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Goldman Sachs, Mario Monti e il Governo dell’Italia - di Alberto Puliafito - polisblog.it – Aggiornamento in coda all’articolo. Mario Monti è International Advisor di Goldman Sachs(per inciso, è anche parte dell’advisory board di Coca Cola Company(*), il nuovo supereroe buono dell’Italia intera). Goldman Sachs, per chi non lo sapesse, è una delle più grandi banche d’affari del mondo, ovvero un istituto bancario che, a differenza dellebanche commerciali, non permette depositi ma offre servizi e specula con elevato rischio [definizione neutra tratta da Wikipedia]. Ha speculato abbondantemente sulla crisi dei mutui subprime (come scrive il Time) e ha investito nel debito della Grecia, aiutando il governo greco a mascherare le reali condizioni del proprio debito pubblico (lo scrive Spiegel) e ha speculato abbondantemente sul debito greco. La Goldman Sachs, nel 2010, è stata anche incriminata dalla SEC (la Securities and Exchange Commission, ente statunitense per la vigilanza della borsa) per frode e truffa ai danni dei propri clienti. Questo è lo scenario di partenza. Ora, mettiamo insieme un altro paio di fatti e “rumors”. Primo fatto: Goldman Sachs stima che lo spread andrebbe a 350 in caso di governo tecnico; secondo fatto: Mario Monti viene nominato Senatore a vita e si parla ormai con insistenza del Governo Monti prossimo venturo; primo (e unico) rumor, proveniente da fonte molto accreditata:secondo Milano Finanza, «sui mercati si è diffusa la voce che sia stata Goldman Sachs a innescare l’ondata di vendite di Btp, poi seguita dagli hedge fund e dalle altre banche d’oltreoceano» terzo fatto: la vendita a cascata di Btp ha portato lo spread a valori inauditi ieri; quarto fatto: dopo la nomina di Monti e le prime voci sul suo governo, lo spread torna a scendere. Si dice, in gergo, che «i mercati hanno reagito bene». Mettendo insieme i quattro fatti, il rumor, lo scenario di partenza si ha il quadro – affatto complottistico – di un’accurata e credibilissima operazione finanziaria ad alto rischio. Che ha,

Articoli Monti, Goldman Sachs e MMT

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Una raccolta di articoli tratti da Fatto Quotidiano, Espresso L'unità ed altre periodici su chi sono Monti e Goldman Sachs ed i loro veri interessi

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Goldman Sachs, Mario Monti e il Governo dell’Italia - di Alberto Puliafito - polisblog.it –

Aggiornamento in coda all’articolo.

Mario Monti è International Advisor di Goldman Sachs(per inciso, è anche parte dell’advisory board di Coca Cola Company(*), il nuovo supereroe buono dell’Italia intera). Goldman Sachs, per chi non lo sapesse, è una delle più grandi banche d’affari del mondo, ovvero un istituto bancario che, a differenza dellebanche commerciali, non permette depositi ma offre servizi e specula con elevato rischio [definizione neutra tratta da Wikipedia]. Ha speculato abbondantemente sulla crisi dei mutui subprime (come scrive il Time) e ha investito nel debito della Grecia, aiutando il governo greco a mascherare le reali condizioni del proprio debito pubblico (lo scrive Spiegel) e ha speculato abbondantemente sul debito greco. La Goldman Sachs, nel 2010, è stata anche incriminata dalla SEC (la Securities and Exchange Commission, ente statunitense per la vigilanza della borsa) per frode e truffa ai danni dei propri clienti. Questo è lo scenario di partenza. Ora, mettiamo insieme un altro paio di fatti e “rumors”.

Primo fatto: Goldman Sachs stima che lo spread andrebbe a 350 in caso di governo tecnico; secondo fatto: Mario Monti viene nominato Senatore a vita e si parla ormai con insistenza del Governo Monti prossimo venturo; primo (e unico) rumor, proveniente da fonte molto accreditata:secondo Milano Finanza, «sui mercati si è diffusa la voce che sia stata Goldman Sachs a innescare l’ondata di vendite di Btp, poi seguita dagli hedge fund e dalle altre banche d’oltreoceano» terzo fatto: la vendita a cascata di Btp ha portato lo spread a valori inauditi ieri;

quarto fatto: dopo la nomina di Monti e le prime voci sul suo governo, lo spread torna a scendere. Si dice, in gergo, che «i mercati hanno reagito bene».

Mettendo insieme i quattro fatti, il rumor, lo scenario di partenza si ha il quadro – affatto complottistico – di un’accurata e credibilissima operazione finanziaria ad alto rischio. Che ha,

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oltre ai vantaggi a breve termine della speculazione, anche un vantaggio politico. Quello di portare un uomo Goldman Sachs al Governo dell’Italia.

Come dire che l’alta finanza non si accontenta più di speculare economicamente. Vuole anche poter speculare politicamente, in maniera palese e senza più bisogno di nascondersi. Naturalmente, è il Governo Berlusconi che ci ha consegnati a tutto questo.

(*) i membri dell’advisory board di una company, a differenza degli altri dirigenti, non votano.

Fonte: http://www.polisblog.it/post/12351/goldman-sachs-mario-monti-e-il-governo-dellitalia.

L’Italia è una Repubblica fondata sullo spread da retedellaconoscenza.it.

“Non disturbate il manovratore”: così rispondono i vari politici, giornalisti e analisti a chi prova a smascherare i giochi della finanza internazionale dietro alla possibile nomina del senatore Mario Monti a presidente del Consiglio: “la situazione è troppo grave per pensare a sottigliezze come la democrazia, bisogna varare presto misure impopolari” (ma se sono impopolari, da dove viene la legittimazione con la quale i Governi le approvano?).

Eppure pare che la realtà superi qualsiasi previsione, anche la più pessimistica.

Sappiamo bene che Mario Monti è International Advisor per Goldman Sachs, la celebre banca d’affari, e precisamente membro del Research Advisory Council del Goldman Sachs Global Market Institute. Apprendiamo da un articolo di Milano e Finanza (qui) che proprio Goldman Sachs avrebbe usato una tecnica semplice ma efficace per alterare le quotazioni dei BTP italiani: una gigantesca vendita di titoli prima dell’annuncio delle dimissioni di Berlusconi, per poi ricomprare tutto immediatamente dopo, a prezzi stracciati, provocando l’aumento dello spread che tanto ha inciso sulle scelte del Presidente Napolitano e sulla stessa opinione pubblica. Ma non è finita: l’istituto americano ha provato pilotare le fasi successive di questa crisi di Governo. L’intenzione non è neanche tanto nascosta: in questo rapporto (Sole 24 ore) è chiaro il ricatto di Goldman Sachs. Viene esplicitato, con l’aria minacciosa di chi è in grado di incidere notevolmente sull’altalena della crisi, che lo scenario più sicuro per l’Italia è un governo tecnico totalmente piegato alla volontà di BCE e istituti finanziari. Un centro-destra allargato potrebbe non bastare a far calare lo spread tra BTP e Bund tedeschi. Le elezioni anticipate, invece, non si possono fare, alla faccia dell’autonomia decisionale del Capo dello Stato. Altro che governo tecnico, del Presidente, di unità nazionale, di transizione: il prossimo sarà il Governo della stessa lobby finanziaria ed economica che ha causato la crisi, e che oggi la utilizza come strumento per rafforzare le sue capacità speculative, in grado di fare e disfare Governi, referendum, elezioni, riforme, ed imporre il proprio uomo alla Presidenza del Consiglio.

Ma come siamo così sicuri che il prossimo Governo Monti sarà, se possibile, ancora peggio di quello attuale?

Basta leggere questo editoriale, scritto proprio da Monti per il Corriere della sera a gennaio 2011 (editoriale), nel quale con estrema chiarezza e concisione si sostiene che oggi non c’è spazio per

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una speranza di miglioramento delle condizioni sociali, e bisogna molto più pragmaticamente tutelare i propri interessi nel libero mercato internazionale. Come? Con le ricette di Gelmini e Marchionne. “La riforma dell’università e la riforma della contrattazione indicano la strada “, sostiene Monti. Verso dove, però, nell’articolo non lo dice. Secondo noi porta diritto al baratro. http://retedellaconoscenza.it/component/content/article/44-homepage/430-litalia-e-una-repubblica-fondata-sullo-spread.html _______________________________________________________________________________

Goldman Sachs, il lato ombra di Draghi e Monti Nei giorni scorsi Le Monde ha scritto che la Goldman Sachs rappresenta il lato ombra

di Mario Draghi, ex governatore della Banca d’Italia e attuale presidente della Bce. Alla

lista va aggiunto anche Mario Monti. Vediamo perché.

La Goldman Sachs è la più potente banca d’affari americana, che condiziona mercati e

governi. Ha detto la verità il trader indipendente Alessio Rastani, prendendosi gioco della

Bbc e rilasciandoun’intervista in cui dichiarava che “i governi non governano il mondo, Goldman Sachs governa il mondo”. Nel film Inside Job, del regista Charles

Ferguson, la banca d’affari risulta tra le protagoniste della crisi economica innescata nel

2008 negli Stati Uniti. In questo lungo post sul mio blog trovate la storia completa.

Ma è interessante notare come gli uomini della Goldman hanno ricoperto incarichi

importanti nell’amministrazione Usa, arrivando a ruoli di primo piano. Durante

l’amministrazione Clinton l’ex direttore generale della Goldman Sachs, Robert Rubin,

divenne sottosegretario al Tesoro. Nel 2004, Henry Paulson, amministratore delegato

dalla Goldman, fece approvare alla Commissione dei Titoli e Scambi un aumento dei

limiti sul rapporto di indebitamento, permettendo alle banche d’investimento di avere

ulteriori prestiti da utilizzare per manovre di speculazione. Nel 2005Raghuram Rajan,

capo economista del Fondo Monetario Internazionale (2003-2007) pubblicò un rapporto

in cui annunciava il rischio che le società finanziarie, assumendo grandi rischi per

realizzare enormi profitti a breve termine, avrebbero potuto far collassare il sistema economico. Nella prima metà del 2006 la Goldman Sachs vendette 3,1 miliardi di dollari di Cdo e in quel periodo l’amministratore delegato era proprio Henry Paulson. Il

30 maggio 2006 George Bush lo nominò segretario del Tesoro e fu costretto a vendere le

sue azioni della Goldman, intascando 485 milioni di dollari (e grazie a una legge di

Bush padre non pagò nessuna tassa).

Nell’aprile del 2010 i dirigenti della Goldman Sachs furono costretti a testimoniare al

Congresso americano: Daniel Sparks, ex capo reparto mutui della Goldman (2006-

2008) dovette riferire su alcune email in cui definiva certe transazioni “affari di

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m…”. Fabrice Tourre, direttore esecutivo prodotti strutturati della Goldman Sachs

vendeva azioni che definiva “cacca”. Llyod Blankfein, presidente di Goldman, e David Viniar, vicepresidente esecutivo, sotto le pressanti domande del senatore Carl Levin furono costretti ad ammettere che sapevano di vendere spazzatura.

Purtroppo anche Barack Obama ha confermato il potere della banca d’affari. Il nuovo

presidente della Federal Reserve Bank di New York (principale azionista della Fed)

è William Dudley, ex capo economista della Goldman (che nel 2004 lodava i derivati).

Capo del personale del dipartimento del Tesoro è Mark Patterson, ex lobbista della

Goldman Sachs. A capo della Cfct si è insediato Gary Gensler, ex dirigente della

Goldman Sachs che aiutò ad abolire la regolarizazione dei derivati.

Anche in Europa la Goldman manovra da tempo. Nel 1999 la Grecia non aveva i numeri

per entrare nell’euro. Quindi truccò i bilanci. Su Presseurope Gabriele Crescente scrive:

“Nel 2000 Goldman Sachs International, la filiale britannica della banca d’affari americana, vende al governo socialista di Costas Simitis uno “swap” in valuta che permette alla Grecia di proteggersi dagli effetti di cambio, trasformando in euro il debito inizialmente emesso in dollari. Lo stratagemma consente ad Atene di iscrivere il ‘nuovo’ debito in euro ed escluderlo dal bilancio facendolo momentaneamente sparire. E così Goldman Sachs intasca la sua sostanziosa commissione e alimenta una volta di più la sua reputazione di ottimo amministratore del debito sovrano.”

Ora torniamo a Mario Draghi. Dal 2002 al 2005 è stato vicepresidente e membro del

management Committee Worldwide della Goldman Sachs. Insomma: proprio nel periodo

in cui in America le banche d’affari erano scatenate in manovre speculative e scavavano il

baratro finanziario che si è materializzato nel 2008, trascinando il resto del mondo. Non

sapeva nulla di queste tendenze l’economista italiano?

Anche Mario Monti lavora per la banca d’affari: dal 2005 è International Advisor per

Goldman Sachs e precisamente membro del Research Advisory Council del “Goldman

Sachs Global Market Institute”. Cioè dall’anno in cui si stava progettando la crisi

economica mondiale, di cui parlerò in una conferenza gratuita.

Queste informazioni, purtroppo, la stampa italiana le ha ignorate. Ma la Rete

no. Durante la seconda puntata di Servizio Pubblico il blogger Claudio Messora ha

spiegato il rapporto tra Mario Monti e la Goldman. E ha citato un articolo di Milano Finanza che – unica eccezione – ha rivelato il ruolo della Goldman Sachs nel rialzo dello spread dei titoli italiani in questi giorni. In pochi minuti su Facebook è

cambiata l’opinione degli utenti all’interno di un sondaggio: prima volevano Monti

presidente del Consiglio, dopo le rivelazioni hanno cambiato idea. E’ la prova che se

l’informazione facesse il suo dovere avremmo meno lobby al potere e più democrazia.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/11/11/goldman-sachs-lato-ombra-draghi-monti/169987/ _______________________________________________________________________________

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Quando Goldman Sachs truccava i conti della Grecia per farla entrare nell’euro Nel 2001 gli ellenici si affidano alla banca americana per rientrare nei limiti imposti da Bruxelles per l’Eurozona. L'accordo permetteva di ridurre di 2,8 miliardi di euro il debito pubblico mediante uno swap

Possibile che nella finanza (come nella politica) imperi una memoria così corta? Che nella vicenda della Grecia, che ha appena archiviato il suo swap sui titoli di Stato con apparente successo ed evitato un default (almeno quello esplicito), non si cerchi di andare indietro nel tempo, per capire: di chi è la colpa? Solo di un’amministrazione greca scaltra e sprovveduta? In queste settimane emergono nuovi elementi che inchiodano dinanzi alle proprie responsabilità Goldman Sachs, il gigante Usa, la banca d’affari che ha fatto dei derivati la sua religione. Le rivelazioni più recenti arrivano da un’inchiesta realizzata per l’agenzia Bloomberg da Nicholas Dunbar, giornalista tra i più aggressivi sulla finanza spazzatura, ed Elisa Martinuzzi. Hanno raccolto le prime confidenze diChristoforos Sardelis e Spyros Papanicolaou, responsabili dell’agenzia pubblica ellenica del debito pubblico, il primo dal 1999 al 2004 e il secondo da quell’anno fino al 2010. “L’intesa del nostro Paese con Goldman è stata una storia molto sexy fra due peccatori”, ha sottolineato Sardelis. Insomma, persero la testa, con più o meno consapevolezza. Nel 2001 i greci dovevano disperatamente ridurre il debito pubblico per rispettare i limiti imposti da Bruxelles per l’Eurozona, dove erano entrati a far parte il primo gennaio dello stesso anno. Avrebbero potuto centrare lo stesso obiettivo aumentando le tasse o riducendo la spesa pubblica. Preferirono accettare “l’aiuto” di Goldman Sachs, che allora beneficiava ancora della sua reputazione di banca d’affari seria, consulente di imprese e governi per le privatizzazioni e le scalate aziendali. Ma che in realtà si stava progressivamente trasformando in una macchina d’assalto degli strumenti finanziari derivati, negoziati al di fuori dei mercati tradizionali. Sì, era quello di cui aveva bisogno Atene. Sottoscrisse con la banca un accordo, che permetteva di trasformare mediante uno swap 2,8 miliardi di euro di debito (solo il 2% del totale, ma necessario per ritoccare i conti di quanto si doveva) in dollari e yen in un prestito emesso in euro, ma sulla base di un tasso di cambio storico (e fittizio), che non corrispondeva alla realtà. Il contratto consentiva di sottrarre 2,8 miliardi al debito pubblico, assorbiti dall’opaco mondo

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della finanza ombra: Goldman prestava segretamente quei soldi alla Grecia. Sardelis ammette oggi che altri Paesi europei, come l’Italia, hanno impiegato metodi simili. L’accordo venne raggiunto nel giugno 2001. Come indicato dagli ex alti funzionari greci alla Bloomberg, oltre a quei 2,8 miliardi, Atene dovette sborsare 600 milioni a Goldman Sachs, costo immediato dell’operazione: una sorta di commissione, elevatissima (molto più alta del costo di una equivalente sul mercato obbligazionario “normale”, alla luce del sole), dovuta all’alta rischiosità dell’operazione. Per finanziare il primo swap, lo Stato ellenico ne sottoscrisse un secondo con Goldman Sachs, che a sua volta “derivatizzava” tutti questi contratti, scaricandoli su altri investitori, sotto forma di Cds e diversi strumenti della finanza ombra. Proprio su questo secondo swap, agganciato ai tassi del mercato obbligazionario, i primi problemi iniziarono con gli attentati dell’11 settembre del 2001. I costi dell’operazione esplosero. E le cose non migliorarono quando, nel 2002, la banca decise di legare lo swap a un indice calcolato sulla base dell’inflazione dell’Eurozona. Quando, nel 2005, si decise di ristrutturare il debito iniziale di 2,8 miliardi, questi erano già diventati 5,1. A scapito dei contribuenti greci. Il meccanismo era talmente complesso che Sardelis a Papanicolaou hanno oggi ammesso che ai tempi né loro, né altri all’interno dell’amministrazione ellenica potevano rendersi conto di quello che stavano comprando e trattando. Non solo: “Sardelis, che negoziò il contratto, non poté fare quello che si fa normalmente in questi casi, andare sul mercato e verificare se le condizioni offerte fossero giuste – ha precisato Papanicolaou – perché i dirigenti di Goldman Sachs glielo vietarono: nel caso, l’accordo sarebbe saltato”. E Atene doveva fare in fretta: come perdere l’occasione di partecipare all’impresa dell’euro? E ottenere così nuovi prestiti a tassi bassissimi? A negoziare per conto della banca era l’aggressiva Addy Loudiadis, di origini greche, che con i dirigenti di Atene aveva un rapporto stretto. Ispirato alla fiducia. Per una ragione che sfiora l’assurdità: perché la Loudiadis nel 1999 li aveva messi in guardia contro un’offerta simile a quella di Goldman avanzata da un’altra banca d’affari. Rifiutata, almeno quella volta. http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/26/prestiti-goldman-sachs-dietro-conti-truccati-della-grecia/199893/ _______________________________________________________________________________

Banche

Super regalo a Morgan Stanley di Orazio Carabini In gran silenzio, a inizio anno i l governo italiano ha dato due mil iardi e mezzo alla potente banca Usa. Un'operazione su una posizione in derivati che i l Tesoro non ha voluto commentare. Peggiorando così le cose (03 febbraio 2012) Due miliardi e 567 milioni di euro. Passati dalle casse del Tesoro a quelle di Morgan Stanley il 3 gennaio scorso, alla vigilia dell'Epifania. In gran silenzio il ministero di via XX Settembre ha "estinto" una posizione in derivati che aveva con una delle grandi investment bank americane. I cui vertici, nelle periodiche comunicazioni alla Sec, segnalano che l'esposizione verso l'Italia a cavallo di fine anno è scesa, al lordo delle coperture, da 6,268 a 2,887 miliardi di dollari. Con

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una differenza di 3,381 miliardi pari appunto a 2,567 miliardi di euro. Né Morgan Stanley né il Tesoro hanno voluto spiegare a "l'Espresso" il senso dell'operazione. Inutile dire che la banca aveva un credito nei confronti dello Stato italiano e che il Tesoro era evidentemente tenuto a rimborsarlo. Molti contratti sui derivati prevedono che, dopo un certo numero di anni, una delle due parti può chiedere la chiusura della posizione. Ma non accade spesso. Altre volte sono previsti dei "termination event", ovvero fatti che possono innescare la soluzione del contratto: per esempio il downgrade dell'Italia da parte di Standard & Poor's. Secondo fonti di mercato, l'operazione si sarebbe conclusa a costo zero, o quasi, per il Tesoro grazie a una triangolazione: Banca Imi (gruppo Intesa Sanpaolo) sarebbe infatti subentrata a Morgan Stanley consentendo agli americani di "alleggerirsi" rispetto alla Repubblica italiana. Nei mesi scorsi ha fatto scalpore la riduzione della posizione in titoli italiani da parte della Deutsche Bank: nel primo semestre del 2011 la banca tedesca ha venduto oltre 7 miliardi di euro di Btp. Seguita da altre grandi banche, soprattutto francesi. Per il ministro dell'Economia Mario Monti e per il suo vice Vittorio Grilli, ex direttore generale del Tesoro, impegnati a riportare la fiducia dei mercati sul debitore Italia, la richiesta di Morgan Stanley (la cui branch italiana è diretta dall'ex direttore generale del Tesoro Domenico Siniscalco) deve essere stata una brutta sorpresa. L'episodio riapre la questione della trasparenza delle operazioni in derivati che sono gestite dal Tesoro nella più totale opacità: nessuno sa a quanto ammontano e una volta all'anno viene comunicato (agli uffici di statistica) il guadagno o la perdita complessivamente registrata su quel tipo di operazioni. Infine c'è un problema di immagine per quello che è spesso chiamato il "governo dei banchieri": dare 2,567 miliardi a Morgan Stanley mentre si stangano i pensionati e si stanziano 50 milioni per la social card non suona bene. http://espresso.repubblica.it/dettaglio/super-regalo-a-morgan-stanley/2173399 _______________________________________________________________________________

Derivati, Monti dica la verità Abbiamo scoperto per caso un contratto con Morgan Stanley che ci è costato 2,5 miliardi di euro. Le risposte del Ministero del Tesoro all’interrogazione parlamentare presentata dall’Idv non bastano. Se è tutto in regola, perché tenere segreti i veri conti?

Lo Stato Italiano ha pagato a Morgan Stanley lo 0,15 per cento del proprio Pil per chiudere un contratto derivato che era stato sottoscritto nel 1994 dal ministero del Tesoro, quando il direttore generale era Mario Draghi. Di questa esorbitante spesa sappiamo poco o nulla, la risposta del governo all’interrogazione parlamentare

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presentata dall’Idv chiarisce un po’ il quadro agli addetti ai lavori, ma insinua il ragionevole dubbio che i conti dello Stato siano “corretti” da 160 miliardi di contratti derivati. La composizione complessiva del portafoglio di derivati della Repubblica italiana è uno dei segreti meglio custoditi della storia d’Italia, nessun governo di nessun colore politico ha negli ultimi venti anni comunicato al Parlamento o anche alla sola Commissione bilancio l’esatta esposizione finanziaria del ministero delle Finanze e le perdite o i guadagni relativi. L’onerosa chiusura del contratto di swap con Morgan Stanley getta un’ombra sulle stesse dichiarazioni del governo in carica secondo il quale “In merito al valore di mercato del ‘ portafoglio derivati ’ della Repubblica italiana, si precisa che lo stesso è definito come il valore attuale dei flussi futuri scontati al presente e che varia continuamente al variare sia del livello dei tassi di mercato sia della conformazione della curva dei rendimenti. Appare evidente che lo stesso è, quindi, un valore in continuo mutamento, la cui rilevanza per uno Stato sovrano risulta essere limitata”. La limitata rilevanza per lo Stato sovrano non sarebbe tale se all’interno dei contratti ci fossero clausole che stabiliscono un costo futuro certo che l’Italia si troverà a dover pagare nei prossimi mesi o nei prossimi anni. Spesso i derivati sono stati usati nella contabilità pubblica per aggirare i vincoli di bilancio europei, la Grecia è stato l’esempio più lampante ma i nostri enti locali non sono stati da meno, attraverso complicati contratti sono in molti ad aver posposto l’onere del debito al futuro liberando così risorse finanziarie da spendere nel presente. In sostanza gli enti pubblici occultano un prestito che viene loro erogato dalle banche internazionali e che non è contabilizzato come tale, la restituzione del prestito è scaglionata in un tempo lontano quando il derivato inizia a produrre i suoi effetti e il flusso di cassa relativo non può essere più occultato. Dati i numerosi casi di questo tipo che coinvolgono Regioni, Province e Comuni italiani è lecito chiedersi se anche la Repubblica Italiana abbia contratto derivati di questo tipo. È inoltre lecito chiedersi se tali derivati non siano stati usati per coprire buchi di bilancio e far quadrare i conti rispetto alle regole imposte dall’Europa. Allo stato delle informazioni in possesso del Parlamento, dell’opinione pubblica e di tutti i cittadini italiani non possiamo sapere quali e quanti oneri saremo costretti a pagare, o stiamo già pagando alle banche internazionali per coprire la cattiva gestione del bilancio pubblico dei governi precedenti. Il governo attuale sta chiamando tutti noi a sostenere grandi sacrifici in nome di un interesse pubblico superiore, ma la sua reticenza sullo svelare la struttura e la composizione del portafoglio di contratti finanziari della Repubblica italiana ci fa sorgere il dubbio che in realtà la maggior parte delle nostre tasse aggiuntive serviranno solo a coprire i buchi del passato che riemergeranno allo scadere delle clausole inserite dalle banche d’affari e sottoscritte dai governi precedenti. Se già questo non fosse abbastanza grave si aggiunga che il New York Times nel febbraio 2010 ha sostenuto che l’Italia è entrata nell’euro grazie a un massiccio uso di strumenti derivati che le hanno consentito di mascherare il vero deficit che sarebbe stato ben al di sopra di quello stabilito dall’Unione europea. Il governo Monti dovrebbe sgonfiare sul nascere questa bolla di sospetti, tanto più pericolosa ora che la fiducia è un bene sempre più raro nella finanza internazionale. Se,

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come sostiene il Tesoro, i derivati sono solo e tutti di “copertura dal rischio di tasso o dal rischio di cambio” non si vede perché l’opinione pubblica non ne debba conoscere la natura e la composizione. Se di coperture si tratta la speculazione internazionale non potrà beneficiare dell’informazione in quanto, per definizione, a una perdita su da una lato dell’operazione dovrebbe corrispondere un simmetrico guadagno. Se così non fosse sarebbero invece guai seri per il professor Monti. E per tutti i suoi predecessori. www. superbonus. name da Il Fatto Quotidiano, 24 marzo 2012 http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/24/derivati-monti-dica-la-verit/199754/ _______________________________________________________________________________

Derivato con Morgan Stanley, una bomba da 2,6 miliardi nei conti pubblici dal 1994 Il mistero di un buco nei conti: a gennaio il Tesoro chiude un contratto con la banca americana a causa di un accordo sottoscritto quasi vent'anni fa. Secondo quanto risulta al Fatto, questa soluzione era la meno onerosa per l'Italia

Poche cose in Italia sono coperte da segreto come i contratti derivati che riguardano il debito pubblico italiano. Per questo c’è stata grande sorpresa e nessuna comunicazione ufficiale, quando si è scoperto che il ministero del Tesoro aveva pagato 2, 5 miliardi alla banca americanaMorgan Stanley, in gennaio, per la chiusura di alcuni contratti derivati. L’informazione è arrivata dalla Sec, la Consob americana, mentre il governo si è trincerato dietro il silenzio, i derivati sembrano questioni di sicurezza nazionale o segreti troppo pericolosi per essere rivelati. Sono arrivate interrogazioni parlamentari da più fronti e giovedì, alla Camera, finalmente il governo ha risposto alle domande del deputato Antonio Borghesi, Idv. Stranamente a rappresentare l’esecutivo c’era Marco Rossi Doria, ex maestro di strada, sottosegretario all’Istruzione, non certo uno specialista di finanza e derivati. Ma il testo dell’intervento riassume la posizione ufficiale del Tesoro. Nelle parole di Doria ci sono alcune novità abbastanza clamorose. Anche sul caso Morgan Stanley: “Alla fine del 2011 e con regolamento il ministero dell’Economia e delle Finanze, in data 3 gennaio 2012, ha

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proceduto alla chiusura di alcuni derivati in essere con Morgan Stanley (due interest rate swap e due swaption) in conseguenza di una clausola di “Additional Termination Event” presente nel contratto quadro (ISDA Master Agreement) che regolava i rapporti tra la Repubblica Italiana e la banca in questione”. La chiusura dell’operazione è costata 2, 567 miliardi, poco più della somma che ora manca per la riforma degli ammortizzatori sociali. Fonti del Tesoro spiegano che l’input a chiudere il contratto è venuto dalle autorità di vigilanza americane che hanno chiesto a Morgan Stanley di rivedere alcune sue posizioni in derivati “e ormai i rapporti del Tesoro con la banca sono ai minimi termini”. Ma se le cose stessero così, se la colpa fosse tutta americana, non si capirebbe perché il salasso sia stato a carico dello Stato. Secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano, la scelta di chiudere in anticipo lo swap con Morgan Stanley è stata presa dal Tesoro dopo aver valutato che questa era la soluzione meno onerosa. Perché evidentemente quel contratto rischiava di costare ancora più caro. Nella risposta parlamentare Rossi Doria rivela che la clausola capestro che ha imposto al Tesoro la perdita di 2, 5 miliardi risale “alla data di stipula del contratto, nel 1994, era unica e non presente in nessun altro contratto quadro vigente tra il ministero e le sue controparti, e non è stato possibile, nel corso degli ultimi anni, rinegoziare la stessa”. Un contratto scritto male o troppo spregiudicato, frutto, probabilmente, della frenesia con cui all’epoca il ministero cercava di rispettare i parametri europei di Maastricht appena approvati per poter poi entrare nell’euro, ipotizza una fonte che ha lavorato al Tesoro. Nel 1994 si alternano al ministero prima il professorPiero Barucci, con il governo Ciampi, poi Lamberto Dini, con il primo governo Berlusconi. Nella casella chiave del ministero, la direzione generale, c’era sempre Mario Draghi, oggi alla Banca centrale europea. I derivati servono a rendere più prevedibile il costo del debito, ma spesso nascondono brutte sorprese dietro contratti molto complessi. Lo strumento standard è lo swap sul tasso di interesse “con i quali tipicamente il Tesoro riceve da una controparte bancaria un tasso variabile e paga un tasso fisso su un nozionale convenzionale prestabilito”. Così il ministero sa quanto gli costerà un certo stock di debito in anticipo e riduce l’incertezza. Nel migliore dei casi risparmia pure, nel peggiore la scommessa va male e lo Stato paga. Quanto? Non si sa. Per la prima volta, grazie alla risposta di Rossi Doria scritta dal Tesoro, scopriamo che “a oggi il nozionale complessivo di strumenti derivati a copertura di debito emessi dalla Repubblica italiana ammonta a circa 160 miliardi di euro, a fronte di titoli in circolazione, al 31 gennaio 2012, per 1. 624 miliardi di euro [... ] circa il 10 per cento dei titoli in circolazione”. Ma questa non è un’indicazione decisiva: significa soltanto che a 160 miliardi di debito sono abbinati derivati, nulla si sa sulle perdite potenziali che si rischiano. Il disastroso derivato del 1994, assicura il Tesoro, è un caso unico, che non si ripeterà mai più. Bisogna crederci sulla parola, perché i cittadini e gli investitori non hanno alcun modo di verificare. La Banca d’Italia censisce soltanto i derivati delle banche italiane, stipulati su 593, 1 miliardi di euro (in giugno 2011). Tutto il resto è top secret, si scopre

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soltanto quando è troppo tardi. Stando agli attuali valori di mercato, ha scritto ieri Bloomberg, l’Italia potrebbe perdere sui suoi derivati fino a 31 miliardi di dollari, 23, 5 miliardi di euro. da Il Fatto quotidiano, 17 marzo 2012 http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/20/derivato-bomba-la-vera-storia-del-buco-al-tesoro/198052/ _______________________________________________________________________________

Ventiquattro miliardi persi nei derivati, di chi è la colpa?

I 31 miliardi di dollari, circa 24 miliardi di euro al cambio attuale, che l’Italia ha perso dal 1994 ad oggi per errate manovre sui prodotti derivati (a tutto vantaggio di un ristretto manipolo di banche estere tra cui primeggia Morgan Stanley) non sono una cifra di poco conto. 24 miliardi di euro equivalgono a più di una delle tante manovre di aggiustamento dei conti pubblici che i governi diSilvio Berlusconi e di Mario Monti hanno propinato al paese nel tentativo di salvarlo da una situazione per molti versi simile a quella di altri paesi europei. Con 24 miliardi di euro si potrebbero ridurre tasse e accise sulla benzina, si potrebbero aumentare gli ammortizzatori sociali, si potrebbero assumere i 10.000 insegnanti precari che stanno sospesi, tanto per restare ai fatti più eclatanti. In questa vicenda sorprende il fatto che poca attenzione sia stata dedicata dai media e dalle forze politiche e sociali a chi dovrebbe assumersi la responsabilità del danno la cui entità riportata da Bloomberg, 24 miliardi di euro, non è stata sino ad oggi smentita. Chi nel lontano 1994 ha preso la decisione di affidarsi ai prodotti derivati, con le più lodevoli intenzioni, speriamo, portandoci ai risultati di cui sopra? Chi in questi 18 anni non ha fatto nulla per uscire da un contratto che si rivelava sempre più un salasso per le finanze nazionali? Un breve ripasso della recente storia politica può chiarire un quadro che nessuno sembra intenzionato a rendere pubblico. Nel 1994, anno di stipula dell’accordo, i due governi che si alternano non sono certamente guidati da sprovveduti in materia di ingegneria finanziaria e conoscenze. Sino a maggio troviamo ai vertici dell’esecutivo l’ex governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi, mentre il ministero del Tesoro, è guidato da Piero Barucci, banchiere fiorentino. Sotto il suo controllo si trovano

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l’immensa massa dei Bot e degli altri titoli di Stato che generano il debito pubblico nazionale, nonché il rapporto con la Banca d’Italia per la gestione della lira, ancora in tensione dopo la tempesta dei cambi. Non dimentichiamo infine che nel 1994 alla direzione generale del Tesoro, guidata da Mario Draghi (poi governatore di Bankitalia e quindi di BCE), troviamo l’attuale vice ministro delle finanze Vittorio Grilli, in qualità di capo della commissione per le analisi finanziarie e le privatizzazioni. Insomma, governo e ministero del Tesoro sono in mano a persone competenti. A maggio arriva a palazzo Chigi Silvio Berlusconi, appena sceso in campo, e con grande successo. Forse Berlusconi se ne intende più di immobili, di Tv commerciali e di supermercati, ma il Tesoro è retto da Lamberto Dini, brillante economista fiorentino, fino ad un anno prima direttore generale di Bankitalia. Dini non è arrivato ai vertici di Via Nazionale perché il governatore Ciampi, scrivono le cronache dell’epoca, gli avrebbe preferito il vice Tommaso Padoa Schioppa. Si raggiunge un compromesso tra Ciampi e il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, e in Via Nazionale arriva Antonio Fazio. Al fianco di Dini ci sono sempre Mario Draghi e Vittorio Grilli, mentre alle finanze troviamo Giulio Tremonti. Tutte teste fini, dunque. Gli anni passano, il contratto con i derivati continua a macinare perdite ma il ministero del ministero del Tesoro, che poi viene conglobato con le finanze, non si muove. Ai vertici del ministero nell’ordine si susseguono nel 1995 Dini ad interim nel governo da lui stesso presieduto,Ciampi nel primo governo di Romano Prodi 1996-1998, Giuliano Amato nel governo D’Alema 1999-2000, quindi Tremonti nei tre governi Berlusconi sino al 2011 e Padoa Schioppa nel secondo governo Prodi 2 del 2006-2008. Per concludere, non sono più di undici i personaggi che dovevano per forza essere al corrente del contratto con Morgan Stanley, o per averlo progettato o per averlo autorizzato: Ciampi, Barucci, Dini, Amato, Prodi,Tremonti, Berlusconi, Draghi, Grilli, D’Alema e Fazio. Sempre che qualche direttore generale del Tesoro non si sia mosso di propria iniziativa inguaiando i conti pubblici ad insaputa dei vertici. Ma gli undici appena indicati che facevano, non erano lì per controllare? Scriveva ieri Repubblica: nei bilanci vige il principio dello scarafaggio, dove ne vedi uno ce ne sono tanti. Perché il governo non prende posizione in merito, non rivela la vera storia di questo contratto e non rende nota l’eventuale esistenza di altri contratti del genere? L’incertezza alimenta il sospetto nella comunità degli investitori italiani ed esteri. Aveva forse ragione l’analista di Wall Street che qualche mese fa ha accusato l’Italia di essersi comportata come la Grecia nell’imbellettare i conti pubblici? E perché Morgan Stanley nel disdettare il contratto (lo ha fatto la banca, che pure ha guadagnato non poco) afferma che sarebbe stato più oneroso per lei rinnovarlo che chiuderlo? Forse la banca teme che in futuro l’Italia non potrà far più fronte agli impegni? Gli italiani hanno fatto e sono pronti a fare altri sacrifici, ma almeno devono avere certezze. Sopratutto devono sapere che in questo frangente gli autori di scippi di penna (come chiamano a Napoli i buchi finanziari) devono essere chiamati a rispondere del loro operato. Nessuno escluso.

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di Gianfranco Modolo

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/19/ventiquattro-miliardi-persi-derivati-colpa/198673/

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L’argentinizzazione e il rischio default. In 2000 a “lezione” di economia (video) L'evento organizzato dal giornalista Paolo Barnard insieme a economisti da tutto il mondo. E il quadro che ne è uscito non tranquillizza nessuno: "Il fallimento dell'Italia non è un rischio, ma una certezza"

Erano oltre duemila da tutta Italia a seguire il summit di tre giorni sulla crisi economica e su un modo alternativo per uscirne, in cui cinque studiosi di fama mondiale hanno catturato l’attenzione del palasport di Rimini, pieno zeppo come per un concerto rock. E proprio come un concerto c’era un biglietto, 40 euro per tre giorni (vitto e alloggio esclusi) e un servizio d’ordine. Erano per lo più ragazzi. Del resto, se temi come lo spread e la recessione occupano le aperture di tutti i telegiornali, difficile stupirsi per una partecipazione così massiccia, in cui questi economisti controcorrente hanno ricevuto ovazioni da star. Alla base dell’evento organizzato dal giornalista Paolo Barnard, anche grazie a un tam tam in rete, c’è la Modern money theory , la corrente di pensiero economica che oggi ha portato in Romagna i suoi più importanti esponenti. Obiettivo degli attacchi di questi studiosi il “colpo di stato finanziario” che si sta consumando nella politica europea.

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La crisi italiana è naturalmente al centro di tutte le relazioni dal parco del palasport riminese. “Abbiamo affidato alle persone che hanno causato questa crisi non solo le leve economiche del paese, ma ora addirittura quelle politiche. È una follia, anzi, dire che è totalmente folle è ancora inadeguato”, ha spiegato William Black, uno degli oratori del summit, a proposito del governoMonti. Poi il bersaglio diventa la Bce e il suo nuovo presidente. “Mario Draghi ha detto in una recente intervista al Wall Street Journal che i governi hanno bisogno della disciplina dei finanziatori privati, cioè le banche. La stessa teoria che ha prodotto la crisi più grave degli ultimi 75 anni”. William Black, spiega una sua biografia, è un regolamentatore bancario statunitense che negli anni Ottanta ha spedito in carcere decine di banchieri coinvolti in truffe ai cittadini. Inoltre è stato una delle principali figure oggetto dell’attenzione del regista Michael Moore. Il leit motiv di questa tre giorni riminese, che si concluderà oggi, è il rischio della‘argentinizzazione’ dell’Italia: “Quello che è successo in Argentina deve essere per tutti noi una lezione: accettare di legarsi a una valuta estera o una valuta sovranazionale – ha spiegato l’economista francese Alain Parguez riferendosi all’euro – è la strada per il crollo dell’economia e l’asservimento totale di un paese”. Sulla stessa linea di pensiero, naturalmente, è l’organizzatore dell’evento. “In Italia non c’è il rischio, ma la certezza dell’argentinizzazione. Il rischio default c’era e c’è, e i tamponi messi finora non funzioneranno”. L’evento riminese, che oltre a Parguez e a Black vede la partecipazione di altri tre economisti,Stephanie Kelton, Marshall Auerback e Michael Hudson terminerà con altre lezioni dei cinque relatori.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/02/26/largentinizzazione-rischio-default-2000-lezione-economia-video/193851/ _______________________________________________________________________________

Modern Monetary Theory, un approccio anticonvenzionale alle strategie economiche. DI DYLAN MATTHEWS – 23 FEBBRAIO 2012PUBBLICATO IN: USA TRADUZIONE DI ITALIADALLESTERO.INFO

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Circa undici anni fa, ricorda James K. “Jamie” Galbraith, centinaia di suoi colleghi economisti risero di lui. Davanti a tutti. Alla Casa Bianca. Era l’aprile del 2000, e Galbraith era stato invitato dal Presidente Bill Clinton a parlare in una commissione sul surplus di bilancio. La

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scelta era caduta su Galbraith per mera logica. Professore di politica presso l’Università del Texas ed ex economista capo della Joint Economic Committee, scriveva di frequente articoli e presiedeva al Congresso. Ma c’è di più. Suo padre, John Kenneth Galbraith, era stato il più famoso economista della sua generazione: professore ad Harvard, scrittore di best-seller e amico fidato della famiglia Kennedy. Jamie si è fatto carico di proteggere e promuovere l’eredità paterna. Ma se Galbraith spiccava in quella commissione era a causa del suo messaggio non convenzionale. La maggior parte degli economisti considerava il surplus di bilancio come un dato favorevole: un’opportunità per ripagare il debito, tagliare le tasse, rinforzare i diritti acquisiti o per dedicarsi a nuovi programmi di spesa. Lui lo vedeva invece come un pericolo: se il governo ha un surplus, il denaro si accumula nelle casse del governo invece che nelle mani della gente comune e delle aziende, dove dovrebbe essere speso aiutando così l’economia.“Io dicevo che secondo gli economisti la presenza di un surplus significava un aumento della pressione fiscale”, continuava, “e loro con 250 economisti se la ridacchiavano”. Galbraith afferma che la recessione del 2001 – seguita a qualche anno di surplus – ha dimostrato che aveva ragione.

A distanza di dieci anni, quando il deficit in forte crescita del bilancio federale ha ormai assottigliato le differenze politiche ed economiche a Washington, Galbraith è preoccupato soprattutto dei pericoli di contenerlo. È una figura chiave in una discussione centrale tra gli economisti in merito al fatto se i deficit siano importanti e in che modo. La questione ha diviso gli economisti americani più illustri e ispirato appassionati dibattiti nei circoli accademici. Qualunque di questi due punti di vista venga sposato dai legislatori potrebbe avere effetti su tutto, dall’occupazione, ai prezzi, alle tasse. In contrasto sia con i “falchi del deficit”, secondo cui è necessario tagliare le spese e aumentare le entrate per attenuare il deficit, sia con le “colombe del deficit”, secondo cui le misure di austerità vanno prese solo quando l’economia si è risollevata, Galbraith si può definire un “gufo del deficit”. I gufi certamente non pensano che il bilancio vada riequilibrato subito. In realtà pensano che non ci sia proprio bisogno di riequilibrarlo. I gufi vedono la spesa del governo che porta al deficit come connaturata alla crescita economica, anche in tempi non di crisi. Il termine non è di Galbraith, ma è stato inventato da Stephanie Kelton, professoressa presso l’Università del Missouri a Kansas City, che insieme a Galbraith fa parte di un piccolo gruppo di economisti che hanno concluso che ognuno – membri del Congresso, componenti di think-tank, l’intero circuito della professione economica – ha equivocato il modo con il quale il governo interagisce con l’economia. Se la loro teoria – soprannominata “Modern Money Theory” o MMT – è giusta, allora tutto quello che sappiamo sul bilancio, le tasse e la Banca Federale è sbagliato.

Le radici keynesiane Il termine “Modern Money Theory” (“Teoria della Moneta Moderna”) è stato inventato da Bill Mitchell, un economista australiano forte sostenitore della teoria, ma le radici sono molto più antiche. Il nome fa riferimento a John Maynard Keynes, il fondatore della moderna macroeconomia. Nel ”Trattato sulla Moneta”, Keynes affermava che “tutti gli Stati moderni” hanno avuto il potere di decidere che cosa è denaro e che cosa non lo è per almeno 4.000 anni. Questa affermazione, cioè che il denaro è “una creatura dello Stato” è centrale nella teoria. In un sistema a “moneta fiduciaria” come quello in uso negli Stati Uniti, tutto il denaro è creato esclusivamente dal governo, che lo stampa e lo mette in circolazione. Ne consegue che il governo non può rimanerne privo. Ne può sempre stampare di più. Ciò non significa però che le tasse non siano più necessarie. Le tasse infatti sono la chiave per far funzionare l’intero sistema. Il bisogno di pagare le tasse spinge la gente a utilizzare la valuta stampata dal governo. Le tasse sono anche necessarie per evitare che l’economia si surriscaldi. Se la domanda del consumatore supera la scorta dei beni disponibili, i prezzi saliranno e l’inflazione si farà strada (i prezzi salgono mentre il potere d’acquisto scende). In questo caso, le tasse possono comprimere la spesa e mantenere i prezzi bassi.

Ma se la teoria è corretta, non c’è ragione per cui la quantità di denaro che il governo riceve debba andare a bilanciare quella che spende. Infatti i sostenitori della MMT propongono grossi tagli alle tasse e alla spesa in deficit proprio durante i momenti di recessione economica. Warren Mosler, manager di fondi speculativi che vive a Saint Croix nelle Virgin Island americane — e non a caso, trattandosi di una sorta di Paradiso Fiscale — è un sostenitore della MMT. Il suo nome è soprattutto legato a quello di una casa automobilistica specializzata nella costruzione di auto sportive e alle sue frequenti e irruente campagne elettorali (in occasione delle elezioni per il rinnovo del Senato del Connecticut nel 2010 ha raccolto poco meno dell’1% dei voti come candidato indipendente). Mosler sostiene la necessità di sospendere la payroll tax (“Imposta sui Salari”, n.d.T.) destinata al Social Security

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Trust Fund e propone invece il compenso orario di 8 dollari per chiunque intenda svolgere mansioni amministrative per arginare l’attuale fase di contrazione.

I seguaci della teoria provengono principalmente dalle fila di alcune istituzioni di rilievo: il dipartimento di Economia dell’Università del Missouri di Kansas City e il Levy Economics Institute del Bard College, che hanno ricevuto finanziamenti proprio da Mosler. Ma il movimento sta riscuotendo rapidamente successo grazie soprattutto ad una vera e propria esplosione di blog che trattano di economia. Fra questi, Naked Capitalism, un blog irriverente e passionale che affronta argomenti legati alla finanza e all’economia e che vanta circa 1 milione di lettori al mese, e che vede sostenitori del calibro di Kelton, L. Randall Wraye – Professore alla University of Missouri – e Scott Fullwiler, Professore al Wartberg College. Lo stesso si può dire di New Deal 2.0, un bizzarro blog di economia concepito dal think tank liberale del Roosevelt Institute. I lettori di questi blog hanno abbracciato la teoria con grande entusiasmo e i loro commenti affollano le sezioni dei principali blog di economia quando entra in ballo la teoria. Firedoglake, uno dei principali blog dal taglio liberale, e l’op-ed del New York Times si sono riallacciati a quanto detto da Wray. “Anche se la crisi ha giocato un ruolo importante, è stata la blogosfera a fare la differenza,” sostiene Wray. “Perché, soprattutto, siamo riusciti a far pubblicare la teoria. E far pubblicare voci fuori dal coro è una vera impresa”, ha aggiunto.

È stato soprattutto Galbraith a farsi portavoce del messaggio diffondendolo ovunque, dal Daily Beast al Congresso. Ed è stato lui a consigliare i legislatori, compresa l’ex Presidente della Camera dei Rappresentanti Nancy Pelosi (Distretto della California), all’arrivo della crisi finanziaria del 2008. La scorsa estate ha partecipato alle consultazioni con un gruppo di membri della Camera in merito ai negoziati sulla soglia del debito. Galbraith è stato anche uno dei pochi economisti interpellati dall’amministrazione Obama quando era in corso la pianificazione del pacchetto di incentivi. “Sostenendo questa posizione, Jamie mette tutto in gioco”, dice Kelton. “Penso che la sua sia stata una mossa molto coraggiosa, in gioco ci sono il suo nome e la sua reputazione.” Anche Wray e gli altri membri del gruppo sostengono di essersi confrontati con i legislatori, e l’impressione generale è che è giunto il momento che la teoria si faccia largo. “La nostra presenza sul web, poco a poco, mese dopo mese, sta prendendo piede,” sostiene Fullwiler.

Una teoria discordante L’idea che la spesa pubblica in deficit possa aiutare a portare un’economia fuori dalla recessione è vecchia. Era un punto chiave de “La Teoria Generale dell’Occupazione, dell’Interesse e della Moneta” di Keynes. Era la giustificazione principale per il pacchetto-incentivi del 2009 e molti autodefinitesi keynesiani, come il consigliere economico alla Casa Bianca Christina Romer e l’economista Paul Krugman, hanno sostenuto che c’è di più in cantiere.

Ci sono, naturalmente, dei detrattori. Una spaccatura chiave tra le fila dei keynesiani risale agli anni ‘30. Un gruppo di economisti, tra cui i premi Nobel John Hicks e Paul Samuelson, cercarono di incorporare le visioni di Keynes nell’economia classica. Hicks costruì un modello matematico che riassumeva la teoria di Keynes, e Samuelson provò a far sposare la macroeconomia di Keynes (che studia il comportamento dell’economia come un insieme) alla microeconomia convenzionale (che guarda a come le persone e le aziende allocano le risorse). Questo pose le basi per la maggior parte della teoria macroeconomica a partire da allora. Persino oggi, i “Nuovi keynesiani”, come Greg Mankiw, un economista di Harvard che ha lavorato come principale consulente economico di George W. Bush, e il marito della Romer, David, stanno esplorando vari modi per fondare la teoria macroeconomica keynesiana nel comportamento, a livello ‘micro’, di aziende e consumatori.

I teorici della MMT rimangono fermi sulla tradizione fondata dai “post-keynesiani” come Joan Robinson, Nicholas Kaldor e Hyman Minsky, i quali insistevano che la teoria di Samuelson fosse fallimentare perché i suoi modelli agiscono come se, con le parole di Galbraith, “il settore bancario non esistesse”. Anche le connessioni sono personali. La tesi di dottorato di Wray è stata supervisionata da Minsky, e Galbraith ha studiato con Robinson e Kaldor all’Università di Cambridge. Egli sostiene che la teoria è parte di una “tradizione alternativa, che passa per Keynes, mio padre e Minsky”. E mentre i sostenitori della Teoria Monetaria Moderna prendono Keynes come punto di partenza e sostengono un’aggressiva spesa pubblica in deficit durante le recessioni, non sono quel tipo di keynesiani. Anche gli economisti tradizionali che sostengono una maggiore spesa pubblica in deficit sono riluttanti

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all’accettare i dogmi centrali della MMT. Prendete Krugman, che regolarmente riesce a coinvolgere economisti di ogni tendenza in un dibattito vivace. Egli ha sostenuto che perseguire larghi deficit nel bilancio durante periodi di boom economico potrebbe portare a iperinflazione. Mankiw riconosce il punto della teoria secondo cui il governo non potrebbe mai finire senza soldi, ma non pensa che questo significhi la stessa cosa che intendono i suoi sostenitori. Tecnicamente è vero, dice, che il governo può stampare tanti soldi in modo illimitato. Il rischio è che così facendo potrebbe innescare un alto tasso di inflazione. Questo “manderebbe in bancarotta gran parte del sistema bancario”, dice. “L’inadempienza, nonostante sia dolorosa, potrebbe in effetti rappresentare un’opzione migliore”.

La critica di Mankiw va al cuore del dibattito sulla MMT e su come, quando e anche se eliminare i nostri deficit correnti. Quando il governo spende in deficit, emette titoli che devono essere acquistati sul mercato aperto. Se il carico del debito diventa troppo grande, dicono gli economisti tradizionali, gli acquirenti dei titoli chiederanno tassi di interesse maggiori, e il governo si ritroverà a dover pagare una somma maggiore in pagamenti di interessi, che a sua volta si va ad aggiungere al carico del debito. Per uscire da questa impasse, la Banca Federale, che gestisce la fornitura di denaro della nazione e il credito e siede al centro del suo sistema finanziario, potrebbe acquistare i titoli a tassi più bassi, oltrepassando il mercato privato. La Banca Federale non può comprare titoli direttamente dal Tesoro, una restrizione legale piuttosto che economica. Ma la Banca Federale comprerebbe i titoli con il denaro che essa stessa emette, il che significa che la scorta di denaro aumenterebbe. Con ciò, l’infazione aumenterebbe, e così anche le prospettive di un’iperinflazione. “Non si può semplicemente finanziare qualsiasi livello di governo spendendo denaro, perché si otterrebbe un’inflazione galoppante e a lungo andare il tasso di inflazione aumenterebbe più velocemente del tasso a cui si stanno estraendo risorse dall’economia” dice Karl Smith, economista dell’Università della Nord Carolina. “Si tratta del classico problema di iperinflazione che si è verificato in Zimbabwe e nella Repubblica di Weimar”.

Il rischio di inflazione trattiene la maggior parte degli economisti e dei legislatori sulla stessa lunghezza d’onda per quanto riguarda i deficit: nel medio termine, se tutto il resto resta uguale, è fondamentale tenerli bassi. Gli economisti nel campo della MMT riconoscono che i deficit possono a volte portare a inflazione. Ma sostengono che questo può accadere solo quando l’economia è al massimo dell’impiego, quando tutti coloro che sono capaci e volenterosi di lavorare sono impiegati e nessuna risorsa (manodopera, capitale, etc) rimane inutilizzata. Nessun esempio moderno di tale problema viene alla mente, dice Galbraith. “L’ultima volta che abbiamo avuto ciò che potrebbe plausibilmente essere chiamato un problema serio di inflazione causato dalla domanda è stato probabilmente durante la prima guerra mondiale”, afferma Galbraith. “È passato molto tempo da quando questa possibilità ipotetica è stata in effetti osservata, ed è stata osservata solo sotto condizioni che non si ripeteranno mai”.

Le obiezioni dei critici Secondo Galbraith e altri, la politica monetaria condotta al momento dalla Banca Federale non funziona. La Banca Federale generalmente usa una o due leve per aumentare la crescita e l’impiego. Può abbassare i tassi di interesse a breve termine acquistando titoli governativi a breve termine sul mercato aperto. Se i tassi a breve termine sono vicini allo zero, come sono ora, la Banca Federale può provare la “facilitazione quantitativa” o acquisti su larga scala di capitali (come i titoli) dal settore privato, compresi i Buoni del Tesoro a lungo termine, usando denaro che la Banca Federale stessa crea. Questo è quello che la Banca Federale ha fatto nel 2008 e nel 2010, in un tentativo di emergenza per dare una spinta all’economia.

Secondo la MMT, la Banca Federale che acquista in blocco Buoni del Tesoro sta portando avanti, secondo le parole di Galbraith, una “operazione di contabilità” che non aggiunge nessuna entrata nelle famiglie americane e che pertanto non può essere inflazionaria. “Mi è sembrato chiaro che… inondare l’economia con denaro acquistando titoli governativi… non porterà a nessun cambiamento nei comportamenti di alcuno”, dice Gabraith. “Si arriverebbe solo ad avere riserve di denaro che resterebbero ferme nel sistema bancario, e ciò è esattamente quello che è accaduto finora”.

I teorici semplicemente “non hanno idea di come funzioni la facilitazione quantitativa” afferma Joe Gagnon, un economista del Peterson Institute, che ha gestito il primo round di facilitazione quantitativa della Banca Federale nel 2008. Anche se il denaro che la Banca

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Federale usa per acquistare titoli resta nelle riserve bancarie – o il denaro che è tenuto in riserva – aumentare quelle riserve dovrebbe portare ancora a un indebitamento maggiore e ripercuotersi su tutto il sistema. Gli economisti classici sono altrettanto perplessi da un’altra affermazione della teoria: che i surplus di bilancio sono di per sé un male per l’economia. Secondo la Modern Monetary Theory, quando il governo è in surplus ha un risparmio netto positivo, e questo implica che il settore privato si indebiti. Il governo in effetti, sta “prendendo soldi dalle tasche private e le costringe a compensare facendole indebitare sempre di più”, afferma Galbraith, ripetendo i suoi commenti alla Casa Bianca. Gli economisti classici trovano quest’argomentazione divertente come quando Galbraith la presentò a Clinton. “Ci sono due parole per controbattere: Australia e Canada”, dice Gagnon. “Se Jamie Galbraith le osservasse capirebbe immediatamente che si sbaglia. L’Australia ha avuto per molto tempo e ha tuttora un surplus di bilancio, anzi non ha debito pubblico di alcun tipo, ed è l’economia più sana e con la più rapida crescita al mondo”. Il Canada, in modo simile, ha avuto forti surplus durante la sua forte crescita economica.

Il fatto stesso che si sia occupato di tali questioni ha fatto meritare a Galbraith il marchio di “grande eccentrico” quando da Cambridge approdò per un PhD a Yale, che aveva un dipartimento di economia keynesiana più tradizionale. Galbraith considera il successo di Samuelson e dei suoi alleati come dovuto a una “dottrina economica di massa, della quale Samuelson era il grande maestro… qualcosa che la scuola di Cambridge non avrebbe mai potuto fare”. Gli economisti tradizionali sono riluttanti a cedere terreno, anche in casi come la cosiddetta “Controversia sul capitale delle due Cambridge” degli anni Sessanta. Samuelson discusse con i post-keynesiani e, per sua stessa ammissione, perse. Tali questioni sono state, secondo le parole di Galbraith, “ritoccate, come Trotsky” dalla storia dell’economia. Ma la relazione della stessa MMT con i casi del mondo reale può essere un po’ imprevedibile. Mosler, che gestiva fondi speculativi, attribuisce il suo ruolo nel movimento a un’epifania dei primi anni ‘90, quando nei mercati stava crescendo la preoccupazione che l’Italia stesse rischiando il fallimento. Mosler immaginava che l’Italia, che a quei tempi ancora stampava la propria moneta, la lira, poteva evitare il fallimento finché era in grado di stampare altre lire. Investì di conseguenza, e quando l’Italia non andò in fallimento, intascò una somma considerevole. “C’era un’enorme quantità di denaro da guadagnare se riuscivi a convincerti che non potevano andare in fallimento”, afferma.

Più tardi in quello stesso decennio, imparò che c’era anche un’enorme quantità di denaro che si poteva perdere. Quando si affacciarono simili timori riguardo alla Russia, scommise di nuovo contro il fallimento. Nonostante battesse moneta propria, la Russia andò in fallimento, costringendo Mosler a liquidare uno dei suoi fondi speculativi e a cancellare molti dei suoi 850 milioni di dollari in investimenti nel Paese. Mosler attribuisce il fatto alla politica del tasso di cambio fisso della Russia di quel tempo e insiste che se avesse agito come uno stato con la sua propria moneta, il fallimento avrebbe potuto essere evitato. Ma questo caso potrebbe anche dimostrare ciò che sottolineano i detrattori: il fallimento, anche se sempre tecnicamente evitabile, è a volte la migliore opzione possibile.

[Articolo originale "Modern Monetary Theory, an unconventional take on economic strategy" di Dylan Matthews]

http://italiadallestero.info/archives/14213

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No  al  pareggio  di  bilancio  in  Costituzione  

 

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Nei prossimi giorni il Parlamento italiano introdurrà nella Costituzione il "pareggio di bilancio": si tratterà dell’ultimo omaggio offerto alle “idee fallite” che stanno alla base dell’attuale crisi e che tuttora ispirano le politiche recessive e di austerity in tutta Europa. Perchè la stampa e le sinistre tacciono? di Lanfranco Turci Nei prossimi giorni il Senato sarà chiamato ad approvare in seconda lettura le modifiche all’art. 81,97,117 e119 della Costituzione in materia di pareggio di bilancio. Si tratterà dell’ultimo passaggio previsto dall’art. 138 C. dal momento che la Camera del Deputati ha già effettuato le due votazioni previste e il Senato ha già votato in prima lettura il 15 dicembre scorso. In tutte e tre le occasioni il Parlamento si è espresso con un voto quasi unanime. Le modifiche, secondo cui «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle

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fasi favorevoli del ciclo economico» si ispirano alle dottrine dominanti in questa fase della politica europea guidata dalle destre conservatrici e neoliberiste. Nel novembre del 2010 una analoga proposta costituzionale avanzata dai Repubblicani negli USA, per bloccare la politica di stimoli economici del presidente Obama, fu duramente contrastata da un alto numero di economisti, fra cui i Premi Nobel Kenneth Arrow, Peter Diamond, Eric Maskin e Robert Solow. Il capo del governo britannico, David Cameron, ha osservato recentemente che norme del genere equivalgono all’abolizione per legge del pensiero di Keynes. Comunque si voglia interpretare Keynes, non c’è dubbio che si tratta dell’ultimo omaggio offerto alle “idee fallite” che stanno alla base dell’attuale crisi e che tuttora ispirano le politiche recessive e di austerity dettate dalla politica tedesca e dalla tecnocrazie europea. Così come non c’è dubbio che le implicazioni delle nuove norme proposte siano molto rilevanti e compromettano gravemente per il futuro le libertà di scelta delle politiche economiche e di sviluppo del nostro paese, anche quando ci saremo auspicabilmente liberati del vincoli sottoscritti dai governi Berlusconi e Monti con il Fiscal Compact. E non vale la scusante che si tratterebbe di norme lasche, che si potranno facilmente aggirare una volta che sia cambiato il clima politico-economico italiano ed europeo. Non è vero. Ma, se anche così fosse, ci sarebbe da essere allarmati per il modo irresponsabile con cui si interviene sul testo costituzionale. Quello che ancor più preoccupa è poi il silenzio corale che ha accompagnato questo processo di modifica costituzionale in corso ormai da sei mesi, mentre in altri paesi europei su questi temi e sul connesso Fiscal Compact si stanno sviluppando discussioni e confronti assai vasti e in Francia si gioca la stessa campagna elettorale per le presidenziali. Questo fatto lascia allibiti. In un Paese come il nostro in cui su questione di chiacchiericcio politico si fanno spesso campagne di stampa ampiamente sopra le righe, su un tema di così rilevante portata, che tocca un cardine della Costituzione e la strumentazione della politica economica presente e futura, il silenzio è totale. Questo mi fa pensare che, da un lato, in buona parte dei parlamentari, soprattutto fra quelli del centro-sinistra, non ci sia affatto la consapevolezza di ciò che si sta approvando. Dall’altro lato che operi un silenzio interessato dei grandi mezzi di comunicazione, il cui orientamento politico-culturale è ampiamente a favore della politica neoliberista e del governo Monti. In sostanza, siamo a metà strada tra l’incultura e il calcolo politico. Per queste ragioni un mese fa il Network per il socialismo europeo (associazione che raccoglie circoli e militanti della sinistra impegnati per il rinnovamento e la riorganizzazione della sinistra italiana nell’ambito del socialismo europeo) ha deciso di provare a rompere questo muro di silenzio che colpevolmente circonda le votazioni in corso nel Parlamento. Abbiamo perciò rivolto un appello ai Senatori della Repubblica affinché sia

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salvaguardato il diritto del popolo di intervenire sulle modifiche della Costituzione. Si badi bene il nostro appello, pur illustrando le obiezioni di merito a quelle modifiche, non punta a rovesciare all’ultimo passaggio l’orientamento favorevole consolidatosi nelle prime tre votazioni di Camera e Senato. Abbiamo posto invece ai Senatori un problema di coscienza e di sensibilità democratica. Come è noto, ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione, riapprovando il nuovo articolo 81 con la maggioranza di due terzi si escluderebbe la possibilità di promuovere un pronunciamento del popolo attraverso il referendum confermativo. È ammissibile che ciò avvenga su un tema così importante? È ammissibile che ciò avvenga per opera di un Parlamento delegittimato dalla crisi politica e morale che sta squassando i partiti e le istituzioni? È ammissibile che i due terzi siano calcolati su assemblee parlamentari che, elette con una legge ipermaggioritaria, non rappresentano milioni di elettori che non hanno potuto far pesare il loro voto alle ultime elezioni politiche? Il Network per il socialismo europeo chiede dunque a tutti i senatori che avvertano la fondatezza delle nostre osservazioni di accordarsi in maniera bipartisan per evitare la maggioranza dei due terzi e lasciare aperta la possibilità di una futura verifica popolare. (10 aprile 2012)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/no-al-pareggio-di-bilancio-in-costituzione/

L’Europa torni a scoprire l’attualità di Keynes

di Laura Pennacchi, da l'Unità, 29 dicembre 2011 È stupefacente che l’Italia e l’Europa stiano precipitando in una gravissima recessione senza fare niente per arrestarla e, anzi, aggravandola con politiche restrittive draconiane, irrimediabilmente destinate a comprimere i consumi e gli investimenti. Questo è accaduto al vertice europeo dell’8-9 dicembre, sotto l’imperio del duo Merkel-Sarkozy. In quella sede l’ortodossia mirata a un’austerità fiscale generalizzata è risultata addirittura rafforzata, spingendo l’Europa nel «vicolo cieco» di cui parla Giuliano Amato. E ciò mentre indicatori tutti al negativo la disoccupazione esplosiva, la decrescita del commercio internazionale, lo sgonfiamento del boom dei paesi emergenti compresa la Cina, la moltiplicazione delle misure protezionistiche inducono il Fondo Monetario Internazionale ad evocare il rischio che si ripeta qualcosa di molto simile alla Grande Depressione degli anni 30, con il suo corredo di congiunzione tra recessione e tragedie totalitarie.

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In questa situazione non dovrebbe sfuggire a nessuno la rinnovata centralità della questione del lavoro, non come ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro (come vorrebbero i sostenitori dell’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), ma come riattivazione di «piena e buona occupazione» con un Piano straordinario di creazione di lavoro per giovani e donne. Puntare sulla «piena» occupazione, infatti, è oggi il solo modo per far ripartire la crescita, così come generare «buona» occupazione è il solo modo per avere non una crescita quale che sia ma un nuovo modello di sviluppo. Non a caso furono politiche occupazionali su larga scala e di taglio non tradizionale quelle con cui il New Deal di Roosevelt sconfisse la depressione degli anni 30. Vi sono, dunque molte buone ragioni per compiere un salto culturale e riscoprire l’attualità di Keynes, il quale giunse a parlare di «socializzazione dell’investimento» e di «socializzazione dell’occupazione». Oggi, mentre la crisi globale scoppiata nel 2007-2008 sposta la sua carica distruttiva sull’Europa aggredendo direttamente il debito sovrano dei Paesi europei e mettendo in forse la stessa sopravvivenza dell’euro, si riproducono condizioni impressionantemente analoghe a quelle studiate da Keynes: la distruzione di valore patrimoniale netto e l’illiquidità feriscono tutti gli operatori, gli investimenti crollano e i profitti flettono, la riduzione del reddito e la disoccupazione di massa scaturiscono dalla trasmissione delle turbolenze finanziarie all’economia reale e dalla deflazione da debito. Per evitare che le forze destabilizzanti prendano il sopravvento l’ipotesi keynesiana dell’intrinseca instabilità del capitalismo prevede, anziché solo nuove regolazioni e liberalizzazioni pur opportune, la necessità di uno stimolo fiscale pubblico di grandi dimensioni, del tipo di quello tentato da Obama negli Usa. Quell’intervento diretto dello Stato (che oggi dovrebbe configurarsi alla scala di una statualità europea) che, preteso anche e soprattutto dai neoliberisti quando si tratta di salvare le banche e gli operatori finanziari, per altre finalità si vorrebbe far «arretrare» con tagli di spesa e privatizzazioni. Keynes, invece, consiglierebbe piani di spesa pubblica diretta per il lavoro e per gli investimenti, finanziati in disavanzo con nuova moneta, distinguendo tra debito «buono» (quello, per l’appunto, per nuovi investimenti) e debito «cattivo» (quello per spesa pubblica corrente improduttiva) e tenendo congiunti il lato della domanda e quello dell’offerta, tanto più in una fase di squilibri nelle capacità produttiva tra eccessi in alcuni settori e deficit in altri. Per Keynes solo un regime di pieno impiego dei fattori della produzione giustifica il principio del pareggio di bilancio, che in ogni caso non può valere per gli investimenti pubblici, vero traino dello sviluppo economico in una fase in cui si tratta non solo di rilanciare la crescita ma di cambiarne la qualità e la natura. La «socializzazione degli investimenti», destinata a riqualificare l’offerta e ad aumentarne la produttività, al tempo stesso sostiene la domanda contenendo l’inflazione e riducendo nel tempo il rapporto debito/pil. La «socializzazione dell’occupazione» fa sì che l’operatore pubblico si doti di un «piano del lavoro» per la miriade di obiettivi che attendono solo agenzie e strutture che se ne prendano cura: tecnologie verdi, energia, infrastrutture, trasporti, salute, educazione, servizi sociali.

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Per tutto ciò a un ripensamento strategicamente innovativo delle problematiche del lavoro e dell’occupazione deve essere orientato un armamentario in grado di sottrarre il «riformismo» a un tardo blairismo e a un veteroliberismo e di interpretarlo alla luce delle altissime sfide del presente e del futuro: una Tobin tax che punti alla definanziarizzazione di economie eccessivamente finanziarizzate, la tassazione dei patrimoni, il ripristino di un controllo sui movimenti di capitale volto a rendere «intelligente» la globalizzazione sregolata e iniqua che abbiamo avuto fin qui, la mutualizzazione del debito europeo, la riaffermazione in Europa del ruolo degli organismi comunitari e la ripartenza dell’unificazione politica. (29 dicembre 2011) http://temi.repubblica.it/micromega-online/l%E2%80%99europa-torni-a-scoprire-l%E2%80%99attualita-di-keynes/

La recessione, i tagli e la lezione di Keynes

di Paul Krugman, da Repubblica, 3 gennaio 2012 “Il momento giusto per l'austerità al Tesoro è l'espansione, non la recessione”: così dichiarò nel 1937 John Maynard Keynes, proprio quando da lì a poco Franklin Delano Roosevelt avrebbe dimostrato la correttezza di questo suo dogma cercando di rimettere in sesto il budget troppo presto e spingendo in una profonda recessione l'economia che fino a quel momento si stava riprendendo con continuità. Tagliare la spesa pubblica in un'economia depressa deprime ancor più l'economia. Per l'austerità si dovrebbe attendere che sia già ben in corso una forte ripresa. Purtroppo, alla fine del 2010 e all'inizio del 2011, le autorità e i politici di buona parte del mondo occidentale hanno creduto di sapere il fatto loro, di doversi concentrare sui deficit e non sull'occupazione, quantunque le loro economie avessero a stento iniziato a riprendersi dalla depressione che aveva fatto seguito alla crisi finanziaria. E seguendo questo principio anti-keynesiano ancora una volta hanno dimostrato che Keynes aveva ragione. Dichiarando confermato il dogma economico keynesiano, vado naturalmente contro l'opinione dei più. A Washington, in particolare, il fallimento del pacchetto di stimoli messo a punto da Obama per creare un boom occupazionale in linea generale pare aver dimostrato che la spesa pubblica non può creare posti di lavoro. Coloro tra noi che avevano fatto bene i calcoli, però, si sono resi conto fin dall'inizio che il Recovery and Reinvestment Act del 2009 (oltre un terzo del quale, tra l'altro, ha assunto la forma di tagli fiscali relativamente inefficaci) era di troppa esigua entità, data la gravità della recessione, e avevano in aggiunta anticipato le ripercussioni politiche che ne sarebbero derivate.

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Per tutto ciò la vera riconferma della validità dell'economia keynesiana non è arrivata dai poco determinati tentativi del governo federale statunitense di dare nuovo impulso all'economia – tentativi oltretutto in buona parte vanificati dai tagli a livello statale e locale –, ma è arrivata dalle nazioni europee come la Grecia e l'Irlanda costrette a imporre una draconiana austerità fiscale come presupposto per ottenere prestiti d'emergenza. Entrambi questi paesi hanno subito recessioni economiche di considerevole entità, equiparabile alla Grande Depressione, e un calo a doppia cifra del rispettivo Pil. Non era previsto che le cose dovessero andare così, secondo l'ideologia prevalente nel nostro dibattito politico. Nel marzo 2011 lo staff repubblicano del Congress Joint Economic Committee ha reso noto un rapporto intitolato “Spend less, owe less, grow the economy” (spendi meno, fai meno debiti, fai crescere l'economia), che minimizzava le preoccupazioni di chi era convinto che i tagli alla spesa pubblica in periodo di recessione avrebbero soltanto aggravato quest'ultima, e sosteneva al contrario che tagliare la spesa avrebbe migliorato la fiducia dei consumatori e delle imprese e che ciò avrebbe portato inevitabilmente a una crescita più rapida, non più lenta. Eppure, ormai si sarebbe dovuto avere maggiore buonsenso: i presunti esempi storici di un' “austerità espansionistica” con i quali puntellavano le loro tesi erano già stati completamente demoliti. Oltretutto c'era anche il caso alquanto imbarazzante di molti esponenti della destra che alla metà del 2010 avevano dichiarato il caso irlandese una storia di grande successo un po' troppo precocemente, documentando le virtù dei tagli alla spesa per assistere poi al forte aggravarsi della recessione irlandese. E il livello di fiducia provato dagli investitori si è completamente volatilizzato. È sorprendente, a questo proposito, il fatto che all'inizio di quest'anno le cose si siano ripetute tali e quali: si è sbandierato e gridato ai quattro venti che l'Irlanda aveva svoltato davvero, e dimostrato di conseguenza che l'austerità funziona. Poi, però, le cifre hanno assestato un brutto colpo e si è rimasti ancora una volta delusi. Malgrado ciò l'insistenza a tagliare immediatamente la spesa pubblica ha continuato a prevalere nel dibattito politico, con effetti perversi sull'economia statunitense. È vero: a livello federale non ci sono state nuove drastiche misure di austerità, ma si è registrato un sacco di austerità “passiva” quando lo stimolo economico voluto da Obama si è stemperato e i governi statali e locali a corto di liquidi hanno continuato a tagliare la spesa. Adesso qualcuno potrebbe sostenere che Grecia e Irlanda non avevano altra scelta se non quella di imporre l'austerità, che non avevano alternative se non dichiarare il fallimento e uscire dall'euro. Un'altra lezione che il 2011 ci ha insegnato, però, è che l'America aveva e ha un'alternativa. Washington sarà anche ossessionata dal deficit, ma i mercati finanziari stanno se non altro lanciando un segnale molto chiaro: dovremmo prendere più soldi in prestito. Ancora una volta, anche in questo caso, non era previsto che le cose andassero così. Il 2011 è iniziato per noi con severi moniti a non ricalcare le orme della crisi debitoria greca, che da noi si sarebbe materializzata non appena la Federal Reserve avesse smesso di comperare bond, o quando le agenzie di

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rating avessero declassato la nostra tripla “A”, o non appena la “supercommissionetruffa” non fosse riuscita a trovare un accordo, o chissà che altro ancora. Invece la Fed a giugno ha posto fine al proprio programma di acquisto dei bond; Standard & Poor's ad agosto ha declassato il rating americano; la supercommissione a novembre è arrivata a un punto morto; ma le spese legate ai prestiti hanno semplicemente continuato a scendere. In effetti a questo punto i bond statunitensi protetti dall'inflazione rendono un interesse negativo. E gli investitori sono disposti a pagare l'America affinché conservi i loro soldi. La conclusione di tutto ciò è che il 2011 è stato l'anno nel quale la nostra élite politica è rimasta ossessionata dai deficit a breve termine, che non sono un problema reale, e così facendo ha invece inasprito notevolmente i veri problemi, che sono un'economia depressa e la disoccupazione di massa. La buona notizia, per quel che vale, è che il presidente Barack Obama finalmente si è deciso nuovamente a contrastare l'austerità precipitosa e pare essere in procinto di vincere questa battaglia politica. Forse, in uno di questi prossimi anni, potremmo davvero finire col recepire il consiglio di Keynes, tanto valido oggi quanto lo era 75 anni fa. (4 gennaio 2012) http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-recessione-i-tagli-e-la-lezione-di-keynes/

Cinque premi Nobel: “Pareggio di bilancio? Una camicia di forza per l’economia” I cinque economisti lo scrivono in un appello al presidente Usa Obama nel quale tutti si ribellano all'idea che uno Stato non debba, e non possa, spendere più di quanto entra nelle sue casse. "Sbagliato metterlo nella Costituzione"

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Kenneth Arrow e Robert Solow

Il pareggio di bilancio è “una camicia di forza economica” e non c’è alcun bisogno di inserirlo nella Costituzione. La norma rappresenta “una scelta politica estremamente improvvida… (con) effetti perversi in caso di recessione”. Cercare di raggiungere il pareggio di bilancio è, nella fase attuale, pericoloso. Perché “nei momenti di difficoltà diminuisce il gettito fiscale e aumentano alcune spese tra cui i sussidi di disoccupazione. Questi ammortizzatori sociali fanno aumentare il deficit, ma limitano la contrazione del reddito disponibile e del potere di acquisto” Lo scrivono cinque premi Nobel per l’economia (Kenneth Arrow, Peter Diamond, William Sharpe, Eric Maskin, Robert Solow), che in un appello al presidente Barack Obama – diffuso dal sito Keynesblog.com – si ribellano all’idea sempre più in voga in questi tempi di crisi economica: e cioè che uno Stato non debba, e non possa, spendere più di quanto entra nelle sue casse. La norma fa già parte, in forme diverse, delle costituzioni di Germania, Estonia, Svizzera e Polonia. In Ungheria il governo di Viktor Orban ha stabilito l’inserimento del pareggio di bilancio nella costituzione a partire dal 2016. E anche in Italia il principio dell’equilibrio tra entrate e spese guadagna sempre più consensi. Dopo la promessa di Silvio Berlusconi, nel 2011, la scorsa settimana la Camera dei deputati ha votato a larga maggioranza (489 voti a favore, 3 contrari e 19 astenuti) un DDL che vincola le autonomie territoriali “ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea”. E’ però soprattutto negli Stati Uniti che la discussione sul “balanced budget” ha raggiunto negli ultimi anni i toni più accesi. Il tema acquistò forza all’interno di settori consistenti del partito repubblicano già negli anni Sessanta, come reazione alle politiche “guns and butter” di Lyndon Johnson, che combinavano i programmi di espansione economica della “Great Society con spese ingenti per la guerra in Vietnam. E’ però con le presidenze Bush e Obama, e con la rapida espansione del debito pubblico, che i fiscal conservatives d’America hanno chiesto vincoli di bilancio sempre più rigidi. Il debito pubblico americano, al 67% del PIL nel 1994, ha raggiunto il 93,5% del PIL nel 2010 (per un totale di oltre 13 miliardi di dollari). Come merce di scambio per il sì all’innalzamento del tetto del debito, nel 2011, i repubblicani hanno ottenuto proprio assicurazioni sul principio di pareggio. Il Budget Control Act, che ha risolto la crisi sul debito, richiede anche un voto del Congresso sul pareggio nel più vicino futuro. Per ora, nessuna decisione è comunque stata presa a livello federale (da notare invece che ogni Stato americano, a parte il Vermont, ha approvato misure di “balanced budget”). In tempi di campagna elettorale, non sembra una buona idea, neppure per i repubblicani, imporre sacrifici, nella forma di una maggiore imposizione fiscale, o di tagli consistenti alla spesa sociale (i due unici modi in cui il pareggio di bilancio potrebbe essere raggiunto). Il documento sottoposto dai premi Nobel per l’economia cerca ora di chiudere la discussione, anche per il futuro. Secondo gli economisti, la necessità di riportare il bilancio in pareggio darebbe un colpo pesante a “una ripresa di per sé già debole”. Un emendamento che introducesse il vincolo del pareggio di bilancio “impedirebbe al governo federale di ricorrere al credito per finanziare il costo delle infrastrutture,

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dell’istruzione, della ricerca e sviluppo, della tutela dell’ambiente e di altri investimenti vitali per il futuro benessere della nazione”. Di più. Un tetto vincolante di spesa, comporterebbe la necessità, in caso di spese di emergenza (per esempio i disastri naturali), di tagliare altri capitoli del bilancio, mettendo in pericolo il finanziamento dei programmi “non di emergenza”. L’appello degli economisti a Obama arriva tra l’altro dopo una serie di recenti interventi di un altro economista keynesiano, anche lui premio Nobel, Paul Krugman, che ha più volte riaffermato che non l’eccessiva ampiezza del debito, ma la prudenza nella politica di investimenti pubblici, ha impedito una più veloce ripresa economica. Il piano di stimoli economici dell’amministrazione Obama, ha scritto Krugman, “è stato troppo ridotto e cauto”, non in grado di riassorbire i milioni di posti di lavoro persi dall’inizio della recessione nel 2009. Secondo Krugman, la foga dei repubblicani per il pareggio di bilancio, almeno a partire dagli anni Settanta, con la richiesta di farlo diventare emendamento alla costituzione USA, non è altro che un modo per realizzare il totem ideologico del GOP: “la dissoluzione del Welfare State”.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/14/cinque-nobel-pareggio-bilancio-camicia-forza-economica-sbagliato-metterlo-nella/197071/#.T4WYksaWCHA.facebook

La MMT Modern Money Theory spiegata ad un ragazzo (ben sveglio)

Stephanie Kelton all'MMT Summit di Rimini (foto Democrazia MMT Italia)

Correlat Un piccolo “trattato” facilmente comprensibile. Il debito pubblico non è “il” problema. La piena occupazione è possibile senza iper-inflazione. Le tasse non servono a pagare i servizi statali. L’emissione di titoli pubblici è facoltativa. E uno stato a “moneta sovrana” (quale non è l’Italia) non può fallire. Fate le vostre domande di: Pier Paolo Flammini3 marzo 2012 @23:06

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Divulgare nella maniera più semplice possibile. Spiegare cosa è la Modern Money Theory (MMT) ad un ragazzino delle scuole superiori mediamente interessato del futuro. Sveglio e pronto a districarsi nel viaggio al termine della notte che sarà la sua vita. Sempre critico, anche nei confronti della MMT, quindi. Un tempo la moneta aveva il valore del metallo di cui era composta: monete d’oro, d’argento, di bronzo, ad esempio. Quel valore, ovviamente, era pur sempre convenzionale, e restava garantito dall’effigie del Re o dell’Imperatore. Poi arrivarono le banconote, e le banconote o le monete di metalli non pregiati avevano un valore che era convenzionalmente garantito dalle riserve d’oro detenute nei forzieri dalle banche centrali. Nel 1944, con gli accordi di Bretton Woods, fu deciso che la moneta di riferimento convertibile in oro fosse il dollaro, valuta cardine per le altre monete. Nel 1971 il presidente degli Stati Uniti Nixon decise di metter fine alla convertibilità del dollaro in oro. Da quel momento, tutte le valute del mondo hanno avuto un valore solo in virtù di una convenzione, e non in rapporto al valore che esse avevano correlate all’oro, ad esempio (la qual cosa resta, comunque, una ulteriore convenzione garantita sempre dallo Stato). L’evoluzione tecnologica negli ultimi 40 anni sta permettendo di creare e spostare moneta (sotto forma di bit elettronici e non solo come “cartamoneta”) in pochissimo tempo. Le banche centrali potrebbero quindi creare tutta la massa monetaria che vogliono, in un solo istante. La banca centrale degli Stati Uniti, per salvare le banche finanziarie sull’orlo della bancarotta, ha emesso 16 trilioni di dollari (16.000.000.000.000), non sotto forma di banconote ma come impulsi elettronici. Si calcola infatti che soltanto una infinitesima massa monetaria mondiale sia sotto forma di moneta e banconote, il resto circola attraverso sistemi elettronici. La Banca Centrale Europea di Mario Draghi, ad esempio, tra dicembre e gennaio ha immesso oltre mille miliardi di euro con prestiti per 3 anni all’1%, nella speranza dichiarata che le banche aiutassero così imprese e famiglie (in realtà le banche stanno reinvestendo questa enorme massa finanziaria in titoli di Stato, i cui rendimenti sono aumentati moltissimo a seguito della crisi del 2011). Quindi è possibile immettere nel sistema economico tutta la moneta che vogliamo, senza preoccuparci più di nulla, neppure di lavorare? No, naturalmente. Il rischio principale sarebbe l’inflazione* o meglio la stagflazione (inflazione con stagnazione della produzione). Nella teoria comune, l’inflazione si ha quando vi è un aumento generalizzato dei prezzi, provocato da un eccesso di moneta circolante non corrispondente ad un pari aumento della produzione. Cosa dicono a tal riguardo gli economisti della Modern Money Theory? Gli economisti MMT mettono in dubbio che si crei inflazione attraverso immissioni di moneta della Banca Centrale, sia perché i fattori produttivi (ad esempio il lavoro) sono sotto-impiegati ma anche a seguito del ruolo del sistema creditizio privato che a seguito delle richieste di prestito

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immette moneta circolante per un valore multiplo rispetto alle riserve valutarie obbligatorie (si legga qui “La crescita monetaria non causa inflazione”, un articolo di John T. Harvey, professore di Economia alla Texas Cristian University, pubblicato su Forbes, dove si ridescrivono in chiave attuale i concetti classici di Moneta, Velocità di circolazione della Moneta, Prezzo e Produzione, in base alla formula M*V=p*Y) A differenza degli economisti da cui prendono le mosse (Keynes prima di tutto, ovvero l’economista che con le sue ricette permise agli Stati Uniti di uscire dalla Grande Depressione e il cui insegnamento poi fu adoperato da tutti i paesi occidentali dopo il 1945), i post-keynesiani della MMT sostengono che sia opportuno adoperare questo sistema non solo nei momenti di recessione – ovvero quando l’economia è in crisi e si producono meno beni e servizi – ma che questo metodo possa e debba essere utilizzato anche quando l’economia è in fase di moderata espansione, ovvero con il raggiungimento costante del massimo impiego dei fattori produttivi. Come è possibile immettere moneta senza generare iperinflazione? Gli MMT sostengono che uno Stato a moneta sovrana (tutti, tranne i paesi dell’eurozona o quelli che scelgono tassi di cambio fissi o non liberamente fluttuanti) può puntare sulla piena occupazione, cioèpermettere a tutti coloro che lo vogliano di lavorare e percepire uno stipendio, trovando lavoro nei servizi sociali, culturali, nell’insegnamento, la ricerca, eccetera (anche infrastrutture di vario genere). Si tratta di un percorso di salvataggio, con regole precise ora troppo lunghe da specificare, per coloro che perdono lavoro nel settore privato, e che vengono reimmessi nel settore privato in caso di richieste. Secondo gli economisti MMT la produzione di beni e servizi derivante dalla piena occupazione riassorbirebbe il surplus monetario immesso per permettere loro di lavorare.** Sono previste però una serie di importanti strumenti collaterali, che sono la vera chiave rivoluzionaria della MMT rispetto alle convinzioni comunemente accettate. Se uno Stato a moneta sovrana può immettere teoricamente tutta la moneta che desidera generando questo surplus senza che si abbia iper-inflazione – è probabile che, in assenza di shock esterni, l’inflazione si attesti attorno al 5-6% annuo, un livello comunque non gravoso considerati i benefici di cui prima) per garantire piena occupazione, allora quello stesso Stato non avrà mai problemi ad onorare il pagamento dei servizi propri dello Stato: sanità, giustizia, difesa, ordine pubblico, ad esempio. Non avrà dunque bisogno di imporre tasse per garantire questi servizi. Abbiamo trovato dunque un mondo che può vivere senza tasse? No. Le tasse, secondo gli economisti MMT, servono per equilibrare il mercato della moneta attraverso un sistema di prelievo equo verso i cittadini: con esse si elimina una parte della moneta circolante nel caso ci sia il rischio di iper-inflazione. Tasse e spesa pubblica quindi non hanno più alcuna relazione con la necessità di garantire i servizi pubblici essenziali (che uno Stato a moneta sovrana potrà sempre garantire perché nulla gli impedisce di spostare il denaro dai propri conti correnti elettronici a quello delle varie amministrazioni), ma invece servono per garantire equità,

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meritocrazia, solidarietà in un sistema comunque non statico delle politiche monetarie. Secondo gli economisti MMT le imposte sui consumi come l’Iva andrebbero drasticamente ridotte, quasi azzerate, così come le imposte sul lavoro, proprio per favorire la piena occupazione. Per drenare il denaro in eccesso ed evitare l’inflazione sarebbe il caso di colpire la proprietà immobiliare, perché difficile da evadere e colpisce patrimoni e rendite piuttosto che lavoratori ed imprenditori. Inoltre la possibilità di emettere quantità di moneta teoricamente infinita per finanziare il settore pubblico non implica la necessità (come avviene ora in maniera drastica nei paesi dell’Eurozona) di chiedere il denaro necessario per queste eventualità ai sottoscrittori privati di titoli pubblici, accettando il tasso di interesse imposto dal mercato. Questo significa che il mercato dei titoli pubblici non esisterà più in un paese MMT? No. Significa che il mercato dei titoli pubblici è una misura facoltativa e non obbligatoria. Significa invece che lo Stato si fa garante di pagare ai risparmiatori i tassi di interesse ritenuti congrui dallo Stato stesso, come remunerazione del capitale dei risparmiatori, e sempre in un’ottica di gestione della moneta circolante al fine di garantire piena occupazione ed evitare iper-inflazione. Infine uno Stato a moneta sovrana con cambio di valuta libero non potrà mai fallire come l’Argentina (cambio fisso peso-dollaro) e come rischia di accadere alla Grecia e ai paesi dell’Eurozona che in questo momento devono garantire il loro debito pubblico in una moneta straniera perché privi di sovranità monetaria. Stephanie Kelton, a Rimini, ha citato il solo caso del Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando la decisione di non pagare il debito fu presa volontariamente per non sentirsi umiliati nei confronti dei vincitori del conflitto. Quindi, in poche righe, nel mondo MMT: - uno Stato a moneta sovrana non può fallire, ovvero può garantire sempre il debito contratto; - uno Stato a moneta sovrana può raggiungere la piena occupazione; - uno Stato a moneta sovrana adopera le tasse non per finanziare la propria spesa ma per evitare squilibri sociali e per evitare eccessi inflattivi acuti; - uno Stato a moneta sovrana non ha necessità di finanziare la propria spesa pubblica ottenendo prestiti ai tassi di interesse stabiliti dai mercati privati. * Si ha inflazione quando la quantità della moneta in circolazione aumenta più velocemente del valore dei beni e servizi prodotti: se nell’anno 1 abbiamo una quantità di moneta in circolazione di 100 euro e un valore di beni e servizi di 100 euro, e nell’anno 2 il valore di beni e servizi resta stabile a 100 mentre la quantità di moneta sale a 110, si avrà una inflazione del 10% (110-100)/100=10%, perché la moneta ha perso il suo “potere d’acquisto”, e quindi ha “meno valore”. Se invece nell’anno 2 il valore di beni e servizi disponibili è salito a 110, non vi sarà inflazione, perché come nell’anno precedente con 1 euro possiamo comprare 1 unità di prodotto (110:110=100:100) e quindi la moneta ha conservato intatto il suo potere d’acquisto.

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**Si consideri l’esempio precedente: se nell’anno 1 la produzione di 100 si è avuta con una disoccupazione pari al 9% (come oggi in Italia), nell’anno 2 le politiche statali decidono di impiegare 10 euro per far lavorare questi disoccupati in settori ritenuti strategici. Il loro stipendio complessivo passerebbe da 0 (anno 1, senza lavoro) a 10 (anno 2, occupati). Se questi soldi fossero spesi per non produrre nulla, allora si rischierebbe di generare inflazione. Ma se invece i lavoratori fossero impiegati in settori come cultura, scuola, ambiente, tutela idro-geologica, sorveglianza, infrastrutture, ricerca, allora vi sarebbe un corrispondente aumento dei beni e servizi prodotti per cui la moneta immessa (10) sarebbe ricompensata e non si genererebbe inflazione, o almeno non oltre livelli considerati giustificabili. http://www.rivieraoggi.it/2012/03/03/139114/la-mmt-modern-money-theory-spiegata-ad-un-ragazzo-ben-sveglio/

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Il super regalo di Monti a Morgan Stanley Prima di lasciarvi all'articolo di Morgan Stanley, voglio illustrarvi una vicenda che ritengo "correlata" a questo articolo. In gran silenzio, a inizio anno il governo italiano ha dato due miliardi e mezzo di euro alla potente banca Usa, dove lavora il figlio di Mario Monti. [vedi http://bit.ly/wbAWmN] http://www.nocensura.com/2012/02/monti-versa-25-miliardi-nelle-casse.html

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Di  Pietro  e  Orlando,  confessate  ai  cittadini  il  vostro  appoggio  al  “governo  della  finanza”.  Mi  dimetto  dai  miei  incarichi  in  IDV.  BY    LIDIA UNDIEMI  –  2  APRILE  2012POSTED  IN:  IN  ITALIA  DEI  VALORI  Raccontate la verità, gli italiani hanno il diritto di sapere che Italia dei Valori sta appoggiando, soprattutto con il proprio silenzio, la proposta del governo Monti di trasferire 125 miliardi di euro (minimo) ad una organizzazione finanziaria intergovernativa, l’ESM, ambiguamente definita “fondo salva-stati”, che, fra immunità, esenzioni, condoni ed altri privilegi, si propone di concedere finanziamenti agli stati in difficoltà in cambio della possibilità di potere imporre “rigorose condizionalità” da far gravare sulle spalle del popolo. Sapete benissimo che la ratifica del trattato ESM (non ancora in vigore) comporterà l’incremento delle politiche di austerity, ossia l’imposizione di ulteriori interventi “lacrime e sangue” che colpiranno soprattutto le fasce più deboli e che metteranno in crisi anche coloro che ancora oggi riescono ad arrivare a fine mese. Un obiettivo politico che ovviamente travolgerà anche la vita dei vostri elettori, compresi quelli della sua amata Palermo, prof. Orlando. L’IMU? L’art. 18? E’ solo l’inizio. Per comprendere la pericolosità di tale scelta, basta semplicemente osservare ciò che è

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accaduto in Grecia. La Troika ha concesso i piani di salvataggio in cambio di una serie di richieste che per Atene si sono tradotti in cessione di sovranità. Si pensi alle condizioni imposte in materia di tagli alla spesa, ai dipendenti pubblici e alle pensioni. In tal senso, la politica nazionale diventa oggetto di contrattazione finanziaria. Appoggiare questa idea di politica europea del governo Monti significa essere contro i lavoratori, gli imprenditori, i giovani, le donne, i bambini e gli anziani. Che senso ha “strapparsi i capelli” pubblicamente per dimostrare di essere contrari alla corruzione politica, al potere delle banche, alla riduzione dei diritti dei lavoratori e all’aumento delle tasse e, contemporaneamente, sostenere la creazione di una struttura sovranazionale che pretende di gestire le risorse dei cittadini godendo di immunità di giurisdizione ed altri benefici “di casta”. Tutto ciò agendo fuori dai canali democratici con lo scopo di lucrare sul debito pubblico imponendo ulteriori sacrifici agli italiani. Chi si avvantaggerà dell’entrata in vigore dell’ESM? I poteri finanziari, in primis le banche. Lo Stato in difficoltà potrà usufruire dei piani di finanziamento concessi dal “fondo salva-stati“ soltanto se, oltre a cedere pezzi di sovranità riguardanti scelte di politica interna, si impegnerà a pagare un tasso di interesse il cui limite non è stato nemmeno definito nel trattato, e intanto le banche hanno ottenuto un trilione di euro dalla BCE all’1%. Poiché l’organizzazione intergovernativa si riserva la possibilità di attingere al mercato finanziario per potere a sua volta erogare il prestito allo Stato, chi garantisce che non saranno le stesse banche (con un guadagno “politico” netto di almeno il 3%), o addirittura la criminalità organizzata a lucrare, mediante i finanziamenti dell’ESM, sul debito pubblico e ad incidere sulle decisioni politiche della nazione debitrice? E’ questa la vostra visione di cambiamento, di uguaglianza e di democrazia? Perché IDV non ha sollevato tali questioni nelle sedi istituzionali competenti, considerato che il trattato è disponibile almeno dal mese di marzo del 2011? Il parlamento europeo si è già espresso a favore dell’ESM con 494 voti, non credo sia necessario aggiungere altro. Quello nazionale, invece, deve ancora decidere, ed è per tale ragione che, fra mille sacrifici, ho lavorato tantissimo per realizzare una mozione parlamentare che toccasse l’argomento. La richiesta è partita proprio da lei, prof. Orlando, e l’ho accolta con grande entusiasmo, anche perché è stata frutto di una lunga conversazione sulla politica internazionale. Fidandomi del suo atteggiamento propositivo ho elaborato la bozza finale, che sostanzialmente richiama il contenuto del dossier che ho successivamente realizzato per informare la gente. Da questo momento in poi il nostro dialogo si è praticamente interrotto e, qualche giorno dopo, il partito si è espresso sul fondo “salva-stati” con le mozioni di fine gennaio dove è stato omesso il contenuto del trattato ESM ampiamente argomentato nella mia proposta. Ho scritto anche a lei, on. Di Pietro, chiedendole di sostenere questa battaglia, ma non ho ricevuto nemmeno una risposta, e non è la prima volta. Tantissime altre persone di IDV conoscono la vicenda, anche perché, per fortuna, cittadini, associazioni, movimenti e mezzi di informazione hanno appoggiato la battaglia, comprendendola e condividendola. Ho ricevuto da questo partito due incarichi (responsabile nazionale di una sezione del dipartimento Lavoro e responsabile regionale del dipartimento Lavoro Sicilia) che ho portato avanti gratuitamente e con grandi sforzi per circa due anni, seguendo importanti vertenze sul territorio nazionale. Ho lavorato tanto, ma l’impegno non è stato ricambiato, e non mi interessa esporre in questo momento altre questioni, valide ma meno importanti dell’ESM. Non meritavo un simile trattamento, e non lo meritano nemmeno i cittadini. Lei, prof. Orlando, mi ha delusa più di tutti, perché possiede lo spessore culturale e politico per poter affrontare battaglie grandi come questa. Nonostante ciò, non penso che lei abbia agito in malafede, ma questo non giustifica la sua indifferenza, che abbinata alle sue capacità si trasforma in una colpa imperdonabile.

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Ogni tanto penso a Scilipoti, e mi chiedo quali straordinarie capacità possieda quest’uomo per aver meritato di diventare parlamentare con IDV. Mi auguro che vi fermiate a riflettere, da soli, sul fatto che qui c’è in gioco la vita di intere generazioni, compresi i vostri familiari. Talvolta vi osservo, e vedo degli uomini talmente affannati a vincere le elezioni da perdere di vista se stessi e il vero significato della politica. Mi dimetto.

Lidia Undiemi

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