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Riassunto – Gli Strumenti della poesia – Beltrami P.G. 1 Riassunto – Gli Strumenti della poesia – Beltrami P.G. Capitolo I Perché studiare la metrica: Un’introduzione La metrica non comunica alcun significato di tipo linguistico: ogni concetto linguisticamente comunicabile potrebbe essere espresso in qualsiasi forma metrica, e anche in prosa. Il testo poetico è fatto inestricabilmente di ciò che si dice e di come si dice; è quella forma e non un’altra che ne costituisce la compiutezza e la ricchezza di significato. La metrica è parte fondamentale, anche se non esclusiva degli aspetti fondamentali. Conoscere la metrica nelle diverse situazioni storiche significa conoscere i margini entro i quali il discorso poetico effettivamente si muove, distinguere ciò che si spiega con una regola da ciò che si spiega con lo stile personale di un autore. Significa anche, distinguendo, mettere in relazione i due aspetti: 1. capire che musica suona un poeta 2. tenendo conto dello strumento che ha Metrica e musica In origine i testi in versi erano tali perché erano testi per musica. Tuttavia le norme metriche non sono affatto assimilabili alle regole della musica, ma la metrica come la musica organizza nel tempo fenomeni che sono anche suoni, mettendoli in relazione fra loro, secondo rapporti di tempo e di qualità sonora. L’elaborazione metrica del testo non incide su significati comunicabili, ma su percezioni astratte, non traducibili linguisticamente, come quelle di cui è oggetto la musica. Metrica regolare e metrica libera La poesia del novecento si è liberata della grammatica metrica, ma quando si esprime in versi, continua ad organizzare il discorso secondo rapporti di numero di SILLABE, di posizione, di ACCENTI, di ricorrenza di suoni, di corrispondenza e opposizione fra gruppi di versi. La novità è che il testo è costruito in ogni suo aspetto formale, non in applicazione di regole codificate. Metrica e poesia Poesia e versificazione non sono la stessa cosa: - la versificazione è un fatto tecnico - la poesia un concetto culturale molto più complesso. Nella nostra cultura si può dire di un testo in versi che non è poesia: - si può parlare di prosa in poesia - oppure della “poesia dei Promessi Sposi- di poesia visiva - di poesia multimediale applicando i concetti a realtà non linguistiche e non solo linguistiche. La metrica si occupa dunque della versificazione, di tutti i discorsi in versi, al centro dei sui interessi sono posti i testi che appartengono alla storia della poesia.

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Riassunto – Gli Strumenti della poesia – Beltrami P.G.

Capitolo I Perché studiare la metrica: Un’introduzione

La metrica non comunica alcun significato di tipo linguistico: ogni concetto linguisticamente comunicabile potrebbe essere espresso in qualsiasi forma metrica, e anche in prosa. Il testo poetico è fatto inestricabilmente di ciò che si dice e di come si dice; è quella forma e non un’altra che ne costituisce la compiutezza e la ricchezza di significato. La metrica è parte fondamentale, anche se non esclusiva degli aspetti fondamentali. Conoscere la metrica nelle diverse situazioni storiche significa conoscere i margini entro i quali il discorso poetico effettivamente si muove, distinguere ciò che si spiega con una regola da ciò che si spiega con lo stile personale di un autore. Significa anche, distinguendo, mettere in relazione i due aspetti:

1. capire che musica suona un poeta 2. tenendo conto dello strumento che ha

Metrica e musica In origine i testi in versi erano tali perché erano testi per musica. Tuttavia le norme metriche non sono affatto assimilabili alle regole della musica, ma la metrica come la musica organizza nel tempo fenomeni che sono anche suoni, mettendoli in relazione fra loro, secondo rapporti di tempo e di qualità sonora. L’elaborazione metrica del testo non incide su significati comunicabili, ma su percezioni astratte, non traducibili linguisticamente, come quelle di cui è oggetto la musica. Metrica regolare e metrica libera La poesia del novecento si è liberata della grammatica metrica, ma quando si esprime in versi, continua ad organizzare il discorso secondo rapporti di numero di SILLABE, di posizione, di ACCENTI, di ricorrenza di suoni, di corrispondenza e opposizione fra gruppi di versi. La novità è che il testo è costruito in ogni suo aspetto formale, non in applicazione di regole codificate. Metrica e poesia Poesia e versificazione non sono la stessa cosa:

− la versificazione è un fatto tecnico − la poesia un concetto culturale molto più complesso.

Nella nostra cultura si può dire di un testo in versi che non è poesia:

− si può parlare di prosa in poesia − oppure della “poesia dei Promessi Sposi” − di poesia visiva − di poesia multimediale

applicando i concetti a realtà non linguistiche e non solo linguistiche. La metrica si occupa dunque della versificazione, di tutti i discorsi in versi, al centro dei sui interessi sono posti i testi che appartengono alla storia della poesia.

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La metrica studia la poesia negli aspetti che rendono il discorso in versi differente dal discorso in prosa:

− definisce le regole che gli autori hanno rispettato più o meno consapevolmente; − descrive le strutture formali del discorso in versi − esamina il mutare delle regole e delle forme nella storia

La metrica conosce:

− un limite linguistico legato alla pronuncia e sillabazione delle parole, − un limite stilistico nel quale i risultati dell’indagine metrica vengono posti al servizio di una

piena comprensione del testo poetico. Le buone maniere dei poeti Tra secondo Ottocento e primo Novecento si è compiuto nella poesia occidentale un profondo cambiamento di prospettiva, tale che le forme tradizionali non sono più state riutilizzabili se non in modo critico e sempre con qualche libertà, manifestando il senso di distanza che si potrebbe cancellare solo per ingenuità. Mentre prima un testo con un endecasillabo o con una rima irregolari sarebbe stato considerato frutto di un’imperizia imperdonabile, nel Novecento un testo in versi con le sillabe ben contate e tutti gli accenti e le rime al loro posto desterebbe un poco di sospetto, se non mostrasse che quella regolarità è frutto della libertà del poeta. Studiare la metrica italiana nell’età della versificazione libera significa vedersi imporre una prospettiva storica della logica stessa delle cose. Un prima e un dopo un sistema di regole ben codificate, dall’altro un campo aperto alla sperimentazione più varia, apparentemente inesauribile. Che cos’è una strofa La sequenza di versi può essere ininterrotta, dall’inizio alla fine del testo, oppure articolarsi in strutture intermedie, alle quali si da il nome di strofe. La struttura strofica è propria normalmente dei testi in rima. Con rima si intende l’identità di suono della parte finale di due versi. Una strofa può essere senza rima, ma essere identificata dalla successione regolare di più tipi di versi. Può anche consistere di versi tutti uguali, per es. 4 endecasillabi SDRUCCIOLI usati dal Carducci, costituiscono un’unità regolare del discorso. Sarebbe preferibile definire forma strofica solo quella in strofe dello stesso numero di versi, e se rimate con lo stesso schema di rime, e in cui la strofa è un’unità di discorso autonoma. Si definiscono forme strofiche la Canzone e la Ballata pluristrofica, non il sonetto, nell’uso comune si dicono però forme strofiche tutte quelle che sono analizzabili in strofe secondo una struttura regolare. Metro e ritmo Il ritmo è il disporsi nel tempo di elementi riconoscibili e significativi, che nel caso della metrica italiana sono sillabe toniche e atone, suoni uguali, misure sillabiche, o configurazioni di tutti questi elementi, che si dispongono:

− nel tempo reale della dizione − nel tempo virtuale della lettura mentale.

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Il metro è la forma entro la quale il ritmo si realizza. Nella poesia regolare, è l’insieme degli elementi e delle regole che definiscono un modello:

− violandoli, il testo corrisponderebbe a un altro modello o a nessun modello. Nella poesia libera non opera un modello definito, ma un progetto individuale per ogni testo, e perciò in senso stretto il metro si riduce al fatto che il discorso si articola in versi. Se si considera il SETTENARIO il metro consiste:

− nel numero di sette sillabe − nel fatto che la sesta deve essere tonica − in un testo di settenario un verso con più o meno di sette sillabe sarebbe un’infrazione.

Nel settenario della poesia per musica settecentesca il metro è più definito, nel senso che viene evitato che sia tonica la terza sillaba. Il ritmo viene perciò a coincidere con il discorso nel suo insieme in quanto esso è pensato in relazione con la forma metrica. Prosodia Al livello superiore dei fatti metrici si collocano le strutture testuali dette anche forme metriche. Al livello inferiore (prosodia) tutto quello che riguarda gli elementi di suono che formano il verso, e lo mettono in relazione con altri versi (rima) cioè le regole della versificazione riconducibili alla fonetica. Si dicono tratti prosodici le relazioni tra i suoni nella catena parlata: accento, intonazione, quantità. Nella metrica classica, prosodia designa l’insieme delle regole riguardanti le quantità delle sillabe e a la combinazione delle sillabe lunghe e brevi in piedi, metri, versi. Un catalogo di forme Sempre a livello di forme la metrica può essere intesa come un catalogo di forme che nelle varie epoche sono disponibili ai poeti, questi individuano in esso:

− un canone, cioè diverse forme di giudizio; − esercitano le loro scelte, − apportano le loro innovazioni.

Il Bembo nel suo testo Prose della volgar lingua distingue le rime in:

− regolate quindi di struttura fissa − libere di struttura liberamente variabile − mescolate sottoposte ad alcune regole nelle quali la struttura è variabile

Per le forme regolate valgono precise regole strutturali. Nella canzone petrarchesca e nella ballata:

− le strofe hanno una struttura determinata − devono corrispondere tutte allo stesso schema − il principio fondamentale è che le strofe mantengono tutte lo stesso schema, ma la struttura

della strofa è ancora più libra (Madrigale, Strambotto, Rispetto). FORME FISSE: La forma fissa per eccellenza nella metrica italiana è il sonetto, nel tipo formale di 14 versi con una scansione interna in due parti di 8 e di 6, e normalmente in due quartine e due terzine, sebbene gli schemi delle rime ammettano varie possibilità.

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Altra forma fissa molto meno usata è la sestina lirica, si tratta di una variante della canzone. Anche lo strambotto si può considerare in forma fissa. Alla forma fissa non ci si riferisce solo al testo, ma anche quando lo schema è precostituito. Guardando lo schema si considerano forme fisse la terzina dantesca e l’ottava rima. FORME LIBERE La forma libera storicamente più importante è quella del discorso libero in endecasillabi e settenari, oppure anche l’idillio narrativo settecentesco, nel melodramma, sino ad arrivare alla canzone libera del Leopardi. Forme libere minori sono la polimetria quando più misure metriche hanno una commistione nel testo. Metrica e generi letterari Dal lato del rapporto tra forme metriche e generi letterari si noti come:

− tra il Trecento ed il Cinquecento il poema serio si scrive in terza e ottava rima − dal Cinquecento nasce una terza possibilità, l’endecasillabo sciolto, − la poesia drammaturgica predilige la polimetria − dal Cinquecento si sviluppa soprattutto il discorso libero in endecasillabi e settenari.

Per Dante la poesia libera si esprimerà nella canzone, nella ballata e nel sonetto, Petrarca darà il via ad un modello di canzoniere che utilizza la sestina ed il madrigale. Forme libere e forme discorsive L’uso di una forma metrica non è limitato ad un solo genere. Tuttavia:

− una parte delle forme è propria piuttosto della poesia lirica − le altre piuttosto della poesia discorsiva

Le forme liriche sono tendenzialmente brevi e dotate di una certa compattezza stilistica e tematica trattano temi amorosi, morali, politici, d’intrattenimento, sono destinate prevalentemente al canto. Appartengono a questa categoria:

− le poesie dei trovatori provenzali; − le poesie delle corti europee; − per la poesia Siciliana del Duecento vi è il dubbio se questa fosse accompagnata da musica.

Generalmente la poesia è pensata in funzione del testo, e diventa musicabile solo in un secondo tempo e comunque non necessariamente.

Forma estranea alla musica è il sonetto A partire dal Duecento, e per il corso di due secoli:

− la ballata è una forma di poesia musicale (anche se non era necessariamente musicata) − la poesia musicale in Italia ha uno sviluppo rigoglioso.

Sono forme liriche la canzone in tutte le forme assunte nel tempo, la ballata, il sonetto, il madrigale, lo strambotto o rispetto.

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Sono forme discorsive quelle lunghe, vale a dire il distico, la quartina monorima, l’endecasillabo sciolto, la terza e l’ottava rima. Anche la poesia romanza delle chanson de geste francesi avevano una esecuzione cantata o cantilenante. Nella poesia italiana a volte vi è stata una sovrapposizione tra forme liriche e discorsive, le forme della poesia discorsiva delle origini, in accordo con le forme correnti nella poesia discorsiva francese e provenzale non incrociano mai le rime. L’incrocio delle rime è invece un tratto della poesia lirica. A partire dal Trecento la terza e l’ottava rima hanno una origine controversa:

− per la terza rima un modello è il serventese caudato: − per l’ottava rima la strofa della canzone o della ballata sono equivalenti.

Metro e sintassi Viene considerato un fatto di stile il modo in cui la struttura metrica non è vincolata da regole precise. L’enjamlement è il termine più comune per designare la mancata coincidenza tra l’unità sintattica ed il limite del verso. Si tratta di un termine desunto dalla poesia francese classica. Dal Cinquecento in Italia l’enjamlement appare necessario per rafforzare il discorso evitando cadenze prosastiche. Nelle varie epoche si sono dati usi consolidati per l’utilizzo delle forme metriche strutturate:

− nel sonetto la divisione fondamentale è tra i primi 8 versi ed i successivi 6; i primi 8 vengono processati per coppie, gli altri 6 per gruppi di tre.

Nella terza rima Dante effettua tutti i collegamenti possibili tra le terzine, mentre invece l’ottava rima viene articolata dai poeti in generale in diverse scansioni sintattiche prevalenti. Nelle canzoni del Petrarca la scansione sintattica corrisponde all’articolazione interna della strofa. In tutte le forme strofiche è normale che vi sia al termine un limite sintattico forte.

Capitolo II – Contare le sillabe

La sillaba è una nozione linguistica complessa, essa viene definita come unità ritmica della catena parlata. In condizioni normali l’elemento minimo può essere pronunciato da solo, oppure preceduto o seguito da consonanti o semiconsonanti. Per la linguistica italiana il numero delle sillabe è l’elemento costitutivo del verso, dal che si deduce come due parole si possano definire uguali per durata se contengono lo stesso numero di sillabe. Per identificare un verso è necessario un testo di almeno due versi, in tal modo che sia possibile il confronto anche se il verso è isolato viene comunque considerato valutabile. IL PRINCIPIO DEL SILLABISMO ITALIANO Il principio del sillabiamo prevede: due serie sono composte dallo stesso numero di sillabe se l’ultima tonica è nella stessa posizione. Per stabilire il numero di sillabe in un verso si contano le sillabe sino all’ultima tonica. Si possono avere tre casi:

1. dopo l’ultima tonica c’è ancora una sillaba atona; 2. il verso termina con l’ultima tonica (verso tronco) 3. si trovano dopo l’ultima tonica due atone (verso sdrucciolo).

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I parlanti sono in grado di: − confrontare fra loro due enunciati, − dire se sono lunghi uguali, in termini di numero di sillabe, purché siano abbastanza brevi.

Se sono troppo lunghi, e necessario qualcosa che permetta di valutare l'uguaglianza o meno nel numero delle sillabe. Per identificare un verso è necessario un testo di almeno due versi, in modo che sia possible il confronto. § 33. Nella terminologia italiana ha prevalso fin dalle origini l'uso di dare il nome al verso sulla base dell'uscita piana:

− se l'ultima sillaba tonica e la 10a il verso si dice endecasillabo (11 sillabe compresa l'atona finale). In altre parole, si denomina la misura del verso contando sempre una sillaba in più rispetto alla posizione dell'ultima tonica.

Questo principio di computo sillabico deriva dalla metrica provenzale e francese antica: − in quella tradizione i versi prendono il nome dalla posizione dell'ultima sillaba tonica; − perciò quello che in italiano si dice un endecasillabo si dice in francese un decasillabo

(decasyllabe).

La poesia lirica in stile elevato: − ha ammesso per secoli solo versi piani, − negli schemi dell'ode-canzonetta i versi piani, tronchi e sdruccioli occupano sempre la stessa

posizione nelle diverse strofe; − una certa liberta di intercalare versi tronchi e sdruccioli e sempre stata propria della poesia

discorsiva.

III. Parisillabi e imparisillabi

Dante è il primo a distinguere fra parisillabi e imparisillabi: − versi di numero pari o dispari di sillabe, sulla base dell'uscita piana.

Dante aggiunge un giudizio di valore:

− dichiara gli imparisillabi, tranne il NOVENARIO (cfr. § 96), adatti allo stile elevato, − rozzi' invece i parisillabi; e coerente con la tendenza del suo tempo a usare nello stile elevato

quasi solo l'ende-casillabo e il SETTENARIO (cfr. § 103), ed eventualmente il quinario. L'unico aspetto davvero pertinente è che la tradizione italiana non usa combinare insieme parisillabi e imparisillabi, se non raramente:

− nella poesia per musica, in particolare nella storia dell'ode-canzonetta, − si verifica in alcune imitazioni dei metri classici; − in contesto del tutto diverso, avviene invece comunemente nella versificazione libera.

IV. Problemi di computo delle sillabe Quando due o più vocali sono consecutive, il computo non è più cosi ovvio ne nella lingua parlata ne in metrica. Fra questa e la metrica c'e però almeno una differenza importante:

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− nella lingua parlata si possono contare le sillabe, ma normalmente non si contano; − invece in metrica il computo delle sillabe, esplicito o intuitivo, è essenziale per riconoscere

il verso e per distinguerne i diversi tipi. Si dice:

− dieresi il caso in cui un nesso di due vocali entro parola vale due sillabe, − sineresi il caso in cui ne vale una sola. − dialefe il caso in cui la vocale finale di una parola e l'iniziale della successiva valgono due

sillabe, − sinalefe il caso in cui ne valgono una sola. − per dieresi e dialefe si può usare il termine generale di iato.

La dieresi può essere indicata con due puntini sovrapposti, detti dieresi grafica: Per le altre figure non si usano, normalmente, segni diacritici. Nell'esposizione si nomineranno semiconsonanti e semivocali:

− in italiano una semiconsonante e una i o una u (detta 'consonantica') senza valore di sillaba, artico-lata come una consonante.

A. Dieresi e sineresi Per la fine del verso, la regola può parere oziosa o non dimostrabile, perche la misura:

− è identificata dalla posizione dell'ultima sillaba tonica, − e non cambia, comunque si scandisca il nesso.

Tuttavia in tutta la tradizione italiana i versi terminanti in questo modo sono stati usati come versi piani in tutti i casi in cui l’uscita del verso non fosse indifferente. All’interno del verso, questi nessi possono valere due sillabe anziché una:

− eccezionalmente nella poesia petrarchesca e petrarchistica, e nella tradizione formatasi a questa scuola;

− con una certa frequenza, invece nella poesia delle origini, − in Dante, nella poesia meno influenzata dalla prosodia petrarchesca.

E’ stato notato che la dieresi d'eccezione e più frequente davanti a parole inizianti per s + consonante, per es. «vid"io scritte al sommo d'una porta» (Inf. III 11). L'alternanza nel valore di una o due sillabe di questi nessi comporta alcune conseguenze per la rima interna nella poesia antica. Se i nessi di cui si parla non sono finali di parola, ma sono seguiti da un'altra sillaba, o da una consonante, il trattamento e analogo:

− all'interno del verso pareano e di regola un bisillabo piano (e parean un bisillabo tronco); − in fine di verso pareano e parola sdrucciola.

b. Regola etimologica Il principio fondamentale consiste nell'identificare la dieresi con una scansione latineggiante:

− la dieresi divide in due sillabe un nesso che ne valeva due in latino, − e si è ridotto a una in italiano.

Quando il latino aveva due vocali ma una sola sillaba, o una sola vocale ci si deve aspettare che il nesso valga sempre per una sillaba sola: le eccezioni meritano attenzione nell'analisi metrica.

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Lo stesso vale per le parole di origine non latina, salvo che la scansione dei prestiti recenti dalle lingue straniere e più oscillante. Si vede subito che per i nessi di vocale tonica + atona la regola etimologica non vale:

− in fine di verso voi < VOS (la i e l'esito di S finale) vale due sillabe − suo < SUUM (due vocali e due sillabe in latino).

Ugualmente, per gli stessi nessi non vale il fatto che una delle due vocali sia una semivocale come la i di voi, o che en-trambe siano vocali in senso proprio, come le due di suo. Altra cosa e il ricorso a veri latinismi, come savïo e filïo, come e stato più volte praticato:

− in altri casi i è un semplice diacritico, ma la parola aveva in latino una i vocale, che e recuperabile

− Dante nella Commedia usa religione di 5 sillabe, mai religione di 4, cosi come usa visïone di 4 sillabe e non visione di 3.

d. Nessi (quasi) sempre bisillabici

− I nessi di a, e, o + vocale tonica sono di regola bisillabici; per es. sono di tre sillabe paese, paura, maestro, beato, leale, leone, soavi.

− La sineresi e rara: per es. paura di due sillabe nel Fiore, XXII 5 «Vergogna e Paura m'anno abandonata».

Sono bisillabici i nessi di due vocali separate da i consonantica: gioia, noia, -aio. In questi è però caratteristica la sineresi, con frequenza variabile nella poesia antica, e poi, sia pure raramente, fino a tempi recenti:

− Parini, La caduta, 59-60 «e sopra la lor tetra noia le facezie e le novelle spandi» (noia monosillabo);

− nel Novecento, fino a Caproni, nel Passaggio d'Enea, XI, 2 «d'America, dal buio locomotore» (buio monosillabo).

e. Nessi di scansione variabile Quando i e u atone sono seguite da vocale tonica l'uso è oscillante, ma è comune la dieresi:

− in certe parole la scansione in due sillabe e quella normale, viaggio: l'uso dei due punti sovrapposti in questi casi e pleonastico.

L'oscillazione è maggiore nei nessi di due vocali atone diverse da i e u. Nelle forme collegabili con quelle in cui il nesso e tonico, spesso si mantiene il bisillabismo:

− Bëatrice come bëato (Purg. XXXII 36), − paürose come paura (Inf. II 90), − poëtando come poeta (Rvf. 24, 4), − soävemente come soave (Rvf. 37, 100).

§ 49. I nessi di i atona + vocale atona (ia, ie, io, ii)

− in fine di parola sono di regola monosillabici, − nell'uso dantesco non è esclusa la dieresi:

− accidïa (Purg. XVIII 132), − ambrosïa (Purg. XXIV 150), − Silvio (Inf. II 13), − plenilunïi (Par. XXIII 25).

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In fine di verso danno luogo a versi piani, ma sono stati usati spesso con dieresi per formare versi sdruccioli. Se la prima vocale non e i, il monosillabismo e normale

− (perpetua, Rvf. 73, 56), ma la dieresi e piu frequente; per es. (all'interno del verso)

− mutüa (Par. XII 63), − continuo (Inf. XVI 27), − marmorëa (Rvf. 53, 72).

In fine di verso questi nessi sono evitati nella poesia in versi piani, e comunemente usati per formare, con dieresi, versi sdruccioli. B. Dialefe e sinalefe Quando s'incontrano nel verso vocale finale di parola e iniziale della seguente, è normale la sinalefe: le due vocali valgono per una sola sillaba

− nella sillaba così computata può essere assorbito un monosillabo vocalico che si trovi fra due parole.

La sinalefe riguarda il computo di vocali presenti nel testo. E’ possibile invece che una vocale venga soppressa (come in prosa):

− con l’elisione (della vocale finale) − con l’aferesi (della vocale iniziale).

Il primo dei tre versi seguenti contiene:

− un'elisione (nostr'), − il secondo un'aferesi ('ngombra); − nel terzo in e una volta in sinalefe (sia ^in) e una volta con aferesi ‘n);

Per distinguere davvero elisione, aferesi e frasi dalla sinalefe bisogna disporre di una copia del testo sorvegliata dall'autore: copisti e stampatori sono spesso infedeli nel conservare o sopprimere le vocali in queste posizioni. Più raramente, tra vocale finale di parola e iniziale della seguente si può avere dialefe:

− le due vocali valgono per due sillabe distinte. L'uso della dialefe è molto limitato nella poesia di Petrarca e nella tradizione che ne dipende, e ancora più dal Cinquecento in poi:

− la rifiuta per lo più anche la poesia ottocentesca che con la dieresi si prende le maggiori libertà.

− È invece relativamente comune nella poesia del Duecento, in Dante, − nella poesia trequattrocentesca che non risente dell'influenza petrarchesca, soprattutto nella

poesia non lirica. Ferma restando la tendenza di gran parte della poesia italiana ad evitare la dialefe, la frequenza di questa può essere scalata secondo le condizioni in cui avviene:

− in ordine di probabilità decrescente, − dopo vocale tonica o dopo vocale tonica + atona, − dopo certi monosillabi (che, ma, se, o),

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− tra vocale atona e vocale tonica, tra due atone, dopo parola sdrucciola. L'altra possibilità è che il nesso finale di parola e la vocale iniziale della seguente valgano nell'insieme due sillabe, come avviene anche in Petrarca, e più sistematicamente in Dante. Coerentemente con l'uso per cui questi nessi, all'interno del verso, sono monosillabici, si deve in-tendere questo caso come una dialefe dopo il nesso di vocale tonica + atona Questi casi vengono interpretati anche diversamente:

− considerando il nesso di vocale tonica + atona in die-resi d'eccezione, e la vocale successiva in sinalefe.

Questa interpretazione con dieresi d'eccezione e sinalefe:

− è pero meno coerente con la scansione normale di questi nessi, − rischia di moltiplicare il numero delle dieresi d'eccezione in autori che tendono invece ad

evitarle. Dopo certi monosillabi è relativamente probabile incontrare la dialefe anche nell'uso petrarchesco:

− si vedano negli esempi da, chi, ne, o (vocativo), o (avversativo), piu, si. La lista è tutt'altro che completa:

− si aggiunga almeno e < ET, nel quale la consonante etimologica e sempre ripristinabile davanti a vocale (ed, od),

− può valere anche in modo virtuale come limite sillabico, senza essere pronunciata. Nell'uso dantesco anche che e frequentemente seguito da dialefe. Nell'uso antico e dantesco, e nella poesia non ossequiente all'uso petrarchesco:

− la dialefe può avvenire anche dopo vocale atona; − più facilmente se la vocale iniziale della seconda parola e tonica.

Con l'iniziale della seconda parola tonica o atona, esiste anche, seppure rara, la dialefe dopo sdrucciola: da scrivere,4

vi'5 pur cantere'^in parte (Purg. XXXIII 137) venimmo ^ove quell'anime8 äd9 una (Purg. IV 17) pontano3 ï4gualmente; ^e però pria (Par. IV 26). Fra i rari casi di dialefe dopo sdrucciola che si incontrano nella poesia italiana, il più notevole e del Foscolo: antichissime5 öm6bre, e brancolando (Dei sepolcri, 281). § 58. La sinalefe tra due versi, detta anche anasinalefe o episinalefe, è usata nella poesia italiana:

− da Pascoli, in casi in cui la vocale iniziale del verso si lega con l'ultima sillaba del verso precedente sdrucciolo,

− si tratta di una ripresa della figura latina della sinafia, che comprende vari tipi di legamento tra versi o tra parti di verso normalmente separate.

A parte questo caso, senza escludere la possibilità di qualche rara eccezione, si può dire che la sinalefe tra versi non e una figura della metrica italiana.

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C. Altre figure § 59. Non sono propriamente figure metriche, ma possono riguardare la metrica:

− l’ elisione, l’aferesi, − la sincope, l’apocope, − l’epitesi (o paragdge).

− L’elisione e la soppressione della vocale finale di parola davanti all'iniziale della seguente,

normale nel parlato italiano quando la prima parola e proclitica − L’aferesi è la caduta della vocale iniziale: per es. Rvf 128, 12 «e i cor', che 'ndura et serra», − per indura. Entrambe queste figure possono essere usate in alternativa alla sinalefe. − La sincope è la caduta della vocale finale.

E’ normale l'alternanza di forme apocopate e non, come vuol I vuole ecc:

− va notato tuttavia che spesso i manoscritti antichi scrivono la forma piena dove la misura richiede la forma apocopata,

− che dev'essere ristabilita dall'editore prima di dichiarare il verso IPERMETRO. E esistito anche l'uso di segnare con un punto sottoscritto (cioe 'espungere') le vocali che non contano nella misura:

− lo fa Boccaccio nell'autografo del Teseida, sia pure in modo saltuario. Un caso di apocope e la RIMA TRONCA in consonante:

− di uso comune da Chiabrera all’Ottocento, e cade in disuso con Pascoli − (cfr. §§ 128, 148, 151).

L’ epitesi (o pavagoge) è l'aggiunta di una vocale in fine di parola: tue per tu, o fue per fu:

− nel toscano e nella lingua letteraria, risponde ala tendenza ad evitare le finali tranche. E’ significativa per la metrica la preferenza data in uscita di verso alle forme con epitesi piuttosto che a quelle tranche:

− la dieresi e stata anche un mezzo per ottenere versi sdruccioli, − l'apocope per ottenere versi tronchi − l'epitesi è stata un mezzo per ottenere versi piani.

La sincope è la caduta di una vocale interna di parola, per es. quella per cui il lat. SPECULUM e divenuto SPECLUM, da cui Fit. specchio. Interessa la metrica l'uso di forme sincopate rispetto a forme normali

− in Petrarca lettre per lettere (Rvf. 93, 2). In altri casi la sincope è apparente:

− in francesismi come guerro per gueriro o guarird (Rvf. 97, 4). Analogo da un punto di vista funzionale è il caso in cui parole sdrucciole sono misurate come se fossero plane: per es. in Tant'aggio ardire e conoscenza di Ruggieri Apugliese (PD. I, p. 890), femmine al v. 175 e contato molto probabilmente come un bisillabo:

− di fem2mine, piu ke Salamone. Solo in un certo senso si può accostare a questo il caso, presente nella poesia del Novecento:

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− di endecasillabi ipermetri caratterizzati da una parola sdrucciola interna, che se fosse piana renderebbe il verso regolare,

− in Montale «che tarla il mondo, la piccola stortura» (Ossi di seppia, Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale, 11). Questi versi fanno parte del gioco moderno di variazioni sull'endecasillabo, senza rispetto dell'esattezza sillabica, in questo e in molti altri modi.

D. Convenzionalita del computo delle sillabe E’ certo desiderabile che l'esecuzione rispecchi il computo delle sillabe, e questo risultato non è difficile da ottenere nel caso della dieresi e della dialefe:

− basterà un lieve stacco nella pronuncia fra le vocali che formano nel verso due sillabe diverse.

− può esserci un problema di riconoscimento, perche la dialefe non e mai indicata da segni diacritici,

− la dieresi non è sempre indicata dai due punti sovrapposti: ci vorrà una rapida scansione mentale,

− che sarà spesso aiutata anche dalla dislocazione degli accenti, e sarà tanto più semplice e rapida quanto maggiori saranno la conoscenza dei testi e l'esercizio.

Per sineresi e sinalefe, è identico il problema di riconoscimento:

− la sinalefe, che e la soluzione più comune per gli incontri di vocali tra parole, a porre alcuni problemi.

− distinguendo la sinalefe dall'elisione, si raccomanda spesso giustamente che le due vocali si sentano entrambe;

− ma pronunciando tutte le vocali, si crea l'equivalente di una sineresi, che spesso suonerà difficilmente come una sillaba sola:

− è improbabile una pronuncia davvero monosillabica delle sinalefi dopo tonica + atona, cosi normali in Petrarca e perciò nella poesia italiana, per non dire di quelle dopo trittongo.

Questi problemi si presentano più riflettendo sulla scansione del verso che non nella pratica della lettura. Il fatto è che la sillabazione della lingua poetica è convenzionale:

− presuppone un pubblico che più o meno consapevolmente condivida con l'autore un sistema di regole distinto da quello del parlato, per quanto possa avvicinarsi a questo in larga parte.

Poiché la sinalefe è per regola consolidata il caso normale:

− è sufficiente che il testo la consenta perche la scansione mentale la individui, anche se la pronuncia effettiva non la realizza.

La sineresi di un nesso che di regola è bisillabico, la dieresi di un nesso che di regola e monosillabico e la dialefe:

− sono invece casi 'marcati', − la pronuncia deve in qualche modo segnalarli.

La dieresi e la dialefe possono essere realizzate esattamente; tanto più la dialefe, che in certi nessi e normale nel parlato (per es. dopo tonica + atona):

− la mancata realizzazione non impedisce la giusta scansione mentale da parte di un ascoltatore esercitato,

− ma crea un attimo di imbarazzo, e la necessita di una rapida ripetizione mentale del verso per identificarne il computo esatto.

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La convenzionalità della scansione sillabica è un fatto di cultura: − la scansione sillabica, è legata alla cultura dei poeti, − l'uso della dieresi e della sineresi, della dialefe e della sinalefe è diverso nel tempo e nei

diversi generi letterari. Nel lungo periodo della metrica italiana, un aspetto di tale convenzionalità:

− è visibile nella doppia scansione dei nessi di vocale tonica + atona finali di parola, in fine di verso (due sillabe) e all'interno.

Però la scansione in metrica:

− è del tutto indifferente alle pause di intonazione definite dalla sintassi, − e quasi indifferente anche alla divisione interna del verso, − ma dipende esclusivamente dalla posizione in fine di verso o all'interno: ciò rende alquanto

opinabile il collegamento fra la scansione metrica e quella della lingua parlata. V. Cesura Nella metrica latina, la cesura è un limite di parola che cade all'interno dell'unita metrica detta:

− PIEDE anziché alla fine. Un verso può avere più cesure, ma in certi versi è obbligatorio o normale che ce ne sia almeno una in una certa posizione,

− l'ESAMETRO è diviso da una o due cesure in alcuni modi fondamentali. Per esempio:

Nel mezzo, del cammin6 di nostra9 vita - ha tre cesure, alla 3a, alla 6a e alla 9a sillaba. Nella metrica italiana va considerato prima di tutto il caso dei versi doppi:

− il più importante dei quali e il settenario doppio. − questi versi sono articolati in due parti, ognuna delle quali si dice un emistichio ('mezzo

verso'); − si dice cesura la separazione fra i due emistichi.

Una questione controversa e invece la cesura dell'endecasillabo. Ma bisogna prima di tutto distinguere:

− tra la cesura come fatto metrico, − e la cesura come fatto sintattico o ritmico.

Come fatto metrico la cesura è propria del decasyllabe francese e provenzale, da cui l'endecasillabo italiano deriva. Il decasyllabe è composto da:

− due unita metriche (emistichi), di 4 e di 6 sillabe (rispettivamente 4a e 6a tonica); − 1'ultima tonka del verso può essere seguita da un'atona che non conta nella misura

(soprannumeraria), − e così in teoria anche l'ultima tonica del primo emistichio, ma di fatto questo e vero solo per

la versificazione epica antica. La cesura è la separazione tra le due unita nel modello:

− nel testo vi corrisponde un limite di parola, non necessariamente connesso con una pausa. − si dice cesura anche questo limite di parola nel testo, fra i due emistichi, − si distinguono diversi tipi di cesura a seconda di come esso e realizzato. − il tipo più comune di cesura del decasyllabe è la cesura maschile.

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Oppure la parola piana può essere collocata a cavallo della cesura del modello, dando luogo, nel testo, a una cesura apparente alla 5a sillaba, con riduzione del secondo emistichio a 5 sillabe; per es. «aissel qui-s laissa5 I vender ab merce5», da intendersi «aissel qui-s lais4 I sa, venser ab merce6» Questa figura si chiama cesura italiana, perché questa posizione di una parola piana nel verso e comune in italiano molto più che in francese:

− in francese si dice anche cesure enjambante, perche la parola piana è a cavallo tra i due emistichi.

La parola piana con la tonica sulla 4a e l'atona sulla 5a nel primo emistichio, con secondo emistichio di 6 sillabe (cesura epica):

− è quasi assente dalla metrica dei trovatori francesi, − ed è controverso se se ne possano indicare equivalenti in italiano; − si trova invece nella versificazione epica francese antica.

Nell'endecasillabo italiano la funzione metrica della cesura di rendere riconoscibile la misura del verso è sostituita dalla presenza di un accento o sulla 4a o sulla 6a sillaba:

− la funzione dell'accento sulla 4a sillaba deriva dal modello del decasyllabe. − l'accento sulla 6a ha preso la stessa funzione, in alternativa a quello di 4a.

Persa la funzione metrica della cesura, l'endecasillabo può oscillare liberamente tra:

− la divisione netta in due emistichi − la fusione in un andamento ritmico unitario.

Al nuovo ritmo del verso ha contribuito anche la presenza delle parole sdrucciole, che in francese e in provenzale non esistono. Negli studi di metrica italiana si parla perciò di cesura in senso ritmico; si tratta cioè di una pausa o sintattica o di intonazione, che tendenzialmente cade:

− intorno alla metà del verso, − fa si che le due parti siano sentite ritmicamente simili a un quinario e un settenario, o ad un

settenario e un quinario nettamente distinti, se il primo e tronco, o fusi insieme dalla sinalefe.

− questa pausa però non corrisponde ad una divisione del modello del verso, − non è obbligatoria e può essere di vario grado, più o meno forte o più o meno debole, o

mancare del tutto; − inoltre possibile, in questo tipo di descrizione del ritmo, identificare in un verso più di una

pausa. VI. Isosillabismo e anisosillabismo Un verso che:

− eccede la misura prevista (troppo lungo) si dice ipermetro; − non la raggiunge ('troppo breve') si dice ipometro.

Nella poesia italiana antica la versificazione isosillabica convive però: − con una versificazione anisosillabica, cioè con forme di versificazione nelle quali, dato un

tipo di verso di base, una certa escursione nel numero delle sillabe non altera la forma metrica del testo.

La possibilità di ammettere oscillazioni sillabiche nella misura è data dal fatto che in questa poesia prevale la rima, nella gerarchia degli dementi metrici, sull'esattezza del numero sillabico.

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Una poesia anisosillabica senza rima non sarebbe concepibile prima della versificazione libera moderna. L'anisosillabismo è proprio in particolare della versificazione cosiddetta 'giullaresca', ai margini della linea maestra della lirica in stile elevato:

− il verso più caratteristico oscilla fra 8 e 9 sillabe (ottonario-novenario), con escursioni fino a 10.

− nei poemetti giullareschi la base è normalmente il verso di 9 sillabe, corrispondente all’octosyllabe francese.

Il verso di 8-9 sillabe è comune anche nelle LAUDE:

− per le quali si assume in genere che la misura di base sia quella di 8 sillabe − sono anisosillabiche anche altre misure, come il QUINARIO DOPPIO

L'anisosillabismo si trova anche:

− nella poesia didascalica settentrionale, − molto più raramente, si incontra anche nella lirica in stile elevato.

Nel Tre-Quattrocento l'anisosillabismo è frequente negli endecasillabi dei cantari.

CAPITOLO TERZO

L'ACCENTO I. Sillabismo e accento A. Una metrica sillabico-accentuativa I versi italiani sono caratterizzati dal numero delle sillabe:

− il 'numero di una serie di sillabe' (sillabismo) dipende dalla posizione dell'ultima tonica. − la metrica italiana si può dire sillabico-accentuativa piuttosto che sillabica in senso stretto.

In italiano l'accento è la caratteristica per cui una sillaba è articolata con più energia delle altre (accento di intensity, o dinamico): questa si dice tonica, le altre si dicono atone.:

− non tutti gli accenti della prosa sono ugualmente pertinenti nel verso, − ed è talvolta possibile che un accento metrico coincida con una sillaba che in prosa sarebbe

atona. B. Accenti obbligatori, principali, secondari Con accenti del verso si intende che le sillabe che occupano determinate posizioni sono toniche; 'accento sulla 4a o 'di 4a' significa che la 4a sillaba del verso e tonica. Gli accenti del verso sono generalmente distinti secondo una gerarchia di importanza:

− accenti obbligatori, accenti la cui presenza o assenza rende il verso 'corretto' o 'sbagliato' rispetto alla norma adottata

− principali quelli la cui presenza o assenza fa passare il verso da un tipo istituzionale ad un altro. (Per es. nell'endecasillabo sono obbligatori I'accento sulla 10', perche senza di questo un verso non e un endecasillabo)

− secondari rispetto al metro, ma sono importanti per il ritmo del verso; la disposizione di tutte le sillabe toniche e atone, soprattutto nei versi ad accentazione variabile, e anzi il primo strumento in mano al poeta per l'elaborazione 'musicale' del discorso

La disposizione degli accenti nel verso si dice schema accentuativo:

− vi si comprendono i soli accenti obbligatori e principali,

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− quelli ritenuti più significativi, − tutti gli accenti di un verso dato.

a. Versi ad accentazione fissa o variabile Nella tradizione italiana alcuni versi si sono stabilizzati in una forma con accenti fissi:

− cioè con una distribuzione rigida delle sillabe toniche: − sono il DECASILLABO (3a-6a-9a), − il novenario (2a-5a-8a), l'ottonario (3a-7a) − il SENARIO (2a-5a).

Questa stabilizzazione per decasillabo, novenario e senario è un fatto sette-ottocentesco:

− nell'ottonario invece la tendenza alla forma con accenti fissi è presente fin dalle origini. − sono versi ad accenti variabili l'endecasillabo e il settenario, nonché il quinario (la o 2a

tonica oltre la 4a). b. Versi distinti dal solo schema accentuativo Due versi dello stesso numero di sillabe sono sostituibili fra loro o alternabili liberamente, come realizzazioni dello stesso tipo di verso, anche se presentano una diversa disposizione degli accenti non obbligatori secondo la norma adottata dall'autore. E’ molto rara nella tradizione italiana l'opposizione fra versi dello stesso numero di sillabe:

− come versi distinti, non sostituibili fra loro nelle stesse posizioni del testo II. L'interpretazione ritmica del verso A. La dimensione orale della metrica Anche le categorie della metrica appartengono alla dimensione orale del discorso, sebbene nella poesia sia in molti casi prevalente la natura di testo scritto:

− si è già visto come questa debba almeno in alcuni casi essere interpretata mentalmente, al di la della pronuncia effettiva, nel caso della scansione sillabica.

− Il discorso può essere ora allargato tenendo conto del profilo ritmico del verso, che ha i suoi punti di riferimento negli accenti obbligatori e principali, e soprattutto nell'ultimo accento.

Quando il limite di verso separa due elementi sintattici strettamente connessi nella normale intonazione di frase, come un aggettivo dal sostantivo a cui si riferisce, si può ritenere che una pronuncia 'legata' distrugga il verso, e che d'altro canto una pronuncia 'staccata' sia 'innaturale'. Si dice perciò che fra discorso in versi e lingua 'naturale' esiste una tensione:

− ad alcuni è parsa essa stessa un elemento di poeticità, − che consente di usare come strumento del ritmo la distribuzione delle pause sintattiche e di

intonazione. Il testo prodotto dall'autore è disponibile ad ogni forma di esecuzione:

− ad ogni fruizione nella quale intervengono la cultura, le esigenze, i gusti di un pubblico sempre diverso.

Nella produzione del testo interviene un modello di forma metrica:

− presente nella 'coscienza metrica' dell'autore, che può essere tradotto in regole esplicite, indipendentemente da come l'autore lo possieda.

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Le regole metriche: − descrivono ciò che nel modello è il minimo essenziale per la correttezza metrica, − un verso è corretto rispetto al suo modello se esiste almeno un'esecuzione possibile che vi

corrisponda, indipendentemente dal fatto che questa sia l'esecuzione più 'naturale' o ritenuta preferibile nella normalità dei casi.

Il grado di tensione fra l'esecuzione 'naturale' e quella richiesta dalla metrica:

− è un fatto di cultura che varia secondo i poeti, gli stili, i generi letterari, le epoche. Nella stessa epoca la probabilità che nella versificazione lirica si debba accentare una forma atona

− è ristretta secondo la norma petrarchesca a pochi casi molto meno 'traumatici'. B. Come si individuano gli accenti a. Un criterio Il problema dei diversi schemi accentuativi possibili:

− si pone per l'endecasillabo più che per qualsiasi altro verso, − sia per la sua dimensione, − sia per la prevalenza nell'uso e nel prestigio in tutte le epoche.

Numerose descrizioni dell'endecasillabo:

− consistono nel regesto dei vari tipi di schemi accentuativi. − tale soggettività è in genere limitata da criteri impliciti o espliciti, sui quali e bene

richiamare l'attenzione. Un criterio possibile, creato da Marco Praloran in uno studio del 1988:

− nell'assumere che normalmente l'accento metrico coincida con un accento di parola, − nel definire quali tipi di parola si debbano considerare privi di accento e a quali condizioni.

Criteri un poco diversi, ma ugualmente fondati sulla sintassi e sull'intonazione normale della prosa o del parlato, sono stati sviluppati da David Robey e da Stefano Dal Bianco:

− l'esecuzione orale non solo della poesia, ma anche della prosa d'arte, può avere caratteristiche particolari e diverse da quelle del discorso comunicativo

b. Accenti principali su sillabe atone In Dante e Petrarca un certo numero di versi con 4a e 6a sillaba entrambe atone, non riconoscibili intuitivamente come endecasillabi senza contare le sillabe:

− questi versi sono però rari, − il loro numero cala drasticamente, e si riduce sostanzialmente a zero per la Commedia e il

Canzoniere. − dall'Ottocento si ammette che l'accento obbligatorio interno cada su una sillaba altrimenti

atona nell'intonazione normale. Il punto è che i versi con l'accento obbligatorio realizzato su una sillaba atona:

− si oppongono nettamente a quelli in cui non c'e nessuna possibilità di accentare la 4a o la 6a sillaba,

− sono molto rari e dalla normalità degli autori della tradizione metrica sono ammessi solo come casi eccezionali.

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E’ perciò interessante verificare fino a che punto e con che frequenza ammetta tensione fra il metro e l'intonazione normale della lingua facendo cadere l'accento obbligatorio su sillabe che nel parlare comune sarebbero atone. c. Spostamenti d'accento Nella lingua poetica si trovano parole con accento 'spostato':

− lo 'spostamento' in avanti si dice diastole, − quello all'indietro si dice sistole. − ciò avviene non per semplice 'licenza' presa dal poeta, − ma nell'ambito di serie di doppie forme proprie della lingua poetica.

d. Accenti consecutivi? Negli studi si incontrano atteggiamenti contrastanti sulla possibilità che due accenti del verso siano consecutivi. Si veda qualche esempio, in endecasillabi: 2a-3a et di2co: ^Anima, assai ringratiar dêi (Rvf. 13, 7) 3a-4a Non son mio3, no. S'io moro, il danno è vostro (Rvf. 23, 100) Teoria prosodica: (contestata)

− in italiano non sono possibili ne due toniche ne tre atone consecutive, − se si incontrano due accenti uno dei due dovrebbe essere o soppresso o spostato.

es. in «onde questa gentil donna si parte» (Rvf. 77, 6) si dovrebbe accentare gentil ma così mancherebbe l'accento sia sulla 4a sia sulla 6a, contro la norma petrarchesca. Si assume qui invece il punto di vista secondo il quale:

− sono possibili tanto due sillabe toniche, quanto più di due atone consecutive. − gli accenti consecutivi possono essere eseguiti con una lieve pausa fra l'uno e l’altro; − ciò non vuol dire che tutti debbano essere messi in rilievo, purché si pongano in rilievo gli

accenti obbligatori e principali. L'uso di lasciare, evitare o cercare accenti consecutivi:

− è un fatto di stile di cui si possono studiare gli aspetti individuali e le tendenze storiche. Esiste una tradizione che comincia con Dante e Petrarca, ma ha un nuovo impulso con Parini e con Foscolo, di ricerche sull'endecasillabo accentato sulla 6a e sulla 7a sillaba: A egregie cose il for6te ^a7nimo accendono . . . - (Dei sepolcri, 151).

CAPITOLO QUARTO I VERSIITALIANI

I. Endecasillabo L'endecasillabo il verso più importante della tradizione italiana:

− prevalente per importanza e per frequenza d'uso in tutte le epoche e, − evidente misura di riferimento anche per la versificazione libera del Novecento.

E’ un endecasillabo un verso che abbia come ultima sillaba tonica la 10a:

− il tipo che si può dire canonico, ha tonica almeno la 4a sillaba o, in alternativa, la 6a, oltre la 10a: la 4a e la 6a possono essere entrambe toniche, ma non entrambe atone.

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Se è tonica la 4a, il ritmo iniziale corrisponde a quello di un quinario: − di un verso minore della parte residua dell'endecasillabo, che in questo caso si dice a

minore; Se invece e tonica la 6a, il ritmo iniziale corrisponde a quello di un settenario:

− di un verso maggiore della parte residua dell’endecasillabo, che in questo caso si dice a maiore.

Se sono toniche la 4a o la 6a sillaba, oltre la 10a, il verso è comunque 'corretto': − in tutta la tradizione italiana l'endecasillabo italiano è caratterizzato proprio dalla mobilita

del disegno accentuativo. − alcuni tipi sono prevalenti, e in particolare per l’a minore si possono dire normali i due tipi

con accenti sulla 4a-8a-10a e sulla 4a-7a-10a. Nella tradizione influenzata da Petrarca quello sull'8a o sulla 7a si può dire un accento principale:

− i due tipi sono sentiti come distinti − il secondo è tendenzialmente evitato.

Le possibilità di distribuzione delle sillabe toniche nel verso danno luogo ad un numero di varietà ritmiche che può essere molto elevato, secondo il modo in cui i tipi vengono computati. L'alternanza dei diversi tipi nello stesso testo è ricercata e sfruttata in tutte le epoche come mezzo di variazione stilistica.

Si possono distinguere solo tre tipi fondamentali: − i due tipi dell'endecasillabo canonico, a minore e a maiore, considerati corretti in ogni

momento della versificazione italiana, − e il tipo non canonico, in cui sono atone sia la 4a sia la 6a sillaba.

Quando la 4a sillaba è tonica e la 6a è atona: − il tipo con accenti sulla 4a-8a-10a è il più frequente fin dalle origini, − si può dire 'non marcato', nel senso che esso può essere usato senza alcun tipo di

connotazione stilistica particolare in ogni genere poetico. Esempio: mi ritrovái4 per una sél8va oscura (Inf. I 2) Meno frequente dell'altro già nella poesia del Duecento e in Dante:

− è molto meno usato da Petrarca, − nella tradizione petrarchistica è sentito come un verso poco adatto alla poesia lirica in stile

elevato, più usato perciò nella poesia discorsiva e nello stile 'comico'. Esempio: ripresi via4 per la piág7gia disérta (Inf. I 29) Qui si potrebbe considerare tonico l'avverbio non che cade sulla 6a sillaba:

− un endecasillabo a minore in cui l'accento sulla 4a sia l'accento di una parola sdrucciola non è canonico, sebbene soddisfi il requisito della 4a tonica.

Esempio: E ella, veggé4ndolo cotanto sággio (Bel Gherardino, II 20,5). Nell'endecasillabo a maiore, caratterizzato dalla 6a sillaba tonica, è generalmente tonica almeno una sillaba che precede la 6a, più frequentemente la 2a o la 3a che non la la:

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Esempio: Questa á2nima gentil6 che si dipárte (Rvf. 31, 1) Se è tonica anche la 4a, il carattere a maiore o a minore del verso è una scelta di esecuzione, perché il testo risponde altrettanto bene ai due modelli possibili: a seguitár4 costéi6 che'n fuga è vólta (Rvf. 6, 2). Raro è invece il caso in cui:

− la 6a sillaba tonica non sia preceduta da alcun accento rilevante: Esempio: de la trasfigurá6ta mia persóna (Rvf. 23, 42).

− si passi direttamente da un forte accento sulla la sillaba a quello sulla 6a: Esempio: Sgóm1brimisi del pé6tto ogni altra vóglia (Bembo, Perché ’l piacer, Asolani, III, 4). L'endecasillabo non canonico è sempre raro:

− relativamente più frequente nella poesia delle origini, − successivamente, in aree marginali della versificazione italiana, e al di fuori dell'osservanza

petrarchistica. − ricompare con maggiore frequenza nel diverso contesto culturale della versificazione libera

moderna, che, quando riprende l'endecasillabo, lo usa anche in forma non canonica. Esempi: che non fós3se divenúta pietósa (Guittone, Ahi Deo, che dolorosa)

II. Decasillabo È un decasillabo un verso che abbia come ultima sillaba tonica la 9a:

− dal secondo Settecento in poi, la forma normale del verso è quella con accenti fissi, nella quale sono sempre toniche la y e la 6a sillaba oltre la 9a: Esempio: S'ode a dé3stra uno squíl6lo di trómba, (Manzoni, Coro del Carmagnola, 1).

Questo tipo è rimasto legato all'uso di Manzoni e dei poeti romantici:

− ai quali proviene dalla poesia per musica del Seicento e del Settecento; − lo si trova già nel Duecento: nella ballata di Onesto da Bologna che comincia

La partén3za che fó6 dolorósa E’ un verso molto raro, ma è quello del più antico testo lirico italiano, una canzone recentemente scoperta di cui questa è la prima strofa: Quando eu stava in le tu cathene, oi Amor, me fisti demandare s'eu volesse sufirir le pene ou le tu' rechice abandunare, k'ènno grand'e de speranza plene, cun ver dire, sempre voln'andare. Non respus'a vui di[ritamen]te k'eu fithanca non avea niente de vinire ad unu cun la çente cui far fistinanca non plasea. Usi particolari del decasillabo si trovano in Pascoli:

− in Valentino (C.Cast.) si alternano endecasillabi con accenti di 4a-7a-10a (versi dispari) e decasillabi con l'accento sulla 4a ed eventualmente sulla 6a (versi pari): Oh! Valentí4no vestí7to di nuó10vo,

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III. Novenario E’ un novenario un verso la cui ultima sillaba tonica sia l'8a:

− fino all'Ottocento è stato un verso raro nella poesia italiana; − nel secondo Ottocento si è affermata la forma con accenti fissi sulla 2a e 5a sillaba oltre che

sull'8a. Esempio: Dal Lí2bano tré5ma e rosséggia su '1 mà2re la fré5sca mattína . . . (1-2). Ballata romantica Carducci Jaufré Rudel Nella poesia antica il novenario si trova molto raramente nella poesia lirica

− un caso è dato dalla ballata Per una ghirlandetta di Dante, dove sono novenari i primi quattro versi di ogni STANZA, con accenti liberi e per lo più sulla 4a o sulla 3a sillaba: I' vidi a vói4, donna, portáre ghirlandét3ta di fior' gentile . . . (4-5).

Pascoli ha sfruttato più di ogni altro le possibilità ritmiche del novenario moderno:

− sia nel tipo di 2a-5a-8a, − sia in alternanza con altri tipi, soprattutto quello di 3a-5a-8a.

In La voce (C.Cast.) sono del primo tipo i versi pari, del secondo i dispari: C'è una vó3ce nél5la mia vita che avvér2to nel pún5to che muóre: voce stán3ca, vó5ce smarrita, col tré2mito dél5 batticuóre (1-4). IV. Novenario doppio Qualche testo antico in ottonari-novenari, come il Ritmo laurenziano (PD. I, p. 5) si può considerare scritto in versi doppi:

− nella poesia recente si può citare L’amica di nonna Speranza di Gozzano (1883-1916): Loreto impagliato ed il busto9 d'Alfieri, di Napoleone9

i fiori in cornice (le buone9 cose di pessimo gusto)8 . . .(1-2). V. Ottonario È un ottonario un verso la cui ultima sillaba tonica sia la 7a:

− il tipo più normale è quello con un accento fisso sulla 3a oltre quello sulla 7a. Esempio Su '1 castél3lo di Veróna

batte il só3le a mezzogiórno (1-2). (Carducci, La leggenda di Teodorico) Gli ottonari antichi non hanno necessariamente l'accento fisso sulla 3a:

− nel secondo Quattrocento, si possono trovare ottonari con accentazione diversa Esempio: Canzona di Bacco di Lorenzo de' Medici (Quant'è bella giovinezza).

L'accento fisso sulla 3a:

− è più una regola con eccezioni, − che una semplice tendenza − questo verso non è comparabile col novenario, la cui regolarizzazione accentuativa è un fatto

del secondo Ottocento. VI. Ottonario doppio L'uso dell'ottonario doppio è estremamente raro

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− nella poesia recente si può citare La sacra di Enrico quinto di Carducci in distici a rima baciata: Esempio: Quando cadono le foglie8, quando emigrano gli augelli8

e fiorite a' cimiteri8 son le pietre de gli avelli8 . . . VII. Settenario E’ un settenario un verso la cui ultima sillaba tonica sia la 6a:

− la posizione di uno o due accenti interni prima dell'ultimo è del tutto libera; − solo l'accento sulla 5a si può considerare eccezionale.

La grande fortuna del settenario è congiunta con quella dell'endecasillabo:

− può essere sentito come una parte a maiore, o la seconda di un endecasillabo a minore. − la combinazione di endecasillabi e settenari è frequente in tutta la poesia italiana; − l'uso del settenario da solo è meno frequente, ma tuttavia normale in ogni epoca.

Esempi del tipo normale, con uno-due accenti (ma uno solo necessario) tra la la e la 4a sillaba, dalla canzone 126 di Petrarca: - Chiá,re, fré3sche et dolci ácque (1) In questi due esempi, l'accento sulla 5a segue rispettivamente quello sulla la e quello sulla 2a:

− raro è anche che l'accento sulla la sia seguito direttamente da quello sulla 6a, dopo 4 atone, o che l'accento sulla 6a non sia preceduto da nessun accento di qualche rilievo: Esempio: gli uòmini e gli animali (Guarini, Pastorfido, I 4)

VIII. Settenario doppio (alessandrino o martellano) Nella poesia italiana antica si trovano due tipi di settenario doppio.:

− il primo è quello del Contrasto di Cielo d'Alcamo; − il primo settenario è sempre sdrucciolo, il secondo piano Esempio:

Rosa fresca aulentí6sima ch'apari inver' la stá6te, le donne ti disí6ano, pulzell'e maritá6te: . . . (1-2). L'altro tipo è la forma italiana dell'alessandrino francese: in esso sono combinati due settenari, il primo dei quali può essere piano o anche sdrucciolo. Un terzo tipo di settenario doppio:

− dopo che questo verso è caduto in disuso al di là della poesia del Duecento, − è entrato nell'uso nel Sei-Settecento nell'ambito della versificazione teatrale, a imitazione

dell'alessandrino francese 'classico'; è detto martelliano da Pier Jacopo Martello, che lo introdusse nelle sue tragedie.

IX. Senario È un senario un verso la cui ultima sillaba tonica sia la 5a.

− ha un accento fisso sulla 2a. Esempio Fantá2sma tu giúngi, tu pár2ti mistéro (1-2). Pascoli (Canzone d'aprile, Myr.):

X. Senario doppio Il senario doppio, con entrambi i senari accentati sulla 2a e 5a, fa parte del repertorio di versi fortemente ritmici cari alla poesia romantica:

− È il verso del primo coro dell'Adelchi di Manzoni: Dagli á2trii muscó5si, dai Fó2ri cadén5ti.

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XI. Quinario E un quinario un verso la cui ultima sillaba tonica sia la 4a.:

− può avere tonica la la o la 2a, − solo eccezionalmente la 3a; − ma quello sulla 4a può anche essere il primo accento rilevante.

Il quinario è usato nel Duecento nella canzone, prima che divengano esclusivi endecasillabo e settenario; dal Cinquecento si trova inserito nel discorso libero:

− in endecasillabi e settenari; − strofe di quinari fanno parte del repertorio dell'ode-canzonetta.

XII. Quinario doppio Il quinario doppio si distingue dal decasillabo perché:

− la divisione fra le due parti è costante; − l’accento cade sempre sulla 4a sillaba; − si ritrova poi nel repertorio canzonettistico e melodrammatico del Settecento − notevole uso ne ha fatto infine Pascoli

XIII. Quadrisillabo E’ un quadrisillabo un verso il cui ultimo accento sia sulla 3a sillaba:

− è usato soprattutto in combinazione con altri versi, Esempio: Cor, che d'át3ti empi e crudéli8 (Chiabrera, Cor, che d'atti empi e crudeli) XIV. Trisillabo È un trisillabo un verso la cui ultima sillaba tonica sia la 2a:

− Come verso a sé è di uso recente; − Pascoli lo inserisce in combinazione con il senario o,

Esempio in combinata con il novenario ma sgrigioli come quand'eri9 saggina3, Pascoli (La canzone della granata, C.Cast., 11-12):

CAPITOLO QUINTO LA RIMA

I. Funzioni della rima La rima è l'identità di suono della parte finale di due o più parole:

− a partire dalla vocale tonica compresa (vITA: smarrITA), − di due o più versi, a partire dall'ultima vocale tonica compresa.

Il termine rima deriva:

− dal francese antico risme, rime e il provenzale rim o rima, − dal latino rhythmus, che nella poesia latina medievale designa le forme che non rispettano

più la metrica quantitativa classica − ma si fondano sul numero delle sillabe, sull'accento e sulla rima.

La rima è anche sinonimo di 'poesia in lingua volgare'. È rimasto nell'uso il termine rime per designare le poesie rimate in italiano.

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A. Funzione demarcativa Fino al Cinquecento la poesia senza rima è poco meno che inesistente:

− la rima è stabilmente associata alla fine del verso, − necessaria quanto l'esattezza del computo sillabico.

In queste condizioni essa ha una funzione demarcativa:

− favorisce la percezione della divisione in versi − gli eventuali versi senza rima sono inseriti come 'rime di grado 0', per le quali ha senso il

termine RIMA IRRELATA. Nella poesia isosillabica la funzione demarcativa della rima ha un'importanza minore:

− si sposta all'interno può individuare un verso minore all'interno del maggiore. Dante nel De vulgari eloquentia (II XII 8) allude al trisillabo, da lui usato in Poscia ch'Amor (Rime, 27) all'interno del terzo verso di ogni strofa: Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciATO, non per mio grATO, che stATO, non avea tanto gioioso. B. Funzione strutturante La disposizione delle rime (schema delle rime) è uno degli elementi di maggiore rilievo nella costruzione di strutture strofiche:

− La rima baciata o a coppie o accoppiata ha la forma AA BB CC . . . − La forma strofica più direttamente collegata con questo tipo di rima è il distico. − La rima di tipo AA . . . può essere continuata lungo tutta una strofa, che si dice

monorima; − il caso più rilevante è la quartina monorima AAAA BBBB CCCC . . . (nel Duecento è

in uso quella di alessandrini). − La rima alternata o alterna ha la forma AB AB CDCD EFEF . . .;

− nella forma più semplice si usa nella quartina. − la rima alternata per 8 versi AB AB AB AB dà luogo a uri ottava siciliana; − una serie analoga costituisce la prima parte di uno dei due tipi principali del sonetto. − se gli ultimi due versi sono a rima baciata, ABABABCC, lo schema si dice ottava

toscana − se i versi a rima alterna sono 4, ABABCC, lo schema si dice sestina.

− La rima incrociata o chiusa o abbracciata ha la forma ABBA CDDC EFFE . . .; − anche questa è usata in quartine. − due quartine a rima incrociata con le stesse rime ABBA ABBA formano la prima parte

del secondo e più diffuso dei due tipi del sonetto. − La rima incatenata è lo schema della terza rima o terzina dantesca: AB A BCB CDC . . .

− si dicono rime replicate schemi del tipo ABC ABC; − rime invertite o retrogradate schemi del tipo ABC CBA.

− Rima costante è quella che collega tutte le strofe di un testo nella stessa posizione. C. Funzione ritmica o associativa La ripetizione di serie di suoni in posizioni chiave è un elemento importante del ritmo del testo:

− questa funzione ritmica della rima si può dire anche associativa, ponendo in relazione anche significato e funzione sintattica.

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− il rapporto fra la somiglianza delle parole in rima e la maggiore o minore diversità di senso, − la diversa funzione nel contesto, la prevedibilità o meno dell'accostamento è sempre

significativo. Si dice rima facile, quella per cui sono disponibili nella lingua molte parole:

− quella desinenziale, cioè fra parole di uguale desinenza, come per es. mentIRE: dIRE − la rima suffissale, tutti gli avverbi in -mente rimano tra loro. − la rima difficile o cara o rara è quella per la quale è difficile trovare parole, cara soprattutto

alla poesia antica. La rima derivativa è quella fra due parole di cui:

− una deriva dall'altra, come degna: disdegna (Rvf. 5, 11: 12), − con derivazione solo apparente, come in queste membra: ti rimembra (Rvf. 15, 10: 12).

Nella rima inclusiva, una parola in rima è contenuta nell'altra o nelle altre. Esempio arte: Marte: carte: parte, Rvf. 4, 1: 4: 5: 8). II. L'identità dei suoni nella rima A. Rime fonetiche e rime culturali a. Rima 'perfetta' e 'imperfetta' Si dice rima perfetta

− quella con identità di tutte le vocali e consonanti Si dice rima imperfetta

− quando l'identità non è completa − Il caso più rilevante è l’assonanza, che comporta l'identità rigorosa delle sole vocali.

Un'assonanza si può dire a sua volta imperfetta se è uguale solo l'ultima vocale tonica.

− se sono uguali solo le consonanti, − se manca l'uguaglianza della vocale tonica,

la figura si dice consonanza. Quest'ultima non è usata quasi mai in luogo della rima Esempio: consuMA: chiaMA, beveNDO: baNDO (Bacco in Toscana del Redi, 27-30), L'assonanza al posto della rima non è necessariamente segno di trascuratezza:

− in generi come la lauda, il serventese, i cantari l'assonanza è ammessa come figura normale accanto alla rima.

La nozione di 'identità' non è solo fonetica, ma è anche culturale.

E’ perfetta la rima di é chiusa con è aperta e con iè {vede: piede; vérde: pèrde) e di ó chiusa con ò aperta e con uò {amóre: cuòre; córto: pòrto):

− in ciò la metrica italiana differisce sin dalle origini da ogni altra metrica romanza, dove é non rima con è né ó con ò.

I primi modelli di poesia italiana, nel Duecento, sono in siciliano, e hanno agito in Toscana attraverso copie toscanizzate. Il latinismo amore (usato invece di amuri) ha perciò ò, e rima con core:

− in toscano si ottiene una rima amóre: core. − in siciliano tutte le rime in ente sono in è aperta; in toscano e si è chiusa nel gruppo ment, ma

non negli altri casi: ne risultano rime del tipo parénte: sensibilmente (Inf II 13: 15).

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b. Rima siciliana e altre rime 'da interferenza linguistica' La poesia antica conosce altri tipi di rima 'culturale':

− il più notevole è la cosiddetta rima siciliana, − nel testo critico della Società Dantesca curato da Vandelli (1921) erano preferite le forme

venesse e di sutto, con rima perfetta, che pure si trovano in alcuni dei manoscritti antichi. Il riconoscimento del fatto che la rima siciliana è considerata legittima dai poeti antichi

− è infatti un risultato della filologia recente, acquisito con l'edizione dei Poeti del Duecento di Contini (1960),

− la rima siciliana e i tipi di rima più o meno analoghi costituiscono, nella prosodia poetica duecentesca, un'eccezione ammessa, mai la regola.

− la rima siciliana può essere fatta risalire alla toscanizzazione della poesia siciliana. − Un esempio di rima siciliana è anche in Petrarca: altrui: voi (Rvf 134, 11: 14).

Questo tipo di rima può estendersi, sempre nella poesia antica:

− a casi non motivati dal siciliano, ma dall'interferenza di altri tipi linguistici: per es. nOME: COME: lUME (Inf. X 65: 67: 69), detta bolognese perché lume suona lome in quel tipo linguistico.

− un'ulteriore estensione è la rima guittoniana (Guittone d'Arezzo), per cui i rima non solo con é, ma anche con è, u non solo con ó, ma anche con ò: Esempio: . dURi. sicURi: di fÒRI (Purg. XIX 77:79:91).

La tendenza alla rima perfetta ha creato presto delle forme 'speciali' usate solo per la rima:

− ciascONO: pONO ('pongo'), ascUSA: chiUSA, (Documenti d'Amore di Francesco da Barberino (I, pp. 17 e 58-9),

− Nui e vui per la rima sono sopravvissuti alla rima siciliana: nui è nel Cinque maggio di Manzoni in rima con lui (32: 34).

Di diversa origine è la rima francese, di a + nasale con e + nasale (amante: avenente):

− nella quale e nasalizzata si è aperta in a tra XI e XII secolo, − i participi in ENTE sono stati sostituiti da participi in ANTE − le forme degli astratti in ENTIA da forme in ANTIA, − perciò le forme corrispondenti alle italiane in -ante, -ente e -anza, -enza rimano fra loro.

B. Rima piana, tronca, sdrucciola La rima piana è la più comune in italiano:

− la rima tronca e la rima sdrucciola sono rare nella poesia antica, − la compresenza di rime piane, tronche e sdrucciole nello stesso testo trova pieno diritto di

cittadinanza nella poesia lirica solo con l'ode-canzonetta di Chiabrera. La rima tronca, rara fino al XVI secolo:

− è usata sporadicamente nella Commedia, e nel Canzoniere di Petrarca − il sonetto in rime tronche è un genere contemplato dalla Summa di Antonio da Tempo; − la rima tronca in consonante, di parole come amor, finir, man, che potrebbero dare

altrettanto bene rime piane (amore, finire, mano), nella poesia antica è ancora più rara; si trova nella poesia per musica quattrocentesca e diventa comune solo dopo Chiabrera.

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La rima sdrucciola, rara anch'essa nel Duecento e in Dante: − diventa più frequente nel Trecento, soprattutto attraverso l'opera di Fazio degli Uberti − il sonetto in rime sdrucciole è un genere contemplato da Antonio da Tempo; − la rima sdrucciola entra inoltre frequentemente nei generi musicali.

Caratteristica del Quattrocento:

− è l'idea che la rima sdrucciola abbia un sapore popolareggiante, − in virtù del quale essa è impiegata nella poesia bucolica in terza rima.

Nelle forme dell'ode-canzonetta (dal XVI-XVII secolo):

− oltre alle rime sdrucciole, sono sempre più frequenti i versi sdruccioli non rimati in posizione fissa nella strofa.

C. Rime tecniche Sono definite tecniche:

− le rime arricchite da un'estensione all'indietro del segmento identico prima dell'ultima vocale tonica del verso (rima ricca),

− o complicate da forme aggiuntive di relazioni fra le parole che rimano (rima grammaticale ed equivoca),

− o da alterazioni dell'accento e della divisione delle parole (rima composta ed equivoca contraffatta).

Possono rientrare fra queste anche:

− la rima difficile − la rima derivativa e inclusiva

perché in esse il tecnicismo è spesso meno evidente. La rima ricca comporta l'identità di uno o più suoni precedenti l'ultima vocale tonica:

− Esempio: senTERO: alTERO (Rvf 13, 13: 14). − sono considerate rime ricche anche quelle che si estendono al di là della parola in rima, − la rima ricca non ha in italiano un uso istituzionale paragonabile a quello che ha nella poesia

francese. La rima grammaticale non è propriamente una rima:

− ma un rapporto di derivazione o parentela grammaticale istituito fra due serie di rime. Esempio: Amor non voi? ch'io clami di Giacomo da Lentini

La rima equivoca consiste nell'identità di suono delle parole in rima:

− il caso estremo è la rima identica, in cui una parola rima con se stessa. Questa si evita salvo il caso della sestina lirica.

Di regola le parole omofone devono differire tra loro:

− perché di significato diverso − perché di categoria grammaticale diversa, − perché di diverso genere, numero, modo verbale

Esempio: un sonetto di Petrarca interamente in rime equivoche (Rvf. 18) (parte): Quand'io son tutto vòlto in quella PARTE [sost.] ove '1 bel viso di madonna LUCE, [da lucere]

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L'uso sistematico della rima equivoca è proprio del Duecento: − nella tradizione successiva resta invece comune l'uso non sistematico, per cui rime

equivoche si inseriscono fra rime non equivoche. Si può dire rima equivoca contraffatta quella in cui l'equivocazione è ottenuta sommando due parole: M'ÀI: MAI (Rvf 97, 1: 4). La rima composta è quella in cui una parola in rima è ottenuta artificiosamente:

− questa parola composta viene accentata in modo che l'ultima tonica del verso sia nella giusta posizione.

Esempio in Purg. XXIV 133: «Che andate pensando sì voi sOL10 TRE?» sol tre forma un'unica parola sÓLTRE:

− il cui accento cade sulla 10a, in rima con OLTRE e pOLTRE. − l'alterazione dell'accento consiste nel subordinare all'accento che cade nella posizione

richiesta quello del monosillabo successivo. La rima composta può dar luogo a un secondo tipo di equivoca contraffatta: Esempio nel sonetto di Dante Non canoscendo, amico, vostro nomo (Rime, 2d), 2: 4, PAR L'À (da scandire pària): PARLA: donde che mova chi con meco PARLA sì che di quanti saccio nessun PAR10 L'À. La rima composta viene talvolta considerata un caso particolare di rima per l'occhio,

− la rima per l'occhio propriamente detta richiede però uno spostamento dell'accento di parola. Si possono distinguere due casi. lo qual io dissi e MAN7DO a lei che mei COMAN7DÒ. (da Barberino F. (Documenti d'Amore, I, p. 32):

− il secondo verso ha una sillaba in più e non rima; − accentando comando si ristabiliscono sia la rima, sia la misura.

Per il secondo caso: Ancor di dire non fino PERCHÉ10. - Monte Andrea (IX, 1)

− Qui perché deve rimare con CERCHE, ma il verso è un endecasillabo regolare solo con il normale accento perché.

− Accentando pèrche si ristabilisce la rima, ma il verso manca di una sillaba. − si può dire quindi una rima per l'occhio irriducibile.

Anche la rima per l'occhio, come quella composta, appartiene al gusto artificioso del Due-Trecento,

e ricompare poi solo sporadicamente. La rima in tmesi divide una parola in fine di verso:

− il caso più comune è la divisione degli avverbi in mente, Esempio: (Par. XXIV 16: 18 «così quelle carole differENTE- / mente .../... veloci e lENTE»). Una vera spezzatura di parola è propria di esercizi duecenteschi.

− in cui cade in fine di verso una proclitica, che fa tutt'uno per l'accento con la parola successiva,

Esempio: Par. XI 13 «Poi che ciascuno fu tornato nE LO / punto . . .», in rima con ciELO (11) e candELO (15).

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La cosiddetta rima ipèrmetra è una figura tipicamente pascoliana; Esempio: o quella che illumina tA8CI-TA tombe profonde - con vi7si scarniti di vecchi; tenA8CI di vergini bionde sorri8si. (La poesia (C.Cast.), 65-9)

− Tàcita: tenaci è una rima di parola sdrucciola con piana, che sarebbe perfetta sopprimendo l'ultima sillaba della sdrucciola.

− la sillaba in più cui allude il termine ipermetra riguarda la rima, non il verso, che non è ipermetro;

− questo tipo di rima ha avuto una certa fortuna nella poesia del Novecento. III. Rima interna A. Rima interna e rima al mezzo La rima può cadere all'interno del verso oltre che alla fine:

− la rima al mezzo, che divide il verso in emistichi − da quella interna, che non corrisponde a tale divisione.

La rima interna o al mezzo, frequente fino a Dante:

− è poco usata da Petrarca, e poi di uso sempre raro, − se si eccettua il caso dell'endecasillabo frottolato, con rime solo al mezzo.

g. Rime 'sineretiche' e 'apocopate' Nel caso della rima interna o al mezzo è frequente la rima tra la forma bisillabica:

− di un nesso di vocale tonica + atona, − in fine di verso, e la forma monosillabica all'interno;

Esempio: leggiadrìa: disvia in Dante, Poscia ch'Amor (Rime, 27), 59-60: che leggiadrI4A5 di1svIA, co3tanto, e più che quant'io conto. Questa rima si può dire sineretica:

− Petrarca ha una volta mìo bisillabo in rima al mezzo con Dìo bisillabo in fine di verso (Rvf. 366, 136-7),

− ma anche rio monosillabo in rima al mezzo con morìo in fine di verso (Rvf. 105, 20-21). Ancora più convenzionale è il caso della rima interna o al mezzo con apocope Esempio: Ora parrà s'eo saverò cantare (PD. I, p. 214) in Guittone portAR in rima interna con dottARE: che più onta che mort'è da dottARE, e portAR - disragion più che dannaggio. IV. Rima irrelata La rima irrelata è quella del verso che non rima con nessun altro: − il verso è inserito in uno schema di rime che prevede o ammette versi non rimati in certe

posizioni. − nella canzone del Duecento sono abbastanza comuni casi in cui uno o due versi restano senza

rima in tutte le strofe. − Petrarca non ammette questa possibilità, ma lascia frequentemente irrelato il primo verso del

CONGEDO. − Nella ballata è ammesso che resti senza rima il primo verso della RIPRESA. − Nell'ode-canzonetta è frequente la presenza di versi piani, senza rima in posizione fissa nello

schema.

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− nel discorso libero in endecasillabi e settenari è istituzionale il rapporto variabile tra versi rimati e non rimati;

− è possibile (ma non del tutto normale) che siano tutti rimati, con schema libero.

CAPITOLO SESTO VERSO E RIMA NELLA STORIA DELLA METRICA REGOLARE ITALIANA

I. Dalle origini al Cinquecento Dalle origini a Dante e Petrarca la metrica italiana forma i suoi strumenti, modellandosi principalmente sull'esempio della poesia provenzale e francese. Alla svolta fra XII e XIII secolo:

− quando in Italia si scrivono i primi testi volgari in versi che ci sono pervenuti, − la cultura di Francia nelle due lingue ha infatti già prodotto una ricchissima letteratura in

versi, Da lì derivano le regole metriche fondamentali, per es. quella che definisce l'isosillabismo:

− per la quale due versi hanno lo stesso numero di sillabe se l'ultima tonica è nella stessa posizione;

− le forme principali della canzone, di cui gli italiani sviluppano fin dall'inizio un'elaborazione originale.

Prendendo Petrarca:

− si può parlare di una 'prosodia antica' che percorre il Duecento, Nel computo delle sillabe, due vocali consecutive possono contare per una o per due sillabe con assai maggiore libertà che in seguito:

− sia all'interno di parola (dieresi, sineresi), − sia tra linee di parola e inizio della successiva (dialefe, sinalefe); − la collocazione degli accenti nel verso ammette maggiori irregolarità rispetto alla norma

posteriore; − si ammettono come legittimi dei tipi di rima che nei secoli successivi non saranno più

considerati tali, se non molto limitatamente (per es. la rima siciliana). Nel Duecento, inoltre è frequente il cosiddetto anisosillabismo , cioè la possibilità per il verso di oscillare di una o due sillabe intorno ad una misura di base. Con Dante e Petrarca è definitivamente codificato l'endecasillabo nella forma canonica:

− quella in cui la 4a e la 6a sillaba non possono essere atone contemporaneamente, già normale fin dalle origini con eccezioni poco numerose.

La metrica di Petrarca ha una sensibilità prosodica è radicalmente diversa:

− Petrarca è restio allo iato, e cioè tende a ridurre i casi in cui due vocali consecutive hanno valore di due sillabe

− dà più spesso di Dante valore di una sola sillaba al nesso di vocale finale di parola e vocale iniziale della successiva (sinalefe),

− non dà quasi mai valore di due sillabe, entro il verso, ai nessi del tipo io, suo ecc. − Petrarca usa contare per una sillaba il trittongo e la vocale iniziale della parola seguente

Esempio suoi ^exempli conta per tre sillabe in Rvf. 85, 8); dopo dittongo (per es. sue ^imprese, tre sillabe in Rvf. 147, 7).

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Antonio da Tempo, autore nel 1332 del primo trattato di metrica italiana: − considera la sinalefe obbligatoria, senza alcuna di quelle precisazioni che non solo l'uso di

Dante, − ma ciò dipende dal fatto che la trattatistica volgare si serve di concetti derivati dalla

tradizione latina, che è contraria allo iato. Nel Trecento e ancora nel Quattrocento:

− si impone il modello toscano pre-petrarchesco, con le sue forme codificate, − al di fuori dei generi poetici 'maggiori', poi, ha pieno rigoglio nelle laude e nei cantari una

versificazione caratterizzata da una notevole approssimazione nel computo delle sillabe, quando non da vero e proprio anisosillabismo.

Il modello toscano è recepito in modo tutt'altro che rigoroso:

− la maggior parte degli esempi tre-quattrocenteschi di endecasillabi irregolari rispetto al modello dantesco e petrarchesco provengono dalle opere di poeti minori settentrionali.

Un aspetto di questo modello è la limitazione all'endecasillabo:

− al settenario dei tipi di verso che sono ammessi nella poesia in stile elevato. − culmina in Dante e Petrarca una tendenza alla riduzione che era già in atto dopo l'uso molto

più libero delle origini, che prevedeva tutte le misure con maggior favore per l'endecasillabo e il settenario.

− Dante ammette ancora il quinario, ma quasi solo teoricamente, perché lo usa pochissimo, − Petrarca usa nel Canzoniere solo endecasillabi e settenari; − dal Trecento fino a Chiabrera la presenza in un testo di versi di altra misura è di per sé un

contrassegno di genere. Anche nella poesia discorsiva trionfa l'endecasillabo:

− accoppiato col settenario, − mentre nel Duecento aveva un posto di rilievo anche il settenario doppio.

Una delimitazione di genere consiste nel fatto che:

− nella poesia in stile elevato è ammessa quasi solo la rima piana, − solo sporadicamente la rima tronca o sdrucciola;

II. Dal Cinquecento all'Ottocento La prosodia petrarchesca si afferma nella poesia italiana:

− per gradi e per generi letterari − nella poesia lirica, poi nella poesia discorsiva.

Tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento:

− il valore esemplare di Petrarca è divenuto un fatto evidente − Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525) pone la poesia volgare sotto la sua

autorità, indicandolo come un 'classico' e traendo dal suo uso tutte le prescrizioni prosodiche.

Si trova così nelle Prose (II XV) la prima enunciazione esplicita della forma canonica del verso: − che sancisce l'uso già consolidato nella poesia italiana − stabilisce una regola che resterà intoccabile fino all'avvento della metrica libera.

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L'endecasillabo che d'ora in poi si può dire 'canonico': − deve avere tonica non solo la 10a sillaba, ma anche la 4a o la 6a o entrambe; − se la 4a e la 6a sono entrambe atone, per Bembo non è nemmeno un verso, − nella tradizione italiana fino alla metrica libera non si tratta comunque di un verso corretto

('legge di Bembo'). Nonostante grandi autori subito 'classici' come Dante, Petrarca e Boccaccio:

− l'italiano resta per secoli una lingua di rango culturale inferiore al latino; − questa inferiorità è accentuata dall'umanesimo latino del Quattrocento, − si può dire superata solo fra Quattro e Cinquecento.

Mentre fornisce una regola per tutti coloro che scrivono in italiano, Bembo intende dotare questa lingua di una 'regolarità grammaticale':

− l'elemento di maggiore novità della metrica italiana nel Cinquecento consiste nel fatto che essa è ora pensata in termini di analogia con la metrica latina.

Bembo riflette sulla struttura interna dell'endecasillabo:

− e altri come Giovan Giorgio Trissino ne discutono in termini anche molto più complessi, − si avverte l'esigenza di dimostrare che il verso italiano si fonda su regole rigorose come

quelle del verso latino. Il Cinquecento apre così un secondo grande periodo della metrica italiana, ben distinto dal primo, che giunge fino alla dissoluzione della metrica tradizionale fra Otto e Novecento. Un aspetto evidente, ma non il più rilevante:

− consiste nei ricorrenti tentativi di produrre nuovi metri italiani fondati sulle regole latine − molto più rilevante è la rielaborazione di forme ereditate dalla tradizione precedente, quali la

canzone, in nuove forme ispirate alla poesia greca e latina: − la CANZONE PINDARICA − la canzone-ode

La poesia può essere anche senza rima:

− sull'esempio della poesia classica, che non era rimata; − mentre nella tradizione italiana, come in quella romanza, l'unità di verso e rima era fino

allora pressoché inscindibile. Trissino per primo propone con vigore come verso adatto alla poesia epica il verso libero:

− la sua comparsa rivoluziona il campo di scelte a disposizione dei poeti per la poesia discorsiva

− mentre nella poesia lirica l'endecasillabo sciolto (libero) entrerà solo nel Settecento. Fra Cinque e Seicento avviene un rinnovamento profondo:

− della prosodia, nella poesia lirica, − dalla poesia musicale francese diffusa in Italia nel Cinquecento − dalla tradizione canzonettistica popolareggiante.

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Nell'ode-canzonetta di Chiabrera è ammesso l'uso di ogni tipo di verso: − anziché dei soli endecasillabo e settenario; − si abbandona l'esclusività della rima piana, − si usano in molteplici combinazioni con questa rime tronche e sdrucciole, − inserendo negli schemi strofici anche versi irrelati, soprattutto tronchi e sdruccioli.

Un'innovazione prosodica che avrà conseguenze fino all'uso di Carducci:

− è l'uso della rima tronca in consonante, cioè con parole che di per sé dovrebbero dare rime piane, come cuor: amor per cuore: amore.

− questo tipo di rima si trova già nelle CANZONETTE venete per musica, di grande successo, − nelle quali la caduta della vocale finale dopo /, n, r (mal, man, far) anche in pausa è un tratto

di lingua. L'uso sistematico della rima tronca in consonante:

− è legato all'evoluzione quattro-cinquecentesca della musica. − la poesia musicale ha necessità di parole tronche molto più numerose di quante ne offra

l'italiano; − la rima tronca in consonante offre una soluzione a questo problema, ed entra perciò a pieno

titolo non solo nella poesia per musica in senso stretto, La tendenza petrarchesca ad evitare lo iato fra parole:

− è regola dal Cinquecento all'Ottocento; − gli incontri di vocali tra parole vengono contati quasi sempre per una sillaba (sinalefe), − i poeti cercano semmai di evitarli quando sono tali da rendere imbarazzante la sinalefe.

Si mantiene perciò l'uso di Petrarca:

− di preferire davanti a vocale forme del tipo virtute anziché virtù; − davanti a consonante, invece, resta il tipo virtù, perché il problema non si pone

Esempio: «cade vertù da l'infiammate corna» (Rvf. 9, 3).

Diverso è il caso degli incontri di vocali all'interno di parola: − la sillabazione di questi obbedisce nella tradizione italiana, − a regole abbastanza chiaramente definibili (cfr. dieresi, sineresi − permettono di distinguere:

− i nessi che valgono sempre una sillaba (iò in fiore), − quelli che valgono sempre due sillabe (aù in paura), − quelli che possono essere contati per una o due sillabe (ia in celestiale).

In questo campo si può notare una certa tendenza:

− alla 'destabilizzazione' delle regole, che culmina nell'Ottocento, − ha il suo punto di partenza nella poesia in versi sdruccioli.

Qui la necessità metrica ha portato molti poeti:

− a contare come parole sdrucciole parole che dovrebbero essere piane: Esempio esempio, ampia (in Monti, Manzoni e tanti altri).

− nell'Ottocento questa libertà si estende notevolmente,

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Riassunto – Gli Strumenti della poesia – Beltrami P.G.

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− si ha l'impressione che i poeti si sentano liberi di contare per una o due sillabe i nessi di due vocali secondo la necessità del verso che stanno componendo.

III. Tra secondo Ottocento e Novecento Nel secondo Ottocento:

− l'esigenza di un rinnovamento profondo della forma poetica è particolarmente viva in Italia; − è questa la stagione in cui assumono una posizione di grande rilievo i rifacimenti in italiano

di metri latini, − sostenuti dall'autorità di un poeta di grande successo, quale è all'epoca Carducci;

Nella sua metrica barbara (come egli la chiamò) si possono distinguere, per quanto riguarda la prosodia, due aspetti:

− da un lato le forme di ode oraziana, fra cui le più importanti sono la saffica, l'ALCAlCA, l'asclepiadea, costruite facendo corrispondere ai versi oraziani versi italiani correnti nella tradizione,

− oppure combinazioni di versi italiani. − il modello è Chiabrera, che aveva sperimentato forme analoghe, ma senza il successo arriso

invece alla sua ode-canzonetta. − Queste forme sono caratterizzate da una geometria rigorosa, sia nell'esattezza del numero

delle sillabe, sia nell'uscita dei versi o degli elementi che li compongono (piani o sdruccioli, raramente tronchi).

Dall'altro lato, l’'invenzione' dell'esametro e del PENTAMETRO:

− è l'aspetto più originale della metrica barbara carducciana; − questi sono costruiti combinando versi italiani; − questi versi hanno un numero di sillabe oscillante.

Sebbene Carducci cercasse nella sua metrica una forma 'difficile' e rigorosa:

− la sua esperienza dell'esametro e del pentametro italiani ha agito culturalmente − è stata da molti recepita come un avvio alla versificazione libera,

Pascoli è anche colui che più di ogni altro:

− ha perseguito una prosodia rigorosa − egli giunge ad opporre fra loro con alternanza regolata versi della stessa misura, ma di

diverso schema accentuativo, per es. novenari con accenti sulla 3a e 5a sillaba e novenari con accenti sulla 2a e 5a

− oppure decasillabi con accenti sulla 3a e 5a o sulla 3a e 7a e decasillabi con accenti sulla 3" e 6a

− oppure complesse costruzioni strofiche in cui i versi che occupano lo stesso posto in strofe diverse hanno non solo la stessa misura, ma gli accenti nelle stesse posizioni, in Odi e Inni

Questa è una novità, e al tempo stesso è un approdo definitivo della tradizione 'regolare' italiana:

− già con D'Annunzio la rinuncia alla regolarità della misura, svuota di significato metrico una ricerca fondata sul rapporto tra le misure e gli schemi accentuativi.

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Riassunto – Gli Strumenti della poesia – Beltrami P.G.

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Altrettanto nuova è la ricerca di 'naturalezza' propria della prosodia pascoliana: − la rinuncia all'uso disinvolto della sillabazione dei nessi di vocali interni di parola,

caratteristico dell'Ottocento; − l'eliminazione delle forme auliche e arcaiche del tipo caritade, puote ecc., − si erano mantenute anche con la funzione metrica di evitare incontri di vocale tonica e

vocale atona fra due parole; − l'eliminazione della rima tronca in consonante (cuor. amor), cioè di un artificio puramente

ritmico che allontana la lingua poetica dalla lingua parlata.

CAPITOLO SETTIMO FORME REGOLATE E FORME FISSE

I. Forme regolari della poesia lirica A. Canzone Le forme della canzone attraversano tutta la storia della poesia italiana: La canzone antica o petrarchesca

− è il metro di maggiore prestigio nella poesia dei primi secoli; − la sua funzione di genere poetico guida dura fino a Torquato Tasso, − conosce ancora riprese, fino a Carducci e D'Annunzio.

La canzone pindarica, la canzone-ode e l’ode-canzonetta: − sono il frutto del rinnovamento cinquecentesco; − sono le forme portanti della poesia lirica fino all'avvento della versificazione libera.

Forma particolare, ma di grande importanza, è la canzone libera o leopardiana.

a. Canzone antica o petrarchesca La forma della canzone antica, elaborata nel Duecento:

− ha ricevuto la codificazione definitiva da Dante e da Petrarca, (canzone petrarchesca). − la struttura che la compone è la strofa, detta stanza, che viene ripetuta alcune; − la conclusione è normalmente (non sempre) una stanza ridotta, detta congedo.

Lo schema della stanza:

− può essere coniato per il testo che si scrive; − può modellarsi su quello di un altro testo, soprattutto se 'autorevole' − nella sua variabilità, la stanza osserva delle regole di costruzione;

I versi sono endecasillabi e settenari:

− la proporzione fra i due versi è oggetto di studio stilistico; − la stanza in cui prevalgono gli endecasillabi è in genere sentita più 'solenne' di quella in cui

prevalgono i settenari. − Nella poesia del Duecento si usano anche altri versi; − fra Due e Trecento si usa ancora il quinario

Esempio: (Dante una sola volta, in Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciato, Rime, 27); − dopo Petrarca endecasillabo e settenario restano esclusivi.

La stanza è articolata in due parti principali:

− la prima consta di due piedi, − la seconda, detta sirma (cioè 'coda'), ed è perciò indivisibile;

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− il risultato nell'insieme è una stanza tripartita (stanza di piedi e sirma). La divisione tra le due parti principali è detta da Dante diesis La stanza indivisibile è rara nella poesia italiana:

− il caso principale è quello della sestina lirica, − qualche canzone isolata come Verdi panni di Petrarca (Rvf. 29). − questo modo di rimare era frequente in provenzale;

In Chiare, fresche la seconda stanza ha lo stesso schema, ma rime diverse:

− è quella normale nella poesia italiana, − le stanze con innovazione di rime si dicono in provenzale singulars [singole]; − in italiano è stato usato il termine di stanze divise.

I piedi dell'esempio sono di 3 versi ciascuno:

− la loro lunghezza è variabile − nell'uso di Petrarca misurano da 2 a 4 versi, − in quello di Dante da 3 a 6; − nella canzone del Trecento da 2 a 5, con predominio di quelli di 3 e 4 versi. − lo schema delle rime (nell'esempio abC abC) è variabile, ma, come prescrive Dante, alla fine

del secondo piede nessun verso dev'essere senza corrispondenza di rima. Quando il primo verso della sirma rima con l'ultimo del secondo piede:

− questa rima si dice concatenatio [concatenazione], − si è stabilizzata con Dante; dopo di lui è raro che manchi (è sempre presente in Petrarca). − la stessa figura è detta anche chiave. − dopo la concatenatio, è prevalente, dopo Dante, l'uso di non riprendere nella sirma altre rime

già presenti nei piedi. Lo schema della sirma è libero:

− alcune forme sono più frequenti, − l'uso varia nella storia.

Frequente (soprattutto nella poesia più antica) è la serie di distici a rima baciata:

− di due dopo la concatenatio è la sirma di Così nel mio parlar vogli' esser aspro di Dante (Rime, 43),

− lo schema più imitato nel Trecento: ABbC ABbC C DdEE. Dante ammette che uno o due versi della sirma non rimino entro la stanza:

− ma trovino corrispondenza nelle altre stanze, − dà a questa figura il nome di chiave.

Nella sua produzione si trova però solo la rima irrelata vera e propria:

− secondo un uso che nel Duecento è più diffuso, − che con Petrarca è del tutto scomparso.

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Nel Duecento si incontra un altro tipo di divisione della stanza: − la prima parte in due piedi, − la seconda si articola in due volte, cioè in due serie di versi dello stesso tipo nello stesso

ordine. La stanza è così quadripartita. Si veda Madonna, dir vo voglio di Giacomo da Lentini Per Dante la divisione della stanza è possibile:

− soltanto in presenza di una ripetizione di schema − possono darsi piedi e sirma, piedi e volte, fronte e volte, ma non fronte e sirma.

Dal Trecento in poi una bipartizione della stanza si verifica:

− in tutti i casi in cui, per variazione dello schema petrarchesco, si perde la simmetria fra i due piedi.

Nel Sei e Settecento si scrivono numerose canzoni in stanze:

− non divisibili regolarmente secondo la norma dantesca, − ma che si presentano come elaborazioni relativamente libere della stanza petrarchesca

tripartita, A questa sperimentazione si collega la forma delle canzoni di Leopardi, prima che questi passi a quella sua propria della canzone libera. Le stanze possono essere collegate con altri artifici:

− l'uso come prima rima della stanza dell'ultima rima della precedente {coblas capcaudadas); − la ripresa nel primo verso della stanza di una parola o di un'espressione contenuta nell'ultimo

verso della precedente (coblas capfinidas); − l'uso di marcate analogie nella forma dell'inizio di ogni stanza (coblas capdenals).

Il congedo, nell'esempio di Chiare, fresche:

− riprende la forma degli ultimi tre versi della stanza, − esso riprende esattamente la parte finale della stanza, per un numero di versi a piacere.

La misura più normale corrisponde all'intera sirma:

− resta perciò irrelato il primo verso, − se nella stanza completa funge da concatenatio, − quando questa rima non è più ripresa nella sirma.

b Stanza La stanza della canzone può costituire da sola un testo:

− l'uso è vivo nella poesia provenzale (cobla esparsa [stanza isolata]), come genere minore rispetto alla canzone;

− la vera stanza è il sonetto, almeno quanto alla funzione di genere. c. Discordo Il discordo è una forma musicale praticata dai trovatori provenzali e francesi:

− si compone di stanze ognuna delle quali presenta forme di simmetria interna,

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Esempio Giacomo da Lentini, Dal core mi d. Sestina lirica La sestina è una forma di canzone in stanze indivisibili:

− Nasce in Italia con Al poco giorno e al gran cerchio d'ombra di Dante (Rime, 41), − Dante adotta l'endecasillabo anche come primo verso, − così Petrarca, riprendendo lo schema e usandolo 9 volte nel Canzoniere.

La sestina è divenuta, dal Quattrocento, una forma fissa:

− ne hanno scritta una anche Ungaretti, il Recitativo di Palinuro nella Terra promessa, − Fortini, la Sestina a Firenze in Poesia e errore − Si veda la prima del Canzoniere di Petrarca (Rvf. 22): (inizio)

A A qualunque animale alberga in TERRA, B se non se alquanti ch'anno in odio il SOLE, C tempo da travagliare è quanto è '1 GTORNO; D ma poi che '1 ciel accende le sue STELLE, E qual torna a casa et qual s'anida in SELVA F per aver posa almen infin a l'ALBA. F Et io, da che comincia la bella ALBA Le regole della sestina sono le seguenti:

− nessun verso rima all'interno della stanza, ma tutti trovano corrispondenza di rima nelle altre stanze.

− le rime sono tutte parole-rima, nel senso che tutti i versi che rimano fra loro terminano con la stessa parola.

− la posizione delle parole-rima è ruotata di strofa in strofa: il primo verso di ogni stanza ha in rima la parola-rima dell'ultimo della precedente;

− di lì in poi viene presa dalla strofa precedente la parola-rima più lontana da quella appena riusata,

Il congedo di tre versi

− ha in rima tre delle parole-rima della sestina, − le altre tre all'interno del verso. − lo schema di successione è variabile.

Fra le canzoni in parole-rima va citata quella di •Dante,

− Amor, tu vedi ben che questa donna (Rime, 42), cui si è dato il nome di: − sestina doppia, o sestina rinterzata o canzone ciclica. − Le stanze sono 5, di 12 endecasillabi; − le parole-rima sono anch'esse cinque, A = donna, B = tempo, C = luce, D = freddo, E =

petra. − di stanza in stanza, l'ultima rima diventa la prima, le altre seguono nello stesso ordine

Schema: la stanza ABA ACA ADD AEE; 2a EAE EBE ECC EDD; 3a DED DAD DBB DCC; 4a CDC CEC CAA CBB; 5a BCB BDB BEE BAA.

e. Canzone pindarica (ode pindarica) La canzone (o ode) pindarica, introdotta nel Cinquecento da Trissino:

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− si ispira al sistema delle odi di Pindaro: a una strofe seguono un antistrofe con lo stesso schema di versi e rime e un epòdo con uno schema diverso;

− l'insieme (triade) può essere ripetuto più volte.

− Alamanni chiama le tre parti ballata, contraballata e stanza; − Minturno volta, rivolta e stanza. − per Chiabrera, questa struttura triplice è propria anche della stanza di piedi e sirma della

canzone petrarchesca; Strofe, antistrofe, epodo sono a loro volta, nei primi autori:

− stanze di canzone petrarchesca − successivamente Chiabrera fa largo uso del principio pindarico, − utilizzando però entro tale struttura strofe di canzone-ode o di ode-canzonetta.

Particolarmente attratto dallo schema pindarico è Pascoli:

− che però non guarda tanto alla tradizione petrarchistica e chiabreresca, − quanto direttamente al modello greco. − In Odi e Inni, ma anche nei Canti di Castelvecchio, il Pascoli costruisce sofisticate strutture,

nelle quali i versi si corrispondono anche nello schema accentuativo. f. Canzone-ode La canzone-ode è una forma di canzone in stanze semplificate, elaborata dal primo Cinquecento.

− in strofe di 4 versi, si afferma la quartina di endecasillabi rimati ABBA o AB AB, − usata già da Bembo negli Asolani, del 1505, − da Trissino nelle Rime edite nel 1529

Lo stesso modello oraziano giustifica un gusto nuovo per la stanza:

− breve di endecasillabi o (quasi sempre) di endecasillabi e settenari, − senza articolazione interna, più agile della stanza petrarchesca.

Il più notevole fra i primi sperimentatori della canzone-ode è Bernardo Tasso:

− questa forma si afferma definitivamente con l'opera di Chiabrera; − l’elaborazione della stanza di endecasillabi e settenari giunge fino a Parini.

Quanto alla stanza breve di endecasillabi e settenari, lo schema più originale di Parini è quello della Caduta: a Quando Or'ion dal ciELO b declinando impervERSA a e pioggia e nevi e gELO B sopra la terra ottenebrata vERSA, . . . g. Ode-canzonetta canzonetta può valere come diminutivo di canzone:

− per indicare lo stile 'più facile', l'argomento 'meno elevato', − con questo significato si usa talvolta per la poesia antica.

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Con il termine ode-canzonetta ci si riferisce: − ad un ampio repertorio di forme che hanno avuto corso nella poesia italiana da Chiabrera

all'Ottocento. − parte dei testi sono piuttosto canzonette, cioè 'canzoncine', testi 'leggeri', cantabili e fatti per

essere cantati; − parte sono piuttosto odi, cioè testi di argomento e stile elevato, come la canzone della

tradizione petrarchesca: − odi sono senz'altro di frequente chiamati nel Sette-Ottocento (Odi di Parini)

Il principio formale è lo stesso della canzone-ode:

− il testo è strofico, cioè consta di strofe che contano lo stesso numero di versi, − i versi però, anziché solo endecasillabi e settenari, possono essere di tutte le misure, con

preferenza per i versi brevi, cantabili e ben ritmati − le rime possono essere e normalmente sono anche tronche e sdrucciole; − gli schemi possono comprendere anche versi irrelati, piani, tronchi o più spesso sdruccioli; − le rime tronche sono frequentemente in consonante.

La strofa dell'ode-canzonetta, come quella della canzone-ode,

− l'uguaglianza fra strofe riguarda allora la coppia, che funziona come se fosse una strofa bipartita.

− resta un'area di sovrapposizione con la canzone-ode, − in effetti canzone-ode e ode-canzonetta formano un insieme più ampio, che si contrappone

alle sopravvivenze della canzone petrarchesca. Sono frequenti le strofe di tutti settenari. In versi piani, si veda Parini, La musica: a Aborro in su la SCENA b un canoro elefANTE, a che si trascina a pENA b su le adipose piANTE, e e manda per gran foCE e di bocca un fil di vOCE. Con alternanza di settenari piani, tronchi e sdruccioli, e in strofe doppie unite dalla rima tronca finale, si può citare il Cinque maggio di Manzoni: (stralcio) S7 Ei fu. Siccome immobile, a dato il mortai sosplRO, S7 stette la spoglia immemore a orba di tanto spIRO, S7 cosi percossa, attonita bt la terra al nunzio stA, S7 muta pensando all'ultima La presenza dell'endecasillabo col settenario:

− riporta piuttosto al tipo della canzone-ode; − se però si alternano versi tronchi o sdruccioli, ci si trova piuttosto nel campo dell'ode-

canzonetta. Si veda l'ode All'amica risanata di Foscolo (con versi sdruccioli): a Qual dagli antri marINI

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S7 l'astro più caro a Venere a co' rugiadosi criNl S7 fra le fuggenti tenebre b appare, e il suo VIAGGIO B orna col lume dell'eterno rAGGIO . . . Per uno schema di quinari piani e tronchi:

− in coppie di quartine collegate dalla rima tronca finale, Esempio La melanconia di Pindemonte.

Frequenti sono anche gli schemi di soli ottonari:

− versi piani e tronchi, − coppie di quartine collegate dalla rima piana del primo verso e dalla rima tronca finale

Esempio Parini, Le nozze: (stralcio) a8 È pur dolce in su i begli ANNI b8 de la calda età novELLA bg lo sposar vaga donzELLA, c8t che d'amor già ne ferì. Per l'uso del senario, si cita A Nice di Metastasio in strofe doppie di sei versi collegate dalla rima tronca finale, e col quinto verso piano irrelato (es. Gavazzeni): (stralcio) a6 È forza, mio cORE, b6 mio core infellCE, a6 scordarsi l'amORE, b6 scordarsi di NlCE, h. Aria L’ aria (o arietta) è prima di tutto una forma musicale:

− si può presentare indipendente o inserita entro la struttura del melodramma o della cantata; − le forme dell'aria corrispondono a quelle dell'ode-canzonetta, − in genere limitate a due strofe collegate fra loro.

B. Sonetto Il nome del sonetto è provenzale, da sonet,:

− di poesia per musica (un po' come 'canzoncina'), − nel Duecento è stato dapprima usato per testi di vario tipo; − si è poi stabilizzato come nome di una precisa forma metrica, − di certo si tratta di una forma italiana, nata nella Scuola siciliana, probabilmente per

'invenzione' di Giacomo da Lentini Nell'arco della sua storia il sonetto è stato adottato in tutti i livelli di stile

− nel Novecento ne persiste un uso tutt'altro che irrilevante − nella forma normale il sonetto è composto di 14 endecasillabi − ed è diviso in due parti, rispettivamente di 8 e di 6 versi.

− la prima parte è stata chiamata fronte, ottava o ottetto, quartine si divide in due quartine, può avere lo schema ABABA-BAB, che è il più antico, o ABBA ABBA,

− la seconda sirma, sestina o sestetto, terzine si divide in due terzine.

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Esempio prima parte: Petrarca, Rvf. 134 (Canzoniere): (stralcio) A Pace non trovo, et non ò da far guERRA; B e temo, et spero; et ardo, et son un ghiACClO; A et volo sopra '1 cielo, et giaccio in tERRA; B et nulla stringo, et tutto '1 mondo abbrACCIO. A Tal m'à in pregion, che non m'apre né SERRA, B né per suo mi riten né scioglie il lACCIO; A et non m'ancide Amore, et non mi sfERRA, B né mi vuol vivo, né mi trae d'impACCIO. Altro esempio prima parte a schema ABBA ABBA, nel corso del Duecento, ed è rimasto il più frequente nel Petrarca; per es. Rvf. 12: A Se la mia vita da l'aspro tormENTO B si può tanto schermire, et dagli affANNl, B ch'i' veggia per vertù degli ultimi ANNI, A donna, de' be' vostr'occhi il lume spENTO, A e i cape' d'oro fin farsi d'argENTO, B et lassar le ghirlande e i verdi pANNI, B e '1 viso scolorir che ne' miei dANNl A a -llamentar mi fa pauroso et lENTO: Nelle terzine i due schemi principali del sonetto antico sono:

− CDE CDE − CDC DCD − i due tipi più frequenti in Petrarca, dopo i quali segue nel Canzoniere CDE DCE; − mentre Cavalcanti usava lo schema CDE EDC − CDC CDC era usato nel sonetto della Vita Nuova

Si possono considerare legittime tutte le combinazioni di 2 o 3 rime (C, D oppure C, D, E) che non

lascino versi irrelati È stato più volte sostenuto che il sonetto risulta dall'unione di due strambotti:

− ma ciò non è ammissibile, perché lo strambotto è un metro trecentesco. − è invece la prossimità del sonetto alla stanza della canzone, − si dovrà ammettere che non ogni stanza nel Duecento debba forzatamente rientrare nello

schema di descrizione elaborato da Dante; − lo spazio aperto all'inventività metrica dei poeti era certamente molto maggiore.

Il sonetto occupa nel sistema dei generi del Duecento:

− il posto della cobla esparsa, cioè del dibattito fra due o più autori su un tema dato, − frequentemente, ma non sempre, con risposta 'per le rime', simile in questo agli scambi di

coblas dei provenzali. − l'uso antico di variare la struttura del sonetto mostra poi che esso è sentito come una stanza;

Le varianti di maggiore rilievo del sonetto sono ampliamenti della sua struttura:

− Guittone e di Monte Andrea aggiungeva talvolta distici AB alla fronte del tipo ABABABAB e distici CD alla sirma di tipo CDC DCD. Questa innovazione non ha però avuto alcun seguito.

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− nella forma, anch'essa guittoniana, del sonetto interzato (rafforzato con settenari) vi è la rima rinterzata è quella di un verso breve con il verso lungo dopo il quale è inserito − è aggiunto un settenario dopo ogni verso dispari dell'ottava − e dopo il primo e il secondo verso delle due terzine; − ogni settenario inserito rima col verso precedente − Esempio (Guittone), Solament'è vertù che debitore, AaBAaBAaBAaB CcDdC DdCcD

Nella variante adottata da Dante in due sonetti della Vita Nuova:

− il settenario è inserito ugualmente dopo ogni verso dispari dell'ottava, − ma nelle terzine solo dopo il secondo verso.

Antonio da Tempo usava un solo settenario per terzina il sonetto doppio:

− il sonetto con settenari inseriti ebbe scarsa fortuna dopo il Duecento − ha avuto invece successo l'ampliamento del sonetto che consiste nell'aggiunta di

un'appendice ai 14 versi dello schema normale. − questa può essere costituita da un verso conclusivo, detto ritornello, − o da un distico, detto ritornello doppio

Esempio: nel Duecento si può citare un sonetto di Guido Cavalcanti, Di vii matera mi conven parlare (Lb), di schema ABBA ABBA CDE DCE FF. La forma più importante è però quella trecentesca del sonetto caudato:

− la cui 'coda' è formata da un settenario in rima con l'ultimo verso delle terzine − da un distico a rima baciata. − lo schema del sonetto è in questo caso ABBA ABBA CDC DCD dEE.

Il sonetto caudato ha avuto una larga diffusione:

− nello stile 'comico-realistico', da Antonio Pucci nel Trecento − a Francesco Berni nel Cinquecento, e ancora fino a Carducci.

La coda può essere replicata teoricamente a piacere:

− il sonetto caudato può così diventare una struttura aperta sonettessa quando è molto lunga Altro tipo di variante formale del sonetto è il sonetto minore:

− raro nella poesia antica (Antonio da Tempo documenta quello in settenari), − ha una rilevante fortuna settecentesca. − Pascoli ne fa un uso molto personale; si veda per es. Benedizione, Myr. (II, p. 171).

Altri tipi di sonetto descritti minuziosamente nella Summa di Antonio da Tempo si distinguono:

− per il gusto della variazione sul tipo di rime e sulla misura dei versi − sonetto in versi sdruccioli, in versi tronchi, in endecasillabi e settenari (comune);

− per gli artifici metrico-retorici: − sonetto in cui tutti i versi sono legati da rima interna (incatenato); − in cui ogni verso, comincia ripetendo la parola finale del verso precedente (ripetuto); − scritto in modo tale che si possa rivoltare l'ordine delle parole nei versi (retrogrado); − scritto alternando un verso in italiano e uno in latino (semiletterato se il verso latino è

un endecasillabo all'italiana, metrico se è desunto da un autore), − o alternando versi in due lingue, per es. italiano e francese (bilingue).

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C. Ballata La ballata è una forma originariamente per musica:

− effettivamente destinata al canto e alla danza in molte delle sue applicazioni − si sviluppa in Italia nella seconda metà del Duecento nella poesia toscana, − con Cavalcanti e altri stilnovisti, è un serio concorrente della canzone. − sono metricamente ballate le varie forme di canzonetta del Tre e Quattrocento.

La ballata è un testo in strofe o stanze:

− la cui struttura, nella forma più tipicamente italiana, ricorda molto da vicino quella della stanza della canzone.

− caratteristica essenziale è la presenza di una ripresa, cioè di un ritornello che precede il testo e, nell'esecuzione musicale,

− l'ultima rima della stanza riprende la rima finale o (molto più raramente) un'altra rima della ripresa;

− nella ballata profana è però frequente che la ballata si componga di una sola stanza oltre la ripresa (ballata monostrofica, contrapposta alla pluristrofica).

a, Zagialesca Una forma della ballata è la cosiddetta strofa zagialesca:

− è quello di un metro arabo da cui quello romanzo potrebbe derivare. − il tipo è anche nell'innologia medio-latina, − lo schema tipico consiste in una ripresa di due versi a rima baciata, e in strofe di quattro

versi Ballata 'italiana Il tipo affermatosi in Italia ci si riferisce col nome di 'ballata antica':

− essa completa la canzone e sonetto del Duecento definito da Dante; − le sue forme sono correnti nella poesia musicale tre-quattrocentesca. − cade poi in disuso

Esempio: ballata del Petrarca di una sola stanza: (stralcio) ripresa x Amor, quando fioria Y mia spene, e '1 guiderdon di tanta fEDE, Y tolta m'è quella ond'attendea mercEDE. I mutazione A Ahi dispietata morte, ahi crudel VITA! b L'una m'ha posto in dOGLlA, C et mie speranze acerbamente à spENTE; Per la ballata i versi sono endecasillabi e settenari:

− numerose sono le ballate di soli endecasillabi. − nella lauda in forma di ballata si usano anche le altre misure, anche con anisosillabismo. −

Nella canzonetta e nella poesia più leggera endecasillabo e settenario non sono esclusivi: − nella forma quattrocentesca della barzelletta è corrente l'ottonario.

La stanza è divisa in due parti − nella prima vi sono le mutazioni o anche piedi, − si tratta di due serie di versi dello stesso tipo nello stesso ordine, rimati variamente, ma in

modo da non lasciare versi senza rima. − La seconda parte della stanza è detta volta,

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Riassunto – Gli Strumenti della poesia – Beltrami P.G.

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− è divenuta una regola quasi obbligatoria che il primo verso della volta rimi con l'ultimo della seconda mutazione;

− la rima dell'ultimo verso è quasi sempre uguale all'ultima rima della ripresa, e comunque uguale ad una rima della ripresa.

La ballata di Antonio da Tempo si distingue tra:

− una ballata mezzana, con ripresa di 3 versi, 2 endecasillabi e un settenario; − una ballata grande ripresa di 4 versi − una ballata minore con ripresa di 2 versi; − una ballata minima con ripresa di un solo verso.

Nel Duecento si afferma anche la ballata stravagante:

− quella che non entra nei casi descritti Esempio di Cavalcanti, Perch'i' no spero di tornar giammai (XXXV), con ripresa di un endecasillabo e 5 settenari (4 stanze: si cita l'inizio): Perch'i' no spero di tornar giammai, ballatetta, in TOSCANA, va' tu, leggera e piANA, dritt'a la donna mTA, che per sua corteslA ti farà molto onORE.

La ripresa può contenere versi che non rimano con nessun altro nella stessa: − se è senza rima l'ultimo, non rimane irrelato nel testo, − se invece è senza rima il primo, resta irrelato,

Tra le riprese moderne della ballata 'antica':

− le più interessanti sono quelle di Pascoli, c. Barzelletta La barzelletta è una ballata pluristrofica di ottonari di destinazione musicale:

− diffusa nel Trecento e soprattutto nel Quattrocento; − lo schema fondamentale è xyyx ababbeex;

Esempio: la Canzona di Bacco di Lorenzo de' Medici

− che appartiene al genere poetico (non metrico) del canto carnascialesco: ripresa I mutazione II mutazione volta x8 Quant'è bella giovinEZZA y8 che si fugge tuttavlA! y8 Chi vuol esser lieto, SIA: xfi di doman non c'è certEZZA. Nella tradizione musicologica, la barzelletta è detta Piuttosto frottola.

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d. Canzonetta Le forme della poesia musicale tre-quattrocentesca che si possono considerare canzonetta:

− è quella della ballata, con qualche variazione. I diversi tipi si distinguono per ragioni non metriche:

− la melodia, i contenuti, la lingua dei testi, l'origine regionale. − a quest'ultima si riferiscono i nomi: ciciliana ('siciliana'), viniziana, napoletana, calavrese. − grande voga nel Quattrocento hanno le giustiniane, che prendono il nome da Leonardo

Giustinian. Esempio: è un testo dialogico, con ripresa doppia e stanze accoppiate dalla rima finale:

− senza corrispondenza fra rima finale della volta e ripresa − i due ultimi versi delle riprese e delle stanze formano sempre un endecasillabo.

I ripresa x7 Amante, a sta fredURA, y7 per che sey qui venUTO? y5 ben cognosciUTO z7 e’ t’azo in el spudARE D. Madrigale trecentesco Il madrigale è una forma breve di poesia per musica:

− elaborata nel Trecento con lo sviluppo della polifonia profana − è costituito da alcune terzine (da 2 a 5) concluse di solito da un distico, oppure da un verso

isolato o da una coppia di distici. − Lascia il posto, nel Cinquecento, ad un tipo che si può dire senza schema. − viene ripresa nel secondo Ottocento da Carducci

Esempio: dal Petrarca nel Canzoniere, di soli endecasillabi. Si veda Rvf. 54: (stralcio) A Perch'ai viso d'Amor portava insEGNA, B mosse una pellegrina il mio cor vANO, A ch'ogni altra mi parea d'onor men dEGNA. C Et lei seguendo su per l'erbe VERDI, B udi' dir alta voce di lontANO: Questa forma già molto libera lascia proprio lo schema citato di Petrarca, unificando i due distici in una quartina DEDE, e caro a Pascoli, che lo usa più volte nelle Myricae e nei Canti di Castelvecchio. E. Rondò Il rondò (rondeau), è una forma breve per musica: – caratterizzata da ripetizioni di interi versi propria della poesia francese, – Boiardo ne scrive uno di grande ampiezza in forma simile a una ballata con ripetizione del

primo verso alla fine di ogni stanza: – Se alcun de amor sentito (Amorum liber primus, 27) – Il rondò è stato ripreso da Carducci che imita la forma più antica del cosiddetto rondel sangle

(O piccola Maria), – D'Annunzio, in strofette di settenari o di ottonari, con ripetizione finale del primo verso o di

una parola in rima nella prima strofa.

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F. Strambotto e rispetto I nomi di strambotto e rispetto sono stati usati entrambi: – senza una reale distinzione quanto alla forma designata con due schemi principali:

– l’ ottava siciliana, AB AB AB AB – l’ottava toscana, detta più frequentemente rispetto che strambotto, ABABABCC

La fortuna dello strambotto o rispetto è:

– del tardo Trecento e soprattutto del Quattrocento Esempio: Leonardo Giustinian, Serafino Aquilano. Si cita un esempio del Poliziano (III): (stralcio) A P non ardisco gli occhi alti levARE, B donna, pe- rimirar vostra adornEZZA, A ch'io non son degno di tal donna amARE, B né d'esser servo a sì alta bellEZZA; L’ottava isolata si distingue tra:

– una 'ottava siciliana' contenuta nel Filocolo di Boccaccio (schema ABABABAB) – alcune epigrafi inscritte negli affreschi del Trionfo della Morte del Camposanto di Pisa, di

schema ABABABCC, AABBCCDD e ABABCDCD, la cui composizione potrebbe essere più antica del Filostrato.

Nella forma dell'ottava toscana:

– più rispetti possono essere collegati insieme (rispetti continuati, o stanze per strambotti); – ciò avviene nella poesia amorosa quattrocentesca. – raffinate interpretazioni del rispetto di tipo popolare si trovano nelle Myricae di Pascoli

(Orfano, Mare, entrambi ABABCCDD) G. Stornello Sotto il nome ottocentesco di stornello : – si raggruppano vari tipi di testo breve, popolare o popolareggiante, – di tre o anche di due versi – caratteristiche sono la presenza di una rima e di una consonanza, – una breve invocazione iniziale, spesso ad un fiore. – Carducci usa uno stornello come chiusa di Rime e Ritmi:

Esempio: Fior tricolORE, tramontano le stelle in mezzo al maRE e si spengono i canti entro il mio cORE.

II. Forme regolari della poesia discorsiva A. Lassa La lassa è una serie di versi uniti dalla stessa rima o assonanza: – distinta dalla strofa per il numero variabile dei versi. – è propria della poesia epica antico-francese, – in italiano ha avuto scarse applicazioni: la più importante è il Libro di Uguccione da Lodi.

In epoca moderna la lassa antica è stata imitata da:

– Carducci nella Canzone di Legnano; – Pascoli nella Canzone dell'Olifante (tra le Canzoni di re Enzio), – D'Annunzio nella Notte di Caprera.

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B. Distico Le forme rilevanti del distico a rima baciata (AA BB CC . . .):

– sono quelle in settenari, in alessandrini – in ottonari-novenari.

Per il distico di settenari l'es. più importante è il Tesoretto di Brunetto Latini. Per il distico di alessandrini si può citare lo Splanamento fa li Proverbi de Salamone di Girardo Patecchio. Il distico di ottonari-novenari:

– è il metro con il quale la poesia giullaresca imita il distico francese di octo-syllabes: – molto più raro il distico di endecasillabi, vi sono due testi di Franco Sacchetti:

– il Dir de' Bianchi – la Oratio autoris prò se ipso (CCCI e CCCII del Libro delle Rime).

La poesia discorsiva italiana non è in genere favorevole al distico a rima baciata: – un'eccezione importante si ha nella versificazione teatrale del Settecento, – con l'introduzione in Italia da parte di Pier Jacopo Martello del distico di alessandrini a rima

baciata proprio del teatro classico francese. – questo rimane un metro disponibile per il teatro: lo usa per es. Carlo Goldoni in una parte delle

sue commedie in versi. Per distici a rima baciata di altra misura si possono citare:

– il prologo di Juvenilia di Carducci (endecasillabi rolliani), – la Sacra di Enrico quinto dello stesso (ottonari doppi);

Invece in distici di endecasillabi:

– è La cavalla storna di Pascoli (C.Cast.). C. Quartina La forma più rilevante della quartina nella poesia antica:

– è la quartina monorima di alessandrini, – in Italia è il metro tipico della poesia didascalica settentrionale, – usato da Giacomino da Verona e da Bonvesin da la Riva.

Fra i testi più antichi si può citare il poemetto veneto anonimo Proverbia quae dicuntur super natura feminarum, nel quale gli alessandrini hanno spesso il primo emistichio sdrucciolo: La quartina monorima è di endecasillabi:

– nel poemetto veronese duecentesco Della caducità della vita umana. – quartine di ottonari-novenari sono usate dall'Anonimo Genovese (fine XlII-inizio XIV sec),

con schemi abab, abba. – La quartina di endecasillabi ABBA o ABAB è una forma della canzone-ode usata dal

Cinquecento in poi. Serventese Il termine serventese è usato nel Trecento e nel Quattrocento:

– per designare una pluralità di forme che hanno come unico tratto comune il fatto di non appartenere alla lirica illustre,

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Riassunto – Gli Strumenti della poesia – Beltrami P.G.

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– sia che si tratti di poesia non lirica, – sia che si tratti di poesia per musica popolare e popolareggiante.

Il nome è lo stesso del provenzale sirventés, che designa però un testo in forma metrica di canzone, di contenuto politico, morale o d'occasione, normalmente scritto sulla melodia di una canzone preesistente. Antonio da Tempo comprende nella sua Summa tra le forme del serventese:

– la quartina di endecasillabi a rima alterna (ABAB), – il distico di endecasillabi a rima baciata (AA BB), – il serventese caudato, e anche la terza rima della Commedia. – Gidino da Sommacampagna, nel tardo Trecento, aggiunge il serventese ritornellato e il

serventese bicaudato. – Trissino nella IV divisione della Poetica (1529) include anche la TERZINA DOPPIA.

Si collocano qui sotto la rubrica serventese:

– il serventese caudato (e bicaudato), – il capitolo quadernario – la terzina doppia;

a. Serventese caudato Il serventese caudato è una forma metrica in strofe composte:

– di una serie di versi 'lunghi' rimati fra loro (almeno 2), – di un verso 'breve' conclusivo, che rima con i versi 'lunghi' della strofa successiva; – la formula più generale è AA . . . b BB . . . e CC . . . d . . .

I versi 'lunghi' possono essere:

– ottonari-novenari, – endecasillabi o settenari doppi; – sono 2 solo nell'esempio dato da Antonio da Tempo; – normalmente sono 3, altrimenti possono essere 4 o 6.

In esempi antichi i versi 'lunghi' possono variare di numero di strofa in strofa:

– Il verso 'breve' può essere un quadrisillabo-quinario o un settenario. Esempio: Ruggieri Apugliese, Tant'aggio ardire e conoscenza (PD. I, p. 890):

– i versi 'lunghi' sono ottonari-novenari, – il verso breve è quinario: schema AAAAAb BBBBc CCCCd . . .

La forma più comune nel Trecento è quella in strofe di 3 endecasillabi e un quinario: Esempio l’inizio del Serventese dei Lambertazzi (1280)

– Il testo è anisosillabico: – si notino la rima francese anca: enqa (4: 5) – l'assonanza tra solea, soccorrea:

A Altissimo Dio padre, [re] de glORlA, A priegote che me di' senno e memORIA A che possa contare una bella istORIA b de recordANCA. B Del guasto de Bologna se comENCA, 5 […] C che tuti li soi amixi soccorEA

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Riassunto – Gli Strumenti della poesia – Beltrami P.G.

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Il serventese bicaudato, descritto da Gidino da Sommacampagna, ha la forma AAAbAb BBBcBc – una forma analoga ha il serventese per la morte di Cangrande della Scala del 1329.

b. Capitolo quadernario Il capitolo quadernario è una forma tre-quattrocentesca di serventese in strofe di 4 versi:

– il terzo settenario e gli altri endecasillabi; – lo schema è ABbC CDdE EFfG ... – il verso iniziale resta irrelato; – nella chiusa la rima irrelata si evita – una variante evita l'irrelata iniziale cominciando ABbA ACcD DEeF . . .;

Esempio l'inizio di un serventese del Poliziano (CXXVI): (stralcio) A I' son costretto, po' che vuol AmORE B che vince e sforza tutto l'univERSO b narrar con umil vERSO A la gran letizia che m'abonda al CORE; A perché s'i' non mostrasse ad altri foRE C in qualche parte el mio felice stATO, e forse tenuto ingrATO c. Terzina doppia Si può dire terzina doppia quella usata da Cecco d'Ascoli nell'Acerba:

– Lo schema è ABA CBC DED FEF ...; – ricorda da un lato uno schema possibile di terzine del sonetto, – è in relazione con la terza rima di Dante, contro il quale l'autore polemizza vivacemente nel

libro. – la terzina di Cecco è caratterizzata dalla chiusura dei blocchi di 6 versi, – invece della catena di terzine che si conclude solo alla fine di ogni canto con un verso isolato.

Esempio: l'inizio di Il giorno dei morti, che apre le Myricae di Pascoli: A Io vedo (come è questo giorno, OSCURO!), B vedo nel cuore, vedo un camposANTO A con un fosco cipresso alto sul mimo. C E quel cipresso fumido si SCAGLIA B allo scirocco: a ora a ora in piANTO Lo schema della terza rima o terzina incatenata è ABA BCB CDC . . . YZY Z (normalmente tutti endecasillabi). Si veda il primo canto della Commedia (inizio e fine): A Nel mezzo del cammin di nostra vITA B mi ritrovai per una selva oscURA, A che la diritta via era smarrlTA. B Ahi quanto a dir qual era è cosa dURA C està selva selvaggia e aspra e fORTE B che nel pensier rinova la paURA! In ogni terzina i due versi 'esterni' (1° e 3°) rimano fra loro:

– quello 'interno' (2°) rima con i due 'esterni' della successiva. – i versi sono così uniti tre a tre nella strofa, – al tempo stesso sono uniti tre a tre dalla rima, ma a cavallo tra una strofa e l'altra.

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Riassunto – Gli Strumenti della poesia – Beltrami P.G.

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– una seconda coppia si crea alla fine, con l'aggiunta di un verso isolato che rima col 2° dell'ultima terzina.

La terza rima compare e subito si afferma con la Commedia, ed è perciò detta terzina dantesca;

– che sia 'invenzione' di Dante è certo, sebbene non dimostrabile. – come modelli formali si sono indicati principalmente il serventese caudato o le terzine del

sonetto; – suggestioni devono essere venute anche dalla forma della canzone, poiché Dante chiama

proprio così la prima cantica. Dopo Dante, la terza rima ha avuto un ampio uso in tutti i generi della poesia discorsiva:

– nella poesia allegorica (i Trionfi di Petrarca), – nel genere del capitolo o capitolo ternario, didascalico, storico, satirico e moraleggiante (le

Satire di Ariosto), – burlesco (i Capitoli di Berni), – nell'egloga volgare (dal Quattrocento si afferma la forma di capitolo in versi sdruccioli, o

capitolo bucolico), – nell'elegia (capitolo elegiaco); – fino ai numerosi poemetti di Pascoli, – alla forma libera di Pasolini, che allude alla terza rima ma con grande libertà nelle rime e nella

misura e nel ritmo dei versi. Nel capitolo elegiaco si incontrano anche terzine che hanno al centro un settenario anziché un endecasillabo. F. Ottava rima (stanza) L’ ottava rima, o semplicemente ottava, detta frequentemente anche stanza:

– è una strofa di tutti endecasillabi rimati ABABABCC. Esempio l'inizio dell'Orlando Furioso di Ariosto: A Le donne, i cavallier, l'arme, gli amORl, B le cortesie, l'audaci imprese io cANTO, A che furo al tempo che passaro i MORI B d'Africa il mare, e in Francia nocquer tANTO, I più antichi testi noti in forma di ottava rima sono:

– il Filostrato di Boccaccio – il cantare di Florio e Biancifiore,

E’ questione ancora discussa

– se l’'invenzione' del metro risalga a Boccaccio, – o se esso si sia prima affermato nei cantari.

Le due ipotesi sono simili dal punto di vista formale,

– fra stanza di canzone e stanza di ballata non c'è grande differenza, – ma divergono dal punto di vista storico-letterario.

La derivazione dalla canzone comporta un'origine letteraria:

– Boccaccio avrebbe preso a modello testi lirici francesi,

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Riassunto – Gli Strumenti della poesia – Beltrami P.G.

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– o sarebbe partito da una canzone di Cino da Pistoia, La dolce vista, che si trova riscritta in ottave nel Filostrato.

La derivazione dalla lauda e dalla ballata:

– porta invece verso un repertorio di impronta 'popolare', nel quale è in uso una versificazione simile a quella dei cantari.

Un sostegno a quest'ultima ipotesi viene dalle ottave isolate del Trionfo della Morte di Pisa:

– potrebbero essere più antiche del Filostrato, – in ogni caso difficilmente ne possono dipendere; – a Boccaccio si può attribuire la codificazione del metro per gli sviluppi successivi.

Nel repertorio laudistico l'ottava rima è comunque frequente:

– nella lauda drammatica o sacra rappresentazione del Quattrocento, – nella polimetria dell' Orfeo di Poliziano e del teatro profano del tardo Quattrocento.

L'ottava ha avuto una grandissima fortuna nella poesia narrativa:

– l’ Orlando Innamorato di Boiardo, – l’ Orlando Furioso di Ariosto, – la Gerusalemme Liberata di Tasso; – tra i poemetti, le Stanze per la giostra di Giuliano de' Medici del Poliziano (incompiuto).

G. Sesta rima (sestina narrativa) La sesta rima, o sestina:

– è una strofa di schema ABABCC. – è un metro poco usato nella tradizione italiana; – nel Tre-Quattrocento appartiene al repertorio delle laude e della poesia drammatica; – successivamente si possono citare,

– fra Sette e Ottocento, il poema Gli animali parlanti di Giambattista Casti (in endecasillabi),

– le Favole esopiane di Gian Carlo Passeroni (in settenari e in ottonari). Esempio il primo degli Idilli di Giovanni Fantoni: A Dov'è del bosco più l'orror frondoso, B sacro al dio dei pastor, s'incurva il mONTE, A e nel tacito sen d'antro muscoso H. Nona rima e decima rima La nona rima è il metro dell'Intelligenza:

– un poemetto anonimo dell'ultimo Duecento o del primo Trecento; – lo schema è ABABABCCB (tutti endecasillabi). – è interpretabile come una stanza di canzone (tre piedi AB e sirma CCB).

Stanze di canzone sono anche le forme cui si dà il nome di decima rima:

– una canzone in senso proprio è quella di Auliver in stanze ABABABCCDD. – Analogo è lo schema della più antica canzone italiana, Quando eu stava in le tu' cathene,

ABABABCCCD (D uguale in tutte le strofe).

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Riassunto – Gli Strumenti della poesia – Beltrami P.G.

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K. Endecasillabo sciolto L'endecasillabo detto endecasillabo sciolto è rarissimo prima del Cinquecento:

– si possono citare il Mare amoroso, un poemetto tardo duecentesco – il Reggimento e costumi di donna di Francesco da Barberino, del primo Trecento; – il Vago Filogeo di Sabellio Michiel, un'operetta in forma di epistolario amoroso del secondo

Trecento, – Consone rime ormai gerchar non voglio di Cecchino Alberti; – infine, nel Quattrocento, alcune brevi traduzioni di Leon Battista Alberti dal greco e dal

latino. La storia dell'endecasillabo sciolto comincia con il Cinquecento:

– è Giovan Giorgio Trissino che ne propugna l'uso come equivalente di genere, – Giovanni Rucellai (Le Api, 1524, edito nel 1539) e Luigi Alamanni (La coltivazione, 1530,

edito nel 1546) lo impongono nella poesia didascalica. L'endecasillabo sciolto diventa nel tempo:ù

– il metro di maggiore prestigio in tutti i campi della poesia discorsiva, – consacrato definitivamente da Parini (Il Mattino è del 1763) e da Foscolo (il carme Dei

sepolcri fu edito nel 1807); – dal Settecento, con Carlo Innocenzo Frugoni, comincia ad essere impiegato anche nella

poesia lirica, alla quale viene definitivamente legato da Leopardi (con gli Idilli, fra cui l'Infinito, composti fra il 1819 e il 1821).

CAPITOLO OTTAVO FORME LIBERE DELLA METRICA TRADIZIONALE

I. Polimetria La polimetria è la libera alternanza di versi di più tipi:

− un polimetro è il celebre Bacco in Toscana di Francesco Redi, che vuole imitare il ritmo e la concitazione del ditirambo greco.

E’ bene distinguere fra:

− polimetria e anisosillabismo: questo consiste in un'oscillazione nel numero delle sillabe in versi che però sono considerati tutti dello stesso tipo.

Ugualmente è bene distinguere fra un polimetro e un testo nel quale sono usati versi di diverse misure, ma in strutture strofiche regolari:

− con alternanza limitata a due-tre tipi di versi che ne escludono altri. Una strofa regolare composta di versi di più tipi si dice etero metrica:

− contrapposta a una strofa monometrica, composta di versi tutti dello stesso tipo. A. Mottetto Il nome di mottetto spetta propriamente a un genere musicale liturgico:

− era il nome di un testo diverso da quello cantato dalla prima voce, assegnato alla seconda (duplum).

− i mottetti non hanno una struttura regolare come le ballate e i rondò.

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− Mottetti è poi il nome dati da Francesco da Barberino a 50 testi polimetria, in strale isolate da 2 a 8 versi, nei suoi Documenti d'Amore (Vi] II): il termine significa 'breve poesia senten ziosa'.

Nel caso dei Mottetti che costituiscono una sezione delle Occasioni di Montale:

− il riferimento non è alla poesia italiana antica, − ma alla tradizione musicale del mottetto.

B. Frottola a. Frottola La frottola è un genere di 'poesia-spettacolo':

− fatto per l'esecuzione orale, − che oscilla fra la dimensione ludica e quella sentenziosa e moraleggiante;

La tradizioni dei testi noti va da Antonio da Tempo, Dio voglia che bei vada, fino a Pietro Aretino, Pas vobis, brigate del 1527. Antonio da Tempo chiama la sua moto confetto:

− distinguendola dalla frottola propriamente detta, che sarebbe una forma di livello inferiore; ma questa distinzione non ha avuto corso.

Caratteristica della frottola è:

− la prevalenza del valore della rima sulla misura del verso; − le rime procedono più o meno regolarmente a coppie, a terne o in serie più ampie, − la rima serve da aggancio fra le articolazioni di un discorso divagante, con frequenti salti

logici. f Canzone frottola Al genere della frottola Petrarca si accosta una volta nel Canzoniere:

− con la canzone Rvf 105, Mai non vo più cantar com'io soleva, cui si dà il nome di canzone frottola.

− lo schema è quello di una canzone, − ma la concatenazione del discorso divagante e l'insistita ripercussione delle rime

appartengono alla frottola; − vi è anche la presenza della rima tronca, estranea all'uso di Petrarca negli altri testi.

e. Endecasillabo Frottolato' Il testo di Petrarca ha esercitato un'azione normalizzatrice:

− dando luogo a forme 'regolari' in endecasillabi sempre interrotti da rima al mezzo col verso precedente alla 7" sillaba (oppure alla 5a),

− i due schemi sono rispettivament A(a7)B(b7)C(c7)D ... e Aa(a7)Bb(b7)Cc(c7)D . . . L'endecasillabo in serie con rima al mezzo si può dire endecasillabo trottolato:

− si trova nella poesia bucolica, per es. nell'Arcadia di Sannazaro; − tra le varianti quattrocentesche della frottola in endecasillabi con rima al mezzo è lo

gliòmmero napoletano;

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C. Poesia drammatica e per musica La polimetria che consiste:

− nell’alternare nello stesso testo forme metriche diverse − è propria della poesia drammatica − l'alternanza di ottava rima e terza rima è propria di testi quattrocenteschi; − polimetriche sono precedentemente le sacre rappresentazioni, − polimetrico è l'Orfeo di Poliziano; − Polimetrica è l'egloga quattrocentesca.

Una forma di polimetria è l'inserzione di parti liriche (canzoni):

− tra le parti recitate in endecasillabi e settenari (Aminta di Torquato Tasso), − l'alternanza di arie e di recitativi in endecasillabi e settenari nel melodramma.

II. Discorso libero in endecasillabi e settenari A. Madrigale cinquecentesco Il madrigale cinquecentesco è una forma breve di poesia

− con una configurazione estremamente libera, − sia per quanto riguarda la proporzione fra i due versi e la loro alternanza, − sia per quanto riguarda lo schema delle rime e la presenza e la proporzione di versi irrelati.

Come regola il madrigale è più breve «lei sonetto,

− normalmente non supera gli 11 o 12 versi. Si cita un esempio di Torquato Tasso, autore di numerosi madrigali (ed. Flora, p. 785): a O vaga tortorELLA, b tu la tua compagnIA B ed io piango colei che non fu mIA. a Misera vedovELLA, e tu sovra il nudo rAMO, C a pie del secco tronco io la richiAMO: d ma l'aura solo e '1 VENTO D risponde mormorando al mio lamENTO. B. Poesia drammatica e per musica La poesia scenica è dal Cinquecento:

− un campo di elaborazione del discorso in endecasillabi e settenari a schema libero, − che consente bene sia di arieggiare la prosa, − sia di i creare una più o meno facile musicalità con un fitto gioco di rime, − l'azione scenica è in endecasillabi e settenari, − i cori sono forme liriche, fra le quali si ritrova la canzone petrarchesca.

Una tappa importante per la tragedia è la Canace di Sperone Speroni, del 1542. Di grande rilievo è il dramma pastorale, per il quale sono da citare soprattutto l’Aminta di Torquato Tasso e il Pastor fido di Battista Guarini. L'opposizione fra discorso libero in endecasillabi e settenari in forme liriche:

− è alla base della struttura del melodramma nella cui elaborazione è fondamentale l'opera di Metastasio,

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− al recitativo in endecasillabi e settenari si oppongono le arie, − recitativo e aria formano la strutturi anche del genere sei-settecentesco della cantata,

Si danno due esempi di discorso libero in endecasillabi e settenari, entrambi dall'Aminta:

− Il primo, quasi senza rime, ha un carattere discorsivo; − il secondo un frammento lirico paragonabile a un madrigale

C. Canzone libera Il discorso libero in endecasillabi e settenari darà luogo a vari tipi di composizione:

− gli Idilli di Giambattista Marino raccolti nella Sampogna. − fra Sei e Settecento questo tipo viene introdotto anche nella Canzone, da Alessandro Guidi − le stanze differiscono per dimensione, alternanza di endecasillabi e settenari, schema di

rime, Versi irrelati:

− l'intendimento è di scrivere una canzone 'illustre'.

Nelle prime canzoni Leopardi riprende la sperimentazione sei-settecentesca di Manze irregolari: − stanze ampie, complesse e non divisibili, − con schemi difficilmente percepibili senza un'attenta analisi 'sulla carta', − con rime irrelate che tendono ad aumentare da un testo all'altro − in All'Italia e in Sopra il monumento di Dante il Leopardi adotta due schemi diversi per le

strofe dispari e pari Esempio: All'Italia : (stralcio) A A O patria mia, vedo le mura e gli ARCHI B B e le colonne e i simulacri e l'ERME c c torri de gli avi nOSTRI, d P11 ma la gloria non vedo, Sono più vicine al tipo petrarchesco perché i primi 6 versi della stanza sono divisibili regolarmente:

− Nelle nozze della sorella Paolina − A un vincitore nel pallone,

Nel Bruto minore vi sarà la tendenza alle rime irrelate porta alle stanze di 15 versi. La prima canzone libera di Leopardi è A Silvia, del 1828:

− le forme del discorso libero di endecasillabi e settenari proprie del madrigale i inquecentesco, del dramma pastorale, del melodramma, dell'idillio.

− l'unico elemento fisso è che l'ultimo Verso di ogni stanza è sempre un settenario non irrelato. Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, e tu, lieta e pensosa, il limitare di gioventù salivi?

Sonavan le quiete stanze, e le vie dintORNO, al tuo perpetuo canto, allor che all'opre femminili intENTA sedevi, assai contENTA di quel vago avvenir che in mente avEVI. Era il maggio odoroso: e tu solEVI così menare il giORNO.

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In altre canzoni libere del Leopardi: − l'ultimo verso di ogni stanza è un endecasillabo non irrelato

− Il passero solitario, − il Canto notturno di un pastore errante nell'Asia, − la quiete dopo la tempesta − Il sabato del villaggio).

− la dimensione della stanza, variabile, è però data solo dal movimento del discorso, − la disposizione delle rime, il numero C la posizione dei versi lasciati senza rima.

CAPITOLO NONO

IMITAZIONI DELLA METRICA CLASSICA ('METRICA BARBARA ') I. Metrica italiana e metrica classica Sebbene nel Medioevo la conoscenza dei testi latini fosse molto minore che in età umanistica, i classici antichi non hanno mai cessato di essere i modelli più autorevoli. Caratteristica dell'Umanesimo è un forte spirito di 'riappropriazione' della letteratura classica:

− questa riappropriazione non li risolve nella nuova poesia latina umanistica, − si porta in un terreno della poesia in italiano, comporta due conseguenze rilevanti per la

metrica: − l'aspirazione a riprodurre i metri classici, latini e greci, anche in lingua italiana, − la tendenza a pensare i metri italiani in termini di analogia con la metrica latina.

La prosodia latina è radicalmente diversa da quella dell'italiano e delle altre lingue romanze:

− il latino oppone vocali brevi a vocali lunghe sia toniche sia atone, con valore significativo. − anche le sillabe sono distinte in brevi e lunghe: sono brevi le sillabe aperte la cui vocale sia

breve, lunghe tutte le altre. − nelle parole di tre o più sillabe:

− la penultima è sempre tonica se è lunga, − la terzultima è sempre tonica se la penultima è breve.

Il verso latino si fonda sulla quantità delle sillabe:

− certe posizioni possono essere occupate solo da sillabe lunghe, − altre solo da sillabe brevi; − brevi e lunghe sono sostituibili fra loro in certi tipi di verso e in certe posizioni, secondo un

complesso sistema di regole. L'unità metrica è il metro, che può coincidere con un piede: − il piede è un insieme-di sillabe (da 2 a 4) divise in due 'elementi', detti in origine tesi (tempo

'forte') e arsi (tempo 'debole'), − con riferimento all'atto del segnare il tempo col battere in terra e l'alzarsi del piedi'.

Nel latino parlato tardo:

− la quantità vocalica non ha più valore significativo, − la distinzione tra sillabi brevi e lunghe perde anch'essa valore, − la posizione dell'accento di parola non dipende più dalla quantità della penultima sillaba.

La metrica quantitativa classica continua ad esistere:

− ma si fonda sulla conoscenza scolastica della quantità latina, La poesia romanza, e per prima quella francese e provenzale:

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Riassunto – Gli Strumenti della poesia – Beltrami P.G.

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− forma la propria metrica modellandosi su un altro tipo di poesia latina, detta rhythmica dai trattatisti medievali,

− che si è sviluppata secondo nuove caratteristiche del latino parlato tardo, − si fonda sul numero delle sillabe, indipendentemente dalla quantità, sull'accento e sulla rima.

Le forme della metrica romanza risalgano alla metrica mediolatina non quantitativa:

− la differenza fra metrica italiana e latina è motivata da unioni linguistiche profonde e ha radici storiche remote.

I tentativi di riprodurre in italiano metri classici sono di vario tipo:

− un primo tipo consiste nell’imitare strutture strofiche classiche, sia greche, sia latine, utilizzando versi italiani.

− un secondo tipo consiste nel comporre versi in italiano secondo le regole classiche, in questo caso latine.

All'insieme di questi tentativi si dà il nome di metrica barbara:

− le Odi barbare di Carducci rappresentano l'episodio più importante. Si possono distinguere due vie:

− l'individuazione di versi italiani da considerare equivalenti di versi latini, − l'assegnazione di regole quantitative all'italiano, con l'intenzione di ottenere degli equivalenti

esatti dei versi latini. II. Metri latini in italiano A. Forme non strofiche I primi tentativi di metrica quantitativa italiana sono quelli di:

− Leon Battista Alberti (esametri) − Leonardo Dati (esametri e strofa saffica),

Nel Cinquecento Claudio Tolomei e gli Accademici della Nuova Poesia, tentarono di definire una prosodia quantitativa dell'italiano, pubblicando le Regolette della Nuova Poesia Toscana, in appendice al volume Versi et regole de la Nuova Poesia Toscana (1539). In questi sistemi si tenta in sostanza di definire dei criteri per cui le sillabe italiane si possano considerare brevi o lunghe:

− in quello del Dati e dell'Alberti, se la parola italiana corrisponde chiaramente ad una latina, si assume che le sillabe abbiano la stessa quantità:

− anche in assenza di una corrispondenza evidente, la penultima sillaba di una parola sdrucciola è breve;

− le sillabe che terminano in consonante sono lunghe; − una vocale seguita da vocale entro parola è sempre breve,

Per il Dati l'esametro latino consta di 6 piedi:

− di cui i primi 5 dattili sostituibili con spondei, − il sesto trocheo o spondeo; − i tempi forti sono sulla prima sillaba di ogni piede.

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In questo metodo, come in latino, è normalmente possibile che il tempo forte di un piede non corrisponda ad un accento di parola. Nella tradizione italiana l'idea di collocare un accento di parola dove il latino aveva un tempo forte gioca un ruolo solo nel ritmo di alcuni passaggi chiave:

− la resa di una fine di verso giambica (u) -, u - con un'uscita sdrucciola. Fin dal Cinquecento l'endecasillabo sdrucciolo viene considerato un equivalente del trimetro giambico. Nell'esametro latino, accento di parola e tempi forti dei piedi:

− tendono a non coincidere nei primi 4 piedi, − coincidere invece negli ultimi due; − il ritmo della fine dell'esametro può perciò essere reso in italiano con una successione di

sillabe ioniche (+) e atone (-). Il Carducci ha adottato questa soluzione, il cui esametro è l'unico che abbia avuto successo:

− egli adotta un verso composto di due versi italiani, in cui la seconda parte è nella maggior parte dei casi un novenario con accenti di 2a-5a-8a (o 3a-5a-8a) che dà il ritmo accentuativo.

Esempio: Sogno d'estate (1-3). Il pentametro nella poesia latina si usa unito con l'esametro nel distico elegiaco, è reso da Carducci:

− un doppio settenario; Esempio. Fuori alla Certosa di Bologna (1-2). − con un quinario + settenario; Esempio. Nella piazza di San Petronio (1-2). − il pentametro con l'uscita tronca degli emistichi i tempi forti dei due 'mezzi piedi' finali in

Nevicata Paolo Rolli nel settecento nei suoi Endecasillabi si ispira all'endecasillabo falecio di Catullo per un suo verso, detto rolliano, che ha l'accento sulla 4a sillaba portato da una parola sdrucciola Rolli usa questi versi in terzine:

− il primo e il terzo rimano fra loro, − nel secondo gli emistichi sono invertiti

La strofa saffica latina è un metro catulliano e oraziano:

− coincide con essa una delle forme più diffuse del serventese caulillo: − formata da tre saffici minori e da un adonio. − altre odi saffiche quantitative sono comprese nei Versi 7 regole de la Nuova Poesia Toscana

di Claudio Tolomei. La forma più comune della saffica italiana:

− è una strofa di 3 endecasillabi e un quinario, rimata ABAb5. − gli endecasillabi dovrebbero avere l'accento sulla 4a, − il quinario sulla la; − il rispetto di questa condizione è estremamente variabile.

Carducci la usa senza rima, come tutti gli altri suoi metri barbari; Esempio Dinanzi alle terme di Caracalla (1-4).

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Pascoli fa un largo uso della saffica rimata ABAb5, − mantiene la rima anche in un esperimento di resa del saffico con accenti distribuiti sulla la-

3a-5"-7a/8a sillaba, in Solon (Poemi con viviali). La saffica rimata, normalmente ABAb5, è usata frequentemente fra Sette e Ottocento:

− con rime ABBa5. − una variante ha il settenario al posto del quinario ABAb7: (Manzoni, Il nome di Maria)

La strofa alcaica latina è un metro oraziano formato da:

− due alcaici endecasillabi, − un alcaico enneasillabo − un alcaico decasillabo.

Nel sistema di Carducci:

− l’alcaico endecasillabo è reso con un quinario doppio, con il primo emistichio piano e il secondo sdrucciolo;

− l'enneasillabo con un novenario con accenti di 2a-5a-8a, oppure con la 2a o la 5 a o entrambe atone;

− il deca sillabo con un decasillabo italiano con accenti di 3a-6a-9 a oppure con la 3a o la 6a o entrambe atone

Esempio: di Per la morte di Napoleone Eugenio. Prima di Carducci:

− Rolli ha adottato una variante più 'italianizzata' dell'alcaica con due settenari come terzo e quarto verso;

− Fantoni la usa normalmente con i due settenari in rima fra loro. La strofa asclepiadea è un metro oraziano:

− che si presenta con varie combinazioni di asclepiadei minori col gliconeo e col ferecrateo. L'asclepiadeo minore è reso da Carducci con l'endecasillabo sdrucciolo:

− oppure con un quinario doppio, con entrambi gli emistichi sdruccioli; − il gliconeo con un settenario sdrucciolo; − il ferecrateo con un settenario piano.

− La strofa asclepiadea di 3 asclepiadei e un gliconeo è per es. in Fantasia, con endecasillabi

sdruccioli; − La strofa asclepiadea di 2 asclepiadei, un ferecrateo e un gliconeo è per es. in Su l'Adda: − la strofa asclepiadea di 4 asclepiadei è usata da Carducci in Da Desenzano, con endecasillabi

sdruccioli; Da citare è invece il sistema giambico, anch'esso oraziano:

− che consta in latino di distici formati da un trimetro giambico e da un dimetro giambico. Una resa di questo sistema è, nelle Odi barbare, in Ruit bora, con i distici raggruppati in quartine. È una resa 'italianizzata' del sistema giambico la quartina di endecasillabi e settenari a rima alterna.

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CAPITOLO DECIMO LE FORME METRICHE NELLA STORIA DELLA POESIA ITALIANA

I. Dalle origini al Cinquecento La prima enunciazione di un 'canone' delle forme metriche duecentesche si trova nel De vulgari eloquentia di Dante (II III), dell'inizio del Trecento:

− canzone, ballata e sonetto sono in esso le forme 'regolari', − ordinate in una rigorosa gerarchia degli stili; − la canzone è la forma propria dello stile elevato, − la ballata dello stile medio, − il sonetto dello stile umile.

La definizione della canzone data da Dante combina aspetti 'tecnici' e stilistico-retorici:

− Canzone è in generale un componimento destinato al canto; − l'articolazione della stanza è descritta in stretta correlazione con quella della melodia − Canzone «è una concatenazione in stile tragico di stanze Uguali,

Lo stile tragico (cioè elevato):

− distingue la canzone dalla ballata, − altrettanto essenziale è il carattere di testo strofico.

La canzone ha imitato e sviluppato in Italia, a partire dai Siciliani:

− la tradizione dei testi lirici provenzali riconducibili al tipo della canzone, nei temi propri nella poesia medievale dello stile elevato: − amoroso (il solo affrontato dai Siciliani), − morale, − politico.

La tradizione italiana è caratterizzata fin dalle origini:

− da un forte sperimentalismo nella costruzione della stanza, − con la codificazione dantesca e petrarchesca, questo speri mentalismo diventa obsoleto;

Nel Duecento la ricerca di nuovi schemi era un aspetto importante dell'inventività poetica, Nel Trecento diviene frequente l'uso di riutilizzare uno schema già composto da, un autore precedente. Lo schema più imitato nel secolo XIV, identico o con variazioni:

− è quello di Così nel mio parlar voglio esser aspro di Dante − nel Quattro e Cinquecento, è molto imitata Chiare, fresche dolci acque di Petrarca.

La ballata che qui si è detta 'italiana' è uno sviluppo originale:

− posteriore alle prime esperienze dei Siciliani − Dante ne parla per dimostrarne l'inferiorità alla canzone o la destinazione alla danza, che ne

farebbe un testo poetico non autosufficiente; − con lo Stil nuovo (Cavalcanti), la ballata è stati una forma potenzialmente alternativa alla

canzone. − è la ballata, nel Tre-Quattrocento, la forma metrica più normale nei vari tipi di canzonetta.

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La ballata è il metro più frequente nella lauda: − l'uso di cantare laude si diffonde nel Duecento con il movimento dei Disciplinati,

Tra gli autori duecenteschi di maggiore rilievo sono da citare:

− Garzo, Guittone d'Arezzo e soprattutto Iacopone al Todi; − la grande produzione laudistica che va dal Due al Quattrocento è in larga parte opera di

autori anonimi, Il sonetto specificamente italiano in quanto forma fissa:

− è il sonetto è in origine l'equivalente italiano della cabla esparsa provenzale, cioè della stanza isolata di canzone usata soprattutto nella poesia 'minore' di corrispondenza, di dibattito, d'occasione.

− Dante da per scontata l'inferiorità del sonetto alla ballata, alludendo al fatto che il sonetto non è un testo strofico come canzone e ballata, ma può servire come strofa

− il sonetto è subito divenuto una forma appropriata anche allo stile elevato − conserva una completa disponibilità a tutti i livelli di stile; − è la forma dominante nel Canzoniere di Petrarca, − è all'opposto la forma più comune, dal Duecento in poi, in tutti i tipi di poesia 'comica',

Per quanto riguarda il serventese il primo n trattarne è Antonio da Tempo:

− concepito sulla pluralità delle forme e sulla 'popolarità' del genere − il termine si amplia a significare tutti i tipi metrici della poesia non lirica,

Il serventese caudato, presente nella poesia del Duecento:

− ha largo corso nel Trecento nella poesia non lirica; − la variante detta capitolo quadernario è in uso anche nella poesia amorosa e per musica fino

al tardo Quattrocento. − è un genere poetico non legato ad una forma metrica precisa è ormai esaurito all'inizio del

Cinquecento. Terza e ottava rima sono forme trecentesche.

Le forme della poesia non lirica del Duecento:

− sono prima di tutto quelle istituzionali della poesia francese e provenzale: − lassa di décasyllabes (endecasillabi) o alessandrini − distico a rima baciata di octosyllabes o di settenari nella poesia didascalica, − quartina mono-rima di alessandrini o anche di altre misure, − il serventese caudato di cui si è detto.

Nel trecento e quattrocento si afferma la poesia discorsiva e di ampio respiro:

- è divisa tra terzine e ottave rime; - l'ottava rima prevale sulla poesia narrativa ed ispira i cantori che daranno origine all'ottava

canterina. Boccaccio utilizza l'ottava nelle sacre rappresentazioni innalzandola dalle versificazioni popolari dei cantori, nei secoli successivi Ariosto, Tasso e Mariani comporranno molto in ottave. La terza rima si afferma molto dopo Dante:

− l’ amorosa visione del Boccaccio

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− i trionfi del Petrarca In particolare Leon Battista Alberti usa la terza rima nell’elegia, un genere amoroso e sentimentale che si ispira all’elegia classica e comporrà anche il Tyrsis che rappresenta un’egloga in terza rima. Il canzoniere del Petrarca diventerà esempio di riferimento per i canzonieri del futuro. La Ballata di Antonio da Tempo descrive approfonditamente la canzone. La Frottola diverrà invece il genere della poesia cortigiana del Tre-Quattrocento, ha come riferimento una produzione colta e moralizzante che si differenzia dalla romanza cortigiana di puro intrattenimento. Molte delle madrigali del Tre-Quattrocento sono tramandate dai manoscritti musicali:

− dal punto di vista metrico il madrigale trecentesco è in forma più libera. − la struttura è in terzine concluse da un distico

Nel Quattrocento il madrigale mantiene la sua forma libera:

− ma si sviluppa in endecasillabi e settenari Il metro più comune per la canzonetta è la ballata

− in forme regolari Ballata regolare è la barzelletta, che si sviluppa in ottonari La canzonetta ha una caratterizzazione più popolare Lo strambotto ed il rispetto saranno generi che avranno una grande fortuna sia nel Trecento che nel Quattrocento. II. Dal Cinquecento all'Ottocento La novità cinquecentesca di maggiore rilievo è l'endecasillabo sciolto:

− la poesia può essere senza rima, − Secondo Trissino la forma più adatta alla poesia 'eroica' è l'esametro latino; − l'endecasillabo appare il sostituto più conveniente; − la poesia in rima fu infatti per Dante e per Boccaccio una scelta obbligata dagli usi del loro

tempo, che Trissino ritiene ormai superati. Le discussioni sulla poesia in rima o senza rima riguardano:

− da un lato la poesia discorsiva, − dall'altro la poesia drammatica.

Il discorso rimato, afferma Trissino, è cosa «totalmente contraria alla continuazione della materia e concatenazione dei sensi e delle construzioni». Trissino cerca:

− una forma più elevata perché più prossima alla poesia classica; − la colpa irrimediabile della rima è di non appartenere a quella poesia. − il problema è che il verso senza rima appare troppo 'facile' e troppo simile alla prosa, − è questo l'argomento principale degli oppositori, come il Giraldi Cinzio nel Discorso intorno

al comporre dei romanzi (1554).

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Nel genere maggiore del poema l'ottava rima resta perciò a lungo dominante la fortuna dell'endecasillabo sciolto è soprattutto:

− nella poesia didascalica di ispirazione classica (Le api del Rucellai, La coltivazione dell'Alamanni),

− nelle traduzioni (come quella dell'Eneide di Annibal Caro). Nella Frusta letteraria Baretti:

− il verso sciolto è frutto di poltroneria» e «scempiaggine», − è contrario alla natura della poesia italiana, − che vuole la rima come la poesia latina vuole la struttura quantitativa.

Già sant'Agostino, commentando un suo testo:

− diceva di averlo composto senza osservare alcuna regola; − nel Medioevo prosa è stato un nome attribuito alla forma della sequenza, − nello stesso modo, anche il verso libero moderno è stato sentito, dai fautori e dagli

oppositori, come prosa poetica. Nel Settecento all'atteggiamento classicistico del Cinquecento:

− si aggiunge una mentalità razionalistica, che trova la rima un'assurdità nella poesia discorsiva (

− Baretti coglie però, un aspetto reale della storia del verso sciolto, cioè il fatto che la sua legittimazione passa attraverso un assiduo lavoro di ricerca stilistica,

− con il ricorso sistematico all''enjambement per mantenere una tensione ritmica che la mancanza della rima rende altrimenti problematica

− questa ricerca stilistica che mira a sollecitare al massimo le potenzialità ritmico-sintattiche dell'endecasillabo sciolto raggiunge i suoi maggiori risultati con Parini e Foscolo.

Alle soglie del Cinquecento, il genere guida della poesia lirica è la canzone petrarchesca:

− nella forma della stanza di piedi il sirma, − Significativo è il fatto che Bembo trascuri del tutto la struttura della stanza, e dia come

regola il solo fatto che: − i versi siano endecasillabi e settenari − che tutte le stanze seguano lo stesso schema nell'ordinamento dei versi e delle rime.

I nuovi sviluppi della canzone dal Cinquecento vedono il modello della poesia petrarchesca si affianca quello della poesia classica:

− la canzone diventa ode, sinonimo greco di 'canzone', che indica un diverso orientamento della cultura metrica.

L'autorità di Orazio esercita sulla canzone-ode un effetto semplificante:

− che porta sia alla canzone in stanze brevi di endecasillabi e settenari, − sia alla forma in quartine a rima incrociata o alterna, più prossima al tipo oraziano dell'ode in

strofe di quattro versi. Chiabrera è il primo a sperimentare con successo una trasposizione italiana degli schemi oraziani:

− rinunciando a riprodurre la quantità, − imitando il numero delle sillabe e, approssimativamente, il ritmo, con un accorto 'montaggio'

di versi italiani.

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Carducci è stato l’unioco autore che abbia saputo imporre la metrica barbara: − come un tema centrale della poesia italiana seppur per breve periodo.

La poesia musicale francese che nel Cinquecento gode di larga diffusione in Italia:

− si serve in modo assai libero del madrigale, della barzelletta, − della frottola, dello strambotto − anche di forme difficili da ridurre a schemi più precisi.

La forma dell'ode-canzonetta di Chiabrera:

− ha grandissima fortuna nella poesia per musica, − occupa uno spazio letterario molto più ampio, − è disponibile, nella poesia di impegno civile delle Odi di Parini, accanto alle forme della

canzone-ode in stanze di endecasillabi e settenari. Tra le innovazioni più significative della poesia musicale cinquecentesca:

− è la nuova forma del madrigale, − senza più struttura strofica, ma in endecasillabi e settenari disposti liberamente, − con rime libere e uguale libertà nel lasciare versi non rimati.

Già Bembo nelle Prose riconosce il carattere di estrema libertà del madrigale:

− consiglia la forma nuova piuttosto che quella petrarchesca, − nel madrigale Minturno trova un'analogia nella poesia classica con la forma dell'epigramma

L'elaborazione del discorso libero in endecasillabi e settenari ha dal Cinquecento al Settecento:

− un campo privilegiato di elaborazione nella poesia scenica e per musica, − è viva nella poesia narrativa e idillica e coinvolge anche la canzone

III. L'Ottocento Le prime canzoni leopardiane:

− hanno come punto di riferimento la tradizione delle canzoni sei-settecentesche − Leopardi attinge al repertorio metrico sei-settecentesco, selezionandolo e trattandolo in

modo originale rispetto ai poeti del suo tempo. Il metro al quale egli lega il suo nome, la canzone libera:

− non è di per sé una novità − alla canzone-libera, tuttavia, Leopardi giunge per altra via, attraverso la graduale

dissoluzione dall'interno degli schemi della canzoni 'regolari', − ricuperando la tradizione cinque-settecentesca del discorso libero in endecasillabi e settenari:

− il madrigale, l'idillio, il recitativo della tragedia e del melodramma. La libertà che Leopardi si conquista nel testo strofico:

− è un aspetto importante della sua modernità; − la sua strofa non è più un'impalcatura preesistente al ritmo, − ma è generata dal movimento ritmico del testo.

Appartengono al repertorio settecentesco le forme liriche dell'ode-canzonetta:

− le sue odi di Foscolo A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All'amica risanata,

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− gli Inni sacri e le rime civili (Il cinque maggio e Marzo 1821) di Manzoni. In Italia, da Berchet in poi:

− essa riprende modelli nordici, − in testi che stanno a metà fra poesia lirica e poesia narrativa − si richiamano per lo più a miti storici medievaleggianti.

Al repertorio settecentesco appartiene anche l'endecasillabo sciolto:

− divenuto il metro per eccellenza «della poesia discorsiva, − giunto in questa all'esito più alto con il carme Dei sepolcri di Foscolo.

Leopardi percorre la via del verso sciolto negli Idilli:

− L'infinito e Alla luna, del 1819, − All'Italia e Sopra il monumento di Dante, del 1818 − Ad Angelo Mai, del 1820.

Leopardi fa dell'endecasillabo sciolto «il metro per eccellenza della confessione lirica»

La persistenza delle forme metriche settecentesche nell'Ottocento giunge fino a Carducci:

− Juvenilia, Levia Gravia, Giambi ed Epodi − comprende anche forme della tradizione più antica;

Un precedente nell'interesse per la ripresa di metri antichi è dato da Tommaseo:

− la sperimentazione arcaizzante di Carducci tocca la canzone petrarchesca, la ballata antica, il madrigale, la sestina, e anche il raro rondò.

La rivisitazione dei metri della tradizione italiana:

− Pascoli in forma abilmente dissimulata e modernizzata; − D'Annunzio esibita con compiacimento estetizzante.

Pascoli ne sviluppa un'altra e diversa nel campo dell'endecasillabo sciolto e della terza rima:

− forme 'aperte', nelle quali egli porta tuttavia una visibile tendenza a costruire strofe o stanze di misura fissa.

D'Annunzio nelle poesie di L'Isotteo-La Chimera (1899):

− non solo, fra altri metri, ballata, barzelletta, madrigale, sonetto doppio, − ma anche forme mai state istituzionali, come la nona rima e il rondò.

La metrica 'nuova' di Carducci:

− è quella 'antica' delle Odi barbare, (1877) − la novità non è puramente tecnica; − nuova è la compenetrazione fra la ricerca metrica e l'ideale di una ritrovata classicità, che è

esso stesso tema poetico e di 'poesia sulla poesia' ricorrente nelle Barbare. − nuova è anche la centralità che la proposta carducciana riesce a ottenere, − oggetto della ripulsa di molti di fronte all'eliminazione della rima dai sistemi strofici − ma oggetto anche di molte imitazioni.

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CAPITOLO UNDICESIMO LA METRICA LIBERA MODERNA

L'affermazione del verso libero, tocca profondamente le ragioni e la natura della poesia: − il verso libero si è costruito culturalmente dall'interno del mutamento della poesia in tutti i

suoi aspetti, − motivato dai grandi cambiamenti del mondo, − in opposizione con tutto ciò che la poesia era e rappresentava prima di questi cambiamenti.

Il verso libero in fondo non è un verso:

− secondo La versification di Pierre Guiraud: «la forma libera di tanti poeti moderni costituisce una prosa lirica cadenzata e non un verso misurato».

− dal punto di vista della percezione culturale del verso libero le sue origini e la sua natura sono in effetti intimamente legate con la prosa.

Il 'limite' cui tende il verso libero:

− è la poesia in prosa, che si afferma in Francia con i Petits poèmes en prose di Baudelaire (1855-1864);

− linguaggio poetico a pieno titolo, nel procedimento per immagini, nella costruzione del discorso, nello stile, ma nel quale manca il verso.

Antecedente illustre del verso libero italiano:

− sono le traduzioni di canti illirici e greci pubblicate da Niccolò Tommaseo nel 1841-42; − altro testo importante di metrica libera sono i Semiritmi di Luigi Capuana, del 1888.

Lo stesso Capuana, rispondendo nel 1909 a una famosa inchiesta di Marinetti sul verso libero:

− rivendicava il proprio ruolo di iniziatore: «Ho fatto io, il primo in Italia, il tentativo di introdurre il 'semiritmo , e senza nessun'intenzione di imitazione straniera».

Nelle Laudi, che presentano lo sviluppo compiuto della metrica dannunziana:

− un numero significativo di testi presenta una versificazione in cui l'isosillabismo non ha più un ruolo determinante,

− la misura sillabica è un punto di riferimento al quale il verso aderisce per approssimazione, oscillando senza una regola fissa, e cercando il proprio ritmo al di fuori di uno schema predefinito.

Nella Laus vitae vi sono i versi che:

− oscillano liberamente intorno ad una base di 9 sillabe, − con rime ugualmente libere.

Verso libero significa rifiuto di ogni struttura definita:

− rifiuto nei confronti della tradizione metrica e soprattutto poetica; − la prima elaborazione del verso libero «passa anche, e si potrebbe dire prima di tutto,

attraverso la rivolta antidannunziana di Lucini e dei Crepuscolari» (Pazzaglia). Nelle 'parole in libertà':

− l'uso intensivo dei differenti corpi tipografici, − unito alla demolizione delle strutture sintattiche, − fa uscire la poesia dai limiti della metrica,

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Riassunto – Gli Strumenti della poesia – Beltrami P.G.

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− per diventare arte visiva o spartito per un'esecuzione. La poesia visiva vera e propria è:

− quella dei Calligrammes di Apollinaire (1918), − 'calligrammi' si incontrano anche nei Derniers Jours di Ungaretti (1919).

La simbiosi della poesia con altre arti:

− si esprime in una forma di antica tradizione, − si continua nel secolo con le vicende della cosiddetta 'poesia concreta'.

Quella della poesia in prosa non è però in Italia una linea vincente:

− l'aspetto visivo della versificazione, − l'a capo grafico con gli altri fenomeni di organizzazione della pagina, − è in effetti l'aspetto più persistente e generale nell'elaborazione della poesia libera.

Parlare di una 'grammatica' del verso libero:

− sarebbe una contraddizione in termini. − è difficile anche ridurre a una semplice descrizione ordinata un campo così ampio di forme

possibili ed effettivamente sperimentate. La metrica libera del Novecento:

− non è affatto priva di forme di regolarità; − il concetto di 'verso sbagliato' in quella libera non ha alcun significato.

Non solo 'verso libero':

− ma la liberazione dalla norma metrica colpisce nel Novecento anche le forme tradizionali, quando vengono riprese.

− l'unica norma enunciabile è forse quella secondo la quale il verso 'non può' essere del tutto regolare, se non 'per caso'.

Sembra fondamentale al verso libero una tensione tra:

− la regolarità della segmentazione del discorso; − l'irregolarità istituzionale dei segmenti di discorso, cioè dei versi.

Questa tensione interna al testo corrisponde ad una tensione culturale, storica:

− fra la poesia che si definisce libera e la tradizione poetica che esprime le norme, tutt'altro che dimenticate, nei confronti delle quali si esercita questa libertà.

La poesia del Novecento:

− non abbandona del tutto le forme metriche tradizionali, − ne fa un uso critico, interponendo una distanza fra sé e il metro regolare, con voluti

stravolgimenti ed errori. Esempio: la terza rima delle Ceneri di Gramsci di Pasolini (1957) il metro è una base dalla quale Pasolini si allontana liberamente:

− sia variando la misura del verso, − sia sostituendo la rima con assonanze e introducendo versi irrelati, − ottenendo infine una forma del tutto nuova.

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Un altro caso è quello del sonetto: − forma onnipresente nella tradizione italiana, − oggetto di nuove sperimentazioni 'critiche' nella poesia più viva del Novecento.

Esempio: sonetto di Betocchi (da destate di San Martino): (stralcio) A Guarda questi begli anemoni colti B l'altra sera ai colli di Settignano, B alcuni viola, altri più chiari; erano A mezzi moribondi, così sepolti C quasi, fra le tue mani, quasi emigrati 5 Nella metrica di Montale definita da Contini 'moderatamente libera':

− sono frequenti gli endecasillabi regolari, − sono frequenti i versi che appaiono chiaramente alterazioni dell'endecasillabo.

Esempio: inizio della seconda parte di Notizie dall'Amiata, dalle Occasioni: (stralcio): E tu seguissi le fragili architetture annerite dal tempo e dal carbone, i cortili quadrati che hanno nel mezzo il pozzo profondissimo; tu seguissi il volo infagottato degli uccelli 5 Altri testi presentano una vera e propria libera polimetria; Esempio: Piccolo testamento di Montale, nella Bufera (1956): (stralcio) Questo che a notte balugina [ottonario di la-4a] nella calotta del mio pensiero [doppio quinario] traccia madreperlacea di lumaca [endecasillabo] o smeriglio di vetro calpestato, [endecasillabo] non è lume di chiesa o d'officina [endecasillabo] che alimenti [quadrisillabo] chierico rosso, o nero. [settenario] Sono riconducibili in astratto a forme di polimetria:

− tutti i testi in versi liberi in misure inferiori alle 11 sillabe, − per i quali è sempre possibile un confronto con i versi regolari.

Nel caso della versificazione dell’ Allegria di Ungaretti (1919):

− essa sia scandita per unità di ritmo e insieme di significato, − fino al limite estremo, frequentemente toccato, del 'verso-parola'.

Una forma catalogabile di verso lungo è il cosiddetto Verso-frase':

− misure e ritmo sono variabili, ma, tendenzialmente: − ogni verso corrisponde ad una frase − termina con un limite sintattico forte.

Il limite fra il verso-frase e la poesia in prosa è talvolta incerto

Per certi tipi di verso libero si può parlare di verso accentuativo:

− la cui struttura si fonda sul numero degli accenti, il verso dei Poemi lirici di Bacchelli (1914), fondato sulla misura di quattro accenti;

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− su moduli accentuativi costanti o comunque ben riconoscibili di Palazzeschi (Poesie, 1925), in cui sono allineati gruppi di tre sillabe costantemente atona-tonica-atona, in numero variabile secondo i versi.

In modo analogo si può descrivere il verso di Lavorare stanca di Pavese (1936):

− in cui si allineano gruppi di tre sillabe con la terza tonica, − in serie di 4, ampliabili a 5 o 6.

Se è lecito parlare di 'verso accentuativo' per la versificazione libera del Novecento:

− la disposizione degli accenti prende maggior valore del numero delle sillabe, − assai più importante è definire l'atteggiamento nei confronti del verso.

Nella versificazione del Novecento:

− il concetto di unità metrica è sdoppiato fra due poli di uguale pertinenza − da un lato il verso, − dall'altro l'unità ritmica, autonoma e non dipendente dalla forma del verso,

Il verso è definito dalla segmentazione:

− induce il lettore a individuare in esso le formule ritmiche della poesia, − stabilisce un rapporto di adesione o opposizione con le forme di verso della tradizione, − crea un punto di opposizione fra metro e sintassi.

Il verso è a sua volta una sorta di 'contenitore' delle unità ritmiche della poesia:

− un principio di ordinamento che permette di porre in relazione fra loro tali unità ritmiche − la possibilità di reperire versi tradizionali entro la poesia libera non deve far dimenticare che

ciò che veramente importa è il nuovo trattamento del verso, nel quale sono accomunate le forme riconducibili alla tradizione e quelle ad essa irriducibili.

La rima non è affatto abolita dall'affermarsi della versificazione libera:

− la poesia del Novecento ne fa nell'insieme un uso molto ampio, − la rima è liberamente sostituita da assonanze e consonanze o da versi irrelati; − la rima nelle forme libere è una risorsa sempre disponibile in fine di verso o all'interno, − con una frequenza che varia molto considerevolmente da autore ad autore, − da quelli che la evitano a quelli che invece ne fanno un uso rilevante.

Il più caratteristico è Caproni, un poeta per il quale la rima è una risorsa spontanea:

− cantabile ma mai meccanico, dei Versi livornesi (nel Seme del piangere, 1959), − in testi che si possono dire canzonette libere o strofe di canzonetta libera in versi brevi, − al progressivo prosciugarsi del discorso poetico, − con l'approdo estremo di fatalità della rima,

Esempio: Res amissa (1991): La terra. La guerra. La sorte. La morte.