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Antonio Gnoli- Franco Volpi I PROSSIMI TIT I CONVERSAZIONI CON ERNST JUNGER ' ADELPHI EDIZIONI

Antonio Gnoli-Franco Volpi I PROSSIMI TIT ANI...Antonio Gnoli-Franco Volpi I PROSSIMI TIT ANI CONVERSAZIONI CON ERNST JUNGER ' ADELPHI EDIZIONI PREMESSA Il 29 marzo 1995 Ernst ]unger

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  • Antonio Gnoli- Franco Volpi

    I PROSSIMI TIT ANI CONVERSAZIONI CON ERNST JUNGER

    ' ADELPHI EDIZIONI

  • PREMESSA

    Il 29 marzo 1995 Ernst ]unger ha compiuto cento anni. Da tempo vive ritirato nella solitudine di Wi1flingen, nell'Alta Svevia, sottraendosi alla curiosità di giornalisti, ammiratori, lettori e studiosi della sua opera. L'unico filo che lo lega a pochissimi intimi è un numero telefonico segreto. Per il suo centenario erano stati preparati un po' dappertutto festeggiamenti e celebrazioni. Helmut Kohl, François Mitterrand e Felipe Gonzalez, che già in passato erano andati a fargli visita a Wilflingen, intendevano conferirgli le massime onorificenze dei loro Paesi. Ma ]unger aveva fatto sapere con discrezione che_non sarebbe andato da nessuna parte. Il turbamento che il giubileo minacciava di provocare nel suo ritmo di vita e di lavoro lo preoccupava a tal punto che egli avrebbe preferito fuggire su un atollo sperduto nei Mari del Sud, aspettando la fine delle celebrazioni del centenario. Agli organi di stampa e alle televisioni di tutto il mondo che chiedevano di essere ricevuti aveva comunicato che non avrebbe concesso interviste. Abbiamo avuto la fortuna di essere l'eccezione alla regola. La ragione del privilegio che

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  • Jiinger ci ha accordato sta nel buon rapporto che si è instaurato con lui. Il nostro primo incontro risale ad anni addietro, ai tempi della preparazione di Oltre la linea/ il volumetto in cui furono raccolti per la prima volta i testi della sua controversia con Heidegger sul nichilismo, di cui anche in Germania non esistevano che edizioni separate. Volevamo discutere direttamente con lui alcuni dettagli del testo, rievocare le circostanze della sua stesura e ricostruire la relazione con Heidegger. L'accoglienza fu subito molto gioviale. Godevamo in anticipo della considerazione che J unger ha sempre avuto per i suoi traduttori: « Con i traduttori ho avuto una particolare fortuna. Che l'autore e il traduttore divengano amici è naturale. Il loro incontro conduce a un eros e a un agone spirituali, porta a penetrare fino in fondo l'esposizione linguistica. Essere alla sua altezza, dominarla con astuzie, mosse strategiche, sorprese, fino a quando la consonanza diventa armonia- in questo modo può nascere una nuova opera, alla quale entrambi prendono parte. Perciò in una traduzione riuscita l'autore vede se stesso in una nuova dimensione >>.2 La conversazione scivolò allora abbastanza presto da Oltre la linea a un altro tema: la

    l. E. Jiinger-M. Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, Milano, 1989, 19954• 2. E. Jiinger, Post festum, i n Siimtliche Werke, vol. XVIII, Klett-Cotta, Stuttgart, 1983, p. 488.

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  • Giuseppe Scaraffia e Marcello Staglieno, il documentario per la televisione Cent'anni di Emst funger, trasmesso dalla RAI in occasione del centenario. Il secondo e il terzo incontro, concordati durante l'estate dello stesso anno, si sono svolti nell'autunno successivo, ill4 e ill5 ottobre. Alloggiati per la notte nei pressi del castello della vicina Sigmaringen, abbiamo trascorso con Jiinger e la moglie Liselotte due intense giornate nella loro casa dirimpetto al castello degli Stauffenberg a Wilflingen, lasciando semplicemente che questo straordinario testimone del ventesimo secolo, che ha ormai oltrepassato la vecchiaia ed è entrato nell'età dei patriarchi, ci raccontasse tutto ciò che affiorava nei suoi ricordi e quanto ancora pensava di fare con "quel che resta del tempo"· Le conversazioni si sono dunque sviluppate secondo l'andamento libero e imprevedibile dell'associazione, senza essere ingabbiate in una serie di domande preparate in precedenza. Così le abbiamo lasciate, e le pubblichiamo ora, nella loro immediata freschezza, a testimonianza della straordinaria vitalità e lucidità di questo grande Solitario.

    A.1\ITONIO GNOLI, FRANCO VOLPI

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  • PRIMA CONVERSAZIONE

    Dal 1950 Jiinger vive a Wilflingen, un borgo dell'Alta Svevia a pochi chilometri dalla Foresta Nera e da Sigmaringen, la piccola città dominata da un castello che fu la residenza del maresciallo Pétain. Sono i posti in cui Céline ambientò il romanzo Da un castello all'altro evocando la tragedia che seppellì i collaborazionisti. A uno scrittore difficilmente si perdonano certi giudizi storici. È capitato a Céline. Ed è capitato ajiinger, che ripetutamente è stato oggetto di attacchi demolitori. A volte si usa il passato come una lente di ingrandimento che permette di indagare sui dettagli morali della vita di un uomo. Ma nel dettaglio si rischia di perdere di vista la trama generale di un'esistenza, che spesso è o ndivaga, contraddittoria, sorprendente. Non sorprende, invece, la calma che avvolge Wilflingen. C'è una quiete che respinge ogni intrusione metropolitana: poche case, poche automobili, poca gente. Un ordine invisibile regola il silenzio in cui da più di quarant'anni si è ritirato Jiinger. Per i suoi cento anni il comune di Wilflingen, governato da una amministrazione cristiano-democratica, ha deciso di fargli un regalo insolito: da quel giorno luce, acq�a e gas gli verranno erogati gratuitamente. E il modo in cui la piccola comu-

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  • nità, che conta circa quattrocento anime, ha inteso manifestargli il proprio affetto. Altre celebrazioni si annunciano: onorificenze pioveranno dalla Spagna, dalla Francia e dall'Italia, insieme alla Germania i Paesi nei quali più radicato è il suo pensiero, più vistosa l'attenzione per la sua vita e i suoi scritti. Negli anni passati i grandi d'Europa gli hanno fatto visita. Come a un capo di Stato, o piuttosto come a un simbolo di un'Europa che forse non c'è più, e di cui Jiinger è in qualche modo l'estrema testimonianza. Oggi l'antico esteta e jllineur, quell'ufficiale dell'esercito tedesco così a suo agio durante l'occupazione nella versatile mondanità parigina, ha lasciato il posto a un curioso patriarca che sembra osservare il mondo con lo sguardo di un ironico entomologo alle prese con una nuova specie dì insetti. Del resto, fra le numerose attività che hanno segnato la sua vita - è stato diarista, saggista, romanziere, soldato nelle due guerre, viaggiatore- c'è anche quella dello scienziato chino sul mondo della natura per studiare e catalogare alcune specie di coleotteri. La casa in cui vive, un edificio a due piani prospiciente il castello dei conti Stauffenberg, ne è la testimonianza. Qui, in un umbratile ambiente Biedermeier,Jiinger esibisce le sue collezioni di coleotteri mescolate alle raccolte di clessidre, di fossili, di conchiglie, di cimeli di guerra. È un mondo di tassonomie del passato che egli condivide con Liselotte, la donna che ha spo-

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  • sato nei primi anni Sessanta dopo la morte

  • me una vittoria dell'opinione pubblica critica sulle forze conservatrici. L'anno in cui sono nato, dunque, anticipa sul piano della tecnica e su quello della politica ciò che si è poi verificato nel ventesimo secolo.

    In che modo questi due eventi L 'hanno segnata, se si può usare questa espressione? Diciamo che non sono stati tanto motivi cui mi sono interessato quanto l'aria stessa che ho respirato. Ricordo che nelle conversazioni a tavola con i miei genitori, agli inizi del nuovo secolo, questi due temi erano gli argomenti centrali. Si parlava dell'Affare Dreyfus e si discuteva, giacché mio padre era un chimico, delle nuove scoperte scientifiche. Era inevitabile che fin da bambino guardassi con attenzione a quanto di nuovo succedeva, intuendo e presagendo ciò che sarebbe accaduto in seguito. Allora regnava un grande ottimismo: si diceva che sarebbe stato il secolo del Grande Progresso. E non fu tanto la prima guerra mondiale a intaccare tale fiducia, quanto la seconda. Il mutamento essenziale del nostro secolo è avvenuto propriamente solo a partire dalla sua metà, dal 1945 in poi.

    È singolare questa Sua datazione. Normalmente si ritiene che la sfiducia nei confronti dell'idea di progresso si fosse manifestata all'inizio degli anni Venti, subito dopo la prima guerra mondiale. E non è casuale che proprio la Germania, che dal

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  • conflitto era uscita sconfitta, diventasse una sorta di guida spirituale che sviluppò una critica assai pessimistica nei confronti dei valori del progresso . . .

    Sul piano filosofico e letterario, nelle grandi visioni della storia e nelle prognosi sul futuro della civiltà, il motivo del Kulturpessimismus emerse già prima, ed ebbe con Spengler la sua espressione più forte e più nitida. Dall'idea di un progresso lineare della storia, che implica uno sviluppo sempre crescente, egli ritornò a una configurazione ciclica in cui lo sviluppo non si protrae all'infinito, ma è una fase della vita compresa tra la nascita e la morte. Ciò che questa visione della storia e il suo Kulturpessimismus produssero in noi non fu però un'attitudine crepuscolare. Noi giovani non potevamo permetterei una décadence come se l'era concessa a fine Ottocento la generazione francese di Huysmans. La stanchezza verso sera è salutare, ma prima di mezzogiorno preoccupante. E poi era anche una questione di carattere. Le visioni apocalittiche suscitate dal passaggio della cometa di Halley nel l910, o ancora di più il naufragio del Titanic due anni dopo, invece di avere un effetto deprimente accesero la nostra fantasia. Il nostro atteggiamento era quello di chi voleva riconoscere con occhio disincantato la nuova realtà della tecnica e del lavoro, e prendervi parte senza rimpianti nostalgici né proiezioni apocalittiche. Semmai si trattava di ritrovare, nel mito o nella storia, una

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  • potenza che facesse da contrappeso al pessimismo. Come aveva detto Nietzsche in Ecce homo: " .. . io sono un décadent: però ne sono anche Fantitesi >>.1 Nel fuoco del tramonto annunciato da Spengler ciò che io vidi fu il levarsi in tut� la sua potenza della figura del Lavoratore. E stata la seconda guerra mondiale a farci scendere nelle profondità del Malstrom, nel vortice del nichilismo.

    Ma Lei che idea ha del progresso?

    È per me un antropomorfismo con il quale l'uomo moderno ha tentato di leggere la storia. Un surrogato dell'idea di «spirito del mondo». Bisogna prenderne le distanze e osservare piuttosto l'universo e la sua storia dal punto di vista del principio della conservazione dell'energia. La potenza del cosmo rimane sempre la stessa, non ci sono progresso o regresso né accelerazione o decelerazione che possano modificarla. Ciò che cambia sono solo le figure, le forme che la storia, anzi, la terra produce incessantemente dal suo profondo. Il problema che qui vedo sorgere è un altro: possiamo considerare l'uomo, questa apparizione sovrana nella storia dell'universo, responsabile della sua evoluzione?

    L Trad. it. di Roberto Calasso, in F. Nietzsche, opere, vol. VI, tomo m, Adelphì, Milano, 1970, p. 273.

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  • Si accennava alla guerra, che è un motivo affrontato soprattutto nella Sua produzione [fiovanile. Che effetto Le fa oggi ripensare a quel tema?

    Anzitutto una precisazione: il vero grande motivo di interesse, per me, è stata la tecnica, la cui potenza si è manifestata in modo impressionante nella guerra mondiale del 1914-18, la prima « guerra di materiali >>. Fu un conflitto profondamente diverso da tutti quelli che lo avevano preceduto, perché lo scontro non fu solo fra eserciti, ma fra potenze industriali. Fu davanti a quello scenario che la mia visione della guerra prese la forma di un attivismo eroico. Naturalmente non si trattava di semplice militarismo, perché sempre, anche allora, ho concepito la mia vita come la vita di un lettore prima che come quella di un soldato.

    In che senso?

    Nel senso che fu soprattutto la lettura di alcuni libri a offrirmi motivi per l'azione. Quando invece ho creduto di ricavare quei motivi dalla realtà, sono rimasto profondamente deluso. Voglio dire.che l'eroismo per me nasceva più da una esperienza letteraria che da una effettiva e concreta possibilità di vita.

    Ma quale connessione c'era fra i due piani, fra la letteratura e la vita?

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  • La realtà letteraria, a diflerenza della vita concreta, era inevitabilmente destinata a essere dissolta dalla trasformazione tecnologica del mondo. Di qui il mio tentativo dì elevare la letteratura a esperienza di vita prima che sì avverasse definitivamente quanto Marx aveva previsto, e cioè che non sarebbe stato più possibile concepire un'Iliade dopo l'invenzione della polvere da sparo. Che è capire che cosa accade con l'ingresso della tecnica.

    La tecnica è per Lei uno spartiacque talmente importante da risultare decisivo nella separazione di mondi, anche letterariamente, diversi?

    La tecnica è la magica danza che il mondo contemporaneo balla. Possiamo partecipare alle vibrazioni e alle oscillazioni di quest'ultimo soltanto se capiamo la tecnica. Altrimenti restiamo esclusi dal gioco.

    Torneremo su questo punto. Intanto, per rimarcare alcuni aspetti biografici, c'è da dire che Lei fu considerato un eroe della Grande Guerra, fu ripetutamente ferito e poi insignito della massima on{)rificenza, l'" Ordre pour le Mérite » ...

    All'eroismo mi spinse la lettura dell'Orlando furioso dell'Ariosto. Furono quelle parole, quelle rime lette durante le pause tra un combattimento e l'altro a motivarmi. E non già la retorica e l'ideologia della guerra sviluppatesi in seguito alla nostra vittoria nella guerra franco-prussiana del 1870-71, di cui

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  • la generazione dei nostri padri aveva di gran lunga sopravvalutato l'importanza, mentre in realtà si era trattato di una guerra piccola piccola. Questa sopravvalutazione si manifestò in particolare nell'antitesi ideologica che oppose il nobile spirito prussiano a quello mercantile inglese, fomentata da Guglielmo II che non sopportava la sua parentela d'oltre Manica. Si potrebbe aggiungere, in questo caso, che mancò alla Germania uno Shakespeare che ne sapesse rappresentare le vicende. D'altronde, come attendersi uno Shakespeare se i personaggi e gli attori di quella fase della storia tedesca non furono abbastanza grandi da meritarselo ...

    È sempre vero che le grandi opere hanno bisogno di grandi eventi storici?

    I grandi eventi sono sempre letterari. La storia, con i suoi fatti, è un magazzino stracolmo in cui ciascuno può prendere ciò che vuole.

    QJJ,eUo che Lei dice non fa che confermare quanto importante sia stata, nelle Sue scelte, più che un 'etica una certa visione e..stetica della vita. Come spiega questa Sua inclinazione?

    Vedere il rapporto tra etica ed estetica semplicemente come un'antitesi non mi basta. Anzi, è fuorviante. Direi perciò che etica ed estetica si incontrano e si toccano almeno in un punto: ciò che è veramente bello non può non essere etico, e ciò che è realmente etico non può non essere bello.

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  • Ma questo in fondo è lo stile. La Sua visione del mondo è davvero improntata allo stile?

    Lo spero. Ed è per questo che non sono mai sceso né scenderò mai sul piano delle polemiche e delle controversie. Lo trovo di pessimo gusto. Mai abbassarsi al di sotto del proprio livello.

    Ritiene ancora possibile salvaguardare lo stile, questo gesto delicato e aristocratico, in un mondo che tende alla spersonalizzazione e alla manipolazione dell'individuo?

    Definirei la nostra una società di individui massificati che necessita per questo di élite molto ristrette, destinate a svolgere una funzione importantissima. Su questo punto mi attengo alla sentenza eraclitea che dice: " Uno solo, per me, è diecimila ».1 Questo numero andrebbe oggi elevato a potenza.

    Nel senso che le élite andrebbero allargate o ristrette ulteriormente?

    Nel senso che quanto più cresce la massificazione, tanto più grande è il valore e la forza spirituale di quei pochi capaci di sottrarvisi.

    Siamo abituati a pensare alle élite in termini più sociologici che spirituali. Lei che definizione ne darebbe?

    l. Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. III, Eraclito, Adelphi, Milano, 1980, pp. 98 e 99.

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  • La definizione sociologica di élite è già indice della corruzione del concetto. Un ammonimento, per me, a non avere più fiducia nemmeno nelle élite, ma ormai soltanto nei grandi Solitari.

    Accennava prima alla Sua scelta di non scendere mai in polemica. Eppure, le polemiche l'hanno spesso coinvolta. Soprattutto per il Suo passato nell'esercito tedesco, passato che più di un critico Le rimprovera per l'indulgenza con cui Lei avrebbe tollerato il regime nazista. C'è poi un episodio su cui ci piacerebbe avere la Sua versione, Qp,ando usci il Suo romanzo Sulle scogliere di marmo, in cui si ventilava l'idea del tirannicidio, Lei corse dei rischi. Goebbels e Goering volevano la Sua testa, ma Hitler disse: «]unger non si tocca"·

    Le polemiche non hanno lo stesso spessore delle idee. Non si tratta di essere alla loro altezza rispondendo a tono. Perché non c'è tono, ma soltanto rumore. Quanto a Hitler, le cose andaronò così. N o n era passata una settimana dacché .Sulle scogliere di marmo era uscito in libreria" che il Reichsleiter di Hannover, un certo BoùhJer, si lamentò a Berlino, nella convinzione � il libro incitasse al complotto. Hitler, che eri'lm�stimatore dei ---�miei diari della prima guerra mòndiale-;-sen:

    tenziò che dovevano lasciarmi in pace. In più di una occasione egli aveva lanciato segnali di amicizia e manifestato interesse per la mia persona. Ma non mi feci lusingare da quel-le offerte. Sarebbe stato anche troppo facile

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  • strumentalizzarle per ricavarne qualche vantaggio personale. Non ci sarebbe voluto molto a fare come Goering. Vorrei poi aggiungere, anche se credo che un autore dovrebbe rispettare la regola di non parlare mai dei propri libri, che nel caso delle Scogliere di marmo l'effetto politico era per me secondario. Alcuni amici mi hanno rimproverato di avere sminuito tale effetto, che per molti fu invece quello più importante. Io però preferisco richiamare l'attenzione sul fatto che in quella vicenda mi posi su un altro piano. In fondo è chiaro che se la mia fosse diventata una presa di posizione politica, avrei magari trovato compagni e seguaci, ma sarei sceso sullo stesso piano di Hitler. Sono stato un suo oppositore, ma non un oppositore politico. Ero semplicemente su un'altra dimensione.

    Lo ha mai conosciuto personalmente?

    No, non l'ho mai conosciuto. Quando ancora era un anonimo capo di un gruppuscolo come quello dei nazionalbolscevichi di Niekisch e io allora abitavo ancora a Lipsia -, un giorno, deve essere stato nel 1926, si fece annunciare da Hess, ma io non ebbi il tempo di riceverlo. Del resto, ero convinto che si trattasse di uno dei tanti e insignificanti settari che circolavano a quel tempo. Grazie a Dio quell'incontro non ebbe luogo. Se per caso fosse avvenuto e magari Hitler mi avesse messo la mano sulla spalla mentre qualcu-

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  • no ci immortalava, immagino che la fotografia avrebbe fatto il giro del mondo. Per fortuna le cose andarono diversamente.

    Hannah Arendt affermò che Lei fu sempre dalla parte della Resistenza malgrado i Suoi libri avessero influenzato l 'élite nazista.

    // Ho presente quel riconpstfmento, che naturalmente mi lusinga;r Ma personalmente, avendo visto e �ssiito quel che successe prima e dopo, provo una certa allergia nei confronti dell'uso indiscriminato della parola «resistenza». Senza contare che la resistenza spirituale non basta. Bisogna contrattaccare.

    Ci sta dicendo che ha qualche rimpianto per ciò che non ha fatto?

    l . Esso figura jn un resoconto che Hannah Arendt scrisse per incaikp della Commission on European

    Jewish Cultura! Reeonstruction: « I diari di guerra di Ernst Jiingef offrono forse l'esempio migliore e più trasparente delle immani difficoltà a cui l'individuo si espone quando vuole conservare intatti i suoi valori e il suo concetto di verità in un mondo in cui verità e morale hanno perduto ogni espressione riconoscibile. Nonostante l'innegabile influenza che i primi lavori di

    Jiinger hanno esercitato su certi membri dell ' intelligencija nazista, egli è stato dal primo ali 'ultimo giorno del regime un attivo oppositore del nazismo, dimostrando con ciò che il concetto d'onore, un po' antiquato ma diffuso un tempo tra il corpo degli ufficiali prussiani, era del tutto sufficiente a motivare una resistenza individuale,, (H. Arendt, Besuch in Deutschlarul, Rotbuch, Berlin, 1993, p. 47; trad. it. di Pierpaolo Ciccarellì, Ritorno in Germania, a cura di Angelo Bolaffi, Donzelli, Roma, 1996).

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  • Constato che contro un regime efferato alla fine conta anche il modo in cui ci si contrappone.

    Ha mai conosciuto laArendt?

    No, non l'ho mai incontrata; fu Heidegger a parlarmi spesso di lei.

    Con Heidegger e Carl Schmitt Lei ha condiviso un certo destino. Che ricordo ha dei due?

    Ne ho un ricordo non soltanto letterario ma anche personale, privato. Sono stato amico di entrambi. Ho incontrato Heidegger più volte e sono andato a trovarlo nella sua baita di Todtnauberg. Bisogna essere ormai in grado di dare un giudizio oggettivo nei suoi confronti. Voglio dire che a questo punto si tratta di valutare il pensatore per la sua potenza speculativa e non per le sue opinioni politiche. Lo stesso vale per un artista o un poeta. Per esempio ammiro moltissimo Heinrich Heine come poeta, mentre non condivido affatto le sue convinzioni politiche: tra le due prospettive è preferibile adottare quella favorevole. Con Cari Schmitt ebbi un rapporto ancora più stretto, molto personale. Fu tra l'altro padrino di mio figlio Alexander, di cui cadrebbe oggi il compleanno.1

    l . Nato nel 1934, il figlio Alexander si è tolto la vita nel l993 (dopo essere rimasto semi paralizzato in segui-

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  • Su questo torneremo. Ma a proposito di politica, in Italia si discute accanitamente di « destra » e « sinistra ». Che cosa pensa di queste due categorie?

    Sono ormai categorie organiche, come le parti del corpo. Pensate per esempi? alle mani: sono entrambe indispensabili. E ovvio che ciascuna esiste in funzione dell'altra. Da questo punto di vista, dunque, la « destra» e la «sinistra» sono ugualmente necessarie. Ciò che fin dalle convulsioni della Repubblica di Weimar mi apparve chiaro è che non tiene più la tradizionale raffigurazione spaziale del significato politico di queste due categorie, secondo l'immagine di un parlamento in cui la destra siede da un lato e la sinistra dall'altro. E questo vale anèQr più oggi, nell'età della tecnica e delle comu�azioni di massa. Personalmente, comunque, Ìhl,dtengo al di là di questo schema, che ha rieriìp.lto scaffali di ideologia.

    A proposito di tecnica e di comunicazione di massa, oltre all'invenzione dei raggi X, il Suo anno di nascita fu anche l'anno dell'invenzione del cinema. Che idea ha di questa arte così popolare nel nostro secolo ?

    Mi piace immaginare il cinema come qualcosa che riguarda il rapporto tra tecnica e magia. Un rapporto ancora tutto da sondare,

    to a un infortunio), ed è sepolto ora nel cimitero di Wilflingen, dove giace anche la prima moglie di Jiinger.

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  • anche dal versante del pubblico. Mi chiedo se il cinema abbia sostituito, anche solo in parte, il romanzo, e quali effetti abbia prodotto questa sostituzione. Anche se il pubblico che va al cinema, proprio perché è vasto e anonimo, non coincide esattamente con il pubblico di chi legge.

    Lei accennava alla magia in relazione alla tecnica: è una bella definizione del cinema.

    La tecnica ha spesso qualcosa di stupefacente. E buffo, ma a volte, mentre parlo per telefono con qualcuno, ho ancora l'impressione di compiere non solo un atto reso possibile dalla tecnica, ma anche qualcosa di magico. Vale per il cinema, per il telefono, ma anche per altre cose. Possiamo registrare la nostra conversazione, filmarla, e farla così rivivere fra cento anni, magari vista da una prospettiva diversa. Una ripresa cinematografica ci dà l'opportunità di risuscitare persone scomparse di cui si sono persi il ricordo, la presenza fisica, la voce, il gesto. Credo che questo effetto, che io chiamo magico, sia destinato a emergere in modo ancora più impressionante. Già si parla di realtà virtuale, di quàrta dimensione. Il pensiero stesso si digitalizza.

    E quanto alla televisione?

    Ha anch'essa un significato magico. E questo aspetto stregonesco non è dovuto, intendiamoci, all'atteggiamento di un primitivo da-

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  • vanti a un evento sorpr�d-elii:e�es���osciuto. Attraverso la televisione possiamo dare vita a una realtà che non è presente dinanzi a noi. Ciò che mi aspetto è che presto si potranno avere immagini televisive a tre dimensioni. Il suo carattere magico ne risulterebbe potenziato.

    Qp,esto per quanto riguarda il futuro. Come immagina dunque il prossimo secolo?

    Non ne ho una idea troppo felice e positiva. Per dirla con una immagine, vorrei citare Holderlin, il quale in Pane e vino ha scritto che verrà l'evo dei Titani. In questo evo venturo il poeta dovrà andare in letargo. Le azioni saranno più importanti della poesia che le canta e del pensiero che le riflette. Sarà un evo molto propizio per la tecnica ma sfavorevole allo spirito e alla cultura.

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  • SECONDA CONVERSAZIONE

    È ormai autunno inoltrato. Siamo ritornati a Wilflingen con l'intenzione di fermarci per il tempo necessario a realizzare l'intervista. Al telefono abbiamo preso gli ultimi accordi, e quando arriviamo Jiinger è già nel salotto ad attenderci. Mentre Liselotte fa gli onori di casa e ci fa accomodare al tavolo nell'ordine consueto per gli ospiti, scambiamo le prime parole. n vino d'annata che abbiamo portato suscita un vivo interesse injiinger, che lo accarezza da intenditore e si premura che venga ben deposto nella sua riserva. Fuori il tempo è uggioso, grigio, ma in compenso la conversazione, che a poco a poco si ravviva, riscalda l'atmosfera. Durante i mesi trascorsi ci siamo preparati al nuovo incontro e abbiamo messo a punto una serie di domande che fino all'ultimo ha subìto integrazioni e rimaneggiamen ti. Abbiamo discusso gli ultimi dettagli la sera precedente, in una locanda di campagna tra Tubinga e Wilflingen dove abbiamo pernottato. Alla prova dei fatti il nostro catalogo si rivela uno zelo superfluo: bastano pochi spunti e Jiinger sbriglia i suoi ricordi, che si accavallano e traboccano dalla memoria in una conversazione che ordiniamo a fatica.

  • Lei ha avuto frequentazioni molteplici e molto eterogenee. Grazie al successo precoce delle T e m peste d'acciaio Le si aprirono le porte più diverse, anche quelle che ad altri erano inaccessibili. Tra i Suoi primi incontri importanti, per esempio, spicca quello con Alfred Kubin. Come lo conobbe?

    Durante la prima guerra mondiale, nel 1914, mi capitò di vedere un suo disegno a penna intitolato La guerra, che mi colpì molto. Un paio di anni più tardi, di ritorno da una licenza e diretto al fronte, mi fermai a Cambrai per trascorrervi la notte. Era sera, e non sapendo che cosa fare, mi infilai nella libreria militare, che era ancora aperta. Fu lì, rovistando tra i libri - in verità piuttosto scarsi - che mi capitò tra le mani il romanzo fantastico di Kubin L'altra parte. Cominciai a sfogliarlo e vidi che conteneva numerose illustrazioni dell'autore. Lo acquistai, e ricordo che passai l'intera notte sveglio a leggere avidamente il racconto delle vicende di Perla, la città capitale di un regno immaginario di cui Kubin narra la rovina. A Perla non si vedono né il sole né la luna né le stelle, tutto è coperto da un opprimente grigiore. Vi governa sovrano Patera, che, pur vivendo ritirato e inaccessibile nel suo palazzo, è presente con il suo spirito in ogni angolo del regno. Finché arriva nella città Hercules Beli, un ricco americano che scatena una lotta per spodestare Patera. Il loro conflitto, in cui è simboleggiata l'antitesi tra la pulsione di morte e la volontà di vivere - le due forze

  • fondamentali dell'esistenza -, causa la rovina di Perla, che Kubin descrive in toni cupi, apocalittici, ispirandosi al celebre dipinto di Bruegel La tarre di Babele. Fu per me una chiave fantastica per capire il tramonto di un mondo perduto per sempre, il mondo felice della vecchia Austria e della borghesia guglielmina. Ne rimasi affascinato e colpito a tal punto che scrissi una breve poesia dedicata a Kubin e gliela mandai.1 Egli la trovò molto graziosa, e incominciammo così una corrispondenza che si infittì e proseguì per decenni. Nacque naturalmente anche il desiderio di conoscerci personalmente, e a un certo punto andai a trovarlo. Se ben ricordo fu nell'autunno de1 1937.

    Che impressione Le fece quando lo incontrò di persona?

    Venne a prendermi alla stazione ferroviaria più vicina al piccolo castello in cui abitava. Durante il viaggio mi ero sentito teso, immaginando il momento magico in cui lo avrei incontrato. Era più corpulento di quanto avessi supposto. A sua volta egli rimase sorpreso nel vedere la mia corporatura mingherlina, dal momento che mi aveva immaginato come uno di quei cavalieri spilungoni alla Corte di Re Artù. Kubin era un uomo

    l . In gioventù Jiinger si dilettò a comporre liriche espressionistiche, che in seguito distrusse. Quella a Kubin, del 1921, grazie al destinatario è una delle poche che ci sono state conservate.

  • straordinariamente sensibile, amava gli agi della vita, e riteneva che il matriarcato fosse la migliore forma di organizzazione della convivenza sociale. A casa sua, in assenza della moglie fummo serviti per tutto il tempo da due domestiche che si presero cura di noi. Ebbi l'impressione che Kubin vivesse isolato nella sua dimora come un baco che si abbozzola nella sua seta. La sera rimanemmo ancora insieme e, tra un bicchiere di champagne e l'altro, Kubin mi raccontò dei sogni e delle fantasie che lo assalivano. L'incontro di persona mi fece capire meglio l'atmosfera del romanzo L 'altra parte, molto più di quanto fossi riuscito a descriverla nella recensione che ne avevo fatto anni prima per la rivista «Der Widerstand » [La resistenza] di Niekisch. Ritengo che Kubin sia stato, dopo E.T.A Hoffmann, il più grande autore della letteratura fantastica di lingua tedesca. In un breve saggio, I demoni della polvere, ho scritto dell'influenza che la sua opera ebbe su di me.

    E quale fu l'atteggiamento di Kubin verso di Lei?

    Si creò subito un'intesa. Mi fece dono di una copia del suo romanzo nella quale aveva scritto come dedica una breve poesia:

    Wenn Deine Seele, Dein Herz erschrickt var Abgriinden, die kein Auge erblickt, springe hinab, gesegnet Dei n Fall, Wahrheit umgibt Dich dann uberall.1

    l.

  • L'ho ricordato nell'edizione dell'epistolario che ho intrattenuto con lui.1 Rimanemmo poi in contatto e ci incontrammo altre volte. Rammento che durante il nazismo, una volta in cui ero andato a trovarlo, Kubin mi mostrò una fotografia nella quale si vedeva una manifestazione di massa con migliaia di persone che acclamavano un oratore. I singoli partecipanti erano così minuscoli da sembrare senza volto. Mi disse: . Negli anni Quaranta Kubin illustrò un'edizione del mio resoconto del viaggio in Norvegia con Hugo Fischer: Myrdun. Brieje aus Narwegen [Myrdun. Lettere dalla Norvegia].

    Durante la breve ma intensa stagùme della Repubblica di Weimar Lei si schierò con gli avversari della Repubblica, ma le Sue frequentazioni sembrano non conoscere la distinzione tra destra e sinistra. Ebbe un rapporto molto intenso con Emst Niekisch, un personaggio allora importante, capo del movimento nazionalbolscevico, il cui programma politico è forse l 'espressione più significativa del tentativo di trovare una terza via, oltre la destra e la sinistra tradizionali ...

    nanzi ad abissi che mai alcun occhio ha scrutato/buttati, la tua caduta sarà benedetta/ e ovunque ti abbraccerà la verità"· l. Emst Jiinger-Alfred Kubin, Hne &gegnung, Propylaen, Berlìn, 1975.

  • Sì, fui in stretto contatto con Niekisch. Mio fratello e io scrivevamo per la sua rivista

  • Agli inizi degli anni Trenta, a Berlino, una volta andai a trovarlo a casa sua con Cari Schmitt e Arnolt Bronnen, e lui, tutto fiero, ci mostrò le bozze del suo libro in procinto di uscire: Hitler, ein deutsches Verhiingnis [Hitler, una calamità tedesca] .1 Pubblicare un libro del genere era un atto temerario, per non dire suicida. Gli feci osservare che di fronte a un rinoceronte infuriato che carica è forse preferibile schivarlo piuttosto che opporgli resistenza. I suoi amici, me compreso, gli consigliarono di emigrare. Lui rispose che nella carica di un rinoceronte non sono in gioco i principi morali. Nella lotta politica, invece, ne va dell'uomo, e allora bisogna resistere, in nome della morale.

    La Sua collaborazione con Niekisch risale all'epoca in cui Lei maturò le idee poi esposte nel Lavoratore . . .

    Quando pubblicai questo mio libro, Niekisch fu tra coloro che ne furono più favorevolmente impressionati. Anzi, ne fu entusiasta. Nella sua rivista apparvero diversi commenti, discussioni e prese di posizione. Dopo che nel 1937 fu arrestato, condannato e rinchiuso in carcere, tenni i contatti con lui attraverso la sua famiglia. A lungo ho conti-

    l. Il libro fu edito a Berlino nel 1932 presso il Widerstandsverlag, la casa editrice di Niekisch, con illustrazioni di un artista a lui vicino, Andreas Pau! Weber, che fu anch'egli arrestato e imprigionato dai nazionalsocialisti.

  • nuato a sperare che, una volta uscito di prigione, egli avrebbe potuto riprendere il suo impegno politico e promuovere la causa nazionalista. Purtroppo però gli anni passati in carcere avevano minato la sua salute. Si ammalò gravemente e non recuperò più le energie necessarie. Non riuscì più a riprendersi veramente. Niekisch fu comunque tra i pochi che capirono subito il senso che avevo voluto dare alla figura del Lavoratore. Ci tengo a riconoscerglielo perché anche menti molto acute come Spengler e Carl Schmitt non mi avevano capito, anzi, avevano frainteso le mie intenzioni. Spengler e Schmitt non accettarono le mie tesi perché credevano che avessi voluto cantare le lodi del proletario. Io vedevo invece il Lavoratore come una sorta di figura prometeica, non certo come un proletario. Niekisch questo lo capì subito. Intese cioè che, lungi dal voler fare propaganda per un nuovo partito, avevo semplicemente descritto la nuova realtà non nei termini empirici in cui la sociologia descrive un nuovo ordinamento, ma concentrandomi sulla figura e sui lineamenti essenziali del Lavoratore. Per me si tratta quindi di una forma che ha un carattere quasi metafisico, come metafisica è l'idea della Urpjlanze di Goethe. In un suo articolo sul Lavoratore Niekisch avanzò questa associazione.1

    l. Cfr. Emst Niekisch, Die Gestalt des Arbeiters, in

  • In quel periodo, a Berlino, Lei si impegnò anche politicamente. I Suoi scritti giovanili e la Sua pubblicistica vengono spesso citati come una delle fonti cui attinse e si ispirò la rivoluzione conservatrice.

    Ne sono probabilmente più l'espressione che non l'ispirazione. In ogni caso testimoniano la mia convinzione, di allora e di sempre, che per essere conservatori in senso alto, cioè nel senso vero e proprio del termine, non basta semplicemente vivere di eredità, conservare quanto già si possiede. Questi scritti oggi mi vengono spesso t:_ammentati dai critici. E perfino rinfacciati. E singolare che ci si aggrappi a quei brevi testi d'occasione, stesi più di mezzo secolo fa, anziché a tutto quello che ho scritto in seguito. Io comunque mi riconosco anche in essi, perché in fondo testimoniano una determinata fase della mia vita. Sono però convinto che abbiano lo stesso carattere dei quotidiani: sono interessanti solo se lì si legge il giorno stesso in cui escono. Oppure lo diventano cent'anni dopo.

    Tra le fotografie che Lei espone in questo salotto dove conversiamo si riconosce quella di Ernst von Salomon. Qy,al è il Suo ricordo di questo inquietante personaggio?

    Entrai in contatto con lui dopo l'attentato a Rathenau, quando uscì dal carcere. Era una personalità forte, di un'energia prorompente, quasi violenta, sottolineata da un aspetto

  • fisico corpulento. Anche dopo la guerra, quando veniva a trovarmi senza la moglie -la sola che tentasse di moderarlo nel mangiare e nel bere -, si alzava la mattina e andava diritto al frigorifero per farsi autentiche scorpacciate di pane e burro. Una volta mi disse che gli sarebbe piaciuto morire ubriacandosi alla mezzanotte dell'anno 1999, salutando in questo modo l'awento del nuovo millennio. Ahimè, la sua intemperanza gli ha impedito di arrivarci!

    E quale rapparto ebbe con Arthur Moeller van den Bruck, il principale teorico della rivoluzione conservatrice?

    Con Moeller van den Bruck non ho avuto rapporti personali. Naturalmente seguivo le sue attività. Quello che diceva e faceva era spesso tema di discussione e attirava la nostra attenzione. Così come il suo libro Das Dritte Reich [Il Terzo Reich]. Tuttavia non ebbi mai l'occasione di incontrarlo. E poco prima che mi trasferissi a Berlino, dove lui abitava e dove probabilmente avremmo potuto incontrarci, Moeller van den Bruck prese la tragica decisione di suicidarsi.

    Risale a quel periodo un episodio che è diventato celebre per il resoconto che ne ha dato Mitscherlich ...

    Ah sì, l'episodio della dimostrazione a Berlino. Ci fu uno scontro tra membri delle SA e operai, e intervenne la polizia. A me interes-

  • sava osservare la scena, così mi rifugiai nell'andito di una casa. Mitscherlich, che vedeva in me l'eroe della Grande Guerra, decorato con l'ordine « Pour le Mérite >>, scrisse nei suoi diari di essere rimasto deluso del mio comportamento e mi rimprovera di codardia. 1 Ma quella non era una guerra e farsi bastonare dalla polizia o dai dimostranti non sarebbe stato un atto di coraggio, bensì stupidità.

    Tra coloro che hanno avuto un 'influenza sulla formazione delle Sue idee vi sono anche figure oggi sconosciute ai più, come per esempio il filosofo Hugo Fischer. Che cosa ricorda di lui?

    Conobbi Hugo Fischer negli anni Venti, nel corso dei miei studi universitari. Mi ero iscritto all'Università di Lipsia per studiare scienze naturali, in particolare zoologia, e filosofia. Fischer, che era un paio d'anni più giovane

    L «Un pomeriggio si scatenò a Berlin-Neukolln una vera e propria battaglia per le strade. La polizia impiegò i panzer e sparò in aria colpi di mitragliatrice. Ero andato a guardare lo spettacolo con Emst e Friedrich Georg Junger e stavo quasi per mescolarmi tra coloro che combattevano, quando vidi che, all'avvicinarsi di un panzer, EmstJfmger si dileguò con grande rapidità per rifugiarsi nell'andito di una casa. Era un comportamento che non si addiceva a un decorato "Pour le Mérite". Cominciai a disprezzare Ernst Jiinger. Ripararmi dalla polizia nell'ingresso di una casa era una cosa che sapevo fare anche da solo" (Alexander Mitscherlich, Ein Lewn fiir die Psychoanalyse, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1980, p. 86).

  • di me, studiava filosofia come prima materia. Seguivamo i corsi di Felix Kniger, che era ad un tempo filosofo e psicologo, e che con i suoi studi sul concetto di « struttura» promosse Io sviluppo della Gestaltpsychologie. Ma il nostro filosofo preferito era Schopenhauer. Tra Hugo Fischer e me, e tra le nostre consorti, si instaurò un rapporto di amicizia. Insieme abbiamo fatto anche alcuni viaggi, specialmente uno in Sicilia nel 1929, di cui ho scritto in Aus der Goldenen Muschel [Dalla Conca d'oro], e uno nell'estate del 1935 in Norvegia, dove abitava una coppia di amici di Fischer ai quali facemmo visita insieme, trascorrendo in vacanza un paio di mesi. La nostra occupazione principale era la pesca, uno svago cui ci dedicavamo con piacere. Utilizzavamo una rete particolare, a maglie larghe che poi si restringevano, con cui pescavamo soprattutto salmoni.

    Oltre al rapporto di amicizia, Fischer ha avuto un 'influenza su di Lei anche come filosofo?

    Certo. Ma a stimolarmi sul piano filosofico e intellettuale più che i suoi libri furono le lunghe conversazioni che ebbi con lui. Ho liberamente descritto alcuni tratti della sua personalità nella figura del Nigromontano in Il cuore avventuroso e in quella del mago Schwarzenberg nel racconto Besuch auf Godenholm [Visita a Godenholm]. Quanto ai suoi libri, erano un tale concentrato di pensiero che, racchiudendoli in una immagine,

  • li definii

  • Sì, anche Gerhard Nebel era una personalità molto brillante. Aveva una memoria e una capacità di apprendimento straordinarie. Ebbi occasione di discutere con lui soprattutto durante il soggiorno a Parigi, dove anch'egli si trovava. Aveva studiato filosofia con Jaspers e con Heidegger, e si era dedicato allo studio dell'antichità classica, specialmente della mitologia greca. Dopo la guerra pubblicò vari libri sull'argomento- su Omero, su Pindaro e il delfismo, su Socrate -, convinto di poter conciliare gli dèi della Grecia con quelli dei Germani e con il cristianesimo.

    Lei ha avuto rapparti personali anche con intellettuali che furono poi costretti a emigrare. Tra questi c'è una figura interessante, anche se oggi dimenticata: il rumeno Valeriu Marcu. Che cosa ci può dire di lui?

    Sì, ho conosciuto personalmente Valeriu Marcu. Ci incontrammo a Berlino, a casa di Arnolt Bronnen. Tra le sue qualità ce ne era una che risaltava su tutte le altre: la sua intelligenza fuori del comune. Appena sedicenne era andato « in pellegrinaggio» a Zurigo per conoscere Lenin, sul quale scrisse poi un libro, e in seguito partecipò attivamente alla rivoluzione ungherese con Béla Kun. Ricordo che quando lo conobbi si stava interessando del problema dei nazionalismi, in particolare di quello prussiano, e che poi si gettò a capofitto nel progetto di un libro sulla persecuzione degli ebrei in Spagna e in Portogal-

  • lo.1 Diventammo abbastanza amici. Quando incominciò ad avere difficoltà per il fatto che era ebreo, gli scrissi che in caso di necessità avrebbe potuto contare su di me e, se avesse voluto, sarebbe potuto venire a stare a casa mia. Mi rispose con una bella lettera: «Tutto ciò che può essere diviso, tutto ciò che mi appartiene, da oggi in poi è per metà anche tuo''· Riuscì fortunatamente a emigrare in Francia, ai confini con la Spagna, e dopo varie peripezie negli Stati Uniti, a New York, dove morì nell941. Ancora oggi scambio di tanto in tanto qualche lettera con sua moglie Eva. Nel mio romanzo Il problema di Aladino ho voluto ricordare i tratti della sua personalità nel personaggio di Sigi Jersson.

    Tra le figure che segnarono quel periodo c'è anche Walter Benjamin, intellettuale originale che, pur vicino alle posizioni marxiste dei Francofortesi, si interessò al pensiero politico di Carl Schmitt e non esitò a prendere contatto con lui. N eU 'edizione postuma del suo epistolario, pubblicata da Suhrkamp, la lettera di Benjamin a Carl Schmitt è stata omessa, pare per volontà di Adorno ...

    Sì, sapevo di Benjamin. Durante la guerra mi trovavo nel Sud della Francia, a Bourges, dove erano stati catturati dei tedeschi emigrati che furono internati in un campo di prigionia. Benché fossi nell'esercito, ebbi

    l. Valeriu Marcu, Die Vertreibung der Juden aus Spanùm, Querido, Amsterdam, 1934 (con una Postfazione di Audrei Corbea, Matthes & Seitz, Miinchen, 1991).

  • modo di aiutare più d'uno di loro. Sapevo anche di Benjamin, ma lui era riuscito a fuggire da Bourges alla volta della Spagna, attraversando i Pirenei. Poi giunse la notizia che si era suicidato a Port Bou. Ma potrebbe anche essere stato ucciso.

    Lei avanza qualche sospetto sul modo in cui è mmto?

    Dico semplicemente che non ci sono elementi certi che chiariscano definitivamente se egli si diede la morte perché disperato o se fu ucciso. Comunque, personalmente non ho approfondito la questione, come non ho mai studiato a fondo la sua opera, per esempio le sue tesi di filosofia della storia. Su questo punto, la storia e la sua interpretazione, il pensatore decisivo per me fu Spengler.

    Su Spengler torneremo. Volevamo ora chiederle di Max Weber, che in quegli anni fu una figura importante per molti intellettuali ...

    Se ben ricordo dovrei avere nel mio archivio una lettera che mi indirizzò ...

    A che periodo risale?

    Dev'essere stato nel 1920, all'epoca della pubblicazione delle Tempeste d 'acciaìo. Il suo nome all'epoca circolava ovunque, e l'anno prima, nell919, egli aveva tenuto a Monaco, su invito di un'associazione di studenti tra i quali c'era Karl Lowith, le due celebri confe-

  • renze sulla scienza e sulla politica come professione. In ogni caso non l'ho mai incontrato. Egli ebbe un ruolo importante nella vita culturale e nel dibattito politico di allora. Ma non avendolo conosciuto di persona, per me la sua immagine è come se restasse vaga.

    Qual è la personalità dell'epoca con la quale Lei si è sentito in maggior sintonia?

    Certamente Carl Schmitt. Come vi ho già detto, siamo stati veramente amici e da quando ci siamo conosciuti abbiamo mantenuto nel corso degli anni un contatto quasi ininterrotto. Anche durante la guerra, quando io ero a Parigi e lui a Berlino, d scrivevamo spesso, scambiandoci impressioni sulle nostre letture e inviandoci dei libri. Sua moglie, Duschka, e mia moglie, Gretha, erano a loro volta amiche. Carl Schmitt fu tra l'altro P'!drino del mio secondogenito, Alexander. E venuto spesso a trovarmi qui a Wilflingen.

    Come nacque il vostro rapporto?

    Entrammo in contatto quando già abitavo a Berlino. Poi, un giorno Cari Schmitt venne a casa mia e subito si instaurò fra noi un dialogo molto profondo e fruttuoso che è continuato per tutta la vita. Come dicevo, durante la seconda guerra mondiale mi scriveva spesso a Parigi, dove mi trovavo, e venne anche a farmi visita. C'è una fotografia, diventata celebre, in cui è fissato un momento del nostro incontro nell'ottobre del 1941: siamo

  • in barca sul Lago di Rambouillet, l'uno rivolto verso l'altro, l'aria pensierosa. In quella circostanza parlammo a lungo anche della situazione politica e della guerra. Provavamo entrambi una sorta di estraneità e di indifferenza - se non di scetticismo - verso il regime nazionalsocialista e verso il conflitto mondiale in corso. Su questo, quasi senza bisogno di parlarne, c'era una tacita intesa. Ma parlammo a lungo anche di altre cose, specialmente di filosofia e di letteratura, di Poe, Léon Bloy, Tocqueville, di Mo!Jy Dick e dello sfondo metafisico, cosmologico di questo romanzo, che Cari Schmitt aveva letto con grande passione e da cui si era lasciato ispirare durante la stesura del saggio Terra e mare, che stava allora per pubblicare. Da parte mia, quando rientravo in licenza ricambiavo la visita andando a trovarlo a Berlino. Credo di poter dire che fu un rapporto molto intenso. Mi è stato detto che anche in punto di morte ha ricordato la stretta amicizia con me.

    Un'amicizia, si è anche detto, velata da qualche dissapore ...

    Anche in questo riuscì a stupirmi. Non so che importanza dare alla questione, ma effettivamente, leggendo i suoi diari ora pubblicati, 1 si ha la sensazione che a un certo punto abbia avuto qualche risentimento nei

    l. Cari Schmitt, Glossarium. Auft.eichnungen der jahre

  • miei confronti. So anche che in alcune occasioni fece qualche intrigo ai miei danni. Per esempio mise in giro la voce che io avrei scritto Sulle scogliere di marmo per ottenere una seconda medaglia « Pour le Mérite >>. Naturalmente si trattava di un'insinuazione del tutto infondata, ma che rivelava il suo risentimento. Credo che questo mio romanzo lo abbia irritato, anche se non me lo ha mai confessato apertamente. Prova ne è che lo ha scritto nei suoi diari, e del resto me lo ha confermato anche Armin Mohler, che aveva parlato con lui della questione.

    Che cosa ci può dire di Armin Mohler?

    Mohler fu mio segretario e visse qui da noi a Wilflingen per quattro anni. Recentemente è stata messa in circolazione dalla «]unge Freiheit ,, la diceria che la mia prima moglie, Gretha, lo avrebbe cacciato di casa perché avrebbe rubato alcuni libri dalla mia biblioteca. È assolutamente falso. Il fatto fu che dopo quattro anni di servizio a mezza giornata Mohler pensò bene di seguire la sua strada. Fu nominato corrispondente a Parigi, e mi chiese di potersene andare. Naturalmente acconsentii, perché non volevo ostacolare la sua carriera, e ci salutammo da buoni amici. Abbiamo mantenuto i contatti nel tempo, e ancora oggi ci sentiamo al telefono. Del resto ho dato un contributo per gli scritti

    1947-1951, a cura di Eberhard Freiherr von Medem, Duncker & Humblot, Berlin, 1991.

  • in suo onore, e proprio questa mattina ci siamo parlati: gli ho detto che interverrò per smentire questa antipatica calunnia. Ma per tornare a Carl Schmitt, senza dubbio egli è vivo nel mio ricordo come amico, come interlocutore privilegiato e anche come scrittore e pensatore, dotato di una straordinaria capacità di dare definizioni taglienti.

    Lei gli diede il soprannome ''Don Capisco» ...

    Sì, per il suo acume. È il più conosciuto tra i vari soprannomi che gli affibbiai e che si possono ritrovare nei miei diari. Lui invece mi chiamava'' il Capitano''·

    Perché La definiva così?

    Per sottolineare, non senza un velo di benevola ironia, la mia appartenenza alla vita militare - un'associazione, questa, che anche nell'opinione pubblica veniva quasi spontanea.

    L 'altro grande pensatore del Novecento con il quale Lei ebbe un rapporto privilegiato è Heidegger. Come lo conobbe?

    Fu il teologo Heinrich Buhr a metterei in contatto. Eravamo agli inizi degli anni Trenta. Buhr, che conoscevo già dall928, studiava allora a Friburgo. Era entusiasta dei miei saggi La mobilitazione totale e Il Lavoratore, e ne raccomandò la lettura anche a Heidegger. Questi ne fu molto colpito e mi fece re-

  • capitare da Buhr una copia con dedica del suo trattato sull'Essenza del fondamento. Ma tutto terminò lì, anche perché allora, non sapendo quasi nulla di lui, non riuscivo a interessarmi a ciò che scriveva in quel testo. Dopo la guerra, invece, si sviluppò un vero rapporto e ci incontrammo più volte.

    Che impressione Le fece quando lo conobbe? Si dice che avesse uno sguardo penetrante, magnetico ...

    Nel suo modo di parlare, nelle sue domande elementari ma essenziali, perfino nei suoi lunghi silenzi c'era qualcosa che attraeva in modo irresistibile, qualcosa di magico. Ho molto viva questa impressione. In particolare in una occasione, qui a casa mia, sperimentai il grande potere di attrazione che esercitava la sua personalità. Era venuto a trovarmi e passeggiavamo in giardino. Nel guardarlo mentre camminava- ricordo che portava un berretto verde - e nell'ascoltarlo mentre parlava intervallando il suo discorso con lunghi silenzi io awertivo tutto l'incanto della sua presenza. Nel suo modo di fare si manifestava la forza magnetica del suo pensiero, l'evidenza stringente di un interrogare che attrae e convince l'interlocutore. E poi lo ricordo durante la conferenza sulla tecnica a Monaco, agli inizi degli anni Cinquanta.

    Poi non vi siete più rivisti?

    No, credo di no. Però quando morì ero tra i pochi presenti ai suoi funerali. Liselotte e io

  • arrivammo a MeBkirch quando il feretro era già stato chiuso, ma la signora Elfride, sua moglie, lo fece riaprir� perché potessi rivederlo un'ultima volta. E stata una cerimonia particolarmente intensa. C'era tutta la sacralità del rito cattolico, con il discorso funebre tenuto da un sacerdote suo amico, Bernhard Welte. Ma nell'atmosfera si avvertiva anche un certo imbarazzo per il fatto che egli aveva preso le distanze dal cattolicesimo - forse senza mai riuscirei veramente. Sulla sua tomba al posto della croce ha voluto una stella, e aveva disposto che dopo la cerimonia, al momento della sepoltura, si leggessero alcuni versi di Holderlin. Mi sono proposto con mia moglie Liselotte di andare a rivisitare la tomba.

    Il grande tema del vostro confronto è stata la tecnica, con il nichilismo che ad essa si accompagna, come chiave di lettura del mondo contemporaneo. Lei ha ricordato poco fa la celeln'e conferenza La questione della tecnica che Heidegger tenne il 18 novemln'e 1953 nell'Auditorium Maximum del Politecnico di Monaco, nel quadro di una serie di conferenze sul tema Le arti nell' èra della scienza. In precedenza avevano parlato Romano Guardini su La situazione dell'uomo e Heisenberg su L'immagine della natura nella fisica moderna. Successivamente parlarono Emil Preetorius su La scultura, Suo fratello Friedrich Georg su La lingua, Walter Riezler su La musica e per ultimo Marifred Schriiter, che tracciò un Bilancio della tecnica. Nelle foto scattate per

  • l'occasione si vede Lei nelle prime file intrattenersi con Heisenberg. Vi sono anche Ortega y Gasset, Carl-Friedrich von · Weizsacker, Hans Carossa e altri esponenti dell'intelligencija della Monaco degli anni Cinquanta. Ora, sulla questione della tecnica sembra che sia stato più Lei a influenzare Heidegger che non viceversa. Che cosa ne pensa?

    So che Heidegger si interessò molto presto ai miei saggi sulla Mobilitazione totale e sul Lavoratore, tenendo seminari sull'argomento. Ma allora non ci conoscevamo ancora personalmente. Agli inizi degli anni Trenta avevamo avuto dei rapporti epistolari, ma, come dicevo, solo in seguito, dopo la guerra, abbiamo cominciato a frequentarci. Sono stato più volte a trovarlo nella sua baita di Todtnauberg e lui è venuto qui a Wilflingen. In quel periodo scrissi il saggio Oltre la linea per il volume che fu pubblicato in occasione del suo sessantesimo compleanno. Nel 1955, quando fui io a compiere sessant'anni, mi rispose con una lunga lettera intitolata Su «La linea». Suo figlio mi ha riferito che tra le sue carte inedite c'è un intero plico di appunti e glosse critiche sul Lavoratore. All'inizio la sua attitudine nei confronti del mio modo di affrontare il problema era piuttosto critica, severa. Più tardi, pur mantenendo le sue riserve di fondo, mi riconobbe il merito di avere colto nel nichilismo un problema fondamentale del mondo contemporaneo. Del resto lo si vede dalla sua risposta a Oltre la linea. Sarei molto curioso di vedere le sue note inedite

  • sul Lavoratore. Chissà però quando saranno pubblicate e se potrò leggerle ... Ma per il confronto sulla tecnica non va dimenticato mio fratello Friedrich Georg. Lui ha frequentato Heidegger molto più assiduamente di me e ha trattato la questione in una delle sue opere più importanti, Die PerJektion der Technik [La perfezione della tecnica], che oggi i Verdi dovrebbero leggere, e nella quale Heidegger è presente come termine di confronto costante. Credo che Il Lavoratore e La perfezione della tecnica siano come il positivo e il negativo di una fotografia del fenomeno.

    Che rapporto ebbe con Suo fratello?

    L'evento che rinsaldò il nostro legame fu durante la guerra, quando lo ritrovai ferito gravemente ai margini di un bosco dove c'era stata una battaglia, e gli salvai la vita. Delle molte opere che ha scritto quella che mi è piaciuta di più e che ritengo essere la sua più importante è Griechische Mythen [Miti greci].

    Tornando alla Sua visione della tecnica, un punto da chiarire è il seguente: da un lato Lei parla del Lavoratore come di colui che è all'altezza della sfida della tecnica e che la doma con forza prometeica; dall 'altro teorizza la figura dell'Anarca, colui che si ritira nel proprio io quale ultimo baluardo di resistenza. In che rapporto sta l'Anarca con il Lavoratore, e quale delle due figure deve essere il modello per l'uomo d'oggi?

  • L'Anarca non si lascia coinvolgere dalla dimensione della tecnica: se ne serve e la sfrutta se ciò gli torna utile, altrimenti la ignora e si ritira nel suo mondo interiore, nel mondo delle sue letture. L'Anarca è sovrano anche sulla tecnica.

    Ma l'Anarca non rischia di essere una figura troppo letteraria, quasi romantica?

    Non direi. L'uomo romantico in qualche modo fugge dalla realtà e si costruisce con la fantasia poetica o con il sogno un proprio tempo e un proprio spazio. L' Anarca invece conosce e valuta bene il mondo in cui si trova, ed è capace di ritirarsi da esso quando gli pare. In ciascuno di noi c'è un fondo anarchico, un impulso originario all'anarchia. Ma non appena si nasce esso viene limitato dal padre e dalla madre, dalla società e dallo Stato. Sono salassi inevitabili che l'energia originaria dell'individuo subisce e a cui nessuno sfugge. Ma l'elemento anarchico rimane latente, e può erompere come lava: può liberare l'individuo, ma anche distruggerlo. L' Anarca sa che la libertà ha un prezzo, e sa che chi vuole goderne gratis dimostra di non meritarla. Per questo non va confuso con l'anarchico: quest'ultimo si relaziona alla società, sta con essa in un rapporto negativo, che si manifesta in maniera virulenta nella disponibilità dell'anarchico a praticare il terrore per raggiungere i propri scopi. All'Anarca invece la società è indifferente. L'Anarca

  • non ha società. La sua è un'esistenza insulare, come ha messo in evidenza Max Stirner, la cui opera L 'Unico e la sua proprietà a questo riguardo è fondamentale.

    Si accennava al romanzo Sulle scogliere di marmo. In fondo con quel libro Lei rinunciava, per così dire, a essere solo uno scrittore e si dava, forse involontariamente, uno statuto morale per condannare un regime liberticida. Che rapporti, o meglio, quali debiti ha l'Anarca nei confronti della società, sia che esso scelga l 'esistenza di scrittore sia che propenda per qualsivoglia altro tipo di vita?

    Uno scrittor� che si rispetti vive accanto alla sua società. E come se ne sfiorasse i caratteri per capirne meglio l'essenza. Il suo compito, diversamente da quello del politico o dell'economista, non è di natura sociale. Ciò che a mio avviso risulta importante per lui è comprendere la propria posizione eccezionale per non dissipare se stesso e la sua immagine in questioni secondarie. Può darsi che, bene o male, egli non possa esimersene. In tal caso l'insuccesso è per lui più propizio del successo.

    Che definizione dà del successo letterario ?

    Un conto è il successo di pubblico, che è certo importante, anzi decisivo. Ma per me l'essenziale del successo letterario è immanente alla letteratura stessa. È, per esempio, la sen-

  • sazione di avere concepito e formulato una frase perfetta.

    E il fallimento che cosa è per Lei?

    L'esatto contrario. In ogni caso non è misurabile in base ai favori del pubblico.

    Lei sostiene che il compito dello scrittore non è di natura sociale. Posto che abbia uno swpo che non sia solo quello di scrivere, qual è?

    Il vero scrittore, come la vera ricchezza, si riconosce non dai tesori di cui è in possesso, ma dalla sua capacità di rendere preziose le cose che tocca. Egli è pertanto simile a una luce che, invisibile in sé, riscalda e rende visibile il mondo.

    È una definizione molto bella. Ma forse poco rispondente a questo finale di secolo, tanto travolgente da apparire confuso ad alcuni, senza speranza per altri. C'è chi sostiene che la musica di un millennio che si chiude esiga orchestre apocalittiche.

    Ma la potenza di uno scrittore sta appunto in questo: nel diffidare della confusione e nel non lasciarsi coinvolgere nell'atmosfera apocalittica. Evitare o lenire la catastrofe è compito del politico, che merita aiuto. In questo campo anche le forze spirituali più eccelse non possono cambiare nulla. Il loro intervento può essere, semmai, di natura censoria. Ma, come si sa, scommettere sul loro sue-

  • cesso è aleatorio: ci sono sviluppi che vengono condannati all'unanimità da un punto di vista morale e che contraddicono persino la logica - eppure prendono il loro corso.

    Sembra di ascoltare la lezione di Machiavelli o quella più tarda e pretenziosa di Hegel. Che cosa pensa del realismo politico?

    Benché in ambito politico il confine tra realismo e cinismo sia a volte difficile da stabilire, una visione disincantata della politica e della storia non può prescindere dal riconoscimento della ineluttabile dinamica intrinseca del politico, che implica lotta e conflittualità.

    Torniamo al compito dello scrittore. Che cosa deve fare di fronte allo sfaldamento spirituale?

    L'autore coglie la decadenza nella sua dimensione globale, nel suo significato tragico. Questo fa. In ciò non è distante dai grandi profeti o da Eraclito. In fondo la decadenza è l'unica cosa normale, e il rapporto che lo scrittore instaura con essa è di natura particolare solo in quanto si configura nell'opera. Il superamento della paura della morte è il compito che uno scrittore si dà; la sua opera deve irradiarlo.

    Irradiazioni è anche il titolo di un Suo libro. È una parola che La seduce?

    Sì, perché è una parola quasi metafisica, come « emanazione ,, : indica un modo in cui

  • l'energia si trasmette, sia in senso materiale, sia in senso spirituale.

    Che ne pensa dell'associazione che viene di solito fatta tra Lei, Heidegger e Carl Schmitt, figure carismatiche del Novecento tedesco, dalle quali irradia una particolare energia spirituale?

    Mi sento in ottima compagnia, perché effettivamente emanano un'aura del tutto particolare. So però che di solito l'accostamento viene proposto in senso negativo, per etichettarci quali rappresentanti dell' intelligencija nazionalsocialista. A tale riguardo, se si osservano le cose meglio, più da vicino, sono indispensabili alcune precisazioni, in quanto le nostre biografie sono molto diverse. Non ho frequentato Heidegger negli anni del nazismo e quindi non so quale importanza egli potesse avere per i nazionalsocialisti. In fondo era un professore di filosofia in unq piccola università di provincia, lontana da Berlino, e per le gerarchie del partito non era certamente un uomo che contava. Probabilmente Heidegger non venne mai preso in seria considerazione, né arrivò mai a controllare qualche leva importante del potere. Rimane il fatto che, almeno in un primo momento, lui e soprattutto sua moglie Elfride simpatizzarono per Hitler. Diverso è il caso di Cari Schmitt. Egli era allora consigliere dì Stato, perciò rivestiva un ruolo istituzionale importante. Ricordo che a Berlino, quando passeggiavamo insieme,

  • capitava a volte di passare davanti alle sentinelle o di imbatterci nei frequenti controlli della polizia. In quei casi immancabilmente veniva riconosciuto dal distintivo di consigliere di Stato che portava, e tutti reagivano mettendosi sull'attenti. Questo non vuoi dire che si identificasse con il regime. Ricordo che proprio negli anni in cui Hitler godeva del massimo consenso, prima della guerra, un giorno durante una passeggiata mi disse: «Ha sentito ieri il discorso di Hitler? Nient'altro che luoghi comuni"· Quanto a me, grazie alla mia posizione di pluridecorato della prima guerra mondiale e alle simpatie di cui godevo per il successo delle Tempeste d'acciaio, potei permettermi di stare alla larga dai nazionalsocialisti e di rifiutare gli onori e i privilegi che mi venivano offerti.

    A proposito del rapporto con il nazionalsocialismo, Goebbels disse una volta di Lei:

  • ma ebbe con lui una discussione quasi feroce, durante la quale cadde anche la parola fatale " Lavoratore"· Per Niekisch, che intellettualmente sovrastava Goebbels ma politicamente era il più debole, quello scontro fu fatale. Quanto a me, ho difeso con circospezione ma anche con tenacia la mia libertà individuale, e ho rifiutato le varie offerte che mi venivano fatte, fra le quali la nomina nella Deutsche Akademie der Dichtung.

    Come fu preso questo Suo attèggiamento dalle gerarchie del partito?

    L'ostilità divenne sempre più profonda. Nei diari di Goebbels, oggi pubblicati, si può vedere che cosa egli pensava di me:

  • « scorticatore » di Koppels-Bleek tutti ri� nobbero Goebbels, dietro la figura di Biedenhorn il capo delle SA Rohm, dietro il Gran Forestaro Hitler. Allora fu chiaro a tutti qual era la mia posizione nei confronti del regime. Ricordo che nel marzo del 1945, quando la catastrofe era ormai sotto gli occhi di chiunque avesse un minimo di buon senso, Goebbels trovò il tempo di diramare alla stampa l'ordine di non fare menzione del mio cinquantesimo compleanno.

    Q:Jlello di Goebbels aveva tutta l'aria dì essere un atteggiamento ridicolo. Ma altrettanto ridicoli sono quei critici che ancora oggi L 'accusano di essere stato una immagine - anche se involontaria, anche se strumentalizzata - del regime nazista. Non trova?

    Ai miei critici di oggi credo di poter dire almeno questo: quando c'era da rischiare la pelle, io c'ero, loro no. Mi ha fatto molto piacere quando sono venuto a conoscenza del giudizio che Hannah Arendt ha dato di me nel suo resoconto sulla Germania postbellica, anche se la mia resistenza è stata una resistenza spirituale solo interiore, non una resistenza nel senso vero e proprio del termine.

    Come avete vissuto, Lei, Carl Schmitt e Heidegger, l'immediato dopoguerra?

    Per nessuno di noi fu una passeggiata. Anche nel mio caso, come in quello di Cari Schmitt e di Heidegger, vennero subito gli

  • incaricati delle forze occupanti per interrogarmi e chiedermi ogni sorta di informazioni, ma non fui sottoposto a interrogatori veri e propri, e me la cavai abbastanza bene. Fu importante per me passare dalla zona di occupazione inglese, dove in un primo tempo mi fu vietato di pubblicare, a quella francese, dove ero conosciuto e godevo di considerazione, tanto che ottenni nuovamente la libertà di stampa. Insomma, la transizione non fu per me così difficile come per Heidegger o Carl Schmitt. Loro sono stati esposti ad attacchi molto violenti, anche perché si erano direttamente compromessi con il regime nazionalsocialista. Io invece, a Parigi, ero stato vicino al gruppo di ufficiali che aveva organizzato il complotto contro Hitler - nei miei diari parigini lo chiamo

  • sieme a tavola, mi suggerì di scrivere qualcosa sulla pace. Eravamo nell941. Seguii il suo consiglio. Scrissi il saggio sulla pace e lo nascosi poi in un armadio blindato dell'Hotel Majestic, dove alloggiavo. Non so se avrei fatto tutto questo se non avessi potuto contare sulla protezione del mio comandante, il generale Hans Speidel. A Saint-Dié, sotto il bombardamento americano, diedi una copia dattiloscritta del testo a Toepfer, che la portò a Benno Ziegler, ad Amburgo. Questi la fece comporre, ma non riuscì a farla stampare. Il testo originale lo portai con me a Kirchhorst. Fu trascritto e copiato, e circolò clandestinamente, di mano in mano, ma con sorprendente rapidità.

    Fu un testo che anche Rommel lesse . ..

    Sì, certo. Avevo dato una delle tre copie dattiloscritte in mio possesso al generale Speidel, il quale incaricò subito un attendente di portarla in motocicletta a Rommel, a La Roche-Guyon. Rommel giudicò quel testo un buon punto di partenza, sul quale si poteva lavorare. Non so esattamente che cosa intendesse, e non ho avuto il tempo di accertarlo. Anche perché egli era in contatto con coloro che cospiravano contro Hitler e finì nella rete dei sospetti. Per mia fortuna, durante l'interrogatorio cui fu sottoposto non rivelò di essere a conoscenza del mio scritto. Non ne fece menzione. Pochi giorni dopo fu arrestato e costretto ad awelenarsi.

  • Riesce almeno a immaginare in che senso Rommel disse che su quel Suo testo si poteva lavorare?

    Rommel era coinvolto nel complotto che portò all'attentato del 20 luglio. Il gruppo dei cospiratori intendeva elaborare un piano per porre· fine alla guerra e iniziare la riedificazione morale e materiale della Germania. Il mio scritto, che cercava un nuovo orientamento nell'idea d'Europa, poteva costituire un punto di riferimento teorico e anticipava in effetti idee che più tardi divennero realtà. Ma importante per me era inoltre un punto che in quel testo veniva soltanto abbozzato e che solo in seguito a\Tei sviluppato in un saggio specifico. Mi riferisco all'idea dello Stato mondiale.

    Che cosa intende per Stato mondiale?

    È un'idea che è stata anticipata in una certa misura da Kant nello scritto Per la pace perpetua ( 1795), e che non ha perduto di attualità, come mostrano le vicende nella ex Jugoslavia. Kant pensa a un 'istanza sovrastatale che metta freno ai conflitti senza regole tra gli Stati nazionali, i quali si comportano fra loro come individui nello stato di natura, dando luogo alla guerra di tutti contro tutti. Kant tuttavia intende questa istanza nel mero senso di una federazione fra gli Stati. Per me invece lo Stato mondiale è il punto verso il quale tende l'organizzazione politica dell'umanità. Esso sancirà sul piano politico la globalizzazione già avviata dalla tecnica e dall'eco-

  • nomia planetarie. Anche senza eliminare gli Stati nazionali, lo Stato mondiale ne assorbirà il potere principale. La tecnica, in quanto fenomeno universale, cosmopolitico, che spinge inesorabilmente alla globalizzazione, prepara lo Stato mondiale e, anzi, in una certa misura lo ha già realizzato. Lo Stato mondiale ne è il corrispettivo politico.

    Che cosa pensa del problema delle nazionalità, che, se da un lato sono insidiate nella loro esistenza avendo perduto la loro forza rappresentativa, dall'altro continuano a costituire un serio pericolo di nuovi conflitti?

    Le nazioni sono a mio avviso un fenomeno di transizione. Se guardiamo alla situazione nella ex Jugoslavia, vediamo che oggi esiste una condizione simile a quella che si verificò alla morte di Alessandro. Assistiamo a una lotta tra diadochi che, prima o poi, troverà uno sbocco nella direzione dello Stato mondiale. Del resto, le Nazioni Unite sono state appunto un precorrimento di questa idea.

    Le nazioni contano sempre meno, mentre emergono sempre più virulenti i nazionalismi .. .

    Sì, in questa affermazione c'è qualcosa di vero. Ma si potrebbe anche dire il contrario: che i nazionalismi sono morti e che ora alr biamo nazioni che tentano di ritrovare la loro identità e di ridefinirsi. Naturalmente l'esempio della ex Jugoslavia mostra quanta

  • energia e virulenza abbia ancora l'idea di nazione.

    L 'idea della pace e dello Stato mondiale è un 'idea, più che politica, di filosofia della storia ...

    Certo, io non penso a una realizzazione politica a breve scadenza di queste idee, ma le concepisco come visioni di uno sviluppo st(}rico che potrà durare per l'intero secolo a venire. In tal senso si tratta quindi di una fil(}sofia della storia e non di un'idea politica. L'idea dello Stato mondiale è un principio regolativo, una idea-limite alla quale è possibile fare riferimento per trovare la direzione in cui procedere al fine di risolvere conflitti reali.

    Il problema di ripensare la comunità delle nazi� ni, superando l'idea stessa di nazione e concependo un ordine globale, è stato materia di riflessione anche per il vecchio Carl Schmitt, il quale su questo punto aveva come interlocutore privilegiato Alexandre Kojève che teorizza la «fine della st� ria » nello "Stato omogeneo universale». Ha c� nosciuto questo singolare personaggio?

    No. So che era in contatto con Cari Schmitt, considerandolo a ragione uno dei pochi pensat:pri con i quali valesse la pena di discutere. E singolare: nonostante tutto, non(}stante gli attacchi e l'ostracismo a cui fu sottoposto dopo la guerra, Cari Schmitt è uno dei pochissimi pensatori del ventesimo sec(}lo ad avere fatto veramente scuola. Quanto

  • alle critiche che gli sono state rivolte, bisogna riconoscere che fu lui stesso, con le sue tesi radicali, ad andarsele a cercare. La celebre sentenza «Il Fiihrer crea il diritto >> non è una proposizione innocua: se uno la esprime, deve sapere a quali rischi si espone. Ricordo che un giorno, a Berlino, poco dopo che egli l'aveva pronunciata, mi capitò di passare da casa sua e così gli chiesi: "Hai già preparato le mitragliatrici per difenderti? >>. E lui ingenuamente mi domandò: «Perché? >>. E io: «Perché ammesso e non concesso che per il diritto costituzionale sia una sentenza plausibile, dal punto di vista politico è un'affermazione molto pericolosa>>. La dura esperienza dell'immediato dopoguerra lo rese più accorto. Per rendersene conto basta leggere Il nomos della terra, un'opera di vasto respiro in cui egli mette a nudo tutta la precarietà teorica e storica dei princìpi che ispirarono il processo di Norimberga, con il quale andò definitivamente distrutta l'antica tradizione dello jus publicum Europaeum. Qui Cari Schmitt mostra in modo splendido quanto sia importante concepire su nuove basi l'ordine mondiale futuro.

    Ha conosciuto ]acob Taubes, rabbino e pensatore ebreo ammiratore di Carl Schmitt?

    No, lo conosco solo di nome, ma non ho letto nulla di suo. Il mio segretario, Armin Mohler, era in contatto con lui e fece da mediatore tra i due. Cari Schmitt era letteralmente

  • affascinato dall'ebraismo, chè considerava come l'opposizione essenziale al cattolicesimo nella lotta per l'interpretazione della storia universale, e diceva che era molto più interessante discutere con l'intelligenza ebraica che non con quella piccolo-borghese di Berlino.

    Che cosa pensa dell'A meri ca, che oggi, mancandQle un nemico, vive la paradossale situazione di grande potenza dimidiata?

    La mancanza di un nemico, di una forza opposta di pari intensità, è la ragione per la quale, prima o poi, dovrà subentrare la situazione dello Stato mondiale- anche se non bisogna dimenticare che i Russi dispongono ancora della bomba atomica, e anche se credo che essi stiano lavorando alacremente per ricostituire una forza opposta. Di questo ho discusso in una lontana intervista con Alberto Moravia per « L'Espresso >> •1

    Ma la situazione dello Stato mondiale sarà quella di un mondo senza Stato o quella di uno Stato totale?

    A questo proposito è importante il concetto di patria [Heimat]. La patria non è lo Stato e la pluralità delle patrie non potrà essere

    l. La questione nucleare. Come vivere con la bomba, colloquio di A. Moravia con E. Jiinger, in «L'Espresso "• XXIX; 34, 1983, pp. 48-55. L'incontro ebbe luogo a Wilflingen il 25 marzo 1983.

  • soppressa nemmeno dallo Stato mondiale. Quando quest'ultimo si realizzerà, non è detto che gli Stati particolari debbano scomparire del tutto. Semplicemente passeranno in secondo piano.

    Ma nella Sua visione il concetto di patria ha un peso diverso rispetto a quello che ha, per esempio, in Heidegger: per Heidegger il radicamento nella propria terra è costitutivo, mentre per Lei il Solitario, l'Anarca, è radicato unicamente in se stesso o, meglio, non ha affatto radici.

    Sì, è così. Per questo anche il mio concetto di libertà ha un accento diverso rispetto a quello di Heidegger. Così come è diverso il mio modo di concepire il rapporto con il mondo.

    Alla conferenza di Heidegger La questione della tecnica, di cui si parlava, era presente anche Ortega y Gasset. Che ricordo ne ha? Nel suo libro La ribellione delle masse ha colto un fenomeno nevralgico del nostro tempo . . .

    Non mi ricordavo che Ortega fosse presente in quella occasione, mentre mi rammento molto bene di Heisenberg, che ho incontrato più volte anche in seguito. Ciò che mi è rimasto impresso di Ortega sono alcuni suoi saggi che ho letto. Alla sua tesi circa l'importanza delle masse io contrappongo la mia convinzione fondamentale: il punto nevralgico è per me l'individuo, il singolo, non la massa. L'energia, la forza, si concentra più in lui che non nell'elemento amorfo della massa. L'in-

  • dividuo, se possiede il carisma necessario, può influenzare e guidare le masse. Come già Eraclito faceva notare: uno vale più di diecimila. Con Ortega, però, non ho avuto né contatti personali né epistolari, mentre Cari Schmitt mi raccontava di esserne stato profondamente impressionato e di averlo studiato a fondo.

    Interessante è l'idea che Ortega ha del rapporto tra uomo e natura, antitetica rispetto a quella di Heidegger . ..

    Sì, Heidegger pensa che uno dei mali fondamentali dell'uomo contemporaneo sia la sua perdita di radici, il suo spaesamento e la mancanza di patria, vale a dire il disorientamento che subentra quando si perdono il legame con la propria natura e la stabilità che viene dall'attaccamento al suolo. Ortega è invece convinto- secondo il suo punto di vista tipicamente mediterraneo - che non vi sia un legame originario dell'uomo con la natura. Anzi, la natura è inizialmente ostile all'uomo e la tecnica è l'attitudine con la quale egli contrasta questa ostilità. L'architettura, per esempio, è la tecnica che rende possibile all'uomo abitare la terra. Per quanto mi riguarda, mi sento più vicino a Heidegger. Preferisco, come vedete, abitare in un villaggio piuttosto che in una metropoli. Ho vissuto entrambe le esperienze: ho abitato a Berlino, a Parigi, capitali dal fascino intramonta-

  • bile. Ma per avere la tranquillità e la concentrazione necessarie all'attività spirituale è preferibile l'ambiente naturale della campagna. Per questo vivo a Wilflingen da ormai quasi mezzo secolo e sento di avere qui le mie radici.

    Tornando al tema dell'America: apprezza la cultura americana? E che cosa pensa del fatto che per le giovani generazioni essa è diventata un mito o quanto meno un repertorio dì modelli culturali da emulare?

    Tempo addietro si sarebbe potuto rispondere a questa domanda con una provocazione: è possibile chiamarla «cultura»? Oggi, anche a prescindere dalla grande letteratura americana, le cose sono profondamente cambiate, specialmente per i giovani. Ma per me è diverso.

    Non c'è nulla dell'America che La attrae? In fondo l'America è il laboratorio in cui si foggia l'aspetto del mondo secondo la visione di una tecnica planetaria, che proprio lì ha incominciato a realizzarsi.

    Provate a pensare al Giappone. Forse è lì che l'umanità è più prossima al futuro. Lì sembra essersi realizzato un rapporto completamente diverso fra tecnica e cultura, fra utopia del progresso e tradizione. Immagino i l giapponese che, dopo avere lavorato tutto il giorno, la sera va a casa e indossa il suo kimono. Questo mi sembra emblematico del biso-

  • gno che ha l'individuo di ritirarsi in se stesso, ritrovando il legame con la propria tradizione.

    È forse allora la mancanza della ritualità della tradizione che rende problematica la sopravvivenza della cultura in America?

    Sì, quantunque anche in America si stia formando nel frattempo un rapporto con la tradizione.

    Forse l'America è il luogo in cui le culture si recano per morire?

    Una simile affermazione sarebbe stata sottoscritta da Spengler.

    Vi sono pensatori americani, come Henry David Thoreau, la cui esaltazione del « vivere senza prindpi », che giunge fino a rivendicare il diritto alla disobbedienza civile, può essere accostata all'atteggiamento dell'Anarca .. .

    Quella di Thoreau è sicuramente una delle difese più appassionate della libertà individuale. Un altro pensatore che ritengo molto importante per l'analisi dell'individualismo moderno è Tocqueville. Ha avuto una visione lungimirante di quello che l'America sarebbe diventata e ha previsto la sua opposizione all'altra grande potenza del ventesimo secolo, la Russia. La parte conclusiva della Democrazia in America è un contributo fondamentale all'analisi del tramonto dell'Occi-

  • dente. Questa era anche l'opinione di Carl Schmitt. Se Tocqueville non fosse stato un antisemita, forse la sua fortuna sarebbe stata molto più vasta. Io l'ho studiato a fondo, e nei miei saggi ne rimangono numerose tracce, come per esempio in Al muro del tempo. Ma nel pensiero e nella creazione letteraria si attraversano fasi che poi si dimenticano.

    A quali scrittori e a quali letture si dedica oggi?

    Sto leggendo I miseramli di Victor Hugo, in cui si trovano molti pensieri moderni, attuali. Rileggo continuamente anche l'Orlando furioso di Ariosto, che posseggo in una bella edizione in folio, nella traduzione di Hermann Kurz e con le illustrazioni di Gustave· Doré. Riqco a leggerla soltanto stando in ginocchio. E lì, la vedete? Le stanze di Ariosto mi ritemprano e a volte le leggo a mo' di prima colazione. Durante la prima guerra mondiale ne portavo sempre con me, nel tascapane, una edizione economica, quella dell'editore Reclam tradotta da Gries, che leggevo durante le pause dei combattimenti e nei periodi di riposo. Ariosto non era il solo. Mi accompagnavano anche il Faust di Goethe, Fontane e altri classici. Nella mia vita i classici sono stati come vascelli sui quali ho spesso navigato al di là del tempo e dello spazio. A volte ho l'impressione di essere vissuto più intensamente tra i libri che non tra gli eventi di questo mio secolo. Ho la sensazione di essere andato non da Berlino a Parigi, ma da un capitolo all'altro.

  • Ha letto anche Musil ...

    Sì, naturalmente. Ma è una lettura più tarda, che ho poi rimosso.

    Che cosa fa di un libro, dì un autore, un classico?

    Anzitutto il suo carattere imperituro. Una poesia di Schiller continua a essere viva, moderna, intramontabile. E poi lo stile, la lingua.

    La Sua passione per la letteratura e per i libri, che L 'ha accompagnata anche in guerra, getta una luce completamente diversa sul Suo eroismo gi(}vanile e sulla Sua esperienza bellica ...

    Dalla mia prospettiva di oggi posso dire che l'esperienza della guerra fu importante, ma molto povera se confrontata alla ricchezza delle esperienze che ho fatto attraverso la letteratura. Perfino durante la guerra, come "i ho detto, la lettura di Ariosto fu per me più appassionante di altre cose vissute. Ariosto rapisce il lettore e lo trasporta in una visione spiritualizzata, che trasfigura la realtà, dove si incontrano demoni, eroi ed eroine ... e l'animo si colma di una ricchezza infinita. Il problema è che la trasfigurazione e la spiritualizzazione della realtà mediante l'arte sono minacciate dalla tecnica.

    Ma la sublimazione letteraria dell'esperienza bellica non è in contrasto con le descrizioni crude, disincantate, drammatiche che Lei stesso ne dà nei Suoi diari?

  • No, non vi è contrasto, si tratta di due aspetti ugualmente presenti.

    Nell'esperienza della guerra da un lato Lei partecipa con eroismo agli avvenimenti e alle azioni, dali 'altro sembra descrivere lo spettacolo con distacco .. .

    Ho preso parte alla guerra per un innato spirito di avventura che sentivo dentro di me, e che trovò uno sbocco nell'euforia generale che si era allora diffusa ovunque in Germania, ma anche in Inghilterra, in Francia. Durante gli eventi bellici, dopo le azioni, l' esercizio della scrittura mi trasponeva su un altro piano: rivivevo il tutto non più da attore, ma da osservatore che guarda quasi dall'alto lo spettacolo del fuoco e della lotta.

    Sembra l'esperienza di un uomo che ha avuto il privilegio di essere contemporaneamente attore e spettatore di_quel terribile teatro. Ma quanto ha inciso, su questa Sua condizione, il fatto che quella guerra era diversa da tutte le altre?

    C'è per me una differenza fondamentale tra la prima guerra mondiale e la seconda: la prima fu una guerra tra nazioni, la seconda una guerra cosmopolitica. Di conseguenza anche il mio rapporto con l'esperienza del conflitto fu diverso: nella prima guerra mi identificavo con gli ideali che l'avevano scatenata, eroismo e difesa della patria erano in un certo senso ancora dei valori; nella seconda guerra, invece, la realtà che per me conta-

  • va era un'altra rispetto a quella degli eventi. Si era creata una distanza, una frattura incolmabile. Di qui il mio ripiego in me stesso, nel mio mondo interiore, nella realtà dei libri e della letteratura. Come se l'attore di un tempo fosse sparito e restasse soltanto lo spettatore.

    C'è un passo dei diari parigini che è diventato famoso perché è ·stato incriminato spesso e volentieri dai Suoi critici come espressione di un estetismo cinico ...

    A quale vi riferite?

    A queUo sull'allarme aereo ...

    Ah, sì, l'ho presente. Per la verità quel passo testimonia il contrario, cioè il mio distacco interiore dalla realtà della guerra. Ve lo leggo:

  • tale >>.1 Nell'edizione delle mie opere complete ho aggiunto la frase: «Tutto era spettacolo, era potenza pura, affermata e accresciuta dal dolore ».2 Con ciò volevo esprimere la mia distanza: sia da coloro che volavano alti sopra la città, sia dalla gente giù nelle strade, terrorizzata. Stavo solo con me stesso e bevevo il mio borgogna. Non era cinismo, era una difesa estetica di fronte alla paura della morte. La scena di guerra si era trasfigurata per me in uno spettacolo.

    Bruce Chatwin racconta in Che ci faccio qui? 3 della visita a Wiljlingen e parla di Lei come di un « esteta in guerra » . • •

    Ricordo bene quando Chatwin venne a trovarmi. La sua definizione mi piace. Coglie bene l'atmosfera che si respira nei miei diari parigini, che registrano le mie letture, la mia vita e le mie frequentazioni di artisti e letterati nella città occupata. Quando arrivai a Parigi il generale Speidel, che allora era ancora colonnello, per prima cosa mi mandò da un sarto italiano a farmi confezionare un

    l. E. Jiinger, Strahlungen Il: Das zweite Pariser Tagebuch, in Siimtliche Werke, ed. cit., vol. III, 1979, p. 271 (trad. it. di Henry Furst, Irradiazioni, Guanda, Parma, 1993; nuova ediz., 1995, p. 424). 2. Loc. cit. L'aggiunta non compare nell'edizione italiana .

    .3. Bruce Chatwin, Che ci faccio qui?, trad. it. di Dario Mazzone, Adelphi, Milano, 1990, pp. 359-80.

    http:incrimina.to

  • meraviglioso abito civile, e quindi mi incaricò di reperire certe annate di bordeaux. Nel comando generale tedesco a Parigi a un certo punto si cominciò ad averne abbastanza della guerra. Ci rifugiavamo nella vita culturale, artistica e letteraria della città: ricordo in particolare i giovedì a casa di Florence Gould, dove ho incontrato scrittori come

    Jouhandeau, Jean Cocteau, Céline, Paul Léautaud e Jean Paulhan. Dopo la guerra, proprio quest'ultimo - che, come seppi solo allora, era un capo della Resistenza - nel novembre del 1945 mi scrisse una lettera, firmata anche da Jouhandeau, Léautaud, Arland e Florence Gould, in cui mi invitava a tornare a Parigi: « Venez vite, les jeudis vous attendent >>. Altri di noi cominciarono a covare sentimenti ostili nei confronti dei programmi di guerra di Hitler. Si crearono così le premesse per il complotto che portò all'attentato del 20 luglio.

    A parte reperire ottime bottiglie di vino, che incarico aveva nella Wehrmacht?

    Il mio compito ufficiale di addetto alla censura era il controllo della corrispondenza. Mi passavano per le mani lettere in cui si diceva, per esempio, . In questi casi facevo sparire le lettere e scrivevo anonimamente al loro autore consigliandogli di evitare in futuro espressioni del genere.

  • Con la Gestapo, che stava in rue Victor Hugo, non lontano dal Raphael, l'albergo in cui aveva la sede il mio Comando, ho avuto qualche problema. Quando noi della Wehrmacht chiedevamo loro di chiudere un occhio, si mostravano intransigenti e replicavano che di eccezione in eccezione tutto l'apparato sarebbe andato in rovina. Una volta mi sfuggì una risatina, al che il comandante mi riprese con un cipiglio severo: «Non rida!». Effettivamente l'apparato di spion