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1 Appunti per una storia della didattica di Umberto Cattabrini Una storia in molte storie Sono molte le storie che si possono raccontare intorno a ciò che si intende quando si parla di “Didattica”. Si tratta in generale di storie che in molti casi sono già state parzialmente raccontate sotto altri titoli, con altri nomi, come ad esempio nelle storie della Pedagogia o in quelle dell’Educazione, ma anche in quelle della Scuola, delle Istituzioni Educative, nelle storie di Genere, in quelle dell’Infanzia, nella Storia Sociale dell’Educazione ed in collegamento a questa in tutte le storie che hanno affrontato i temi dello Sviluppo Sociale o di quello Economico. Senza trascurare poi le storie della religione o di ordini religiosi per la forte connessione che, sotto ogni latitudine, lega ed ha legato un credo religioso all’educazione. Insomma, la didattica non ha mai avuto una storia tutta sua se non per brevi trattazioni. come del resto è anche questa, restando confinata nei percorsi narrativi di altre dimensioni del sapere, primo tra tutti quello pedagogico a cui la didattica – spazio riservato alla riflessione sul come fare – doveva rimandarsi. Non a caso Giovanni Gentile (1937, p.17), ad esempio, aveva considerato la didattica come uno svolgimento della pedagogia e l’aveva definita “… una teoria della scuola; la quale evidentemente è una forma speciale, concreta, determinata dell’educazione. E in questo senso… la didattica si può anche dire una pedagogia speciale”. Di più “La storia della scuola del nostro Paese - ha scritto Franco Frabboni (1992, p.44) ha snaturato la didattica a cenerentola della Pedagogia, fino a mortificarla a «stracciona» alla corte dei processi formativi”. Forse è anche per questo che di “storie della didattica” vere e proprie, così intitolate, nella saggistica italiana ce ne sono solo dei rari casi che ci possono far da guida per capire a quali problemi siano in grado di dare soluzione oggi gli studi di storia della didattica perché, come ogni storia è pur sempre una ricerca a ritroso di risposte a quesiti che ci poniamo sul presente per progettare il domani. E se il problema di una storia della didattica si pone adesso e non si è posta prima, è perché solo dalla seconda metà del ‘900 che la didattica ha cominciato un proprio percorso destinato a proporre questo campo di studio come un momento autonomo, capace di declinare molti dei problemi dell’educazione insieme a quelli dell’istruzione. Problemi del perché e del cosa con quelli del come, solitamente distinti i primi come propri della pedagogia e solo il secondo relativo alla didattica. Un percorso che certifica una didattica, in quanto didattica generale rispetto a didattiche specifiche (le didattiche disciplinari prima di tutto), che la propone come una nuova scienza di sintesi che si rapporta per attingere tanto dalle diverse scienze dell’educazione quanto da quelle relative agli studi sociali, economici, antropologici, delle religioni, della comunicazione, delle nuove tecnologie, di psicologia e ad altre storie ancora. Una sintesi che gli studi di didattica affrontano nell’ottica di una possibile e originale ratio comune dei problemi che altre scienze si pongono e risolvono nel proprio particolare, attraverso l’interpretazione e la ricollocazione di senso di tali studi, anche con originali indagini ed esperienze, nei processi reali, concreti, operativi dell’insegnamento-apprendimento. In fondo però, anche della pedagogia si potrebbe dire lo stesso, la differenza sta tutta nella forte, obbligata contestualizzazione ad uno specifico ambiente - nel senso ampio e culturale del termine - che la didattica ha rispetto all’antica matrigna. In didattica le

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Appunti per una storia della didattica di Umberto Cattabrini Una storia in molte storie Sono molte le storie che si possono raccontare intorno a ciò che si intende quando si parla di “Didattica”. Si tratta in generale di storie che in molti casi sono già state parzialmente raccontate sotto altri titoli, con altri nomi, come ad esempio nelle storie della Pedagogia o in quelle dell’Educazione, ma anche in quelle della Scuola, delle Istituzioni Educative, nelle storie di Genere, in quelle dell’Infanzia, nella Storia Sociale dell’Educazione ed in collegamento a questa in tutte le storie che hanno affrontato i temi dello Sviluppo Sociale o di quello Economico. Senza trascurare poi le storie della religione o di ordini religiosi per la forte connessione che, sotto ogni latitudine, lega ed ha legato un credo religioso all’educazione. Insomma, la didattica non ha mai avuto una storia tutta sua se non per brevi trattazioni. come del resto è anche questa, restando confinata nei percorsi narrativi di altre dimensioni del sapere, primo tra tutti quello pedagogico a cui la didattica – spazio riservato alla riflessione sul come fare – doveva rimandarsi. Non a caso Giovanni Gentile (1937, p.17), ad esempio, aveva considerato la didattica come uno svolgimento della pedagogia e l’aveva definita “… una teoria della scuola; la quale evidentemente è una forma speciale, concreta, determinata dell’educazione. E in questo senso… la didattica si può anche dire una pedagogia speciale”. Di più “La storia della scuola del nostro Paese - ha scritto Franco Frabboni (1992, p.44) ha snaturato la didattica a cenerentola della Pedagogia, fino a mortificarla a «stracciona» alla corte dei processi formativi”. Forse è anche per questo che di “storie della didattica” vere e proprie, così intitolate, nella saggistica italiana ce ne sono solo dei rari casi che ci possono far da guida per capire a quali problemi siano in grado di dare soluzione oggi gli studi di storia della didattica perché, come ogni storia è pur sempre una ricerca a ritroso di risposte a quesiti che ci poniamo sul presente per progettare il domani. E se il problema di una storia della didattica si pone adesso e non si è posta prima, è perché solo dalla seconda metà del ‘900 che la didattica ha cominciato un proprio percorso destinato a proporre questo campo di studio come un momento autonomo, capace di declinare molti dei problemi dell’educazione insieme a quelli dell’istruzione. Problemi del perché e del cosa con quelli del come, solitamente distinti i primi come propri della pedagogia e solo il secondo relativo alla didattica. Un percorso che certifica una didattica, in quanto didattica generale rispetto a didattiche specifiche (le didattiche disciplinari prima di tutto), che la propone come una nuova scienza di sintesi che si rapporta per attingere tanto dalle diverse scienze dell’educazione quanto da quelle relative agli studi sociali, economici, antropologici, delle religioni, della comunicazione, delle nuove tecnologie, di psicologia e ad altre storie ancora. Una sintesi che gli studi di didattica affrontano nell’ottica di una possibile e originale ratio comune dei problemi che altre scienze si pongono e risolvono nel proprio particolare, attraverso l’interpretazione e la ricollocazione di senso di tali studi, anche con originali indagini ed esperienze, nei processi reali, concreti, operativi dell’insegnamento-apprendimento. In fondo però, anche della pedagogia si potrebbe dire lo stesso, la differenza sta tutta nella forte, obbligata contestualizzazione ad uno specifico ambiente - nel senso ampio e culturale del termine - che la didattica ha rispetto all’antica matrigna. In didattica le

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domande e le risposte si pongono nel contingente, in ogni particolare realtà educativa, e quasi mai nell’esercizio creativo dell’utopia che, per dovere di produttività, alla didattica sarebbe formalmente negato. Alla base di questo nuovo ruolo che la didattica è andata assumendo ai nostri giorni vi sono molte concause e tra queste spicca la diversa centralità che nei processi educativi di oggi ha assunto l’alunno – qualunque età questi abbia - rispetto all’insegnante, ai saperi e ai media dell’informazione e della comunicazione. Tale centralità non ha riguardato solo l’alunno in generale, un astratto e ideale alunno, ma in modo particolare il soggetto, ogni alunno nella sua specifico identità, a cui ogni processo didattico è finalizzato per aiutarlo a raggiungere il miglior esito possibile. E’ stata questa la rivoluzione copernicana dell’educazione contemporanea che ha avuto inizio con John Dewey (1899), unita ad una più matura e diffusa adesione ai principi della convivenza democratica, di cui lo stesso Dewey ha dato conto in Democrazia ed Educazione ed in altre opere, come riferimento obbligato della scuola; una rivoluzione le cui origini si ritrovano, splendidamente poste, in quella che fu la formazione dell’uomo che si ebbe nello sviluppo storico dell’antica Grecia. Un modello di riferimento “Didattica significa arte di insegnare” dichiarava Comenio (1640) nella prima frase del suo Didattica Magna. Qualche anno fa L. Santelli Beccegato (1998) ha scritto che “La didattica ha come suo campo d’indagine lo studio e l’interpretazione e la progettazione dell’insegnamento per ottimizzarne i processi , per ottenere risultati sempre migliori quantitativamente e qualitativamente”. Più recentemente in A. Calvani (2007) si legge: “La didattica viene definita come la disciplina che si occupa delle azioni progettuali, attuative, valutative e negoziativo-simboliche idonee a favorire nei diversi contesti processi di acquisizione di migliore qualità ed efficacia attraverso l’allestimento di specifici dispositivi formativi”. Arte, Campo di studio, Disciplina; estrapolando da altra definizione (S. Johsua, J.J. Dupin, 1993) “…la didattica (di una disciplina) è la scienza che studia (per un dominio particolare, qui le scienze e le matematiche), i fenomeni dell’insegnamento, le condizioni della trasmissione della «cultura» propria di un’istituzione … e le condizioni di acquisizione di conoscenze da parte di un apprendente”. Ma se la storia della didattica, come si è detto, è ancora nelle pieghe di altre storie, con quali indicatori è possibile individuarne le tracce per capire le idee, i percorsi, i temi, le prevalenze, i soggetti coinvolti, i contenuti, i metodi, le tecniche, gli autori ? Orientarsi non è per niente facile, il rischio è quello di perdersi in una dimensione complessa, ordinata in parte nelle ricerche e riflessioni della Didattica generale, movimentata nella prassi dalle molteplici didattiche disciplinari e da quelle speciali , ma anche disorientata dalle volatili didattiche di mode a tema, ognuna con le proprie ricerche, teorizzazioni, proposte. Per questa ragione, al solo fine espositivo e per avere un quadro di riferimento che ci aiuti a collocare in un unico schema-modello i temi, gli attori e le teorie che caratterizzano oggi gli studi sulla didattica, ma anche per avere una bussola utile a ritrovare, appunto, nelle storie “altre” quello che a buon diritto potrebbe far parte di una storia tutta declinata al nostro tema, il grafico che segue presenta quattro elementi costanti di ogni situazione di insegnamento-apprendimento e le relazioni il cui significato è determinato nei confini

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di un tempo e di uno spazio definito. .

Ricostruire una storia della didattica al di fuori di un contesto non ha senso. Ogni realtà sociale ha elaborato propri modelli ideali di virtù civili, militari, religiose, culturali – nelle quali sono impliciti anche, comportamenti, aspettative e progetti per il tempo a venire, da trasmettere alle nuove generazioni perché le facciano proprie attraverso uno specifico percorso formativo. Tutto questo comporta che i contenuti dell’insegnamento e i modi in cui questo si svolge sono propri di ogni società e ne rispecchiano abbastanza fedelmente pregi e difetti ? Non ci sono dubbi al riguardo se perfino la disciplina considerata più stabile e definita, ovunque e sempre presente nei curricoli di studio, qual è l’aritmetica del far di conto, risponde a ragioni prevalenti non sempre uguali. Dalla storia dei programmi per la scuola elementare italiana, ad esempio, ricaviamo che le nozioni elementari dell’aritmetica indicate nei programmi del 1860, all’indomani dell’unità, si qualificavano più per il valore coesivo della nazionalità dato dall’uso comune delle stesse unità di misura e della stessa moneta da parte di tutti , che non per l’evidente scopo pratico. Negli ultimi programmi ministeriali del 1985, invece, i contenuti del far di conto, diventati ben altro che nozioni elementari, trovano il loro principale valore nell’essere un importante primo passo verso la costruzione del pensiero matematico più che il solito ed evidente scopo pratico. Di fatto gli italiani non hanno mai dovuto imparare le quattro operazioni aritmetiche, in primo luogo perché utili nella vita e nel lavoro come non sempre le hanno imparate nello stesso modo, anche se poi si è sempre pensato che servissero solo a questo e che la strada per impararle fosse una sola. Più che di risposte il nostro modello è perciò una bussola di domande, dovrebbe cioè suscitare interrogativi e curiosità “didattiche”, sulle quattro voci e sui molti legami-teorie che le frecce del modello rappresentano. Chi era l’alunno/i in un qualunque tempo e luogo ? (individuo, persona, età, estrazione sociale, sesso, …). La didattica oggi non cerca l’alunno ideale, ma si misura con un alunno o più alunni insieme “veri” perché oggi l’alunno è il punto centrale del processo didattico. In passato quando non era così e valeva il contenuto e solo il contenuto da apprendere. Che ruolo aveva l’alunno e quale l’insegnante ? Quale relazione “doveva esserci” tra lui e l’alunno ? Ma chi era poi quest’insegnante ? Quale il suo ruolo sociale ? Che immagine aveva di sé e quale immagine avevano di lui i suoi studenti, le famiglie, la società in generale? Perché anche questo influiva e influisce molto sul modello e sugli

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esiti dell’insegnamento. Per chi progetta per sé un futuro da insegnante tutto questo, ed altro ancora, non è da ignorare. E così via per gli altri legami che il modello  visualizza.  Modello  che  aggiunge  a  quello  più  usuale  delle  relazioni  tra  insegnante  –  sapere  –  alunno,  il  medium/a  come  un  quarto  polo  ormai  riconosciuto  essenziale  nella  riflessione  contemporanea  sulla  didattica.  Le  nuove  tecnologie  informatiche,  i  nuovi  media,  il  riemergere  di  una  cultura  dell’oralità  che  si  raffronta  con  quella  della  scrittura  e  della  stampa  e  le  conseguenti  proposte  di  una  didattica  che  tenga  conto  di  una  società  della  comunicazione  e  dell’informazione  multimediale  ne  rendono  infatti  necessaria  la  presenza. Quali processi innescano nell’alunno l’uso di uno o più mezzi di informazione e di comunicazione e, viceversa, quali condizioni consentono all’alunno di cogliere al meglio certe modalità di comunicazione piuttosto che altre ? Anche in Italia è cominciata l’integrazione della tradizionale lavagna di ardesia o plastica (veicolo di comunicazione solamente grafica) con le lavagne interattive multimediali che offrono al docente e alla classe immagini, testi, suono, filmati, recuperabili da internet nel momento stesso che si pensa di averne bisogno e che permette inoltre di stabilire un immediato contatto visivo e verbale tra bambini e ragazzi di ogni parte del mondo. Tutto questo è oggi un problema didattico importante, ma non lo è stato ugualmente anche il passaggio dal testo chirografico a quello stampato ? O l’arrivo nella didattica della radio e del cinema ? Ovviamente come tutti i modelli di questo tipo, anche quello che qui è proposto è solo uno strumento organizzativo, funzionale alla possibilità di interrogarsi e argomentare sulla didattica ed è per sua natura limitato e parziale rispetto un universo più complesso. Uno strumento che si riempie di significati via via diversi in funzione di: autori, movimenti, istituzioni, teorie, tecniche, che abbiano contribuito allo sviluppo della didattica in vari luoghi ed in tempi diversi. Maestri ed apprendisti A questo punto proviamo, molto, molto sinteticamente ad abbozzare alcuni temi di quello che potrebbe essere l’inizio di una storia della didattica nelle tracce di storie già scritte, rilette con nuovo parametri e che potrebbe cominciare da molto lontano. La Didattica, in senso lato, ha una storia che parte da un giorno e un luogo in cui qualcuno, volendo intenzionalmente insegnare qualche cosa ad un altro, si è posto il problema di come fare per ottenere il risultato voluto. Questo ci porta molto indietro nel tempo perché l’intera avventura dell’uomo è anche la storia del suo “passare” alle generazioni future le conoscenze via via acquisite, le abilità raggiunte in ogni campo di attività, le competenze utili o indispensabili per garantire a se stessi ed al proprio gruppo sociale un futuro e che questo sia, se possibile, migliore. Di questo lontanissimo passato non abbiamo documenti che ci lascino presupporre una qualsiasi forma di insegnamento progettato, ma i segni del lavoro e delle opere che l’archeologia ci mostra ci consentono di immaginare che la costruzione di oggetti utili alla sopravvivenza come le selci lavorate per essere usate come utensili o armi, il vasellame, la lavorazione di pelli per vestirsi, oppure attività quali la ricerca e la selezione degli alimenti, la caccia e altro ancora, compresa la ritualità religiosa con le diverse rappresentazioni del sacro devono essere passati da una generazione all’altra in una forma embrionale di insegnare che potremmo anche chiamare didattica.

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Il “come” questo avvenisse ci rimanda, in ipotesi con un processo di induzione a ritroso, alla modalità più antica di insegnamento nota che è quella dell’apprendistato, condizione in cui un giovane accompagna, serve per ciò che gli è richiesto, domanda, ascolta e guarda l’esperto nel suo operare e memorizza, forse si pone problemi su ciò che vede e si dà soluzioni a volte diverse da quelle eseguite dall’adulto, magari rischierà di nascosto sbagliando, fino a quando anche lui sarà capace di ripetere quanto ha visto fare o magari di farlo meglio. La didattica del suo maestro non doveva essere molto diversa da quella che sappiamo essere stata, in epoche storiche, quella dell’addestramento ad un’arte o un mestiere: comandi da eseguire secondo una successione di difficoltà stimata sulla base dell’esperienza dall’adulto, prove da superare sempre più difficili fino all’esame di iniziazione con il primo vero lavoro autonomo e una buona dose di punizioni fisiche come correttivo agli errori, agli ordini mal eseguiti. Secondo un modello didattico che altro non era che l’evoluzione dei comportamenti istintivi fondati sui comportamenti legati alla sopravvivenza del più forte e/o del più mentalmente evoluto, ma con una differenza sostanziale: tanto l’apprendista che l’esperto sanno di vivere un rapporto educativo. Al centro della scena l’esperto (l’insegnante del nostro modello), a cui tutto si riferisce; il sapere è la capacità di riprodurre, di agire secondo un protocollo di atti funzionali ad ottenere un oggetto o un evento, ma è anche il conseguire la padronanza di uno specifico linguaggio (nomi, azioni, formule) riservato, per lo più criptico, identificativo dei membri di un gruppo, si tratti di sacerdoti, di cacciatori, di vasai o di altro; il processo è tutto rimandato alle possibilità dell’apprendista (alunno), mentre i media in gioco erano e sono l’immagine, nel suo farsi da visiva a mentale, e la parola come strumento evocativo di oggetti, fatti, azioni. Tutto questo probabilmente precede di un tempo non definibile, ma certamente lunghissimo, la scuola (che sarà, almeno per il livello di base, un apprendistato cui si aggiunge, come sapere e come medium, la scrittura) , la cui nascita è collocabile intorno al III millennio a.C. Per questo i maestri d’arte, come ha scritto Antonio Santoni Rugiu (2008), possono esser considerati quelli che nella storia vantano in assoluto la maggiore anzianità rispetto ai colleghi del leggere e scrivere e far di conto e lo vantano ancora perché il modello ha continuato a funzionare, ora da solo ora affiancandosi o intrecciandosi e spesso influenzando i modelli più o meno scolastici, fino ad oggi. Anzi, a quest’intreccio tra educazione scolastica e apprendistato è da tempo che si torna a riconoscere un importante valore didattico (A.Santoni Rugiu, 1988). La scuola La scuola, come la intendiamo oggi, è un diretto derivato dell’invenzione della scrittura, numerali compresi e solitamente richiama alla memoria proprio il processo di insegnamento-apprendimento del leggere, scrivere e far di conto, anche se il termine è ormai comprensivo di altre situazioni come nel caso della scuola: di cucina, di ballo, di guida, ecc, per il trasmigrare nel modello scuola di situazioni che erano proprie della formazione ad un’arte o un mestiere attraverso l’apprendistato. Da cui, viceversa, deriva l’uso di “maestro/a” per indicare quello di scuola, termine in origine usato per quei maestri d’arte, in particolare quello meno bravi nella professione, a cui era solitamente affidato il compito di istruire gli apprendisti sui rudimenti di base dell’arte stessa.

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Senza la scrittura, il solo modello necessario di formazione era, come si è detto, quello dell’apprendistato e della memorizzazione e ripetizione di atti e comportamenti appresi dall’osservazione degli adulti. La scrittura introdusse nuovi contenuti da apprendere secondo una didattica tanto nuova quanto antica. Imparare a scrivere non è solo una procedura automatica nell’uso tecnico e manuale di tracciare segni, forse può esserlo oggi, in una società quasi universalmente immersa nel testo scritto, ma agli albori era il passaggio in una dimensione del tutto nuova che poco aveva di simile con l’imparare a fare un vaso. La scrittura, vale a dire affidare la parola allo spazio, amplia enormemente le potenzialità del linguaggio, ristruttura il pensiero … All’inizio, la scrittura è spesso considerata uno strumento di potere magico e segreto … pericolosa per il lettore incauto richiedendo la mediazione tra lettore e testo di un “guru”o limitandola a gruppi speciali, ad esempio, il “clero “(W.J.Ong 1982). Le prime scuole sono infatti legate alla struttura sociale che vedeva nel Tempio il luogo in cui, nei regni Mesopotamici del terzo millennio a.C., il ruolo di sacerdote e quello di re si univano in un’unica persona, cui spettava il compito di garantire al popolo sicurezza e benessere materiale, in quanto guerriero, legislatore e mediatore tra il popolo ed il complesso mondo degli Dei. Obiettivo non facile da raggiungere se non fossero stati elaborati strumenti potenti, per amministrare lo stato e per organizzarne l’economia, quali furono da allora la scrittura e il computo. Sono dei sumeri le prime scuole di cui si abbiano testimonianze, scuole dapprima collegate direttamente al tempio in cui venivano preparati addetti al culto ma anche insegnanti e scribi, per poi dar vita a scuole indipendenti dal tempio per preparare, intorno al 2000 a.C., un personale amministrativo civile. La scuola (edubba = casa delle tavolette) e il maestro (dubsar = scrittore di tavolette; dubsar zaga se di matematica e dubsar kengira se di scrittura e lettura) erano il riferimento dello scolaro che di maestri ne aveva almeno due diversi. Una distinzione di competenze che storicamente sarà la norma e l’unico maestro l’eccezione. Molte testimonianze scritte che ci danno immagini molto vive di allora. Scritti su tavolette di argilla ritrovati a Nippur nel 1899 (J.Bowen, 1979, v.I, 30) che potevano essere esercitazioni “virtuose” il primo e un possibile probabile memento il secondo, sulle conseguenze a cui andava incontro lo studente indisciplinato.

- Scolaro, dove sei andato fin da piccolo ? -Sono andato a scuola. - Che cosa facevi a scuola ? - Leggevo la mia tavoletta, mangiavo la mia colazione, preparavo la mia tavoletta, la scrivevo.

Due gli strumenti didattici di sostegno all’apprendimento: l’esortazione verso l’impegno in vista dal futuro prestigio e ruolo sociale che sarebbe derivato dal diventare scriba, e il bastone.

- Non devo far tardi o il maestro mi bastonerà - Il padre della scuola mi lesse la mia tavoletta e disse Il … è saltato, mi bastonò - Chi aveva la sorveglianza [disse ]

-Perché quando non ero qui parlavi ? Mi bastonò

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-Perché quando non ero qui, non tenevi la testa alta ? Mi bastonò -Perché quando non ero qui ti sei alzato ? Mi bastonò -… -La tua mano non è buona. Mi bastonò

La tecnica di avvio allo scrivere, che era l’aspetto più impegnativo della scuola si fondava sulla copia di un originale scritto del maestro (arte a cui erano destinati i sacerdoti o gli scribi di livello più basso). Una pallina d’argilla schiacciata – un dischetto di pochi centimetri di diametro - serviva al maestro per scriverci una breve frase tratta da norme religiose o civili che l’alunno doveva copiare, le prime volte a fianco del testo dell’insegnante poi, forse, sul retro secondo una progressione didattica che teneva conto del livello raggiunto. E insieme memorizzare quanto era stato scritto. Imparare a scrivere partendo direttamente da una frase è un modello che avrà vita lunga nella storia delle scritture prealfabetiche, abbandonato proprio a causa degli alfabeti veri e propri, lo ritroviamo utilizzato nella scuola, dalla metà del secolo scorso, sotto il nome di “metodo globale”. A livello superiore era lo studio della matematica a tener banco senza che però si superasse l’esercizio rivolto a problemi pratici di cui si dava la soluzione da memorizzare, mentre per la scrittura e la lettura è possibile che il lavoro si centrasse su testi più impegnativi visto che: “Il periodo tra il 2000 e il 1500 a.C. fu di intensa attività letteraria; la maggior parte dei miti di epoche precedenti – come l’epopea di Gilgamesh, il mito di Irra e l’Enuma-Elish, prodotti di una vigorosa tradizione orale e trasmessi con estrema cura – furono posti tutti per iscritto su tavolette …” (J.Bowen, 1979, v.I, p 32). Le tavolette d’argilla (duppàni) ritrovate assommano a centinaia di migliaia e tra queste molte trattano dei numeri e del calcolo e hanno dato agli studiosi una chiara idea delle procedure, comprese quelle didattiche, con le quali si apprendeva la matematica. Lungo il Nilo Non diversamente dallo scriba sumero e dei suoi successori, anche nei regni egizi la figura dello scriba rivestiva il ruolo centrale di funzionario nell’amministrazione dello Stato. La scrittura geroglifica richiedeva un lungo periodo di esercitazioni perché uno studente memorizzasse bene la varietà dei segni e si impadronisse di una tecnica grafica che solo se esercitata a lungo consentiva di produrre un testo formalmente perfetto – aspetto non secondario del valore della scrittura geroglifica – e contemporaneamente acquisire sicurezza nella lettura e nelle capacità di calcolo – altra competenza fondamentale per la funzione amministrativo-contabile dello scriba. A scuola, la casa dell’istruzione, il corso elementare durava quattro anni e poi si passava a studi più complessi e indirizzati verso specifici settori. L’istruzione femminile riguardava soprattutto musica, danza e canto. La didattica rispetto ai saperi da apprendere si avvaleva anche nell’antico Egitto di ripetizione e memorizzazione, copia da originali proposti dal maestro, e cinghie di pelle di ippopotamo come correttivo dello studente distratto. Tuttavia presso gli egizi la didattica era attenta alle esigenze degli scolari, specie se piccoli, ed il gioco rientrava nelle modalità del fare scuola in particolare per l’apprendimento delle operazioni aritmetiche come racconta Platone (Leggi, 819/b), in modo non dissimile da quanto si usa ancora oggi, utilizzando “mele e corone, adattando ad un tempo il medesimo numero di

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esse a un numero maggiore o minore di persone”. Ma la scrittura, la lettura e il calcolo non erano i soli aspetti della formazione dello scriba egizio, a questi si accompagnavano altri saperi relativi all’astronomia, all’ingegneria e all’agricoltura, alla medicina, per i quali erano previsti anche “sussidi didattici di carattere sia specialistico che generale. Tra questi gli Onomastika, elenchi di parole-cose, simili ai nostri vocabolari e enciclopedie” (M.A.Manacorda 1992, p.28). Nella relazione didattica il polo del processo era centrato sulla parola e sul sapere che questa comportava, il ruolo dello scriba insegnante era quello del controllore di un percorso collaudato in cui la tecnica del mezzo di comunicazione assumeva un valore formale ed estetico di grande importanza, l’allievo si doveva muovere in questo contesto nel pieno rispetto della forma, consapevole che non avrebbe avuto sconti sulla qualità da raggiungere e tuttavia abbastanza libero da poter giocare e scherzare sulla sua scuola, come per quell’alunno che, sul retro di un foglio papiro di scuola del suo esercizio di copia, conservato al British Museum di Londra, rappresentava il proprio maestro come un babbuino, nel doppio senso di simbolo di sapienza e di animale litigioso e aggressivo. La formazione intellettuale non rimaneva isolata dalla realtà e si completava sul campo, attraverso un tirocinio che affiancava lo studente a scribi (spesso un parente) ormai esperti nelle molteplici incombenze e specializzazioni che esercitavano. In questo ritroviamo una conferma della funzione indispensabile dell’apprendistato come momento di completamento della preparazione scolastica anche per le attività superiori e non solo per quella delle arti manuali. La formazione dell’uomo Molti secoli dopo è al mondo vasto, variegato e complesso delle città della Grecia e poi delle loro colonie sparse nel Mediterraneo che occorre guardare per trovare altri aspetti significativi dell’insegnare, a partire dall’età arcaica, quando i saperi da raggiungere per i figli della classe nobile, ricca e dominante di una polis erano quelli del guerriero e dell’oratore, delle armi e della parola, della forza e della persuasione (F.Cambi 1995) e nel mezzo la musica in quanto partecipazione ai cori tramandati dai padri in onore degli dèi e degli eroi e con l’apprendimento a memoria e la recitazione, cantilenata se non cantata, dei poemi di Omero (M.A.Manacorda 1992, p.40) ma anche dei poemi didattici (didascalici) di Esiodo (VIII sec a.C.) la Teogonia sul mondo degli Dei e Le opere e i giorni sull’uomo e il lavoro, soprattutto agricolo. Una didattica in origine semplice: ascoltare, ripetere e memorizzare per formarsi alla vita della città, difenderla, partecipare ai suoi riti e alla sua gestione. Ma dietro tutto questo c’è un’idea forte e assolutamente originale, infatti: “L’importanza storica dei Greci quali educatori …deriva dalla nuova e consapevole concezione dell’individuo nella comunità. Se consideriamo i Greci sullo sfondo storico dell’antico oriente, la differenza è così imponente che i Greci sembrano fondersi in un’unità col mondo europeo dell’età moderna” (W.Jaeger, 1936). Su piano meno elitario la formazione degli uomini liberi ma di poca agiatezza e perciò costretti alle attività manuali, a cui non mancava un’educazione informale di appartenenza alla propria polis, alle sue leggi e alla identità del mondo greco e un’educazione formale di apprendistato in un’arte, nelle sue tecniche e, per alcune specifiche attività, negli strumenti simbolici della scrittura, della misura e del calcolo. Tra questi gli architetti e gli scultori che hanno reso immortale l’arte greca, ma che agli occhi

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della nobiltà erano solo semplici artigiani perché costretti a guadagnarsi da vivere con il lavoro Ed è forse proprio in quest’ultimo ambiente, culturalmente pieno di creatività, che si introduce e diffonde un nuovo modo di scrivere - più semplice dei geroglifici egizi o degli ideogrammi della scrittura cuneiforme - dalla probabile origine nell’Asia occidentale da cui i greci avevano elaborato e poi affinato del VI e V secolo a.C una propria scrittura alfabetica, come altri popoli, ma semplice e molto efficiente. Un sistema simbolico veloce da apprendere e ricordare per i pochi segni che si usano, che consente di comporre un qualsiasi testo in tempi rapidi e che, nel supporto di papiro, è facile da trasferire tra le città greche sparse per tutto il Mediterraneo, La memoria fino ad allora sostenuta dal canto e dalla recitazione corale viene così sostituita da ventidue segni. Lentamente il nuovo medium diventa una competenza comune per tutti. A sette anni i bambini cominciarono ad andare a scuola per imparare a leggere, scrivere e far di conto e nel tempo questa formazione venne data anche alle bambine. Il modello didattico seguito prevedeva l’apprendimento delle lettere dell’alfabeto, poi le sillabe e infine le parole; quanto allo scrivere prima venivano le lettere da tracciare sulla sabbia, su pezzi di ceramica o su tavolette cerate e solo dopo su fogli di papiro. La tecnica era sempre basata sull’imitazione di lettere, sillabe, parole o frasi copiate da un modello del maestro. Stessa procedure per il far di conto, con la variante di un ripetuto esercizio di conteggio e calcolo con le dita, una modalità universale molto pratica e veloce per eseguire calcoli ancora oggi, a cui non era associato l’apprendimento degli algoritmi scritti delle operazioni aritmetiche. La disciplina non usciva dai canoni delle punizioni corporali come in altre passate scuole e come sarà ancora per secoli e secoli a venire. La scholè era in realtà il tempo libero per l’uomo libero ed in questo per i Greci si distinguevano da altre culture per finalizzare tali apprendimenti a scopi pratici, ma non professionali (H.J.Graff, 1989) C’è un particolare rapporto tra parola e scrittura nel mondo greco. La parola vi resta centrale, ma si raffina e si specializza per gli alti livelli di formazione per merito dei Sofisti (i primi insegnanti ad essere ben pagati) nella lingua, nel discorso e nel pensiero a cui corrispondono: la grammatica, la retorica e la dialettica. Platone lamenta la presenza della scrittura con il rimpianto dell’oralità come forza della memoria, ma lo fa scrivendo e non valutando che i tre momenti dell’insegnamento del trivio – base della formazione linguistica e filosofica, in rapporto alla politica – non avrebbero avuto lo stesso esito senza la scrittura. Di  più:  la  cultura  occidentale,  come  noi  la  viviamo  muove  i  suoi  primi  passi  presso  quei  filosofi  e  matematici,  quelli  della  scuola  di  Pitagora  e  dei  suoi  seguaci  in  particolare,  cui  dobbiamo  anche  l’idea  di  numeri  e  figure  totalmente  astratte  dall’esperienza  sensibile,  immagini  ideali  e  simboli  attraverso  i  quali  è  possibile  operare  indipendentemente  dalla  realtà   e   tuttavia   operando   su   di   essi   è   possibile   prevedere,   congetturare,   ipotizzare,  anticipare  un  risultato  possibile  nella  realtà  (G.Preti,1957).    Fin   dalle   origini   della   cultura   occidentale,   infatti,   la   matematica   si   è   accompagnata   a  molte   delle   manifestazioni   del   pensiero   dell’uomo:   dalla   Filosofia   alle   arti   (musica,  architettura,  scultura)  dallo  studio  del  cielo  a  quello  della  natura,  che  con  la  geometria  raggiunge  un  livello  che  segnerà  per  sempre  la  storia  del  pensiero  dell’uomo.      

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“La creazione della geometria euclidea fu qualcosa di più dell’introduzione di alcuni teoremi utili ed eleganti. Essa generò uno spirito razionale. Nessun’altra creazione umana ha dimostrato più delle centinaia di dimostrazioni di Euclide in quale misura la conoscenza umana possa derivare dal solo ragionamento. La deduzione di questi profondi risultati insegnò ai greci e alle civiltà successive il potere della ragione e diede loro la fiducia nei risultati ottenibili mediante questa facoltà”. (M. Kline, 1953, p. 60) E che lo studio di questa disciplina abbia giocato un ruolo fondamentale sul pensiero occidentale lo dimostra il fatto che la geometria, alla quale Platone attribuiva un’importante funzione formativa non tanto per i contenuti quanto per il rigore con cui si procede in essa, sia stata insegnata per oltre duemila anni ininterrottamente nel modello di procedimento dimostrativo formale di quel manuale scolastico per eccellenza che sono gli Elementi di Euclide. Nel mondo greco così, oltre allo studio delle discipline di base per gli studi linguistici, filosofici e per l’attività politica, si definirono quelli di un’area scientifica composta da aritmetica, geometria, astronomia e musica. Nel V secolo queste discipline vennero codificate nelle arti del trivio con la grammatica, la retorica e la dialettica e del quadrivio con quelle prima indicate. Le storie scritte Su questa strada si potrebbe continuare, sulla base di interrogativi, problemi e curiosità propri della didattica, riordinando quanto è già stato narrato con altre finalità, rinterrogando le fonti storiche note e cercandone altre che solo uno storico della didattica potrebbe utilmente utilizzare. Lasciamo perciò questa esemplificazione e vediamo come altri autori si sono posti il problema di una storia della didattica Come già detto, nella saggistica italiana – per obbligo di brevità e di interesse del lettore la sola qui consultabile – sono presenti alcune proposte di lettura di una storia della didattica che potrebbero utilmente arricchire il panorama di questi appunti: da un lato per i parametri storiografici adottati e dall’altro per i temi trattati o esemplificati Storia della didattica. Nel panorama editoriale italiano di libri sull’educazione, specificatamente intitolati Storia della Didattica, ce n’è stato solamente uno. E’ una raccolta postuma di scritti di Dina Bertoni Jovine (1976) per gli Editori Riuniti di Roma, che nella sua premessa il curatore Angelo Semeraro presenta come il compimento di “…una ricerca che aveva mosso dalla Storia dell’educazione popolare in Italia (1954) per giungere alla più nota Storia della scuola Italiana dal 1870 ai nostri giorni (1958): ultimo momento di una visione complessiva dell’itinerario accidentato della scuola italiana, le cui «parabole» vengono questa volta disegnate all’interno di ciascun grado delle istituzioni scolastiche: la infantile, la primaria e la secondaria …”. L’opera è in due volumi, il primo dei quali ha per titolo specifico Didattica e programmazione scolastica, mentre il secondo Didattica e formazione umana. Una raccolta di 73 saggi che Dina Bertoni aveva via via pubblicato, in varie riviste: Il Politecnico, Educazione Democratica, Riforma della scuola, I diritti della scuola, Cultura e Scuola, Scuola e Città, I problemi della Pedagogia, Rinascita e il quotidiano

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del Partito Comunista l’Unità. a partire dal 1946 nell’immediato dopoguerra, per arrivare al 1966 Saggi ordinati dal curatore non in una rigorosa successione cronologica della loro pubblicazione, ma per accorpamento di temi (quattro grandi temi tanto nel primo come nel secondo volume) che nel primo trattano della “Scuola infantile”, di quella “Primaria”, di quella “Secondaria” e per ultimo di “Scuola e lavoro”. Nel secondo volume gli argomenti sono: “Cultura e Storia”, “I modi dell’insegnare”, “I contenuti dell’insegnamento” e della “La condizione di maestro”. Il tempo della didattica ma anche della pedagogia e della politica presentato dalla raccolta è quello della scuola italiana ai tempi vissuti dall’autrice, con i riferimenti che dal passato ne spiegano il senso ed il valore. Trattandosi di un testo costruito dal curatore e non un’opera direttamente ordinata dall’autrice, presenta al lettore un “doppio” livello di analisi storica: da un lato quella del curatore che nella sua lunga prefazione analizza il pensiero della Bertoni e la sua elaborazione culturale intorno alla didattica e come questa elaborazione abbia contribuito a portare sulla scena del dibattito sulla scuola una serie di temi che saranno centrali negli anni successivi alla sua morte, avvenuta nel 1970. A lei è riconosciuto il merito di aver favorito “…la chiarificazione dei principi di una pedagogia nazionale di ispirazione socialista che recuperi la lezione di Gramsci, ma anche di Cuoco, Capponi, Villari, Gabelli, De Sanctis, G.Lombardo Radice, e che , pur rivendicando alcuni principi dell’attivismo all’interno della stessa dottrina marxista, denunci chiaramente i pericoli di un metodismo e didattismo fine a se stesso e di un certo disimpegno morale e di contenuti che caratterizzarono in parte l’attivismo pedagogico” (p.xiv). Dall’altro il racconto, proprio della Bertoni, la “sua” lezione “didattica” per la quale l’ideale da perseguire è quello di una scuola democratica che trasmetta i valori propri di una democrazia compiuta qual è quella recitata nell’allora nuova Costituzione repubblicana, ma che nei fatti era, alla sua analisi storica, ancora tutta da costruire. La, scuola, scriveva Dina Bertoni, può operare in questa direzione rinnovandosi profondamente non solo nei modi di insegnare, ma insieme anche nei contenuti dell’insegnamento, perché contenuti e metodi non sono aspetti separabili. Ugualmente deciso è il convincimento della Bertoni che la storia della didattica non è, né può essere, la presentazione di semplici tecniche dell’insegnare, prese al di fuori di ogni contesto spaziale e temporale; che la storia della didattica è anche la storia del maestro e dell’alunno in quanto storia dell’infanzia. Tutti aspetti che ritroviamo coerentemente presenti nella sua produzione scientifica e che nei fatti sono serviti a dare un’identità forte alla ricerca storiografica sull’educazione in Italia, compresa quella ancora in divenire sulla didattica. Teoria e storia della didattica Gastone Tassinari (1995) vede il problema della storia della didattica connesso a quello dell’identità della didattica, della sua “teoria”. Fare una storia della didattica vuol dire anche ricercare i fondamenti teorici di ogni processo didattico ed è con tali fondamenti che l’identità della didattica si evidenzia a fronte di quelle delle altre scienze dell’educazione. Viceversa, l’analisi identitaria è necessaria allo storico per orientare la propria ricerca su ciò che è pertinente ad una storia della didattica da ciò che non lo è. Come in una spirale, storia e teoria della didattica sono, allo stesso tempo, l’una agente e complemento dell’altra.

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All’assunto che vuole poi la didattica come momento della pratica ma non della teoria, si può perciò rispondere che: c’è una “didattica pratica che si identifica con l’insegnamento nella sua effettiva realizzazione, e una didattica teorica che elabora orientamenti, conoscenze, indicazioni operative che possono avere o meno una origine da (o una applicazione in ) attività di insegnamento” (p. 84). Problemi che Tassinari coglie nella “presenza di diffuse esigenze di innovazione nell’insegnamento e, [sul fatto che] l’aspettativa di poter rispondere a quelle esigenze attraverso soluzioni di carattere immediatamente operativo, giovandosi anche delle opportunità offerte dalle nuove tecnologie dell’informazione, ha accentuato l’identificazione della didattica con un’attività di tipo puramente pratico, o addirittura praticistico”(p.81). Il riferimento è agli ultimi decenni del secolo scorso quando la scuola, compresa quella italiana, si è trovata a dover rispondere a nuove e diverse richieste formative, spesso contraddittorie, provenienti da un contesto sociale in rapida trasformazione e dalla rapida diffusione di nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Un periodo, si potrebbe aggiungere, denso di tentativi di riforme strutturali e didattiche ancora oggi in atto, nessuna delle quali ha però davvero dato ancora risposte esaustive, tanto nel nostro quanto in altri paesi.In una lettura sintetica dei fatti che maggiormente ineriscono al campo della didattica si potrebbe dire che sono stati anni in cui si è passati da: una didattica tradizionale posta a priori (spesso attardata rispetto ai cambiamenti sociali), in cui si procedeva verso uguali obiettivi con uguali metodi per tutti gli alunni, a una didattica individualizzata, attenta alle diverse possibilità e stili di apprendimento degli alunni e in cui si prospettava il raggiungimento di stessi obiettivi ma con diversi metodi per ogni alunno e una didattica personalizzata per ogni alunno con diversi obiettivi e diversi metodi. Passaggi che nella scuola hanno visto prevalere soluzioni operative rivolte più agli aspetti pratici dell’insegnare a discapito di una visione curricolare del processo di insegnamento-apprendimento, più pratica che teoria, più soluzioni isolate che quadri complessivi. Forse per questo, dopo aver esplorato il “territorio” della didattica Tassinari avvia un breve ma denso esame storico delle “concezioni della didattica”, un tema che sembra ricalcare molte storie della pedagogia se non fosse che la sua lettura di contesti e autori estrae da questi quei momenti di teoria su cui, a partire dal Cinquecento in poi, si è andata costruendo ed evolvendo l’idea moderna di didattica. Idea i cui inizi fondano sul problema del metodo in Filosofia, nella scienza (Bacone, Cartesio, Galileo, Newton, ed anche nell’insegnamento (con le opere di Pietro Ramo, Johan Sturm, Melantone), negli eventi della Riforma e della Controriforma, con i Gesuiti, i loro collegi regolati dalla Ratio Studiorum del 1599 (un documento che resterà fondamentale nella storia delle istituzioni scolastiche), E poi alcuni autori: A. Comenio, J.J. Rousseau, J.F.Herbart, J. Dewey, il movimento della scuola attiva che insieme a Vygotskij, Piaget e Bruner segnano gran parte della storia del Novecento. Una panoramica di idee che, tra molti altri temi ne mette a fuoco uno che non si può ignorare in funzione di una storia della didattica: “il rapporto didattica-cultura, che appare assai più complesso di quanto possa risultare quando si consideri la didattica, semplicemente e genericamente , come una particolare modalità di trasmissione di una cultura basata su un processo, intenzionale e formale, di insegnamento. Anche accettando questa interpretazione, occorre riconoscere che essa è molto riduttiva e non priva di ambiguità. … la didattica non è comunque pura e semplice trasmissione di un patrimonio

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culturale in quanto comporta una scelta di materie e di attività in base al valore formativo che ad esse è attribuito, una selezione e una riorganizzazione dei loro contenuti secondo criteri ritenuti psicologicamente e didatticamente funzionali. …Se la didattica non è solo trasmissione di una cultura, essa è tuttavia uno degli elementi che concorrono a costruire e caratterizzare una cultura, come altre forme del pensiero e della vita sociale” (pp 101-102). Relazioni e teorie Questa osservazione di Tassinari sul tema teorico del rapporto didattica-cultura ha il suo corrispettivo di pratica didattica nella consapevolezza che un docente deve avere, quando progetta percorsi e processi didattici. Siamo nelle relazioni-teorie del modello proposto che mettono in corrispondenza:

Sapere ↔ Insegnante ↔ alunno Dewey ha indicato queste relazioni come il momento dell’incontro/confronto tra l’esperienza di una scienza con l’esperienza di un alunno, favorito e mediato dall’insegnante. Piu recentemente Y. Chevallard (1985) ha indagato il passaggio di contenuti di matematica dal loro dominio di appartenenza all’insegnante e da questi all’alunno, rilevando come in questo passaggio avvenga un continuo processo di trasposizione in base al quale un oggetto di sapere viene astratto da proprio contesto culturale d’origine per essere ricontestualizzato sulla cultura dell’insegnante, sul valore e sul significato che l’insegnante gli attribuisce per farlo diventare un oggetto da insegnare. Da qui, sempre l’insegnante, cercherà con esempi di collocarlo in un contesto che ritiene consono alle possibilità di apprendimento dell’alunno. Quest’ultimo, a sua volta, per farlo diventare un oggetto appreso dovrà liberarlo dal contesto con cui l’aveva presentato l’insegnante per collocarlo in quello del proprio spazio culturale. Interessante è la conseguenza didattica di come l’insegnante promuove il rapporto diretto tra:

Sapere ↔ Alunno In entrambi gli studiosi citati questo avviene nel processo di risoluzione di problemi. Detto questo, non occorre andare oltre, se non per ricordare i saggi di Fornaca (1985), Perugini (2001), Santelli Beccegato (1998), Calvani (2007) che, insieme a quelli della Bertoni Jovine e Tassinari, fanno parte dello sparuto gruppo di lavori italiani direttamente volti a trattare il tema della storia della didattica. Resta fuori da questi appunti una riflessione sull’uso storico delle fonti che riguardano la didattica nei suoi momenti pratici – le palline del dubsar, per esempio – a partire da quali siano queste fonti. Si tratta di una serie innumerevole di documenti (immagini fotografiche e filmati, registri, pagelle, elaborati, quaderni, manuali, memorie, materiali, sussidi, corredi dell’alunno, … per un elenco che potrebbe continuare a lungo) che oggi sono recuperati ed ordinati nei “musei della scuola” di molti paesi – in Italia a Roma, Bolzano, Torino, ma anche in tante altre realtà – come importanti testimonianze di una cultura. Visitare questi musei, per un insegnante o futuro insegnante è avviarsi a riflettere sulla identità e la storia della propria professione a tutto vantaggio del proprio lavoro. Bainton R.H. (1958) La riforma protestante, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino

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