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LA TRADIZIONE REALISTICA NELLA CULTURA VISIVA ITALIANA Trieste, 29 giugno 2007 Credo che il mio intervento risponderà quasi letteralmente alla sollecitazione del titolo che avete scelto per questa sezione, cioè “letture tendenziose del cinema italiano”. Riaffronterò infatti un periodo storico tutt’altro che trascurato, come il neorealismo italiano, adottando però una prospettiva abbastanza inedita (nonostante l’amplissima pubblicistica sul tema, forse ne esiste ancora una…). La prospettiva è quella dei rapporti fra cinema e fotografia, un’area su cui, anche in generale, si è scritto ancora pochissimo, quasi che la stretta parentela tecnologica fra i due mezzi li abbia paradossalmente allontanati anziché avvicinarli, sicché a questo punto le due arti si trovano ad avere storie separate, ancorché sostanzialmente parallele. Una spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che il cinema, accademicamente, è entrato nel campo delle scienze umane attraverso la letteratura, mentre la fotografia attraverso la storia dell’arte, sicché gli addetti all’una e all’altra arte avevano in realtà competenze e prospettive molto diverse. Un periodo come il neorealismo italiano, ad esempio, è stato affrontato molto nell’ottica cinema e letteratura e pochissimo nell’ottica cinema e fotografia (ma segnalo il recentissimo volume curato da Enrica Viganò, Neorealismo, la nuova immagine in Italia, catalogo di una mostra sulla fotografia italiana). La questione cine-fotografica applicata al neorealismo mi pare particolarmente rilevante perché il nostro cinema è l’unico – forse insieme al cinema inglese – a vantare una sorta di tradizione della realtà, cioè una linea estetica che viene a coincidere in qualche misura con la nostra identità nazionale. Ripeto, esiste qualcosa di simile solo in Inghilterra, dove la Englishness è spesso giocata in senso antiamericano o anticontinentale, per cui già a fine anni Venti, proprio mentre le avanguardie storiche sperimentano sulla forma filmica e Hollywood sta consolidando il cosiddetto modo di rappresentazione istituzionale, lo scozzese John Grierson, padre del documentarismo, fonda un cinema quasi etnografico, votato all’immediata adesione agli spazi naturali e al lavoro (il suo celebre Drifters, 1929, è un film sulle vite dei pescatori del mare del nord). In Italia, appunto, l’inizio è più tardo, la questione del cinema di realtà in esplicita connessione con l’identità nazionale è un fatto del dopoguerra, è allora che come dal nulla sorge una

Barbara Grespi Fotografia Neorealismo

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LA TRADIZIONE REALISTICA NELLA CULTURA VISIVA ITALIANA Trieste, 29 giugno 2007 Credo che il mio intervento risponderà quasi letteralmente alla sollecitazione del titolo che avete scelto per questa sezione, cioè “letture tendenziose del cinema italiano”. Riaffronterò infatti un periodo storico tutt’altro che trascurato, come il neorealismo italiano, adottando però una prospettiva abbastanza inedita (nonostante l’amplissima pubblicistica sul tema, forse ne esiste ancora una…). La prospettiva è quella dei rapporti fra cinema e fotografia, un’area su cui, anche in generale, si è scritto ancora pochissimo, quasi che la stretta parentela tecnologica fra i due mezzi li abbia paradossalmente allontanati anziché avvicinarli, sicché a questo punto le due arti si trovano ad avere storie separate, ancorché sostanzialmente parallele. Una spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che il cinema, accademicamente, è entrato nel campo delle scienze umane attraverso la letteratura, mentre la fotografia attraverso la storia dell’arte, sicché gli addetti all’una e all’altra arte avevano in realtà competenze e prospettive molto diverse. Un periodo come il neorealismo italiano, ad esempio, è stato affrontato molto nell’ottica cinema e letteratura e pochissimo nell’ottica cinema e fotografia (ma segnalo il recentissimo volume curato da Enrica Viganò, Neorealismo, la nuova immagine in Italia, catalogo di una mostra sulla fotografia italiana). La questione cine-fotografica applicata al neorealismo mi pare particolarmente rilevante perché il nostro cinema è l’unico – forse insieme al cinema inglese – a vantare una sorta di tradizione della realtà, cioè una linea estetica che viene a coincidere in qualche misura con la nostra identità nazionale. Ripeto, esiste qualcosa di simile solo in Inghilterra, dove la Englishness è spesso giocata in senso antiamericano o anticontinentale, per cui già a fine anni Venti, proprio mentre le avanguardie storiche sperimentano sulla forma filmica e Hollywood sta consolidando il cosiddetto modo di rappresentazione istituzionale, lo scozzese John Grierson, padre del documentarismo, fonda un cinema quasi etnografico, votato all’immediata adesione agli spazi naturali e al lavoro (il suo celebre Drifters, 1929, è un film sulle vite dei pescatori del mare del nord). In Italia, appunto, l’inizio è più tardo, la questione del cinema di realtà in esplicita connessione con l’identità nazionale è un fatto del dopoguerra, è allora che come dal nulla sorge una

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“nuova immagine”, si vedono cose inedite o le si vede in un modo assolutamente inedito. Ma quella forma è veramente venuta dal nulla? O non è più sensato pensare all’ampio costituirsi di una nuova cultura visuale di cui il cinema si è fatto magistralmente espressione? Come, o meglio, dove è maturata la sensibilità neorealista di Rossellini, Visconti, De Sica? Se si guarda alla fotografia italiana coeva non si trovano grandi risposte. Mi ha sorpreso scoprire che la fotografia dei tardi anni Trenta e primi anni Quaranta abbracciasse stilemi ancor più vecchi del cinema coevo: la patinatura alla Luxardo (chiaroscuri, luci soffuse, sfondi coreografici) e il pittorialismo più sfrenato (scorci paesaggistici, prospettive cartolinesche). Il mondo fotografico sembra arenato, almeno a giudicare dal primo annuario di fotografia, uscito nel 1943 per Casa Bella a cura di Ermanno Scopinich. Si chiamava: Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Ebbene, delle duecento immagini che conteneva nessuna andava verso il realismo. Però curiosamente vi appariva pubblicato un articolo di Federico Patellani (sul punto di passare al fotogiornalismo) che suonava come un manifesto della fotografia prossima ventura, una fotografia documento, racconto e vista ulteriore, che per cogliere il flusso della vita deve ispirarsi al cinema. Si legge in “Giornalista nuova formula”: Se è esatta la mia aspirazione di fare fotografie che appaiono attuali, viventi, palpitanti come lo sono di solito i fotografi di un film, mi pare si debba trovare nel cinema l’ipsirazione per la fotografia di oggi. La fotografia di movimento richiede la scelta di un momento narrativo quale solo il cinema ci ha abituati a vedere... bisogna insomma saper cogliere l'atteggiamento momentaneo, il movimento, il sensazionale, l'essenziale di ogni cosa. Certamente è difficile fondere in una sola fotografia i valori documento-bellezza Questa fotografia in Italia si farà, ma non prima degli anni Cinquanta, cioè quando la stagione aurea nel cinema è finita, o meglio, sono cominciati quelli che Farassino chiamava “i colori del neorealismo”. Il Neorealismo in fotografia non avrà parole d’ordine precise (come oggettività, scopo informativo, creazione di una coscienza sociale), ma sarà formato da voci libere che spesso entreranno in contraddizione l’un l’altra. Dal catalogo succitato emergono tre correnti: da un lato gli studi etnologici alla riscoperta delle zone arretrate del sud e del profondo nord (Franco Pinna in Calabria dal ’52, Patellani in Sardegna dal ‘50, Tranquillo Casiraghi

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su Milano-Torretta dal ’50), dall’altro la fotografia di viaggio (Pietro Donzelli e Enrico Pasquali, dal ‘46), infine la fotografia di strada, pittoresca o bozzettistica, pubblicata su Il mondo (i famosissimi Berengo Gardin e Spampanato, dal ‘50). Nell’annuario di Casabella si dice però qualcosa di diverso. Si riconosce in Lattuada, cioè nella sua attività fotografica, una sorta di eccezione, l’inizio della linea realista. Lattuada: dunque ancora qualcuno che lavora tra cinema e fotografia, il nodo è evidentemente lì. Effettivamente, il suo fotolibro del 1941, Occhio Quadrato, è risuonato nel panorama italiano come un’opera di avanguardia, il tentativo di lanciare un realismo fotografico “nostrano” che si diceva ispirato a un realismo di matrice americana. In un’intervista, Lattuada dichiara che la genesi di Occhio quadrato era legata alla suggestione creata da un album di fotografie americane, una di quelle pubblicazioni molto diffuse negli Stati Uniti e che godevano di grande prestigio. Mi ha scioccato e mi ha fatto capire che la foto doveva staccarsi da una ricerca formale, dagli spazi calcolati e dalle cose astratte. Anche se Lattuada non lo nomina, si è sempre supposto che il fotografo in questione fosse Walker Evans, le cui immagini erano effettivamente circolate in Italia nei primi anni Quaranta, quando la generazione degli intellettuali facente capo a Pavese e Vittorini stava scoprendo la lezione del romanzo realista americano. È notissima l’operazione compiuta da Vittorini con Americana, un’antologia di novelle, racconti, romanzi della letteratura d’oltreoceano uscita nel 1941. Ma è meno noto il fatto che su quelle stesse pagine circolava anche un’appendice iconografica abbastanza ricca, costruita come un divertissment che sottraeva le immagini dal loro contesto originario e dal loro legittimo autore per mescolarle in una stravagante ricostruzione del mito americano commentata da didascalie fra l’ironico e il surreale (quasi un pensiero interiore, si direbbe una voce over….). Erano immagini varie, cioè fotogrammi di film, imagerie popolare, foto storiche della guerra di secessione, e soprattutto in gran quantità (nel numero di 27) foto coeve tratte da un libro di fotografie uscito e circolato in Italia due anni prima. Il libro si chiamava American Photographs e il fotografo era appunto Walker Evans.

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Edito a New York nel 1939, American Photographs viene recensito nel maggio dello stesso anno su Corrente, la rivista di letteratura e arti visive in netta opposizione alla cultura di regime, su cui peraltro scriveva anche Alberto Lattuada. Il recensore è Giulio Veronesi, che scrive: Quanto ha realizzato Walker Evans con questo suo stupendo documentario non rifugge dall’essere opera d’arte, ma soltanto rifugge dall’arte come commento. Scarnificata e rigorosa, senza alcuna compiacenza estetizzante, l’opera di Evans ci presenta l’aspetto di un’America non contaminata dall’influenza dell’Europa decadente, un’America innocente e naturale. Non visi, né grattacieli, né cowboys, Evans ha guardato semplici case e uomini (i volti impersonali degli americani di ogni colore). Tutta la forma della loro vita, proprio la sua organizzazione sociale, appare qui chiara fino all’evidenza. […] Nessun ausilio particolare della tecnica, né taglio né inquadrature speciali, né romanticismi di sfocature e di soggetti o vignette danno rilievo alla fotografia. Esse non sono che documenti.

Il mio cuore non è qui Piccole grandi città operaie

I morti guardano le case Una permanente per 25 cts

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Se questo è l’effetto che fa Evans nel contesto italiano, l’ipotesi di una sua generale influenza sulla cultura visiva italiana, lanciata alla riconquista del reale, è intrigante. È come dire che per vedersi e rappresentarsi veramente, l’Italia del dopoguerra ha dovuto assumere uno sguardo straniero …. Cesare Pavese aveva detto: “scoprimmo l’Italia cercando gli uomini e le parole in America”. Forse, si potrebbe aggiungere, cercando anche le immagini. Evans era originario di Saint Louis, nel Middle West, ma aveva avuto una formazione strettamente europea (il che è ancora più interessante per i percorsi del visibile che ipotizziamo). Nel 1926, giovanissimo, arriva a Parigi, e qui impara prima da Nadar, lavorando nel suo studio, e poi da Atget che lo affascina per la sua capacità di fotografare le architetture e gli spazi di Parigi in chiave quasi astratta. Nel 1929 torna a NY dove entra in contatto con Stieglitz, l’altro grande nome della fotografia internazionale, noto promotore della cosiddetta straight photography, corrente maestra della fotografia degli anni Venti e Trenta, negli Usa, in Inghilterra, in Germania e in Francia. La straight photography è scattata rigorosamente con luce naturale: il gioco plastico viene creato non con le ombre, ma con la nitidezza delle forme, con la conseguenza di una notevole “brutalità” visiva. A Evans interessa meno nella versione di Stieglitz, per il quale parlare di realismo sarebbe improprio, e più in quella di Paul Strand, che la interpreta in modo particolarmente rigoroso, come egli stesso si accorge sfogliando Camera Work (la rivista edita da Stieglitz). Dal 35 al 37 Evans entra alla FSA diretta, nella sezione documentaria, da Roy Stryker. Con Stryker, che cercava di piegare la fotografia agli interessi social-riformisti dell’agenzia governativa, ha un rapporto conflittuale: Evans aspirava alla massima “freddezza” dello scatto, per cui le sue immagini erano troppo poco narrative, erano esterne, come l’approccio ai luoghi e ai volti del viaggiatore (Evans viaggia per gli Stati Uniti sette anni, diventando una sorta di fotografo vagabondo, spostandosi in Pennsylvania, Louisiana, Mississipi, Georgia Carolina, Alabama, Arakansas e Tennessee). I suoi scatti più famosi sono contenuti nel libro curato con James Agee, Let us now praise, famous men, galleria di ritratti dei coltivatori di cotone dell’Alabama (1941), anche se quantitativamente la sua è una fotografia di luoghi e spazi, dove l’umano ha indubbiamente un ruolo, ma un ruolo singolare. In particolare Evans guarda agli ambienti, cioè a spazi abitati, segnati

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dal passaggio dell’uomo (dunque un letto semisfatto, un angolo di stanza, muri segnati, insegne). Analizzando la specificità del fotografo americano all’interno della FSA, Quintavalle ne mette in luce la distanza da Dorothea Lange, Ben Shan e Arthur Rothestein: tecnicamente, al posto della 35mm che permette di scattare continuativamente e poi scegliere, Evans preferisce una macchina a lastre 18x24, con focale medio lunga e diaframma stretto, che produce immagini molto incise. Con essa scatta poche immagini “sicure”, ma non una sola immagine: di solito due o tre, avvicinandosi, quasi in decoupage, all’oggetto. Dunque rifiuta l’enfasi del momento decisivo, per seguire lo sviluppo dei fatti, la realtà come si presenta agli occhi di un osservatore esterno, realizzando una serie di schedature, quasi foto segnaletiche, scabre e frontali, di uomini e spazi. Ora, che cosa filtra in Lattuada di tutto questo? Nella prefazione a Occhio quadrato Lattuada precisa così il proprio intento: Nel fotografare ho tentato di tenere sempre vivo il rapporto dell’uomo con le cose. La presenza dell’uomo è continua, anche là dove sono rappresentati oggetti materiali. Il punto di vista non è quello della pura forma, del gioco della luce e dell’ombra, ma quello dell’assidua memoria della nostra vita e dei segni che la fatica di vivere lascia sugli oggetti che ci sono compagni L’idea dei segni della presenza umana è vicina a quella di Evans.

Gli oggetti usati come tracce dell’umano, la periferia di Milano e Venezia segnata dal lavoro e dalla vita dell’uomo, effigi sui muri, insegne di botteghe, rifiuti.

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Un paragone con Evans in questo senso è possibile, ma che ne è dello sguardo? Mi pare che Lattuada resti un calligrafo, cerchi sempre lo scorcio, non usi mai la luce naturale, ma costruisca delle ombre, come si vede dalle immagini dei bambini sulla strada, anche se è vero che i suoi soggetti sono i più vivi della fotografia italiana del tempo.

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Invece, sfogliando le immagini di Evans, viene in mente Visconti. Ossessione, prima di tutto, film che si dice inauguri la stagione del neorealismo italiano, e che anche letterariamente sta proprio in bilico fra America e Italia. Dice Visconti: l’elemento essenziale del film era e rimane sempre il vagabondo. Tramite lui ho voluto rappresentare i temi essenziali della mia opera. Visconti vuole dire che il vagabondaggio, la febbre della strada, è la metafora dell’anelito di libertà di un paese sotto il regime. Il vagabondo è una cifra di molti romanzi americani “realisti” (anche il Cain ripreso da Pavese del coevo Paesi tuoi), nonché di quello che costituisce il soggetto del film di Visconti, Il postino suona sempre due volte. Ma il vagabondaggio è anche un modo di guardare, lo sguardo di chi non ha casa, o non è a casa, lo sguardo dello Straniero (…). Il tema è curioso, perché Visconti aveva in realtà tutt’altre intenzioni per il suo esordio alla regia, voleva restare in casa, realizzando il verghiano L’amante di Gramigna. Quando entra in contatto con gli intellettuali della rivista Cinema, cioè Gianni Puccini, Mario Alicata e Giuseppe De Santis, Visconti, che si era formato sulla grande letteratura ottocentesca europea e sui set di Renoir, non conosceva Verga. Sono i romani che glielo indicano, un po’ programmaticamente, come l’autore attraverso cui recuperare il senso della realtà nel cinema italiano, cioè dell’uomo, un punto a cui Visconti era sensibile, come si legge nel suo celebre articolo Cinema antropomorfo, in qualche modo vicino alla dichiarazione di Lattuada sulla fotografia (“il peso dell’essere umano, la sua presenza”, dice Visconti, “è la sola cosa che colmi il fotogramma”). Ma Visconti deve rinunciare all’Amante di Gramigna a causa della censura, e allora ripiega su Il postino che aveva visto in francese (Le dernier tournant, Pierre Chenal del 1939). Il suo problema, dice, è “tradurlo in italiano”, cioè in ambienti, sfondi e luoghi italiani. Ecco allora la rilevanza del paesaggio notata da molta critica, punto di chiusura della diatriba sul presunto o reale neorealismo del film: anche in un recente saggio, Leonardo Quaresima sottolinea l’importanza di queste immagini per tutto il successivo neorealismo: la ex dogana del Bragana, metà locanda e metà stazione di servizio, l’osteria fuori mano, le bettole, i distributori di benzina, le autocisterne, i furgoni; indubbiamente, icone del visivo americano e

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insieme paesaggi che concentrano la quintessenza del neorealismo … se ne veda la memoria ancora in Il grido di Antonioni. Fra le immagini di Evans e quelle di Visconti c’è in effetti un’aria di famiglia, un’atmosfera analoga che deriva soprattutto dalla comune distanza dello sguardo: l’impassibilità della macchina da presa che scopre una realtà umana e sociale e ne fa emergere i conflitti. Di Evans si diceva che presentava i fatti con riserbo, con distacco, che le sue immagini erano il frutto di una contemplazione rigorosa centrica e architettata, mai un’espressione di partecipazione, di condivisione, come per gli altri fotografi della FSA, che si sentivano proletari fra i proletari. Quintavalle infatti riconduce questo sguardo a una questione di classe: la “nobiltà” delle sue immagini è anche il segno di una cultura profondamente borghese….cosa che certamente lo accomuna a Visconti. Anche Visconti contempla, architetta meticolosamente, non sprofonda in mezzo al mondo che rappresenta, sta al di fuori, e questo è da sempre il dilemma della critica, in imbarazzo nel riconoscere insieme la forbitezza della messa in scena e il coefficiente di realtà che essa trattiene. Inoltre, considerate da vicino, le loro immagini possiedono una sintassi comune. Certo, Visconti ha una regia fluida, non scatta una serie di fotografie di introduzione agli ambienti e le affianca, ma si muove con il carrello, attraversa l’immagine. Ma il movimento non ha dei tempi uniformi, e dunque identifica, rallentando fin quasi a bloccarsi, gli stessi oggetti di Evans. Si veda la sequenza iniziale, la celeberrima entrata in scena di Gino Cervi: arrivo del furgone, movimento degli uomini del Bragana, scoperta del vagabondo addormentato che non ci appare in volto, e poi la silouhette del suo corpo che si avvia di spalle verso la locanda, sui ferma davanti alla porta: spazio, insegna corpo. Lo stesso in Evans.

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Più in generale, si nota l’evocazione di un mondo analogo in Evans e Visconti, abitato da oggetti e umani analoghi…

…nonché di una modalità di inquadrare gli spazi molto simile, all’insegna della frontalità ieratica, brutale, antipittorica. La taverna del Bragana è un edificio che abbiamo davanti agli occhi, senza scorci o prospettive che lo acconcino.

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Una frontalità che nel suo film successivo, La terra trema, considerato l’acme della ricerca formale neorealista, si sposta sugli umani, o meglio sul gruppo di umani, la famiglia dei Valastro. La terra trema è stata fotografata da Aldo Graziati, che con la sua colta mediazione ha dato alle immagini un carattere nel contempo concreto e astratto. Registicamente, il film è caratterizzato da un lato dalla ripresa fluida e in profondità di campo, dall’altro appunto dal ricorrere di immagini “fotografiche” della famiglia protagonista. Le famiglie fotografate da Evans sono in pose molto simili a quelle che Visconti ritrova (o ricrea) nei Valastro, anche se la fotografia più vicina, quasi identica a un fotogramma viscontiano è in realtà di Paul Strand, ed è successiva al film. Data la relazione Evans-Strand la cosa non disturba, anzi, Strand, che dagli anni Venti comincia a muoversi tra cinema e fotografia, potrebbe essere il tassello mancante in questo ampio disegno. Nel 1952, il fotografo americano dichiara in qualche modo la propria parentela con il neorealismo, partendo appunto con Zavattini alla volta di Luzzara per fotografare la comunità agricola superstite. Ma la cosa più interessante è che nel 1932 aveva realizzato per conto del Dipartimento di Belle Arti del Messico Redes (in italiano I ribelli di Alvarado), usando come attori i veri pescatori del porto. Non ho visto il film, ma date le premesse mi aspetto sorprese interessanti… E se davvero Redes avesse qualcosa in comune con La terra trema, il noto fotolibro Un paese, uscito nel 1955 (voce di Zavattini, occhio di Strand), potrebbe essere il suggello di un’intima parentela pregressa, forse alla base dello sguardo neorealista. Nel libro Zavattini raccoglie le dichiarazioni della gente di Luzzara e Strand fotografa persone, luoghi e cose con una rigida fissità frontale che suggerisce un senso fantasmatico del passato, l’arcaismo di un

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mondo sospeso. Anche in Visconti i Valastro sono i superstiti, i fotogrammi di un mondo che sembra appartenere a un’altra era.

Walker Evans

Paul Strand

Visconti Walker Evans Walker Evans

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Ma l’iconografia della Terra trema è naturalmente molto complessa e non risolvibile in queste poche suggestioni. Accenno solo a un’altra questione che produce un curioso cortocircuito, e cioè la straordinaria vicinanza di alcuni fotogrammi del film alle fotografie del Verga stesso, scoperto fotografo a metà degli anni Sessanta. Le foto di Verga sono state ritrovate nel 1966 da un professore catanese su suggerimento del nipote dello scrittore che ricordava come lo zio fotografasse spesso la famiglia, almeno dal 1878. Così sono stati trovati in un armadio i contenitori originali di 327 lastre di vetro e uno scatolo con 121 negativi in celluloide arrotolati in forma di sigaretta. Verga era un amatore, scattava per ricordare e per il gusto del divertissment colto. E Visconti ovviamente non poteva aver visto queste immagini, si tratta semmai di capire quale ruolo abbia giocato l’iconografia popolare in tutto questo.

Visconti

Verga

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In conclusione, se queste ipotesi sono vere, siamo di fronte a un’immagine inconsueta del cinema neorealista, un cinema che ha saputo guardare in faccia l’Italia, proprio perché l’ha vista con occhi stranieri. Si dirà che Visconti non è il neorealismo italiano, e anzi ne è forse la figura più controversa. Eppure il tema dello sguardo straniero, o vagabondo, così al centro dell’opera viscontiana, è una chiave che proprio Deleuze riconosce come tipica del neorealismo in generale. Nel neorealismo, dice Deleuze riprendendo Bazin, il reale viene mirato, rappresentato per blocchi dai legami volutamente deboli e fluttuanti. Si tende a cogliere la sconnessione dal mondo, non la sua l’unità (che del resto non esiste, ce la mettiamo noi…). In Ossessione, ad esempio, si registra una sorta di sconnessione interna alle situazioni, nelle quali oggetti e ambienti non hanno più una funzione, ma valgono di per se stessi, fluttuano nello spazio, e dunque, potremmo dire, sei obbligato a guardarli da straniero, come se non li riconoscessi. Mentre in La terra trema, per cui Deleuze usa la bella definizione di “romanticismo marxista”, queste situazioni ottico-sonore pure dividono ricchi e poveri: i poveri vivono in un’unità sensibile e sensuale con la natura, i ricchi invece sono esclusi da questo legame. Ma in generale, appunto anche al di là di Visconti, è come se con il neorealismo si capisse che per vedere la realtà bisogna scollegarsene, diventare dei turisti dei mondo, viaggiatori in terra straniera, come Evans, come i personaggi dei film di Rossellini. Scrive Deleuze: Germania anno zero racconta di un bambino che visita un paese straniero e muore di ciò che vede; Stromboli terra di Dio mette in scena una straniera a cui l’isola si rivela in modo più profondo e violento. Europa 51 parla di una borghese che dopo la morte del figlio fa l’esperienza del caseggiato popolare e della fabbrica alienante. Viaggio in Italia di una turista in crisi coniugale che scopre nei cliché dell’immagine a Napoli qualcosa di insopportabile.