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Anno accademico 2004-5
Psicologia sociale, promozione della salute e dello sviluppo personale e
sociale nell'arco di vita
Dispensa per gli studenti del corso di Psicologia sociale 2 B
SECONDA PARTE
La presente dispensa è disponibile in rete alla
pagina:
http://www.unibg.it/struttura/struttura.asp?corso=25019&nomec
orso=Psicologia%20sociale%202%20B
LA SECONDA PARTE DELLA DISPENSA RAPPRSENTA UN
APPROFONDIMENTO ED E’ FACOLTATIVA AI FINI
DELL’ESAME. CONTIENE TRE RICERCHE E RIFLESSIONI
PSICOSOCIALI NELL’AREA DELLO SVILUPPO. POTREBBE
ESSERE UTILE (MA NON OBBLIGATORIO) LEGGERE E
DISCUTERE ALMENO UNO DEI CONTRIBUTI
INDICE
1. IL PIANTO DI NARCISO: LA COSTRUZIONE
SOCIALE DELLA DIAGNOSI DI DEPRESSIONE
INFANTILE di Deianira Tironi pag. 3
2. LA COSTELLAZIONE MATERNA E LA
RAPPRESENTAZIONE SOCIALE DELLE
COMPETENZE DEL BAMBINO di Maria Luisa
Invernizzi pag. 25
3. I LUOGHI DELLA NASCITA, Igea incontra neonati e
genitori. di Paride Braibanti, Eleonora Baroni, Maria
Luisa Invernizzi, Teresa Pandolfo pag. 44
Bibliografia pag. 101
IL PIANTO DI NARCISO: LA COSTRUZIONE SOCIALE
DELLA DIAGNOSI DI DEPRESSIONE INFANTILE
di Deianira Tironi
Oggi ci troviamo di fronte a vari sistemi d’oggettivazione propri
dell’attuale paradigma medico occidentale, intesi come processi volti a
trasformare dei concetti astratti in immagini, dandogli così consistenza
concreta e oggettiva. Il fare diagnosi ad esempio non è altro che un
modo per dare visibilità a ciò che è oscuro, anche quando si tratta di
malattie mentali, disturbi difficili da definire in quanto non collocabili in
una fisicità malata. Per questo secondo la visione costruzionista la
malattia mentale deve essere considerata in base al contesto sociale in
cui determinate condotte assumono carattere patologico, deviante
rispetto i criteri culturali attuali (Gatti, 2003). Capararo (2003) sostiene
che la ricerca scientifica crede in particolare di oggettivare la
depressione attraverso la prova che determinati farmaci inibitori della
serotonina agiscono sul cervello alleviando i sintomi depressivi. Da qui
il presupposto che la depressione è una malattia mentale e che i
soggetti depressi siano coloro che assumono tali psicofarmaci. In realtà
secondo l’autore questa costruzione diagnostica ritenuta
scientificamente provata, deriva essenzialmente dall’idea che ha la
nostra cultura circa la felicità e l’infelicità sana. Quindi la diagnosi non
dipende tanto dalle nuove scoperte, ma dalla costruzione sociale che
viene fatta di determinati aspetti della vita come sintomatici e perciò
indicatori di malattia mentale (Capararo, 2003).
Gli attuali processi d’oggettivazione
Scopo della presente ricerca è proprio quello di indagare gli attuali
processi di oggettivazione della depressione infantile, volti a fornire
un’immagine patologica della tristezza e del bambino, attivando così
inquietudine e domanda d’intervento specialistico nei caregivers, di
fronte alle differenze individuali e alla difficoltà d’interpretazione delle
normali fluttuazioni nello sviluppo emozionale del piccolo. L’obiettivo è
quello di studiare come si costruiscono le rappresentazioni a partire
dalle conoscenze rese disponibili dalla letteratura medico-psicologica e
dai mezzi di comunicazione di massa, per cogliere al loro interno i
processi di semplificazione, oggettivazione e ancoraggio, nonché i diversi
criteri di diffusione utilizzati (diffusione, propagazione e ancoraggio),
secondo il modello proposto da Moscovici (1961). Le rappresentazioni
sociali infatti sono dei modi convenzionali di ragionare sui fatti
quotidiani, degli schemi interpretativi che permettono la costruzione di
un’area consensuale costituita dalle opinioni accettate senza
dimostrazione dalle persone. Ponendosi a metà tra sociale e psicologico
assumono le caratteristiche di una conoscenza pratica, atta alla
costruzione sociale della realtà. Esse vengono elaborate in un gruppo,
per il quale l’oggetto della rappresentazione è rilevante, sotto forma di
una teoria del senso comune (Moscovici, 1961). Tali conoscenze derivano da una parte dal sapere prodotto
spontaneamente da un gruppo sociale attraverso l’esperienza e dall’altra
dalla rielaborazione delle teorie scientifiche (Moscovici e Hewstone,
1984). L’entrata della scienza nel senso comune determina un duplice
processo, volto a rendere familiare lo strano e percettibile l’invisibile:
• la socializzazione della scienza,
• la razionalizzazione di tutti gli aspetti sociali.
Tutto ciò può avvenire attraverso (Moscovici e Hewstone, 1984):
• la personificazione delle teorie,
• la sostituzione o l’aggiunta di immagini ai concetti (figurazione);
• l’ontologizzazione.
L’entrata della scienza nella nostra quotidianità avviene attraverso
l’intermediazione dei mass-media, che riprendendo le rappresentazioni
fornite dalla scienza le modificano.
Questo studio ha richiesto così l’utilizzo di un metodo di ricerca
qualitativo, quale quello della Grounded Theory, secondo la procedura
introdotta originariamente da Glaser e Strauss (1967) e rielaborata
successivamente da Strauss e Corbin (1990), Pidgeon e Henwood (1997)
e Charmaz (1995) (Cicognani, 2002). Si tratta di un tipo di approccio
volto a generare una teoria a partire dai dati anziché da ipotesi
preesistenti, in modo da creare un processo circolare fra raccolta e
analisi dei dati, formulazione di ipotesi e verifica attraverso essi. In tale
processo di interpretazione possono essere utilizzate varie procedure per
gestire il materiale testuale: la codifica aperta, assiale e selettiva.
Analisi quantitativa dei lavori di ricerca sulla depressione infantile
nella letteratura medico-psicologica
Innanzitutto si è cercato di analizzare l’evoluzione quantitativa dei lavori
di ricerca sulla depressione infantile per coglierne l’orientamento
attuale. Attraverso il sito degli Ospedali Riuniti di Bergamo sono stati
trovati 1195 articoli di Pubmed che rispondevano al criterio mesh
“depression” e “child”. Dall’analisi della loro distribuzione temporale dal
1965 a oggi si può cogliere come il numero di articoli che tratta
l’argomento non abbia subito forti oscillazioni fino al 1990, mentre negli
anni seguenti si è avuta una forte crescita (Figura n°1).
Figura n° 1 Mesh (depression AND child)
0
10
20
30
40
50
60
70
80
90
100
1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005
anni
num
ero
artic
oli
Serie1
Poli. (Serie1)
Dependent Mth Rsq d.f. F Sigf b0 b1 b2 b3 ARTICOLI CUB ,772 35 39,40 ,000 9,7927 3,3675 -,2526 ,0057 Successivamente è stata condotta un’analisi di frequenza delle parole
chiave contenute nei vari articoli tramite il software Text Smarti di
SPSS, escludendo i termini “depression”, “child” e “psychology”, in
quanto presenti in tutti gli articoli
(Figura n° 2).
La percentuale di ogni cluster sul totale degli articoli di ogni anno è
stata poi sottoposta all’analisi di regressione, per evidenziarne
l’andamento in funzione del tempo (Tab. n°1).
Analisi delle regressioni in funzione del tempo delle principali parole chiave integrate nell’analisi degli articoli Independent: ANNO Tab. n°1 Dependent Mth Rsq d.f. F Sigf b0 b1 DIAGNOSI LIN ,133 38 5,84 ,021 -797,99 ,4313 EPIDEMIO LIN ,037 38 1,45 ,236 -264,98 ,1738 THERAPY LIN ,402 38 25,51 ,000 1988,67 -,9807 PERSONAL LIN ,290 38 15,54 ,000 -1568,7 ,8017 EMOTION LIN ,056 38 2,24 ,143 -228,12 ,1181 PHYSIOLO LIN ,190 38 8,92 ,005 876,763 -,4349 PSYCHOAN LIN ,176 38 8,09 ,007 448,879 -,2233 ABUSE LIN ,453 38 31,46 ,000 -658,95 ,3342 INTERACT LIN ,213 38 10,26 ,003 -899,60 ,4682 LIFEVENT LIN ,394 38 24,75 ,000 -1108,6 ,5684 METHOD LIN ,858 38 230,46 ,000 -3806,1 1,9353 CONCOM LIN ,101 38 4,29 ,045 813,900 -,3918 CHILDPSY LIN ,195 38 9,20 ,004 -754,58 ,3856 DEVELDIS LIN ,001 38 ,04 ,846 -15,062 ,0086 SOCIAL LIN ,227 38 11,17 ,002 -673,04 ,3449 I valori in grassetto si riferiscono ai cluster in crescita percentuale dal
1965 al 2004, quelli sottolineati sono i cluster in diminuzione nello
stesso periodo, mentre emotion, epidemiology e developmental
disabilities non hanno una forte significatività (Tab. 1).
Da un’analisi più approfondita degli articoli scientifici sembra delinearsi
uno scenario multiforme, nel quale emergono vari modelli in dialogo tra
loro, anche se apparentemente in contraddizione l’uno con l’altro.
Sembra essere superata la dicotomia tra interventi farmacologici e
psicanalitici, con il predominio del primo e il conseguente studio degli
aspetti fisiologici e biologici del disturbo. Appare invece un ampio
ventaglio di prospettive da cui comprendere la depressione e che
arricchiscono il quadro diagnostico, quali l’epidemiologia, ma anche la
psicologia e la personalità del bambino, i possibili maltrattamenti a cui
può essere sottoposto o le carenziali interazioni con i genitori e lo scarso
supporto sociale, particolari avvenimenti portatori di cambiamento.
L’approccio scientifico cerca quindi di spiegare il fenomeno, ma allo
stesso tempo lo problematizza, non fornendo una risposta univoca e
certa, ma lasciando spazio ad altri percorsi di ricerca, che possono
falsificare quanto fatto finora.
Si è cercato poi di cogliere come nello specifico questi andamenti si
concretizzino all’interno degli attuali processi di oggettivazione.
L’obiettivo non era tanto quello di discutere la legittimità dei criteri di
classificazione diagnostica della depressione infantile, questione che va
chiaramente oltre l’orizzonte di questo lavoro, ma di capire se i processi
di oggettivazione tramite la diagnosi, le spiegazioni eziopatogenetiche,
l’estensione dei modelli di trattamento clinico e farmacologico anche in
fase precoce non attivino inquietudine e domanda d’intervento
specialistico negli stessi caregivers, le famiglie e gli insegnanti, di fronte
alle differenze individuali e alle difficoltà d’interpretazione delle normali
fluttuazioni nello sviluppo emozionale del bambino.
1. Il primo passo per oggettivare la tristezza: definire i sintomi
I vari studi condotti sull’argomento hanno cercato di evidenziare quali
atteggiamenti o aspetti, non rispondenti alla normale immagine di
bambino sano propria del paradigma medico, potessero essere
considerati come indiziari di un disturbo, creando così una
rappresentazione del fanciullo inteso non più come triste, ma come
depresso (Castellazzi, 1993; De Negri,1993). Stark (1990) in particolare
ha rilevato la presenza di 4 gruppi sintomatologici principali:
Sintomi
emozionali:
Sintomi
cognitivi:
Sintomi
motivazionali:
Sintomi fisici:
Umore disforico; Umore collerico; Anedonia; Tendenza al pianto; Perdita di allegria; Non sentirsi amati; Autocommiserazione.
Autovalutazioni negative; Senso di colpa Disperazione Difficoltà di concentrazione Indecisione; Ideazione morbosa; Fobie.
Chiusura sociale; Ideazione e comportamento suicidari; Abbassamento rendimento scolastico.
Affaticamento; Perdita d’appetito e del sonno; Dolori e malesseri; Rallentamento o agitazione psicomotoria.
Designare qualcosa come sintomo significa attribuire ad un semplice
comportamento il valore di segnalare che quel tratto, quel segno, quel
comportamento non si inserisce nella rappresentazione di bambino
sano propria di chi lo rileva; ciò significa quindi attribuirgli il valore di
segnale di malessere e di possibile componente di un quadro patologico
(Fava-Vizziello, 2003).
2. La classificazione imposta dalle categorie diagnostiche
Una volta che il paradigma medico attribuisce un senso a quelli che
vengono identificati come sintomi, si definiscono i criteri diagnostici
appropriati che permettono di stabilire quanti e quali di questi devono
essere presenti per poter parlare di depressione infantile (Toolan e
Sperling, 1962; Glaser, 1967; Weinberg, 1973; McConville et al., 1973;
Kreisler, 1977; Misès, 1990) .
Attualmente il sistema diagnostico maggiormente utilizzato è il DSM IV,
Manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali, ideato e
realizzato dall’American Psychiatric Association. Questo manuale
permette il confronto tra diverse esperienze e ricerche attraverso l’uso
di un linguaggio comune e creando nuove categorie diagnostiche,
consente la formazione di un’univoca rappresentazione di bambino
triste alla quale tutti i medici possono far riferimento.
Per quanto riguarda la diagnosi di Disturbi Depressivi (Asse I), presente
nell’attuale DSM IV, si hanno le seguenti tipologie (Rapoport e Ismond,
2000):
- Disturbo Depressivo Maggiore:
- Episodio singolo (un episodio depressivo maggiore);
- Ricorrente (due o più episodi);
- Disturbo Distimico
- specificare se: Ad Esordio Precoce/Tardivo (prima dei 21 anni/a
21 anni o più tardi);
- specificare se: Con Manifestazioni Atipiche;
- Disturbo Depressivo dell’Umore non altrimenti specificato.
Il problema principale di tali tipi di criteri diagnostici, è che:
- sono disancorati da una chiara definizione eziologica;
- prescindono dalla considerazione del soggetto;
- non considerano le regressioni e le trasformazioni del comportamento
dovuti alla crescita, o l’evoluzione del disturbo, ma riprendono le
categorie proprie dell’adulto con qualche variante. Può essere perciò
considerato un modo temporaneo per fissare ciò che in realtà è in
continua evoluzione. (Fabrizi, 2001).
3. Il ruolo degli strumenti di valutazione nella costruzione della
rappresentazione di depressione infantile
Un’altra serie di strumenti (scale di autovalutazione, questionari,
interviste guidate e liste sintomatologiche) è volta a indagare il
fenomeno a partire dai criteri diagnostici disponibili, quali ad esempio
quelli forniti dal DSM IV. Questi strumenti non hanno come scopo
quello di arrivare a una diagnosi, bensì quello di individuare il livello di
sofferenza depressiva, attraverso la definizione del livello di gravità del
disturbo e dell’intensità dei sintomi (Scafidi-Fonti, 2001). Alcune delle
scale maggiormente utilizzate per lo studio della depressione nel
bambino sono (Camuffo, 1985; Rapoport e Ismond, 2000):
12
Scale di autovalutazione:
-Children Depression Inventory (CDI);
-Children’s Depression Scale (CDS);
-Test dell’ansia e depressione
nell’infanzia e adolescenza (TAD).
Scale di valutazione mediante intervista:
-Children’s Depression Rating Scale (CDRS);
-Interview Schedule for Children (ISC);
-Schedule for Affective Disorders and
Schizophrenia for School-Age Children
(K-SAD)
Queste scale sono state costruite per cogliere la presenza di quei
sintomi maggiormente osservabili e manifesti. In questo modo però
riducono la complessità fenomenologica, facendola rientrare all’interno
di poche categorie diagnostiche e, quindi, la oggettivano come
“sindrome” o “disturbo”.
4. L’oggettivazione del bambino triste attraverso gli interventi
terapeutici
A seconda del criterio di oggettivazione utilizzato cambierà di
conseguenza anche la scelta degli interventi terapeutici da attivare per
la cura della depressione. I principali tipi di intervento sono:
a) Intervento farmacologico:
Si basa sul presupposto di influenzare determinati tipi di
neurotrasmettitori attraverso la somministrazione di farmaci inibitori
(Cassano e Zoli, 1993).
b) Intervento psicoterapeutico:
La psicoterapia trae spunto dalla psicanalisi, ma per i bambini adotta
particolari metodi e indicazioni diverse rispetto a quella prevista per gli
13
adulti per permettere al terapeuta di comprendere le fonti conflittuali
proprie del bambino nonché le modalità per poterli superare.
-Terapia cognitivo-comportamentale;
-.Terapia interpersonale;
- Terapia familiare.
c) Trattamenti alternativi:
-Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari
(EMDR- Greenwald, 1999);
-Sostanze naturali e omeopatiche;
-Aiuto dei familiari e dell’ambiente circostante.
5. Come il bambino triste viene oggettivato dalle diverse teorie
Risulta evidente quindi come esistano molteplici teorie per spiegare il
complesso fenomeno della depressione infantile e a seconda
dell’approccio considerato varierà anche la spiegazione eziologica ad
esso associata.
∼ Modello organicistico: teoria che ricerca le cause della depressione
nei fattori genetici e biochimici (Cassano, 1993; Castellazzi, 1993).
Teoria genetica: i bambini provenienti da famiglie con disturbi depressivi
hanno maggiori probabilità di soffrire degli stessi disturbi dei genitori
(Kashani, Burk e Reid, 1985).
Teoria biologica: la depressione è dovuta a disfunzioni a livello
recettoriale: del sistema noradrenergico, serotoninergico e
dopaminergico (Infrasca, 2002; Guareschi-Cazzullo e Lenti, 1994).
Teoria neuropsicologica: i disturbi depressivi derivano da un’alterazione
dei rapporti funzionali tra diverse aree cerebrali e non da un deficit
localizzato (Guareschi-Cazzullo e Lenti, 1994). ∼ Modello fenomenologico-esistenziale: la depressione viene vista
come una malattia del tempo, ci si sente vittime di un presente
immutabile, di una sofferenza eterna che priva della capacità di agire e
di decidere (Binswanger,1960; Minkowski, 1968).
14
∼ Modello cognitivo-comportamentale: alla base della depressione vi
sarebbe una triplice configurazione cognitiva distorta, cioè una
elaborazione erronea delle informazioni che conduce i soggetti a una
percezione negativa di sé, del mondo in cui vive e del futuro visto come
immodificabile (Beck et al., 1979)
∼ Modello sistemico: la famiglia viene considerata come un gruppo
all’interno del quale la patologia di uno dei suoi membri deriva da una
comunicazione distorta tra i suoi vari componenti (Arieti e Bemporand,
1980).
∼ Modello socio-culturale: la modernità viene considerata come causa
principale della crescita degli episodi depressivi, soprattutto tra i
bambini dei paesi sviluppati (Oatley,1997; Jenkins, Smith,1990).
Modello psicoanalitico: Molteplici sono state le teorie che hanno
puntato l’attenzione sull’origine della depressione, ognuna cercando di
delineare un modello di spiegazione della mente e dell’esperienza
umana, offrendo anche uno specifico modello di bambino (Freud, 1917;
Rado, 1928; Abraham, 1911; Klein, 1935; Bibring, 1953; Winnicott,
1958; Spitz, 1946; A. Freud, 1942; Fairbairn, 1952; Mahler, 1961;
Bowlby, 1969; Adler, 1956). E’ innanzitutto il tema della perdita, del
lutto a interessare i primi studi psicanalitici sulla depressione infantile
(Freud, 1917). Nonostante queste prime forme di interessamento al
mondo infantile, il bambino che emerge dalle teorie di Freud è ancora
un bambino ricostruito all’interno della clinica adulta.
È a partire da Sandor Rado (1928) che si ammette l’esistenza di
meccanismi psicanalitici già in età precoce dai quali in età più matura
si svilupperanno i conflitti depressivi.
Bisognerà aspettare l’avvento della psicologia dell’Io e soprattutto il
contributo di Anna Freud, affinché venga data maggior importanza al
bambino reale piuttosto che a quello ricostruito (Scafidi Fonti, 2001).
15
Limiti del processo di oggettivazione scientifica
Dall’analisi effettuata emergono i forti limiti di tale processo di
oggettivazione e precocizzazione della diagnosi di depressione infantile
che, in quanto tale:
- mortifica la dimensione evolutiva dell’emozione nel bambino;
- assimila gli stati emozionali a quelli adulti;
- sottovaluta o preclude la visione interattiva e sociale delle
manifestazioni emozionali e del loro sviluppo;
- riduce le differenze individuali a fattori biologici e temperamentali,
enfatizzati come elementi di rischio e indicatori precoci di una deriva
patologica, anziché come fattori disposizionali chiamati ad una
complessa interazione con i sistemi psicosociali e culturali coinvolti
nello sviluppo;
- restringe lo spazio di crisi e di riorganizzazione che caratterizzano lo
sviluppo e lo riduce ad una linearità irrealistica che lo semplifica;
- canalizza lo sviluppo del bambino verso un modello precostituito;
- si pone nella linea della “medicalizzazione” del corpo e dello sviluppo
del bambino ed esautora o deresponsabilizza i contesti familiari e
sociali (e il bambino stesso) nella costruzione di uno sviluppo sano
dei processi di autoregolazione.
Tutto ciò contrariamente allo sviluppo del bambino, che appare invece
più complesso e difficilmente riducibile a categorie patologiche
predefinite.
L’OGGETTIVAZIONE DELLA DEPRESSIONE INFANTILE FORNITA
DAI MASS-MEDIA
Il passo successivo consiste nel verificare se le varie rappresentazioni
fornite dalla letteratura medico-psicologica vengono riprese e modificate
dai mass-media, nonché il tipo si sistema di comunicazione da questi
utilizzato, secondo il modello proposto da Moscovici (1961). Per far
questo è stato utilizzato il metodo della grounded theory, attraverso la
16
codifica (aperta, assiale e selettiva) dei testi ripresi da articoli di
giornale, libri non specialistici e da internet.
1. Ricerca condotta su articoli di giornale e riviste
Sono stati selezionati 21 articoli tratti dagli archivi messi a disposizione
su internet dalle maggiori testate giornalistiche (Corriere della Sera,
Espresso, Messaggero, Libero, Il Secolo XIX, La Provincia, Missioni
Saveriane, Galileo, Insieme, Donna e Mamma, Io e il mio bambino, Qui
Mamma) e da alcune riviste femminili (Donna Moderna, Grazia).
L’analisi effettuata evidenzia quasi l’esistenza di uno stesso schema
generale, utilizzato in tutti gli articoli (mapp. n°1):
17
Tale schema corrisponde ai selettori tipici delle notizie indicati da
Luhmann (1996):
-Si cerca di produrre sorpresa;
-Uso delle quantità;
-Vengono evidenziati i conflitti;
-Riferimento al locale;
-Accenno alle infrazioni alle norme;
SCHEMA RIASSUNTIVO ARTICOLI DI GIORNALE SULLA DEPRESSIONE E DEPRESSIONE INFANTILE (mappa n°1)
Esperti Dati diffusione problema
Situazione attuale
Spiegazione caratteristiche
Cause depress
Proposte
Depress Depress infantile
Stato attuale
False convinzioni
Depress
Depres infantile
Cura - Terapia
Prevenz
Corriere della Sera
Espresso Repubblica
Messaggero
Libero Il Secolo XIX
La Provincia
Missioni Saveriane
Galileo Donna Moderna
Grazia Insieme Donna e Mamma
Io e il Mio Bambino
Qui Mamma
18
-Attenzione ai casi singoli;
-Si menzionano le opinioni.
Questo ci mostra come effettivamente i giornali, ma in generale tutti i
media, non possono essere considerati “specchi della realtà”, in quanto
le notizie vengono da questi manipolate, strumentalizzate e selezionate
per esigenze di tempo, spazio e di pubblico. Il sistema di comunicazione
adottato da molti giornali, in particolare da “Espresso”, “La Repubblica”,
“Galileo”, “Missioni Saveriane”, “Libero”, “Donna Moderna” e “Qui
Mamma”, nei termini di Moscovici (1961), sembra essere quello della
propagazione, in quanto tra queste testate non ho riscontrato forti punti
di contraddizione, anzi vi è un atteggiamento quasi unitario nel
delineare le proposte possibili di intervento e nella presentazione della
depressione. Vengono fornite informazioni che permettono al lettore di
assumere una posizione critica e consapevole delle caratteristiche del
problema, della situazione attuale e degli interventi possibili. Viene
criticata la situazione odierna mostrando le potenzialità però di quanto
può ancora essere fatto dai vari interlocutori del discorso, viene favorito
l’approccio psicanalitico.
Invece il “Corriere della Sera”, il “Messaggero”, il “Secolo XIX”, “La
Provincia” e “Grazia” assumono un approcio di tipo diffusivo, in quanto
forniscono informazioni sull’intero panorama scientifico attuale, senza
mostrare particolari orientamenti.
2. Analisi frame libri non specialistici
Si è proceduto poi all’analisi dei frames riassuntivi del contenuto dei
libri non specialistici, trovati tramite il sito internet Errore. Il
segnalibro non è definito., che rispondevano al criterio depressione
infantile (tot. 25) e depressione (tot. 27) ottenendo il seguente schema
riassuntivo (Mapp. N°2):
19
Mapp.2
I vari libri illustrano il disturbo depressivo come qualcosa che tutti
possono conoscere e dal quale è possibile guarire seguendo i consigli di
questi stessi libri-guida. Avviene così il disancoraggio dalle teorie
scientifiche, che risulterebbero altrimenti poco comprensibili. La
depressione viene perciò oggettivata come un disturbo sia infantile che
dell’età adulta, diagnosticabile e riconoscibile nelle sue caratteristiche e
quindi facilmente trattabile e prevenibile (processo di ancoraggio). Il
fatto stesso però che si parli di guarigione, di terapie sottintende
l’esistenza di una patologia, senza la quale sarebbe inutile parlare di
cure. La modalità di comunicazione utilizzata (proposta) è orientata a
stimolare un atteggiamento positivo e attivo nei confronti del disturbo.
Libri Depressione e depressione
infantile
GUIDA
I farmaci non bastano
Informazioni per riconoscimento, trattamento e prevenzione
Trattamento
Psicoterapia
Terapia cognitivo-comportamentale
Cure alternative
Alfabetizzazione emotiva
Spiegazione malattia e terapie
Consigli per imparare a guarire
Autoaiuto
Da soli
Comprensione di sè
Con l’aiuto di altri
Professionisti
Familiari
Speranza di cambiamento
Diagnosi e sue difficoltà
Tema presente anche nei romanzi che trattano l’argomento
Come uscire dalla depressione post-parto
EMDR
Reinterpretazione malattia
20
3. Ricerca parole chiave primi 20 siti in 5 motori di ricerca
Il terzo passo è consistito nel codificare i primi 20 risultati ottenuti da 5
motori di ricerca, rispettivamente: Altavista, Google, Lycos, Virgilio e
Yahoo per un totale di 100 rimandi. Lo schema concettuale riassuntivo
ottenuto è il seguente (Mapp. N°3):
Internet fornisce una vasta serie d’informazioni riguardanti ambiti
anche diversi tra loro, facendo riferimento sia a teorie biologiche che di
tipo psicoanalitico, evidenza riscontrabile anche nelle proposte di
trattamento terapeutico, senza che in generale prevalga
un’impostazione rispetto a un’altra. Per questo tale sistema di
comunicazione può essere considerato, nei termini di Moscovici,
caratterizzato dal criterio della diffusione, perché le notizie vengono
trasmesse ai lettori non in maniera unitaria e tale da permettere uno
DEPRESSIONE
Malattia/affezione/fenomeno
Teorie fisico-biologiche
Teorie psicologico-relazionali
Farmaci
Terapia psicoanalitica
Ricerche
Riconoscimento esperti negli
ambiti: neurologia; psicologia; psichiatria; psicanalisi;
neuropsichiatria; pedagogia.
Fenomeno sottostimato
Disturbo mentale
Diagnosi
Cause
Consulenza e informazione
21
schieramento specifico e omogeneo a favore di una delle possibili letture
della depressione infantile.
4. Ricerca pagine dei siti internet citati più frequentemente dai
motori di ricerca
Nell’ultimo passaggio si è proceduto ad analizzare in maniera più
dettagliata 5 dei siti che venivano citati più frequentemente nelle prime
posizioni dai motori di ricerca presi in considerazione, ricavandone la
seguente mappa riassuntiva (Mapp. N°4):
TEORIE BIO-MEDICHE
TEORIE PSICOANALITICHE
Depressione come disfunzionalità neuronale tale da inceppare i meccanismi cognitivi
Fattori intrinseci
Producono depressione di origine somatica
Disturbi cognitivi
Caratterizzata da comorbidità
Difficoltà di diagnosi in età evolutiva
Trattamento farmacologico
Analisi categoriale e dimensionale del disturbo
Deficit serotonergico o noradrenergico
Esistono 3 tipi di depressione Sintomi Cause
Stress
Mancanze relazionali
Differenze evolutive
Superamento false convinzioni
Linee guida per la somministrazione
Tipi di farmaci
Aiuto di familiari e amici
Convincerlo a rivolgersi a un medico
Prospettiva cognitivo-comportamentale
Disturbi affettivi relazionali
Di natura genetica o biochimica
Fattori psicosociali
Disturbi cognitivi
Terapia del problem solving
22
L’analisi effettuata ha subito mostrato l’estrema eterogeneità delle
informazioni fornite dai vari articoli. A parte l’ultimo volto maggiormente
a fornire raccomandazioni di carattere pratico e di sostegno psicologico
e il secondo che presenta la terapia cognitivo-comportamentale, gli altri
cercano di dare maggiori informazioni di tipo scientifico. Questi articoli
possono così essere divisi in due blocchi principali, quelli legati alle
teorie bio-mediche e quello di spiegazione delle teorie psicanalitiche. Tra
questi si colloca l’ultimo pezzo che funge da loro collegamento, in
quanto nella prima parte fornisce informazioni sulla diagnosi e le cause
del disturbo, per dispensare poi consigli ad amici e familiari per aiutare
il malato a superare lo stato attuale di malattia e convincerlo a recarsi
da uno specialista.
I vari articoli presi separatamente assumono più la struttura della
propaganda, secondo i termini di Moscovici, a differenza dei motori di
ricerca, in quanto ciascuno di esso sostiene le proprie idee come vere e
esaustive del fenomeno.
CONCLUSIONI
Il panorama complessivo che emerge dai mass-media, così come nella
letteratura medico-psicologica risulta essere così assai disaggregato e
confuso, in contrasto con la necessità di considerare con più attenzione
i significati che le fenomenologie assumono nella concreta evoluzione di
bambino e che sono oscurate da questi modelli.
L’oggettivazione e la precocizzazione della diagnosi di depressione tende
così, sia nella rappresentazione scientifica che mass-mediale, a
ricondurre lo sviluppo emozionale infantile entro categorie adulte.
Infatti noi utilizziamo gli stessi termini per indicare sia le emozioni
provate dagli adulti che dai bambini, non comprendendo però che molto
spesso le emozioni infantili hanno significati, conseguenze e origini
diverse (Chess, Thomas, 1987). Le manifestazioni emozionali e il loro
sviluppo vengono così ricondotte a una linearità irrealistica che le
23
semplifica e che ne esclude una visione interattiva e sociale,
restringendo inoltre lo spazio di crisi e di riorganizzazione proprio del
processo evolutivo. Il bambino viene perciò canalizzato verso modelli
precostituiti di crescita, che non tengono conto di una complessità
fortemente caratterizzata da differenze individuali e del fatto che lo
sviluppo emotivo e di personalità non può essere facilmente suscettibile
di una predittività che attraversa le diverse fasi di sviluppo. Sviluppo
caratterizzato al contrario dal principio di unitarietà (le sfere emotive,
sociali e cognitive fanno tutte parte dello stesso processo di sviluppo) e
di complessità emergente (il nuovo comportamento emerge da ciò che
già esisteva, ma con proprietà qualitativamente diverse).
Complessità delle emozioni e differenze individuali
La comparsa delle emozioni avviene secondo un percorso che parte dai
precursori neonatali fino a giungere alle forme emotive più complesse.
Le emozioni si sviluppano a partire da un precursore, cioè un prototipo
che possiede una caratteristica fondamentale della prima, visibile nei
primi cinque mesi di vita. Questi precursori originano da reazioni
riflesse a un prolungato o moderato stato di attivazione. È solo a partire
dalla seconda metà del primo anno che si avranno sentimenti di rabbia,
gioia e paura.
In questo percorso lo sviluppo emotivo è fortemente intrecciato a quello
sociale e cognitivo. È infatti grazie alla relazione con il caregiver che il
bambino passa da una forma di regolazione emotiva diadica
all’autoregolazione. L’adulto di riferimento stimolando e proteggendo il
bambino da un’eccessiva attivazione permette uno sviluppo flessibile e
adattivo del sistema nervoso infantile. Inoltre consente l’attuazione di
una prima forma di relazione oggettuale, considerabile come un primo
tentativo di socializzazione. Dall’altra parte i progressi nello sviluppo
emotivo permettono nuovi livelli di relazioni sociali e di partecipazione
(Sroufe, 1995).
24
Anche l’emozione e la cognizione si influenzano reciprocamente: i
mutamenti negli stati emotivi dipendono dalla maturazione di nuove
funzioni cognitive, così come gli eventi assumono significato solo se
amplificati da un’emozione.
Data l’estrema complessità insita nello sviluppo emozionale e i suoi
legami con le altre dimensioni evolutive appare evidente come non sia
possibile ridurre entro categorie fisse e predeterminate quelle
caratteristiche che differiscono da individuo a individuo. Queste devono
essere invece considerate come una manifestazione delle differenze
individuali, tendenza che sta sempre più prendendo piede negli attuali
studi di psicologia evolutiva (Brazelton, Greenspan, 2000). Così vi
possono essere bambini con un umore prevalentemente positivo e altri
con manifestazioni più negative, ma queste differenze devono essere
colte lungo un continuum di normalità, in quanto qualsiasi forma di
oggettivazione preclude un’analisi complessa del fenomeno (Chess,
Thomas, 1987). Infatti la possibilità che alcuni bambini si sentano
tristi e demotivati può essere considerata una sindrome e perciò
oggettivata come depressione infantile, o può essere esaminata
all’interno delle differenze individuali. Differenze che non derivano
esclusivamente da caratteristiche genetiche predeterminate e
immutabili, ma da continui scambi tra molteplici fattori. In tutto ciò
giocano un ruolo fondamentale gli atteggiamenti degli adulti, la loro
capacità di coltivare la natura del piccolo, di far emergere le
caratteristiche di personalità specifiche di quell’individuo. Per far questo
sono necessarie delle attenzioni particolari, che permettano di
rispondere in maniera adeguata alle esigenze di crescita e di sviluppo
del piccolo, favorendo così l’emergere di talenti e non di problemi,
restituendo al bambino la sua tristezza.
25
LA COSTELLAZIONE MATERNA E LA
RAPPRESENTAZIONE
SOCIALE DELLE COMPETENZE DEL BAMBINO
di Maria Luisa Invernizzi
“Lo scopo di tutte le rappresentazioni sociali è quello di rendere qualcosa di
inconsueto, o l’ignoto stesso, familiare…L’’atto della rappresentazione è un mezzo
per trasferire ciò che ci disturba, ciò che minaccia il nostro universo, dall’esterno
all’interno, da un luogo lontano ad uno spazio prossimo” (Moscovici,1984).
Con queste parole Serge Moscovici propone la definizione di ciò che, secondo lui,
costituisce il meccanismo che garantisce agli individui e ai gruppi la possibilità di
orientarsi nel mondo sociale e di comunicare con altri individui o gruppi. Parlare di
rappresentazioni sociali non significa fare riferimento semplicemente a idee, teorie o
immagini, ma richiama a dei veri e propri processi attraverso i quali ricostruire la
realtà sociale. La costruzione di determinate rappresentazioni può infatti avere
implicazioni sulle modalità di interazione e di azione messe in atto dai soggetti.
Nello specifico del mio lavoro, è stato interessante vedere come una data
rappresentazione di sé, elaborata dalla donna diventata madre, possa avere
implicazioni notevoli sulle modalità interattive messe in atto nei confronti del
proprio bambino e possa influire sul progressivo riconoscimento o misconoscimento
delle competenze di quest’ultimo.
Prima di cogliere questa correlazione tra rappresentazione e predisposizione
all’azione e le relative implicazioni per la promozione della salute nella coppia
madre/bambino, è stato necessario interrogarsi sulla genesi di queste
rappresentazioni. Quali sono dunque i contesti, le dinamiche sociali, i costrutti
teorici, i contenuti mediatici che influiscono sul processo di costruzione di una
rappresentazione?
Nella sua analisi sulle rappresentazioni sociali della psicoanalisi, Moscovici aveva
studiato il modo in cui la psicoanalisi era penetrata nella società francese e si era
trasformata nel corso di questo processo di diffusione e cioè come una nuova teoria
26
divenga un “dialetto comune” (Palmonari, Cavazza, Rubini 2003). Rifacendomi a
ciò, ho cercato di compiere un percorso analogo per quanto riguarda le
rappresentazioni delle competenze del bambino. Ho cercato di cogliere come e se il
mutato paradigma a livello scientifico si traduca in modificazione delle
rappresentazione sociali da parte delle mamme; come l’insorgere di mutazioni
all’interno del corpo teoretico influenzi la visione del senso comune e le relative
rappresentazioni. Indagare socialmente ciò, significa esplorare come i contenuti
delle nuove teorie sulla relazione madre bambino attraversino i contenuti proposti
dai media e se siamo in grado di penetrare e modificare vissuti delle madri.
LA COSTELLAZIONE MATERNA E LA RAPPRESENTAZIONE
Volendo tracciare una breve rassegna sull’ev oluzione dei paradigmi scientifici
attraverso i quali leggere ed interpretare la relazione madre bambino, possiamo
riscontrare l’emergere di un progressivo riconoscimento delle competenze del
bambino. Si assiste ad un passaggio da relazioni simbiotiche e di stretta dipendenza
del piccolo dalla madre, delineate dalla prospettiva psicoanalitica, al riconoscimento
di reciprocità tra i due soggetti della relazione. Da un bambino inerte, privo di
iniziative, in rapporto simbiotico con la madre, si giunge a una prospettiva
relazionale, la quale fornisce una visione di bambino come essere altamente
competente, cioè un bambino attivo, che agisce e interagisce con il mondo esterno.
La teoria psicoanalitica, nelle sue diverse declinazioni, colloca l’attenzione sul
crearsi di relazioni oggettuali tra madre e bambino, relazioni contraddistinte da un
rapporto quasi fusionale del piccolo con la madre. Prevede forme di
indifferenziazione e parassitismo dove la propensione a creare relazioni è funzionale
al mantenimento di uno stato di benessere fisiologico. Nell’analisi freudiana infatti,
la madre costituisce l’oggetto della relazione, oggetto indispensabile al bambino in
quanto in grado di procurare gratificazione. Questo stato di iniziale
indifferenziazione, dove il bambino si identifica con la madre, vede un’evoluzione
che porterà, secondo Spitz, alla costruzione di un vero e proprio rapporto oggettuale
grazie alla comparsa degli “organizzatori dello sviluppo” vale a dire il sorriso,
l’angoscia dell’ottavo mese e la padron anza del No. L’importanza di queste
strutture, che si sviluppano in determinati periodi e nelle quali convergono diverse
27
linee di sviluppo, è riconducibile alla possibilità offerta al piccolo di sviluppare i
suoi sistemi personali fuoriuscendo così dallo stato di indifferenziazione iniziale
entro il quale si trovava. Queste teorie si sono arricchite, nel corso del tempo, di
ulteriori ed interessanti contributi provenienti dall’etologia e dalla biologia. Nel
corso degli anni ‘60 e ‘70 inoltre, si assiste ad un’evoluzione in direzione sociale
delle teorie sulla relazione madre bambino e Daniel Stern risulta essere uno dei
maggiori interpreti di questa tendenza. Le sue ricerche sulle interazioni precoci
madre-bambino hanno avuto uno straordinario rilievo nell’a mbito della psicologia
dello sviluppo. Basandosi sull’osservazione diretta del bambino e delle sue relazioni
con la madre e le figure d’accudimento, questi studi permettono di cogliere
l’emergere, la continuità e le trasformazioni delle prime percezioni es istenziali di sé,
quelli che Stern definirà i “ sensi del sé” del bambino.
Prima di indagare più in dettaglio la portata rivoluzionaria degli studi di Stern è
opportuno fare alcune premesse sulle situazioni cliniche oggetto di studio e di
interesse da parte dell’autore.
Nell’analisi del sistema clinico madre bambino, dove per madre si intende la
persona che fornisce cure primarie, Stern mette in evidenza l’esistenza di elementi
diversi che compongono questo complesso sistema. Dapprima vi sono i reciproci
comportamenti manifesti messi in atto dai due partner dell’interazione. L’azione
dell’uno (B act) e mediata e determinata dall’agire dell’altra (M act) e viceversa. Da
qui scaturiscono le prime forme di interazione che, in seguito al loro ripetersi nel
tempo, determineranno la nascita di una vera e propria relazione. Nel presentare
tale modello, l’autore pone particolare interesse alla dimensione delle
rappresentazione dell’interazione che, sia la madre, sia il bambino, si costruiscono.
La madre costruisce le proprie rappresentazione (Mrep) soggettivamente a partire
dall’elaborazione oggettiva degli eventi che scaturiscono nell’interazione con il
piccolo. Parallelamente alle rappresentazione della madre, anche il bambino
sviluppa le sue(Brep).
La portata epistemologica delle riflessioni di Stern, consiste infatti nell’aver
rovesciato l’impostazione delle teorie psicodinamiche classiche, secondo le quali il
mondo intrapsichico del bambino si fonda essenzialmente su un processo di
interiorizzazione di “oggetti ”c he, nelle prime fasi dello sviluppo, sono rappresentati
28
dalle figure significative di riferimento. Stern sostiene, invece, che ciò che viene
interiorizzato sono soprattutto modelli intersoggettivi di relazione, che sono, in
parte, il risultato delle interazioni reali con la figura materna. La costruzione del
mondo psichico ha quindi, per Stern, un’origine essenzialmente interpersonale e
poggia su una concreta esperienza delle relazione che si stabiliscono tra il bambino e
le figure di accudimento. Contrariamente alle numerose teorie analitiche che parlano
di fusione del bambino con l’oggetto madre, Stern mette in evidenza come il
bambino sviluppi precocemente il senso di essere con l’altro e di una sua capacità di
integrazione e di differenziazione. Già dai 7/9 mesi infatti, il neonato sperimenta
momenti di inter-soggettività quando, ad esempio,condivide un’attenzione reciproca
con la madre, un’intenzionalità.
Parlare di interazione con la madre in questi termini significa presupporre una forma
di comunicazione a doppia via tra i due partner dell’interazione. Significa parlare di
inter-soggettività e quindi di una influenza reciproca, biunivoca e dinamica tra i
comportamenti della madre e quelli del piccolo, ma anche tra le rappresentazioni di
entrambe.
Le teorizzazioni di Stern si fondano su alcuni assunti chiave:
→ la relazione madre bambino non è più vista come relazione chiusa dove la madre
costituisce l’agente modellante nei confronti del piccolo. Madre e bambino formano
insieme, un sistema che si autoregola reciprocamente.
I partner di questa relazione agiscono e si influenzano reciprocamente e il bambino
non è più il frutto dell’azione intenzionale esercitata dalla madre. Egli stesso
esercita un’influenza decisiva sul proprio sviluppo e anche sulla ma dre. Questo è
uno degli aspetti centrali attraverso i quali comincia a delinearsi un’idea di
bambino non più passivo, ma attivo o, come vedremo meglio in seguito,
“competente”.
→ la diade madre bambino e le interazioni sociali che si vengono a creare
costituiscono la radice dello sviluppo mentale del bambino. Attraverso il legame con
la madre, il piccolo acquisisce schemi di interazione che gli consentono di entrare
in rapporto cooperativo con gli altri e sviluppare quindi altre abilità cognitive. Si
affermerà l’ipotesi secondo cui le relazioni sociali sono la vera radice dello sviluppo
cognitivo e linguistico.
29
Diversi sono i contributi che in questo periodo provengono dalla ricerca evolutiva
che si occupa dello studio del bambino e delle sue competenze sociali e cognitive.
Tra questi, le riflessioni di D.Stern e di R. Schaffer, così come quelle di molti altri
autori, interpretano chiaramente la mutata tendenza la quale si orienta, come già
detto, alla dimensione relazionale dell’interazioni tra madre e ba mbino. L’attenzione
si concentra sulle capacità complesse che il bambino possiede sin dalla nascita e che
gli consentono di attivarsi in maniera “competente”, cioè gli consentono di cogliere
e rispondere selettivamente alle stimolazioni che provengono dall’esterno. Oltre ad
una ricerca attiva degli altri si ha anche una differenziazione tra Sé e l’ambiente in
cui vive. Il bambino non è più passivo, cade quindi anche l’idea di rapporto
simbiotico che il bambino svilupperebbe nei confronti della madre.
LA RAPPRESENTAZIONE SOCIALE DELLE COMPETENZE NEI MEDIA E
NELLE PAROLE DEI GENITORI
L’insorgere di un corpo teorico innovativo che modifica la rappresentazione teoretica di
un fenomeno non sempre e non necessariamente evolve di pari passo con le
rappresentazioni esperite dal senso comune, non sempre infatti questi mutamenti teorici
penetrano e modificano le rappresentazioni proprie del senso comune.
L’esperienza della maternità si trova oggi a convivere con dinamiche e mutamenti
complessi e problematici. Una struttura familiare sempre più flessibile e soggetta a
continui mutamenti determina la ridefinizione di ruoli e pratiche educative. Spesso
l’essere genitori e in particolare il divenire madre, viene privato di quell’intimo
legame intergenerazionale capace di dare alla madre sicurezze e conferme
attingendo direttamente dall’esperienza. Un tempo infatti l’esperienza diretta veniva
considerata come generatrice di certezze e conoscenze, l’abitudinario era visto come
strumento di continuità di pratiche educative e la madre poteva trarre sicurezza da
queste ultime. La situazione attuale pone invece la madre di fronte alla necessità di
dover coniugare fonti d’informazione diverse e spesso dissonanti tra loro e la
colloca all’interno di quel processo di medicalizz azione oramai dilagante che
promuove l’idealizzazione di un sapere specialistico. Tutto viene medicalizzato: il
bambino, il dolore, il parto, le stesse competenze sono espropriate della loro natura
30
relazionale, cioè del loro nascere all’interno della sempl ice, ma grandiosa relazione
tra una madre e il suo piccolo. Si verifica quello che Moscovici aveva definito come
disancoraggio. Il riconoscimento della competenza infatti perde il suo nascere dalla
e nella relazione. La madre anziché procedere nel riconoscersi competente e
nell’attingere da quello che di più naturale è in lei, sente la necessità di continue
conferme, di sostegni esterni, di saperi specialistici. L’ingenerarsi di ciò la rende
vulnerabile e la pone in balia delle parole autorevoli diffuse dai giornali e dagli
specialisti, parole che non fanno altro che assecondare nuovi dubbi i generare nuove
incertezze.
Una analisi della diffusione sociale del concetto di “Bambino Competente”
L’analisi condotta all’interno delle riviste comunemente consult ate dalle donne durante
la gravidanza e nella fase successiva al parto ha confermato ciò. Nei contenuti proposti
dagli articoli infatti, è stato possibile individuare una duplice tendenza: da un lato queste
riviste risultano essere interpreti delle mutate tendenze avvenute a livello teorico a cui
prima ho fatto riferimento e quindi sono attente a quell’idea di bambino e di genitore
competenti, ma nel contempo promuovono una linea di diffusione finalizzata alla
notiziabilità (Luhmann, 1996). Le riviste infatti tendono a divulgare informazioni
privilegiando la categoria del “ sorprendente”. Tutto appare semplificato, ogni problema
inerente la cura e l’educazione del piccolo trova, all’interno degli articoli, facili ed
immediate soluzioni. Una semplificazione questa che sorprende la madre, in quanto è
ben lontana dalla reale situazione esperita dalla neomamma la quale si trova invece a
dover far fronte a dinamiche decisamente più complesse e tutt’altro che semplificate.
Le riviste oggetto della mia indagine sono state tre, scelte tra quelle più acquistate
dalle mamme, vale a dire “ Donna e mamma”, “ Io e il mio bambino” e “ Bimbi sani e
belli”. Per ognuna di esse sono stati analizzati tre numeri relativi al periodo di
pubblicazione compreso tra gennaio e marzo2004. Da ogni rivista sono stati
estrapolati una serie di articoli,ai quali è stata applicata la procedura d’analisi
prevista dalla Grounded theory. Per Grounded Theory si intende quella teoria
sociologica che nasce dai dati della ricerca empirica. Si tratta, cioè, di una teoria che
viene costruita sulla base degli elementi emersi durante lo svolgimento dell'analisi.
31
Essa rimanda a tre livelli di codifica che prevedono dapprima lo scomporre i dati
raccolti in unità semplici alle quali sono attribuiti dei codici, per poi individuare
categorie sempre più ampie e legate alla tematica che si sta affrontando. I contenuti
proposti dagli articoli riguardano alcuni nuclei tematici quali l’allattamento, il parto,
l’alimentazione, il sonno e gli stili educativi da promuover e.
Dall’analisi effettuata si può affermare come, quella proposta dai giornali, sia
l’immagine di un bambino sostanzialmente competente, che agisce, interagisce ed è
anche in grado di influenzare i comportamenti delle persone a lui circostanti.
Un’immag ine ampia che non si limita a cogliere soltanto alcuni degli aspetti dello
sviluppo del bambino, ma che considera tale sviluppo come un insieme complesso, fatto
di componenti biologiche, psicologiche e relazionali. Ad agire non è solamente la
madre, ma sono entrambe i partner della relazione: madre e figlio insieme. Un’idea,
quella proposta, tutt’altro che semplificata di bambino dove quindi si può leggere un
riconoscimento e una presa di coscienza delle mutate tendenze in atto nelle riflessioni
teoriche sul bambino e sulle sua capacità. Come già anticipato, nel proporre questi
contenuti l’attenzione si concentra generalmente su ciò che la madre non è in grado di
fare, su quello che deve imparare a fare attingendo dai saperi offerti dalle stesse riviste.
Queste forme di comunicazione mediatiche non hanno di certo un effetto rassicurante
sulle madri ma, al contrario, alimentano un senso di inadeguatezza, di incertezza e di
distanza. Il destinatario delle riviste è infatti una donna, da poco madre, che si trova a
gestire una situazione del tutto nuova, una donna alla ricerca di conferme e di
rassicurazioni. Come afferma Winnicot
“I genitori apprezzano soprattutto chi offre loro una spiegazione dei problemi che
stanno affrontando, consentendo loro di diventare più consapevoli delle cose che,
solitamente, già fanno d’intuito. Non si sentono tranquilli se sono lasciati ai loro dubbi,
ossia in balia di tutto ciò che piomba loro addosso nei momenti critici,
inaspettatamente, quando non si ha il tempo di riflettere. Magari quei genitori hanno
dato al bambino uno schiaffo, un bacio un abbraccio, oppure gli hanno sorriso. E’ stato
sicuramente giusto così, non si poteva fare di meglio. Nessuno avrebbe potuto dire loro
che altro fare in quelle circostanze, poiché realisticamente non potevano essere
previste. In seguito, tuttavia, i genitori tornano a discuterne, si meravigliano e spesso
32
non si rendono ben conto di che cosa sia successo e, alla fin fine, si rendono confusi
riguardo alla natura stessa del problema. A questo punto tendono a sentirsi in colpa e
sono pronti a dare ascolto a chiunque parli con autorevolezza o dia loro ordini”
(Winnicot, 1993)
Questo non fa altro che ispessire ed accentuare il senso di solitudine, di incapacità, di
inadeguatezza e di abbandono della madre. La competenza materna finisce con l’essere
rappresentata come obiettivo di onnipotenza che, scontrandosi con la realtà concreta
vissuta dalla madre, non fa altro che incrementare il suo sentirsi inadeguata e quindi
altera il riconoscimento delle sue competenze e di quelle del suo piccolo.
Questo senso di inadeguatezza, questa falsa percezione di sé, questo bisogno di affidarsi
a saperi specialistici si riflette su quella che Stern definisce la costellazione materna.
Ogni donna che diventa madre, viene infatti a trovarsi in una situazione psicologica
nuova che orienta i suoi comportamenti, la sua sensibilità, le sue tendenze, i suoi timori
e i suoi desideri, rimettendo in gioco le sue fantasie infantili. La costellazione materna
implica la creazione di una nuova organizzazione psichica che, per un periodo più o
meno lungo, sostituisce quella precedente. L’attenzione della madre si sposterà quindi
su nuove tematiche legate alla vita e alla crescita del piccolo, sulla creazione delle prime
relazioni, sulla costruzione di reti di supporto che le consentano di realizzare le
condizioni per una crescita adeguata del bambino. Una madre che sperimenta e vive
quel senso di inadeguatezza a cui prima accennavo, troverà difficoltà nell’affrontare ad
esempio il tema della crescita del proprio piccolo. Il percepirsi più o meno competente
di fronte alla responsabilità di far crescere il proprio bambino può modificare e influire
sulle rappresentazioni che la madre ha del suo piccolo tanto che le sue attenzioni si
concentreranno soprattutto e prioritariamente sul soddisfacimento dei bisogni fisiologici
di quest’ultimo.
Il questionario
Descrizione delle finalità e delle modalità del questionario (sviluppare)
Le risposte al questionario somministrato a un gruppo di madri sembra confermare ciò.
Il questionario aveva come finalità quella di sondare se nelle parole scritte dalle madri
emergesse il riconoscimento delle competenze del bambino e quindi fosse presente
l’idea di bambino competente. Dall’analisi delle risposte eme rgono alcuni dati molto
33
interessanti, che danno adito a riflessioni significative sulle rappresentazioni che le
madri hanno dei loro bambini.
Premetto già come l’idea che progressivamente si delineerà prevede alcuni aspetti molto
ambivalenti, tesi talora ad attestare il riconoscimento di un bambino attivo e
competente, talora invece a ridimensionare il ruolo di quest’ultimo riducendolo ad
organismo biologico avente bisogni che devono essere soddisfatti.
Al bambino vengono riconosciute competenze e sfere d’a zione che trascendono
l’ambito prettamente fisiologico, anche se queste ultime, sebbene annoverate, vengono
solitamente poste in secondo piano. Nel riconoscere lo stato di benessere dei bambini
risulta indubbio il riferimento alla sera dei bisogni vitali del bambino quali la fame, il
sonno, lo stato di salute, l’essere pulito. All’interno delle risposte non sono tuttavia
estromessi i bisogni prettamente emotivi e sociali che il bambino ha. Questi bisogni
però, oltre ad essere generalmente menzionati dopo quelli di carattere fisiologico e ad
avere una frequenza inferiore rispetto a questi ultimi, risultano anche meno declinati e
quindi meno specifici. Lo stato di benessere o di malessere del piccolo viene
generalmente legato al venire meno di condizioni in grado di soddisfare i bisogni
primari e fisiologici di quest’ultimo.
Il suo saper fare è legato soprattutto alla deambulazione, all’alimentazione e alle
espressioni gestuali. In particolar modo, nell’elenco di ciò che il bambino non sa fare,
compare prioritaria l’incapacità del piccolo di muoversi, di nutrirsi da solo, di vivere
autonomamente, sottintendendo quindi una sorta di dipendenza del piccolo dalla madre.
A conferma di ciò, alla domanda relativa alla definizione di cosa è la mamma per il
bambino, emerge l’idea di una madre che è tutto per il bambino, che costituisce il suo
unico punto di riferimento e che soprattutto si identifica per il suo essere fonte di
nutrimento. Una tale definizione lascia ben poco spazio a competenze riscontrabili nel
bambino è delinea più un rapporto di dipendenza fisiologica del piccolo dalla madre.
Inoltre nel descrivere quando e come il bambino è in grado di influenzare il
comportamento della madre, si fa riferimento esclusivamente alle situazioni nelle quali
il bambino piange, non sta bene, ha bisogno di essere allattato…Le capacità interattive
del bambino, il suo essere in grado di influenzare il comportamento altrui sembrano
essere ingenerate quasi esclusivamente da una situazione di malessere o mancanza.
34
Possiamo dire che quella tracciata nei questionari è sostanzialmente un’immagine di
bambino, che in primo luogo, risulta essere dipendente e biologico più che competente.
Con ciò non voglio oscurare le competenze riconosciute al bambino che più o meno
esplicitamente emergono dai questionari, ma semplicemente attribuire loro un ruolo di
second’ordine rispetti agli aspetti fisiologici della crescita del piccolo. Il bambino
delineato è quindi un essere che, soprattutto nei suoi primi mesi di vita, si trova in un
rapporto di forte dipendenza e che in primo luogo necessita di risposte capaci di
sopperire ai suoi più impellenti bisogni vitali. Il crearsi di questa rappresentazione da
parte della madre ha anche implicazioni sulla creazione di quella che Stern definisce
relazionalità primaria, cioè sulle forme di relazione che occupano i primi mesi e che
prevedono lo stabilirsi dei legami umani d’attaccamento, di sicurezza, d’affetto.
Difficilmente infatti si potrà parlare di relazione madre bambino improntata sulla
reciprocità dei partner interattivi riconoscendo quindi al bambino un ruolo attivo e
partecipe.
Le parole delle madri
Al fine di giungere ad ulteriori chiarificazioni in merito al mondo delle rappresentazioni
materne, mi sono avvalsa dei racconti di nove mamme alle prese con la loro prima
gravidanza. Passare attraverso i vissuti, le paure e le preoccupazioni di una donna da
poco diventata madre permette di fare luce sui contesti, le dinamiche, i luoghi e i non-
luoghi della maternità che spesso inducono la madre a creare una falsa rappresentazione
di sé. Inoltre il rappresentarsi come inadeguata, incompetente e sola, può indurla a
sviluppare un’analoga rappresentazione del proprio bambino, una rappresentazione che
privilegerà il riconoscimento della dipendenza più che della competenza.
Le interviste effettuate hanno coinvolto l’asilo nido Oibò di Almenno S.Salvatore e la
scuola materna di Comenduno di Albino dove, mensilmente, un gruppo di mamme, con
i loro figli e mariti, si incontrano. La singolarità e, a mio parere, la bellezza di
quest’ultima iniziativa scaturisce dalla sua spontaneità: lo spazio gioco di Comenduno
infatti risponde al bisogno percepito spontaneamente dalle mamme di “… far incontrare
i bambini, ma anche e soprattutto di incontrarci”. ” (Francesca, intervista II,
righe327,328).
35
Quella che segue ora è l’analisi dei dati raccolti e letti attraverso l’approccio della
Grounded Theory e pertanto si articola in tre livelli d’analisi. Le interviste, dopo
essere state trascritte, sono state analizzate attribuendo ad ogni riga un codice che
l’identificasse( codifica aperta)
Es: “… io la gravidanza l’ho vissuta benissimo, anch’io senza problemi, per dire,
solo la sensazione di avere la pancia…” (Silvia, intervista II, righe 395,396)
La prima riga è state codificata come gravidanza in quanto riporta il vissuto della
mamma in merito a questa fase. Le due sottolineature invece sono state identificate
con un altro codice: emozioni positive, dove la mamma non si limita a descrivere gli
avvenimenti successi, ma esprime chiaramente vissuti ed emozioni provate durante
il periodo della gravidanza.
Non riporto l’elenco dei 310 codici che sono stati attribuiti a ciascuna delle frasi
dell’intervista, ma procedo elencando le categorie emerse dalla codifica assiale
effettuata
1. Corsi pre parto
2. Gravidanza
3. Parto
4. Allattamento
5. Sonno
6. Dopo parto
7. Emozioni/vissuti positivi: frasi nelle quali sono riportate emozioni
positive esperite nei diversi momenti
8. Emozioni/vissuti negativi: frasi nelle quali sono riportate emozioni o esperienze
vissute negativamente e che hanno suscitato vissuti negativi (dolore, paure,
solitudine, inadeguatezza…)
9. Marito: frasi nelle quali vengono riportate oltre alle esperienze fatte con il
proprio marito, anche il ruolo che questi ha esercitato nei diversi momenti della
gravidanza e del parto, le sue idee e le sue preoccupazioni.
Frasi con riferimento ad una di queste esperienze
36
10. Famigliari: frasi nelle quali viene riportata un’esperien za vissuta con alcuni
membri appartenenti alla cerchia famigliare con particolare riferimento alla mamma
e alle sorelle delle mamme intervistate
11. Comportamento del bambino: frasi in cui viene descritto il comportamento dei
proprio neonato.
12. Ipotesi elaborate dalle mamme: frasi in cui si riportano idee ed ipotesi elaborate
per spiegare un comportamento del loro neonato
13. Senso comune: frasi nelle quali viene fatto riferimento a un patrimonio di
informazioni comunemente e diffusamente condiviso
14. Dubbi: interventi in cui vengono espressi dei dubbi
15. Sostegno: interventi in cui uno i partecipanti esprime esplicitamente sostegno nei
confronti di un altro partecipante.
16. Gruppo: frasi nelle quali l’elemento gruppo emerge quale strumento di utile
confronto
17. Soggettività: interventi in cui i partecipanti riconoscono l’unicità di ogni
situazione.
18. Tentativi: frasi in cui vengono riportati i tentativi messi in atto per risolvere
situazioni problematiche.
19. Risorse: frasi in cui si fa riferimento a proprie risorse possedute e utili per far
fronte alle situazioni
20. Esperienze indirette: frasi nelle quali vengono riportate esperienze fatte da altre
persone e di cui si è venuti a conoscenza
21. Esperti: frasi un cui si viene riportata un’esperienza fatta direttamente con
pediatra, ginecologa, ostetrica.
22. Strutture: frasi in cui vengono riportati riferimenti alle strutture ospedaliere con
le quali si sono avuti contatti diretti
23. Libri e riviste: frasi un cui viene riportato il proprio approccio a libri e riviste e il
giudizio su questi ultimi.
Le categorie, ottenute dalla codifica assiale, sono delle categorie abbastanza generali
ed hanno tra di loro una stretta relazione tanto che talvolta si implicano l’un l’altra.
Il loro carattere generale anticipa quella che è stata la tappa successiva dell’ analisi:
vale a dire una codifica selettiva e più dettagliata delle categorie individuate.
37
Ho proceduto infatti attraverso una riorganizzazione delle categorie che mi ha
permesso di distinguerle per nuclei tematici, per argomenti trasversali e per
funzioni d’intervento. Per ogni argomento trasversale e per ogni funzione viene
riportata la definizione, le categorie assiali che comprende, la sigla o il colore
utilizzati per la codifica . Inoltre credo sia fondamentale “dare corpo” a queste
categorie, riportando alcune delle frasi emerse all’interno delle interviste.
Nuclei argomentativi
Sono nuclei attorno ai quali la conversazione si sviluppa. Come già evidenziato
nella fase precedente della codifica, i principali nuclei tematici sono:
1. Contenuti dei Corsi pre parto(colore cod. azzurro)
Es. “…sì, avevo seguito un corso pre-parto a Bergamo…,” “hanno descritto il
parto come una cosa traumatica, dolorosa, che solo le donne possono capire”
(Marta, I intervista, riga30).
2. Gravidanza(colore cod. rosa)
“…in gravidanza , ogni momento è stato vissuto benissimo, rilassata…”
(mamma1, III intervista, righe 375,376).
3. Parto(colore cod. giallo)
Es. “…durante il parto pensavo ancora un attimo, un po’ di pazienza, adesso è
finita così la butto fuori e non ne parlo più…” (Mart a, I intervista, righe 12,13)
4. Allattamento (colore cod. rosso)
Es. “…io non sono riuscita ad allattare…” (Silvia, II intervista, riga 342).
“…lo allattavo a richiesta, quando lui chiedeva…” (mamma 3,III intervista, riga
613).
5. Dopo parto(colore cod. verde)
“…questa difficoltà che si incontra dopo il parto… è un momento di crollo
generale e ti senti di una fragilità tale…(Francesca, III intervista, righe 225,230)
Argomenti trasversali
All’interno delle interviste posso inoltre essere individuati degl i argomenti ricorrenti
in maniera trasversale nelle parole della mamme:
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6. Gli Altri “vicini”: frasi in cui viene riportata un’esperienza fatta con o dal papà,
con la mamma, con fratelli e amici. (categorie assiali: 9,10). (cod. A.v.).
“…mia mamma non mi ha mai lasciato…se ho allattato io lo devo a lei ”
(Francesca, II intervista, righe 281,282 ).
7. Gli Altri “lontani”: frasi in cui viene riportata un’esperienza fatta con esperti, o
attraverso le quali vengono riportate esperienze indirette o convinzioni appartenenti
al senso comune. (categorie assiali:13,20,21). (cod. A.l.).
Es. “…so di una ragazza seguita da lui…” (Mamma2, III intervista, riga589).
8. Il gruppo: frasi in cui emerge il valore positivo attribuito all’incontro e al
confronto all’interno di gruppi di donne che condividono medesime esperienze.
(cod.G.)
Es. “…serve come confronto con le altre coppie…” (Francesca,II intervista, riga
).
9. Soggettività: interventi in cui viene riconosciuta l’unicità della propria
situazione e della propria esperienza. (cod. Sogg)
Es. “…Io invece ho avuto una reazione opposta…sarò l’unica mamma che dirà
queste cose…” (Marta, I intervista, riga35 e 90 ).
10. Comportamento dei neonati: frasi in cui sono descritti i comportamenti dei
neonati. (cod. C.N.)
Es. “…ogni tanto voleva a ttaccarsi…” (mamma3, III intervista, riga 615)
11. Risorse: frasi in cui si riconosce in un comportamento o in una situazione, un
aspetto positivo/facilitante.. (cod. Ris)
Es. “…viene una cosa talmente naturale che sembra che sei mamma da una vita…”
(Mamma1, III intervista, riga 369)
12. Sostegni esterni: frasi in cui si attribuisce un giudizio a fonti
d’informazione(riviste/libri) e a delle strutture (Ospedale) con le quale si hanno
avuto contatti. (categorie assiali:22,23). (cod.S.e.)
Es. “…son tutte cose che ti riempiono la testa, ma che alla fine è meglio non
leggere…” (Veronica, II intervista, riga 288 )
13. Tentativi fatti: frasi in cui vengono riportati i tentativi messi in atto per
risolvere una situazione problematica. (cod. T.F.)
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Es. “…ho passato gran parte delle notti insonne finché l’ho messo nel lettone,
perché era impossibile alzarsi …” (Mamma3, III intervista, riga614 ).
14. Vissuti: frasi in cui i partecipanti riportano vissuti. (categorie assiali:7,8) (cod.
Viss)
“…mi ricordo che la cosa più forte che ho provato nel guardarlo è stato un senso
di responsabilità e preoccupazione nel senso che nel vedere questa creatura che
adesso dipende completamente da te mi spaventava tantissimo…”. (Rosaria, II
intervista,righe160-162 )
Funzioni
Modalità linguistiche che sono sottese ai contenuti espressi verbalmente, ma che
arricchiscono gli stessi, definendo la pragmatica della comunicazione. Esse sono:
15. Ipotesi: frasi in cui vengono riportate idee ed ipotesi elaborate per spiegare un
comportamento del loro neonato. (cod. Hp)
Es. “…sicuramente non era solo per mangiare, probabilmente voleva anche il
contatto...” (mamma3, III intervista, riga 615-616 ).
16. Tesi e spiegazioni: frasi in cui vengono riportate le convinzioni su cosa va fatto
e cosa non va fatto. (cod. Th)
Es. “ …al meno nei primi tre mesi il bambino va con la mamma…” (mamma2, III
intervista, riga 431 ).
17. Sostegno: interventi in cui viene espresso esplicitamente sostegno nei confronti
di un altro partecipante. (cod. Sost)
Es. “…e poi mi sono ritrovata in lei(Rosaria)qu ando diceva di questa difficoltà che
si incontra dopo il parto…” (Francesca, II incontro, righe 224-225 ).
18. Dubbio: interventi in cui emerge un dubbio. (cod. Dub)
Es. “…leggevi, e tutto quello che sentivi, leggevi e dicevi, ma…mi sembra quello
che sento io adesso, ma andrà bene, non andrà bene …” (Veronica, II incontro,
righe 286-287 ).
Attraverso questi tre livelli di codifica ho quindi elaborato e selezionato
progressivamente categorie più mirate e finalizzate ad indagare l’effettiva esistenza di
fattori che influiscano negativamente sulle rappresentazioni che la mamma elabora del
proprio bambino. Ovviamente i risultati ottenuti non hanno l’attendibilità di dati
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quantitativi facilmente verificabili, ma sono frutto di interpretazioni, di letture che
tuttavia hanno sempre cercato di rimanere fedeli a quando espresso dalle parole delle
mamme intervistate. Dopo aver illustrato quali sono stati i criteri d’analisi e le modalità
di codifica delle interviste raccolte, procedo ora esponendo i risultati ottenuti.
Interessante sarà vedere come, le parole pronunciate dalle madri, costituiscono
interessanti chiavi di lettura e strumenti di chiarificazione.
Rappresentazioni di sé
… durante la gravidanza
L’immagine che la madre sviluppa di sé è soggetta a modificazioni d urante il periodo
della gravidanza, del parto e della fase successiva. Infatti la maggior parte delle donne
intervistate descrive(salvo nei casi in cui si sono verificate complicazioni) il periodo
dell’attesa e quindi quello della gravidanza attraverso emo zioni positive
Emerge quindi uno stato di benessere alimentato dalle gioie dell’attesa. In questo
scenario si collocano anche una serie di elementi esterni che esercitano un’azione non
indifferente sulla creazione delle rappresentazioni della mamma, come ad esempio i
corsi pre parto che tutte le mamme, da me intervistate, hanno frequentato. Molte sono le
aspettative che le giovani mamme hanno nei confronti di questi corsi; Francesca,
parlando di essi dirà: “ mi servirà, mi dicono come andranno le cose…” in realtà il più
delle volte queste aspettative sono violate e non sono soddisfatte. Spesso le mamme
fanno riferimento ai limiti, alla dimensione prettamente teorica dei corsi, e al divario
constatato direttamente tra teoria e pratica La cosa che forse desta maggior interesse e
che risulta “ …una cosa abbastanza condivisa è la poca attenzione al prepararti dopo il
parto… ” (Rosaria, II intervista, righe 337). Quindi vi sono evidenti critiche non tanto
nei contenuti affrontati, quanto nel loro limitarsi ad un numero di tematiche ridotto.
Altro aspetto a mio parere interessante è l’idea di parto che viene proposta all’interno di
questi corsi, Marta ricorda che il parto le è stato descritto “… come un’esperienza
traumatica, dolorosa… ” e a quelle parole la sua reazi one è stata “.. ma sarà veramente
così doloroso? (Marta, I intervista, righe 50)
Sulla naturale rappresentazione che la madre costruisce di sé e quindi su tutto quel
complesso di modificazioni che D. Stern definisce Costellazione materna, agiscono i
contenuti trasmessi all’interno di questi corsi, ma non solo. Come già detto, fattori
altrettanto incidenti, sono le riviste e i libri consultati durante il periodo della
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gravidanza. In merito all’utilità di questi ultimi, vi sono diversi pareri: tutte le mamme
raccontano di aver letto riviste o libri sebbene diverse siano stati i giudizi attribuiti a
queste letture. C’è chi parla di strumenti per far passare il tempo di attesa e chi li
definisce come elementi che ingenerano ulteriori dubbi, perplessità e incertezze “…a me
era capitato di leggere dei libri…questa cosa mi metteva ancora più angoscia… ”
(Francesca, II intervista, righe 266,269). Oppure Veronica si sente confusa dai messaggi
contrastanti offerti dai diversi articoli tanto da giungere ad affermare. “… son tutte cose
che ti riempiono la testa, ma che alla fine è meglio non leggere…” (Veronica, II
intervista, riga 288).
Oltre a ciò, non dobbiamo dimenticare il ruolo importante che rivestono i modelli di
riferimento contemplati all’interno del proprio amb ito famigliare o della cerchia delle
amicizie. Il sapere di esperienze vissute da altri costituisce un fattore rassicurante per la
futura mamma. Possiamo dunque dire che la rappresentazione sviluppata dalla madre
durante la gravidanza, è una rappresentazione tutto sommato di una mamma
competente, che vive naturalmente la propria gravidanza, senza troppe preoccupazioni e
paure. Questa naturalità talvolta è turbata e messa in discussione dall’esperienza che le
donne fanno con i media e durante i corsi pre parto.
… durante il parto
L’esperienza del parto è stata raccontata alle mamme centralizzando l’attenzione sul
dolore di quei momenti, dolore vissuto attimo per attimo e dove la percezione della
dimensione temporale viene alterata tanto da avere una dilatazione temporale. Le parole
di Rosaria sono esemplificative di ciò “… sembrava non arrivasse mai la fine, che fosse
lunghissimo che stessi soffrendo tantissimo” (Rosaria, II intervista, righe146,147)
Durante queste fasi il desiderio che tutto finisca è presente nelle mamme
“… pensavo…ancora un attimo, un po’ di pazienza, adesso è finita…” (Marta, I
intervista, riga 12). Il racconto del dolore del parto scivola poi subito sulla gioia e
incredulità data dal primo incontro con il proprio piccolo; la stessa Marta descriverà
questo momento così “magico” con “…pianto, pianto, un’incredulità, una tenerezza…
tenere in mano quel frugoletto…bellissimo”(righe14,15 ). Emozioni e ricordi che
rimangono, nelle menti delle mamme, più vivi del dolore provato in quei momenti. Ma
la fase, a mio parere più interessante per indagare le rappresentazione che la madre
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sviluppa di sé e quindi di riflesso del suo bambino, è quella relativa alla fase successiva
al parto.
… dopo il parto
La rappresentazione di sé, che la maggior parte delle donne intervistate sviluppa nella
fase successiva al parto,è caratterizzata da sentimenti di inadeguatezza, di mancata
fiducia in sé stesse e di impotenza di fronte a situazioni nuove, non preventivate. Il
bambino ideale che occupava i loro pensieri nella fase della gravidanza, lascia spazio ad
un bambino reale, un bambino che soprattutto nei primi mesi di vita, ha innumerevoli
bisogni ed esigenze. Questa inadeguatezza è esperita dalle donne con diverse sfumature:
Rosaria descrive questa fase come densa di “…tensioni e preoccupazioni, perché in
effetti, superato quel momento, specialmente quando arrivi a casa, ti trovi un po’ sola,
abbandonata, inesperta impreparata…ti porta ad essere molto sensibile, a cadere in
effetti in qualche momento di depressione…” (Rosaria, II intervista, righe
157,158.166,167). Francesca confermerà quanto sostenuto dall’amica Rosaria
descrivendo quella situazione di fragilità sperimentata dopo il parto “… mi sono
ritrovata in lei…quando diceva di questa difficoltà che si incontra dop o il parto…c’è un
momento di crollo generale e ti senti di una fragilità tale, quasi da dire sono impotente,
non riesco ad affrontare la realtà di questo bambino…” (Francesca, II intervista
righe224,225 e 229-231 ). Altre mamme concentrano le loro inadeguatezze più su
questioni di ordine pratico, sul cosa fare quando il piccolo piange, sulle difficoltà
dell’allattamento, o sulle difficoltà legate alla cura del piccolo
Nell’analizzare queste questioni, vorrei soffermarmi sulle strategie messe in atto dalle
mamme per far fronte a questa percezione della propria inadeguatezza.
Ho potuto constatare come, nella maggior parte dei casi, le mamme sebbene si siano
sentite inadeguate, raccontano di aver avuto la fortuna di non essersi sentite sole.
L’ambiente famigl iare, i legami affettivi, l’esperienza diretta degli altri a loro vicini,
funge da elemento riparatore di queste situazioni di crisi e di inadeguatezza. È il caso ad
esempio di Francesca che descrive il suo sentirsi inadeguata, ma non sola:
Francesca: inadeguata sì, da sola grazie a Dio no, perché vabè io non avevo sorelle ero abbastanza vicino a lei(Rosaria). Ma mia mamma non mi ha mai lasciato. Devo dire che mia mamma in quei mesi è stata… Veronica: una mamma Francesca: sì, sia per l’allattamento che non è stato facile e se ho allattato io lo devo a lei (Francesca, II intervista righe 276-281)
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È importante riflettere sulla figura dalla madre della neo madre, la quale riveste un ruolo
fondamentale in quella che Stern definisce la Trilogia materna. Infatti con la nascita del
piccolo si viene a creare una nuova triade psichica che prevede madre della madre,
madre e bambino. Gli interessi della neo mamma sono infatti rivolti a sua madre in
quanto madre di lei bambina e ciò è stato più volte confermato dalle parole delle
mamme intervistate, le quali fanno spesso riferimento all’aiuto e al ruolo rivestito dalla
propria madre soprattutto nel periodo successivo al parto. La propria madre spesso
sopperisce a quel bisogno di conferme e di fiducia in se stesse di cui le neo mamme
hanno bisogno.
Anche la vicinanza degli altri (marito, amici…) costituisce un fattore d eterminante per
far fronte alle situazioni destabilizzanti che fanno seguito al parto. La risposta
all’inadeguatezza sembra essere l’appello alla naturalità, all’esperienza diretta, ai
racconti fatti dagli altri “significativi” le cui parole risultano più efficaci e penetranti di
quelle fornite da specialisti e riviste. Paradossalmente anche le parole di Marta,
educatrice e mamma, la quale sostiene di non aver percepito questo senso di
inadeguatezza, giunge come conferma a quanto sopra esposto. Ella infatti ha impedito
che questo senso d’inadeguatezza avesse modo di insinuarsi nella sua esperienza di
madre, attingendo dalla sua diretta e quotidiana esperienza con i piccoli bimbi dell’asilo
nido Oibò presso il quale lavora. È attingendo da questo patrimonio personale che
Marta, alla domanda: hai provato un senso d’inadeguatezza dopo il parto, risponderà:
“ no, ti spiego, perché io lavoro con i bimbi” (Marta,I intervista, riga 81 ).
È spesso questo senso di inadeguatezza, non opportunamente ridimensionato,
supportato e relativizzato, che si annida nei pensieri di una mamma ad indurla a
misconoscere le proprie competenze e a soffermarsi prioritariamente sui bisogni
fisiologici del piccolo più che sulle sue competenze.
La mancanza di un sostegno valido e reale, l’assenza di confronto, il venir meno di
quella che Stern definisce la “ matrice di supporto”, vale a dire la presenza di altri
significativi che sostengano la mamma, l’appoggino, la valorizzino, l’apprezzino, la
consiglino, l’assenza quindi di una rete prot ettiva e benevola, pongono la mamma in
balia di queste forze che alterano il suo percepirsi competente.
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Questo bisogno di conferme, di scambio, di incontro, sentito dalla mamma, affinché il
suo, forse in parte, naturale sentirsi inizialmente incompetente non sia rafforzato e
patologizzato dal sentirsi anche sola, necessità di risposte adeguate.
Credo sia importante creare una rete di supporto alla maternità e alla genitorialità che
abbia come finalità non tanto e non solo quella di fornire conoscenza, ma che proceda
nel riconoscere, confermare, sostenere le competenze già insite nella madre e nel suo
piccolo. Spesso le neomamme hanno semplicemente bisogno di qualcuno che sappia
donare loro un gesto d’approvazione al loro agire, una parola di conferma che s ia da
risposta ai loro dubbi e, come dice Rosaria, di “… una mano solo per dirmi stai
tranquilla se piange, o prendilo su, lascialo giù, non ti agitare… ” .
Un sostegno, un incoraggiamento, delle conferme…possono fungere da elementi
riparatori ed evitare l’i ngenerarsi di quelle forme di depressione che tante volte
colpiscono le donne dopo il parto.
Credo che la madre abbia semplicemente bisogno si essere rassicurata in ciò che, in
maniera del tutto naturale e competente, sa già fare.
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I LUOGHI DELLA NASCITA
Igea incontra neonati e genitori
di Paride Braibanti, Eleonora Baroni, Maria Luisa Invernizzi, Teresa
Pandolfo
Lenzuola bianche in un armadio
Lenzuola rosse in un letto
Un figlio in una madre
La madre nei dolori
Il padre davanti alla stanza
La stanza nella casa
La casa nella città
La città nella notte
La morte in un grido
E il figlio nella vita.
J. Prévert – “Primo giorno”
La descrizione di una nascita: c’è il bianco delle lenzuola pulite ed il rosso del sangue,
ci sono il dolore, le grida, la vita e la morte, ci sono un figlio, una madre ed un padre…e
tutto questo dove si svolge? In un letto, in una stanza, in una casa, in una città, in una
notte…questi i luoghi della nascita raccontati da Jacques Prévert a metà del ‘900.
Prima di iniziare a riflettere sui luoghi della nascita ci sembra rilevante definire la
direzione e l’ampiezza del nostro sguardo.
Qual è il momento della nascita di un individuo?
Si può dire che un bambino esiste molto tempo prima del suo concepimento, esiste già
nelle rappresentazioni (Ammaniti e Stern, 1991 e Stern 1995) che i futuri genitori
iniziano a costruirsi durante la propria infanzia, da un altro punto di vista la nascita
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psicologica di un individuo viene collocata tra i 18 e i 24 mesi (Mahler, 1975)
parallelamente all’avvento del linguaggio.
Consapevoli della necessità di contestualizzare sempre la comprensione dei processi di
salutogenesi o patogenesi all’interno di una prospettiva temporale che abbracci l’intero
arco della vita e di una visione sistemica dello sviluppo della vita e degli individui,
crediamo che sia necessario non disgiungere lo sviluppo del genitore dallo sviluppo del
neonato, ma che possa essere proficuo considerarli come partner reciproci in un
processo evolutivo continuo. Per trattare esaurientemente la questione probabilmente ci
sarebbe bisogno di un trattato di psicologia del ciclo di vita, obiettivo che va ben oltre
gli scopi di questo scritto. Tuttavia, nelle pagine che seguono, non ci limiteremo a
considerare il momento del parto, ma ci occuperemo del periodo che va dall’inizio della
gravidanza ai primi mesi di vita del neonato seguendo la suddivisione proposta da
Lorenzo Braibanti (1980; 1993) di questo arco temporale in endogestazione,
nascita/parto, esogestazione.
Un secondo chiarimento necessario riguarda la scelta dei luoghi. Perché occuparsi dei
luoghi? Ognuno sa per esperienza quanto il luogo in cui si trova può influenzare il
vissuto interiore. Pensiamo alle case e all’abitare:
“Gli architetti più avveduti cons iderano la progettazione come un processo che richiede
una interazione molto significativa con le persone che dovranno "abitare" il manufatto
che intendono costruire. La determinazione formale (che rappresenta uno sforzo di
oggettivazione delle condizioni dell'abitare) è successiva e secondaria rispetto alla
determinazioni soggettive per cui una persona o un gruppo sociale investe sui propri
significati entro un contesto più ampio. L'abitare nella città, sulle montagne o sulle
sponde del mare, tra gente ricca o di fronte alla povertà circoscrivono modi diversi in
cui le persone impegnano e trascorrono il proprio "essere nel mondo". Così la casa, la
città finisce per raccontare (o nell'anticipare) la soggettività di chi la abita, il suo "star
bene" e il modo di interpretarlo nelle dimensioni del quotidiano. L'abitare è, dunque,
una dimensione che riguarda il soggetto e le relazioni intersoggettive (…) che possono
trovare una descrizione, ma non una spiegazione, nelle oggettivazioni formali
architettoniche(…)I nsomma, l'abitare è un concetto che implica la presenza di un
soggetto che abita. Altrimenti è solo "abitabilità", costruzione di gusci vuoti che
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possono ospitare una forma di vita, ma non sentirla e, soprattutto, non comprenderla.”
(Paride Braibanti, e-mail ad Eleonora Baroni del 25/04/2001).
Se il luogo durante la vita quotidiana è fondamentale, possiamo immaginare quanto la
sua rilevanza aumenti in momenti di forte cambiamento e transizione, come il momento
della transizione alla genitorialità. E’ plausi bile ipotizzare che i luoghi della nascita
possano interagire con le direzioni di sviluppo di neogenitori e neonati. Spesso però
questo aspetto viene trascurato, non considerato e quando lo si considera sono le
necessità (almeno quelle che vengono presentate come necessità) legate alla tecnica
medica ad essere privilegiate e non i bisogni dei protagonisti dell’evento…nei paragrafi
successivi, tratteggeremo la situazione attuale presente in Italia, in relazione alla nascita
e successivamente proveremo a delineare alcune proposte di Igea volte ad agire
prevalentemente sul contesto.
Torniamo a Prévert. Dai tempi della poesia sono passati poco più di 50 anni, ma il
panorama e la “geografia” della nascita si sono completamente trasformati: da una
dimensione domestica, familiare è avvenuto un spostamento in consultori, ambulatori,
studi medici ed ospedali.
L’inizio della gravidanza è sancito con un atto medico (sia esso il test da fare a casa o le
analisi del sangue in laboratorio) ed i nove mesi sono scanditi da visite ginecologiche,
analisi cliniche a ritmi veramente sostenuti…al settimo mese, arriva in genere il
consiglio da parte del medico di frequentare anche un corso di preparazione al parto,
secondo una tabella di marcia organizzata e prestabilita…e al mome nto del parto c’è la
corsa all’ospedale, il ricovero della mamma, il monitoraggio del battito fetale, il lettino
ginecologico, l’ostetrica, il ginecologo, l’infermiere, l’anestesista…magari il
neonatologo…il padre a volte c’è, ma è alle spalle della mamma trasformato per
l’occasione in un membro dello staff con l’abbigliamento sterile ad avvolgerlo, tutto è
sterile al momento della nascita…
E’ dubbio che lo spostamento della gravidanza e del parto in ambiente medico e lo
sviluppo di tecniche diagnostiche e di intervento sempre più avanzate abbiano
parzialmente contribuito alla riduzione della mortalità materna ed infantile, alla
possibilità di sopravvivenza per neonati immaturi e la medicalizzazione della nascita ha
determinato un accentramento del potere nelle mani del medico, dell’ostetrica,
dell’infermiere, del tecnico di laboratorio…che posti di fronte a risultati di analisi,
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ecografie e amniocentesi sanno emettere verdetti sulla normalità o meno dell’evoluzione
della gravidanza e del parto.
E in tutto questo dove sono le mamme, i papà ed anche i neonati? Come fanno a pensare
e a credere che la natura ha designato proprio loro come protagonisti di questo processo
che determina l’inizio della vita?
Luoghi e non luoghi dell’Endogestazione
Durante la gravidanza una nuova normalità si manifesta sul piano fisiologico ma anche
negli aspetti psicologici, comportamentali e nel contesto sociale. Molte modificazioni
psicofisiologiche sono destinate a rimodellare l'orientamento psicologico della donna,
oltre che il suo corredo endocrinologico, verso la relazione col bambino. Anche se non
ci sono studi sperimentali conclusivi in proposito, sembra che possano essere lette in
questa direzione, ad esempio, le modificazioni della percezione della temporalità, verso
la fine della gravidanza. Sembra che questa nuova “normalità” consenta, insomma, alla
madre, durante la gravidanza, di rimodellare il proprio atteggiamento in modo da
renderlo pienamente adatto alla funzione di "specchio espressivo" nelle prime relazioni
sociali.
Anche per questo, i percorsi che conducono dal concepimento alla nascita sono
contrassegnati da una serie di vicissitudini e cambiamenti nell’ordine non solo
psicobiologico ma anche psicosociale e culturale. Questi cambiamenti accompagnano e
contrassegnano il passaggio verso la costruzione di una rappresentazione della maternità
e della genitorialità, che affianca, integra o riorganizza la percezione di sé e delle
relazioni sociali dei coniugi. Anche se ciò è vero per entrambi i futuri genitori, questo
cambiamento è più evidente per la donna.
Volendo schematizzare, si può dire che i luoghi dell’endogestazione sono
essenzialmente tre:
- Innanzitutto, per il feto, l’utero materno e l’ambiente uterino, e più in generale
l’unità mente -corpo della gestante. Un ambiente dinamico e protagonista attivo di
cambiamenti complessi, con cui il feto, attraverso i propri repertori comportamentali e
psicologici nascenti, acquista crescente consapevolezza e confidenza.
- In secondo luogo, la casa, il luogo dell’incontro, della crescita e della ri-
costruzione dell’esperienza genitoriale tra i coniugi, costruendo nelle consuetudini
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quotidiane, nei discorsi e nelle rappresentazioni, un cammino di curiosità, incertezza,
condivisione, cambiamento
- In terzo luogo, per la gestante, i luoghi dello scambio e dell’incontro con altre
donne, che la accompagnano e le sono prossime nell’esperienza di cambiamento
condividendola nei discorsi (le altre gestanti, le compagne) o che le stanno di fronte
(ostare, da cui ostetrica) e l’attendon o, prendendosi cura e, di nuovo, discorrendo e
ascoltando fino al momento del parto e della nascita del bambino.
Si può dire che questi “luoghi” costituiscano il quadro di riferimento per una ecologia
globale della gravidanza, e della nascita, a cui, però, si contrappongono sempre più
fermamente i non-luoghi della medicalizzazione. Questo spaesamento
dell’endogestazione, certo, non è privo di conseguenze psicologiche e costruisce una
traiettoria in cui i protagonisti della nascita troveranno crescenti difficoltà nella
costruzione della propria salute.
Il primo non-luogo che accoglie la donna ed in cui la sua maternità viene sancita è lo
studio del ginecologo, talvolta all’interno del consultorio del Dipartimento Materno
Infantile del SSN. I consultori sono “servizi di assistenza alla famiglia e di educazione
alla maternità e paternità responsabili, rivolti alla salute della donna nelle varie fasi della
vita, ai problemi dell'infanzia e dell’adolescenza. Esistono 2.600 consultori di cui 2.300
circa sono stati istituiti dalle Regioni e 300 sono "liberi". Svolgono consulenze sulla vita
sessuale e sulla contraccezione al singolo e alla coppia, visite ginecologiche, pap-test,
corsi di preparazione al parto, assistenza alla gravidanza, certificazione I.V.G.
(Interruzione Volontaria della Gravidanza) e consulenze psicologiche. (…) I consultori
sono poco noti e poco frequentati. Quelli pubblici sono dipendenti dalle ASL ed ai cui
servizi il cittadino può accedere gratuitamente e senza alcuna richiesta del medico di
famiglia.” (Bello, 2003).
In effetti è molto più frequente che la comunicazione di una gravidanza venga effettuata
in uno studio privato. In entrambi i casi sarà sempre un ginecologo a dare la notizia,
preceduto forse soltanto dall’esito del test di gravida nza acquistato in farmacia. Le
differenze nei luoghi possono a volte essere sorprendenti: dai muri con le crepe,
tinteggiati da almeno 10 anni, luci al neon e sedie da di paglia che caratterizzano alcuni
consultori, si passa a muri colorati con tinte calde, luci alogene e poltroncine in molti
studi privati. Il luogo è rilevante, ma spesso è ancor più rilevante lo spazio psicologico
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in cui si è accolti e quindi la competenza del ginecologo. Le differenze di arredamento,
di collocazione e di ambientazione non riescono certo a far perdere all’ambulatorio il
sapore e la fisionomia di un non-luogo
Sia nel pubblico che nel privato è possibile incontrare ginecologi preparatissimi alla
comunicazione della gravidanza, alla spiegazione delle trasformazioni anatomiche e
fisiologiche che avverranno nel corso dei nove mesi, ma pochi risultano altrettanto
competenti nel fronteggiare gli aspetti emotivi e psicologici indissolubilmente legati alla
gravidanza, quelli che sono in grado di farlo, devono questa competenza ad esperienze
personali più che alla formazione professionale. Come ci riferiva una ginecologa
romana “a noi mancano proprio gli strumenti…sappiamo che c’è bisogno di
qualcos’altro, ma non sappiamo proprio da dove cominciare!!!”. Naturalmente è dubbio
che si tratti di una questione di “strumenti”, quanto piuttosto di una questione di
incontro con una fenomenologia, con una sensibilità, con una capacità di ascolto,
dialogo attenzione alla complessità relazionale ed emozionale che anche il medico deve
imparare a riconoscere come parte del proprio setting professionale. Ma allora va forse
messa in discussione e riconsiderata la configurazione dei contesti e delle pratiche
sociali dell’accompagnamento sanitario dell’endogestazione.
Uscendo dallo studio del ginecologo i genitori si trovano con un lungo elenco di analisi
e di accertamenti da fare, secondo un calendario ben definito, ma rimangono con mille
dubbi ed incertezze su quello che sta per accadere, spesso si attivano e si rivolgono al
contesto sociale di appartenenza (parenti, amici) o ad esperti (i medici in carne ed ossa o
virtuali , i manuali per la genitorialità, le riviste dedicate al tema), ma non troveranno,
tranne rare eccezioni un luogo dedicato ai nove mesi in cui poter incontrare altre
persone che stanno vivendo la stessa esperienza e condividere e scambiare con loro
emozioni, impressioni e sensazioni. Anche in seguito quando si recheranno presso
ambulatori ed ospedali per svolgere gli esami prescritti incontreranno figure
professionali tecnicamente preparate e pronte a fornire spiegazioni sugli esiti degli
esami con un linguaggio in genere a loro incomprensibile, ma che comunque raramente
terranno in considerazione gli aspetti psicologici della questione.
Il luogo d’incontro e di scambio spesso viene “ prescritto” a partire dal 6°/7° mese di
gravidanza. All’interno della tabella di marcia di una gravidanza normale viene proposta
la partecipazione a gruppi comunemente noti come corsi di preparazione al parto.
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Preferiamo la tendenza attuale a definirli gruppi di preparazione alla nascita che da un
lato elimina la dicitura corsi che sottintende la possibilità che si possa imparare a
partorire e a diventare genitori, e che, dall’altro lato, allarga un po’ lo sguardo oltre
l’evento parto, evento rilevante e cr uciale, ma decisamente limitato rispetto all’intero
percorso endogestazione-parto-esogestazione.
Benché, come indicato sopra, le donne preferiscano essere seguite privatamente dal
proprio ginecologo, i luoghi della preparazione alla nascita sono quelli pubblici del
Servizio Sanitario Nazionale, prevalentemente consultori oppure ospedali in cui
vengono formati gruppi di genitori che sono accompagnati a partire dal 6°/7° mese di
gravidanza fino al momento del parto e in alcune occasioni anche per i primi mesi di
vita del neonato . Questi gruppi sono in genere condotti dalle ostetriche e dagli psicologi
a cui si affiancano di volta in volta vari “esperti” ginecologi, neonatologi, pediatri che
espongono nozioni teoriche sull’andamento della gravidanza, sullo svi luppo del feto,
sugli aspetti del parto. Oltre a questo vengono proposte tecniche di rilassamento (tipo
RAT – Training Autogeno Respiratorio, cfr. Piscicelli, 1970) volte a controllare il
dolore del parto. Sulla questione del dolore durante il parto e del significato di un suo
possibile controllo, torneremo nei paragrafi successivi.
Lo sguardo di Igea ai luoghi dell’Endogestazione
Lo studio di un ginecologo, l’ambulatorio e la stanza di un ospedale, sono luoghi che
forse soddisfano criteri di funzionalità ed igiene necessari per l’espletazione delle
operazioni mediche. Ma siamo sicuri che la gravidanza sia leggibile prevalentemente
come una questione appartenente al dominio bio-medico? Siamo sicuri che le gestanti
che si presentano a visite ed esami diagnostici necessitino delle stesse condizioni offerte
agli altri pazienti? E tra l’altro siamo sicuri che tutti i pazienti abbiano bisogno
esclusivamente di queste condizioni? Ma poi soprattutto siamo sicuri che la gravidanza
vada affrontata come una malattia?
“Qualche mese fa, una donna che è diventata madre per la prima volta ha raccontato un
episodio relativo al primo controllo di routine effettuato all’interno di un ospedale
romano durante la gravidanza. Mentre lei si stava spogliando prima di sdraiarsi sul
lettino del ginecologo ed esitava, vista l’esposizione del lettino vicina alla porta
(continuamente aperta e chiusa), un’infermiera, sicuramente con buone intenzioni, ha
provato ad incoraggiarla dicendole: “A signò’, mica se vergognerà…da adesso in poi sa
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a quanti la dovrà far vedere?!”. La reazione della donna è stata quella di sentirsi piccola,
piccola e di obbedire immediatamente all’invito ad accelerare l’operazione.”
L’episodio lascia un notevole senso di disorientamento ed è emblematico
dell’atteggiam ento diffuso verso le gestanti (verso i papà la situazione è ancora
peggiore, verso di loro non si pensa proprio di dover sviluppare un atteggiamento…ma
anche di questo parleremo più avanti). La donna non viene accolta né tutelata, il basilare
diritto alla riservatezza viene negato e le viene ingiunto di fare delle cose e di farle
velocemente…come potrà mai una donna trattata in questo modo credere di essere
esperta e competente nell’essere madre?
I non-luoghi dell’endogestazione, sono come abbiamo detto de i luoghi medici e come
tali riflettono la posizione e l’atteggiamento medico volto a porre l’altro in una
posizione passiva, paziente, compatibile con l’ottimizzazione tecnica delle prassi
mediche.
L’ambiente fisico riflette inevitabilmente i presupposti e le rappresentazioni di chi ci
lavora, ma ancora di più di chi lo ha pensato e progettato. E gli ambienti della
medicalizzazione della gravidanza, lungi dall’essere luoghi in cui i neogenitori possono
essere sostenuti nell’attesa e nella preparazione all’a ccoglienza del neonato, sono invece
luoghi in cui i genitori vengono passivizzati, depotenziati e privati dell’importanza del
loro ruolo.
Per raggiungere una trasformazione dei luoghi medici sarebbe necessario prima
sostenere una trasformazione della mentalità e dell’atteggiamento dei medici.
Un’operazione di questo tipo è sicuramente ardita e complessa, comporterebbe
un’intenzione forte ed un’azione congiunta dei diversi soggetti politici, professionali e
sociali.
Relativamente a quest’area critica, lo sg uardo di Igea sembra volgersi verso un
orizzonte complesso che include professionisti e contesti dell’endogestazione.
Si potrebbero proporre ai professionisti (medici, ostetriche, psicologi…) che sono
attualmente coinvolti nei percorsi medico-assistenziali della gravidanza e del parto
incontri di gruppo finalizzati al confronto critico e alla riflessività sulla propria
esperienza professionale alla luce delle tematiche dell’umanizzazione dell’assistenza
medica, nello specifico dell’assistenza alla gravidanza. La riflessione dovrebbe insistere
specificamente sul posizionamento dell’esperienza professionale a servizio dei
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protagonisti della gestazione e della nascita, possibilmente nei luoghi che sono loro
propri, cioè il luogo dell’incontro con l’altro, la casa e la quotidianità densa di
significati e rappresentazioni.
Uscire in modo risoluto e definitivo dagli itinerari di “addestramento” della gestante,
spesso concentrati nei non-luoghi della cosiddetta “preparazione al parto”.
- Accrescere la fiducia
- Accogliere l’ostilità e il conflitto tra odio e amore per aiutare ad affrontare le
insicurezze, più con l’ascolto che con la semplice informazione, sapendo che
l’iperprotettività e l’aggressività nascono entrambe dall’insicurezza
- Orientare la riflessione dei genitori sulla nascita (e sul parto) verso il
decondizionamento e il superamento di credenze inappropriate sulla gravidanza, il
parto, il neonato
- Preparare allo sviluppo del legame col bambino
- Sostenere e promuovere l’allattamento fin dalla preparazione al parto
Un operatore attento e disponibile ai bisogni della donna e consapevole della
complessità dinamica e della unità della gravidanza, del parto, della nascita è in grado di
andare al di là della tecnica di preparazione al parto e di assegnarle una posizione
secondaria e strumentale, anche se importante. Egli scoprirà da sé quali adattamenti
sono necessari e quale tecnica di rilassamento è più adatta. L'importante è che si ponga
nella posizione giusta di fronte alla donna, consapevole che da questo dipende almeno
in parte l'esito del parto. Un operatore di questo tipo saprà anche comprendere la
rilevanza dei luoghi e sarà anche più incline a tentare delle modificazioni per renderli
più adatti al complesso processo in atto.
L’operatore si farà dunque “ostetrica”, si porrà in tal modo in una posizione di
accadimento accogliente e maieutico (altro termine derivato dall’arte ostetrica),
dialogico con i genitori, rispettoso del percorso di costruzione della genitorialità e di
cambiamento nel corpo, nella mente e nelle relazioni che caratterizza l’endogestazione.
E’ dunque nello sviluppo di percorsi di sostegno alla geni torialità che andrebbe
collocata questa diversa attenzione. E’ in questo senso che si potrebbe sperimentare la
collocazione dei gruppi di incontro dei nuovi genitori in un contesto diverso da quello
sanitario. Ad esempio, almeno in via transitoria, si potrebbero esperimentare i luoghi già
orientati al sostegno allo sviluppo come potrebbe essere l’Asilo Nido e, ancor di più, la
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gamma differenziata di servizi per l’infanzia che in molte parti d’Italia si stanno
sviluppando. Attualmente è in corso un’imponente trasformazione dei servizi per
l’infanzia che da realtà assistenziali si stanno trasformando in servizi sociali molto
articolate e flessibili che attuano in primo luogo scelte psicopedagogiche consapevoli
(Honegger Fresco, 2003). Lo stesso asilo nido ha tra le proprie finalità quella di “dare
spazio ad un/a bambino/a che esprime una molteplicità di bisogni cognitivi, linguistico-
comunicativi, logici ed emotivi e che reclama di veder riconosciuto, fin dalla nascita, il
proprio diritto alla conoscenza ed alla creatività, alla socialità ed all’affettività”. (Dozza
e Loiodice, 1994). Quindi un contesto che riconosce, rispetta, conferma e sostiene
l’espressione delle competenze, disponibile ad offrire il proprio spazio per questo, uno
spazio spesso progettato per raggiungere questi obiettivi. Inoltre il Nido (e quindi gli
operatori del Nido) è un luogo che si orienta al bambino piccolo e deve necessariamente
relazionarsi con i genitori, è quindi uno spazio naturalmente predisposto al contatto con
i genitori e, negli orientamenti più attuali, a considerare i genitori dei partner importanti
nell’azione educativa e formativa. Pertanto offrire ai genitori la possibilità di trovare
uno spazio di incontro e di riflessione in un luogo non medico, naturalmente orientato
allo sviluppo della competenze, potrebbe essere un’esperienza importante e utile nel
gettare le basi del rapporto con il figlio in arrivo. Una via concreta è quella di prendere
in considerazione queste possibilità nel Piano di zona previsti dalla Legge 328/2001 di
riorganizzazione dei servizi sociali (o nei patti per la salute), nel quadro di reti di
soggetti e di risorse, compresi, naturalmente, i soggetti e le risorse del servizio sanitario.
Tutto ciò ricordando, con Bauman, che la “rete”, a differenza de lla “struttura”, si
qualifica per la possibilità di connessione e disconnessione, ciò che, almeno in parte, la
mette al riparo da processi insidiosi di ri-istituzionalizzazione del territorio e di ri-
medicalizzazione della genitorialità.
Luoghi e non luoghi del Parto
La nascita è un momento di crisi e di transizione. Il suo valore antropologico è
strettamente confuso con la portata degli accadimenti biologici che la determinano. La
nascita è di per sé momento della crisi e della costruzione di identità di, almeno, tre
persone: la madre, il padre, il neonato. La "rivoluzione in sala parto" sta tutta nel
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tentativo di affrontare questa crisi, riassegnando ai suoi protagonisti diretti il ruolo che
compete loro sulla scena e che sono troppo spesso considerati sostanzialmente secondari
ed epifenomenici.
Così come per la preparazione al parto, anche al momento del parto è necessaria la
presenza dello stesso atteggiamento di rispetto e promozione. Uno dei punti di maggiore
importanza, a questo riguardo, è di accompagnare la donna in un’esperienza che la
tradizione vuole contrassegnata dalla sofferenza, ma che può al contrario essere
determinante per un’accoglienza positiva del bambino della madre e del padre. Anziché
essere vissuta nel segno della sofferenza, l’e sperienza del parto può divenire allora
un’importante esperienza di crescita. La "sofferenza", del resto, non è legata
necessariamente solo al dolore, al quale la natura sa provvedere, ma piuttosto alle
condizioni di tensione, di paura e di sottomissione che caratterizzano l'esperienza del
parto, ai condizionamenti culturali e sociali che portano la donna a vivere questa
esperienza in modo alienato, ai tentativi di "negare" il dolore piuttosto che favorire
l'azione naturale che esso determina nella fisiologia della madre e del feto e che
comporta, in ultima analisi, anche il suo stesso superamento. Anche a questo ci si
dovrebbe riferire quando si parla di gravidanza consapevole, di gravidanza accettata,
voluta, libera da condizionamenti. E' chiaro però che i decondizionamenti non si
possono realizzare all'ultimo minuto, in sala parto e neppure, forse, durante la
gravidanza o al momento in cui la donna decide di essere una madre. Essi dovrebbero
essere fatti molto prima e più profondamente di quanto non consenta una preparazione
al parto.
La medicina ha tentato strade apparentemente più dirette per opporsi al dolore, con l'uso
ad esempio dell'anestesia. In realtà questo modo di aggredire farmacologicamente il
problema del dolore trascura che la donna è preparata al parto dal punto di vista
fisiologico, attraverso la produzione di sostanze endogene, le endorfine, che è avvenuta
nel suo organismo nel corso dei lunghi mesi della gravidanza. Tutto questo rende dal
punto di vista teorico sbagliato intervenire farmacologicamente, perché è molto più utile
e meno rischioso adottare comportamenti che non ostacolino o facilitino la
mobilitazione delle endorfine, l'unico anestetico sicuramente non dannoso né per la
donna né per il bambino (Petraglia, Facchinetti, Volpe e Gennazzani, 1985; Krieger e
Martin, 1981; Petraglia et al. 1985; Goland, Wardlaw, Stark, Frantz, 1981; Abboud et
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al., 1983; Vanassi, Buzzano, Edwards, 1989). Tra le cose che ostacolano la piena
utilizzazione delle risorse fisiologiche della donna vi sono innanzitutto lo stato di
allarme, di soggezione ed ogni inutile interferenza col ritmo naturale del parto.
Purtroppo tutto, nella struttura ospedaliera, è fatto in modo da favorire lo stato di
soggezione della donna, a partire dalla posizione del parto: qualunque persona, non solo
donna, messa coricata, a pancia in su, a gambe larghe e nuda di fronte ad altri in piedi, si
trova in una condizione di impotenza tale che non può che delegare. Allo stesso modo la
tricotomia o il clistere di routine, che non hanno alcuna indicazione reale nei casi
normali, e sono di limitata utilità nei casi in cui occorra l'intervento medico, mette le
donne in una condizione di subalternità. A questo contribuisce anche il contesto delle
relazioni interpersonali, il dare del "tu" alla donna, la sbrigatività del parlare, l'assenza
di spiegazione di quel che accade, e così via. A questi atteggiamenti inutili e dannosi si
può contrapporre il rispetto per le risorse della donna, per i tempi, i ritmi e i modi nei
quali si sviluppa l'evento nascita.
Nella globalità di questa vicenda umana la questione del come partorire è strettamente
collegata a quella del dove ed anche in questo caso ci troviamo a confronto con i non
luoghi. A prima vista l'ospedale fornisce servizi, attrezzatura ed esperienza che non
sono immaginabili in un normale domicilio, tuttavia non si può affermare con sicurezza
che ciò possa rappresentare la questione più importante. In realtà anche in altri campi
della medicina si va facendo strada la convinzione che non sempre un sofisticato
equipaggiamento tecnico risulti proficuo rispetto alle esigenze globali del paziente. A
volte lo sradicamento dalla realtà ambientale del paziente risulta altrettanto dannosa.
Non si può dare per scontato che l'ospedale sappia rispondere sempre e comunque alle
reali esigenze dei pazienti neppure laddove esistano conclamate patologie, soprattutto se
i fattori emotivi, socio-psicologici e di personalità svolgono nella patologia o nel suo
superamento un ruolo determinante. Laddove poi non esistano reali urgenze dal punto di
vista strettamente patologico, com'è specificamente il caso della grande maggioranza
delle gravidanze e dei parti, è assolutamente dubbio che la struttura ospedaliera possa in
qualunque modo compensare lo svantaggio derivante dallo deprivazione del contesto
interpersonale e ambientale in cui queste esperienze sono per loro stessa natura
collocate.
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E' dubbio che la diminuzione della mortalità materna, perinatale ed infantile sia
attribuibile prevalentemente alla ospedalizzazione del parto. Va infatti considerato che
questo importante risultato avviene simultaneamente a straordinari progressi sociali e a
radicali cambiamenti nella qualità della vita, delle condizioni economiche, igieniche e
alimentari. Inoltre anche le nuove acquisizioni tecniche, farmacologiche e diagnostiche
non sono strettamente ed inevitabilmente correlate all'assistenza ospedaliera. Così se si
considerano i tassi di mortalità perinatale e materna nei paesi occidentali, si può
osservare che essi non sono correlati alla modalità assistenziale prevalente. Ad esempio
la Svezia e l'Olanda hanno i più bassi livelli di mortalità, ma mentre nel primo caso la
quasi totalità dei parti avviene in ospedale, nel secondo il 50 per cento dei parti avviene
a domicilio. Ciò induce a ritenere che i fattori che attualmente agiscono sui grandi
numeri della mortalità materna ed infantile siano prevalentemente di natura extra-
medica o, comunque, fattori sui quali l'influenza dell'assistenza medica è soltanto
indiretta. Uno di questi fattori è, ad esempio, il peso del neonato, rispetto al quale
l'influenza esercitata dall'intervento ospedaliero è comunque a posteriori, ma è assai
dubbio che si possa imputare alla medicina una reale possibilità di intervento causale su
di esso. Se sono dati buoni standard assistenziali e una corretta preparazione del
personale medico, non ci sono prove che cure prestate in ambiente ospedaliero possano
significativamente avere influenza su fattori come l'asfissia intrauterina o le sindromi
respiratorie, che rappresentano oltre il 70% delle cause di mortalità perinatali. C'è
inoltre da tenere in considerazione che la prassi ospedaliera corrente, rispetto ai modelli
di assistenza domiciliare, ha mostrato una notevole tendenza ad intervenire sul decorso
normale del travaglio soprattutto con metodi di induzione e accelerazione del travaglio
che comportano di per sé un notevole incremento del tasso di depressione respiratoria
del bambino (Chamberlain, R., Chamberlain, G., Howlet, B., e Clamaux, A., 1975).
Lo sguardo di Igea ai luoghi del Parto
Naturalmente anche per poter effettuare cambiamenti nei luoghi del parto è necessario
cambiare la disposizione psicologica di chi assiste al parto, lo spazio psicologico per
primo deve essere orientato al rispetto, all’ attesa e all’accoglienza. Una prima proposta
è relativa ai cambiamenti che dovrebbero essere introdotti al momento del parto ed è
direttamente collegata alle proposte di Federic Leboyer (1974) e Lorenzo Braibanti
(1980, 1993) sull’importanza dell’accoglien za naturale alla nascita che si manifesta
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evitando al neonato la condizione traumatica di abbagliamento fonte di sofferenze
inutili. Questo obiettivo può essere conseguito con estrema facilità, soprattutto
attraverso una diversa disposizione psicologica di fronte all’esperienza del parto e della
nascita da parte degli operatori in sala parto.
Il neonato è dotato di capacità sensoriali altamente differenziate e ad elevata selettività
ed è importante che esse siano poste immediatamente in grado di agire. Il termine
abbagliamento, che dà l'idea di un eccesso di stimolazione, in contrasto alle condizioni
precedenti, si riferisce a tutti i canali sensoriali.
L'abbagliamento visivo. L'enorme quantità di stimolazione visiva cui è sottoposto il
neonato nell'esperienza ordinaria in sala parto rappresenta indubbiamente uno shock.
Per quanto riguarda in particolare la luce, è estremamente facile evitare questa forma di
sovrastimolazione.
L'abbagliamento acustico. E' possibile, senza alcuna fatica, evitare al neonato di essere
investito dalla confusione crescente e rumorosa rappresentata dagli stimoli uditivi
esterni. I suoni che raggiungevano il feto, a certe frequenze, avevano comunque la
prerogativa di essere ovattati e notevolmente attenuati dal medium del corpo materno. E'
dunque in primo luogo necessario evitare ogni rumore superfluo, compreso il parlare a
voce troppo alta. L'esperienza di questo silenzio intenso, caldo non ha del resto
importanza solo per il bambino. La madre stessa trarrà beneficio dal potersi concentrare
più serenamente sulla nascita del proprio bambino, sorretta anche dagli operatori, ma in
modo pacato, a bassa voce, anche attraverso comunicazioni non verbali. Nel silenzio
relativo le parole stesse acquistano un valore profondamente diverso, non per il
significato che esse veicolano formalmente, ma per il contenuto affettivo che un tono
calmo e rilassato riesce a trasmettere alla donna e al neonato stesso.
L'abbagliamento termico e tattile. La temperatura in cui il bambino è abituato a vivere è,
ovviamente, quella del corpo materno, tra i 36 e i 38 gradi, nettamente al di sopra di
quella che si registra in qualsiasi sala parto. Questo improvviso abbassamento della
temperatura-ambiente è solo uno dei tratti che devono apparire come un sconvolgimento
della propria nicchia ecologica e determinare con ciò un notevole grado di
disorientamento prima ancora che vengano messi in atto nuovi sistemi di adattamento.
L'altro appariscente sconvolgimento ecologico è rappresentato dalla perdita del mezzo
liquido in cui il feto era completamente immerso, che gli permetteva di galleggiare e
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muoversi liberamente sostenendolo ed accarezzandolo con dolcezza. Anche il fatto che
l'utero, col crescere del feto, diventi sempre più angusto consente un contatto sempre
più diretto col corpo della madre, che secondo Leboyer costituisce una sensazione tattile
piacevole per il bambino. Al momento delle prime contrazioni, più leggere, questo
contatto corporeo ha l'apparenza di un carezzamento, che contemporaneamente prepara
il feto alle contrazioni più forti che dovranno aiutarlo a nascere. Restituire al bambino le
stimolazione termiche e tattili precedenti la nascita nella loro interezza è evidentemente
impossibile, ma è necessario in primo luogo rendere più graduale il passaggio ed, in
secondo luogo, mettere in atto quegli accorgimenti che possono almeno attuenuare la
portata e gli effetti traumatici del parto. Così è possibile, innanzitutto, porre
immediatamente il bambino appena nato, con il funicolo ancora intatto, sul ventre della
madre. Il bambino sull'addome materno è ancora protetto dalla vernice caseosa, che è
stata prodotta dalle ghiandole sebacee durante la vita endouterina. E' inoltre a contatto
con un corpo caldo che contribuisce ad attenuare lo scompenso termico. Ma è
soprattutto garantito il contatto cute-cute, la cute cheratinizzata della madre, che egli
incontra sia passivamente che attivamente, con le prime attività esploratorie. Leboyer
contrappone questa manipolazione dolce alla classica prensione del neonato per i piedi
che, egli sostiene, è comoda solo per gli ostetrici.
Il punto cruciale e più controverso è tuttavia il modo in cui Leboyer risolve il tema
dell'abbagliamento respiratorio. E’ ben presente nel dibattito in questo secolo l'esigenza
di superare l'afflusso immediato dell'aria ai polmoni, per l'improvvisa interruzione della
circolazione feto-placentare. Secondo Leboyer dilazionando il tempo di recisione del
funicolo, il passaggio alla respirazione esterna può avvenire in modo più graduale e non
traumatico. In pratica il bambino, benché ancora unito mediante il cordone alla placenta,
tenta da solo e subito la respirazione, ma progressivamente. Il primo soffio d'aria è
brevissimo e ad esso segue un piccolo grido; smette e riprova due o tre volte ed entro
pochi minuti ha "imparato" a respirare, senza paura.
"Contemporaneamente ci accorgiamo che il cordone non pulsa più: la seconda
ossigenazione è cessata. In questo momento, anche se si "taglia" il cordone, in realtà
non si "taglia" niente: è un legame già morto, caduto da solo che si separa. Madre e
figlio possono essere divisi senza trauma" (ibid. p. 69). Così Leboyer nel 1974.
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Oggi è sempre più chiaro che "evitare gli abbagliamenti" significa far in modo che il
neonato possa mettere in atto le sue specifiche capacità di adattamento alla nuova vita
extrauterina.
“Il neonato è molto preparato a nascere: noi non possiamo insegnargli quello che deve
fare, è lui che insegna a noi come dobbiamo comportarci; allo stesso modo in cui noi
non possiamo insegnare ad una donna a partorire perché è lei stessa che lo insegna a
noi. Se abbiamo capito questa verità scientifica il nostro atteggiamento diventerà molto
umile ed è in questo cambio di funzione dell'operatore sanitario che si completa la
comprensione del messaggio di Leboyer” (Braibanti, L. 1993).
Questi accorgimenti sono facilmente attuabili quando il parto è fisiologico, ma non sono
meno importanti in caso di parto distocico. Un importante principio generale è che,
contrariamente a quanto avviene nella pratica corrente, le distocie, gli interventi medici
richiedono una maggiore attenzione all'umanizzazione del parto e della nascita. La
madre e il bambino devono a maggior ragione poter restaurare prontamente una
relazione diretta che sappia attivare le risorse naturali di riequilibrio e di risanamento. Il
contatto precoce, l'allattamento effettuato il più presto possibile, l'attivazione tempestiva
della madre nelle cure parentali, adeguatamente sostenuta dal personale assistenziale e
soprattutto dal partner, hanno in questi casi una giustificazione più evidente. Il parto
difficile, a rischio, che tende ad essere escluso dalle metodiche non violente, soprattutto
per quanto attiene all'accoglienza perinatale, è quello che invece necessita delle
maggiori attenzioni. Queste non sono mai in contrasto con le esigenze assistenziali e di
intervento, ma invece le integrano e, umanizzandole, le rendono maggiormente efficaci.
Occorrerà però in primo luogo far sì che la coppia madre e bambino possa attivarsi al
più presto.
La seconda proposta che è possibile avanzare in relazione ai luoghi del parto è quella
del parto a domicilio e della “domiciliarizzazione” della sala parto. Ciò che depone
maggiormente contro la soluzione ospedaliera è la rottura del ritmo unitario del parto, in
cui entrano in gioco particolari e delicatissimi fattori emotivi sia nella donna che nelle
persone che la circondano. Il fatto che risulti particolarmente dannoso interrompere
questo ritmo unitario, insieme alla considerazione che, in casi normali, la donna deve
poter vivere il proprio travaglio nelle condizioni più normali e naturali che sia possibile,
porta non solo alla rivalutazione del contesto domestico, ma soprattutto al recupero di
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quella solidarietà sociale e culturale che lo caratterizzava. Non si può d'altro canto
dimenticare che il parto a domicilio, soprattutto nel nostro Paese, era caratteristico di
una cultura contadina e preindustriale e che il contesto delle relazioni umane e sociali è
da allora molto cambiato e ciò non lo rende immediatamente proponibile, soprattutto
nelle grandi città. Naturalmente il modello Olandese, che riserva i parti in ospedale alle
sole donne a rischio e che prevede una diffusa articolazione dei servizi territoriali e
d'assistenza anche durante il puerperio, può rappresentare una proposta moderna e
praticabile nel quadro di una revisione necessaria dei modelli assistenziali anche nel
nostro paese. Le esperienze coraggiose di parto a domicilio nel nostro paese (Comune di
Roma ; l’esperienza del Melograno in diverse parti d’Italia, dell’associazione Nascita
Attiva, di medici e di ostetriche che continuano ad esercitare questo diritto in diverse
parti del nostro paese) hanno pertanto un grande valore sia perché permettono di
indagare sulle nuove condizioni e sulle nuove necessità per un ritorno alla domiciliarità
del parto, sia perché, di riflesso, contribuiscono al mantenimento di una spinta al
rinnovamento delle stesse condizioni di parto in ospedale. Se oggi, infatti, può risultare
difficile generalizzare il parto a domicilio, risulta non solo possibile, ma necessario
"domiciliarizzare" l'ospedale. Come hanno dimostrato le esperienze di Odent a Pithivier,
di Lorenzo Braibanti a Monticelli d’Ongina, di Barbara Grandi a Poggibonsi, di
Padovani a Zevio, ed altre ancora, nulla vieta che l'ospedale predisponga per l'ambiente
dove la donna deve partorire qualcosa di diverso da quello che si crea per l'ammalato
medico, chirurgico o di altre specialità, cercando di dare al parto, evento fisiologico, un
ambiente idoneo per fatti fisiologici. Costruendo un ospedale occorrerebbe progettare la
sezione di maternità secondo criteri di ingegneria civile più che di ingegneria sanitaria,
restaurando la fisionomia dell'abitazione e prestando grande attenzione al confort.
Naturalmente anche le strutture esistenti si possono con facilità adattare a questo
modello ed è questione più di buona volontà che di grossi problemi economici o
architettonici.
Come ognuno può capire l'importante tuttavia sta nella disponibilità umana e
nell'atteggiamento globale che informa l'assistenza della gestante e del neonato. Rigidi
steccati tra l'ostetricia e la neonatologia e la pediatria, tra le strutture sanitarie
ospedaliere e i servizi socio-sanitari del territorio sono la condizione prima per la
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disumanizzazione del parto e rappresentano una ingiustificata frattura in un percorso
assistenziale che non può essere concepito se non come unitario.
L'esperienza di Lorenzo Braibanti a Monticelli d’Ongina è, sotto questo riguardo, del
tutto particolare. Il carattere unitario della sua gestione, la mancanza di rigidità
istituzionale ad ogni livello (non solo per le gestanti e per le madri, ma anche per i
degenti delle altre sezioni), le piccole dimensioni, l'umanità del personale di assistenza
sono condizioni eccezionali. Esse non sono però affatto impossibili da riprodurre.
Certamente esse contrastano con l'ideologia corrente della politica sanitaria che mira
alla razionalizzazione delle strutture e alla introduzione di fattori di economia di scala,
ma non rappresentano necessariamente condizioni di inefficienza. Se infatti è
comprensibile e forse inevitabile che settori della medicina con un elevato input di
investimento tendano a concentrarsi in poche sedi a grande bacino d'utenza, è del tutto
da dimostrare, nel caso dei normali presidi sanitari, che i supposti vantaggi economici e
organizzativi delle grandi dimensioni assistenziali possano anche minimamente
compensare la perdita del contatto umano, dell'adattamento alle condizioni territoriali,
della elasticità e della attenzione che caratterizzano le piccole strutture sanitarie.
L'esperienza di tutti i giorni sta poi a dimostrare che l'aumento delle dimensioni di una
struttura organizzativa complessa, come quella ospedaliera, agisce come moltiplicatore
dei fattori di rigidità istituzionale e, in ultima analisi, della stessa inefficienza. In realtà
l'economia di scala, in medicina, oltre che essere di dubbia validità sul piano teorico, è
un mito sul piano pratico.
Un clima di attenzione, comprensione e dialogo possono consentire alla madre di
esercitare un certo controllo sugli eventi di cui è protagonista e di sentirsi “efficace”. E’
la sensazione di perdita di efficacia e di controllo a determinare una percezione
sgradevole dell’esperienza del parto, più ancora della stessa esperienza di dolore. In
questa linea è bene che la sorveglianza ostetrica privilegi momenti di contatto diretto,
uno stile “prossimale”, piuttosto che affidarsi a tecniche di controllo strumentale di
routine. Del resto la letteratura non riporta alcun vantaggio evidente del monitoraggio
elettronico fetale continuo in termini di mortalità e morbosità neonatali, valori di Ph nel
sangue e apgar a 5' cfr. Prentice e Lind (1987). Inoltre la prevenzione della morte
intraparto è legata al pronto riconoscimento della anormalità della frequenza cardiaca
fetale, ma si è rivelata del tutto indipendente dal metodo impiegato per rilevarla. In
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particolare, tuttavia, l'auscultazione intermittente condotta da un operatore su una sola
paziente durante il travaglio con l'ausilio di un monitor ecografico manuale risulta
particolarmente efficiente e rappresenta perciò una valida alternativa al monitoraggio
fetale continuo. Quest'ultimo manifesta infine alcuni potenziali svantaggi sul piano
tecnico: a) è di elevata complessità e comporta un elevato livello di addestramento del
personale sanitario; b) riduce la frequenza con cui viene effettivamente effettuato dal
personale sanitario il controllo diretto della frequenza cardiaca fetale; c) persiste un
elevato grado di disaccordo intra- e inter-osservatore nell'interpretazione dei dati di
monitoraggio anche se dopo una lunga esperienza; d) esiste un numero significativo sia
di falsi positivi che di falsi negativi. (cfr. Grant, 1989). L’osservazione
comportamentale della madre e il rispetto delle varie fasi del travaglio e del parto hanno
dimostrato di poter supportare la valutazione della progressione del travaglio e sono
estremamente efficaci alla costruzione di un clima positivo e protagonista. Ciò permette
peraltro di valorizzare la capacità della donna di esercitare un controllo più efficace nel
periodo dilatante, di mettere in atto le strategie di rilassamento e di assumere le
posizioni più appropriate alla presentazione del bambino.
Esiste un luogo anche per il padre?
Il modo in cui la donna partorisce, i suoi interlocutori, la posizione del compagno, la
qualità delle prime cure materne sono influenzati dal significato rituale del parto e dalle
aspettative sul nuovo tipo di relazione nella coppia, tra la coppia e il bambino, tra la
famiglia e il contesto sociale allargato. Nella nostra cultura l'attenuazione del valore
rituale del parto si accompagna e in parte si spiega col fatto che la tecnica ostetrica ha
imposto nuovi comportamenti e nuove routine. In un certo senso però, anche questi
nuovi "gesti" possono assumere la forma di un "cerimoniale" che trasmette, forse
inconsapevolmente, nuovi valori, come, per esempio, la marginalità della partecipazione
umana rispetto all'intervento tecnico.
Il ritorno del padre in sala parto può allora avere una grande importanza proprio perché
rimette in primo piano il fatto affettivo ed umano che era lasciato tra parentesi. Nella
sala parto, nella stanza dove una donna partorisce, avvengono due fenomeni: uno, una
donna partorisce, l'altro, un bambino nasce. Ma vi può essere anche un terzo fenomeno:
un padre diventa padre, se è presente. E' anche in questa stanza, nel modo di
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comportarsi, che si decide se potrà nascere una madre equilibrata e serena, se il bambino
che si apre alla vita sarà vivo, sano nel corpo e nel sistema nervoso, ma anche
psicologicamente sano: si decide una parte importante del loro comportamento futuro.
In quella stanza, inoltre, può nascere o non nascere un padre equilibrato e sereno. Oggi
sono essenzialmente tre i modi in cui si affronta il problema del padre.
Il primo, quello più tradizionale e, ci pare più ampiamente diffuso, è la pura e semplice
esclusione del padre dalla sala parto. Esso, in qualche modo, conferma il fatto
dell'esclusione del maschio dalla maternità, la sua inutilità ed impotenza di fronte alla
trasmissione della vita, di cui resta solamente un indistinta memoria dell'atto
fecondante.
Il secondo è la concessione da parte degli operatori sanitari della possibilità di assistere
da spettatore al momento del parto. Qui il senso dell'inutilità cambia semplicemente
scena, ma, se possibile, viene ulteriormente rimarcato: egli è testimone, ma non
protagonista di quanto avviene, la sua presenza conferma la delega verso l'operatore
sanitario e non può trasformarsi in una partecipazione al parto.
Il terzo è la possibilità di una partecipazione attiva, ritualizzata al travaglio e al parto, in
cui generalmente i momenti più significativi consistono nel sostegno alla donna,
nell'accoglienza al bambino, nella recisione del cordone ombelicale da parte del padre e
trasmettono un senso di appartenenza, di continuità e di "compassione" con la propria
compagna e col nuovo bambino.
La questione, pertanto, non può ridursi al fatto dell'ingresso in sala parto, ma è connessa
al modo in cui il padre ha vissuto la gravidanza, il genere di rapporti che ha saputo
stabilire con la compagna, il tipo di percorso psicologico ed umano compiuto in quel
periodo. Infatti, come dice la Jacobson (1936) la nascita del figlio attiva nell'uomo ogni
genere di fantasie e conflitti, maturi e infantili, libidico-oggettuali e narcisistici. La
partecipazione al parto può essere inutile e addirittura controproducente quando essa
divenga parte di una regola rigida, soprattutto quando essa è condizionata al benestare
dell'operatore sanitario e si risolve in un giudizio cui l'uomo deve sottoporsi per
accedere all'esperienza. Essa mantiene invece una profonda significatività quando è
frutto di una scelta consapevole della coppia, una scelta conseguente al modo in cui è
stata vissuta dai due l'esperienza della maternità.
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In se stessa, infatti, la semplice presenza del marito non possiede alcun valore
taumaturgico e non produce alcun beneficio reale alla coppia (ma neppure alcun danno).
E' invece altamente significativa quando venga percepito come momento importante di
un percorso in cui prevalgono i momenti e la disponibilità allo scambio comunicativo ed
affettivo. E' l'accoglienza del bambino in questa situazione di comunicazione affettiva
tra l'uomo e la donna che attribuisce alla presenza paterna un valore di rilievo e che
produrrà benefici, non tanto per sé, ma per l'atmosfera generalmente più favorevole alla
costruzione di un ambiente sereno e libero da conflitti. La presenza del padre, ma anche
di ogni altra persona realmente gradita alla donna, è poi molto importante perché essa
non si senta sola di fronte alla macchina assistenziale che la sovrasta e la
deresponsabilizza e perché possa trovare un sostegno affettivo nelle fasi in cui la
sofferenza può essere più acuta, in particolare nel periodo prodromico e in quello
dilatante. Chi partecipa al parto nelle sue diverse fasi condivide un percorso importante
e di trasformazione che conduce al contatto fisico, diretto col neonato: tale esperienza
può essere riparatrice di ogni possibile sentimento di gelosia e di esclusione che talvolta
emergono nei futuri rapporti tra padre e lattante e che spesso caratterizzano quelli tra il
neonato ed i fratelli. Il fatto che questi ultimi partecipino al parto, se lo desiderano e se
sono stati preparati dai genitori a farlo, è dunque un fatto estremamente positivo,
considerato normale nei parti a domicilio e che si sta diffondendo in Italia. E' poi
naturale e necessario che tale partecipazione non si concluda al momento del parto, ma
prosegua nei primi giorni di vita. In realtà la condivisione dei momenti dell'immediato
puerperio può essere di grande sollievo e di concreto aiuto per la donna oltre a favorire
lo sviluppo di relazioni immediate tra il nuovo bambino e tutto il suo diretto ambiente
sociale.
Non si può chiudere questo argomento senza però avvertire che alla donna deve essere
assicurata anche l'intimità, perché possa vivere l'esperienza della nascita e del parto
nella maggior libertà possibile. Essa non deve essere imbarazzata e deve poter mostrare
anche le proprie debolezze senza che ciò rappresenti motivo di tensione interiore.
L'esperienza tradizionale del parto tende a negare questa sua dimensione intima, che
invece riveste la massima importanza per una esperienza positiva e di crescita
personale. Occorrerà pertanto che alla donna sia consentito di stabilire in gran parte le
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modalità, le posizioni, i luoghi e le persone che dovranno caratterizzare l'esperienza del
parto.
Luoghi e non luoghi dell’esogestazione
Dopo la nascita esiste un periodo che può essere considerato di naturale continuazione
degli eventi della gravidanza: l’esogestazione.
Lorenzo Braibanti (1993) così come molti antropologi, hanno osservato che i neonati
umani nascono così immaturi perché se completassero lo sviluppo del Sistema Nervoso
Centrale all’interno dell’utero materno, la testa del neonato raggiungerebbe una
grandezza tale da rendere assai difficile o impossibile la fuoriuscita del bambino dal
canale uterino.
Se il luogo dell’endogestazione è il corpo -mente della donna, il luogo principale in cui il
neonato trascorre questo periodo è il contatto con la madre. E’ solo ed esclusivamente in
questo contatto che il neonato può ritrovare la continuità con l’ambiente precedente e
solo la madre è il luogo in cui trova pressoché tutto ciò di cui ha bisogno per la
sopravvivenza e per la crescita. Il feto-neonato è protagonista di una vicenda in cui
predominano il senso di abbandono e lacerazione dell'esistenza, che può lasciare a lungo
segni profondi e che non può essere sottovalutata solo per il fatto che non sa esprimersi
in modi riconoscibili. Il dolore del feto-neonato non può essere raccontato e ciò porta
semplicemente a negarlo. Come dice Alan Raddley (2004) la sofferenza prende forma
nella compassione dell’altro e questo legame sembra davvero manifestarsi fin dal primi
istanti di vita. E’ forse in questo senso che l’atto della nascita costituisce il prototipo
dell’angoscia, che Freud (1915 -1917, lezione 25) attribuiva invece all’effetto tossico
dovuto al passaggio dalla respirazione interna a quella esterna. L’angoscia è quella
sofferenza senza nome che non può essere pronunciata e che non riesce a prendere
forma in nessuna compassione, che accompagna un sentimento vago e inesprimibile di
perdita con quello dello spaesamento, di chi non può ritrovarsi in alcun luogo.
L’operatore può riuscire a rappresentarsi questa lacerazione profonda, a riscoprirla nella
propria intimità costruendo su di essa un rapporto empatico ed affettivo assai intenso.
Ma soprattutto deve fare in modo che chi più è "esperto", la madre, possa esercitare nei
confronti del piccolo un'azione di riparazione affettiva, ripristinando e restaurando con
altri mezzi il legame madre-feto che la nascita ha così traumaticamente turbato.
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E’ di Winnicot (1956; 1965) la concettua lizzazione di una mamma- ambiente per il
neonato, una mamma sufficientemente buona, competente e in grado di provvedere alle
necessità biologiche, psicologiche e sociali presentate dal neonato. E’ interessante
riflettere sulla funzione del padre, relegato spesso, nel senso comune ad una posizione
marginale, che al massimo può fungere da appoggio per la propria compagna. La ricerca
mostra come anche per il padre sia possibile individuare funzioni specifiche e
l’ambiente che circonda il neonato sarà caratteri zzato dalla possibilità che anche al
padre sia consentito mettere in atto le proprie competenze.
Questa esperienza umana di ricomposizione, di compassione, di nascita di una
competenza è certamente favorita se contenuta in un luogo, la casa, in cui sia
rintracciabile il filo dei significati e in cui possa essere inscritta la storia del proprio
essere nel mondo, insieme ad altri uomini e, quindi, in cui possa essere fondata la
propria salute, l’intima adeguatezza con se stessi.
Contrapposti ai luoghi propri per l’esperienza unitaria di esordio dell’esogestazione,
essa continua perlopiù a collocarsi nei nonluoghi della medicina, generalmente la
nursery. Incapace di riconoscere l’intimità del legame madre -feto e madre-bambino, la
medicina sembra allo stesso modo incapace di restaurare un’attenzione, una cura
unitaria e istituisce una fenomenologia della separazione lungo i confini della
specialistica dell’organo materno e della neonatologia. In questo modo la medicina
prende possesso del corpo del bambino, dopo essersi ampiamente impossessato del
corpo materno, all’insegna della chiave patologica che orienta il suo sguardo, come ci
ha insegnato Foucault, verso le pratiche dell’esclusione.
La nursery, ancora presente nella gran parte degli ospedali italiani ed anche nelle
cliniche private, si configura come un locale separato e ben distinto da quello di
degenza della madre. E’ consentito l’accesso della mamma solo negli orari di
allattamento (fissati in modo rigido ed univoco per tutti i neonati) e al padre nell’orario
visite previsto per i parenti (al massimo un’ora al giorno), durante questo orario è
possibile guardare i neonati attraverso un vetro, per garantire uno standard di igiene
ancora una volta dubbio. La nursery, così come la sala parto, risponde prevalentemente
ad una logica volta a porre il paziente in una situazione di passività, il problema
aggiuntivo per il neonato, rispetto a quanto accade per gli altri pazienti, è che le uniche
cure di cui ha bisogno sono proprio quelle dei suoi genitori. In ogni caso, come
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affermano Thomson e Westreich (1989), in nessun caso si è potuto dimostrare che la
restrizione del contatto materno-infantile, così comune nelle pratiche ospedaliere, abbia
effetti positivi e tutti gli autori, compresi coloro che negano effetti di medio-lungo
periodo, alla fine consigliano di consentire il prolungamento e la precocità del rapporto
madre-bambino fin dalle prime ore di vita (Senechal, 1979).
Lo sguardo di Igea ai luoghi dell’Esogestazione
Una particolare attenzione va quindi riservata alla necessità di abolire quello che,
nell’esperienza dell’assistenza neonatale, costituisce forse il prototipo del “non -luogo”,
la nursery. L'accoglienza al neonato non può veramente considerarsi completa se non
continua con la piena attivazione della relazione con la madre fin dall'immediato
puerperio. Il bisogno di avere vicino il proprio bambino è inscritto nel profondo delle
donne: anche se dopo viene convinta che ha bisogno di riposo, lei è intimamente
persuasa che il bambino le deve essere vicino. La vicinanza del contatto iniziale, la
convivenza è importantissima e determinante per la formazione del legame di
attaccamento tra madre e bambino. L'abolizione della nursery deve essere totale e non
ci si deve certo lasciare abbagliare dalle chimere della nursery parziale. La nursery va
abolita in ogni luogo ove si nasce.
Solo dopo questo passaggio nei non luoghi ospedalieri, il luogo che lo accoglie il
bambino e i nuovi genitori è finalmente la casa. Ma, contrariamente a quanto ci si
potrebbe aspettare, questa stessa casa non ha sempre il carattere accogliente, non è il
luogo della serenità e della sicurezza affettiva, ma quello dell’incertezza e dello
spaesamento. Anche di questo, in qualche modo è responsabile il percorso
medicalizzato della nascita.
Se il luogo principale dell’Esogestazione sono, come illustrato nel par agrafo precedente,
i genitori che sono gli unici in grado di fornire al neonato le cure di cui ha bisogno,
allora Igea rivolgerà prevalentemente il suo sguardo verso di loro. Le proposte che
seguono sono profondamente influenzate da una particolare ed ormai comprovata
visione del neonato e dei suoi genitori, come di un sistema competente. Così come
madre, padre e feto hanno le risorse e le competenze per affrontare l’endogestazione ed
il parto, altre competenze sono a loro disposizione per vivere il periodo
dell’esogestazione.
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Dal neonato “semplificato – inesistente”…
Nella prassi assistenziale talora il neonato è trattato come una macchina “cuore -
polmone” – come un “tubo digerente”, privo di una specifica emozionalità e capacità di
adattamento, di relazione con gli altri e il proprio contesto bio-psico-sociale. Il neonato,
in realtà, è dotato di una vita complessa, che lo rende protagonista di strategie di
adattamento specializzate per il contesto sociale entro cui la specie ha "scelto" di
collocare l'esperienza delle prime fasi di sviluppo.
Questa caratterizzazione del neonato come essere biologicamente immaturo rispetto ad
altri animali, ma contemporaneamente dotato di una specificità adattiva nei confronti
dell'ambiente sociale dà all'esogestazione una fisionomia del tutto peculiare che non
sempre trova udienza nei modi codificati di trattamento del bambino in tenera età. La
puericultura, ad esempio, ha sovente enfatizzato la povertà del neonato e la difficoltà
che il bambino incontra nel suo processo di crescita. Viene sottovalutato il fatto che i
primi mesi del bambino trovano nel contesto relazionale con la madre (per il quale
appunto il neonato è biologicamente, cognitivamente e socialmente preadattato) un
potente momento di riequilibrio allo scarso livello di maturità. La debolezza individuale
del bambino è tale, infatti, solo se le strategie di adattamento che ha a disposizione non
trovano il terreno biologico e sociale entro cui esercitarsi, ma si risolve in una
straordinaria capacità di adattamento e sviluppo se adeguatamente sorretti dalla naturale
evoluzione del rapporto con l'ambiente.
Appare poi del tutto ingiustificata l'estensione alla coppia madre-bambino della
sottovalutazione delle capacità del bambino. Così, sul piano fisiologico, l'alimentazione
materna era considerata "insufficiente" quantitativamente e qualitativamente e, sul piano
delle relazioni psicosociali, si era portati a considerare madre e bambino reciprocamente
incompetenti, soprattutto nei primi giorni di vita. Questa visione semplificata della
relazione madre-neonato e madre-bambino porta con sé un ridimensionamento dei
processi biologici e psicosociali caratteristici del primo anno di vita che è d'altra parte in
stridente contrasto col fatto che, dalla dimissione dell'ospedale in poi, la madre è di fatto
l'unica portatrice del carico di lavoro e di responsabilità nell'allevamento del bambino.
Cosicché la madre, che è considerata e trattata come se fosse incapace di assicurare la
sopravvivenza del neonato, si trova bruscamente a dover sopportare nella solitudine
ogni problema di rapporto, di gestione del bambino piccolo. E quando questi problemi
70
determinano nel vissuto della donna tensioni e conflitti che si risolvono in rifiuto
manifesto o in forme indirette di rifiuto, come possono essere le ipogalattie e le
agalattie, da ciò spesso si trae conferma dell'incapacità materna di garantire al piccolo la
sopravvivenza e le cure.
Le pratiche assistenziali, guidate sempre più dalla logica economica dei DRG, oggi
restituiscono il bambino e i genitori alla propria abitazione con grande celerità, per
ridurre i costi di una ospedalizzazione protratta. E’ un bene, è un male? Anche in questo
caso la logica “riparativa” di Panacea tende a rispondere in modo semplificatorio al
“rischio” rapprese ntato dalla pratica della dimissione precoce, con una “assistenza
domiciliare” alla puerpera che, se affidata interamente alla logica delle cure mediche “a
domicilio”, rischia di risolversi in una medicalizzazione domestica della relazione di
accudimento. Noi sosteniamo che la via non possa essere quella Non si tratta di
medicalizzare il “dopo”, ma di demedicalizzare il “prima”, di demedicalizzare l’intero
percorso fisiologico della gravidanza, della nascita, dello sviluppo del bambino e della
genitorialità.
…al neonato competente
A partire dagli anni ’60 sono state dimostrate alcune fondamentali competenze del
neonato: nella vita di tutti i giorni il neonato comunica ed entra in relazione con le
persone che lo circondano (i caregivers), utilizzando prevalentemente, canali non
verbali: può rivolgere il viso verso l’altro, guardandolo, cercando di mantenere il
contatto tattile ed emettere qualche lieve vocalizzo, oppure, all’opposto, può evitare
tutto questo e piangere vigorosamente. (Cecchini et al., 2000).
L’insieme di questi studi (Stern, 1985 e Lichtenberg 1989) rimanda l’immagine di un
neonato estremamente competente che vede chiaramente oggetti presentati ad una
distanza ottimale di circa 20 cm e che può dirigere volontariamente lo sguardo verso
uno stimolo e seguirne il movimento. Un neonato, inoltre, che sa discriminare i suoni,
utilizzare i vocalizzi ed il pianto per comunicare, ma anche coordinare intenzionalmente
le azioni mano-bocca, comunicare con il tatto, imitare comportamenti presentati
dall’a ltro, ricordare situazioni, volti e testi. Un neonato che dorme e che forse…sogna,
ipotizzando per gli stati comportamentali del neonato una funzione di rielaborazione
dell’esperienza (Braibanti, P. 1992; Braibanti in Maffei, 2000; Baroni e Cecchini,
71
2003).
I genitori competenti
Così come accade per le competenze del neonato, anche le competenze dei genitori sono
spesso disconosciute e negate, in realtà anche la madre ed il padre sono in possesso di
un vasto repertorio che consente loro di relazionarsi al loro neonato in modo
competente, probabilmente nel miglior modo possibile.
La madre sviluppa un orientamento selettivo verso il proprio neonato, caratterizzato
dall’attivazione dei comportamenti parentali e dalla predisposizione ad apprendere.
Questo stato viene determinato nella madre, così come nel neonato, dalle modificazioni
che hanno avuto luogo durante gravidanza e durante il parto (Braibanti, 1993). Durante i
nove mesi di gravidanza la madre slitta verso modalità sensoriali più primitive (maggior
importanza del gusto, del tatto e dell’olfatto), verso una percezione del tempo più
dilatata, quasi sospesa, verso un approfondimento della vita onirica, con sogni più vividi
che segnalano contemporaneamente una più intensa elaborazione psichica e che
avvicinano la distribuzione degli stati materni a quelli fetali. Al termine della
gravidanza, quindi, la madre assomiglia psicofisiologicamente al neonato, è
specificatamente recettiva alle stimolazioni infantili ed è predisposta ad “apprendere”.
E’ stata inoltr e riconosciuta l’esistenza della preoccupazione materna primaria
(Winnicott, 1956) cioè la capacità della madre, di sperimentare verso il proprio bambino
un amore autentico caratterizzato da azioni semplici, continue e personali che
garantiscono al neonato un ambiente emozionale semplificato.
Al padre oltre al riconoscimento tradizionale della fondamentale competenza a
sostenere la madre, vengono riconosciute dalla letteratura anche alcune competenze
specifiche, come l’assorbimento presentato dal padre nei confronti del figlio, (parallelo,
ma non identico alla preoccupazione materna primaria) o il coinvolgimento attivo nel
gioco con una modalità specifica, più eccitante di quella materna.
Esistono poi competenze sia della madre che del padre, sono essenzialmente
competenze legate allo sviluppo della comunicazione con il neonato. Come la
sintonizzazione degli affetti basilare per la formazione del Sé del neonato, per l’uso dei
simboli e per l’acquisizione del linguaggio, che consiste nell’esecuzione di
comportamenti che esprimono la qualità di un sentimento condiviso, senza tuttavia
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imitarne l’esatta espressione comportamentale. Esistono poi altri comportamenti
competenti non consapevoli dei genitori come l’imitazione non intenzionale del
bambino, l’impegnare il bambino in un contatto visivo, l’accompagnare con parole
l’attività del bambino, l’utilizzare procedure standardizzate e modelli verbali specifici
per segnare i diversi momenti della giornata, la regolazione delle interazioni con un
chiacchiericcio in cui si fanno le domande e si danno le risposte, l’uso soprattutto degli
aspetti prosodici del linguaggio senza essere consapevoli del potenziale didattico e
l’utilizzo del motherese (un particolare tipo di linguaggio caratterizzato da tono,
scansione temporale e prosodia costanti, ripetizione, utilizzo di sillabe e di parole
semplici).
Quindi anche genitori sono estremamente competenti, proprio come i loro neonati…ma
quali sono i fattori che sostengono lo sviluppo pieno di queste competenze o che
viceversa possono impedirlo?
Le competenze e le capacità di adattamento del bambino, della madre e del padre sono,
contemporaneamente significative, importanti, ma anche delicate ed esposte ad alcune
difficoltà. Il pieno sviluppo delle competenze del neonato è legato inevitabilmente alla
possibilità che anche le competenze genitoriali possano svilupparsi completamente.
Le principali difficoltà che possono bloccare lo sviluppo delle competenze genitoriali
sono probabilmente riconducibili ai tre livelli del paradigma bio-psico-sociale, quindi
possono essere legate a fattori organici (come malattie materne, paterne,
intossicazioni…) a fattori psicologici (legati alla esperienza dei genitori nel corso della
loro vita) e a fattori sociali.
Attualmente è decisamente in aumento la diffusione attraverso siti web, riviste dedicate
a neogenitori e programmi di divulgazione scientifica della rappresentazione del
neonato competente, tuttavia questa diffusione non sembra sufficiente a determinare la
trasformazione della rappresentazione sociale (Moscovici, 1976; Farr e Moscovici,
1984) che ancora rimane legata al neonato semplificato inesistente. Perché? Una recente
ricerca, condotta presso l’Università di Bergamo, ha tentato di affrontare questo tema e
crediamo che sia utile darne brevemente conto.
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La rappresentazione sociale delle competenze neonati
(Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la diffusione della rappresentazione
sociale della competenze neonatali e infantili non è affatto una garanzia sufficiente di
promozione di una relazione sana e serena tra genitori e bambini. Il modo, infatti, in cui
si sta costruendo questo costrutto collettivo è fortemente ancorato ad un senso di
espropriazione e a costrutti normativi della maternità che inducono ulteriore
disorientamento e incertezza nella “mente e nelle parole” dei genitori.
L’insorgere di un corpo teorico innovativo che modifica la rappresentazione teoretica di
un fenomeno non sempre e non necessariamente evolve di pari passo con le
rappresentazioni esperite dal senso comune, non sempre infatti questi mutamenti teorici
penetrano e modificano le rappresentazioni proprie del senso comune.
L’esperienza della maternità, come si è visto, si trova oggi a convivere con dinamiche e
mutamenti complessi e problematici.)
Una struttura familiare sempre più flessibile e soggetta a continui mutamenti determina
la ridefinizione di ruoli e pratiche educative. Spesso l’essere genitori e in particolare il
divenire madre, viene privato di quell’intimo legame intergenerazionale capace di da re
alla madre sicurezze e conferme attingendo direttamente dall’esperienza. Un tempo
infatti l’esperienza diretta veniva considerata come generatrice di certezze e
conoscenze, l’abitudinario era visto come strumento di continuità di pratiche educative e
la madre poteva trarre sicurezza da queste ultime. La situazione attuale pone invece la
madre di fronte alla necessità di dover coniugare fonti d’informazione diverse e spesso
dissonanti tra loro e la colloca all’interno di quel processo di medicalizzazione oramai
dilagante che promuove l’idealizzazione di un sapere specialistico. Come abbiamo
osservato in precedenza, tutto viene medicalizzato: il bambino, il dolore, il parto, le
stesse competenze sono espropriate della loro natura relazionale, cioè del loro nascere
all’interno della semplice, ma grandiosa relazione tra una madre e il suo piccolo. Si
verifica quello che Moscovici aveva definito come disancoraggio. Il riconoscimento
della competenza infatti perde il suo nascere dalla e nella relazione. La madre anziché
procedere nel riconoscersi competente e nell’attingere da quello che di più naturale è in
lei, sente la necessità di continue conferme, di sostegni esterni, di saperi specialistici.
L’ingenerarsi di ciò la rende vulnerabile e la pone in balia del le parole autorevoli diffuse
74
dai giornali e dagli specialisti, parole che non fanno altro che assecondare nuovi dubbi i
generare nuove incertezze.
Un’analisi condotta sui testi di alcune riviste comunemente consultate dalle donne
durante la gravidanza e nella fase successiva al parto ha confermato ciò. Nei contenuti
proposti dagli articoli infatti, è stato possibile individuare una duplice tendenza: da un
lato queste riviste risultano essere interpreti delle mutate tendenze avvenute a livello
teorico a cui prima abbiamo fatto riferimento e quindi sono attente a quell’idea di
bambino e di genitore competenti, ma nel contempo promuovono una linea di diffusione
finalizzata alla notiziabilità (Luhmann, 1996). Le riviste infatti tendono a divulgare
informazioni privilegiando la categoria del “sorprendente”. Tutto appare semplificato,
ogni problema inerente la cura e l’educazione del piccolo trova, all’interno degli
articoli, facili ed immediate soluzioni. Una semplificazione questa che sorprende la
madre, in quanto è ben lontana dalla reale situazione esperita dalla neomamma la quale
si trova invece a dover far fronte a dinamiche decisamente più complesse e tutt’altro che
semplificate.
Dall’analisi effettuata si può affermare come, quella proposta dai giornali, sia
l’immagine di un bambino sostanzialmente competente, che agisce, interagisce ed è
anche in grado di influenzare i comportamenti delle persone a lui circostanti.
Un’immagine am pia che non si limita a cogliere soltanto alcuni degli aspetti dello
sviluppo del bambino, ma che considera tale sviluppo come un insieme complesso, fatto
di componenti biologiche, psicologiche e relazionali. Ad agire non è solamente la
madre, ma sono entrambe i partner della relazione: madre e figlio insieme. Un’idea,
quella proposta, tutt’altro che semplificata di bambino dove quindi si può leggere un
riconoscimento e una presa di coscienza delle mutate tendenze in atto nelle riflessioni
teoriche sul bambino e sulle sua capacità. Come già anticipato, nel proporre questi
contenuti l’attenzione si concentra generalmente su ciò che la madre non è in grado di
fare, su quello che deve imparare a fare attingendo dai saperi offerti dalle stesse riviste.
Queste forme di comunicazione mediatiche, probabilmente, non hanno di certo un
effetto rassicurante sulle madri ma, al contrario, alimentano un senso di inadeguatezza,
di incertezza e di distanza. Il destinatario delle riviste è infatti una donna, da poco
madre, che si trova a gestire una situazione del tutto nuova, una donna alla ricerca di
conferme e di rassicurazioni. Come afferma Winnicott
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“I genitori apprezzano soprattutto chi offre loro una spiegazione dei problemi che
stanno affrontando, consentendo loro di diventare più consapevoli delle cose che,
solitamente, già fanno d’intuito. Non si sentono tranquilli se sono lasciati ai loro dubbi,
ossia in balia di tutto ciò che piomba loro addosso nei momenti critici, inaspettatamente,
quando non si ha il tempo di riflettere. Magari quei genitori hanno dato al bambino uno
schiaffo, un bacio un abbraccio, oppure gli hanno sorriso. E’ stato sicuramente giusto
così, non si poteva fare di meglio. Nessuno avrebbe potuto dire loro che altro fare in
quelle circostanze, poiché realisticamente non potevano essere previste. In seguito,
tuttavia, i genitori tornano a discuterne, si meravigliano e spesso non si rendono ben
conto di che cosa sia successo e, alla fin fine, si rendono confusi riguardo alla natura
stessa del problema. A questo punto tendono a sentirsi in colpa e sono pronti a dare
ascolto a chiunque parli con autorevolezza o dia loro ordini” (Winnicott, 1993)
Questo non fa altro che ispessire ed accentuare il senso di solitudine, di incapacità, di
inadeguatezza e di abbandono della madre. La competenza materna finisce con l’essere
rappresentata come obiettivo di onnipotenza che, scontrandosi con la realtà concreta
vissuta dalla madre, non fa altro che incrementare il suo sentirsi inadeguata e quindi
altera il riconoscimento delle sue competenze e di quelle del suo piccolo.
Questo senso di inadeguatezza, questa falsa percezione di sé, questo bisogno di affidarsi
a saperi specialistici si riflette su quella che Stern definisce la costellazione materna
(Stern, 1995) . Una madre che sperimenta e vive questo senso di inadeguatezza, troverà
difficoltà nell’affrontare ad esempio il tema della crescita del proprio piccolo. Il
percepirsi più o meno competente di fronte alla responsabilità di far crescere il proprio
bambino può modificare e influire sulle rappresentazioni che essa ha del suo piccolo,
tanto che le sue attenzioni si concentreranno soprattutto e prioritariamente sul
soddisfacimento dei bisogni fisiologici di quest’ultimo.
Per comprendere meglio questo processo, è stato somministrato ad un gruppo di madri
un questionario. Il questionario aveva come finalità quella di sondare se nelle parole
scritte dalle madri emergesse il riconoscimento delle competenze del bambino e quindi
fosse presente l’idea di bambino competente. Dall’analisi delle risposte emergono
alcuni dati molto interessanti, che danno adito a riflessioni significative sulle
rappresentazioni che le madri hanno dei loro bambini. (Premetto già come l’idea che
progressivamente si delineerà prevede alcuni aspetti molto ambivalenti, tesi talora ad
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attestare il riconoscimento di un bambino attivo e competente, talora invece a
ridimensionare il ruolo di quest’ultimo riducendolo ad organismo biologico avente
bisogni che devono essere soddisfatti.)
Al bambino vengono riconosciute competenze e sfere d’azione che trascendono
l’ambito prettamente fisiologico, ma che, sebbene annoverate, vengono solitamente
poste in secondo piano. Nel riconoscere lo stato di benessere dei bambini risulta
indubbio il riferimento alla sfera dei bisogni vitali del bambino quali la fame, il sonno,
lo stato di salute?, l’essere pulito. All’interno delle risposte non sono tuttavia estromessi
i bisogni prettamente emotivi e sociali che il bambino ha. Questi bisogni però, oltre ad
essere generalmente menzionati dopo quelli di carattere fisiologico e ad avere una
frequenza inferiore rispetto a questi ultimi, risultano anche meno declinati e quindi
meno specifici. Lo stato di benessere o di malessere del piccolo viene generalmente
legato al venire meno di condizioni in grado di soddisfare i bisogni primari e fisiologici
di quest’ultimo.
Il suo saper fare è legato soprattutto alla deambulazione, all’alimentazione e alle
espressioni gestuali. In particolar modo, nell’elenco di ciò che il bambino non sa fa re,
compare prioritaria l’incapacità del piccolo di muoversi, di nutrirsi da solo, di vivere
autonomamente, sottintendendo quindi una sorta di dipendenza del piccolo dalla madre.
In modo complementare (A conferma di ciò, alla domanda relativa alla definizione di
cosa è la mamma per il bambino,) emerge l’idea di una madre che è tutto per il
bambino, che costituisce il suo unico punto di riferimento e che soprattutto si identifica
per il suo essere fonte di nutrimento. Una tale definizione lascia ben poco spazio a
competenze riscontrabili nel bambino è delinea più un rapporto di dipendenza
fisiologica del piccolo dalla madre. Inoltre nel descrivere quando e come il bambino è in
grado di influenzare il comportamento della madre, si fa riferimento esclusivamente alle
situazioni nelle quali il bambino piange, non sta bene, ha bisogno di essere allattato…Le
capacità interattive del bambino, il suo essere in grado di influenzare il comportamento
altrui sembrano essere ingenerate quasi esclusivamente da una situazione di malessere o
mancanza.
Possiamo dire che quella tracciata nei questionari è sostanzialmente un’immagine di
bambino, che in primo luogo, risulta essere dipendente e biologico più che competente.
77
(Con ciò non vogliamo oscurare le competenze riconosciute al bambino che più o meno
esplicitamente emergono dai questionari, ma semplicemente attribuire loro un ruolo di
second’ordine rispetti agli aspetti fisiologici della crescita del piccolo.) Il bambino
delineato è quindi un essere che, soprattutto nei suoi primi mesi di vita, si trova in un
rapporto di forte dipendenza e che in primo luogo necessita di risposte capaci di
sopperire ai suoi più impellenti bisogni vitali. Il crearsi di questa rappresentazione da
parte della madre ha anche implicazioni sulla creazione di quella che Stern definisce
relazionalità primaria, cioè sulle forme di relazione che occupano i primi mesi e che
prevedono lo stabilirsi dei legami umani d’attaccamento, di sicurezza, d’affetto.
Difficilmente infatti si potrà parlare di relazione madre bambino improntata sulla
reciprocità dei partner interattivi riconoscendo quindi al bambino un ruolo attivo e
partecipe.
Al fine di giungere ad ulteriori chiarificazioni in merito al mondo delle rappresentazioni
materne, ci si è avvalsi dei racconti di nove mamme alle prese con la loro prima
gravidanza. Passare attraverso i vissuti, le paure e le preoccupazioni di una donna da
poco diventata madre permette di fare luce sui contesti, le dinamiche, i luoghi e i non-
luoghi della maternità che spesso inducono la madre a creare una falsa rappresentazione
di sé. Inoltre il rappresentarsi come inadeguata, incompetente e sola, può indurla a
sviluppare un’analoga rappresentazione del proprio bambino, una rappresentazione che
privilegerà il riconoscimento della dipendenza più che della competenza.
Dall’analisi mediante i processi di codifica propri della Grounded Theory (Glaser e
Strauss, 1967; Strauss e Corbin, 1990; Cicognani, 2002; Cicognani in Mazzara, 2002),
emergono alcuni quadri di rappresentazione di sé che vale la pena di prendere
brevemente in considerazione
Le Rappresentazioni di sé sono soggette a modificazioni durante il periodo della
gravidanza, del parto e della fase successiva. Infatti la maggior parte delle donne
intervistate descrive (salvo nei casi in cui si sono verificate complicazioni) il periodo
dell’attesa e quindi quello della gravidanza attraverso emozioni positive.
Emerge quindi uno stato di benessere alimentato dalle gioie dell’attesa. In questo
scenario si collocano anche una serie di elementi esterni che esercitano un’azione non
indifferente sulla creazione delle rappresentazioni della mamma, come ad esempio i
corsi pre parto che tutte le mamme intervistate, hanno frequentato. Molte sono le
78
aspettative che le giovani mamme hanno nei confronti di questi corsi; Francesca,
parlando di essi dirà: “mi servirà, mi dicono come andranno le cose…” in realtà il più
delle volte queste aspettative sono violate e non sono soddisfatte. Spesso le mamme
fanno riferimento ai limiti, alla dimensione prettamente teorica dei corsi, e al divario
constatato direttamente tra teoria e pratica La cosa che forse desta maggior interesse e
che risulta “ …una cosa abbastanza condivisa è la poca attenzione al prepararti dopo il
parto…” (Rosaria, II intervista, righe 337). Quindi vi sono evidenti critiche non tanto
nei contenuti affrontati, quanto nel loro limitarsi ad un numero di tematiche ridotto.
Altro aspetto interessante è l’idea di parto che viene proposta all’interno di questi corsi,
Marta ricorda che il parto le è stato descritto “…come un’esperienza traumatica,
dolorosa…” e a quelle parole la sua reazione è stata “..ma sarà veramente così doloroso?
(Marta, I intervista, righe 50)
Sulla naturale rappresentazione che la madre costruisce di sé e quindi su tutto quel
complesso di modificazioni che Daniel Stern definisce costellazione materna (Stern,
1995), agiscono i contenuti trasmessi all’interno di questi corsi, ma non solo. Come già
detto, fattori altrettanto incidenti, sono le riviste e i libri consultati durante il periodo
della gravidanza. In merito all’utilità di questi ultimi, vi sono diversi pareri: tutte le
mamme raccontano di aver letto riviste o libri sebbene diversi siano stati i giudizi
attribuiti a queste letture. C’è chi parla di strumenti pe r far passare il tempo di attesa e
chi li definisce come elementi che ingenerano ulteriori dubbi, perplessità e incertezze
“…a me era capitato di leggere dei libri…questa cosa mi metteva ancora più
angoscia…” (Francesca, II intervista, righe 266,269). Oppu re Veronica si sente confusa
dai messaggi contrastanti offerti dai diversi articoli tanto da giungere ad affermare. “…
son tutte cose che ti riempiono la testa, ma che alla fine è meglio non leggere…”
(Veronica, II intervista, riga 288).
Oltre a ciò, non dobbiamo dimenticare il ruolo importante che rivestono i modelli di
riferimento contemplati all’interno del proprio ambito famigliare o della cerchia delle
amicizie. Il sapere di esperienze vissute da altri costituisce un fattore rassicurante per la
futura mamma. Possiamo dunque dire che la rappresentazione sviluppata dalla madre
durante la gravidanza, è una rappresentazione tutto sommato di una mamma
competente, che vive naturalmente la propria gravidanza, senza troppe preoccupazioni e
79
paure. Questa naturalità talvolta è turbata e messa in discussione dall’esperienza che le
donne fanno con i media e durante i corsi pre parto.
L’esperienza del parto è stata raccontata alle mamme centrando l’attenzione sul dolore
di quei momenti, dolore vissuto attimo per attimo e dove la percezione della dimensione
temporale viene alterata tanto da avere una dilatazione temporale. Le parole di Rosaria
sono esemplificative di ciò “…sembrava non arrivasse mai la fine, che fosse
lunghissimo che stessi soffrendo tantissimo” (Ro saria, II intervista, righe146,147)
Durante queste fasi il desiderio che tutto finisca è presente nelle mamme
“…pensavo…ancora un attimo, un po’ di pazienza, adesso è finita…”(Marta, I
intervista, riga 12). Il racconto del dolore del parto scivola poi subito sulla gioia e
incredulità data dal primo incontro con il proprio piccolo; la stessa Marta descriverà
questo momento così “magico” con “…pianto, pianto, un’incredulità, una tenerezza…
tenere in mano quel frugoletto…bellissimo”(righe14,15). Emozioni e ric ordi che
rimangono, nelle menti delle mamme, più vivi del dolore provato in quei momenti. Ma
la fase più interessante per indagare le rappresentazione che la madre sviluppa di sé e
quindi di riflesso del suo bambino, è quella relativa alla fase successiva al parto.
La rappresentazione di sé, che la maggior parte delle donne intervistate sviluppa nella
fase successiva al parto,è caratterizzata da sentimenti di inadeguatezza, di mancata
fiducia in sé stesse e di impotenza di fronte a situazioni nuove, non preventivate. Il
bambino ideale che occupava i loro pensieri nella fase della gravidanza, lascia spazio ad
un bambino reale, un bambino che soprattutto nei primi mesi di vita, ha innumerevoli
bisogni ed esigenze. Questa inadeguatezza è esperita dalle donne con diverse sfumature:
Rosaria descrive questa fase come densa di “…tensioni e preoccupazioni, perché in
effetti, superato quel momento, specialmente quando arrivi a casa, ti trovi un po’ sola,
abbandonata, inesperta impreparata…ti porta ad essere molto sen sibile, a cadere in
effetti in qualche momento di depressione…”(Rosaria, II intervista, righe
157,158.166,167). Francesca confermerà quanto sostenuto dall’amica Rosaria
descrivendo quella situazione di fragilità sperimentata dopo il parto “…mi sono
ritrovata in lei…quando diceva di questa difficoltà che si incontra dopo il parto…c’è un
momento di crollo generale e ti senti di una fragilità tale, quasi da dire sono impotente,
non riesco ad affrontare la realtà di questo bambino…” (Francesca, II intervista ri ghe
224,225 e 229-231). Altre mamme concentrano le loro inadeguatezze più su questioni di
80
ordine pratico, sul cosa fare quando il piccolo piange, sulle difficoltà dell’allattamento,
o sulle difficoltà legate alla cura del piccolo
Ci si può soffermare sulle strategie messe in atto dalle mamme per far fronte a questa
percezione della propria inadeguatezza.
Nella maggior parte dei casi, le mamme sebbene si siano sentite inadeguate, raccontano
di aver avuto la fortuna di non essersi sentite sole. L’ambiente fa migliare, i legami
affettivi, l’esperienza diretta degli altri a loro vicini, funge da elemento riparatore di
queste situazioni di crisi e di inadeguatezza. È il caso ad esempio di Francesca che
descrive il suo sentirsi inadeguata, ma non sola:
Francesca: inadeguata sì, da sola grazie a Dio no, perché vabè io non avevo sorelle ero
abbastanza vicino a lei(Rosaria). Ma mia mamma non mi ha mai lasciato. Devo dire che
mia mamma in quei mesi è stata…
Veronica: una mamma
Francesca: sì, sia per l’allattamento che non è stato facile e se ho allattato io lo devo a
lei. (Francesca, II intervista, righe 276-281)
È importante riflettere sulla figura dalla madre della neo madre, la quale riveste un ruolo
fondamentale in quella che Stern (1995) definisce la Trilogia materna. Infatti con la
nascita del piccolo si viene a creare una nuova triade psichica che prevede madre della
madre, madre e bambino. Gli interessi della neo mamma sono infatti rivolti a sua madre
in quanto madre di lei bambina e ciò è stato più volte confermato dalle parole delle
mamme intervistate, le quali fanno spesso riferimento all’aiuto e al ruolo rivestito dalla
propria madre soprattutto nel periodo successivo al parto. La propria madre spesso
sopperisce a quel bisogno di conferme e di fiducia in se stesse di cui le neo mamme
hanno bisogno.
Anche la vicinanza degli altri (marito, amici…) costituisce un fattore determinante per
far fronte alle situazioni destabilizzanti che fanno seguito al parto. La risposta
all’inadeguatezza sembra essere l’appello alla naturalità, all’esperienza diretta, ai
racconti fatti dagli altri “significativi” le cui parole risultano più efficaci e penetranti di
quelle fornite da specialisti e riviste. Paradossalmente anche le parole di Marta,
educatrice e mamma, la quale sostiene di non aver percepito questo senso di
inadeguatezza, giunge come conferma a quanto sopra esposto. Ella infatti ha impedito
che questo senso d’inadeguatezza avesse modo di insinuarsi nella sua esperienza di
81
madre, attingendo dalla sua diretta e quotidiana esperienza con i piccoli bimbi dell’asilo
nido Oibò presso il quale lavora. È attingendo da questo patrimonio personale che
Marta, alla domanda: hai provato un senso d’inadeguatezza dopo il parto, risponderà:
“no, ti spiego, perché io lavoro con i bim bi” (Marta,I intervista, riga 81 ).
È spesso questo senso di inadeguatezza, non opportunamente ridimensionato,
supportato e relativizzato, che si annida nei pensieri di una mamma ad indurla a
misconoscere le proprie competenze e a soffermarsi prioritariamente sui bisogni
fisiologici del piccolo più che sulle sue competenze.
La mancanza di un sostegno valido e reale, l’assenza di confronto, il venir meno di
quella che Stern (1995) definisce la “matrice di supporto”, vale a dire la presenza di altri
significativi che sostengano la mamma, l’appoggino, la valorizzino, l’apprezzino, la
consiglino, l’assenza quindi di una rete protettiva e benevola, pongono la mamma in
balia di queste forze che alterano il suo percepirsi competente.
Questo bisogno di conferme, di scambio, di incontro, sentito dalla mamma, affinché il
suo, forse in parte, naturale sentirsi inizialmente incompetente non sia rafforzato e
patologizzato dal sentirsi anche sola, necessità di risposte adeguate.
Sembra importante creare una rete di supporto alla maternità e alla genitorialità che
abbia come finalità non tanto e non solo quella di fornire conoscenza, ma che proceda
nel riconoscere, confermare, sostenere le competenze già insite nella madre e nel suo
piccolo. Spesso le neomamme hanno semplicemente bisogno di qualcuno che sappia
donare loro un gesto d’approvazione al loro agire, una parola di conferma che sia da
risposta ai loro dubbi e, come dice Rosaria, di “…una mano solo per dirmi stai
tranquilla se piange, o prendilo su, lascialo giù, non ti agitare…” .
Un sostegno, un incoraggiamento, delle conferme…potrebbero fungere da elementi
riparatori ed evitare l’ingenerarsi di quelle forme di depressione che tante volte
colpiscono le donne dopo il parto.
La madre probabilmente ha solo bisogno si essere rassicurata in ciò che, in maniera del
tutto naturale e competente, sa già fare.
Lo sguardo di Igea allo sviluppo delle competenze
Quanto detto fino a questo punto indica chiaramente come i protagonisti della nascita
siano portatori di importanti competenze. Inoltre, la ricerca riportata nel paragrafo
82
precedente indica come la rete sociale, i media ed i professionisti che accompagnano la
nascita possono influenzare il tipo di rappresentazioni che le madri (ed è possibile
ipotizzare un’influenza anche sulle rappresentazioni paterne) hanno delle competenze
loro e dei loro neonati. Concordiamo pienamente con Leboyer (1974) quando dice che
la prima cosa che dobbiamo imparare quando ci relazioniamo con la nascita è non
intervenire, aspettare, rallentare il tempo, perciò pensiamo che l’unico
accompagnamento possibile che può essere esercitato dalle figure professionali che
lavorano a contatto con il processo dell’endogestazione/parto/esogestazione è quello
legato al riconoscere, rispettare, confermare e sostenere le naturali competenze dei
protagonisti di questo percorso. Per quel che riguarda l’esogestazione riportiamo alcune
possibilità di intervento in questa direzione.
L’allattamento materno
L’OMS sottolinea ripetutamente l’importanza dell’allattamento materno esclusivo a
richiesta per almeno i primi 6 mesi di vita. Con il termine allattamento materno
esclusivo è intesa un’alimentazione costituita da solo latte materno, senza aggiunta di
latte di formula o liquidi in genere, benché sia concesso l’utilizzo di vitamine, minerali
e/o medicine. Attualmente si raccomanda la prosecuzione dell’allattamento al seno
anche dopo il divezzamento e, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, fino al secondo
anno di vita o fino a che la mamma e/o il bambino stesso lo desiderino.
Le caratteristiche del latte di donna sono peculiari: infatti varia in composizione
secondo l’età gestazionale del neonato, il momento della giornata, durante la stessa
poppata e nel corso complessivo dell’allatta mento, fornendo ad ogni singolo neonato un
latte che risponde quanto più possibile alle sue esigenze. Il suo contenuto proteico è tale
da rispondere per qualità e quantità alle esigenze metaboliche del neonato. Contiene
lattosio, con il molteplice ruolo nella protezione verso le infezioni, particolarmente
gastrointestinali, e nel fornire energia e substrati per lo sviluppo cerebrale e grassi
facilmente digeribili e assorbibili. E’ relativamente povero di minerali che il rene
immaturo del neonato farebbe fatica a smaltire. Ha un contenuto ottimale di vitamine
(ad eccezione della vitamina K) e di fattori di crescita capaci di stimolare la maturazione
del sistema nervoso centrale e dell’intestino del lattante.
83
Sono ormai numerose le ricerche sperimentali ed epidemiologiche che documentano
vantaggi a breve, medio e lungo termine dell’allattamento al seno. Il latte materno ha
effetti favorevoli sulla crescita del bambino e nella prevenzione di: malattie atopiche,
obesità e malattie cardiovascolari, diabete mellito, malattia celiaca, rettocolite ulcerosa,
Morbo di Crohn e neoplasie, in particolar modo quelle linfatiche. Ha inoltre un ruolo
primario nello sviluppo dell’immunocompetenza e nella prevenzione delle infezioni
degli apparati respiratorio, urinario e gastro-enterico. In particolare si segnala l’effetto
protettivo del latte di donna nei confronti dell’enterocolite necrotizzante nel neonato
pretermine. Molto ben documentato è anche il vantaggio psicologico derivante al
bambino dall’allattamento materno, inoltr e è stata evidenziata una relazione
dell’allattamento con lo sviluppo cognitivo, misurato mediante le scale Bayley, con lo
sviluppo del linguaggio infantile, con la minor incidenza di disturbi dell’apprendimento.
Negli ultimi decenni, anche in Italia, si è assistito ad una ripresa dell’allattamento
materno, soprattutto nelle prime settimane di vita del bambino e alla dimissione. Resta
tuttavia molto alto il tasso di interruzione, in particolare nel II-III mese di vita del
bambino.
Spesso l’interruzione prec oce dell’allattamento ha a monte, ad esempio:
- un atteggiamento non sempre coerente lungo l’intero itinerario di
accompagnamento della gravidanza, del puerperio del periodo neonatale
- la sfiducia di essere “sufficiente” ed “adeguata” alle necessità ali mentari del
bambino
- la credenza di non avere latte che alimenta la paura di “danneggiare” il bambino
- pratiche scorrette di allattamento durante le prime fasi di allattamento, acutizzate
dalla dimissione precoce (non protetta) e dalla solitudine durante la “montata lattea”
La solitudine amplifica la difficoltà di interpretare il comportamento e i bisogni del
bambino, di leggere contemporaneamente in modo adeguato gli stessi bisogni materni e
di coppia
dimissione 1° mese 3° mese
Dimissione tradizionale 85,90% 75,40% 57,90%
Dimissione precoce 80,80% 73,10% 57,70%
Dimissione precoce e rooming-in 85,50% 65,50% 53,70%
84
Dimissione precoce, protetta e rooming-in 93,50% 80,70% 69,30%
Tabella 1. Effetti della modalità di dimissione sulla frequenza di allattamento materno
alla dimissione, al primo e al terzo mese
Alcuni studi hanno focalizzato l’attenzione sulla relazione tra le modalità di accoglienza
perinatale e la durata dell’allattamento materno. Uno dei punti su cui si sta discutendo è
se la dimissione precoce, introdotta prevalentemente per ragioni economiche, possa
rappresentare un danno per la prosecuzione dell’allattamento La letteratura in proposito
è particolarmente controversa. La maggior parte dei lavori focalizza l’attenzione sulla
precocità della dimissione e segnala, in maggioranza, un effetto positivo di questa
sull’allattamento.
In una ricerca condotta presso la Clinica Pediatrica dell’Università di Parma (Braibanti,
S., 2002, Bussolati et al. 2003) evidenzia che la riduzione della degenza ospedaliera non
comporterebbe percentuali di allattamento inferiori rispetto a una dimissione più tardiva
(tab. 1). Per quanto riguarda il solo rooming-in, esso non sembra determinare un
incremento significativo dei tassi di allattamento se svolto in modo parziale. Il rooming-
in parziale non appare modificare significativamente nemmeno la durata
dell’allattamento materno esclusivo né la durata complessiva dell’allattamento al seno.
La dimissione precoce protetta favorisce al contrario un più elevato tasso di allattamento
–materno esclusivo e misto– nei periodi dimissione, 1°, 3°, 6° mese di vita del bambino.
In accordo con la letteratura, tale tendenza potrebbe verosimilmente anche essere
riconducibile alle politiche di promozione dell’allattamento, sempre più presenti negli
ultimi anni. Il successo dell’allattamento al seno è infatti influenzato in modo positivo
dalla partecipazione della madre ai corsi di preparazione al parto, mentre al contrario
l’utilizzo del succhiotto riduce il tasso di allattamento al seno e la sua durata
complessiva.
I dati contribuiscono a chiarire la differenza tra l’effetto attribuibile alla sola dimissione
precoce, rispetto a quello della dimissione appropriata. Si può infatti notare come la
riduzione della durata della degenza ospedaliera comporti un calo delle percentuali di
allattamento.
L’introduzione del solo rooming -in non riesce ad arginare la riduzione dei tassi di
allattamento portati dalla dimissione precoce. Qualora invece al rooming-in e alla
85
dimissione precoce siano affiancate appropriate misure di accompagnamento e di
follow-up, sia in reparto, sia a domicilio e in cui venga generalizzata la pratica della
preparazione al parto, i tassi di allattamento al seno subiscono un netto miglioramento.
In conclusione si può affermare che il sistema di promozione più idoneo ad incentivare
l’avvio e la prosecuzione dell’allattamento materno è quello di inserire la madre in un
percorso di sostegno che parte dagli incontri preparto, passa dal rooming-in e prosegue
con adeguate misure di accompagnamento alla genitorialità e allo sviluppo del bambino
nei primi mesi di vita. Sostenere l’allattamento materno, insomma, rinvia in modo
consistente alle più generali condizioni di accoglienza, coerenza e sostegno delle risorse
materne che devono caratterizzare l’intera esperienza della gravidanza, del puerperio,
della nascita e delle relazioni padre-madre-bambino nel primo anno di vita
Favorire, attraverso il contatto precoce, lo sviluppo delle autoregolazioni
Come hanno mostrato numerosi studi (Klaus, et al. 1972; Greenberg et al., 1973; Klaus
e Kennell, 1982) il tempo trascorso dalla madre col neonato è critico nel favorire
l'attaccamento e lo stabilirsi della comunicazione immediate tra madre e bambino e
sembra avere effetti positivi a lungo termine sull'atteggiamento materno e sulla
competenza, la quantità e la qualità delle cure parentali. Da alcune ricerche risulta che a
tre mesi anche il bambino mantiene una maggiore capacità di rispondere agli stimoli
sociali e appare meno soggetto a crisi di pianto.
(La relazione precoce e prolungata tra madre e neonato ha sicuramente effetti positivi e
di lungo periodo nelle madri ad alto rischio (O'Connor, 1982), a conferma del fatto che
la cosiddetta umanizzazione dell'ostetricia e della perinatologia, anziché essere
confinata ai casi normali e a basso rischio, ha un'indicazione specifica proprio laddove
le condizioni sono meno favorevoli ad una gravidanza, un parto e un modello di
relazione madre-bambino positivi. E' in questi casi, infatti, che più difficilmente la
natura può porre rimedio agli insulti e agli errori: nei casi normali la madre ed il
bambino trovano, nella loro stessa relazione, le risorse per sopperire alla mancanza di
un contatto precoce; probabilmente ciò non può avvenire con altrettanta facilità nei casi
patologici o ad alto rischio, ed è allora che le condizioni di nascita e di accoglienza al
bambino possono davvero risultare critiche ed irreversibili.???) Il contratto precoce tra
madre e bambino ha mostrato di influenzare le competenze materne nella facilitazione
86
delle regolazioni comportamentali del neonato (Braibanti, P, Panichi, L., Bertini, M.,
1994). In questa fase particolarmente significativa potrebbe essere molto importante
fornire alle madri e ai padri l’opportunità di una conoscenza delle attitudini relazionali e
delle competenze neonatali. In questa direzione un intervento per la prevenzione dei
disturbi dell’attaccamento in neonati pretermi ne (Cecchini M., Cataudella S., Langher
V., 2002) ha utilizzato una modalità volta a favorire l’osservazione ed il riconoscimento
delle competenze del neonato da parte dei genitori e a favorire alcuni comportamenti di
“risposta”, ritenuti adeguati, da part e dei genitori (come ad es. imitazione dei movimenti
della bocca del neonato). Presi nel loro complesso questi dati suggeriscono ancora una
volta che un’accoglienza attenta e competente, “senza violenza”, alla nascita
rappresenta un momento importante in grado di caratterizzare l'esperienza della madre,
del padre e dello stesso neonato, inserito in un percorso che deve però essere
considerato unitario e inscindibile, dall'endogestazione all'esogestazione. La sua
"efficacia" nella promozione non solo del benessere immediato del bambino, ma anche
del suo successivo sviluppo è proprio correlata in gran parte al tipo di legame che in
questo percorso si stabilisce e si consolida tra i protagonisti diretti della nascita. Cercare
di irrigidire tutto questo in una tecnica è impossibile e sbagliato e il compito
dell'operatore si riduce a prestare attenzione perché nulla, nel proprio lavoro
assistenziale, possa compromettere la forze naturale con cui questi legami fanno la loro
comparsa sullo scenario di una nuova vita.
Le life skills per i neonati e i genitori
Quanto detto fin qui, mostra che non ci si può occupare dei luoghi, senza occuparsi
degli individui, né dei singoli senza tenere in considerazione le relazioni tra di loro e la
rete sociale, allo stesso modo non è auspicabile progettare percorsi separati per
l’endogestazione, il parto e l’esogestazione. E’ necessario relazionarsi al processo della
nascita in modo sistemico, rispettandone l’ecologia e la complessità.
Le competenze del bambino, della madre e del padre sono un patrimonio epigenetico,
dinamico e in crescita, non un’acquisizione innata e immodificabile. Per questo tali
competenze devono essere:
· Riconosciute
· Rispettate
87
· Confermate
· Sostenute
in ogni momento dell’accompagnamento della gestazione, del parto, della nascita e
della cosiddetta “esogestazione”
I protagonisti della nascita hanno bisogno di una RETE COMPETENTE in grado di
· Confermare e sostenere le capacità di fronteggiare l’impegno della crescita e
dello sviluppo
· Offrire un supporto rispettoso ed attento alla soluzione dei problemi a cui la
triade può andare in contro nei primi mesi di vita del bambino
· Garantire un sostegno alla gestione della vita quotidiana, ove necessario
· Sostenere l’autostima dei genitori e offrire loro un ad eguato supporto
psicologico
Esperienze internazionali e nazionali, come la “Lega per l’allattamento materno”, le
iniziative de “Il Melograno”, del Centro Nascita Montessori, delle Associazioni di
donne e operatori (come Nascita Attiva), i “Percorsi nascita ” di alcune realtà italiane, i
dispositivi legislativi di alcune Regioni, come l’Emilia -Romagna e le Marche (che
prevede tra l’altro anche ‘introduzione della Casa di Maternità come alternativa ai “non
luoghi della nascita”) mostrano come questo obiettivo possa essere perseguito mediante
il dispiegamento di un ventaglio di strumenti, di interventi, di occasioni di confronto e
di scambio di esperienze.
Nell’ambito della Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute dell’Università
di Roma “La Sapienz a” e del Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione
dell’Università di Bergamo, stiamo cercando di capire come queste riflessioni ed
esperienze possano facilitare lo sviluppo di un vero e proprio programma di Promozione
delle life skills neonatali e della genitorialità, mediante un programma di ricerca-azione
orientato ai seguenti obiettivi:
Costruzione di percorsi di accompagnamento alla nascita, non circoscritti unicamente
agli ultimi mesi di gravidanza secondo le linee indicate all’inizio del contributo (cfr.
par. Lo sguardo di Igea ai luoghi dell’Endogestazione)
Promozione di processi di self-empowerment e di sostegno multidimensionale alla
genitorialità, con particolare riferimento all’individuazione e alla facilitazione delle
abilità personale e sociale della coppia genitoriale nelle prime fasi dello sviluppo
88
Alla base di tale azione promotiva vanno posti alcuni principi chiave, come ad esempio:
· Valorizzazione delle potenzialità, risorse, capacità e abilità che il bambino mostra di
possedere
· L’impor tanza nei processi di sviluppo del bambino dell’azione di incoraggiamento e
consolidamento della fiducia di base
· Attenzione alle relazioni instaurate dal bambino con oggetti, bambini, educatori,
genitori, partendo dal presupposto che gli interlocutori del bambino sono potenziali
agenti di sviluppo
· L’importanza di consolidare nei genitori i processi di fiducia in se stessi e nel
proprio bambino
· L’importanza di costruire rapporti di fiducia tra genitori ed educatori/operatori dei
servizi e delle istituzioni per l’infanzia
· Il rilievo che rivestono nello sviluppo del bambino i desideri, le paure e le
aspettative e la speranza dei genitori
· Il valore dell’osservazione/attenzione alle attività per il bambino
· La flessibilità come caratteristica determinante per un corretto approccio educativo
Costruzione di una rete di sostegno sociale sui temi della genitorialità e dello sviluppo
della prima infanzia – analisi degli stakeholders. L’integrazione dei diversi momenti
assistenziali e di supporto in uno scenario di continuità che riduca o annulli le cesure tra
la gravidanza, il parto, il puerperio e i primi mesi di vita del neonato può essere
perseguita con lo sviluppo di una rete territoriale volta a garantire un adeguato sostegno
sociale alla genitorialità e allo sviluppo della prima infanzia. Tale sforzo sarà sostenuto
da un’analisi del contesto effettuata tramite l’a nalisi degli stakeholders, focus groups,
interviste a testimoni privilegiati ed altri strumenti di analisi qualitativa che consentano
di delineare un profilo di comunità sui temi della genitorialità e dello sviluppo infantile.
Formazione di operatori sociali di base in grado di sostenere interventi
multidimensionali di promozione dello sviluppo e di sostegno alla genitorialità. Questa
attività sarà destinata ad operatori (medici, psicologi, ostetriche, educatori, assistenti
sanitari, assistenti sociali) che nell’ambito del proprio ruolo istituzionale nei servizi
sanitari, sociali ed educativi, sono chiamati ad accompagnare l’esperienza della
gravidanza, del parto, dello sviluppo del bambino dalla nascita al terzo anno di vita. Il
modulo è orientato a favorire la costituzione di équipe territoriali multidimensionali
89
capaci di attivare progetti integrati di intervento di promozione della genitorialità e dello
sviluppo del bambino. I motivi generali, cui il modulo si ispirerà, sono quelli dettati da
una concezione "positiva" di salute che tende a valorizzare le risorse esistenti più che a
sottolineare gli errori. Seguendo strategie utilmente sperimentate in altri contesti,
verranno forniti strumenti concreti per lo sviluppo delle cosiddette competenze
psicosociali (Life Skills), sia a livello personale sia a livello della coppia genitoriale o di
gruppo.
Un punto di partenza: incontri con i genitori ed esplorazione di un nuovo ruolo
dell’operatore (psicologo, educatore)
Le prime esperienze nate cercando di perseguire gli obiettivi indicati nel paragrafo
precedente, sono state all’interno della Scuola di Specializzazione in Psicologia della
Salute dell’Università di Roma “La Sapienza” e del Corso di Laurea in Scienze
dell’Educazione dell’Università di Bergamo. Sono due lavori il cui scopo è stato quello
di verificare la possibilità di offrire alla genitorialità percorsi di accompagnamento
all’interno dei servizi per l’infanzia ed un loro ampliamento a partire dalla gravidanza e
magari anche prima. Entrambi i lavori sono lavori di ricerca perché concordiamo con la
considerazione di Stern (in Solano, 1999) secondo cui molto spesso un setting di ricerca
può essere il più utile quando si voglia lavorare con genitori e neonati, perché il
rapporto è più paritario, non si chiede alle persone di aver bisogno dell’esperto, anzi!, è
proprio l’esperto che ha bisogno di loro in qualità di esperti.
(Inserire qui una sintesi dei lavori di Eleonora e Teresa (questo soprattutto sul, tema del
“gruppo sostenitore di emozioni”) e richia mare il lavoro di Maria Luisa – richiamare la
proposta dell’accompagnamento della genitorialità nei servizi per l’infanzia a partire
dalla gravidanza o anche prima.)
Un primo tentativo di applicazione di questi presupposti è stato effettuato all’interno di
uno studio volto ad approfondire l’effetto delle relazioni tra genitori e neonati sulla
regolazione degli Stati Comportamentali. La regolazione degli Stati Comportamentali,
mediata dallo sviluppo del SNC e dalla relazione tra neonato e partner evolutivi, implica
in modo rilevante le rappresentazioni sociali (Farr e Moscovici, 1984). Una dis-
regolazione in genera determina il ricorso da parte dei genitori ad “esperti”, il cui
intervento si volge prevalentemente agli aspetti biologici e psicologici trascurando
quelli sociali. Utilizzando la metodologia di ricerca qualitativa della Grounded Theory
90
(Glaser e Strauss, 1967; Strauss e Corbin, 1990; Cicognani, 2002; Cicognani in
Mazzara, 2002), abbiamo incontrato per 3 volte un gruppo di genitori, neonati ed
operatori, presso il consultorio di S. Nicolò, con l’obiettivo di far emergere le loro
rappresentazioni sociali sui disturbi di sonno e valutare la possibilità che tale percorso le
potesse modificare. Dall’analisi delle trascrizioni degli incontri emerge che i genitori
considerano il disturbo di sonno uno tra i comportamenti caratteristici del loro neonato e
che sono attivi nella ricerca di “soluzioni”, ma non si percepiscono come esperti. Il
gruppo offre un’occasione di confronto con le esperienze degli altri g enitori e con gli
operatori, normalizzando la percezione del disturbo e avviando la modifica delle
rappresentazioni delle proprie competenze genitoriali. L’avvio di questo processo è
facilitato dal clima di fiducia presente nel consultorio, clima sostenuto dallo psicologo
della salute. Il lavoro sembra rivolto più alla promozione delle life skills nel primo anno
di vita, che alla dis-regolazione degli Stati Comportamentali.
Il secondo tentativo si è inserito all’interno di uno studio sulla possibilità di
cooperazione tra caregivers nel contesto dell’Asilo Nido e sull’influenza di tale
cooperazione sul miglioramento del clima e dell’ambiente di sviluppo del bambino
all’interno del nido. A tal fine si sono incontrati per 3 volte genitori ed operatori di un
asilo nido (Pollicino) e di un nido in famiglia (Gli gnomi) di Bergamo. Anche in questo
caso è stata utilizzata la metodologia di ricerca della Grounded Theory e attraverso
l’analisi delle trascrizioni degli incontri effettuati si è giunti ad individuare come core
category, ovvero come categoria centrale che condensa le principali dimensioni
dell’analisi delle interviste (Demazière, Dubar, 2000) quella del gruppo come
contenitore di emozioni. Di nuovo quindi genitori ed operatori individuano nel gruppo
un mezzo centrale una rete di sostegno a maglie larghe, che mentre abbraccia e conforta,
libera e incoraggia l’autonomia (abbraccia e conforta, libera ed incoraggia). Inoltre
emerge una rappresentazione del gruppo come un luogo di cooperazione, di dialogo, di
promozione della comunicazione, di scambio, in cui è possibile ottenere forza e fiducia
e raggiungere un equilibrio armonico.
Entrambi i lavori ci portano ad identificare il gruppo composto da genitori e da operatori
come uno dei luoghi centrali della nascita (percorso
endogestazione/parto/esogestazione).
91
Il confronto con un gruppo consente a genitori ed operatori di mettere in gioco le
proprie rappresentazioni e di rendersi disponibili a modificarle, affinché questo sia
possibile è necessario che le persone che partecipano possano provare fiducia nel
gruppo. L’acquisizione della fiducia è considerata essenziale per lo sviluppo dell’essere
umano dai teorici dell’Attaccamento (Bowlby, 1979; Parkes et al., 1991) e da Erik
Erikson (1963), come sostenuto da Mario Bertini in occasione di diversi incontri.
Erikson sostiene che la prima qualità dell’Io che il bambino deve raggiungere al termine
del primo stadio psicosociale (0 – 12 mesi) è proprio quella della fiducia, fiducia nei
genitori. Il raggiungimento dello stadio è possibile solo se i genitori si mostrano
amorevoli, prevedibili ed attendibili.
Potrebbe perciò essere utile considerare come primo obiettivo evolutivo di gruppi di
genitori ed operatori nel percorso nascita, lo sviluppo di un clima di fiducia. Il passo
successivo è cercare di capire cosa dovrebbe fare l’operatore della salute e l’educatore
(mi sembra necessario specificare qui anche la figura dell’educatore se poi nel paragrafo
della conclusione Eleonora vuole che ci siano anche delle considerazioni sull’educatore)
per permettere che i soggetti che partecipano al gruppo possano raggiungere questa
fiducia, probabilmente niente di più di ciò che fanno i genitori: fornire al gruppo quello
che Winnicott (1956) chiama un ambiente sufficientemente buono.
Uno dei contributi principali di tutti i soggetti che partecipano ad un gruppo è l’essere
portatori di rappresentazioni sociali (Farr e Moscovici, 1984), è essenziale che gli
operatori della salute sostengano la costruzione della narrazione nelle prime fasi del
gruppo, in questo modo le rappresentazioni di cui ogni soggetto è portatore potranno
essere esplicitate e confrontate. In un ambiente che comunque facilita, è rispettoso e
disponibile, lentamente il gruppo inizierà a lavorare alla decostruzione delle
rappresentazioni precedenti e alla costruzione di nuove rappresentazioni, questa volta
condivise da tutti i partecipanti. Questo sembra essere accaduto nell’esperienza con i
genitori e gli operatori di S. Nicolò e di Bergamo, ma è fondamentale non trascurare in
entrambi i casi l’influenza della cultura condivisa preesistente tra le persone. Qualora
questa fosse meno rilevante, allora sarebbe necessario lavorare con più attenzione alla
creazione di questa fiducia, sostenendo soprattutto la fase di decostruzione.
Proseguendo su questa linea di intervento, una volta che la fiducia si fosse consolidata,
il processo di costruzione di rappresentazioni sociali condivise fosse avviato, il gruppo
92
fosse divenuto consapevole di questi processi e fosse possibile rintracciare una domanda
di continuare ad incontrarsi, potrebbe essere utile prendere in esame la possibilità di
trasformarlo in un gruppo indipendente dalla figura professionale che le ha dato
l’avvio…in fin dei conti, volendo continuare con il parallelismo tr a lo sviluppo di un
neonato e quello di un gruppo la seconda qualità che Erik Erikson indica per lo sviluppo
psicosociale è quella dell’autonomia!
In fondo il gruppo di genitori che si è costituito durante e mediante gli incontri e che è
divenuto per i partecipanti un “contenitore di emozioni” non è altro che una forma
particolare di Cultura Locale (Carli R., 2000) che, espressa e rivelata attraverso le parole
delle persone, si origina e costituisce a partire dal modo in cui il gruppo elabora e
condivide le emozioni.
Una Cultura Locale dei genitori o, per meglio dire, una Cultura Locale di tutti gli agenti
di sviluppo.
Dunque una volta che il gruppo diventa Cultura Locale, esso è perfettamente in grado,
se i partecipanti lo desiderino, di auto gestirsi ed auto regolarsi senza la presenza dello
psicologo della salute o dell’ educatore Queste azioni sono riconducibili ad un possibile
modello d’intervento di Psicologia della Salute in quanto non terapeutiche, né educative
ma volte a sollecitare un processo di costruzione attiva e condivisa della conoscenza, a
riconoscere, sostenere e promuovere le risorse esistenti, rispettando comunque le scelte
dei soggetti (Braibanti, 2003).
Consultori e asili nido sono luoghi di relazione e devono puntare proprio a lavorare
sulla complessità delle reti che si costituiscono tra operatori, educatori e genitori
attraverso incontri come quelli avvenuti a S. Nicolò e a Bergamo.
Non basta però possedere un luogo “fisico” in cui vedersi, è necessario che le persone
che decidono di incontrarsi, credano nella cooperazione e nella partecipazione attiva di
ciascuno di loro per arrivare ad edificarsi in un gruppo in cui tutti i membri si
sostengano e si assistano l’un l’altro.
Si tratta di arrivare ad una progressiva responsabilizzazione (e auto-
responsabilizzazione) che divenga un contributo significativo nella costruzione
dell’identità genitoriale di ciascun partecipante.
93
Gli interrogativi e le preoccupazioni di ogni genitore che prendono forma nelle parole
delle persone diventano, durante incontri di questo genere, più concreti, più “reali”, più
circoscrittivi e circoscrivibili e, quindi, più affrontabili perché relativizzati all’interno
della dimensione-gruppo.
Il gruppo è “una sorta di rifornimento affettivo (per i genitori ma anche per i bambini,
ndr) durante la marcia, piuttosto che un pieno di energia da accumulare prima di partire”
(Fortunati A., 1998).
È un percorso non solo teorizzabile ma anche possibile dato che si è verificato sia a S.
Nicolò che a Bergamo.
Incontri di questo genere permettono di giungere a molte e importanti conquiste:
· una maggiore sensibilità nel cogliere i molteplici segnali del bambino;
· una maggiore capacità e consapevolezza nell' offrire risposte pertinenti a tali
segnali;
· una maggiore prontezza ed abilità nell'adottare da parte dei genitori
comportamenti insieme funzionali e concreti;
· la possibilità di portare all'interno del gruppo le rappresentazioni che ciascun
genitore si è creato intorno, per esempio, alla struttura-nido che ospita il suo bambino, al
bambino e al suo sviluppo, alle educatrici, agli operatori, potendo in questo modo
rielaborare e inserire queste rappresentazioni in un percorso progressivo e condiviso di
smitizzazione, liberazione dai pregiudizi e concretizzazione fertile perché, come
afferma Stephen Frost in "Voci Multiple": "le parole non sono trasparenti, non dicono
solo quello che dicono";
· la possibilità di condividere con altri la propria esperienza di genitore.
· la possibilità di abbandonare convinzioni e credenze, lette magari sui giornali o
discusse con amici e parenti, per edificare nuove rappresentazioni del bambino e del
genitore come persone attive e competenti.
Sembra che da questi incontri con i genitori di entrambe le strutture siano risultati uno
scambio ed un dialogo ricchi e produttivi sia tra i genitori sia tra genitori ed equipe
educativa per condividere i reciproci punti di vista relativamente alla scelta dell'asilo
94
nido e del nido in famiglia, ai sentimenti e alle emozioni, alle rappresentazioni che tutti
hanno in merito alla struttura, alle educatrici ed ai bambini.
Incontri di questo genere sono proficui per giungere a:
· una maggiore sensibilità nel cogliere i molteplici segnali del bambino;
· una maggiore capacità e consapevolezza nell' offrire risposte pertinenti a tali
segnali;
· una maggiore prontezza ed abilità nell'adottare comportamenti insieme
funzionali e concreti;
· la possibilità di portare all'interno del gruppo le rappresentazioni che ciascun
genitore si è creato intorno alla struttura-nido, al bambino e al suo sviluppo, alle
educatrici, potendo in questo modo rielaborare e inserire queste rappresentazioni in un
percorso progressivo e condiviso di smitizzazione, liberazione dai pregiudizi e
concretizzazione fertile perché, come afferma Stephen Frost in "Voci Multiple", "Le
parole non sono trasparenti, non dicono solo quello che dicono";
· la possibilità di condividere con altri la propria esperienza di genitore.
I genitori sono apparsi consapevoli della complessità dei bisogni educativi dei loro figli
e della necessità di dialogare e di condividere la responsabilità sia con chi si è formato
professionalmente (riconoscendo in questo modo il ruolo e la qualità del mestiere
dell'educatore) sia con altri genitori. Si e' reso evidente in questi incontri, attraverso le
parole dei genitori, che, come un bambino assorbe ed impara dal genitore le cose più
evidenti (a camminare, a parlare, a mangiare, a lavarsi ecc.) e le cose meno evidenti
(l'uso dei meccanismi di difesa, le modalità relazionali, ecc.), così, anche il genitore
reimpara dal proprio figlio osservandolo, comunicando con lui con parole e gesti. I
genitori in questo modo hanno la possibilità di abbandonare le loro convinzioni, lette
magari sui giornali o discusse con amici, e di edificarne altre nuove, rappresentazioni di
un bambino competente e soggetto attivo. A loro volta queste ultime rappresentazioni
sono cadute e si sono riedificate durante l’incontro attraverso il dialogo con altri genitori
e quindi conoscendo altre esperienze. Un lavoro di ricostruzione lungo e spesso difficile
che si colloca all'inizio. Questi incontri potrebbero essere letti come la prima pietra del
ponte che collega genitori tra loro e i genitori con le educatrici e la responsabile del
nido.
95
E’ il ponte del dialogo e della relazione. A rifletterci bene, il nido si fonda proprio sulla
pedagogia della relazione, una pedagogia che mentre tiene conto della complessità della
relazione tra bambino e gruppo (di bambini) e tra bambino ed educatore, deve anche
puntare e lavorare sulla complessità della relazione tra educatori e genitori. Dimenticare
questo significa non considerare il bambino come soggetto con una storia e facente
parte di un contesto, ma vedere il bambino solo come soggetto da accudire nell'hic et
nunc dell'esperienza educativa nel nido, solo nel nido.
Tutti, educatori, bambini, genitori, devono apprendere e modulare comportamenti e
relazioni. Questi genitori vedono nel nido un'ottima struttura educativa non solo per il
proprio bambino ma anche per loro. Dalle educatrici possono e vogliono ricevere
consigli e suggerimenti, desiderano essere confortati e 'tranquillizzati". Desiderano, in
altre parole, dialogare tra loro. Ma questo "lavoro" non e' possibile farlo solo nei pochi
minuti in cui il genitore porta o viene a prendere il proprio bambino al nido; non e'
sufficiente. Sono necessari incontri più profondi, in cui ogni persona, genitore o
educatore, abbia la possibilità di "mettersi in gioco", di parlare liberamente, di dialogare
con altre persone che, come lui o con lui, vivono l'esperienza-nido.
Solo in questo modo genitori ed equipe educativa possono costituirsi in un gruppo e
diventare un punto di riferimento forte per i bambini, in grado di assicurare loro la
serenità necessaria per intraprendere questa avventura fuori casa.
Il compito dell'ultima delle tre codifiche proposte dalla Grounded Theory (Glaser e
Strauss, 1967; Strauss e Corbin, 1990; Cicognani, 2002; Cicognani in Mazzara, 2002),
ovvero la codifica selettiva, prevedeva l'elaborazione di una categoria centrale (core
category) attorno alla quale possano essere raggruppate ed integrate le altre. Il risultato
e' una categoria centrale ed un fenomeno centrale (Cicognani, 2002). Ebbene, la core
category della mia ricerca, la categoria centrale che condensa le principali dimensioni
dell'analisi (Demaziere, Dubar, 2000) è la categoria: "Il gruppo come contenitore di
emozioni". Genitori ed equipe educativa, incontrandosi e conversando intorno a temi
che reputano centrali, arrivano a costituirsi in un gruppo che nel suo essere contiene in
Sé principalmente la capacita di divenire un contenitore di emozioni.
Le persone che creano il gruppo lo fanno in quanto credono nella cooperazione e nella
partecipazione attiva di ciascun membro al fine di giungere ad edificarsi quale base,
"mattone", basamento dell' istituzione-nido. Il gruppo in quanto totalità dinamica basata
96
sull'interdipendenza (Lewin, 1948) prevede, dunque, che tutti i suoi membri Si
sostengano e Si assistano l'un l'altro soprattutto nei momenti di difficoltà. All'interno del
gruppo ogni persona ricerca e trova un sostegno, un appoggio, un luogo in cui dialogare.
Le preoccupazioni, i timori e le ansie, messe in comune, condivise, vengono contenute.
E’ l'unione che dà la forza per affrontare gli interrogativi che normalmente sorgono nei
genitori. Quello che avviene nell'incontro tra genitori e tra genitori ed equipe educativa
è il concretizzarsi di una nuova figura di genitore, Un genitore attento, che non delega
all'istituzione-nido lo sviluppo e l'educazione dei propri figli, ma che si "prende carico"
delle sue responsabilità, agendo nella struttura, partecipando, presenziando. Ritengo che
questa progressiva responsabilizzazione (e auto-responsabilizzazione) divenga per i
genitori un contributo significativo nella costruzione della loro identità genitoriale,
rendendoli, indubbiamente, meno fragili e più consapevoli.
Ma il gruppo può divenire "contenitore di emozioni" solo se, alla base di esso, risiede il
dialogo. E’ infatti il dialogo a permettere il raggiungimento della consapevolezza che
ansie, paure ed "errori" dei genitori sono comuni a tutti. I problemi e le preoccupazioni
di ogni genitore, prendendo forma nelle parole, diventano, durante incontri di questo
genere, più concreti, più "reali", più circoscritti e, quindi, certamente difficili da vivere
ma comunque affrontabili perché relativizzati. Per rendere più chiare la funzione e
l'importanza del gruppo, si potrebbe dire che il gruppo è: "una sorta di rifornimento
affettivo per il bambino e per i genitori, (ndr), durante la marcia, piuttosto che un pieno
di energia da accumulare prima di partire” Aldo Fortu nati (1998, pag. 51).
Ecco il grande valore e la fantastica innovazione che si dovrebbe attivare all' interno
delle strutture nido: creare una rete che tenga uniti bambini, educatrici e genitori. Una
rete a "maglie larghe" che mentre abbraccia e conforta, libera e incoraggia 1'autonomia.
Cito ancora Aldo Fortunati (1998, pag. 52): "E' un altro modo di accompagnare il
bambino, di costruire relazioni multiple significative con diversi interlocutori sociali,
adulti, coetanei e non”
(Ma per riuscire a comprendere a quali conclusioni sono giunta alla fine della mia
ricerca, e' necessario fare un passo indietro.)
Le domande iniziali della ricerca erano legate al desiderio di conoscere le
rappresentazioni che i genitori dell'asilo nido e del nido in famiglia hanno in merito a se
stessi in quanto figure genitoriali, alla loro esperienza-nido, ai bambini e alle educatrici
97
che lavorano all'interno del nido, per poter giungere, poi, a comprendere se sia possibile
creare, qualora non esista già, una cooperazione, un "gioco di squadra", tra genitori e
genitori ed equipe educativa al fine di promuovere uno sviluppo armonico del bambino.
Le rappresentazioni raccolte tramite le interviste narrative, sono state analizzate
mediante l'approccio della Grounded Theory, che ci ha portati ad evidenziare una
categoria centrale ("Il gruppo in quanto contenitore di emozioni") da cui si sviluppano
queste riflessioni conclusive. Come sostiene Carli (2002) "ogni produzione linguistica,
così come ogni altro atto comportamentale, e' riconducibile anche all'espressione del
modo d'essere inconscio della mente". Le parole che costituiscono gli atti comunicativi
sono portatrici di emozioni e dunque possono essere definite "parole dense", Si
presentano cosi come "polisemiche". La polisemia della parola, in quanto gesto
emozionale (Carli, 2000 o 2002 AET???), risiede nel fatto che essa può avere infiniti
significati. La parola in Sé è "puro significante, senza vincoli specifici ed univoci di
significato. Significante che ha senso solo entro la dinamica collusiva, in quanto atto di
comunicazione emozionale infinita" (Carli R., 2000). E’ solo il contesto linguistico,
dunque, a limitare la polisemia delle parole, permettendo cosi Ia comunicazione. Le
parole inserite in un contesto linguistico e seguendo le condizioni poste dal ricercatore,
fondano la cosiddetta Cultura Locale.
Se queste considerazioni, tratte da Renzo Carli, vengono riportate all'interno della
ricerca e quindi all'interno delle interviste narrative, si arriverà ad individuare come
"contesto che raggruppa le persone intervistate" (Carli, 2000) la richiesta, da me
avanzata, di far parlare i genitori in merito alla loro esperienza-nido, e si potranno
individuare alcuni raggruppamenti di parole, tenuti insieme dallo stesso significante
emozionale, che forniscono le informazioni proprio sulla Cultura Locale di cui questi
genitori sono portatori senza saperlo. Come sostiene ancora Carli, i gruppi sociali sono
caratterizzati ciascuno da una Cultura Locale e nel caso della mia ricerca i gruppi sociali
erano rappresentati dai due gruppi di genitori, collocati all'interno di uno specifico
"contesto ambientale", l'asilo nido ed il nido in famiglia, e all'interno di uno specifico
"contesto linguistico" definito dalle mia domanda di ricerca.
Ma come rintracciare la Cultura Locale a partire dalle interviste narrative da me
condotte con i genitori? Rinveniamo in queste interviste le "parole dense", portatrici di
emozioni, che, raggruppate in categorie (tramite le tre codifiche della Grounded
98
Theory), hanno portato a delineare una categoria centrale: il gruppo che, in fin dei conti,
non e' altro che la Cultura Locale di cui parlavo prima. In definitiva, il gruppo, in quanto
contenitore di emozioni, costituisce una Cultura Locale che, espressa e rivelata
attraverso il linguaggio, Si origina e costituisce a partire dal modo in cui il gruppo
elabora e autoregola le emozioni. Quella che si e' resa evidente, alla fine della mia
ricerca, e' la Cultura Locale dei genitori ma potrebbe essere anche quella degli educatori
o, per megho dire, la Cultura Locale di tutti gli agenti di sviluppo. Proprio quest'ultima
Cultura Locale ha iniziato a delinearsi durante i due incontri di restituzione, in cui erano
contemporaneamente presenti genitori ed educatrici, ed e' giunta a promuovere lo
sviluppo del bambino.
Concludendo con le parole di Stern (in Solano, 1999): "il modo più giusto per lavorare
nella prima infanzia è fare ricerca", ricerca con i genitori, ed è proprio in questa
prospettiva di ricerca/azione che l'educatore può rintracciare la doppia finalità del suo
ruolo.
L'educatore, dunque, come:
- esploratore di risorse negli altri e in se stesso;
- tessitore di relazioni.
Attraverso queste due finalità 1'educatore riscopre la centralità del "mestiere
dell'educare" poiché egli diventa, allo stesso tempo, promotore della Cultura Locale,
permettendo ai genitori di incontrarsi e costituirsi in un gruppo, ma anche anello di
questa Cultura Locale poiché egli stesso è parte integrante di questo gruppo.)
Orizzonti futuri
Una riflessione successiva sul lavoro di S. Nicolò, ci ha portato a pensare che limitare
l’area di confronto alle sole dis -regolazioni di sonno, potesse essere limitativo e potesse
rivelare la presenza in noi che lo proponevamo, di un desiderio di prevenire disagi in
aree specifiche della vita del neonato e dei genitori, più che di promuoverne la salute , di
fatto genitori ed operatori ben presto si erano autonomamente allontanati dal tema del
sonno ed avevano iniziato ad occuparsi delle diverse aree che componevano la vita con
il neonato, pertanto crediamo che possa essere più utile orientare un intervento di questo
tipo alla promozione delle life skills nel primo anno di vita, che non alla sola dis-
regolazione degli Stati Comportamentali, questa convinzione ha trovato confermato
99
anche nel lavoro immediatamente successivo lavoro negli Asili Nido di Bergamo. Con
questo contributo è stata inoltre sottolineata la necessità di non vedere il bambino solo
nell'hic et nunc dell'esperienza educativa, ma di considerare la complessità di relazioni
che lo circondano e di guardarlo in quanto soggetto con una storia e facente parte di un
contesto.
Sembra quindi essenziale rivolgere lo sguardo alla complessità degli aspetti che
costituiscono l’esperi enza dell’endogestazione/parto/ esogestazione per tutti i
protagonisti coinvolti (genitori, neonati, operatori), rispettando la dimensione storica e
contestuale di ogni situazione. In conseguenza di queste riflessioni sembra che
un’ulteriore evoluzione di questo percorso esplicitamente volta al sostegno delle skills
di genitori e neonati durante il 1° anno di vita del neonato potrebbe essere la seguente:
• Offrire ai genitori la possibilità di partecipare ad un percorso di sostegno alla
genitorialità dal concepimento al 1° anno di vita del neonato all’interno di un
consultorio, di un asilo nido o di un altro contesto in grado di favorire
l’aggregazione ed il confronto .
• Proporre degli incontri di un gruppo di genitori a cadenza mensile coordinati
dagli operatori del consultorio, dagli educatori dell’asilo nido (o dalle figure
professionali presenti nel contesto specifico) insieme ad uno psicologo della
salute. L’obiet tivo del lavoro dello psicologo della salute dovrebbe essere
all’inizio la costruzione di un clima di fiducia e successivamente il sostegno
all’autonomia del gruppo.
• L’organizzazione potrebbe prevedere un incontro iniziale da dedicare alla
presentazione di tutti i partecipanti alla discussione delle aspettative
relativamente al percorso. Si potrebbe poi iniziare (ma solo iniziare) con un paio
di incontri a tema . Negli incontri successivi, si potrebbero sostenere le naturali
richieste dei genitori: quindi, ad esempio, se venisse espresso il bisogno di
discutere con un ginecologo, potrebbe essere sostenuta la loro attivazione ad
invitare un ginecologo scelto dal gruppo.
• Per quel che riguarda lo psicologo della salute egli dovrebbe essere presente a
tutti gli incontri, così come gli operatori e, come abbiamo già detto, dovrebbe
sostenere la nascita del clima di fiducia, parallelamente dovrebbe prestare
attenzione ai segnali che i genitori lanciano nella direzione dell’autonomia
100
(incontri in altri luoghi, o nello stesso luogo in momenti diversi) e lentamente
dirigere con i genitori l’attenzione su questi processi. E’ ovviamente impossibile
indicare i tempi necessari a questo, è possibile solo indicare le direzioni
processuali da seguire, perché ogni gruppo è un gruppo a sé, nel suo contesto e
nella sua dimensione storico-culturale…
• L’obiettivo finale dovrebbe essere quello di rendere il gruppo autonomo dallo
psicologo della salute, quindi alla fine del percorso lo psicologo dovrebbe andar
via ed il gruppo potrebbe proseguire autonomamente, costruendosi in modo
autonomo la propria storia, magari avviando anche altri gruppi nella direzione
dell’empowerment.
101
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