prahy,facciamo la spesa in un mercatino: yogurt, pane, prosciutto emarmellata, il tutto per soli quattro euro. La campagna qui ècoltivata a mais, come dalle nostre parti, anche se la stagione èpiù indietro. Poi arriviamo alla periferia della grande città e ciimmergiamo in un mare di palazzoni, come succede avvicinan-dosi a Milano o a Genova. La strada per giungere in centrosembra non finire mai, anche perché prima si scende e poi sirisale un’altura da dove, finalmente, si vede la storica città. Dopoaver attraversato un lungo ponte che supera le linee ferroviarie ealcune strade, imbocchiamo una delle principali vie di Praga,fiancheggiata da bei palazzi di stile ottocentesco, sede di negozie di alberghi. Nel primo hotel che vediamo prendiamo alloggio elasciamo gli zaini per una prima visita al centro della città.

Martedì 13 settembre. Usciamo diretti a piazza SanVenceslao, che è il vero centro di Praga, per prenotare il giroturistico della città con guida che parla italiano. Qui conosciamo

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altra gente venuta dall’Italia e ci scappa di dire che noi siamoarrivati a piedi da Vicenza. Anche la signora che ci fa da guidarimane sorpresa e lo racconta a tutti. La visita guidata consistenel passare per i luoghi più significativi, salire su un traghettolungo la Moldava, pranzare in un ristorante tipico, visitare ilcastello, in cui si trovano i palazzi della reggia, ora sede delPresidente della Repubblica, la cattedrale e i giardini; visita allasinagoga e al cimitero degli Ebrei. Ogni tanto mi fermo perqualche foto, mentre la comitiva segue la guida e quasi scomparetra la folla. Devo correre e non ho più tempo per osservare quelloche mi piace di più. E’ la giornata più noiosa di tutto il viaggio.“Una cosa che si chiarisce smette di interessarci” dice il filosofo.Se vi capita di visitare una città, fatelo da soli, senza guida.Scoprirete che il bello, l’emozionante, il fantastico, la storia,l’architettura di un luogo non stanno in quello che vi dicono glialtri. Trovatelo voi stessi, da soli.

Tutto si conclude alle tre del pomeriggio, quando a piedirientriamo in città e, quindi, alla stazione ferroviaria perprenotare il biglietto di ritorno.

Mercoledì 14 settembre. Prendiamo il treno alle due delpomeriggio, direzione Vienna. Tanti ricordi passano davanti ame, ma il libricino che sto leggendo: Storia di Tönle, di MarioRigoni Stern, allunga la mia memoria fino a oltre 150 anniaddietro. Tönle, che potrebbe essere il mio bisnonno, nacque adAsiago, allora sotto l’Impero Austro Ungarico. Le sue storie loportarono in giro per il Tirolo, l’Austria, la Boemia fino a Praga,a coltivare i giardini imperiali.

Sono fiero di aver ripercorso i sentieri di questo mio antenato.Dopo tanti anni e due guerre, anzi tre, considerando la guerrafredda, con l’imposizione di confini assurdi tra i popoli al di quae al di là delle Alpi, le barriere che dividevano le genti si sonodissolte e oggi si passa da una nazione all’altra, senza esibiredocumento.

L’Europa sta accogliendo sotto un unico grande tetto tutti ipopoli che, fino a ieri, si scannavano tra loro.

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SLOVENIA - 2012Km. 400 - gg. 21

Le persone non fanno i viaggi: sono i viaggi che fanno lepersone.

John Steinbeck

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La calda estate del 2012 non dà tregua, ma bisogna partire,altrimenti ci si accascia nell’indolenza. Questa volta la nostrameta, tenuto conto degli anni che portiamo sulle spalle, oltre lozaino, sarà più modesta: Lubiana, capitale della Slovenia.

Sono le cinque del mattino del 12 Agosto quando usciamo dicasa, i due soliti pellegrini: Imelda e Osvaldo. Alla curva di VillaRossi vediamo, anzi ci vede, Angelina e viene a salutarci,sapendo del nostro viaggio. “Andate in Slovenia? Ci sono deiposti meravigliosi!” Più avanti spunta il sole e viene subitocoperto dai nuvoloni bassi sull’orizzonte. Speriamo di vederlopoco, il sole, che picchia forte in questo periodo. Speranza vanain quanto il cielo si rischiara quasi subito. Passiamo per Lupia eBressanvido, dove troviamo una pedonale. Giunti a Scaldaferro,sostiamo presso il santuario della Madonna per la preghiera delmattino e per riprendere fiato. Solo a Friola troviamo un baraperto per fare colazione: perché anche il corpo ha bisogno disostegno e non solo lo spirito. Ora si attraversa il fiume Brenta esubito troviamo il viottolo lungo l’argine, tranquillo e ombreg-giato. Usciamo a Cartigliano, la cui piazza è piena di bancarelledel mercato. Altra sosta a osservare la gente che passeggia e aindovinare quale strada prendere per Bassano. Arriviamo allasede degli alpini, piena di gente allegra, e ne approfittiamo peruno spuntino, ma niente vino. Beviamo solo acqua: le nostregambe vacillano già per se stesse. Dopo il sottopasso dellasuperstrada Valsugana, giriamo per una via secondaria checosteggia il Brenta e arriviamo alla nostra meta, un “bed andbreakfast” alla periferia di Bassano del Grappa.

Lunedì 13 Agosto ci vede partire presto verso il centro diBassano. Il Grappa ci sta di fronte, ma non ci fa paura perché lolasciamo fuori e ci incamminiamo lungo la pedemontana a Sud.Transitiamo per Romano d’Ezzelino e prendiamo un viottolo chesale leggermente in quota, evitandoci il traffico automobilistico.Raggiunta la quota di 400 metri, ammiriamo il sottostantepaesaggio e ci fermiamo spesso, sia per il caldo che per il doloreai polpacci; siamo partiti con poco allenamento e questo ci

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costerà. Giunti a Crespano, non ce la sentiamo di proseguire oltree troviamo alloggio presso il pensionato “Scalabrini”, già sede diun monastero. Deposto lo zaino, esco per visitare il paesino etrovo ristoro solo nei giardini ombreggiati. Cerchiamo unristorante per la cena della sera e ne troviamo ben tre chiusi perferie. Ma che giornata faticosa!

Martedì 14 Agosto. La strada che percorriamo è quasi desertae così evitiamo di prendere un sentiero tra il bosco e i sottostanticoltivi, che sarebbe più faticoso. Arrivati a Possagno, notiamo inalto il tempio neoclassico del Canova. Intanto passiamo accantoad alcune fornaci del “Cotto di Possagno”, un pregiato laterizio,e tentenniamo se prendere una via laterale o risalire dal centro.Optiamo per quest’ultima scelta, anche per passare da unafarmacia, dove Imelda intende fare degli acquisti. Arrivati incentro, dove sta la gipsoteca e il museo del Canova, prendiamo ilviale che sale al tempio e mi viene un attacco di sgomento: se sivoleva rendere pacchiano un celebre monumento, qui ci sonoriusciti perfettamente, asfaltando di bitume nero tutto il vialone eil piazzale antistante il celebre “Tempio di Canova”. A completare il disgusto un tale, piazzato nel centro con il suoenorme “fuori strada” e con il cellulare in mano, si agita e dà inescandescenze per certi affari suoi. Facciamo qualche foto edentriamo nella chiesa per ammirare le sculture sugli altari e ilcupolone. Ce ne andiamo trovando sollievo sotto una pianta difico, piena di bei frutti maturi. Ci dirigiamo ora verso Cavaso delTomba, in leggera discesa, per risalire verso una collina rivestitadi vigne. Assaggiamo qualche acino di uva, già matura in questacalda estate. Le stagioni si sono modificate e la frutta anticipa lamaturazione, adattandosi alla situazione. A meno che non siritorni ad un’epoca più innocente, all’umanesimo, per esempio,sapremo noi, uomini del ventunesimo secolo, adattarci aicambiamenti del clima? O saremo destinati all’estinzione?Peccato, ma la terra, scrollatasi di dosso la presenza degliominidi, si riprenderà. Con questi cupi pensieri, arriviamo aPederobba e giriamo attorno al centro del paese per trovare la

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strada del Piave e raggiungere Fener. Intanto assaggiamo degliottimi fichi, che altrimenti cadono vanamente sulla strada e sonoschiacciati dalle auto di passaggio. Ora ci toccano un paio dichilometri di traffico intenso, lungo la strada che costeggia ilPiave, finché arriviamo al ponte che attraversa il fiume. Passatisull’altra sponda, ci inoltriamo tra i vigneti di Valdobbiadene,regno del prosecco. A San Vito notiamo un santuario dedicatoalla Madonna del Carmine in cui si sta celebrando la messa.Imelda ne approfitta per assistere al rito, ma io soffro diclaustrofobia e devo correre tra i vigneti per sgonfiarmi l’inte-stino e piluccare qualche acino. Intanto arriva il gestore di unlocale che sta di fronte al santuario e chiedo una camera per lanotte. Trova così termine una giornata afosa con una bella pizzae una bella dormita.

Mercoledì 15 Agosto. Raggiungiamo Valdobbiadene in brevetempo e sostiamo in centro per un caffè e una brioche: nienteProsecco e niente Cartizze.La piazza si presenta opulenta, con una chiesa dal frontaleneoclassico e alcune banche dalle grosse insegne. Il paese erarimasto azzerato durante la Grande Guerra, perché fin qui eraarrivato l’esercito austriaco e questi luoghi finirono martoriatidalle ultime battaglie.Lasciata la cittadina, ci inoltriamo in un paesaggio dei piùstupendi: vigneti che rivestono le colline fin sotto il monte efattorie vinicole quasi sommerse dal verde da cui emerge il rossodel tetto. Arriviamo abbastanza presto a Follina, caratteristicopaese già sede di filande, alimentate dalle acque che scendonodal monte Cesen. Ci attrae in modo particolare la chiesa e cisorprende vedere intorno numerosi turisti. Veniamo pertanto asapere che la cittadina merita una visita più approfondita e cosìtroviamo alloggio in una locanda e usciamo, rilassati, per leantiche vie, a vedere l’Abbazia di Santa Maria e l’attiguochiostro, la vecchia filanda riadattata a centro sociale. Nel parcovediamo parecchi anziani, settantenni o giù di lì, adagiati ad unavita sedentaria e tranquilla, alcuni in carrozzella, mentre noi

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siamo costretti dalle nostre manie a girare per il mondo con ilbastone e con i nostri otto-nove chili sulle spalle.

Giovedì 16 Agosto ci avviamo per Cison lungo una pistaciclabile che conduce a Valmarino e qui ci accorgiamo di esserefuori rotta; un chilometro solo di più e torniamo sulla vecchiastrada pedemontana. Nel piccolo centro è annunciata unamanifestazione folcloristica, ma nel pomeriggio. Noi passiamotra le bancarelle del mercato e a mezzogiorno siamo a Lago.Troviamo un bel posto all’ombra in vista del lago, posiamo perterra la coperta e ci sdraiamo, ma subito siamo assaliti dallezanzare. Niente riposino, per oggi, e avanti verso Revine, altropaese in cui troviamo delle panchine all’ombra. Il sole picchiainesorabile e poche sono le occasioni per sfuggire al caldo.Arriviamo a Vittorio Veneto dal lato Nord, percorrendo unastrada fiancheggiata dal fiume Mèschio. L’acqua che scende daimonti porta un po’ di fresco e ci accompagna per l’ultimo tratto,fino a quando Imelda nota l’insegna di un “Bed and breakfast”.Inutile cercare altrove, perché qui troviamo alloggio. Ci rimanemolto tempo per visitare la città, sorbire un gelato e recarci alleposte per prelevare soldi dallo sportello. Imelda non ricorda ilsuo “pin” e io non ho il bancomat; per i soldi dovremo tornare.Se avete notato, ho dovuto aggiornare il mio vocabolario conparecchi termini inglesi: Mussolini e Gabriele D’Annunzio sirivolteranno nelle loro tombe…

Venerdì 17 Agosto: osservate bene! Venerdì diciassettepotrebbe essere un giorno infausto, così dicono. Torniamo incentro a prelevare soldi perché nei prossimi giorni faremomontagna e non ci sono sportelli. Sostiamo presso una cappella ecomincia a piovere. Tiriamo fuori l’ombrello e un chilometroavanti mi accorgo di avere lasciato il bastone presso la cappella.Ricupero il bastone e ci avviamo per la strada Fregona che portaall’altopiano del Cansiglio. E’ una strada secondaria che passatra piccoli centri e villette, salendo di quota molto lentamente. Ilsole, intanto, brucia le nuvole e torna a picchiare sulle nostreteste. Mi accorgo di non avere preso acqua e rimedio

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chiedendone una bottiglia ad alcune donne. “Ci basta acqua dirubinetto” dico io, ma ci viene donato una bottiglia di acquafresca da frigo. Giunti a Piai, piccolo paese, cerchiamo unnegozio per le provviste, ma rimaniamo a secco: non esistenegozio di alimentari e per trovare pane dovremo salire aSonego, altro paesino, dove si può trovare una panetteria.Arriviamo quando la fornaia sta chiudendo, alle dieci delmattino, perché qui usa così. Pur avendo la nostra cartina,chiediamo informazioni sul percorso da seguire e ci vieneconsigliato di andare per una carrareccia, valida anche per cicli.Intanto finisce l’acqua e ne troviamo ancora presso una famigliache vive quassù, tra i boschi, a quota 960 metri. Usciamo dalbosco a quota 1176, presso un capitello dedicato a San Floriano.Sosta e spuntino nel prato, quando arriva un’auto il cuiconducente viene a chiederci come arrivare al rifugio VittorioVeneto: proprio a noi, che a stento sappiamo dove ci troviamo.Più avanti ci accodiamo ad un gruppo di escursionisti, i qualiconoscono i luoghi e ci consigliano di raggiungere La Crosetta,una località in cui ci sono alberghi. Ora il cammino non èfaticoso, perché andiamo su un falsopiano, sorpassati anche daciclisti. Alla Crosetta non si trova albergo. C’è l’insegna, ma nonci sono i letti e così siamo in brache di tela, come si dice. Innostro aiuto viene quel tale che ci aveva assicurato che avremmotrovato albergo, il quale ci accompagna fino al rifugioSant’Osvaldo, nel quale troviamo una stanzetta. Non finisce qui:Imelda, nell’intento di riparare il mio zaino, si taglia un dito e ilsangue ne esce a fiotti. Per fortuna interviene una cameriera amedicare il dito, perché io, di fronte al sangue, perdo la miadignità. Per oggi basta così.

Sabato 18 Agosto. Il dito di Imelda tiene e allora partiamo allavolta di Pian Osteria, seguendo la strada principale del Cansiglio.Non ci sono auto, al mattino presto, ma solo ciclisti emotociclisti. A Campon prendiamo una laterale a destra che entranel bosco e ci fa assaporare la frescura. Attraversiamo radurepiene di turisti, saliti quassù per sfuggire al caldo della pianura, e

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arriviamo al punto da cui parte il sentiero n. 922, quello checercavamo. Il sentiero corre ombreggiato nel bosco ed è undivertimento andare nel silenzio; per due ore, almeno, nonincontriamo nessuno, finché usciamo in una radura e sentiamodelle voci. Siamo giunti alla casera Palantina, quota 1522 metri,presso la quale sono radunati molti escursionisti, arrivati per altrevie dalla zona dell’Alpago. C’è anche un falegname che lavoraalacremente a rimettere in sesto i serramenti della casera. Non cisono animali al pascolo ed è chiaro che il locale viene adattato aposto di ristoro per viandanti. Ora dobbiamo compiere il trattopiù arduo per salire al rifugio Semenza, che sta a quota 2020,presso la forcella Laste, poco sotto a Monte Cavallo. Il sole cicuoce e le gambe tremano. Spesso ci fermiamo a riprendere fiato,almeno ogni cento metri di quota. Incontriamo gente che scende:sembra facile, specie per i giovani, saltare da una pietra all’altra.Finalmente, è il caso di ripeterlo, siamo al rifugio e ci vieneassegnato un posto letto nella camerata. C’è in giro moltaconfusione e ci viene chiesto di lasciare le brandine, giàimpegnate, e di restare in attesa. Più tardi avremo il nostro postonel corridoio, ma intanto ci ristoriamo con una bibita e una birra.Niente acqua per lavarsi, perché non piove da troppo tempo e lariserva è quasi esaurita. L’acqua da bere e i viveri arrivano conl’elicottero e quindi il nostro sudore dobbiamo tenercelo. Salgofino al passo Laste per osservare il panorama: splendidopanorama di cime vicine e lontane: qui vicino il Cimon delCavallo, quota 2252, e lontano, sulla sinistra, una catena di cimeche culminano nel Col Nudo, quota 2471 metri. I nostri letti sononel corridoio, dove passano tutti, ma non ci lamentiamo; sarà lastanchezza a farci dormire profondo.

Domenica 19 Agosto. Fa ancora buio quando scendo al pianodi sotto e trovo gente dappertutto, ognuno avviluppato nelproprio sacco a pelo. Molti si sono accomodati nel pavimento;altri sono usciti nella notte per salire al monte Cavallo adaspettare l’alba e veder sorgere il sole. Regna ancora moltaconfusione quando ci accomiatiamo, ma siamo anche elogiati per

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la nostra età e il nostro coraggio. Elogi non meritati, perché l’etànon è un traguardo e il coraggio “nessuno se lo può dare”.Intanto ci avviamo verso il passo Laste e prendiamo il sentieron. 925, che rimane in quota per un buon tratto e scende poi aprecipizio per la Val Grande. I muscoli delle gambe non tengonopiù; ogni cinque minuti bisogna riposare; la discesa è peggiodella salita. Giunti alla Casera Pian delle More, decidiamo disalire a Piancavallo e di fermarci in questa bella località turistica.

Lunedì 20 Agosto. Un giorni di sosta in questo luogo, a 1240metri di quota, non ce lo toglie nessuno, anche perché le nostregambe sono ancora indolenzite da due giorni di cammino susentieri di alta montagna. La temperatura è gradevole e le notizieche giungono dalla pianura sono sempre le stesse: caldo torrido.Le persone, incuriosite nel saperci arrivati a piedi da casa,vogliono sapere come andrà a finire la nostra avventura e cidanno l’indirizzo per mandare, almeno, una cartolina.

Martedì 21 Agosto ci avviamo in discesa, verso Barcis,seguendo per un tratto la strada asfaltata e deviando per unastrada sterrata che conduce a delle malghe. Siamo d’accordo,meglio precisare, tutti e due di seguire questa via, che più avantisi riduce a sentiero nel bosco. Incontriamo perfino una personache si rivolge a noi per avere ragguagli sul sentiero. Intantosentiamo le motoseghe dei boscaioli e troviamo il sentierosbarrato dalle piante abbattute. Bisogna deviare tra la sterpagliaed è qui che succede un bel guaio: Imelda mette il piede in unabuca e si prende una storta, che la costringe a zoppicare. Arrivatifaticosamente a Barcis, in riva al lago, troviamo un posticino perriposare e medicare il piede di Imelda, già gonfio e arrossato.Due ore di sosta ci fanno bene e ci rimane tutto il tempo perraggiungere Andreis, dove abbiamo prenotato. Il gestore dellalocanda, chissà perché, ci fa attendere fino alle diciotto e trentaprima di farci entrare in camera, forse per rifilarci qualche bibitamentre aspettiamo.

Mercoledì 22 Agosto Imelda trova da ridire per il conto salatoe io per la misera colazione: solo un caffè e una piccola brioche.

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Sopporto per un po’ le lamentele di mia moglie e poi la fermo.“Accetto i tuoi lamenti per il callo sotto il piede, la ferita al dito ela storta al piede, ma lascia perdere il conto rifilatoci dalMilanese”. Perché devo spiegare che il gestore della locanda è unmilanese stabilitosi qui, avendo trovato una bella moglie e un bellocale avviato. Intanto si sale verso forcella di Pala Balzana, chesi trova ad una quota di 840 metri, dai 400 cui siamo partiti. Siscende quindi verso Poffabro per una strada tutta a tornanti senzamai incontrare nessuno e tanto meno automezzi. Ecco, intanto, ilcartello che indica Poffabro “Il più bel borgo del Friuli”. Saràanche un bel borgo, ma non troviamo una camera per la notte:l’albergo è tutto occupato da una compagnia di calciatori inpreparazione atletica e ossigenazione. Troviamo da accasarci trechilometri più avanti, a Frisanco, piccolo paesino nei pressi diManiago.

Giovedì 23 Agosto. Siamo svegliati dal temporale, con ilvento che sbatacchia i tavoli e le tende. Segue una bella pioggiarinfrescante e tutto promette bene. La colazione è buona, anchese la signora che ci serve ha il muso, forse per cose sue. Lasorpresa viene dal conto: solo settanta euro per tutto: cena,camera e colazione. Imelda, tutta contenta, impreca ancora per ilmilanese che ci aveva pelati. Scendiamo da Frisanco ed al primocrocevia troviamo una farmacia per un medicamento al piede. Ilfarmacista, visto il guaio, dice: “In questi casi bisogna mettere ilpiede nel ghiaccio e tenerlo per mezz’ora. Poi occorre riposoassoluto”. Figuriamoci! Noi oggi dobbiamo arrivare a Tramonti.Il trattamento a base di schiuma attenua il dolore, tanto cheImelda cammina quasi normalmente. Trova anche modo diraccogliere fichi da una pianta e continua a ripetere che nonvuole essermi di intralcio nei miei progetti di arrivare a Lubiana.Neanche Anita seppe affrontare tanto sacrificio. Intantoarriviamo a Navarons, paesino con chiesa e campanile ma privodi negozio. Solo vecchi vanno per le strade, accompagnati dalleloro badanti. Scendiamo ora verso il fiume Meduna, emissariodel lago Tramonti; lo attraversiamo e risaliamo al lago,

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lunghissimo e dalle sponde ghiaiose. Piove poco e le acque sisono abbassate. Verso l’una troviamo un bel posto permangiucchiare, riposare e fare scorta di acqua nella fontana difronte. Meglio chiamare a Tramonti di Sopra per sentire se c’èposto, ma ci rispondono che l’albergo è chiuso da sette anni.Conviene fermarci a Tramonti di Sotto, dove c’è una locanda conpizzeria. La commessa indaffarata quasi non ha tempo dadedicarci e ci consegna la chiave della camera, dicendo diarrangiarci. Bel posto; tanta gente allegra e, la sera, pizza avolontà.

Venerdì 24 Agosto affrontiamo il percorso per Tramonti diSopra lungo una strada secondaria, quando un tale ci vuole darelezioni di camminata. Ci mostra il passo, il bastone da tenere altosopra la testa, muovendo le braccia in su e in giù per esercitaretutti i muscoli del corpo. Poi si avvia davanti a noi, lasciandociindietro umiliati. Lui sì che è un camminatore! A Tramonti diSopra ci riforniamo di viveri, perché dovremo affrontare unalunga salita. Siamo a quota 400 metri, c’è grande via-vai dituristi e ci stupisce che manchi l’albergo. Intanto si sale versopasso Rest, a m. 1070, seguendo i tornanti di una lunga strada,ombreggiata per nostra fortuna. Poco prima del passo, troviamoun posticino meraviglioso sul greto di un ruscello. Quando si èstanchi, niente è più bello di un posto all’ombra accanto ad unruscello. Rinvigoriti, riprendiamo il cammino e superiamo ilpasso, per scendere dall’altra parte, nella valle di Ampezzo,solcata dal fiume Tagliamento. La discesa è lunga, tutta atornanti, finché si arriva in vista del fiume, il cui greto èlarghissimo e sassoso, ma quasi privo di acqua. Notiamol’insegna di un agriturismo e quindi, essendo ormai stanchi,risaliamo per circa un chilometro una strada sterrata e troviamoalloggio in una bella malga in una radura con panorama sulTagliamento. Ci accoglie un uomo discreto e taciturno. Luogoideale per ricuperare le nostre energie in via di esaurimento.

Sabato 25 Agosto. L’uomo taciturno, dopo colazione, ci offreun passaggio con il suo macchinone fino al paese in valle. In

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altra occasione avrei rifiutato, ma devo pensare anche a Imeldache soffre per le sue disgrazie: i calli, la storta al piede e l’allucevalgo che, operato, non smette di dare noia. Inoltre c’è unascarpa scucita che lascia entrare i sassolini sulla pelle del piede;non ne posso più, meglio tornare a casa. “Neanche a farloapposta” mi dice lei “Perché interrompere un viaggio cosìinteressante?”. Così siamo a Socchievo, grazioso paesesovrastato da una Pieve dedicata a San Francesco. Sul sagrato c’èuna coppietta con tanta voglia di vita, occupata in effusioniamorose; Francesco d’Assisi avrebbe approvato. Giunti aEnemonzo, evitiamo il centro del paese e il traffico, passando peri giardini e la periferia. Troviamo anche un luogo tranquillo perfare pic-nic e riposare, stesi sull’erba di un prato e ci rimaniamoper due ore, le più calde. Passato Invillino, troviamo il terrapienodi una ferrovia dismessa, che ci consente di camminare fuori daltraffico. Quindi, lungo un sentiero che fiancheggia il Taglia-mento, arriviamo alla periferia di Tolmezzo. Siamo accaldati eassetati perché l’acqua da bere non basta mai. Finalmente,superato il ponte sul torrente But, entriamo in città e ci buttiamonel primo chiosco bibite che vediamo per dissetarci. Non ci restache trovare alloggio per depositare gli zaini e uscire per le strettevie della caratteristica cittadina.

Domenica 26 Agosto troviamo una bella colazione nella salapanoramica e ci avviamo verso Illegio. Non è molto lontano,Illegio, ma vogliamo visitare una mostra di pittura di cui si parlain giro e, magari, prendere una giornata più leggera. Il tempo ècambiato e piove; con il fresco la salita, sulle pendici del monteAmaro, è più gradevole. Prendiamo il biglietto per la visita allamostra e, intanto, cerchiamo un posto per la notte. L’albergo èpieno di gente e i privati non affittano camere. La mostra,organizzata dalla Regione Friuli e da altri enti proprio in questominuscolo paesino, è molto ben fornita, tanto che passiamo, unodopo l’altro, sotto la guida di quattro esperti, i quali espongono illoro sapere su quattro epoche, dal rinascimento ai nostri giorni.Finita la visita, non ci resta che tornare a Tolmezzo e cercare

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alloggio nel medesimo albergo del giorno prima. Lunedì 27 Agosto. Visto che Illegio non ci ha accolto, ci

avviamo per Amaro, il paese da cui prende il nome CimaAmarana. Il monte, visto da lontano, sembra un piccolo Cervino,regolare e conico, tanto che lo avevo scambiato per il Montasio.Quest’altro monte ci appare oggi in lontananza, ma per arrivarcici vorrà un altro giorno. Imelda soffre di male ai piedi in modotragico e, quel che è peggio, dice che soffre per me; per farmicontento. Troviamo un sentiero semi-abbandonato, o stradadismessa, che ci consente di evitare il traffico. Siamoaccompagnati dal fruscio del traffico che scorre sull’autostradadel Tarvisio, poco lontano, e dalle acque del torrente Fella, chescorre sotto di noi. Sull’ora di mezzodì, meglio, verso l’una,troviamo un posticino sulle pietre di un torrente immissario delFella e ci fermiamo per uno spuntino. Arrivano tre ragazzine,biondissime e magrissime, seguite dai loro genitori, e siimmergono nelle acque del torrente. Una delle tre ha in mano unorsacchiotto e una bambola; non sta mai ferma, chiama le sorelle,mangia e agita le gambe sull’acqua. I genitori non se ne curano ele lasciano fare, senza temere alcunché. Lasciato il greto e lapiacevole sosta, in poco tempo siamo a Moggio Udinese erisaliamo il paese fino al nostro albergo. Avevo preso nota diquest’albergo in internet, ma qui ce ne sono altri: siamo già inzona turistica di montagna, anche se l’altimetro segna quota 330metri. La sera, a cena, notiamo una compagnia di africani e civiene la curiosità di sapere perché siano qui. Ci vien detto chesono profughi raccolti in mare al largo della Libia e posteggiatiin questo albergo in attesa di una sistemazione, che non arrivamai. Imelda chiede e ottiene del sale marino per un bagno aipiedi doloranti e ne ricava un piccolo sollievo. Domani ci sarà dasalire e bisogna tenersi in forma.

Martedì 28 Agosto prendiamo un mezzo per raggiungereChiusaforte e partire da lì verso il Montasio. Superato il ponte sulfiume Fella, ci inoltriamo nella valle Raccolana, ricca di acque;almeno così dovrebbe essere, visto le numerose dighe e

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centraline idroelettriche. Invece gli invasi sono veramente scarsied i greti troppo estesi. I corsi d’acqua che scendono dalMontasio e dal Canin si stanno prosciugando e, forse, siamo gliultimi testimoni di un paesaggio che sta scomparendo.Attraversiamo piccole borgate e un paesino, Saletto, sulla cuipiazza sostiamo per un break; e dai, queste paroline straniere siintrufolano di soppiatto e vengono a storpiare il mio scarsoitaliano. Si segue ora una condotta di acque destinate adalimentare le solite centraline, finché ci appare un grosso cartellocon la scritta: “Sette tornanti” e la strada s’inerpica in alto sopradi noi. Nel salire ci appaiono alte cascatelle quasi occultate daglialberi, che ci rincuorano nella fatica della salita. Un automo-bilista si ferma, abbassando il vetro del finestrino, per chiedere:“Ci dicono che qui ci sono belle cascate; voi le avete viste?” “Sescende dall’auto le vede anche lei” rispondo io. Eccoci intantoalla Sella Nevea, stazione turistica estiva e invernale, dotata diimpianti di risalita per sciatori e camminatori di scarse risorse,come stiamo diventando noi. Intanto troviamo alloggio in unbell’albergo e, mentre Imelda sta a medicarsi gli acciacchi, escoa visitare il centro. Faccio alcune foto dei monti Montasio, aNord e del Canino, a Sud, rinunciando a salirne le cime. Ciaccontenteremo dei passi montani e dei colli panoramici.

Mercoledì 29 Agosto. Abbiamo visto che, poco sottol’albergo, parte la funivia che arriva a quota 1860 metri, sotto ilmonte Canino. Se vogliamo raggiungere Plezzo, Bovec insloveno, dobbiamo salire con la funivia, altrimenti non ce lafaremo. Alla biglietteria prendiamo la sola andata con lo scontoper gli ultrasettantenni. “Avete un bel coraggio!” ci fa l’addettaal botteghino. All’arrivo in quota siamo subito al rifugio Gilbertie ci dirigiamo per la sella che segna il confine con la Slovenia.Ancora due o trecento metri tra pietre e sentieri e troviamo unalarga pista appositamente livellata per le discese degli sciatori.Faticosamente arriviamo alla Sella Prevala, m. 2067 di quota, eosserviamo la valle opposta: abbiamo raggiunto uno dei primiobiettivi che ci eravamo prefissi. Conoscevo il monte Canino da

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una famosa canzone degli alpini, ma che delusione ora! Impiantidi risalita sia di qua che di là, livellamenti e sradicamenti: tuttodissacrato. Il ghiacciaio ridotto ad un piccolo nevaio. A consolarci viene la discesa nella valle Krnica, un bel sentierorimasto integro. Siamo soli, da quando ci siamo allontanati dalrifugio, ma ecco che incontriamo due giovani, un ragazzo e lasua bella, salire come caprioli, saltando da una pietra all’altra.“Vedi come sono agili, senza bisogno di bastoni e racchette”commento con mia moglie. Invece noi scendiamo lentamente,appoggiando il bastone per non scivolare, fermandoci spesso aosservare intorno. Di qua un gregge di pecore e di là la cima delCanin; in basso la valle boscosa e, in lontananza, le cime delTriglav. Ci avvolge un silenzio pauroso, ma ci sentiamo felici.Passano almeno cinque ore prima di raggiungere le prime caseabitate e rifornirci di acqua. Siamo in zone carsiche; l’acqua èpreziosa e buonissima; non ci sono bibite che eguaglino l’acquaquando si è assetati. Entrati in paese, quota m. 480, troviamo dasistemarci subito in un centro di accoglienza per turisti. Ci vieneassegnata una camera in un villino un po’ discosto e per unprezzo non troppo economico. Non volevo trascinare mia mogliein giro per la cittadina in cerca di qualche altro posto, visto ilpiede dolorante e la stanchezza della lunga discesa. Ora devosobbarcarmi il compito di scendere in piazza e cercare un“market” per fare la spesa. Abbiamo la cucina e questa seraceneremo in camera. Bovec è una graziosa cittadina, pulita eordinata, tanto che è un piacere girare per le vie alla ricerca di unnegozio di alimentari. Le difficoltà cominciano quando devo trovare gli oggetti elencatinel biglietto preparatomi da Imelda: pasta, tonno all’olio,formaggio, verdure, eccetera e una bottiglia di vino, che berrò inminima parte. Non sono abituato a frequentare i negozi e alloradevo cercare e cercare. Alla fine sono alla cassa dove metto indifficoltà anche la cassiera per certa frutta e verdura non pesata.Tutto è bene quel che finisce bene, perché in Slovenia ci siamoarrivati.

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Giovedì 30 Agosto torniamo in centro a Bovec e sostiamo inun bar. In giro ci sono giovani con i loro strumenti musicalidiretti alla scuola. Troviamo della frutta da un fruttivendolo, maanche in un frutteto vicino, tanto da camminare con qualchechilo in più sul groppone. Costeggiamo il fiume Isonzo, che quisi chiama Soca, prendendo il nome da un paese che incontriamolungo il cammino. Oggi la strada non è ripida e si camminaagevolmente. Così abbiamo il tempo di parlare dell’avvenire; inparticolare di domani, quando dovremo salire sul monte Triglav.“Non ce la faremo mai” dice Imelda “a salire per duemila metridi quota”. “Ti lascerò al primo rifugio che troviamo e poi iosalirò da solo”, rispondo io. Viste le nostre condizioni, sono pococonvinto di poter fare quello che ho in mente. Intanto arriviamonei pressi di Trenta, un paese alle falde del Triglav, e troviamoalloggio presso un’affittacamere. Lì vicino c’è anche un risto-rante, dove troviamo una bella cena e anche il tempo per litigaresul progetto che mi sta a cuore: la salita al Triglav.

Venerdì 31 Agosto. A tagliare ogni discussione arriva iltempo o, meglio, il maltempo. Già di notte comincia a piovere eal mattino le cime dei monti non si vedono più: sparite sotto inuvoloni. Partiamo verso il centro di Trenta dove troviamo lafermata dell’autobus. Inutile salire sulle cime quando piove comeoggi. Alle ore dieci prendiamo il pulmino per Kranjska Gora e ciarrampichiamo, questa volta seduti, per i tornanti del passoVrsic. Nel primo pomeriggio siamo nel famoso centro sciisticosotto una pioggia torrenziale e diamo l’addio a ogni altraesperienza di cammino.

Avevo promesso a mia moglie una visita alla città di Lubiana,capitale della Slovenia, e alle Grotte di Postumia. Promessamantenuta nei giorni uno, due e tre Settembre. Il giorno quattrosiamo a Trieste e, in treno, a casa nostra.

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EPILOGO

Come ogni fatica che si rispetti, così questa serie di diaririchiede una conclusione.

Anche se nessun record è stato battuto e nessun guinness èstato superato, devo ammettere che mai mi ero posto similiobiettivi; ho cercato di fare soltanto quello che le mie forzepermettevano, senza mai usare surrogati energetici.

E ne ho ricavato dei grossi vantaggi.Per quanto vento, pioggia, caldo e freddo abbiano sferzato il

mio corpo, mai nessun malanno è venuto a tormentarmi. Meglio,la mia salute ne è uscita rafforzata.

Anche le mie… anche malandate, scusate il pasticcio lingui-stico, ne hanno tratto beneficio perché, almeno fino ad oggi,riesco a camminare con le mie ossa intatte, nonostante alcunerovinose cadute.

E poi c’è l’ambiente.Io e mia moglie ci siamo impegnati a non lasciare traccia del

nostro passaggio: non buttare niente per strada, né lattine vuote,né bottiglie di vetro o di plastica. Neanche fazzoletti di carta eneppure una cartina di caramella. Sono tutte cose che pesanoquasi nulla e che si possono portare fino al primo centro diraccolta.

Viaggiando a piedi, poi, non si immette ci-o-duenell’atmosfera, se non quella che esce dai polmoni. Molto, moltomeno di quella che emette un automezzo o un aereo.

Il pianeta terra ringrazia tutti quelli che vorranno girare ilmondo a piedi.

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INDICE

Introduzione………………………….……………………... 5

Ritorno all’Umanesimo…………………………………..... 11

Giubileo 2000……………………………………………… 13

Vienna 2001…………………………………………........... 41

Il sentiero degli eroi 2002………………………………..… 65

Transcarnica 2002…….……………………………….…… 73

El Camino de Santiago de Compostela 2003………….…… 85

Strasburgo per sentiero E5 2004………………………….. 123

Gran Sasso d’Italia 2005………………………………….. 143

Marienplatz 2006………………………………………….. 159

Da Bologna a Sansepolcro e Assisi 2007…………………. 181

Da Assisi a Santiago de Compostela 2008-2009………….. 197

Prima parte: da Assisi a Genova…………………... 199

Seconda parte: da Genova a Ventimiglia………….. 211

Terza parte: da Ventimiglia a Montpellier.………... 221

Quarta parte: da Montpellier a Pamplona…………. 231

Quinta parte: da Pamplona a Santiago…………..… 251

Croazia 2010………………………………………………. 273

Praga 2011………………………………………………… 297

Slovenia 2012……………………………………………... 333

Epilogo…………………………………………………….. 349

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