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Ascoltavo i loro pensieri e altre storie Enrico & Chiara Matilde Martinelli Natale 2013

Ascoltavo i loro pensieri

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Racconto di Natale 2013 Un racconto per i più grandi e un racconto per i più piccoli... E il Natale secondo Chiara Matilde.

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Ascoltavo i loro pensierie altre storie

Enrico & Chiara Matilde Martinelli

Natale 2013

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Racconto per i più grandiAscoltavo i loro pensieri

Racconto per i più picciniLa luna nascosta di Natale

Racconto di Chiara MatildeL’amore della Befana e di Babbo Natale

Sommario

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Ascoltavo i loro pensieri

*Così ho ascoltato i loro pensieri, granelli di deserto. Attraversavano,

o forse semplicemente andavano per orme, ricoperte di sabbia un attimo dopo.Io che di parole ho fatto senso, udivo spazi immensi e il loro silenzio

ricolmo d’eco. Lui nervoso, lei irrequieta. Lei coraggiosa, lui audace. Passi al limite di rabbia giù dalle quattro zampe, sospiri nascosti per salvare sé e lui, a dorso d’asina logora e stanca.

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*Sfogliai i suoi occhi, lentamente, per mettere a fuoco il punto esatto.

Fra le righe scorsi tracce di passato, il più dei giorni senza ombre, come a mezzodì, né nuvole né capricci al tramonto; notai orme di presente dense e pastose, pronte per essere date al fuoco del forno, sulla soglia di divenire pane che sfama e allontana di quel tanto il pensiero della fine; voltai pagine e pagine senza trovarvi domani, for-se neppure una qualche ora spinta avanti. Non scriveva più in là della copertina, non lo aveva mai fatto.Forse proprio per quel motivo il giorno seguente, non subito, mi ave-

va abbracciata. Una stretta cercata con tenacia, perché io non potevo che nascondermi dopo lo slancio. Avevo detto sì per impeto, e sono i sì migliori lo riconosco. Lo avevo detto spinta altrove da centinaia di sogni ammucchiati sulle scale. Ma la notte accompagna i sogni in cima alle volte, negli strati curvi e

luminosi della coscienza, per poi dissolverli verso il buio della terra. E lo sa fare con perizia.Avevo gioito della notizia inattesa, incredibile, non creduta e neppure

intuita per lunghi secoli. Poi la giovinezza e il pensiero di trovarmi a respirare sola si presentarono alla porta avidi di cibo dopo lungo e assetato cammino. Come avrei potuto crescere un figlio con amore se mi fosse mancato il tetto, se fosse sfiorita la dignità, se avessi, ed era certo, inciampato nel disprezzo?Vicino casa, ma abbastanza discosta dai rumori, era una grotta dove

da bambina nascondevo tesori. Per ore giocavo a trasformare le pie-tre, tagliate ed avvolgenti, in fregi d’oro e sfarzose pareti di palazzo. Sola, o con le amiche, scrutavo il tempo come lingua di straniero, lon-tano, incomprensibile, indifferente. Mamma veniva a rubarci ai sogni quando ormai il sole si era coperto con il mantello, ma mai lo fece svelta o sbrigativa. Mi ridestava con la carezza di due mani sul viso, il calore di un panno

che avvolge il gioiello più prezioso, lo protegge, lo isola, lo svela, lo trattiene donandolo. Quanto coraggio, quante certezze in quell’unico ripetuto gesto. L’ho amata dell’amore che quelle mani mi hanno tra-smesso.Andai a nascondermi in quella stessa grotta. Come avrei fatto a celare il ventre quando si sarebbe teso? Come

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avrei fatto a sostener fatica quando la schiena avrebbe piegato e ce-duto al peso? Certo, potevo rifugiarmi per qualche mese da mia cugi-na, lontana forse dagli sguardi e dai pensieri male assortiti di paese. Ma come giustificarlo?Lì, in quella grotta, pregai il Signore, anche se avrei voluto avvicinarlo

nel silenzio della Sinagoga. Cercai ancora i rimbalzi della voce che giorni prima mi aveva visitato. Tremavo di silenzio ora, mentre prima la Parola mi aveva scosso.Non gli ho mai chiesto come avesse fatto a scovare il mio nascondi-

glio. Voglio credere che il desiderio di abbracciarmi lo abbia condotto fuori dalle case, oltre i legni del suo laboratorio. Voglio credere che fu lui la risposta.E mi abbracciò forte e delicato come solo l’amore può e deve.

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*Li ho osservati. Più che altro perché il tempo spesso svuota il ventre

di compiti ed affari; ti rimane la domanda dell’attesa, sola e malinco-nica talvolta.Non mi era chiaro l’intreccio dei loro pensieri fatti mosse e movimen-

to. Lei parve legno alle prese con più di un tarlo. Tesa sotto morsi che la strappavano all’abbraccio, denti scarni come irriverenza distraeva-no la sua voce in schegge e segmenti. Pensai, a turno con l’oblio, che lui giocasse a sostenerla per poi get-

tarla nel rifiuto. Ma lei si aggrappava e lasciava indifesa la scocca. Il volto e qualcosa

nel suo sguardo mosse la memoria.Capii, da smorfie di passato, che attendeva. Era vigile, aspettava

che la tempesta lasciasse le onde rilassarsi a riva. Attendeva l’attimo esatto in cui passar loro il compito di adagiare e sostenere vita, dopo averla travolta in schiuma e lampi come calci di rabbia piena.Da mesi Cesare aveva portato via vai in quel nostro piccolo paese.

Aveva richiamato ognuno alle sue radici, a tornare per proclamare le proprie origini. Gente che di scrivere non si era mai interessata di-chiarava a chi di scrittura aveva fatto mestiere che lì era nata per poi fuggire, allontanarsi, cercar fortuna altrove. Da mesi laici pellegrini, ricchi, miseri o disprezzati cercavano rifugio e riparo. Veloci come fo-lata di vento lasciavano il loro polline per destinarsi di nuovo altrove, a raccogliere là dove avevano seminato. Quei due pellegrini del censimento si amavano con chiarezza. Ep-

pure pareva fossero aggrappati ad un salice nel mezzo di tempesta.Delle doglie tratteneva le urla, lo capivo dall’arricciarsi delle labbra,

dal tendere i vestiti fin poco prima dello strappo.Come mai se ne stavano lì, ai margini di strada, sulla soglia di una

bottega chiusa e fredda? Perché non cercavano un luogo accogliente entro cui dissipare la tensione e lasciare che natura recasse in dono il nuovo augurio?Forse, pensai, feci anche io la loro stessa scelta. Maestro, per soldi

fortunati non dovuti a personale abilità, studiai a lungo. Riverenze, attesa di riconoscimenti, poter dettare ad altri i propri pensieri perché rimanessero e fossero di monito. Quello si aspettava il padre, quello la madre aveva accettato e poi, ammirata, amato. Quella sequela pre-

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ordinata di passi per me altri avevano disegnato. Non io, non i miei di sogni, non le mie inclinazioni. Gli alberi talvolta non crescono diritti, verso il cielo. Se vengono chiu-

si al riparo di un’ombra, sfuggono dal percorso, si attorcigliano per trovare luce, per respirare particelle che un centimetro in più di legno possano costruire. Così feci io. Mi accorsi molto giovane che non da donna avrei ricevuto consolazione, soddisfazione, futuro. Non avrei detto casa fra quelle mura (qualcuno le chiama braccia quando a me paiono roccia).Mi bastò rinunciare ad eredità, saluto, al nome padre e madre come

compagnia per il futuro. La clemenza mi lasciò una stalla ricavata in una grotta e un gregge rumoroso da ammaestrare. “Predica a queste bestie, forse loro capiranno”, questo fu il saluto.Quella grotta mi piacque subito, ricordava ai miei occhi qualcosa di

simile e magico che avevo visto durante un viaggio. Ero in visita a un rabbì di una sinagoga oltre il deserto. Ricordo una grotta di pietre ta-gliate al vivo, trasformata in castello da un gruppo di bambine vivaci e sorridenti. Le loro grida le sento scuotere le pareti di una reggia e non di un buco misero nella montagna.Il giorno della mia scomunica rimasi appoggiato alla parete della

grotta proprio come stavano lei e lui in quel momento, sostenuti dal muro squallido di paese. Nessuno mi voleva ed io non feci altro che paralizzare la paura fra la voglia di scoppiare a urlare in faccia al ri-fiuto e la lacrima sconfitta di chi non sa che fare da lì in poi. Rimasi appoggiato alla parete della grotta per ore, fissavo il buio del futuro e non vi leggevo che confusione. La stessa che ora abitava gli occhi dell’uomo. Non la confusione del vino, ma quella che solo rabbia mi-schiata a sconforto sa generare.Non erano lì per volontà loro, erano immobili perché la disperazione

ne afferrava i capelli strappando a tratti.La primavera, la promessa di libertà, di nuova vita fra il silenzio dei

pascoli, aveva smosso me dalla prigione di un rifugio buio. Prendermi cura di chi da me solo dipendeva - bestie, mandrie, un asino ed un bue.Decisi che sarei stato nuova stagione per loro. Li strappai con uno

sguardo e presi lui sotto braccio. Spinsi il gregge fuori dalla grotta, dentro solo qualche animale a far calore. La paglia nuova venne get-tata con speranza. Poi un bacile d’acqua scaldata al fuoco mai spento

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dei pastori e li lasciai sfiorare ciò che di nuovo sarebbe accaduto: vita che salva, poiché a una madre e ad un padre si affida.Finalmente lui trovò un sorriso, lei le urla che io non mi ero concesso.

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*La fuga, da sempre, ha trovato in me terreno, alleato, estimatore.

Fui vigliacco quando la scelsi la prima volta e mi resi subito conto che solo l’astuzia o la chiamata le possono rendere giustizia. So per certo che oggi, dovessi fuggire in Egitto per salvezza, lo farei con lo spirito di chi lotta non di chi rinuncia.I miei genitori sotto metri di terra, senza speranza di germinare o

porgere di nuovo frutto, quando io ancora correvo per cortili, sepolti da malattia che troppi chiamarono colpa.Un sasso lanciato contro quelli che si fan salutare come soldati. Pa-

gati per uccidere e conquistare, sembra non gli basti il soldo quando alzano violenza contro ragazze inermi, per conquistare quello che non gli spetta. Un sasso d’istinto, lanciato per giustizia, non per pensiero.E poi la fuga. Almeno un deserto fra me è quel centurione sbeffeg-

giato da un ragazzo vile, a detta sua.Nel paese nuovo non c’è spazio per chi attraversa i confini sporco,

correndo; per chi si volta più spesso indietro piuttosto che percorrere una strada deciso. Chiamerei disprezzo quello che la gente è capace di cucirti addosso. E per svestirsi da quegli abiti, talvolta serve più tempo e fatica che per coprirsi, ripararsi, avvolgersi.Oltre i calci, gli sputi, gli sguardi rivolti altrove. Oltre i piccoli furti, ché

i denti devono pur avere uno scopo. Oltre, ci fui lei. Camminava come avesse appena lasciato una cena regale. Sua ma-

dre la racchiudeva in un abbraccio di quelli che ti lasciano al sicuro nel tuo stesso sguardo. Qualcuno aveva deciso di giocare con me e con il fango. Lei non pen-

sò, come feci io con il sasso. Si mise in mezzo. Con una pezza pulì le mie mani, poi andò e pulì le loro. Li avvicinò. Ci costrinse a stringerle e si mise a ridere di gusto. Solo dopo molti anni ne capii il senso. Come dire: “Bastava così poco”.Da quelle risa in poi lavorai ogni giorno. Ogni giorno senza mai fer-

marmi, le mani s’incresparono come roccia tormentata dal vento. Schiavo libero, apprendista, infine maestro, con una bottega mia e il sogno di farla ridere di nuovo non per banalità, ma pura gioia.Invece…Ricordo ancora e sempre poco di quel tramonto. Le pietre sotto di

noi pungevano se non conoscevi il posto giusto in cui sedere; il sole,

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quasi aldilà, profumava di olive, le mie dita pulivano l’odor di chiodi e colla nel rosmarino.«Giuseppe…»«Maria…»«Aspetto un bimbo, non da uomo».Silenzio ribollente di nulla, di freddo. Fuga. Rabbia. Sguardo nel suo,

fermo. Fuga. Incomprensione. Ancora rabbia. E poi fuga. E nella fuga maledizioni. Incespicavo nel passato… era meglio il fango vero… pote-vi lasciarmi nel fango di natura… ora il fango lo getti addosso ai miei sforzi di costruire vita che meriti rispetto… ora il fango me lo fai ingoia-re e speri secchi attorno al cuore. Odio. Fuga. Silenzio in cui rimbalza ancora rabbia.Per un intero giorno conficcai chiodi nella stessa asse, chiuso nel-

le fessure di luce del mio laboratorio. Riempivo lo spazio, assurdo e muto, di metallo bastonato e dietro, addosso, ovunque, i marci pen-sieri per chi mi aveva sottratto sguardo e futuro. Parole roche di cui oggi mi vergogno.Poi ricordai il suo vestito azzurro senza nuvole, macchiato del fango

che colava impaziente anche dal mio volto. E nei suoi occhi quell’az-zurro era pulito, immacolato come nessun altro azzurro, né di cielo né di lago, potrà essere.Ora che la porto a dorso d’asina, e non so dove, provo la stessa

rabbia. Non sono dottore, non ho mai visto gravide dare alla luce, ma so che sta per accadere. Lei soffre, si aggrappa a me e non so che fare. I soldi li ho, ma nessuno ci vuole. Non uno che ci ospiti. Indifferenti, crudeli quando vedono che lei è quasi madre, ma non scorgono segni di sacra unione. Preferiscono lasciare camere a chi può pagare più di quel che offro. Dico loro che sono di lì, cresciuto in quelle strade, ma nessuno vuole credere. Oppure pensano che se sono andato via un motivo lo dovevo pur avere. La scusa è che gli ostelli sono pieni, ed un gesto di grazia non sfugge, neppure sba-dato, a chi chiude l’uscio di fronte alle nostre richieste. Rabbia, la stessa rabbia di quel giorno, di fronte a quello stesso silenzio che fu anche mio. A chi mi ha spinto addirittura via dalla soglia avrei voluto scalfire il viso, ma lei ha afferrato ancora una volta la mano e l’ha condotta ad ascoltare i movimenti in pancia.Poi, come sempre, non sono stato io quello capace di rispondere, di

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trovare soluzione. Ci guardava da qualche minuto e mi venne anche voglia di sfogar parole su di lui urlando. Mentre il pastore si avvicinava, ancora mi chiedevo se, per caso, mi

avesse conosciuto da bambino. “Che vuole?” pensai iroso.

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*Non sfuggivo al fuoco di casa per stranezza, anche se molti lo hanno

pensato per anni. La sera calava inesorabile su di me; neve pesante, capace di piegare alberi fino a poggiarli a terra. Mio padre varcava la soglia, strappato all’incessante bisogno dei campi. La porta di casa pareva mare avvolto attorno a un’isola. Lui la superava approdando al lembo di terra e al silenzio. Gli occhi poggiavano su oggetti e persone - su noi, suo sangue - come polvere che indifferente vaga fino al primo ostacolo e siede. Mia madre concludeva nelle tarde ore ciò che il mat-tino in lei smuoveva: instancabile ed incorruttibile insoddisfazione. Le sue giornate erano scandite da domande sul come, sul quando e sul motivo per cui veniva traghettata verso isole inospitali pur non avendo mai visto o solcato un mare né placido né avventuroso.Mi sfilavo dalle correnti, dalla risacca ripetitiva, ma assolutamente

priva di suoni. Casa di sera era il nulla: non lamenti, non sussurri, non grida. Nei campi, nei prati, nei giardini cercavo solo qualche rumore. Gli amici mi pensavano crudele, perché andavo a stanare il riposo de-gli animali, schiamazzavo gli uccelli, sparigliavo tane. Lo facevo solo per ascoltare il suono del frullo d’ali, il latrato sorpreso di un cane. E a quei rumori rispondevo con lunghe storie, minacciavo i miei nemici dipinti a tratto d’immaginazione, mentre loro, le bestie, bramavano solo di tornare fra le braccia del riposo.Ma quella notte la ricordo molto diversa. Stavo vicino alla grotta delle

pecore che amavo stuzzicare e dispettare. Di solito svicolavo via da lì inseguito dalle urla di Barba Grigia il pastore; non quella notte di stelle in cammino, però, perché il silenzio aveva gusto assai diverso. Si misurava in profondità più che in assenza. Me ne accorsi dal passo lento di chi muoveva intorno e neppure io, il più crudele degli eroi, ebbi cuore di frantumare quel nulla intessuto di pace. Fu quella notte che imparai a sorridere, racconta mia madre nei rari momenti in cui non chiede spiegazioni per la sua disgraziata infelicità.Già solo raccontarlo sminuisce.Loro, non so chi fossero, stavano stretti attorno al fieno, pareva vo-

lessero cibarsene. Lì, di solito, spintonava il gregge, mentre ora sem-brava regnasse qualcosa di prezioso da proteggere.Di lui diffidai istintivamente, i capelli burberi, le mani scheggiate dal-

la fatica. Lei, invece, prelevò il mio sguardo triste per portarlo dove

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il vento riscalda e la pioggia disseta, dove il gioco non ha orario. Era giovane, ma nei suoi gesti lenti il silenzio assumeva forma dolce, sen-so e pace.Fu lei ad avvicinare i miei passi. Così mi accorsi che il suo sguardo,

le sue mani, il suo corpo intero, tutto dedicava ad un bimbo piccolissi-mo, fragile, vetro adagiato fra stracci di cristallo. Il silenzio respirato a casa mia bruciava ogni soffio nei polmoni. Il

loro silenzio era attesa divenuta dono, balsamo per ferite di abban-dono. Mia madre non lo sa, fu lì, dentro quell’attimo, quel profumo, quell’oro, che sorrisi.Lui sparigliò il palmo riarso sui miei capelli, afferrò la mia mano di

bimbo e la accostò a quella di suo figlio. Aveva i suoi stessi occhi te-naci, mi era chiaro.Ancora oggi non so spiegarmi la strana immagine, adulta e dai contor-

ni netti, che si incastrò fra mente e cuore. Afferravo quel bimbo ormai uomo e lo adagiavo a terra. Lo strappavo a qualcosa simile ad albero.Scrollai le spalle per tornare alla grotta, al calore della stalla, perché

quel brivido sapeva di ghiaccio. E di nuovo sorrisi quando sua madre mi baciò piano. Fu, e lo è ancora, il solo mio bacio.

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La Luna nascosta di Natale

Vi è mai capitato di giocare spesso allo stesso gioco, di interpretare sempre lo stesso personaggio e un giorno voler cambiare? Ma il vo-stro amico o amica dice che non si può, che il cappello da cow-boy o la bacchetta magica non ve la presta? Così lo rincorrete per strappargli quello che per un giorno volete sia per voi.Lo stesso fanno Sole e Luna in certe strane giornate. Bisogna ammet-

terlo, spesso è colpa della Luna che, stufa di stare tutta sola al buio, vorrebbe indossare il mantello di luce e lasciare solo i riflessi al Sole.I grandi la chiamano eclissi… In realtà è il satellite che raggiunge la

stella per farle dispetto. Per qualche minuto si accapigliano ed ogni volta il Sole, grande e grosso, ne esce vincitore.Qualche anno fa’ si ripeté per l’ennesima volta la stessa scena, ma

allora la Luna si arrabbiò moltissimo ed, offesa, sparì. Si nascose die-tro una montagna oppure affondò i propri crateri in un pozzo... nessu-no lo sa. Fatto sta che la notte fu buia come mai prima di allora.C’era solo un piccolo problema, quella notte non era proprio una

notte come tutte le altre, bensì la notte di Natale.

Nella sua casa al Polo Nord tutto era pronto. Sulla neve ghiacciata i pattini della slitta erano impazienti di prendere il volo. Gli elfi offrivano l’ultimo spuntino alle renne che scaldavano gli zoccoli impazienti di lanciarsi su per il cielo. Babbo Natale sistemò la cintura, pettinò con le dita la barba e controllò ancora una volta che gli occhiali fossero puliti.La slitta scricchiolò quando sul sedile venne adagiato il sacco dei

regali e gli stivali di Santa Claus, neri e lucidissimi, si issarono sui gradini intarsiati d’oro.Tutto era pronto. La prima delle dieci campanelle tintinnò e, quando

anche l’ultima fece udire la sua voce, il portone rosso e bianco si spa-lancò in un istante. Le briglia schioccarono e…

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“Ma che succede?!”, urlò Babbo Natale frenando d’impulso l’abbri-vio delle renne.Fuori era buio pesto. Gli elfi schiamazzarono chiedendosi dove fosse

finita la Luna. Di solito Babbo Natale usciva di casa di gran carriera e, quando ave-

va preso quota, poco prima di schizzare per il mondo ad alta velocità, passava proprio davanti alla Luna. In controluce salutava gli elfi che esplodevano in urla di incontenibile gioia, anche quell’anno felici di aver preparato tutti i giocattoli in tempo.Quella sera la Luna, non c’era! Niente grida a pregustare il sorriso

dei bambini, ma soprattutto, niente luce per guidare Babbo Natale e le renne verso i tanti camini. Come avrebbero fatto? Sarebbe stato il primo Natale senza regali?Per qualche minuto regnò il panico, qualcuno andò a prendere in

cantina i fuochi artificiali pensando, così, di illuminare la notte. Gli altri lo guardarono rammaricati e lui stesso capì che il suo sforzo non sarebbe bastato.Poi Babbo Natale, che non è mica Babbo Natale per caso, prese in

mano la situazione e con coraggio spronò le renne verso la notte.Gli elfi tacquero e, più che un grido, si lasciarono scappare un “Ooo-

ooooohhhhhh” preoccupato e stupefatto.Non mancarono i problemi per Babbo Natale, poverino.Quando la bussola magica indicò che erano giunti al primo paese le

renne furono un po’ confuse dall’improvvisa luce delle case. Abbaglia-ta, la fila di destra girò a sinistra mentre la fila di sinistra voltò a de-stra. Nell’intreccio la slitta fu sbalzata e Babbo Natale finì a sbattere contro un albero del giardino di Giacomo che, per fortuna, nonostante il fracasso, non si svegliò. Con un nasone tutto rosso per la botta, Bab-bo Natale consegnò comunque il trenino elettrico.Al paese successivo capitò a Rudolph di commettere un errore. Si-

curo di sé atterrò sul tetto di quella che pensava essere casa di Chia-ra. Lì c’era in consegna una bambola gigante e morbidissima. Babbo Natale prese il pacco e, attento a non rovinare il fiocco, si calò dal camino. Fu Guizzo, la renna accanto a Rudolph, a sobbalzare per prima all’ur-

lo della vecchietta. Babbo Natale si era infilato in casa di Nonna Piera che, in camicia da notte, con le ciabatte consunte, i calzini arrotolati e

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i bigodini in testa, si stava infilando la dentiera. Quando allo specchio vide un omone barbuto e vestito di rosso entrarle in casa, cominciò a gridare, e a lanciare spazzole, vasi, torte alle prugne e becchi d’oca contro l’intruso.Babbo Natale era già esausto a solo un quarto della notte, anche

perché l’età era quella che era. Troppo difficile muoversi al buio. Era troppo lento e temeva che non ce l’avrebbero mai fatta a visitare tutti i bimbi della terra. La fretta, però, come noto, è cattiva consigliera. Pensando di essere

in Africa, infatti, Babbo Natale non fece caso al ghiaccio che, invece, ricopre copioso i tetti di Mosca. Mentre usciva da casa di Dimitri sci-volò e rotolò fin dentro l’albero di natale che la famiglia teneva in giar-dino. Si avviluppò ai rami del pino e tutto il fascio di lucine gli rimase appeso addosso. Le renne videro avvicinarsi uno strano essere, dalle assurde protuberanze e tutto luminoso. Si spaventarono pensando a un mostro e fuggirono via. Mezz’ora dopo, quando si convinsero ad atterrare di nuovo, Babbo Natale era sconsolato e infreddolito. Poco più in là il sacco si impigliò in un’antenna parabolica rovescian-

do i regali ovunque. Quasi si metteva a piangere dalla disperazione.Le stelle, che da diverse ore osservavano la scena, cominciarono ad

agitarsi. Anche loro tenevano molto ai bambini. È proprio guardando le stelle che i più piccoli sognano storie belle e favolose. Non poteva-no credere che, per colpa della loro amica Luna, il Natale si sarebbe tramutato in un giorno triste. Allora decisero di fare qualcosa. Alcu-ne presero l’iniziativa e volarono veloci in cielo per cercare proprio la Luna e convincerla a tornare. Se non avesse accettato l’avrebbero tirata fuori a forza dal suo nascondiglio.Altre, invece, indossarono il mantello di stelle cadenti e saettarono

di qua e di là per illuminare il più possibile la rotta della slitta. Quando era il momento di fermarsi in qualche città o villaggio alcune si ada-giavano a terra per formare una specie di pista d’atterraggio.Tutto andò meglio, anche se le tappe rimanenti erano ancora molte.

Per fortuna la Luna, ad un certo punto, si accorse dell’agitazione che animava il cielo e d’improvviso si ricordò del Natale. Si sentì una stupi-da per quei capricci e per aver lasciato sole le sue amiche stelle a fare il suo lavoro. Si sentì in colpa per aver abbandonato il povero Babbo Natale al buio e ancor più si preoccupò per i bimbi che rischiavano di

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trascorrere un Natale molto triste. Così, sbucò fuori veloce ed illuminò, come mai aveva fatto prima,

ogni angolo della terra, quasi più del Sole.Babbo Natale tirò un sospiro di sollievo, le strizzò l’occhio in segno

di perdono, mentre le renne, inforcando gli occhiali da Sole, corsero più veloci del tuono.Anche quell’anno Natale si riempì di sorrisi!

*Postilla: in realtà la più sollevata di tutti fu la Befana. Si era già fat-ta prendere dalle palpitazioni all’idea che la Luna proseguisse il suo sciopero. Lei era molto più vecchia, più dolorante, più orba e aveva solo una scopa, non uno stuolo di renne, per consegnare i suoi dol-ciumi…

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L’amore della Befana e di Babbo Natale

Era una notte di mezzanotte e Babbo Natale doveva andare a porta-re i regali… quando, all’improvviso, comparve nel cielo blu la Befana con il suo sacco pieno di caramelle o carbone.Al primo sguardo, la Befana e Babbo Natale si innamorarono.Da quel giorno Babbo Natale e la Befana fecero una gran confusione

nel portare i regali…

Un bacione a tutti i bambini del mondoChiara Matilde Martinelli

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«Scrollai le spalle per tornare alla grotta, al calore della stalla, perché quel brivido sapeva di ghiaccio. E di nuovo sorrisi quando sua ma-dre mi baciò piano. Fu, e lo è ancora, il solo mio bacio».