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“Foibe”: per una “Giornata del ricordo” condivisa da tutti gli italiani
“Che gli uomini non imparino molto dalle lezioni della storia è la più importante
di tutte le lezioni della storia.”Aldous L. Huxley
Tre foto in successione che emblematicamente riassumono la tragedia del Confine orientale
Militari italiani in posa davanti a partigiani titini fucilati
Disegno di esecuzioni in una foiba
Una bambina istriana parte per l’esilio
1. La “Giornata Nazionale del Ricordo”
“I fatti non cessano di esisteresolo perché vengono ignorati”
Aldous Leonard Huxley
La “Giornata Nazionale del Ricordo” viene chiamata così, perché si affianca e contrappone alla “Giornata della memoria”. E’ una ricorrenza istituita, su proposta di Alleanza Nazionale e della federazione degli esuli, nel 2004, dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, per non dimenticare le migliaia di italiani assassinati dai partigiani titini nel 1943 e nel 1945, nonché l’esodo dei giulianodalmati dal 1943 al 1956 e l’intera complessa vicenda del Confine orientale. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, celebrando al Quirinale lo scorso anno la “Giornata del Ricordo” insieme al Ministro della Cultura Francesco Rutelli, ha consegnato 75 medaglie con diplomi a 75 familiari delle vittime delle foibe. Nell’occasione ha ribadito che “Le foibe furono pulizia etnica” ripetendo parole già espresse in precedenza che avevano suscitato, com’è noto, le proteste del presidente croato Stipe Mesic per il quale avrebbero contenuto “elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e revanscismo politico”. Nel chiudere la cerimonia l’on. Napolitano ha poi aggiunto che quello delle foibe è un “riconoscimento tardivo ed è tempo di sanare una dolorosa pagina della nostra storia”, ammonendo che “se le ragioni dell’unità non prevarranno su quelle della discordia, se il dialogo non prevarrà sul pregiudizio, niente di quello che abbiamo
faticosamente costruito può essere considerato per sempre acquisito.” Purtroppo però, registrando quello che è successo durante la “ Giornata Nazionale del Ricordo” che si è celebrata in Lombardia, ma un po’ dappertutto anche in Italia, il 10.02.08, c’è da dire che la commemorazione della ricorrenza, lungi dall’essere stata una giornata di concordia e di memoria condivisa per rimarginare quella profonda ferita tra le due comunità, la croata e l’italiana, e tra le forze politiche, ancora una volta si è rivelata, al di là di quanto auspicato dallo stesso Napolitano, un’occasione per rialzare steccati, rinfocolare odi e divisioni e per assurde strumentalizzazioni politiche. In Croazia il Presidente Stepi Mesic ha preso posizione con una reazione più controllata e meno plateale e stizzita rispetto a quella dell’anno precedente, ma pur sempre di reazione negativa si è trattato, da registrare con disappunto. Anche in Italia del resto le reazioni non si sono fatte attendere e sulla stampa, nazionale e locale, si sono alternate le dichiarazioni di forze politiche, di destra e di sinistra, che riproponevano quegli steccati e divisioni ideologiche che tanto hanno avvelenato il dibattito negli ultimi anni. Solo per fare qualche esempio: l’11 febbraio 2008 da sinistra si è affermato che “Le violenze post belliche delle foibe furono la reazione ai crimini del fascismo e al razzismo italiano scatenato contro le popolazioni slave”; per contro da destra, si è rivendicato “Il merito di aver promosso questa giornata per ricordare i crimini dei comunisti” (1).
1.1 Foibe, nuove polemiche
“Il ricordo di un crimine non crescasull’oblio di un altro crimine” (Predrag Matvejevic, scrittore e slavista).
Gianni Alemanno, primo cittadino di Roma, durante l’incontro avvenuto il 7 novembre 2008 con i cittadini del quartiere GiulianoDalmata, ha rinfocolato la polemica sulle “foibe” affermando che “Se la Croazia non riconosce che in quelle terre è stato commesso lo scempio delle foibe non può entrare nell’Europa Unita”; inoltre, riferendosi alla “Giornata Nazionale del Ricordo” che sarà celebrata il 10 febbraio 2009, ha affermato che “l'opera non è ancora conclusa perché manca la trasmissione di questa vicenda nei libri di storia”. Le sue parole hanno suscitato la reazione sdegnata dello scrittore croato Predrag Matvejevic, docente di slavistica alla Sapienza di Roma, che ha dichiarato: “Il sindaco è male informato e difende le tracce del fascismo in Croazia. Quelli che la pensano come lui sono i peggiori nazionalisti croati che attaccano la resistenza jugoslava. I collaboratori del sindaco non lo hanno informato dei testi che abbiamo pubblicato sulle foibe e sulle vittime innocenti italiane. Parlano anche di tutta una gioventù croata e dalmata ammazzata dalle camicie nere di Mussolini. Non si può riconoscere solo le vittime di una parte dimenticando quelle dell'altra. Voglio ricordare ad Alemanno che gli ustascia di Ante Pavelic sono stati addestrati dagli squadristi mussoliniani a Lipari e hanno commesso crimini di guerra fra i più gravi in Europa. Pavelic ha consegnato a Mussolini la Dalmazia e s'è preso una parte di Slovenia. Sono questi ha concluso lo scrittore gli scenari dietro i quali si sono consumate le vendette reciproche della fine della Seconda guerra mondiale. Sorprende fino a che punto il sindaco di Roma li ignori” (la Repubblica 8 novembre 2008).Cosa emerge dall’insieme di queste reazioni e da quest’ultima ennesima polemica? Che la tragedia delle “foibe” non è ancora, per la Croazia e per l’Italia, momento di unità e di memoria condivisa, ma sempre più occasione per rinfocolare odi e divisioni, e che la strada dell’unità e della condivisione è ancora un processo lungo e faticoso, tutto da costruire. Pertanto se vogliamo che la tragedia del Confine orientale diventi una ricorrenza accettata da tutti, italiani e croati, e che ci sia, come auspica il Presidente Napolitano, una “pacificazione nazionale” tesa a sanare quella profonda ferita è il momento di rimuovere le cause che stanno all’origine di queste divisioni, riflettendo più a fondo e a 360 gradi su questo tragico avvenimento, cominciando a chiederci ad esempio perché la tragedia delle foibe non è ancora memoria di tutti e cosa si potrebbe fare perché si affermi un
sistema di valori condivisi intorno ai quali gli italiani tutti possano riconoscersi e ritrovarsi.
1.2 “Leggere tutte le pagine della storia!”
“Le pagine meno gloriose del nostro passatosarebbero le più istruttive se solo accettassimo
di leggerle per intero”.
Tvzetan Todorov
Non vi è dubbio che in questi cinque anni la celebrazione della “giornata” ha contribuito a far superare una prolungata rimozione, ovviando in parte anche ad una certa indolenza degli storici che non sempre hanno studiato in maniera adeguata quegli eventi. Rimane il fatto però che la ricostruzione del passato appare ancora insufficiente e parziale, sussistono zone d’ombra e aspetti poco lumeggiati; intorno poi a tutta la complessa vicenda del Confine orientale c’è bisogno di scavare ancora e a fondo per la ricostruzione dei fatti e per sostituire la storia alla propaganda, restituendo agli avvenimenti la loro reale dimensione. Tutto ciò, ma anche le discutibili motivazioni che hanno portato alla promozione della giornata da parte della destra che l’ha voluta in contrapposizione ad altre memorie, per calcoli elettorali e ragioni che poco o nulla hanno a che fare con la verità storica, fa sì che gli animi siano ancora esacerbati e la cerimonia non venga vista come un’occasione di pacificazione.Le considerazioni appena sviluppate in una prospettiva tutta interna alla tragedia delle “foibe” danno una spiegazione necessaria, ma non sufficiente a comprendere i motivi che stanno alla base delle resistenze ad accettare una qualsiasi forma di memoria condivisa su questa vicenda, triste e dibattuta. Ben più complesse e profonde sono le ragioni di queste resistenze per cui sarà necessario spingere più a fondo la riflessione, allargandola al passato nazista e fascista, in Germania e in Italia, e riandare all’origine delle cause per comprendere come le vicende storiche che si sono succedute, dal dopoguerra ad oggi, e i tanti luoghi comuni abbiano di fatto inciso in modo diverso nei due paesi per quanto ha riguardato la pacificazione degli animi e la definizione di una coscienza e di una identità nazionale. Ciò premesso, va detto che non rientra nell’economia di questo saggio l’analisi dei passaggi storici, delle ragioni e delle cause di ciò che è accaduto nelle due nazioni, entrambe coinvolte da protagoniste nel conflitto. Pur in presenza di evidenti analogie, troppo complesse, diverse e variegate sono le vicende, i protagonisti e le forze politiche in gioco (ad es. la lotta partigiana e i combattenti della RSI che hanno riguardato l’Italia, ma non la Germania) da non permettere in poche note una trattazione esauriente e storicamente oggettiva. Mi limiterò quindi a parlare della famosa e dibattuta questione del “Passato che non passa” e dei conti non fatti con il proprio passato, affrontata in Germania, ma non in Italia, quanto meno non in maniera adeguata, e dei luoghi comuni e miti che una certa vulgata storiografica ha alimentato sul fascismo, riproponendomi in questo modo di chiarire alcune delle ragioni che rendono la strada per la costruzione di una nuova identità nazionale condivisa così irta di ostacoli e non facile da percorrere.
2. Il passato che non passa, due diversi approcci in Germani e in Italia
“Nei singoli la follia è una rarità:ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche è la regola." F. Nietzsche
Lo storico tedesco Ernst Nolte, allievo di Heidegger, ha coniato per la Germania l’espressione «die unbewältigte Vergangenheit» (il passato non risolto) per indicare i conti non chiusi con l’orrore del nazismo. Va ricordato al riguardo che fin subito, dal 1945, gli storici tedeschi hanno studiato con alacrità e rigore, discutendo e polemizzando, liberamente e ferocemente, e hanno prodotto ricche ricerche su quella che considerano la massima tragedia nazionale, sulle sue radici e cause, su come si colloca e si motiva nella storia della nazione, sulle responsabilità individuali e collettive. Nel complesso, la Germania ha saputo, non senza difficoltà e ritardi, regolare i propri conti con il nazismo sotto il profilo politico e storiografico, al di là di pochi anziani nostalgici e malgrado le sporadiche esibizioni dei macabri simboli del passato ad opera di frange neonaziste, pervenendo ad una condanna senza appello del passato nazista. Il sistema politico democratico ha retto ad eventi colossali e burrascosi, come il crollo della Germania comunista e i difficili problemi della riunificazione; la solidità interna, politica e intellettuale, pur tra tanti problemi, si è mostrata capace di vincere l’importante sfida: ha contrastato e domato il cupo retaggio nazista, ed ha elaborato una memoria condivisa. Nessun politico di primo piano, sentimentalmente o politicamente legato al nazismo, ricopre oggi in Germania incarichi a livello nazionale nel Governo; le forze politiche democratiche conservatrici sono anzi molto attente nel condannare il passato nazista e rintuzzare qualsiasi forma di revanscismo o antisemitismo risorgenti. Valga per tutti il riferimento a due discorsi memorabili tenuti dal Capo dello Stato, il conservatore Horst Koehler, durante la manifestazione del 9 maggio 2005, nel 50° anniversario della Liberazione dal nazismo, e da Angela Merkel, il 9.11.08, nel 70° anniversario della "Notte dei cristalli". Il Capo dello Stato, nell’occasione appena citata, ha affermato: “Noi proviamo vergogna e orrore per allora, e la Germania di oggi ha proprio questa responsabilità speciale davanti al mondo: tenere viva la memoria del dolore. Mi appello ai giovani: voltare pagina e cancellare la Memoria non sarà mai ammissibile”. Allo stesso modo la Cancelliera Angela Merkel, partecipando alle cerimonie in ricordo del pogrom nazista in una delle sinagoghe che vennero distrutte e incendiate, ha ammonito sui rischi di nuove ondate di antisemitismo: “Non possiamo restare indifferenti agli estremisti di destra che marciano verso la porta di Brandeburgo o agli estremisti di destra che vincono seggi in Parlamento”, né “possiamo restare in silenzio quando i rabbini vengono minacciosamente avvicinati in strada, quando le tombe ebraiche vengono profanate e quando vengono commessi crimini antisemiti. La compiacenza è il primo passo che mette a repentaglio i valori essenziali della nostra democrazia”. Prese di posizione importanti e decise, assunte non già da dirigenti della sinistra di opposizione, ma dai massimi esponenti governativi conservatori dell’odierna Germania.
2.1 I conti con il passato in Italia: il fascismo negato
Ben diversa è la storia delle vicende politiche italiane. Da noi anziché fare i conti con l’orrore del fascismo e le responsabilità, individuali e collettive, di chi ha appoggiato il regime di Mussolini si è lasciata crescere una politica revanscista e si sono costruiti miti e luoghi comuni, alimentando la vulgata che la Repubblica Italiana è il risultato, politico e militare, non già di una guerra di Liberazione, ma di una guerra civile che ha avuto vincitori e vinti. Subito all’indomani dell’8 settembre, dopo che l’Italia aveva rotto il patto d’acciaio che la legava al nazismo hitleriano e stretto l’alleanza con le forze angloamericane iniziando la lotta unitaria della Resistenza, si cercò di far passare quel fenomeno, tutto italiano, che il prof. Emilio Gentile, tra i maggiori storici del fascismo, noto sul piano internazionale, allievo di Renzo De Felice e interprete del metodo di George Mosse, definisce “defascistizzazione del fascismo”, ovvero lo svuotamento del regime dei tratti liberticidi e la negazione del suo carattere totalitario. Ancora oggi, a 65 anni di distanza dalla caduta del fascismo, viene portato avanti un tentativo che
mira a far passare una visione “perdonistica” degli eventi bellici, utilizzando, in modo maldestro e strumentale, anche le ricerche di De Felice citato per circoscrivere le colpe del fascismo alle leggi antisemite e riportare il problema della RSI nell’ambito di un patriottismo in buona fede. Si alimentano così miti e stereotipi del tipo: “il fascismo non fu tutto male”, “se c’è stato San Saba c’è stata Basovizza”, “l’8 settembre morì la Patria”; “chi scelse la Repubblica Sociale di Salò erano giovani pieni di ideali patriottici che non sapevano nulla degli orrori del nazismo e mantennero fede al patto con gli alleati tedeschi, per salvare la patria”, per cui “i militari di Salò vanno onorati come gli altri badogliani”, “l’esito finale del fascismo con le leggi razziali fu negativo, ma ci furono anche scelte positive per l’Italia di allora”, “Mussolini fu comunque un grande statista” e così via.Sia chiaro, riportando questi luoghi comuni e denunciando questo “svuotamento del fascismo” dai suoi tratti illiberali, non si vuole mettere in dubbio la fedeltà alle regole democratiche né dell’onorevole Fini, né di altri esponenti di governo del suo partito; più semplicemente si vuole far notare che, pur essendo il fascismo morto e sepolto, e pur essendo vietata dalla Costituzione e dalla legge Scelba del 1952 l’apologia del fascismo, in Italia si possono ancora, tranquillamente e impunemente, alimentare miti, come quelli ricordati in precedenza, mentre persone, legate personalmente e sentimentalmente al passato regime, possono occupare importanti cariche pubbliche e fare parte del governo ministri che, fino a poco prima, si professavano fervidi ammiratori di Mussolini e del suo regime. Nessun uomo pubblico in Germania oserebbe fare affermazioni sul nazismo, come quelle che abbiamo riportate e che circolano da noi sul fascismo, tantomeno abbandonarsi all’elogio di Hitler o di altri gerarchi; né persone legate in un modo o nell’altro al passato nazista potrebbero ricoprire incarichi di governo, senza suscitare scandalo e contestazioni. Una cosa del genere non sarebbe immaginabile nemmeno nella Spagna exfranchista che lo scorso anno ha emanato, per iniziativa del governo Zapatero, una legge sulla Memoria Storica varata dalle Cortes che vieta per la prima volta a 33 anni dalla morte del generalissimo Franco le celebrazioni in suo onore. La nuova norma parlamentare fa riferimento alla Valle de Los Caìdos per !'importanza simbolica che il luogo da sempre riveste agli occhi dei nostalgici della dittatura (né più né meno come Predappio per i nostalgici del fascismo e di Mussolini): “In nessun punto del recinto, dice la legge, si potranno realizzare atti di natura politica che esaltino la Guerra Civile, i suoi protagonisti o il franchismo” (la Repubblica 18.11.2008).Eppure anche l’Italia, come la Germania, è un paese politicamente ed economicamente mutato nel profondo rispetto a settant’anni fa: il fascismo è caduto ignominiosamente nel 1945, al pari del nazismo. Come si spiega allora l’anomalia di un paese, nato dalla lotta di Liberazione, con una Costituzione democratica ed antifascista, dove continuano ad avere voce in capitolo gli eredi del partito neofascista e dove ancora è legittimo parlare di “defascistizzazione del fascismo” e da pulpiti autorevoli si tenta di abbellirne la memoria?La ragione sta nel fatto che l’Italia non ha operato quella necessaria riflessione critica, consapevole e spesso dolorosa, che la Germania ha invece saputo fare con il nazismo, come giustamente ricorda il prof. E. Gentile, non certo storico di parte né tantomeno di sinistra: “E’ il nostro paese, la nostra cultura nazionale, a non aver mai fatto i conti fino in fondo con il totalitarismo fascista. Le recenti sortite del sindaco di Roma e del ministro della Difesa avvengono in un contesto politico e culturale che le legittima, in un terreno favorevole concimato in questi anni da formulazioni e stereotipi diffusi purtroppo anche in parte della storiografia e nel discorso pubblico” (Il fascismo negato,11.9.08,la Repubblica).La Germania questi conti con il suo passato li ha fatti, l’Italia no. Da noi il dibattito storiografico risulta ancora condizionato ed inquinato da forme di revanscismo e revisionismo, con il risultato che le vicende legate alla Seconda Guerra Mondiale sono rimesse di continuo in discussione. Non aver chiuso con il nostro passato ha fatto sì che si accumulassero steccati, luoghi comuni, strumentalizzazioni ideologiche e propagandistiche, stereotipi e miti che maldestramente tendono a
minimizzare le colpe della dittatura fascista, a negare l’Olocausto con lo sterminio di milioni di vite umane, a delegittimare la Resistenza e le basi stesse della convivenza democratica, a mettere sullo stesso piano aggressori ed aggrediti equiparando i combattenti della RSI ai partigiani. I veleni di queste strumentalizzazioni e di questo “revisionismo” si sono riversati anche sulla tormentata questione del Confine orientale, inquinando la ricerca storica e il dibattito politico, e impedendo di fatto che si facesse la necessaria chiarezza.
2.2 I luoghi comuni che condizionano la ricerca storica sulla tragedia del Confine orientale
Per comprendere perché la tragedia delle “foibe” continua ancora a dividere, sarà utile fare qualche riflessione sul senso e sui limiti di questa tendenza revisionistica che, riconsiderando in nome dell’accertamento storico i nodi cruciali del secondo conflitto mondiale, tende di fatto a falsarli. Di seguito verranno presi in esame alcuni di questi miti (“l’8 settembre 1943 morì la Patria”; “chi scelse la Repubblica Sociale di Salò erano giovani pieni di ideali patriottici e non sapevano nulla degli orrori del nazismo, mantennero solo fede al patto con gli alleati tedeschi, per salvare la patria”, per cui “i militari di Salò vanno onorati come gli altri badogliani”) tenendo presenti le ricerche condotte da due storici di vaglia: Emilio Gentile sul fascismo e Claudio Pavone sulla Resistenza. Prima però di affrontare alcune delle problematiche che questa tendenza revisionistica sulla “defascistizzazione del fascismo” porta avanti, inquinando il dibattito e ritardando il formarsi di una memoria condivisa, s’impone una riflessione sul termine stesso, sul suo uso e sul suo significato, distinguendo tra un revisionismo legittimo e uno illegittimo e scorretto. Il lavoro dello storico è per sua natura e vocazione quello di “revisionare”. Che senso avrebbe altrimenti studiare documenti e fonti, ogni volta che ne emergono di nuovi o che vengono proposte nuove e diverse letture sulla base di fondati ragionamenti o dell’evolversi della storiografia? Rivedere a posteriori le cose fa parte del mestiere dello storico e, in questo senso, il revisionismo è pratica normale per ogni studioso che voglia portare un contributo di chiarificazione e completezza al dibattito in corso. Ma un revisionismo a priori, quasi una sorta di filosofia della storia o scuola e procedura scientifica, non ha nulla a che fare con la storiografia. E’ tutt’altra cosa. “La libertà dello storico” dice Pavone “ha un limite. Ed è l’accertamento dei fatti. Occorre in questo senso guardarsi dalle molte recenti tendenze a ridurli alla loro rappresentazione o a negarli, come nel caso della Shoah. Negare la shoah appunto non è fare storia (...) Ci sono delle regole. C’è un limite oltre il quale da attività intellettuale il revisionismo decade a mero strumento di lotta politica. Accade, appunto, con i revisionisti e i negazionisti della Shoah”. Lo stesso discorso possiamo farlo per i falsi miti e i luoghi comuni che una certa storiografia alimenta sul fascismo.«In Italia” dice il prof. Gentile “è stato cancellato tutto quello che il fascismo ha rappresentato come distruzione della democrazia e umiliazione della collettività. La defascistizzazione del fascismo nasce da un totale travisamento di quello che il regime è stato. A quest'offuscamento non è estranea la cultura antifascista. Per molti anni è prevalsa a sinistra l’immagine d'un regime ventennale sciolto come un castello di carte, una ‘nullità storica’ con cui in sede storiografica s'è cominciato a fare i conti troppo tardi. A destra gli umori hanno oscillato tra la caricatura e l'indulgenza, fino alla tesi del fascismo modernizzatore: un'interpretazione che dura tuttora”.
2.2.1 Giovani in buona fede
Uno stereotipo invalso in articoli e interviste è che “coloro che scelsero la Repubblica Sociale di Salò erano giovani in buona fede, pieni di ideali patriottici che rimasero fedeli al patto con gli alleati tedeschi, per salvare la patria”.Ci si chiede: “E’ questa una tesi sostenibile?”. Sembra proprio di no. E’ lo storico Emilio Gentile a portare sull’argomento un contributo essenziale e chiarificatore: “Una delle caratteristiche del
fascismo fin dalle origini fu quella di negare l'esistenza di una patria di tutti gli italiani: esisteva soltanto la patria di coloro che aderirono al fascismo. Anche soggettivamente il patriottismo fascista fu liberticida. E’ Mussolini che il 4 ottobre del 1922, prima della Marcia su Roma, dichiarò che lo Stato fascista avrebbe diviso gli italiani in tre categorie: gli indifferenti, i simpatizzanti e i nemici. Questi ultimi, annunciò, andavano eliminati. Se si parte da queste premesse, non c'è più una patria degli italiani: c'è solo la patria dei fascisti. Per i seguaci del duce, Amendola e Sturzo non sono italiani. E’ questa stessa logica che nel 1938 conduce Mussolini ad affermare che gli ebrei sono estranei alla razza italiana e per questo devono essere discriminati”. E per ciò che concerne la strumentalizzazione che viene fatta di De Felice il cui nome è spesso citato per giustificare la riduzione del male del fascismo alle leggi antisemite e ridimensionare il problema della Rsi al patriottismo in buona fede, Gentile aggiunge: “De Felice sulle leggi razziali scrive che la responsabilità maggiore fu di Mussolini, della sua ‘incosciente megalomania’ di trasformare gli italiani ‘in nome di principi e ideali che erano negazione di ogni principio e ogni ideale’ (…) La tragica conclusione del fascismo è nelle sue stesse premesse e nella sua logica, nella sua sostanza antidemocratica e liberticida, nella sua mancanza di rispetto per i valori più elementari della personalità umana". Anche su Salò si espresse in modo inequivocabile, attribuendo alla RSI l'origine della guerra civile. Non sono opinioni assolutorie sul fascismo.”(nota)L’8 settembre non è morta quindi la Patria degli italiani, crollava e moriva quella di Mussolini e del fascismo; mentre il vecchio regime affondava nel fango, ebbe inizio la lotta di Liberazione da cui nascerà la nuova Costituzione e la nuova Italia democratica repubblicana. Piero Calamandrei, uno dei più grandi giuristi del ’900 e membro della commissione dei 75 alla Costituente, proprio per questo ha scritto la famosa epigrafe che recita: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione”.
2.2.2 Partigiani e Repubblichini sono uguali
Un altro luogo comune è che “I morti della seconda guerra mondiale: partigiani e repubblichini di Salò sono tutti uguali” perché avrebbero combattuto su trincee contrapposte, ma simmetriche e tutti i morti meritano rispetto. Da più parti si è parlato e si continua a parlare, anche in questi giorni, di “sangue dei vinti”, di “onore dei vinti”, di riconoscimento morale e giuridico dei combattenti RSI con apposita legge del Parlamento italiano. E’ il caso di ricordare al riguardo che già nel 2005 Alleanza Nazionale aveva presentato in Senato una proposta di legge, che equiparava i militari di Salò ai partigiani. Si disse allora che il provvedimento doveva tendere alla pacificazione, a sessant’anni dalla fine della guerra, dimenticando che i “repubblichini” erano già stati amnistiati nel 1947 dall’allora Ministro della Giustizia, il comunista Palmiro Togliatti, riammessi nei posti di lavoro e nella vita civile.Ma qual è il senso della proposta di legge presentata in Parlamento dalla destra? Corrado Augias rispondendo ad alcuni lettori indignati su la Repubblica del 22 febbraio 2005 scrive: “La proposta di legge che equipara ai partigiani chi combatté per la Repubblica di Salò non riguarda solo i superstiti di quella tragica stagione della nostra storia. La manovra è subdola e non si limita al riconoscimento morale e pratico per chi, nei fatti, operò come ausiliario delle truppe naziste, comprese le operazioni di rastrellamento, le torture, le stragi. Dietro ai riconoscimenti individuali c'è la rivalutazione dell'ultima fase disperata e crudele del fascismo, comprese le istituzioni che la rappresentarono. Il disegno ha il fine ultimo di equiparare sotto ogni aspetto i combattenti delle due parti, incrinando così il patto antifascista sul quale è stata scritta la Costituzione che regola la vita dei singoli e delle istituzioni”.
Recentemente, a seguito delle parole pronunciate da Alemanno a Porta San Paolo durante la commemorazione per il 65° anniversario della Difesa di Roma, quando ha definito male assoluto le leggi razziali, ma non il fascismo che le aveva promulgate, s’è riacceso lo scontro sul passato regime che ha visto su posizioni diverse il Ministro della Difesa Ignazio La Russa e il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. “Farei un torto alla mia coscienza ha detto il Ministro se non ricordassi che altri militari in divisa, come quelli della Nembo dell’esercito della RSI, soggettivamente e dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della patria, opponendosi nei mesi successivi allo sbarco degli angloamericani e meritando quindi il rispetto pur nella differenza di posizioni di tutti coloro che guardano con obiettività alla storia d’Italia”. Napolitano per contro ha parlato del “duplice segno della Resistenza: quello della ribellione, della volontà di riscatto, della speranza di libertà e di giustizia di tanti giovani che combatterono nelle formazioni partigiane sacrificando in non pochi la loro vita; e quello del senso del dovere, della fedeltà e della dignità che animarono la partecipazione dei militari, compresa quella dei seicentomila deportati nei campi tedeschi che rifiutarono l’adesione alla Repubblica di Salò”. Due visioni distinte della storia: una che omaggia i militari dell’esercito della Repubblica sociale italiana, l’altra che ricorda come vero simbolo della Resistenza chi rifiutò l’adesione alla repubblica di Salò e per questo fu deportato.L’affermazione del Ministro della Difesa ha provocato imbarazzo nel Presidente della Repubblica e indignazione tra le forze politiche di opposizione, ma anche tra gli “addetti ai lavori” tra cui lo storico Giovanni De Luna che ha detto: “Il fatto che La Russa abbia scelto per il suo strappo la celebrazione dell'8 settembre e il ricordo dello scontro sostenuto a Porta San Paolo da patrioti italiani contro le truppe tedesche configura poi un paradosso che segnala anche un sinistro corto circuito tra la memoria storica di questo paese e le istituzioni che lo rappresentano. Un ministro della Repubblica celebra le vittime di quello scontro, considerato la data d'inizio della Resistenza, elogiando quelli che si schierarono con i loro carnefici! Sembra quasi un tragico sberleffo”. Tant’è che lo stesso Fini, Presidente della Camera e leader del partito cui appartiene anche La Russa, riferendosi alle polemiche scoppiate dopo le dichiarazioni del Ministro e del Sindaco di Roma ha preso le distanze dalle loro dichiarazioni affermando: ”Sicuramente ci sarà stato da parte di alcuni assoluta buona fede, ma è doveroso dire che non era equivalente stare da una parte o dall’altra. C’era chi combatteva dalla parte giusta, dalla parte della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia sociale e chi stava dall’altra parte”.La presa di posizione del Presidente della Camera ha trovato d’accordo l’exPresidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che in un’intervista concessa al quotidiano Il Messaggero al giornalista che gli domandava come valutasse la messa a punto di Fini che tra l’altro dava atto al Presidente di avere lavorato per “raggiungere una memoria condivisa”, ha risposto: “Fini è stato chiarissimo. Le sue parole hanno messo fine ad un’inutile polemica (…) il chiarimento sulla RSI e sul fascismo era necessario perché come ho sempre sostenuto si può riconoscere che alcuni tra i cosiddetti ragazzi di Salò erano in buona fede, ma ciò non toglie che la loro scelta fu sbagliata perché si trovarono a combattere accanto ai nazisti, a coloro che il presidente tedesco Rau a Marzabotto definì "le iene vestite di nero". Sono distinzioni facili eppure necessarie da fare”. E il giornalista di rimando: “Dunque Presidente Ciampi, si procede lungo la via che Lei ha sollecitato in tutto l'arco del settennato di un pellegrinaggio nella memoria per arrivare ad una vera pacificazione nazionale”. “Sì. Anche in occasione delle recenti polemiche dopo l'anniversario di Porta San Paolo ho ricordato che, un conto è la valutazione di quanto è avvenuto durante la seconda guerra mondiale e un altro conto è quanto avvenuto dopo l’8 settembre del 1943 o ancora meglio, dopo il 25 aprile 1945. Da questo momento è cominciato il processo lungo, tortuoso, ma ormai è da considerare concluso. Sono passati più di sessant’anni, siamo ai figli dei figli. Ecco perché le parole di Fini sono importanti”.
2.2.3 L’etica della responsabilità
Ma anche su questo stereotipo della “buona fede”, come ha riconosciuto lo storico Gentile bacchettando il ministro La Russa, bisognerà fare chiarezza una volta per tutte: “Per capire storicamente si deve considerare anche la buona fede. Ho scritto anch'io sul patriottismo nella R.S.I. Ma la buona fede non può essere un criterio di valutazione storica! Se avesse vinto Mussolini e il Fuhrer, che ne sarebbe stato di questi patrioti idealisti e non fascisti? Che fine avrebbero fatto in un nuovo ordine dominato da Hitler, ancor più totalitario, razzista e nutrito d'odio feroce? Anche i responsabili dei campi di concentramento nazisti come Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, professarono d'essere bravi padri di famiglia e sinceri amanti della patria. Forse lo pensavano anche i guardiani dei gulag”. (Nota)Non basta giudicare le buone intenzioni, accanto all’etica dell’ intenzione c’è da tener presente anche l’etica della responsabilità . Il metro di valutazione non può essere la sola buona fede, occorre valutare anche le conseguenze morali che le decisioni assunte e le azioni potrebbero avere nei confronti degli altri e del mondo in genere. Non è ininfluente per chi valuta i fatti storici e per la morale la causa per la quale si lotta , se si è aggrediti o aggressori, se si combatta dalla parte giusta o da quella sbagliata, se si lotta per il rispetto della dignità umana o per la “rottura d’umanità”, come quella rappresentata dalla tragedia di Auschwitz! “Si dice sempre dice Pavone nell’intervista a Repubblica 17 febbraio 2007 che la storia non si fa con i se. E invece si fa anche con i se. Che servono proprio a capire la drammaticità di certi momenti della storia umana, quando si giocano partite fondamentali”. Anche Gentile si chiede: “Cosa sarebbe successo se avesse vinto Hitler?” Lo storico inglese Ian Kershaw ha provato ad immaginare un diverso corso degli avvenimenti con Hitler padrone assoluto d’Europa, il Giappone che domina l’Asia e nessun ebreo superstite. (Il Sole 24 ore 25 maggio 2008. nota Non è un mistero del resto che per Himmler, come rivela una recentissima biografia (Peter Longerich Heinrich Himmler: Biographie, ed. Siedler di Monaco), se il Terzo Reich avesse vinto la guerra, la Shoah avrebbe dovuto essere solo il primo passo nella politica di pianificazione dei genocidi e degli stermini, successivamente sarebbe toccato al popolo slavo, agli omosessuali, agli handicappati, alle persone considerate asociali (gli "Untermenschen”), ossia ogni persona, categoria o gruppo etnico e sociale classificato dalla tirannide e dalla sua ideologia come "subumano".“Quello che trovo inaccettabile – dice Pavone riferendosi al tentativo di equiparare i combattenti della RSI ai partigiani è mettere le due parti che allora erano in lotta, fascisti e antifascisti, sullo stesso piano, considerare equivalenti le due poste in gioco. Questo è un falso storico che diventa falso civile e morale. Ciò non impedisce di studiare le motivazioni di chi ha combattuto dalla parte di Salò, si deve farlo. Si capisce cosa pensavano, si trova la buona fede dei singoli. Ma l’equiparazione dei due fronti combattenti è un’altra cosa”.Colpisce, a mio avviso, lo squallore, il vuoto di pensiero e di coscienza civile, la povertà che contraddistingue il dibattito politico su quella che è stata la più grande tragedia del secolo scorso. A tale proposito varrà la pena richiamare quanto ebbe a rispondere il partigiano di Giustizia e Libertà, Vittorio Foa, da poco scomparso, all’ex repubblichino Giorgio Pisanò, Senatore della Repubblica, eletto nelle fila del Movimento Sociale Italiano di Almirante, durante un programma televisivo. Nell’occasione il Sen. Pisanò, porgendo la mano all’On. Foa gli disse: "Siamo tutti uguali, partigiani e legionari della RSI; abbiamo combattuto con onore, amavamo tutti il nostro paese, la Patria, tutti i morti sono uguali e meritano rispetto". L’On. Foa stringendogli la mano ribatté: “È vero, abbiamo tutti combattuto e ci furono combattenti che lo fecero con onore da una parte e dall’altra, ma sta attento! Perché tu dici abbiamo tutti degli ideali, siamo tutti per la Patria... però sta attento: se vincevate voi, io sarei ancora in prigione dove mi trovavo insieme a tanti altri come me; poiché
abbiamo vinto noi, tu sei Senatore della Repubblica. Questa è la differenza”.( ) Ho voluto richiamare questo scambio di battute, perché nell’episodio è racchiuso il significato più profondo e forse più difficile della democrazia: il partigiano Foa, pur rispettando Pisanò, il combattente fascista dell’ “altra parte”, rifiutò di essere considerato uguale, perché la democrazia accoglieva i suoi oppositori nelle istituzioni, mentre il fascismo li aveva mandati in galera o al confino. Sarà bene ricordare a chi parla dell’onore dei vinti, che l’onore non può essere concesso a chi ha tradito la patria, ha offeso la dignità degli uomini, si è macchiato, alleandosi con il nazismo, di crimini orrendi contro l’umanità. Inoltre è il caso forse di ricordare a coloro che calpestarono e negarono ogni libertà e ogni pietà che, con la rinascita dello Stato di Diritto, la Repubblica ha garantito anche a loro gli stessi diritti di ogni altro libero cittadino, tant’è che Giorgio Pisanò, combattente della RSI ed alleato dei nazisti, ha potuto continuare a fare politica attiva, come altri del suo movimento, seguitare a scrivere, a dirigere riviste e diventare tranquillamente senatore della Repubblica Italiana, per ben cinque legislature, e godere dell’immunità parlamentare, quell’immunità revocata al deputato Antonio Gramsci, processato e lasciato marcire in carcere dal regime fascista.Per ultimo, è necessario fare chiarezza anche in merito all’affermazione che “I morti sono tutti uguali e meritano pietà e rispetto”. E’ vero: la morte di un uomo, di qualsiasi uomo, deve indurre in ognuno di noi pietà, commiserazione e compassione, senza dimenticare però, come dice Calvino, che “gli uomini sono certamente tutti uguali davanti alla morte, ma è la storia (…) che li divide in vittime e carnefici”. C’è una bella differenza tra chi è morto da fascista, collaborando con i carnefici nazisti nello sterminio di milioni di persone, e chi è morto combattendo da partigiano a fianco delle vittime per salvarle dalle camere a gas e per restituire al mondo libertà e democrazia. Spetta alla nuova Italia fare quello che ha fatto la Germania che ha ora ritrovato la sua unità: ricostruire ciò che ancora le manca, un senso di appartenenza e coesione nazionale fondato sui migliori valori della sua storia e della sua tradizione, preludio al tanto discusso e non realizzato "superamento del passato" che non ha mai cessato di opprimere le nostre coscienze di italiani. Lo esige se non altro, e lo rende comunque possibile, l'elevato livello di evoluzione e maturità democratica di cui ha dato prova in questi anni la parte più avvertita e democratica dell’Italia che si ispira ai valori della Costituzione, valori ai quali ha fatto riferimento, con i giovani di AN, per la prima volta anche l’On Gianfranco Fini, dando prova della sua maturità democratica e dell’evoluzione compiuta in questi anni: “La destra politica italiana e a maggior ragione i giovani devono senza ambiguità dire che si riconoscono in alcuni valori della nostra Costituzione: libertà, uguaglianza e giustizia sociale. Valori che hanno guidato e guidano la destra e che sono, a pieno titolo, antifascisti”.
3. Fare chiarezza sulla tragedia delle “foibe”
Tornando alla questione delle “Foibe” che è propriamente l’oggetto di queste riflessioni, mi pare di poter dire che, anche in questo caso specifico, i tempi sono ormai maturi per sgombrare il campo da stereotipi, polemiche e mistificazioni. Nella consapevolezza però che tutto ciò potrà avvenire se si prende atto, a livello politico e civile, delle cause che stanno all’origine di questa tremenda tragedia. Sarà opportuno cominciare una buona volta, anche per quanto riguarda il versante del Confine orientale, a ripercorrere con animo sgombro da passioni politiche la strada della riflessione e della rivisitazione storica, la più oggettiva possibile, e accingersi ad operare una forma di “catarsi individuale e collettiva”. E questo vale per tutti, per le nazioni e per le forze politiche, all’interno delle due comunità, la croata e l’italiana. La Croazia deve abbandonare la “vulgata” che i morti erano tutti fascisti caduti nel corso dei combattimenti con i partigiani, o criminali di guerra giustiziati; per contro la destra italiana, smettendo una certa propaganda di origine neofascista,
dovrà riconoscere le cause e ammettere le responsabilità per i crimini perpetrati dal fascismo; allo stesso tempo smettere di parlare di “genocidio nazionale” e dare seguito all’affermazione fatta dall’on Fini il 14.03.1998 a Trieste, in un dibattito con l’on. Violante, che invitava a “leggere interamente tutte le pagine della storia”. Che significa però veramente tutte, senza omissioni, affrontando per intero e a tutto campo la complessa tematica della tragedia del Confine orientale: l’eredità del fascismo e della guerra, le “foibe” e l’esodo delle popolazioni dall’Istria. Occorre liberarsi insomma da zavorra e ciarpame, sgomberando il terreno da slogan, luoghi comuni e falsi problemi che oscurano la verità dei fatti e che una certa destra ripropone in maniera ricorrente quando sostiene: “se c’è stata San Sabba, c’è stata Basovizza” o dice “se vengono estradati i criminali nazisti bisogna estradare anche quelli comunisti, che hanno commesso i crimini delle foibe”; ma anche smettere con i tentativi, nemmeno tanto velati, di affiancare o contrapporre alla “Giornata della memoria” la“Giornata Nazionale del Ricordo”.Come si possono equiparare tanto per fare un esempio o accomunare tra loro due tragedie tanto diverse, pur se storicamente connesse, come San Sabba e Basovizza?
3.1 La “Risiera di San Sabba” e le “Foibe di Basovizza”: due violenze diverse compiute in due distinti contesti storici.
LA RISIERA DI SAN SABBA A TRIESTE
La stanza delle “microcelle”
LA FOIBA DI BASOVIZZA
La Risiera di San Sabba oggi: parte dell’edificio del molino con l’impronta del forno crematorio distrutto dai nazisti prima di fuggire.
La Risiera di San Sabba a Trieste fu l’unico campo di sterminio nazista in Italia dotato di forno crematorio. L’edificio era stato trasformato in un vero e proprio lager con tutte le sue tragiche caratteristiche: ampi cameroni con file di letti a castello, stanze di tortura, piccole celle in cui il prigioniero era costretto a rimanere in piedi. A San Sabba vennero rinchiusi ebrei, partigiani slavi o italiani: moltissimi vennero giustiziati e i loro corpi cremati; altri vennero inviati nei lager in Austria, Polonia, Germania ecc..
IL MONUMENTO DELLA FOIBA DI BASOVIZZA
Come ha ricordato a Trieste il Presidente Ciampi nel maggio 2002, nel bel mezzo delle polemiche sulle due distinte manifestazioni che si erano tenute nelle due differenti località, tristemente note, in occasione del 25 aprile e che avevano diviso i triestini, “la Risiera di San Saba e le Foibe di Basovizza sono simboli di due violenze diverse, entrambe esecrande, ma compiute in due contesti storici differenti e noi dobbiamo però conservarne la memoria”. C’è differenza e non poca, fra il disegno sistematico di sterminio propugnato dal nazismo di cui la Risiera di San Sabba è una pagina dolorosa, e le orribili violenze nazionalistiche scatenate alla fine di una guerra devastante. Bisogna imparare a parlare delle Foibe di Basovizza, senza parlare di San Sabba, anche perché non va dimenticato che nelle “foibe” erano finiti in precedenza, durante l’occupazione fascista, i partigiani titini, e poi, durante la dura repressione comunista, gli italiani. Come osserva Pierluigi Pallante: “Non furono soltanto gli italiani a subire la dura repressione dell’esercito di Tito o delle formazioni paramilitari che lo affiancavano. Slavi di diverse etnie, che avevano collaborato con i tedeschi o che avversavano il nuovo regime comunista, subirono sorti ben
Questa tristemente nota voragine non è una dolina carsica, ma il pozzo di una miniera scavata all’inizio del secolo fino alla profondità di 256 metri nella speranza di trovarvi carbone, che però non venne trovato. Nessuno si prese la briga di coprire l’apertura. Nel 1945 si trasformò in un luogo di esecuzioni sommarie da parte dei partigiani comunisti di Tito. Nel 1980 il pozzo di Basovizza e la foiba n. 149 vennero riconosciute quali “monumenti di interesse nazionale”.
peggiori (i morti furono decine di migliaia) come gli ustascia croati o i domobranci sloveni” (1).Un’altra mistificazione ricorrente è che ogni volta si riesce ad assicurare alla giustizia qualche criminale nazista, subito si chiede alla magistratura italiana, quasi a voler pareggiare il conto, di far estradare qualche criminale dell’exJugoslavia. La cosa si è verificata di recente a seguito dell’estradizione del boia di Bolzano, Seifert, quando da più parti si è reclamata l’estradizione dei criminali delle foibe. (Si veda al riguardo quanto scrive in una lettera pubblicata sulla Stampa del 19.02.08 un suo lettore, Piero Barone: “fino ad ora la magistratura italiana ha dimenticato questi crimini, che devono essere giudicati alla pari di tutti gli altri, anche se sono passati tanti anni. Potremo un giorno chiedere l’estradizione anche per questi criminali?”).Il mio parere è che si debba fare chiarezza sull’intera questione, l’impressione infatti è che spesso se ne parla senza averne un’esatta cognizione, ma soprattutto sorvolando sui crimini commessi in Jugoslavia dal fascismo e dai suoi fiancheggiatori e collaborazionisti (2). Si dimentica ad esempio che nel 1946 la Jugoslavia protestò vibratamente con l’Italia che non aveva accolto la richiesta di estradizione di 40 nostri cittadini accusati di crimini di guerra commessi sul suolo jugoslavo, dei quali era stato chiesto l’arresto e la consegna alle autorità jugoslave (3). Invece di dare seguito alle richieste jugoslave, il Governo Italiano adottò nella circostanza una politica dilatoria, assecondato in questo dal Ministero degli Esteri inglese e dal Governo americano che nel 1946 avevano concordato nel dire che “la giustizia richiederebbe di consegnare questi criminali, ma motivi di sicurezza spingono nella direzione opposta”. Di fatto l’Italia negò l’estradizione alle autorità jugoslava (4) con il risultato che non solo i criminali non vennero estradati, ma “Nessuno dei responsabili italiani dei crimini di guerra commessi dai fascisti [in Jugoslavia] fu mai condannato” e nel giugno 1951 “con un cavillo giuridico la magistratura militare chiuse con un nulla di fatto tutte le istruttorie” (5). Su questa questione è tornato di recente Il Corriere.
Le due immagini che riproduciamo qui di seguito sono assurte a simbolo delle due distinte tragedie: La “Giornata della Memoria” e il “Giorno del ricordo”.
Il lager di Auschwitz II Birkenau. L’ingresso principale detto :“Portone della morte”; Il logo della tragedia delle foibe
La parola fine va messa anche all’assurda equiparazione tra “Giornata della memoria” e “Giornata del Ricordo”, facendo cessare le strumentalizzazioni a fini politici e di parte con il volersi impossessare della ricorrenza per non parlare della Shoah o quello che è peggio per mettere sullo stesso piano i due eventi, quasi a voler dire che se ci sono stati eccidi commessi dai nazifascisti ci sono stati anche quelli commessi dai “comunisti” in una “miserabile contabilità dei morti”. Purtroppo chi ha voluto la “Giornata Nazionale del Ricordo” non si è preoccupato tanto delle vittime e degli sfollati, quanto di usare le “foibe” per fare lotta politica, nel significato peggiore
della parola. Auschwitz e le “foibe” sono due realtà distinte, ognuna delle quali incommensurabile e incomparabile per natura, dimensioni, tragicità e, soprattutto, unicità. Vanno ricordate giustamente, ma ognuna a se stante, quando è il momento, come ha dichiarato qualche anno fa al Corriere della Sera il triestino Claudio Magris: “senza il ridicolo bisogno, quasi di correggere il ricordo dell’una col ricordo delle altre. O viceversa, quando diciamo che Auschwitz era un orrore è grottesco precipitarsi a dire che i gulag e le foibe erano mostruosi o viceversa, come se ciò non fosse ovvio. E’ indice di cattiva coscienza usare le tragedie delle vittime per fini politici di parte e legandole all’attualità politica”. Va anche aggiunto che una certa “vulgata storiografica” e alcune forze di sinistra non possono continuare a giustificare gli eccidi delle “foibe” presentandoli unicamente come la “reazione ai crimini del fascismo e al razzismo italiano”, perché “Certamente c’è una parte di verità in questa affermazione, ma questa analisi di per sé corretta, dice Pierluigi Pallante, non spiega tutto il fenomeno: trascura infatti, oltre alla dimensione internazionale del problema, il legame tra vicende giuliane e criteri di costruzione del comunismo in Jugoslavia”(6).
3.1 Dare un senso agli eventi storici
Alle vicende luttuose va dato un senso e i caduti vanno collocati in un contesto storico che non può essere quello della miserabile e confusa contabilità dei morti o di un loro confinamento in un indistinto mattatoio della storia. Come dice lo storico Ganapini dell’Università di Bologna “non possiamo ricordare con giusto rispetto chi è morto vittima innocente o anche chi è morto colpevole carnefice, se non sappiamo le circostanze le cause le scelte che l’hanno condotto a quel passo”. Quando si parla della tragedia del Confine orientale occorre ricordare che i crimini perpetrati dai fascisti e loro collaborazionisti durante l’occupazione della Jugoslavia; e quelli dei partigiani comunisti di Tito dal 1943 al 1945, durante l’epurazione titina, rimangono pur sempre crimini, chiunque li abbia commessi; non vanno né giustificati, né tanto meno analizzati con l’ottica dell’oggi, né isolati dalla loro cornice storica, ma studiati attentamente e collocati nel loro contesto internazionale. “Ho accolto con soddisfazione la decisione con cui il Parlamento Italiano ha istituito la Giornata Nazionale del Ricordo. Essa consente di commemorare con continuità una grande tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Il mio pensiero è rivolto con commozione a coloro che perirono in condizioni atroci nelle Foibe, nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945; alle sofferenze di quanti si videro costretti ad abbandonare per sempre le loro case in Istria e in Dalmazia. Questi drammatici avvenimenti formano parte integrante della nostra vicenda nazionale; devono essere radicati nella nostra memoria; ricordati e spiegati alle nuove generazioni. Tanta efferatezza fu la tragica conseguenza delle ideologie nazionalistiche e razziste propagate dai regimi dittatoriali responsabili del secondo conflitto mondiale e dei drammi che ne seguirono. Tutti i popoli europei ne hanno pagato il prezzo. Da allora sono trascorsi sessant'anni e si sono avvicendate tre generazioni. E' giunto il momento che i ricordi ragionati prendano il posto dei rancori esasperati. I principi di dignità della persona, di rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo e dei diritti delle minoranze sono il fondamento dell'Unione Europea. L'integrazione realizzata fra i nostri Paesi permette a tutti gli europei di condividere un unico spazio di democrazia e di libertà. In questa nuova realtà unitaria contrassegnata dall'abolizione fisica delle frontiere, italiani, sloveni e croati possono guardare con fiducia ad un comune futuro, possono costruirlo insieme: consolidando innanzitutto una convivenza in cui la diversità è il fattore di arricchimento reciproco, in cui le radici e le tradizioni di ognuno vengono rispettate nella loro pari dignità. Auspico, in questo spirito, che la Giornata del l0 febbraio, ispirata a sentimenti di riconciliazione e di dialogo, lasci
un'impronta nella coscienza di tutti noi: italiani, europei, cittadini di un mondo che solo una rinnovata unità di ideali e di intenti democratici potrà rendere veramente migliore” (Roma, 9 febbraio 2005. Il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, in occasione della Giornata Nazionale del Ricordo).Quando si affrontano fatti e problematiche di carattere storico è bene tener presente un’elementare considerazione “di metodo”: “Non isolare un evento per quanto atroce dal contesto storico più ampio”. Il diverso contesto in cui i fatti si sono svolti è la chiave per evitare di mischiare tutto in un unico calderone. In relazione al problema delle foibe, l’acquisizione storiografica forse più importante degli ultimi anni è quella che afferma che “il fenomeno delle foibe non è pienamente comprensibile se si rimane all’interno delle logiche che muovono la storia italiana del tempo”(7). Il professor Pallante ricorda giustamente che: “Una reale comprensione del problema nella sua complessità e in tutte le sue implicazioni richiede che esso sia sottratto alla dimensione locale e inserito in un contesto internazionale più ampio: la questione nazionale in Italia e nella penisola balcanica, in Europa e nel mondo, gli assetti postbellici e le ambizioni egemoniche delle potenze della ‘grande alleanza’ nel secondo dopoguerra, le difficoltà e i problemi della costruzione dello Stato socialista jugoslavo, le speranze di realizzare in Italia trasformazioni sociali e politiche in senso socialista e comunista, alimentati dall’avanzata dell’Armata Rossa e dai successi dell’esercito di liberazione jugoslavo. Difficile è quindi il compito di chi vuole in primo luogo cercare di conoscere e capire la tragedia delle “foibe”e l’altra dolorosa vicenda dell’esodo di oltre duecentocinquantamila italiani dall’Istria e da Fiume, con tutto il carico di sofferenze dovuto allo “sradicamento di una comunità dalla sua terra d’origine” (8). Ma questo è un passo necessario se si vuole rimarginare la ferita e cercare di dare alla giornata il senso di una ricorrenza storica condivisa. “Se l’obiettivo della Giornata Nazionale del Ricordo”, come è stato affermato “è quello di contribuire a ricostruire un senso per la vicenda nazionale”, non possiamo isolare una catena di fatti o un singolo fatto, e giudicare solo questi. Forse è bene ricordare a tal proposito che l’art. 1 della legge istitutiva della “giornata” non parla solo di “foibe”; dice che La Repubblica ha istituito la “Giornata Nazionale del Ricordo” al fine di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe; dell’esodo dalle loro terre di istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del Confine orientale”. Con questa formulazione il legislatore non ha inteso sottolineare che gli avvenimenti sono legati da un rapporto di causa e effetto, piuttosto ha voluto invitarci a non isolare le vicende, bensì studiarle nella loro interezza e complessità, perché tutte hanno inciso ed hanno avuto un peso in questa tremenda tragedia. Non è compito della storia né assolvere né condannare, e quindi non può né deve essere asservita a fini di parte, ma limitarsi ad esaminare i fatti freddamente e con distacco per capire le ragioni che hanno portato allo sviluppo di certi avvenimenti, in modo che entrino a far parte della nostra identità e divengano storia condivisa per la formazione delle nuove generazioni. “Bisogna cambiare storia” come dice Raoul Pupo “perché quella che ha coperto l’intera frontiera orientale nelle fasi finali del conflitto è stata la storia della Jugoslavia e del suo movimento partigiano, impegnato in una lotta che era ad un tempo guerra di liberazione ed affermazione nazionale, guerra civile e rivoluzione” (9).
3.2 L’Italia e il Confine orientale: Il regime fascista e l’occupazione slovena.
“Di fronte a una razza inferiore e barbaracome la slava non si deve seguire la politica
dello zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero,
il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possono sacrificare 500.000 slavi barbari
a 50.000 italiani”Benito Mussolini, 1920
Non rientra nell’economia di questo mio contributo analizzare la complessa cornice storica europea sopra delineata, più modestamente mi propongo di esaminare alcune questioni allo scopo di depurare questa tragedia dalle troppe strumentalizzazioni, dai luoghi comuni e dai silenzi, cominciando a pormi, e quindi a rispondere ad alcune domande: “Qual era il quadro storico politico dell’Italia nel suo Confine orientale? Quale quello della Venezia Giulia, dopo l’8 settembre? Che cosa sono le foibe? Quale fu la dimensione dell’Esodo? Quali i problemi di insediamento dei profughi?”.La storiografia ha messo in luce, per quanto riguarda il versante orientale, l’intreccio di questioni che già si addensavano su quest’area all’interno dell’impero asburgico, cui in seguito si aggiunsero: la radicalizzazione nazionalistica provocata dalla prima guerra mondiale a seguito dell’annessione all’Italia di territori in cui vivevano centinaia di migliaia di sloveni e croati; il violento affermarsi del fascismo e la sua politica; l’occupazione italiana e tedesca della Jugoslavia nel 1941; l’operare, dopo l’8 settembre, della “Zona di operazioni Litorale Adriatico” alle dirette dipendenze della Germania. La politica di Tito, volta ad annettere alla Jugoslavia l’intera Venezia Giulia, si inserì in questo quadro incandescente in cui gli odi fra nazionalità erano portati all’estremo. Da qui i traumi drammatici della fase finale della guerra e del dopoguerra, con la tragedia delle foibe e l’esodo della quasi totalità degli italiani da quelle zone.
Il generale Mario Roatta “I ribelli devono essere trattati non secondo la
formula del dente per dente, ma bensì da quella testa per dente” (Circolare 4 emanata dal generale Mario Roatta, comandante della 2a armata dell’esercito di occupazione in Jugoslavia).
3.3 L’Incendio della Casa del popolo sloveno a Trieste
Il 13 luglio 1920, anche per sabotare le trattative diplomatiche italojugoslave sulla questione di Fiume e dei confini tra i due paesi, i fascisti incendiarono lo Slovenski Narodni Dom (Casa del popolo sloveno), simbolo della comunità slava a Trieste. Ecco come Boris Pahor, scrittore triestino di madre lingua slovena narra, con struggenti parole, l’evento in “Necropoli”, lo splendido libro, che racconta la sua tragedia di ex deportato nei lager nazisti: “Al bambino a cui era capitato in sorte di partecipare all’angoscia della propria comunità che veniva rinnegata e che assisteva passivamente alle fiamme che nel 1920 distruggevano il suo teatro nel centro di Trieste, a quel bambino era stata per sempre compromessa ogni immagine di futuro. Il cielo color sangue sopra il porto, i fascisti che dopo aver cosparso di benzina quelle mura aristocratiche, danzavano come selvaggi attorno al grande rogo: tutto ciò si era impresso nel suo animo infantile, traumatizzandolo. E quello era soltanto l’inizio, perché in seguito il ragazzo si ritrovò a essere considerato colpevole, senza sapere contro chi o che cosa avesse peccato. Non poteva capire che lo si condannasse per l’uso della lingua attraverso cui aveva imparato ad amare i genitori e cominciato a conoscere il mondo. Tutto divenne ancora più mostruoso quando a decine di migliaia di persone
furono cambiati il cognome e il nome, e non soltanto ai vivi ma anche agli abitanti del cimiteri. Ed ecco che quella soppressione, durata un quarto di secolo, raggiungeva lì nel campo il suo limite estremo, riducendo l’individuo a un numero.” (10)
“Quella del Confine orientale” – ha scritto Guido Crainz – “è una storia di lungo periodo che viene delineata dallo scrittore istriano Fulvio Tomizza, ne La miglior vita”. Del resto già nel 1947, il grande storico di origine istriana Ernesto Sestan nel bel libro Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale tratteggiava l’inasprirsi dei nazionalismi ottocenteschi e poi le responsabilità del fascismo. “Un fascista giuliano, che sarà poi ministro di Mussolini” annotava Sestan, “ha riassunto così il programma di snazionalizzazione: ‘Bisogna impedire agli avvocati slavi che sono pericolosi la libera attività (...) Bisogna togliere i maestri slavi dalle scuole, i preti slavi dalle parrocchie’”. I più, tra gli italiani, “applaudirono o assentirono tacendo”. E nel 1928 il ministro Giulio Italico vomitava parole di odio: ”Colui che non accetta l’italianità dell’Istria e della Dalmazia finirà nelle foibe” (11).
Proclama degli squadristi di Dignano (vicino Pola)
Non va dimenticato che il collaborazionista filonazista Ante Pavelic, divenuto dittatore della Croazia dopo l’occupazione tedesca, e le sue bande criminali ustascia che hanno massacrato comunisti, serbi, ebrei, sono state addestrate per anni in Italia, a Lipari, dai fascisti italiani e sono ritornate a Zagabria sui camion di Mussolini. C’è una memoria che non può essere svilita, perché questo è l’humus in cui poi sono maturati i crimini. In questo quadro irrompe la guerra e nel 1941 si assiste all’occupazione della Jugoslavia da parte di Germania, Italia e Ungheria. Quella aggressione congiunta, osserva la storica Marina Cattaruzza, “implicava per il popolo sloveno un pericolo incombente di estinzione”.
L’occupazione tedesca e fascista della Slovenia fu di una ferocia inaudita, come hanno documentato ricerche storiche serie: “con la distruzione e l’incendio di interi villaggi e l’uccisione di tutti gli abitanti: vecchi, donne e bambini”. Ricorda Pallante nel già citato studio: “Nel verbale di una riunione dell’XI Corpo d’armata, indetta il 26 giugno 1942 dal generale Mario Robotti, al punto 5° del promemoria si dice: ‘Ricordarsi che i risultati si potranno dedurre solo dai morti ribelli. Concezione dei nostri superiori: a qualunque costo deve essere ristabilito il dominio ed il prestigio italiano, anche se dovessero sparire tutti gli sloveni e distrutta la Slovenia’” . “Durante i 29 mesi di occupazione italiana (194143), nella sola provincia di Lubiana furono giustiziati 900 partigiani e circa 5.000 civili, come ostaggi o durante i rastrellamenti. Altri 7.000 sloveni morirono di stenti, malattie e maltrattamenti nei campi di concentramento, in Italia e nella Jugoslavia occupata (Arbe, Gonars, Visco, Monigo, Renicci, ecc.) (12)
3.4 La Venezia Giulia dopo l’8 settembre: i delitti dei partigiani di Tito: le “foibe”
Per un breve periodo dopo l’8 settembre
Militari e civili arrestati dai comunisti jugoslavi a Trieste nel maggio del 1945.
Bambini jugoslavi nel campo di internamento di Arbe (isola della Dalmazia), 1942
sono i partigiani jugoslavi a tenere campo in Istria e qui si registra la prima esplosione di violenze contro gli italiani. I Tedeschi avevano occupato i capoluoghi di Trieste, Pola e Fiume, ma avevano trascurato l’entroterra dell’Istria dove confluirono precipitosamente le formazioni slave che occuparono alcune località instaurando ovunque poteri popolari. Cominciarono così gli arresti di squadristi, gerarchi locali, rappresentanti dello Stato, dal podestà ai carabinieri agli ufficiali postali; si colpiva chiunque fosse stato coinvolto nell’amministrazione italiana fascista, odiata per le prevaricazioni, il fiscalismo, la politica forzata di italianizzazione. Fu creato un tribunale rivoluzionario che condannò a morte molti dei processati. In questo contesto si colloca la tragedia delle foibe. La foiba (fossa) è un tipo di voragine naturale profonda, con un’apertura larga pochi metri, a forma di imbuto rovesciato, sul fondo della quale si trova un inghiottitoio; un fenomeno carsico molto diffuso in Istria. In questa cavità la popolazione usava gettare di tutto, generalmente tutto ciò che non era più utile o che era ritenuto pericoloso per la salute. Gettare un uomo nella foiba significava quindi trattarlo come rifiuto. La più conosciuta è la foiba di Basovizza, di cui già si è detto, sopra la città di Trieste; simboleggia la seconda tragedia della Venezia Giulia e dell’Istria compiutasi tra il 1943 e il 1945.Le foibe sono state un crimine; hanno rappresentato il “tentativo di far fuori gli italiani per ridurre l’italianità di queste zone”. In questo senso Napolitano ha ragione quando parla di “pulizia etnica”. Nelle foibe i partigiani jugoslavi gettarono i corpi di migliaia d’italiani ritenuti oppositori del disegno annessionista perseguito dal maresciallo Tito: ex fascisti, semplici cittadini, ma anche partigiani “bianchi” e persino sloveni e croati anticomunisti. Le vittime, dopo essere state torturate ferocemente, venivano legate tra loro con filo di ferro, fucilate sull’orlo della cavità e fatte cadere all’interno, qualcuna era ancora viva. Si stima che le vittime, tra foibe, altre forme di esecuzioni, e campi di detenzione, siano state almeno diecimila. Nella primavera del 1945 centinaia di militari della RSI, fatti prigionieri dai soldati di Tito, furono passati per le armi, migliaia d’altri morirono nei campi di prigionia.
Il recupero di alcune salme in una foiba istriana nel 1944
Ricordo che io e Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti italiana. Si trattava di dimostrare alle autorità alleate chequelle terre erano jugoslave e non italiane. Certo che non era vero.
Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ognitipo. Così fu fatto”.
Milovan Djilas, 1991.
3.5 L’epurazione titina: l’esodo dei giulianodalmati
Tra il 1944 e la fine degli anni Cinquanta, alla frontiera orientale d’Italia, in conseguenza del Trattato di pace del 10 febbraio 1947 con cui l’Istria e le isole del Quarnaro venivano annesse alla Jugoslavia, l’esercito di Tito iniziò un processo di epurazione politica che costrinse più di un quarto di milione di uomini, donne e bambini, in prevalenza italiani che costituivano la grande maggioranza della comunità giulianodalmata, a fuggire dalle loro case e dai luoghi che erano stati
le loro storiche residenze. Questo massiccio spostamento venne chiamato come ricorda Pupo dai giuliani dell’epoca “Esodo”, termine di evidente ascendenza biblica per sottolineare che un intero popolo, con le sue articolazioni sociali, le sue tradizioni e i suoi affetti, fosse stato cacciato dalla propria terra. La meta istintiva degli esuli fu naturalmente l’Italia .Un ruolo importante nel trasferimento dei profughi da Pola a Venezia ed Ancona lo svolse il piroscafo Toscana:
“una delle poche unità efficienti di cui dispone la nostra marina, capace di duemila posti letto con brandine a castello e dotata di ambienti medici per il pronto soccorso e l’infermeria e la nave ideale per trasferire una popolazione di ogni età, psicologicamente provata e spesso fisicamente in difficoltà. (...) Sul Toscana si imbarca un’umanità sofferente, che ha scavato in fronte il senso della sconfitta” (13).
Così una esule di Pola, A. M. Nelida, ricorda il viaggio a bordo del Toscana: “Ci imbarchiamo di sera, di nuovo grigio, pioggia, gelo, silenzio, scialli, ombrelli. Scendiamo nella stiva. Qualcuno, per non pensare e non parlare, tira fuori le carte e una bottiglia di vino. I pensieri e i dolori sono troppo grandi: c’è bisogno di alcol per farli tacere. E la notte stivati come sardine in scatola in tre file di cuccette l’una sopra l’altra, centinaia di uomini, di donne e di bambini che fingono di dormire e fingono di non piangere, tutti resi uguali dallo stesso dolore e dalla stessa paura ...”(14).Istintivamente il popolo che si spostava cercava di dirigersi verso l’Italia, ma ciò non sempre si rivelò possibile per difficoltà, politiche ed economiche. Le
prime erano riconducibili alle scelte contraddittorie delle autorità di governo che consideravano la questione dell’esodo non “politicamente corretta”. Per gli esuli che “hanno pagato per tutti il conto della seconda guerra mondiale (...) non è stato fatto tutto il possibile se è vero, come purtroppo è
vero, che l’allora rappresentante del Governo Militare Alleato, Harold MacMillan, un giorno disse ai nostri governanti: “La colpa è tutta vostra. Siete voi che non volete salvare la Venezia Giulia”. In effetti, la questione di Trieste era un argomento scabroso per i nostri governanti di allora (De Gasperi lo definirà un ‘tormento’) (15). Ma accanto alle difficoltà politiche, a rendere difficile l’accoglienza, c’erano le condizioni economiche di un Paese uscito devastato dalla guerra, con pochi mezzi e pochi fondi da destinare ai profughi. La maggioranza dei profughi si
Principali località italiane dove sorsero i campi profughi
stabilì e cercò di rimanere in Italia dove però saranno considerati paradossalmente, se non proprio stranieri, ospiti indesiderati; gli altri, non trovando posto, furono costretti a cercare fortuna oltreoceano (soprattutto nelle Americhe, in Australia e nella Nuova Zelanda).L’Italia purtroppo non era preparata, né politicamente né economicamente, a ricevere i profughi. Forme di accoglienza furono approntate tardi e non sempre in modo organico ed efficiente. La comunità friulana fu smembrata in vari campi profughi e la permanenza in situazioni precarie si protrasse per anni. Complessivamente furono allestiti centoventi campi, sparpagliati un po’ in tutte le regioni, ricavati da campi di concentramento smantellati, da caserme abbandonate e a volte in rovina con le camere tramezzate da legno e cartoni per ricavarne stanze, da stabilimenti industriali dismessi dove pesanti coperte di lana separavano lo spazio di una famiglia da quello di un’altra, da chiese e altri ricoveri di fortuna in cui trovarono rifugio, oltre agli esuli giuliani, anche quelli provenienti dalle ex colonie africane e dal Dodecaneso: profughi di guerra e sinistrati. Ancora nell’estate del 1963, 8.493 esuli giulianodalmati risultavano ospitati in quindici campi profughi dislocati sul territorio nazionale.Le fonti di cui disponiamo concordano nel descrivere l’impatto terribile degli esuli con la realtà dei campi, fatta di miserie, privazioni, carenze igieniche, assoluta mancanza di intimità. Ricorda una testimone ospite per qualche tempo in un campo nei pressi di Bergamo: “Il campo era un ex manicomio. Si era divisi solo dalle coperte. Puzzolente, che quell’odore l’ho avuto per anni nel naso. E la povera gente [...] Allora quando siamo arrivati, era con noi anche la zia A. di F., ho aperto. ‘Signora, quanti siete?’ Ho detto ‘Mi pare 32’. Oddio, altri 32 disgraziati. E’ tanto brutto signora, non vede?’ Con le coperte, chi urla di notte, chi piange, è una roba... E il mangiare era una cosa orribile, peggio delle bestie. E’ venuto il Sindaco e questa signora è andata con la gamella fin sotto al naso: ‘Provi a mangiarlo Lei signor Sindaco, questo mangiare, lo mangi!’ [...] Vicino a me era un bambino slavo, pieno di pidocchi, tutta la notte sopra di me” (...) (16).
Le due immagini fotografano le condizioni drammatiche nei campi profughi : un bambino gioca negli angusti spazi;
esuli in fila per mangiare nel campo profughi di Brescia, 1949.
“Tutto il cuore della città era là, in quei saluti, in quelle raccomandazioni, in quegli addii: tutto il temperamento del popolo triestino si esprimeva in quelle manifestazioni del popolo che sa essere spiritoso anche tra le lacrime, vivace pur nella disgrazia. “i va, i va e noi restemo: anche se imbarchemo tuta la cità... sempre alegri e mai passion” diceva un giovane operaio con l’occhio lucido e la bocca amara. “Andè andè fioi, feghe onor a Trieste!” raccomandava un altro operaio anziano. E una vecchia nonna! Era là, sorretta dai parenti, e continuamente chiedeva se Rico fosse a bordo, e dove fosse, se avesse la sua sciarpa rossa, se salutava, se sorrideva, e se la traversata fin laggiù sarebbe stata buona; non volle muoversi di là neanche quando la nave si staccò e girò al largo; la gente cominciò a sfollare fra commenti e rimpianti: “Nonnina su la se movi!”.Ma la vecchia non si decideva e, col volto rigato di lacrime andava ripetendo: “Cossa che me toca veder!” (G. Stuparich, Trieste emigra, in il Lavoratore, 1° agosto 1955) (17).
3.6 L’emigrazione oltreoceano
Non minori furono i disagi e i problemi di discriminazione che incontrarono quanti furono costretti ad emigrare oltreoceano in Australia, nelle Americhe o in Nuova Zelanda. “Spesso le difficoltà linguistiche concorrevano a rendere più duro l’impatto con il nuovo mondo. Erano spesso costretti a lavorare in condizioni climatiche disagevoli, con turni di lavoro massacranti”, come si può leggere nella testimonianza di un esule emigrato in Australia, che riportiamo qui di sotto: “Era duro soprattutto per le condizioni climatiche. Non esisteva orario fisso; più si lavorava più si prendeva. Di solito si lavorava di notte perché di giorno faceva troppo caldo. Prima di cominciare a tagliare la canna si incendiava per via dei serpenti. Ma io ho tagliato anche la canna fresca e quella si lascia aprire con maggiore facilità”(18).“Oggi a distanza di tanti anni è difficile capire“, come dice R. Pupo, “se sia stata più amara la sorte di chi, dopo lunghe odissee, si ritrovò scaraventato dall’altra parte del mondo, ovvero di coloro che si spostarono in fondo solo di pochi chilometri, perché trovarono rifugio a Trieste e rimasero lì per un mezzo secolo, condannati a guardare ogni giorno le loro case nitide oltre un braccio di mare che sembra un lago, nelle quali non sarebbero mai più tornati”; ma ad ogni buon conto, chiudendo queste mie considerazioni sull’Esodo, penso che si possa concordare con C. Magris che in un’intervista rilasciata al “Piccolo”, di Trieste, il 5 ottobre 1987, affermò : “I profughi hanno dato nel complesso un grande esempio di dignità, di apertura, di moderazione e tolleranza, di intelligenza, pagando essi soli una colpa che ricade su tutta l’ Italia”.
4. Per una memoria non più divisa, ma condivisa e per un “25 aprile” di tutti gli italiani
Con le riflessioni che precedono si è cercato di riassumere il dramma del Confine orientale, dall’occupazione fascista della Jugoslavia all‘eredità della guerra con le foibe e l’esodo dei giulianodalmati. L’intento era di offrire in particolare ai giovani studenti del liceo “E. Cairoli” di Varese, elementi di riflessione per la loro formazione con un approccio metodologico storico sereno, oggettivo, unitario, non parziale e settario. La domanda è: Che fare? E’ possibile ridare dignità a un anniversario per troppo tempo dimenticato? Che cosa si può fare per avere una memoria condivisa della tragedia delle foibe e di tutta la complessa vicenda del Confine orientale e della Resistenza italiana? Sarà possibile elaborare una memoria condivisa su un tragico evento, per troppo tempo dimenticato, come quello delle “foibe”, se saremo capaci, come dice Enzo Collotti nel saggio Le tragedie del confine orientale di “restituire le coordinate storiche di queste laceranti vicende e chiamare con il loro nome senza eufemismi e senza tabù i comportamenti di individui, ceti, gruppi sociali, parti politiche”(...). Questa è una fase necessaria, che “fa parte di un processo di crescita di una coscienza civile democratica, che dalla consapevolezza degli errori, delle violenze e delle ingiustizie del passato deve trarre alimento e ispirazione per una definitiva inversione di rotta (...).
“Dobbiamo prendere parte senza reticenze per la costruzione di un futuro che, senza dimenticare gli orrori del passato, anzi facendo tesoro di quella esperienza, si apra ad orizzonti nuovi nel rispetto reciproco delle nazionalità in nome di una comune umanità e del comune rispetto dei diritti umani”(19). La costruzione di una memoria condivisa ed accettata sarà possibile solo prendendo coscienza che siamo, come dice G. Crainz, “in presenza di una storia lunga di un complesso intrecciarsi di dolori e lacerazioni, che si possono comprendere appieno solo ponendo a confronto punti di vista differenti, facendo dialogare culture diverse e opposte memorie, che in questa storia si sono sedimentate, al di qua e al di là dei confini, che dovrebbero ora avviarsi a scomparire. Su questo fronte bisogna lavorare e dare spazio a quegli atti simbolici e istituzionali di pacificazione fra Italia, Slovenia e Croazia, che sono ancora allo studio e di cui si è parlato anche recentemente. Ma gli atti simbolici diventano reali solo se vengono accompagnati da processi culturali in grado di coinvolgere in profondità società, scuola, Istituzioni, tessuti connettivi differenti e molteplici. Siamo lontani da un confronto di conoscenze e di vissuti che sappia comprendere le sofferenze e i dolori di tutte le vittime e che permetta a ogni comunità nazionale di riconoscere anche le proprie responsabilità”(20).Non si può però dimenticare che se oggi possiamo parlare liberamente di “Risiera di San Sabba e “foibe”, esprimendo opinioni diverse e contrastanti, lo dobbiamo al 25 aprile, alla Resistenza e alla Liberazione, e a tutti quei patrioti che sono morti per ridare a tutti gli italiani, senza distinzione di appartenenza politica, la libertà e la democrazia. “Noi grazie alla Resistenza”, come ha ricordato qualche anno fa il Presidente Ciampi, “possiamo guardare alla nostra storia e al futuro con la serenità che ci deriva dalle istituzioni nazionali ed europee che abbiamo saputo costruire”. E nella recente intervista al Messaggero riafferma con forma questa sua convinzione:"Tutti gli uomini che siedono in Parlamento devono confermare la loro adesione ai principi della Costituzione. Sono considerati democratici proprio perché aderiscono a quei valori e a questi principi. La Costituzione è più viva che mai e non dimentichiamolo mai nasce dalla Resistenza. Ho sempre ricordato che c'è un filo rosso che unisce ili Risorgimento, la Resistenza e la Costituzione”.Purtroppo il 25 aprile non è stato mai festeggiato dagli esponenti governativi del centrodestra, alcune affermazioni fatte di recente dal Presidente della Camera On. Fini fanno bene sperare. Ma perché è così importante che tutti gli esponenti di opposizione e di maggioranza festeggino il 25 aprile? Perché questa data è al contempo il giorno in cui gli italiani hanno restituito dignità e onore al loro paese ma anche l’inizio di una nuova stagione di libertà e di democrazia: è la giornata fondativa della nostra Repubblica. Nel 25 Aprile, come ha scritto Piero Calamandrei, affondano le radici la nostra democrazia, la nostra Repubblica e la nostra Costituzione. Perché questa è la festa della Liberazione e anche della pacificazione nazionale sancita nei valori e nei principi contenuti nella Costituzione repubblicana, che, per la prima volta nella storia italiana, afferma la pienezza dei diritti di libertà per tutti, senza distinzione di razza, di sesso, di censo, di credo politico e religioso. Bisogna però che la politica, tutta la politica, riacquisti una visione alta dell’etica pubblica e dell’etica della coerenza e della responsabilità capace di recuperare valori collettivi condivisi. E’ necessario che ciò avvenga al più presto e solo allora si potrà trasformare il 25 aprile in una giornata di tutte le memorie; e solo così l’auspicio del Presidente Napolitano di avere un nuovo “patriottismo nazionale” e una memoria condivisa da tutti gli italiani potranno realizzarsi concretamente.
Romolo Vitelli (già docente di storia e filosofia al liceo classico “E. Cairoli “ di Varese
Note1 JacopoVenier, del PDCI, al quotidiano la Repubblica dell’ 11.02.08; Maurizio Gasparri di Alleanza Nazionale ibidem “La tragedia delle “foibe”, Pierluigi Pallante, Editori Riuniti, 2006 pag. 117 ). Molti sono i diari e i memoriali di guerra scritti da militari italiani presenti che documentano le atrocità commesse dai fascisti e dai collaborazionisti sulle popolazioni. Chi volesse approfondire l’argomento ha una ricca bibliografia in proposito da consultare: mi limito a segnalare il volume “Pagine di Storia “rimosse”, La politica e i crimini di guerra dell’Italia fascista in Jugoslavia di Enrico Vigna, “Santa messa per i miei fucilati”, di don Pietro Brignoli . Edizioni Arterigere Esse Zeta, Varese, 20053 ibidem. pag 92 4 ibidem pag. 92.5 C. Silvestri, Dalla Redenzione al fascismo. Trieste 19181922, Del Bianco 1996, pag 60.6 La tragedia delle “foibe”, cit. pag 1187 Raul Pupo, L’eredità del fascismo e della guerra: dalle foibe all’esodo dall’Istria, in “Fascismo Foibe Esodo, Atti del convegno del XIII Congresso dell’Aned, Trieste 23.9.2004, pag. 1008 La tragedia delle “foibe” cit. pagine 13149 Fascismo Foibe Esodo, cit. pag. 10010 Boris Pahor, “Necropoli”, Fazi editore, 2008, pag.43In un articolo su Sole 24 ore e in una intervista usciti dopo la redazione di questo mio lavoro Pahor torna sull’incendio del centro culturale sloveno e più in generale sulla questione delle Foibe. Ecco ampi stralci dell’intervista a la Repubblica: “Bruciarono il centro culturale sloveno. Un palazzo grandioso, in pieno centro, costruito sotto l’Austria, con sale studio, biblioteche, un grande teatro...Bruciò per venti ore...I carabinieri non intervennero e i fascisti tagliarono le pompe ai vigili del fuoco....Tutta la città salì sulle colline per vedere l’incendio dall’alto” e sulla lingua dice “Ci tolsero la lingua. Ci cambiarono i cognomi. Krizman divenne Crociato. Vodopivec, Bevilacqua .(...) Da un giorno all’altro dovetti essere italiano senza capire perché (...) Questa assurdità mi mise addosso un male di vivere tremendo. Piangevo di rabbia, non riuscivo a studiare. Papà mi aiutava come poteva col suo vocabolario Italiano tedesco, s’immagini con che risultati. Facevo errori, il maestro rideva di me, mi sentivo umiliato. Non avevo nemmeno il coraggio di tornare a casa dopo la scuola. (“Memoria il professore che riporta a galla la storia rimossa dagli italiani”, il venerdì di Repubblica, 14.03.2008).11 Traggo queste interessanti riflessioni dalla pagina di cultura de la Repubblica del 10 febbraio 2007, Foibe, le ferite nascoste;12 La tragedia delle foibe cit. pag.4013 G. Oliva, Profughi pagg. 42/143, Mondadori 14. A. Petacco, l’Esodo, pag. 166 Mondadori 15, A. Petacco cit. pag. 18216 Pupo, cit, pag 20917 ibidem, cit, pag. 22618 ibidem, pag23519 “Fascismo, Foibe Esodo, ct.20 la Repubblica del 10 febbraio 2007, Foibe, le ferite nascoste, cit.