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Renato Caserta BENEDETTO CROCE E LA ‘SUA’ NAPOLI

Benedetto Croce e La 'Sua' Napoli

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Page 1: Benedetto Croce e La 'Sua' Napoli

Renato Caserta

BENEDETTO CROCEE LA ‘SUA’ NAPOLI

Arte Tipografica 2005

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PREMESSA

La ‘mia’ Napoli: la città ricca di storia, di tradizioni, di cultura rimasta sempre nel cuore di Benedetto Croce, che ne è stato – non ho remore nel dirlo – il suo più grande “cantore”. Ne vedeva tutti i difetti – come avviene forse soprattutto in coloro che amano – ne individuava le cause, ne accusava i responsabili, ma nello stesso tempo contestava i giudizi superficiali, i luoghi comuni, le critiche faziose soprattutto da parte di stranieri, difendeva il dialetto (che aveva dato e dava segni di grande vitalità e aveva alimentato opere di poeti); ne spiegava certe forme di religiosità popolare, che non erano cieca superstizione ma andavano capite e interpretate senza animosità e preconcetti. E sottolineava che i “lazzaroni” che pure costituivano un aspetto deteriore del Regno, non erano molto diversi dalla feccia plebea di altre grandi città italiane o europee. E l’amore per la ‘sua’ Napoli non era solo espresso nelle tante e tante pagine dei suoi libri, ma si concretizzava in un appassionato impegno per la conservazione del patrimonio storico e artistico della città, in proposte e iniziative che contribuirono efficacemente ad evitare scempi e speculazioni disastrose.

Quanto deve Napoli a Benedetto Croce? E’ stato sempre riconosciuto esattamente il prestigio che una personalità come Croce dava alla città? E la luce che si irradiava in Italia e nel mondo culturale straniero da palazzo Filomarino era apprezzata? Per anni Croce rappresentò un ineludibile punto di riferimento anche per avversari e fu, a Napoli, al centro di una felice fase di sviluppo culturale mentre la capitale del Sud viveva una sorta di belle époque che non trovava confronti con altre pur gloriose città italiane. Nonostante gli aspetti negativi che sociologici e storici spesso mettevano in rilievo, Napoli, ai tempi di Croce e intorno a Croce, vide un fiorire di figure nobilissime: storici, economisti, giuristi, scrittori, poeti, giornalisti, politici. Nomi che si susseguiranno dalla fine dell’Ottocento ai primi del Novecento ed oltre, fino al secondo dopoguerra, se uno storico della letteratura italiana come Walter Pedullà poteva scrivere, riferendosi al decennio che va dal 1945 al ’55: «Per qualche anno Napoli è stata la capitale della narrativa italiana». E un critico dell’arte come Carlo Ludovico Ragghianti poteva ricordare per Croce quello che Goethe diceva ad Eckermann di Emanuele Kant: «Egli ha agito su di voi, senza che lo abbiate letto. Ed

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ora non avete più bisogno di leggerlo perché ciò che poteva dirvi lo possedete già».

Poi l’esodo dei cervelli, il trasferimento di centri di potere economico, nuove occasioni di lavoro e di successo che attiravano altrove prestigiose personalità napoletane. Ma molti non si arresero né si arrendono: all’Istituto italiano per gli Studi storici fondato da Benedetto Croce si aggiungono l’Istituto italiano per gli Studi filosofici, Napoli ’99, la Fondazione Guido e Roberto Cortese, l’Associazione Aba, gli Amici del Libro, la Biblioteca Nazionale che è sempre più animatrice di cultura, mentre editori qualificati come l’Arte Tipografica tengono viva una nobile tradizione. Per anni la Rivista di Studi Crociani combatté battaglie culturali affermandosi anche all’estero e cessò soltanto vent’anni fa quando si spense Alfredo Parente, che l’aveva fondata e non voleva che vivesse senza di lui.

Come si sa - e lo ricorderemo dettagliatamente – Benedetto Croce compì una sorta di prodigio rispetto agli altri storici. Dal piccolo mondo locale e persino dal luogo d’origine della famiglia del padre, Montenerodomo, e da quello della madre, Pescasseroli, amplia l’esame alla storia e alle leggende di Napoli, e poi spazia sulle vicende dell’intero Regno fino ai Borbone e fino all’unità d’Italia, e poi guarda all’Europa e l’auspica unita. Ma è da Napoli, dove da molti Paesi giungono studiosi per conoscerlo, che lancia i suoi messaggi di cultura e di libertà. Significativa in questo senso la visita dello scrittore francese Roger Peyrefitte, in genere orientato verso il documentario e la satira, ma che, prima di pubblicare il volume Du Vèsuve à l’Etna (edito a Parigi da Flammarion), chiese di essere ricevuto a palazzo Filomarino «per prendere dal grande filosofo e storico e letterato – come scrisse un critico, Franco Fuscà - l’abbrivo ad una migliore conoscenza della vita, della storia e dei segreti di Napoli e del suo popolo».

Dalla Napoli di Vico e di Filangieri e, indirettamente, di De Sanctis, arrivavano con Croce segnali che equilibravano i giudizi convenzionali sulla città. Se Croce l’amava tanto dovevano esserci importanti motivi! Quali? Nelle pagine che seguono si leggeranno nomi che con Croce contribuirono a fare di Napoli un faro di cultura. Ma quanti furono i protagonisti di quegli anni fecondi? Da Michelangelo Schipa ad Adolfo Omodeo, da Enrico De Nicola a Giovanni Porzio, da Roberto Bracco a Salvatore Di Giacomo, da Riccardo Ricciardi ad Angelo Rossi, da Edoardo Scarfoglio a Matilde

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Serao, da Giovanni Leone a Guido Cortese, da Epicarmo Corbino a Vittorio Spinazzola, da Giustino Fortunato a Francesco Compagna, da Gino Doria a Fausto Nicolini, da Bartolomeo Capasso a Vincenzo Gemito, da Enrico De Leva a Raffaele Viviani, da Carlo Bernari a Domenico Rea, e tanti altri. Come Croce – pur se in modi diversi – amarono Napoli con tutti i suoi aspetti negativi e lavorarono per eliminarli.

Non si affronteranno nel volume gli aspetti strettamente politici dell’attività di Croce perché si riferiscono, ovviamente, a questioni che vanno molto al di là dell’impegno civile e culturale per la città. A vent’anni dalla morte del filosofo, che si spense nel novembre del 1952, venne lanciata da uno studioso di Potenza, Pietro Borraro, in una conferenza riprodotta nella rivista Scuola Lucana, un’appassionata ma per molti aspetti utopistica proposta: conservare le spoglie di Croce a Firenze, nel tempio sacro alla memoria dei grandi italiani. Ma sarebbe opportuno allontanare i resti mortali di Croce dalla ‘sua’ Napoli? E ci sarebbe, oltretutto, il clima politico adatto? Sulla Rivista di Studi Crociani il fedelissimo Alfredo Parente commentava sinteticamente il nobile suggerimento della traslazione: «Proposta troppo tempestiva perché avesse fortuna presso gli stessi eredi del grande Maestro, giacché siamo ancora lontani dal tempo in cui non sarà prematuro e ingiusto che quei resti si stacchino dalla città in cui Croce visse, legandovisi di profondissimo affetto e indagandone sotto ogni aspetto la storia».

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LA “MIA” NAPOLI

In occasione dei cinquant’anni dalla morte di Benedetto Croce fu organizzata, nel 2002, a Palazzo Madama, una mostra che comprendeva, tra l’altro, il carteggio del filosofo-senatore con la Biblioteca del Senato, e venivano presentante anche le frequenti richieste di Croce per poter vedere libri in possesso della biblioteca, che non era riuscito a trovare altrove. Nell’illustrare la mostra, uno studioso di prestigio come Fulvio Tessitore fa alcune importanti osservazioni, e particolarmente notevole è il sottolineare «come il gusto, l’esercizio, l’ausilio dell’erudizione siano una costante della ricerca crociana, accompagnata e, per tanti versi, favorita da quel gusto antico e scaltrito, che le ha dato un carattere assai marcato e assai tipico». E poi la significativa notazione: «Il carteggio, la mostra e il catalogo, mostrano, con assoluta evidenza, il percorso dell’interesse crociano, che andava dal contemporaneo all’antico e viceversa in uno scambio caratterizzante la Frage storiografica del filosofo. Assai indicativa di ciò è la lettera del 23 aprile 1927. In essa Croce richiede due libri di diretto e indiretto interesse vichiano (il Vico’s New Science of Humanity di T. Wittaker del 1926 e Le Cartésiens d’Italie di Berté de Besancèle del 1920), insieme con le Scene della vita napoletana del Silvani, pubblicate nel 1872».

Dalla mostra è emerso anche un altro elemento interessante, sottolineato anch’esso da Fulvio Tessitore: «Appare evidente come sia errata la consueta periodizzazione dell’opera del Croce, che vuole questa distinguere in una prima fase (la giovanile) caratterizzata dalla scelta per l’erudizione, poi chiusa a vantaggio di quella specificamente filosofica e storiografica». Le lettere al Senato confermano in sostanza come erudizione e storia, visione locale e panoramica di largo respiro, siano state sempre coincidenti.

Si capisce da molti elementi questo aspetto di studioso di Benedetto Croce e voglio citare una perfetta definizione del concetto di patria e di città data da uno storico quale Federico Chabod, che fu peraltro il primo effettivo direttore dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici fondato da Croce dopo che il designato a questa carica, Adolfo Omodeo, si era improvvisamente spento. Nel volume L’idea di nazione, del 1977, citando la Francia, dove è preminente il concetto di una petite patrie, cioè la regione o la città natale, considerata accanto a quello della grande patrie, Chabod scriveva: «E certo, ancora oggi anche noi oltre che della patria=nazione, parliamo spesso di

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patria=loco natio; anche per noi, c’è una piccola patria, la propria terra o città d’origine, il cui amore è vivo e profondo in noi, senza nulla togliere all’amore per la grande patria, comune a tutti gli italiani (o francesi, o tedeschi, ecc.) e senza minimamente contraddirlo».

Nonostante la predicazione nazionalistica della dittatura ventennale, gli italiani che seguivano l’insegnamento di Croce assorbivano – come sottolineava Alfredo Parente sulla Barricata, edita durante le Quattro giornate nel 1943 – un’idea fondamentale: «Siamo andati anche oltre l’ardita concezione mazziniana di una comune coscienza europea, e ci sentiamo, grandi e piccoli, cittadini del mondo, uomini tra gli uomini di ogni civiltà e di ogni lingua». Era il saluto agli anglo-americani giunti in Italia nel ’43. Ma poco dopo, quando nel ’45 si preparava la nuova Costituzione e si pensava alle autonomie regionali, Croce scrisse una toccante dedica pubblicando il volumetto Quando l’Italia era tagliata in due. Ecco le sue parole: «Alla mia Napoli / che non ha chiesto né vagheggiato / autonomie e separatismi / religiosamente fedele / a quell’idea dell’unità nazionale / che i suoi uomini del 1799 / propugnarono tra i primi / dedico il «Diario» di un periodo / nel quale separati di fatto / all’Italia di continuo pensammo / anelando di tornare tutt’uno con lei». L’Italia quindi, unita e amata, ma Napoli, la sua Napoli, amatissima da Croce.

Nato a Pescasseroli, in Abruzzo, durante un soggiorno provvisorio nella dimora familiare della madre, che aveva lasciato Napoli per timore del colera (1866), Croce ricordava con interesse e con simpatia il paese natale, ma si sentiva napoletano, anche se molti studiosi continuano a definirlo il “filosofo abruzzese” o anche precisando “di Pescasseroli”. Nell’atto di nascita redatto il 25 febbraio 1866 da Francesco Sipari, sindaco del paese e zio del filosofo, si legge che il signor Pasquale Croce, padre di Benedetto, era di «professione proprietario», domiciliato in Napoli ed era… «di passaggio per Pescasseroli». Un’interpretazione di questa origine abruzzese ne dà un amico di Croce e acuto studioso napoletano, Giovanni Cassandro (peraltro imparentato con un altro appassionato napoletano, Fausto Nicolini): «Croce, portato in Napoli da Pescasseroli (Abruzzo) a breve distanza dalla nascita, nella capitale dell’antico Regno crebbe, compì gli studi elementari e secondari e, dopo il breve biennio romano (1884-85), breve, ma pur così importante per la sua formazione spirituale, prese stabile e mai interrotta dimora. E napoletano si sentì, napoletani furono in gran parte gli «autori» che scelse; e Napoli amò

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dell’amore delle cose tra le quali viveva, e al passato che si congiungeva con esse; e questo passato narrò e direi, se non temessi di cadere nella retorica, cantò – tanto soffusi della melanconia che è della poesia, sono gli scritti napoletani, nei quali venne rimembrando la vecchia città e le sue strade, le sue chiese e i suoi conventi, e i suoi teatri, e coloro che tra essi si erano aggirati e avevano vissuto, operando e amando e soffrendo e, infine, paulo maiora canens, le vicende etico-politiche di tutto il Regno che culminavano e si assommavano in quelle della Capitale».

Ma ancora più significative per il sentimento che le anima sono le parole riportate proprio da Fausto Nicolini che le aveva raccolte dalla bocca di Croce in una confidenza affettuosa: «Com’è vero che la poesia non ha niente da vedere con la vita effettuale! Io, come filosofo e critico, non recedo innanzi ad alcun pensiero, per radicale e distruttivo che sembri, e, come uomo, accetto e promuovo qualunque elevamento dell’umana società, ancorché questa debba passare attraverso le più dure prove. Eppure, quando mi sorprendo a sognare, sapete quale aspirazione trovo nel profondo della mia anima? qual è l’immagine nella quale essa si bagna e riposa? Un convento secentesco napoletano con le sue bianche celle e il suo chiostro, che ha nel mezzo un recinto d’aranci e di limoni, e fuori, il tumulto della vita fastosa, che batte invano alle sue alte muraglie».

Il convento a cui probabilmente pensava Croce era quello che sorgeva proprio di fronte alla sua abitazione, con la chiesa di Santa Chiara (ne parleremo dettagliatamente in seguito).

Sono migliaia le pagine che Benedetto Croce ha dedicato a Napoli, e anche se non impegnato in attività politiche locali, allorché fu chiamato a ricoprire qualche incarico cittadino accettò per dovere civico, come quando nel 1891 fu designato come commissario straordinario per riordinare un settore dell’amministrazione comunale di Napoli, quello dell’istruzione; e successivamente fu prima commissario governativo, poi presidente dei Reali Educandati femminili di Napoli. Ma era la storia di Napoli, erano le tante figure prestigiose che vi avevano vissuto o vi vivevano, era la cultura che animava la città che richiamava la sua attenzione e l’appassionava come studioso, oltre che come cittadino. E allora affrontava i temi anche semplici ma significativi, che sarebbero magari stati tralasciati poi per sempre e che egli riteneva meritassero un ricordo “storico”. E allora spaziava nei più svariati settori (ai quali accenneremo ora e

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alcuni svilupperemo in seguito). Dedica saggi a Giambattista Basile e al suo Cunto de li cunti. Respinge la tesi della derivazione di Pulcinella dal teatro romano antico. Studia i teatri di Napoli e i testi teatrali a cominciare dal Rinascimento. Si interessa al nomignolo di una famosa osteria di Napoli, quella del Cerriglio. Si occupa della celebre novella del Boccaccio su Andreuccio da Perugia. Studia la vita religiosa a Napoli nel Settecento e approfondisce la nobile figura di Alfonso de’ Liguori, non trascurando il simpatico predicatore domenicano “padre Rocco”. Analizza alcune voci dialettali napoletane. Studia la Poesia volgare a Napoli nella prima metà del Quattrocento e le Vedute della città di Napoli nel Quattrocento. Tratta dell’origine della chiesa e della festa di Piedigrotta, dei cantastorie napoletani, del “prelato balordo” monsignor Perrelli, esalta la poesia di Salvatore Di Giacomo, di cui promuove e cura la pubblicazione della raccolta di Poesie, si interessa al teatro di Edoardo Scarpetta. E poi i grandi temi: la valorizzazione del dialetto, aneddoti gustosi, la Napoli di Carlo di Borbone, Giambattista Vico, la Rivoluzione del 1799, la rivista Napoli nobilissima, La Critica, la polemica sulla costruzione di un Policlinico nell’area conventuale del centro storico, la sistemazione della Biblioteca Nazionale, la difesa dell’acquario di Dohrn, le famiglie di patrioti come i Poerio e gli Imbriani, l’impegno nella Società di Storia Patria e nell’Accademia Pontaniana, fino al coronamento del grande sogno: la fondazione dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici.

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“UN CUORE NEL CUORE”

La naturale inclinazione per le cose d’arte e per la cultura, che troverà poi, nella maturità, una conferma e una razionale sistemazione, si sviluppò fin da ragazzo grazie soprattutto all’educazione che la madre gli impartiva e che si concretizzava anche in visite a monumenti napoletani. La madre Luisa Sipari amava molto le arti e soprattutto i monumenti antichi, e visitava spesso con il figlio chiese napoletane, in particolare Santa Chiara e San Domenico Maggiore. Come Croce racconterà, da ragazzo attento e appassionato si estasiava dinanzi a quadri e affreschi, a icone e tombe, a bassorilievi e statue di re, prelati e guerrieri tanti dei quali sarebbero divenuti in seguito oggetto dei suoi studi di erudizione. In realtà, scriverà lo stesso Croce, «in tutta la mia fanciullezza ebbi sempre come un cuore nel cuore; e quel cuore, quella mia intima e accarezzata tendenza, era la letteratura o piuttosto la storia». Ma c’era un altro aspetto delle attitudini di Croce, quella a guardare lontano, ed anche questo si svilupperà attraverso le letture della fanciullezza sotto la guida della madre. E Croce scriverà, anche se in un contesto polemico legato negli anni successivi ad eventi politici negativi, parole avvincenti sulle letture di racconti e romanzi di costume tedesco, che gli riempivano la fantasia di villaggi bianchi di neve, di bruni castelli, di prodi e nobili cavalieri, di belle e virtuosissime fanciulle, di azioni generose e di alte prove di austero dovere, sicché per veder concretizzato il suo sogno fanciullesco il suo primo viaggio fuori d’Italia lo farà in Germania.

Trasferitosi a Roma a 17 anni dopo la tragedia del terremoto di Casamicciola che lo aveva privato dei genitori e della sorella, nonostante le cure dello zio Silvio Spaventa imparentato con la madre, e autorevole esponente politico, e della presenza del fratello superstite, Alfonso, si sentiva «avvizzito prima di fiorire, vecchio prima che giovane». Un raggio di sole – dirà – fu per lui la conoscenza che fece in casa dello Spaventa di Antonio Labriola, ma il suo vivo desiderio era di tornare a Napoli e nel 1886 poté attuare questo suo sogno. Lasciata «la società politicante romana», si trovò – scrive con grande efficacia Fausto Nicolini, che ben conosceva l’atmosfera culturale napoletana - in un ambiente del tutto opposto; «in quello della Società napoletana di storia patria, composta tutta di bibliotecari, archivisti,

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eruditi, curiosi e altra onesta e buona e mite gente, che, come aborriva dalla politica militante, così non era adusata alla fatica del troppo pensare. Per alcuni anni (su per giù fino al 1892) non si consacrò quasi ad altro che ad indagini erudite, compiendo anche, per condurle più a fondo, viaggi d’istruzione in Germania, in Spagna, in Francia e Inghilterra». In quegli anni, in sostanza, compose molti dei suoi scritti di erudizione. Ma intanto maturava la convinzione di approfondire il suo lavoro di storico, ma non più regionale bensì nazionale, convinto tuttavia che nel trattare qualunque argomento, grande o piccolo, la più accurata esattezza erudita sia addirittura un dovere morale, «da adempiere con iscrupolosità tanto maggiore in quanto l’imprecisa informazione filologica può condurre, e conduce sovente, a involontarie, ma non perciò men colpevoli, alterazioni e deformazioni del vero.

Fausto Nicolini, riferendosi all’esigenza propria e di Croce di rivivere con uomini e tra cose della vecchia Italia e specificamente di Napoli, parla di «bisogno affettivo» e sottolinea che le manifestazioni letterarie dell’affetto di Croce per la vecchia Napoli «lungi dall’avere alcunché di edonistico e voluttuario, e quindi di dilettantesco, s’intonano anch’esse a un’esigenza etica: all’esigenza di serbare la tradizione storica e, con essa, i fili che legano la vita del presente a quella dei tempi che furono… Credi tu – mi diceva una volta nelle nostre passeggiate per la vecchia Napoli – credi tu che gli uomini della decadenza italiana sentissero lo squallore desolato della loro miserrima vita intellettuale e morale e, sentendolo, ne soffrissero? …Fa’ attenzione all’irriverente e quasi iconoclastico furore con cui, specie in questa vecchia città a te e a me così cara, presero a distruggere, impiastricciare, imbarocchire quanto ricordasse loro il passato: chiese gotiche, palazzotti della Rinascenza, affreschi giotteschi, monumenti tre, quattro e cinquecenteschi; e dimmi poi: a quale altro più basso gradino saremmo discesi se, tra pochi uomini di pensiero degli ultimi decenni del Seicento – uomini che s’aggiravano per queste medesime strade e ai quali dobbiamo gratitudine perenne - non fosse sorto un salutare movimento di reazione, che cominciò col riallacciare con la tradizione quei fili che marinisti e barocchisti avevan fatto di tutto per recidere? E il Vico - mi soggiungeva – il nostro Vico, che quegli uomini venerò sempre suoi maestri ideali, avrebbe potuto precorrere in tante cose il secolo decimonono?…».

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Un’altra interessantissima notazione di Nicolini va riferita in tema di rapporto tra erudizione e storia: «Trattazioni magari di storia universale possono essere, e sono sovente, nient’altro che cronache erudite o mere compilazioni; e, per contrario, proprio il Croce ha mostrato con l’esempio, come si possa raggiungere la storiografia di grande stile anche restando nel campo della storia regionale o addirittura municipale». L’amore di Croce per la sua Napoli si esprimeva anche in queste altre parole appassionate e piene di senso di nostalgia: «Mi viene malinconia quando avverto che tante cose che noi ascoltavamo avidamente ora non si vuol più saperle…, quando mi accorgo che notizie e aneddoti non mai scritti (e che sovente non è dato scrivere), a me pervenuti per una catena di trasmissione nominativamente designata nei suoi anelli e che rimonta alla metà del Settecento e, in certi casi, più su, stanno ormai per morire sulle mie labbra, donde nessuno li coglie e li ripone nella sua memoria per l’ulteriore trasmissione».

Con questo spirito di amore per la tradizione e per la ‘sua’ Napoli, Benedetto Croce si impegnò in numerosissime opere per far rivivere «uomini e cose» non solo della città ma della regione, del Mezzogiorno e, per molti dei protagonisti che operarono anche fuori del Sud, dell’intera Italia.

E’ significativo che uno studioso di Croce, docente nella Duke Univeristy di Durham nel North Carolina, Ernesto G. Caserta (che negli Stati Uniti si è fatto promotore delle dottrine crociane), insista sul concetto del ‘doppio binario’ degli interessi di Benedetto Croce: «L’attaccamento del Croce alle figure locali – scrive il Caserta – non è affatto da imputarsi, come alcuni studiosi marxisti vorrebbero insinuare, a tendenze di provincialismo, tanto meno grettezza mentale. Si tratterà per il Croce, come per ogni altro uomo di genio, di passare dall’amore per le persone e le memorie patrie a quello di altri uomini di altri tempi e paesi; di allargare e di approfondire, insomma, sempre più la cerchia degli interessi culturali, conservandone il nucleo centrale e vitale. Il Croce si interesserà prima della cultura napoletana, poi di quella nazionale, per passare, infine, alla cultura e al sapere in genere che non conosce barriere nazionali né limiti geografici».

In realtà Napoli era profondamente nel cuore di Croce e viene da pensare a quel che Goethe narrava di un ragazzo napoletano che, vedendo il panorama nella sua stupenda città, proruppe in un grido di gioia e, additando al poeta quel golfo meraviglioso, soggiungeva:

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«Signor, perdonate! Questa è la mia patria». Ma, naturalmente, Croce equilibrava la sua ‘esaltazione’ per Napoli con l’obiettivo giudizio anche su aspetti negativi e ricordava spesso ai suoi amici la risposta che dette un napoletano dei tempi antichi a uno studioso svedese che, visitando Napoli, era ansioso di conoscere qualcosa del popolo napoletano. «E’ come una vipera, rispose il napoletano. La testa, cioè l’aristocrazia, è velenosa; la coda, cioè la plebe, non vale niente, e il corpo, ovvero la parte di mezzo, il ceto medio, è tanto buono che serve per curare molte malattie».

Qualche abruzzese non ‘perdonava’ al Croce la sua napoletaneità e non mancavano prese di posizione polemiche nemmeno dopo la morte del filosofo. Ed ecco una documentazione: nel novembre del 1953 il periodico Il Fucino riferiva che nell’ultima tornata della Deputazione Abruzzese di Storia Patria, il prof. Giuseppe Marini di Tagliacozzo, parlando di Benedetto Croce e «confutando l’assurda qualifica di filosofo napoletano attribuita al nostro Grande, che invece tenne sempre a dichiararsi abruzzese», citò, a dimostrazione di questa sua tesi, le due monografie su Montenerodomo e Pescasseroli pubblicate dal Croce in appendice alla sua Storia del Regno di Napoli. Questa notizia provocava la reazione di un lettore che, firmandosi col nome e cognome, Marco Serra, in una lettera al direttore del periodico rilevava che la prima di dette monografie si chiude con queste precise parole, che trascriveva integralmente: «… Era quello, ed è ancora, il cuore della piccola terra di Montenerodomo, dove vissero ab antico i miei maggiori, - tutti coloro dei quali, da Santa Crux in giù, leggo i nomi nell’albero di famiglia – e dove essi rimasero fino a poco più di un secolo fa; ed io mi sforzavo di ritrovare nel fondo del mio essere qualcosa che mi ricongiungesse a loro, una regola, un istinto, una passione, un palpito, e riuscivo in ciò soltanto a una consapevolezza debole, intermittente e fuggevole, laddove ritrovavo prontamente quanto mi congiunge, con tante molteplicità di legami e con tanta prepotenza, al vivo presente. E pensavo, non senza melanconia (tanto mi pareva a volte di essere straniero e diverso), che forse l’uomo, piuttosto che figlio della sua gente, è figlio della vita universale, che sia attua di volta in volta in modo nuovo; piuttosto che ‘filus loci’, è ‘filius temporis’». Il Serra aggiunge: «Ecco dunque un’occasione nella quale il Croce non ‘sentiva’ l’Abruzzo, o almeno lo ‘sentiva’ con la fredda mentalità

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dello storico per il quale il tempo e lo spazio non hanno né data né paralleli».

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“IL MIO ANIMO SI FA ANTICO”

Nelle opere giovanili di Croce si trovano dei ‘gioielli’ che lo steso autore – che pure era sempre coerente e compus sui – più volte avrebbe voluto ripudiare come poco rispondenti alle sue attività successive nel campo storico e filosofico. Eppure non riusciva a ‘liberarsene’, rileggeva, modificava, ripubblicava. Li sentiva suoi, quei lavori, e non poteva ripudiarli. «In queste vecchie memorie napoletane – diceva – la mia fantasia ama di tanto in tanto rinchiudersi, e il mio animo si fa antico». In Storie e leggende napoletane o negli Aneddoti di varia letteratura, si leggono pagine di vera ‘poesia’ su Napoli. Ricordando il Boccaccio scrive tra l’ altro: «La novella di Andreuccio è forse la pagina più napoletana che ci resti di quello scrittore che a Napoli visse i suoi anni più lieti, che qui amò, qui coltivò prima gli studi, qui si aprì alle aspirazioni della poesia, e questa città ricordò sempre con la tenerezza con cui si ricordano i luoghi dove trascorse la nostra gioventù e che si estende a tutte le loro parti e circostanze, ai monumenti, ai costumi, alle persone e perfino forse ai bricconi e imbroglioni che in quel tempo e in quei luoghi (dolce nella memoria!) si sono incontrati». Ricordando il Sannazaro, Croce scrive: «A Napoli lo aspettava quella sua villa sul declivio di Posillipo, presso il mare, nel luogo detto popolarmente ’Mergoglino’ o ’Mergellina’, che già appartenne ai Principi di casa D’Angiò e poi ai monaci di Santo Severino, e che Federico d’Aragona aveva acquistata e il 12 giugno 1499 donata al suo amico. Quale dono più conforme si poteva fare al poeta dell’Arcadia e delle Piscatorie? “Fecisti vatem, nunc facis agricolam”, egli rispose nel ringraziare: ma la sua poesia era un perpetuo spettacolo di campagna e di mare; e Mergellina, dove il verde della collina si sposava all’azzurro del golfo, ne pareva il simbolo festoso. Ed egli cantò sovente quella villa e quella sua felicità tra agreste e piscatoria… E ne sentì la sua più schietta ispirazione, tanto che a quelle delizie si affrettava a tornare, compiuto che ebbe lo sforzo del suo maggior poema».

Sulla “Villa di Chiaia”, Croce cita una paginetta di un libro assai popolare in Germania, nella quale la protagonista – una borghesuccia berlinese che insieme col marito visita Napoli – descrive la Villa sull’annottare e dice propriamente così: «Più tardi, il giardino si illuminò con cento e cento fiammelle a gas… il mare mormora giù

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verso il giardino, le onde accompagnano la musica e, cessata questa, continuano a divertirsi da sole, come fa la gente. In mezzo ai giardini si leva un magnifico edificio bianco, le cui mura sono rischiarate dalle fiammelle del gas. Esso sta serio e silenzioso, come qualcosa di straniero, in mezzo a quel rumore, allo stridore delle ruote, al vocio degli uomini, alle melodie dell’orchestra. E straniero è, in effetti: è la stazione zoologica, fondata dal dottor Antonio Dohrn di Stettino…»

In una pagina dedicata a San Biagio dei Librai si legge: «Non tanto le leggende quanto le invenzioni scherzose della immaginazione popolare coronano alcuni resti di sculture romane o greche, che da secoli stanno nelle piazze della città: come la statua sdraiata del fiume Nilo, che è all’incrocio delle vie di San Biagio dei Librai e della Università, e che il popolino chiama il ‘corpo di Napoli’; e quella testa muliebre colossale, che gli eruditi arbitrariamente interpretano per Partenope e che lo stesso popolino chiama la ‘testa (capa) di Napoli’, e più familiarmente: ‘donna Marianna ‘a capa ‘e Napole’…»

E quell’ ‘angolo di Napoli’ col Palazzo Filomarino dove Croce visse nel fervore degli studi e nel calore degli affetti familiari (l’impareggiabile consorte Adele e le devote quattro figlie)? «Quando, levandomi dal tavolino, mi affaccio al balcone della mia stanza da studio, l’occhio scorre sulle vetuste fabbriche che l’una incontro all’altra sorgono all’incrocio della via della Trinità Maggiore con quelle di San Sebastiano e Santa Chiara… Il palazzo, dal cui balcone io guardo, e che spiega sulla via della Trinità Maggiore un colossale portone a bugne, è quello che appartenne fino a un’ottantina d’anni addietro alla famiglia Filomarino, principi della Rocca, e mostra ancora lo stemma dei Filomarino a una delle arcate del suo cortile, ampio come una piazza. E’ dolce sentirsi chiusi nel grembo di queste vecchie fabbriche, vigilati e tutelati dai loro sembianti familiari; quasi come il ritrovarsi nella casa dove vivemmo la nostra infanzia, e venirvi riconoscendo gli oggetti che primi svegliarono la nostra meraviglia e ci mossero a fanciullesche immaginazioni, e rimirarvi i severi ritratti dei morti, che c’incussero un tempo rispetto e paura». In questa casa la figlia Alda resta a tener viva, con appassionata cura, la fiamma del grande Padre.

Nella riedizione recente delle Storie e leggende napoletane (pubblicate da Adelphi), il curatore Giuseppe Galasso ricorda che un giudice «della finezza di Federico Chabod» sottolineava che l’amore per le memorie napoletane era «la radice di una continuità di motivi e

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di toni del Croce storico tale da caratterizzarne nell’intimo l’ispirazione e il senso anche sul piano più generalmente storiografico: dal “bisogno interiore di parlare con il passato” all’ “accento sull’animo, sull’elemento morale, sulle passioni e sul dramma operoso e fecondo della vita”; dal “senso vivo del particolare concreto – una figura umana soprattutto, un angolo della vecchia Napoli, un aneddoto”, all’ “antico giovanile gusto del particolare corposo; il senso dei luoghi e delle persone, il compiacimento per le immagini del passato”; dall’attenzione al processo storico in quanto “còlto e fermato nelle figure maggiori e minori”, donde “l’umanità piena e corposa della ricostruzione storica”, al “senso cosmico del passato ‘che tutt’intorno ci preme’ e in esso noi viviamo immersi, che si disposa con il senso dell’uomo e della sua dignità morale, della sua libertà di volere e di fare, andando oltre il passato”». Questo scriveva Chabod nella Rivista storica italiana nel 1952, anno in cui Croce si spegneva. E a sua volta Galasso aggiunge che l’aura di quegli scritti, «il pathos che ne promana, e che immancabilmente colpisce il lettore, non stanno solo in questa loro eventuale “contemporaneità” o attualità etica, intellettuale, civile; né stanno solo in quella dimensione storiografica che, anche Federico Chabod, ne abbiamo ricercato. Stanno nella loro schietta napoletanità, nella schietta napoletanità di Croce, nella determinatezza napoletana del suo sentire e pensare, nella loro scaturigine esistenziale e morale dal mondo della Napoli nobilissima, che era quello del suo originario».

Spesso la ripubblicazione di qualcuna di quelle isolate monografie di storia e leggende o degli aneddoti ritorna tra le nostre mani per iniziativa di qualche sensibile editore, in volumetti di raffinata veste tipografica. Un esempio eccellente: la ristampa della Villa di Chiaia e il Palazzo Cellamare edita anni fa da Grimaldi e Cicerano per i tipi dell’Arte Tipografica di Angelo Rossi (1983). Altre riedizioni sono state fatte in altre circostanze ed è auspicabile che nelle opportune occasioni si ripeta questa simpatica tradizione.

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LA SOCIETA’ DI STORIA PATRIA

Ritornato a Napoli nel 1882, Benedetto Croce andò ad abitare una casetta a piazza Municipio, non lontano dai teatri famosi del San Carlino e del Fondo, oggi Mercadante. L’aria di Napoli, il rivedere luoghi e anche qualche persona amata, riaprirono il giovane alla vita. Ritornò col pensiero alla casa del palazzo Iovio, dove aveva trascorso anni dell’adolescenza e dove abitava anche l’anziano Francesco De Sanctis, che alla sua scomparsa troverà proprio nel Croce il suo grande interprete che ne valorizzerà in pieno il pensiero estetico. Croce, riacquistata una certa serenità di spirito nonostante i ricordi della tragedia che aveva colpito la famiglia, si immerse negli studi e in particolare nelle ricerche erudite, frequentava assiduamente il teatro di prosa. Sei anni dopo andò ad abitare al Vomero, ma in pratica raggiungeva tutti i giorni il centro di Napoli frequentando l’Archivio di Stato nell’antico monastero di San Severino o la vicina biblioteca Brancacciana, che aveva orario serale. In quel periodo leggeva soprattutto commedie e drammi, lavorando a quella che sarà l’opera I teatri di Napoli. Dopo una modesta cena in una trattoria, ritornava al Vomero, che allora era ancora ‘solitario’, noleggiando un asinello.

Nel 1886 diventa socio della Società storica napoletana, e ricoprirà poi l’incarico di segretario tenendo in questa qualità brevi relazioni ai soci sui lavori dell’anno. Sotto la sua guida la società si affermò sempre più nella vita culturale napoletana: era sorta nel gennaio 1876 con una sede precaria e poi man mano aveva ampliato i suoi spazi, aveva acquisito varie biblioteche fino a quella di proprietà municipale, la Cuomo, con manoscritti, pergamene oltre a numerosissimi volumi a stampa. Un salto di qualità la biblioteca l’aveva fatto con il grande studioso Bartolomeo Capasso, che godrà sempre dalla più alta stima di Croce. «Ma l’opera principale della società – affermava Croce nella relazione all’assembla dei soci nel gennaio 1901 – non è consistita nel raccogliere materiali e mezzi di studio, sibbene nelle pubblicazioni ch’è venuta fecendo e che sono rappresentate dalla serie dei venticinque grossi volumi dell’Archivio storico per le provincie napoletane, dai sette in folio dei Monumenti e della nuova serie della collezione Filangieri di Documenti per la storia, l’arte e l’industria delle provincie napoletane… Altre pubblicazioni la Società ha indirettamente promosse, delle quali menzioneremo la rivista, edita da alcuni nostri soci, col titolo di

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Napoli nobilissima, che ha già pubblicato nove volumi, ricchi di incisioni e illustranti per ogni verso la topografia di Napoli e la storia dell’arte nel Mezzogiorno d’Italia». In uno dei suoi interventi sui bilanci della Società, Croce ribadiva con energia la dignità dell’operato dell’ente, lontano dallo «sciocco regionalismo, dalla superstizione verso i santi paesani e dalla pettegola erudizione locale». Quella della Società «è stata opera di critica onesta, liberale, italiana. Questo deve dare a tutti noi – proseguiva Croce – la coscienza che non abbiamo già congiunte le nostre forze come dei perditempo, collezionisti più o meno fanatici di anticaglie e di curiosità, ma come homines bonae voluntatis, che proseguono un’opera civile».

L’orgoglio di appartenere a una comunità di studiosi degna di questo nome era stato sottolineato da Croce già qualche anno prima quando, nel saggio del 1894 La critica letteraria, aveva ribadito la matrice filosofica e letteraria dei suoi ‘studii veri’: «Io ho fatto lo storico e lo storico di Napoli per una sola ragione: che a Napoli uno dei pochi centri di studio, uno dei pochi organismi vivi è la Società Napoletana di Storia Patria. Tra quegli amici carissimi mi è nato l’amore per le cose napoletane». Lo spirito che animava la Società Napoletana di Storia Patria rispondeva pienamente al pensiero di Croce e all’impostazione dei suoi studi. Come sottolineava in un articolo su Il Mattino Bruno Lucrezi ricordano i cento anni dell’istituzione, «superato sul piano territoriale-politico il secolare frazionamento del nostro paese, ne conseguì un generale fervore nello studio del passato delle varie regioni, al fine di cementare l’unificazione civile e morale degl’italiani, rendendoli consapevoli, nella varietà e nella ricchezza delle particolari “istorie”, d’un comune retaggio culturale. Vennero così sorgendo in quasi tutti i capoluoghi degli antichi nostri Stati dopo il 1860, Deputazioni e Società di Storia Patria, che si distinsero per il fervore delle iniziative, il rigore delle ricerche, conformemente, anche, allo spirito dell'imperante positivismo filosofico, e ai metodi della grande storiografia tedesca. E si ebbe quella religione, per dirla con Raoul Manselli, delle “piccole patrie”, premessa, e fondamento della più vasta e profonda religione della patria comune finalmente ritrovata». In tale contesto d’istituti regionali di studi storici si colloca, fondata nel 1842, quella Società Storica Napoletana presieduta da Carlo Troya, che, pur nella sua breve durata, può essere considerata come la premessa e l’antefatto della ben più illustre e

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vitale Società Napoletana di Storia Patria, la quale, trascorse ormai le più decisive vicende della nostra unificazione nazionale, nasceva nel 1876.«Iniziava – sottolineava Bruno Lucrezi - un’èra nuova nella nuova

storia d’Italia. E l'affermazione potrebbe sembrare azzardata, se ci fermassimo al dato di fatto che il piano del programma dell'Istituzione riguardava la ricerca, il recupero, lo studio delle fonti storiche della realtà del Mezzogiorno nelle sue entità municipali e regionali: quasi un'operazione, appunto, regionalistica o addirittura municipalistica; ma tale non è, ed è esattamente il contrario, se si considera che era quella, e quella soltanto, la via giusta per realizzare, entro un’unità geografico-politica alquanto frettolosamente e, diciamolo pure, fortunosamente conseguita, quella unità più autentica della nazione che soltanto si poteva conseguire nella consapevolezza di tante “storie” particolari che a un certo punto si facevano “storia” comune e comune fatto di coscienza. In questo senso la Società Napoletana di Storia Patria s'inseriva in un generale movimento di cultura europeo e italiano e si metteva al passo con la più progredita civiltà scientifica del nostro e di altri Paesi. Ne aveva, per farlo, le carte in regola. Le aveva per una prestigiosa tradizione erudito-filosofìca già consolidata alle sue spalle, e per la statura degli uomini che si accinsero all'impresa. Da Settembrini a S. Spaventa, da Bonghi e Pessina, da D’Ovidio a Fortunato, da Capecelatro a Fornari; laici ed ecclesiastici, scienziati e artisti; tutti accomunati, di là dalle differenze di classe, di censo, d'ideologia nell'intento di dare a Napoli e al Mezzogiorno, che di esperienza storica ne avevano a millenni una storiografia “modernamente e italianamente elaborata”. In questo clima e con questi uomini fu fondata la Società Napoletana.

«Sciolto nel 1932, dal regime fascista, il Consiglio Direttivo presieduto da Schipa (la sola ombra di Croce lo rendeva sospetto...) e trasformata la Società, nel ’35, in R. Deputazione di Storia Patria, la gloriosa istituzione non per questo mutò lo spirito e la sostanza che l'avevano generata. Per fortuna della cultura (quella autentica, che non conosce l’eterna miopia dei «politici»), il governo dell’Istituto fu affidato a Ernesto Pontieri, il quale (parole sue) “ispirò la sua amministrazione ai criteri ai quali la Società era debitrice della sua floridezza”: ideale discepolo di Schipa e di Croce, e maestro ideale alle nuove generazioni di studiosi, avendo sempre a cuore “la dignità e la fertilità scientifica dell’Istituto”. Passata la bufera della guerra e

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rimarginate le ferite all’Istituzione (gravissime quelle della Biblioteca, salvata, possiamo dire, da Alfredo Parente), la Società, tornata al suo primitivo statuto acclamò suo Presidente onorario Benedetto Croce».

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L’ACCADEMIA PONTANIANA

Gli studi eruditi sulla storia e l’arte di Napoli portarono Croce ad affrontare anche questioni concrete ad essi legati, e infatti nel 1890 fu nominato segretario di una commissione, designata dal Comune di Napoli, incaricata di curare la denominazione delle nuove vie che risultavano dal piano di Risanamento che aveva sanato, sì, ma anche sconvolto buona parte della vecchia città. Risulta da una relazione della Giunta comunale che Croce compiva da solo tutto il lavoro delle proposte e ne scriveva la relazione, con la preminente preoccupazione di salvare, nei limiti del possibile, i nomi delle vie che venivano distrutte o modificate. Nella relazione Croce non mancava, col suo zelo di studioso, di sottolineare che le prime tabelle murarie in ardesia furono apposte in Napoli la prima volta per disposizione di re Ferdinando IV del febbraio 1792: allora vennero raccolti i nomi tradizionali e popolari alcuni dei quali, anche «di suono indecente o ridicolo», vennero cambiati nel 1850. Croce proponeva di conservare 47 nomi antichi (di ciascuno dei quali ricordava l’origine e la storia) e di aggiungerne 83 nuovi desunti da ricordi locali; offriva inoltre una serie di nomi di personaggi storici che avrebbero potuto dare nomi ad altre vie. Nello stesso periodo Croce si interessò alla preparazione del centenario del 1799, e fu opera soprattutto sua la raccolta di documenti che fu pubblicata nell’albo La Rivoluziona napoletana del 1799 e la prefazione.

Nel 1892 – abitava ora in una casetta del viale Elena - Croce diventerà socio della gloriosa Accademia Pontaniana (ne sarà poi presidente) e in questa accademia lesse ben 57 note e memorie che furono inserite negli Atti. Proprio nel ’92 fu letta la famosa memoria crociana che compiva una sorta di rivoluzione ‘neocopernicana’ della filosofia, e che fu pubblicata l’anno seguente col titolo La Storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte. E’ noto ma giova ricordarlo che Croce aveva scritto inizialmente un testo in cui si sosteneva la tesi del tutto opposta e l’aveva fatto anche comporre in tipografia; ma, dopo averci pensato su un’intera, tormentosa giornata, era giunto a conclusioni diverse, corse in tipografia, pagò i danni, consegnò il nuovo manoscritto e nascerà così quella pubblicazione che segnerà, in tempi di determinato positivismo, il carattere nuovo della ricerca storica, che porterà il Croce a farsi poi paladino delle teorie del grande concittadino Giambattista Vico. Intanto studiò a fondo il testo

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delle novelle napoletane de lo Cunto de li Cunti di Giambattista Basile, preparandone un’edizione con introduzione e note. Pubblicò inoltre i Teatri di Napoli in sole 250 copie, «un’opera ponderosa per la mole di documenti utilizzati, fondamentale contributo alla storia dei teatri napoletani e del San Carlo in particolare». Collaborava a varie pubblicazioni, dalla Rassegna Pugliese a Flegrea, la rivista di un giornalista colto e raffinato quale Giuseppe Vorluni (col quale ebbi il piacere di lavorare all’inizio della mia attività giornalistica perché era redattore capo de Il Giornale, ispirato a Benedetto Croce), e anche al quotidiano Corriere di Napoli. E inoltre, tra il 1889 e il 1902 – dopo aver retto per sei mesi l’amministrazione scolastica napoletana – aveva scritto pezzo per pezzo, secondo un sistema che attuerà poi quasi sempre per gli altri libri, pubblicandoli in vari capitolo su La Critica, l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, giustamente definita “pietra angolare del suo sistema filosofico”. E pensava in realtà già alla celebre rivista come risulta da una lettera a un suo amico, il filosofo tedesco Carlo Vossler, al quale scriveva: «Questo è ancora un segreto, ne ho parlato solo ad un paio di amici. Non vorrei che mi rubassero le mosse o che mi mettessero inciampi tra i piedi. Perciò non ne parlate neppure voi».

Era nata, nel 1892, una pubblicazione che ebbe per Napoli un’efficace rilevanza per le battaglie che condusse in difesa dei monumenti e delle tradizioni locali, Napoli nobilissima. L’idea di fondare la rivista era venuta al poeta e giornalista Salvatore Di Giacomo e nell’elenco dei redattori figurarono - in ordine alfabetico - Riccardo Carafa duca d’Andria, Giuseppe Ceci (che era stato compagno di collegio di Croce), Luigi Conforti, Benedetto Croce, Salvatore Di Giacomo, Michelangelo Schipa e Vittorio Spinazzola. Ma si stabilì ben presto una sorta di gerarchia con l’attivissimo Ceci primo collaboratore e Croce quale capo. Nel programma della rivista si leggeva: «Agli scritti nostri illustrativi faranno seguito, sempre, proposte pratiche, ispirate alla conservazione, al rispetto, al miglioramento di tutto quello che rappresenta il nostro patrimonio antico, disseminato per le vie della città ma non amorosamente sorvegliato, non coltivato mai». La prima serie della rivista (il cui titolo si ispirava al frontespizio di una descrizione settecentesca della città di Domenico Antonio Parrino, Napoli città Nobilissima) si concluderà nel 1906. La seconda, breve serie, 1920-22, vedrà

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impegnati accanto a Croce, Fausto Nicolini, Giuseppe Ceci e Aldo De Rinaldis, e sarà edita da Riccardo Ricciardi.

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LA CASA DI LARGO ARIANIELLO

Una fase importante della vita di Croce fu la sua sistemazione in un appartamento nel centro storico, in via Atri. Anni fa, per iniziativa di Raffaello Franchini (uno dei primi allievi dell’Istituto per gli Studi Storici fondato da Croce, e poi Ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Napoli) e con l’appoggio del Rotary fu apposta nell’antico palazzo una targa commemorativa.

Prese la parola Franchini ricordando che quando abitò in quell’appartamento, nel 1903, Croce era ormai «leader della cultura italiana». I maggiori libri filosofici, l’Estetica del 1902, la Filosofia della pratica del 1908, la Logica del 1909, furono scritti da lui nelle grandi stanze (alquanto freddine d’inverno e allora rigorosamente prive di riscaldamento, tanto da suscitare un’ironica protesta di Salvatore Di Giacomo) al terzo piano di questo palazzo. Qui Croce, con l’indicazione redazionale di via Atri 23, cominciò il 20 gennaio del 1903, insieme a Giovanni Gentile, la pubblicazione della sua famosa rivista La Critica, che per quasi un cinquantennio doveva rappresentare il più importante punto di orientamento degli studi italiani di letteratura, storia e filosofia. Qui egli scrisse il saggio hegeliano del 1906, che lo pone ancora oggi in una posizione di alta originalità nei confronto del filosofo tedesco… Qui egli redasse il monumentale corpus dei saggi sulla Letteratura della nuova Italia, la parte più ampia e cospicua di essi, coi quali riprese felicemente la metodologia di Francesco de Sanctis, suo ideale maestro, e fornì un altro esempio ammirevole di come la critica letteraria possa e debba scendere a considerare la non astratta ma effettiva totalità dell’ispirazione di un poeta o di un narratore, in cerca dei valori estetici ma non senza interesse per i contenuti storicamente validi.

In via Atri Croce iniziò la consuetudine dell’incontro domenicale coi suoi amici e discepoli, da Salvatore di Giacomo a Enrico Ruta, da Fausto Nicolini a Giustino ed Ernesto Fortunato, a Francesco Torraca, Vittorio Spinazzola, Giuseppe Ceci, Giuseppe Vorluni; qui convenivano da tutt’Italia e dall’estero, richiamati dalla nascente e rapidamente affermata fama del pensatore, uomini come Papini, Prezzolini e soprattutto Gentile, frequentemente suo ospite quando insegnava a Palermo, e poi il giovanissimo Guido de Ruggiero, Karl Vossler, Fritz Medicus, Douglas Ainslie, traduttori gli ultimi due, rispettivamente in tedesco e in inglese, di opere crociane, l’editore

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Riccardo Ricciardi e, dal 1907, Giovanni Laterza, presso cui il filosofo aveva iniziato non soltanto la pubblicazione delle sue opere in un’apposita collana, ma dato vita alle celebri collezioni degli “Scrittori d’Italia” e dei “Classici della filosofia moderna”, quest’ultima unitamente al Gentile che ne era condirettore, e qui infine condusse a termine in pochi mesi la traduzione dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio dello Hegel e redasse la fondamentale monografia su Giambattista Vico (1911).

Franchini tocca poi un aspetto umanamente significativo nella vita di Benedetto Croce: «Qui – non possiamo né dobbiamo limitarci a sottintenderlo – egli visse una lunga passione d’amore per una donna bellissima, che poi scomparve precocemente ripiombandolo nello strazio: ma quei dodici anni ricchi di tanta vita spirituale, innovativa, genialmente varia, non professorale, anzi francamente antiaccademica, si devono pure a quella presenza viva, affettuosa, alla gaiezza, forse felicità che per la prima volta dopo i difficili anni della prima giovinezza era venuta a visitarlo» (Voglio precisare che un altro ‘crociano’ di punta, Alfredo Parente, accertò che non era vera la notizia che Croce sposò la sua donna, Angiolina Zampanelli, in punto di morte; ma il giornalista Salvatore Maffei, in un articolo su Oggi del giugno 1973, ribadiva la tesi del matrimonio in articulo mortis).

La lapide fu scoperta l’11 novembre 1979 sulla facciata dell’edifico nel quale Benedetto Croce abitò dal 1903 al 1914. L’epigrafe, dettata dal Raffaello Franchini, dice: «In questa dimora tra il 1900 e il 1912 Benedetto Croce universale pugnace libero spirito rinnovò la cultura italiana elevando la filosofia alle altezze dei sommi. Per cura dei Rotary di Napoli 1979». Sulla facciata della casa, oltre a quella scoperta allora, ci sono altre lapidi: una dedicata a Filangieri: «Gaetano Filangieri autore dell’opera La scienza della legislazione qui nacque il dì XVIII agosto del 1752. Il Comune pose 1884», una seconda dedicata a Goethe che fu dettata da Croce: «In questa casa Wolfango Goethe conobbe e pregiò Gaetano Filangieri. Nessuna grandezza sfuggiva al suo olimpico sguardo. Nessuna vinse la sua. Napoli nel maggio del 1903 pose».

Il palazzo di via Atri ha, quindi, una sua storia. Vi nacque, nel 1752, e vi visse Gaetano Filangieri principe di Arianiello (di qui il nome del largo sul quale si apre il vecchio edificio), morto a Vico Equense nel 1788, e vi si recò più volte Wolfango Goethe in visita al nobile napoletano, che aveva fatto della sua casa una cenacolo molto

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attivo. Su Geatano Filangieri, Wolfgang Goethe ha lasciato il seguente ritratto: «Voglio ricordare… un uomo eccellente che ho imparato a conoscere questi giorni. E’ il cavalier Filangieri noto per la sua opera sulla legislazione. Appartiene a quei giovani degni di rispetto, che hanno per mira la felicità degli uomini e la loro libertà. Il suo contegno rivela il soldato, il cavaliere, l’uomo di mondo; però questa compostezza è mitigata dall’espressione di un delicato senso morale che, diffuso su tutta la persona, risplende amabilmente dalle parole e dai modi… Egli conversava volentieri di Montesquieu, Beccaria e anche dei suoi propri scritti… Assai presto egli mi fece conoscere un vecchio scrittore alla cui insondabile profondità si ristorano questi moderni legisti italiani; si chiama Giambattista Vico: essi lo preferiscono a Montesquieu. A una rapida scorsa del libro, che mi diedero come fosse una sacra reliquia, mi parve di trovarvi sibillini presentimenti del buono e del vero, che dovrà o dovrebbe venire, fondati sopra serie considerazioni della tradizione della vita».

Benedetto Croce fece trasportare in via Atri i suoi libri, che erano già molte migliaia e la grande scrivania che non volle mai cambiare. L’appartamento, composto di otto grandi vani, diventò innanzitutto sede della direzione della “rivista di letteratura, storia e filosofia” nata all’inizio di quel 1903, La Critica, diretta dal Croce. Dal 4° fascicolo, infatti, sulla copertina comparve la dicitura “direzione: via Atri 23” e considerato che l’amministrazione, “presso il prof. Giovanni Gentile” si trovava in via Tribunali 390 e la vendita era affidata alla libreria di Luigi Pierro in piazza Dante n° 76, è probabile che Croce avesse scelto la casa di largo Arianiello anche per una ragione pratica, legata alla nascente rivista letteraria e filosofica.

Fausto Nicolini – ricordava in un articolo su Il Mattino Gianni Infusino - fu uno dei primi a metter piede nelle vaste stanze al terzo piano e lo fece sollecitato indirettamente dallo stesso Croce che nel terzo fascicolo della Critica aveva accusato la famiglia Nicolini (il vecchio Nicola Nicolini era morto nel 1857) di tener sotto chiave i manoscritti dell’abate Ferdinando Galiani sottraendoli all’interesse degli studiosi. Scrisse Nicolini: «Quando entrai nell’ampia sala nella quale egli lavorava avevo quasi la certezza di trovarvi un vecchio che contasse su per giù il triplo dei ventiquattr’anni che io contavo allora. Invece mi vidi venire incontro agile, gioviale, sorridente, un uomo dai baffetti biondi: un uomo che, dall’aspetto molto giovanile, sebbene

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contasse allora trentasette anni, mostrava di non esser giunto ancora nel mezzo del cammin di nostra vita…».

Per circa un decennio, fino a quando Croce non passò ad abitare nel palazzo Filomarino, Fausto Nicolini fu frequentatore quasi quotidiano del palazzo Arianiello, «guardandomi bene dal mancare la domenica ad uno solo di certi ricevimenti pomeridiani…». Alla casa di largo Arianiello, Nicolini dedica un intero capitolo della sua biografia, soffermandosi persino sui particolari delle riunioni in casa Croce: «Risento ancora conversare nell’ampia sala di studio di Benedetto Croce, e come se ancora mangiassero, bevessero e vestissero panni, tanti e tanti amici e conoscenti che ora non sono più… In quei pomeriggi domenicali la scrivania monumentale, presso cui il filosofo lavorava, cangiava aspetto. In un canto venivano allineati in bell’ordine i libri, gli opuscoli, i periodici, giunti durante la settimana. Nel bel mezzo troneggiava un ampio vassoio su cui s’elevava un’alta barricata di enormi paste. Coppe variopinte esibivano altre leccornie, mentre in un altro vassoio erano disposte simmetricamente dozzine di tazze da caffè d’un blu scuro reso gaio da filetti d’oro. E dispensatore di quel ben di Dio s’era nominato da sé il vecchio conte Lodovico de la Ville-Sur-Yllon, e che si faceva pagare quei volontari servigi nella guisa a lui, ghiottissimo di dolci, maggiormente gradita, cioè col non lasciar mai solo a gustarne chiunque vi si accostasse. Quale festa, poi, quando a quei pomeriggi intervenisse Salvatore Di Giacomo! Come trattenevamo il fiato quando, vivamente pregato, egli acconsentisse a farci ascoltare qualche sua nuova lirica!» Per il freddo, causato dall’assenza di un impianto di riscaldamento, molti dei visitatori indossavano i cappotti, e un giorno Di Giacomo non perdette l’occasione di una battuta pungente sulla poca ‘praticità’ dell’ospitante, ed esclamò: “Eppure ha scritto la Filosofia della Pratica!”

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PALAZZO FILOMARINO

Benedetto Croce restò in via Atri fino al 1912, allorché per far fronte alla sempre più vasta biblioteca, si mise alla ricerca di un nuovo appartamento e si fermò in palazzo Filomarino. Ad una casa più grande aveva tuttavia pensato fin dal 1910. In una lettera all’amico Giustino Fortunato datata 1° febbraio, scrive: «Sono a buon punto con le trattative per acquistare una magnifica casa in Napoli. Ci siamo già intesi pel prezzo, e restano da discutere particolare secondarii. Vi dirò poi a quale uso intenda destinare questa casa, che acquisto non solo e non tanto per il mio godimento personale». Il giorno 11 febbraio scriveva a Fortunato: «Vi accennai che avevo concluso l’acquisto di una bellissima casa a Chiaia. Pensavo di trasformarla in una biblioteca; e donarla o lasciarla a testamento alla città o allo Stato. Voi sapete che, da Posillipo a Toledo, non c’è una biblioteca [da notare che la Biblioteca nazionale non era ancora in Palazzo Reale]. Era un mio sogno, carezzato da molto tempo! Or bene: il principe di Crucoli, proprietario della casa, dopo aver accettato per telegramma che conservo la mia offerta di lire 142 mila, venuto a Napoli ha trovato chi gli ha offerto altre tremila lire; e, senza interrogarmi, e malgrado l’impegno precedente, mancando un appuntamento che aveva fissato con me, ha venduto la casa ad altri! Cose da gentiluomini napoletani».

Ma allora non era difficile trovare altre case, e Croce puntò sul centro storico acquistando l’appartamento di palazzo Filomarino dove resterà fino agli ultimi giorni. Qui si svolgeva il suo assiduo lavoro di letterato, di storico, di filosofo e continuava a lavorare fino alle sei, circa, del pomeriggio o della sera a seconda delle stagioni, dopo di che, accompagnato sempre da qualche amico, iniziava la passeggiata con un passo non molto veloce, perché, come si sa, dopo essere rimasto per una intera notte sotto le macerie del terremoto di Casamicciola, nel 1883, quando perdette i genitori e la sorella, egli era rimasto offeso ad una gamba e quindi la trascinava leggermente. Con un passo, dunque, non molto veloce, ma abbastanza deciso, percorreva sempre lo stesso itinerario e anch'esso era un itinerario in qualche modo ‘storico’ perché passava per la salita di S. Sebastiano, arrivava in via Costantinopoli, proseguiva per via Foria e il motivo c'era, perché via Costantinopoli, via Foria erano e sono tuttora sede di librai antiquari, presso i quali Croce si recava ogni giorno a pescare qualche libro. Allora questi librai erano di gran lunga più forniti di quanto non

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siano adesso e Croce ogni giorno portava a casa qualche volume (in genere lo portava con sé quando non era troppo pesante) o ne ordinava qualcuno. Il suo itinerario quotidiano si completava lungo una specie di quadrilatero, attraverso via Foria, via Duomo, poi via S. Biagio dei Librai, dove era stata la casa del suo grande antenato spirituale, Giambattista Vico, (e dove nel 1941, quasi clandestinamente, durante la guerra venne apposta una lapide scritta di nascosto dallo stesso Croce, ne riparleremo più avanti). Poi ritornava a casa. Dopo una rapida cena, sempre con le stesse modalità, cioè con alcuni intimi amici con i quali discuteva degli eventi del giorno e spesso, specie durante l'opposizione al fascismo, di cose politiche, riprendeva il suo lavoro fin quasi alla mezzanotte. Questi dettagli, insieme all’accenno ad alcuni amici, pochissimi, che lo accompagnavano in quelle passeggiate, si leggono in una puntuale intervista di Arturo Fratta a Raffaello Franchini, un volume pubblicato dalla SEN nel 1978, quando stampare un libro su Croce era giudicato un atto di coraggio.

Croce guardava ai problemi concreti. «Questo filosofo ha buon senso!»: fu lo stesso Croce (aveva 82 anni) a ricordare, in un discorso ai liberali, il giudizio espresso su di lui da Giovanni Giolitti, che l’aveva chiamato al governo nel 1920, conoscendolo solo per fama. «Nei primi approcci – ricordava Croce – avvertivo in lui una sorta di vaga diffidenza e di impaccio verso di me, perché gli avevano detto che io ero un filosofo. Sennonché, non parlando io mai, in Consiglio dei ministri, di filosofia o con tono di filosofia, ma ragionando alla buona i provvedimenti che proponevo e non trascurando neppure, nei limiti del possibile e del discreto, di leggere i disegni di legge presentati dai colleghi e farvi intorno osservazioni, e soprattutto dimostrandomi molto vigile e zelante delle finanze dello Stato,… un giorno, mentre io parlavo,… egli (Giolitti) mormorò qualcosa a un collega, il quale mi raccontò poi che gli aveva detto con qualche meraviglia: «Ma questo filosofo ha molto buon senso!»

L’avessero avuto il buon senso molti ministri dei governi degli anni scorsi, prima di votare spese forsennate, spesso mossi da malafede. E l’avvessero oggi tutti i ministri dei vari governi che si succedono! Altro che filosofo con la testa tra le nuvole… Nei suoi incarichi civili, Croce operava con lo stesso impegno che metteva nei suoi studi, guardando al piccolo dettaglio storico da cui risaliva alla “grande Storia”. E quando affrontava un problema, una polemica, non mollava: andava fino in fondo e ai suoi avversari dava filo da torcere.

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Nel suo compito di cittadino impegnato, raggiunse risultati prestigiosi. Ancora oggi, se si devono contrastare colpi di mano micidiali per la città, si ricorre all’ “aiuto” di Croce, ricordando le sue ferme prese di posizione contro i distruttori di monumenti o i danneggiatori del patrimonio culturale. Croce, “defensor urbis”, della sua Napoli, battagliero con tutte le armi della dialettica, dell’erudizione ed anche dell’ironia. Al di là dei grandi contributi all’Accademia Pontaniana, alla Società di Storia Patria, alla Rivista Flegrea e poi con la Napoli nobilissima, con La Critica, in tutta la sua vita culturale e pratica condusse battaglie significative. A cominciare da quella con i medici del 1° Policlinico, e poi quella per il Museo nazionale, per la Biblioteca nazionale («niente uffici comunali, mettiamoci i libri in Palazzo Reale, tanto non ci va quasi nessuno nelle biblioteche!», è la frase attribuita a Croce). E inoltre la difesa dell’Acquario creato dal tedesco Dohrn.

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DIFESA DI UNA CHIESETTA STORICA

Un deciso impegno per Benedetto Croce fu la difesa di una chiesetta barocca, la Croce di Lucca, che nel progetto per le nuove Cliniche era stato stabilito di rispettare; ma della quale, nell'esecuzione del progetto subdolamente non essendo stata mantenuta la distanza tra i nuovi edifici e la chiesa, si credette di avere reso inevitabile l'abbattimento. Il Croce scrisse una serie di articoli, e riuscí a salvare la chiesa. Gli destò sdegno, soprattutto, il fatto che l'abolizione era propugnata dai medici, per motivi di anticlericalismo massonico, il quale, nel caso in questione, si dimostrava tanto piú stupido, in quanto la chiesa della Croce di Lucca era stata da anni e anni chiusa al culto e profanata. E ciò egli ricordò anche in nota sulla Critica.

Il testo dettato da Croce per Napoli nobilissima nel 1908 è esemplare come forza polemica. Scriveva: «C'è a Napoli una chiesetta barocca, prossima alle nuove cliniche, la quale i medici si sono incapricciati che debba essere abbattuta, mentre gli amatori d'arte (e fra questi sono anch'io) la vogliono salva, sostenendo che non è d'alcun danno o imbarazzo alle nuove costruzioni e che già troppo la nostra generazione ha distrutto dei monumenti che congiungono la no-stra vita a quella del passato; onde conviene ormai andare a rilento in codeste imprese. Ma ecco con quali parole uno «scienziato», che è anche deputato, ha propugnato alla Camera il partito della demolizione; esse sono rivelatrici d'uno stato mentale abbastanza diffuso tra i medici: “Per conto mio personale, rilevo che se la chiesa restasse, sarebbe più o meno reclamata al culto, ed allora sarebbe stabilita una curiosa, eppure pericolosa, antitesi (!). Da una parte la scuola di medicina, antesignana (!) e propugnatrice (!) di ogni più libera (!) manifestazione della coscienza (!), e dall'altra la predica demolitrice od inibitrice (!) di qualunque espansione (!) al di là del misticismo (!); e se un giorno le salmodie arrivassero a turbare la voce dei professori nelle prossime aule la intolleranza (!) dei giovani ed il fanatismo dei devoti (!), acuite dalle opposte finalità, potrebbero cozzarsi non piacevolmente per l'ordine pubblico. Vi è dunque, oltre l'antitesi fra l'arte e l'igiene (!), anche un'antitesi fra la scienza e il culto (!), e non è prudente perciò tenerli troppo vicini (!)” (Atti parlamentari, 9 dicembre 1907, interpellanza dell'on. Cantarano p. 18118). Non m'indugio a domandare come c'entri la scienza con la medicina pratica, e la libertà di coscienza con l'estirpazione dei tumori

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o con l'applicazione del forcipe; perché qui la vera antitesi mi sembra che sia col senso comune. L'egregio ‘scienziato’ si mostra del tutto persuaso che l'autorità, che gli viene assegnata presso un letto d'ospedale, gli conferisca insieme il privilegio di discorrere di arte, di storia, di religione, di misticismo, del concetto della scienza, e di tutte le altre cose alle quali non ha mai pensato. E la medesima persuasione, purtroppo, sembra che sia entrata nella più parte dei medici ai giorni nostri».

La vicenda del 1° Policlinico e della Croce di Lucca tornò alla memoria dopo il terremoto del novembre del 1980, quando si cominciò a pensare alla ricostruzione dei danni provocati dal sisma. Ma ci fu subito chi tentò di cogliere l’occasione per creare un altro “cataclisma” urbanistico a proprio vantaggio, turbando i precari equilibri dell’antico centro storico, abbattendo, modificando, deteriorando impianti edilizi e strutture viarie. Come contrastare i progetti micidiali che si volevano realizzare? L’élite colta napoletana ricorse ad una sicura àncora di salvezza: la citazione del nome di Benedetto Croce, ricordando come il filosofo amò, difese, valorizzò la ‘sua’ Napoli. Il Mattino, con Arturo Fratta, fu in prima linea con una serie di articoli fortemente critici sul cosiddetto “Piano di recupero dell’edilizia universitaria dell’area del Primo Policlinico”, elaborato dall’Università ed approvato dal Consiglio comunale. Scesero in campo personalità della cultura, da Elena ed Alda Croce a Giovanni Pugliese Carratelli, da Enrico Cerulli a Marcello Gigante ed altri autorevoli intellettuali, e nei vari interventi il nome di Croce risuonò altissimo, nel ricordo della sua decisa polemica ai primi del Novecento.

Opportunamente, nel giustificato sospetto di nuovi tentativi di colpi di mano, nel 2002, per i tipi dell’Arte Tipografica, è stato pubblicato un opuscolo dal titolo Centro storico vent’anni dopo, una campagna di stampa in difesa di Napoli, con questa significativa premessa: «L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, ispirandosi alle battaglie in difesa del centro storico di Napoli che Benedetto Croce condusse sulla rivista Napoli nobilissima e al perseverante impegno con cui Elena Croce continuò l’opera del padre con la creazione dell’Associazione Italia Nostra e del Comitato per la difesa dei Beni culturali e ambientali alla cui presidenza fu chiamato Enrico Cerulli, ha voluto ripubblicare questa raccolta di articoli per ricordare il contributo che Arturo Fratta, giornalista colto e raffinato intellettuale,

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ebbe la sensibilità e il coraggio di scrivere per Il Mattino, diretto in quegli anni dalla nobile figura di Franco Angrisani. Ebbe così vita una campagna di stampa che impedì una gravissima e irreparabile offesa al tessuto storico della città di Napoli, e che fu decisivo appoggio di quanti, animati da un alto costume, sentirono il dovere morale di scendere in campo in difesa delle tradizioni civili e del patrimonio culturale della città di Napoli».

Anche contro altri pasticci, come quello delle pubblicazioni storiche «che il Municipio di Napoli si era messo a fare procurando bensí ozio e svago a qualche suo impiegato, letteratuccio mancato, ma sprecando nel modo più illegittimo e goffo il danaro dei contribuenti», Croce non mancò di protestare, attraverso lettere a Il Mattino nel luglio 1916.

Sulla questione dell'ampliamento della Biblioteca Nazionale di Napoli, il Croce scrisse tre relazioni, una nel 1902, l’altra nel 1908 e la terza nel 1914; ma la questione, trascinatasi per anni ed anni e che pareva giunta a maturità nel 1914, fu rinviata per effetto della guerra. Ma Croce l’affrontò in seguito con estrema decisione, come riferiremo più avanti.

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IL MUSEO E IL “PROVVISORIO”

Un’accesa polemica di Croce, sviluppata in molti articoli, riguardò il Museo Nazionale di Napoli. Come si legge in un volume delle prime Pagine sparse, Croce combattette nel 1900 l'amministrazione De Petra, a cagione della mancata tutela sugli affreschi di Boscoreale, e degli argenti della stessa provenienza, volati in Francia. Sennonché, insediatosi al posto del De Petra il prof. Ettore Pais, si cadde dalla padella nella brace; e Croce, dopo avere per qualche tempo sperato che le cose migliorassero, non poté trattenersi dal combattere anche il nuovo direttore; e la vivacissima polemica si svolse su Napoli nobilissima, e in parecchi giornali di Napoli, di Firenze e di Roma del 1903 e 1904.

Croce sostenne in tutta la lunga polemica, e nonostante i tentativi del Pais e dei suoi difensori (se ne era procurati dappertutto, in Italia e all'estero, soprattutto in Germania, e in tutti i partiti, perfino nei gior-naletti socialistici, impiegando nel Museo alcuni redattori socialisti), di sviare la questione: 1°, che il Pais era in preda a una sorta di follia, e faceva e disfaceva ogni giorno l'ordinamento iniziato, sprecando i quattrini dello Stato; 2° che quasi ogni giorno assumeva e scacciava impiegati ; 3°, che, invece di dare spiegazioni sulle accuse che gli si movevano, accusava gli altri, e in particolare i suoi predecessori, e intorbidava le acque affinché non si vedesse chiaro nel fondo. E una volta, in un momento, di buon umore, il Croce immaginò un'intervista col prof. Pais, ritraendo al vivo, e secondo verità, lo strano uomo. L'intervista, gustosissima e una sorta di ‘capolavoro giornalistico’, fu ripresa da vari giornali prendendola per autentica. Ecco alcuni brani di questo testo:

«Essendo stata pubblicata dai giornali di Roma la notizia che nei lavori di riordinamento, che da un paio d'anni il nuovo direttore, prof. Pais, viene eseguendo nel nostro Museo Nazionale, s'erano frantumati parecchi vasi antichi, uno dei nostri reporters si è recato ad intervistare il prof. Pais per sapere da lui la verità delle cose e raccogliere le sue giustificazioni. Il nostro reporter era salito all'ultimo piano del Museo ed aveva imboccato il corridoio della stanza della Direzione, nella quale, alcuni giorni fa, aveva avuto un colloquio col prof. Pais. Ma, nell'avvicinarsi per picchiare alla porta, un usciere gli si è fatto incontro, dicendogli: - Dove andate ? - Dal

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Direttore. - Ma quella è la porta della Collezione pornografica! Il di-rettore, da ieri, ha cambiato stanza. - Sta bene, conducetemi da lui.

«L'usciere si è appressato al telefono e ha domandato al segretario del Direttore, in quale delle quattro stanze di direzione il prof. Pais si trovasse: se in quella della Direzione generale, o della Direzione delle Statue, o nell' altra dell'Antiquarium, o infine nella direzione della Pinacoteca. Ed al nostro reporter, che si mostrava alquanto meravigliato, ha spiegato cortesemente: - E’ questa la triplice neo-divisione del Museo. Il Direttore intende preporre alle tre collezioni tre ispettori: se naturalmente troverà gente fedele e degna di stare al suo fianco, cosa non facile. Ma affinché i tre ispettori non inorgogliscano e non credano di essere essi i direttori delle sezioni, ha messo, accanto a ciascuna delle loro stanze, una stanza della Direzione, che, anche vuota, servirà a ricordare l'esistenza del vero e unico direttore. Capite? Sarà, insomma, come il palco reale al teatro San Carlo…

«Intanto, il segretario ha risposto per telefono che il prof. Pais si trovava nella Direzione generale, ed era lieto, come sempre, di accogliere il nostro reporter. Questi ha dovuto scendere e salire parecchie scale, e finalmente è stato introdotto presso il prof. Pais. Lo ha trovato in colloquio col suo scolaro, prof. Ciaceri, a cui ha affidato (provvisoriamente, ben s'intende) la cura della collezione numismatica… Uscito il Ciaceri, il nostro reporter, tanto per cominciare il discorso, si è compiaciuto col prof. Pais dell'eleganza della sua nuova sede, e gli ha domandato perché mai si fosse risoluto a lasciare l'antica. Il prof. Pais ha risposto con calore: - Circa l'eleganza, ascolti bene, non ho bisogno di far difese! Il passato direttore, mentre sperperava il danaro del Museo in acquisti e lavori mal consigliati, e lasciava che si rubasse a man salva, era al tempo stesso uno spilorcio, che trascurava del tutto il decoro che deve circondare chi è capo di un istituto importante quale il Museo Nazionale di Napoli. Quanto alla mutazione da me fatta, dirò che io non sono come il passato direttore, che per anni ed anni rimuginava un piccolo progettino e finiva col non farne nulla. Ieri, nel pomeriggio, mi balenò l'idea che la Collezione pornografica sarebbe meglio collocata nella stanza ove ebbi il piacere di veder Lei la settimana scorsa, e che è più remota dalla malsana curiosità dei visitatori. Chiamai l'ingegnere Cremona, gli ordinai di far subito il trasporto della collezione pornografica colà, e di trasferire qui la sede della Direzione. Ciò è stato immediatamente eseguito: tutti i

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miei dipendenti, caro signore, debbono essere per me quello che pel vostro re Carlo di Borbone fu il Carasale, che, in tre ore, durante la prima rappresentazione del San Carlo, aprì il passaggio riservato dal teatro alla reggia…

- Veramente, professore, - ha detto il nostro reporter, che si diletta anche lui di storia patria, - il Croce, nella sua storia dei teatri di Napoli, ha provato che quell'aneddoto del Carasale è una leggenda...

- Il Croce ? Non me lo nomini! Egli è l'alleato dei miei nemici, egli... Qui il prof. Pais si è acceso in volto, e il nostro reporter, temendo che desse in escandescenze, ha subito portato il discorso sull'oggetto della sua visita. - Io son venuto, - gli ha detto, - per saper da Lei che cosa c'è di vero nella notizia diffusa dai giornali di Roma, che nei giorni ultimi si siano frantumati alcuni vasi antichi...

- Nessun vaso si è rotto ! La notizia sui giornali di Roma è stata inventata calunniosamente da qualche dotto italiano…

- Pure, professore, la notizia è data con tali particolari, che non sembrano inventati. Ella farà meglio ad aprirsi liberamente con me, e a dir le cose come stanno, per impedire le fantasticherie, che spesso ingrossano fatti per sé non gravi.

Il prof. Pais è stato un momento sospeso; e poi ha detto: - Ha ragione. Alla sua leale domanda risponderò con pari lealtà. Sì, è vero, alcuni vasi sono stati rotti nel trasporto al piano superiore. Si tratta di tre vasi soltanto, e di arte locale, di nessun interesse: potevano valere dieci lire l'uno. Io li facevo trasportare al piano superiore, dove si raccoglie il fiore della collezione, ma con l'intenzione di nasconderli dietro vetri opachi. Consideri che il passato direttore li teneva invece esposti in piena luce! Tutto sommato, creda a me, meglio che si siano rotti… Io non comprendo, come per la rottura di cinque vasi...

- Cinque? non aveva detto tre?- Ho detto tre? Ha ragione! Gli è che nel vedere il mucchietto dei

frantumi, avevo supposto che fossero stati tre soli, tanto il tritume era minuto: e quel numero tre mi è rimasto in mente. Ma sono cinque; non più di cinque: cinque soli. Del resto, tre o cinque, che cosa importa? Pensi che se il trasporto fosse stato compiuto sotto la passata direzione, se ne sarebbero rotti per lo meno cento. Ma che dico rotti? Crede Lei che si sarebbero rotti? Crede davvero? M'intende? Sarebbero stati rotti - o rubati? Non ricorda la sparizione dell'arazzo? Qui si era in mano di ladri! di ladri! La passata Direzione...

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- Ma, poiché Ella ha avuto il merito di scoprire dei ladri, perché mai non li ha deferiti al potere giudiziario? Sarebbe stata opera di buon cittadino. - Perché? Oh bella! Perché non ho le prove. - E che cosa ha allora ? - Ho la convinzione morale…

Il nostro reporter, che è persona assai prudente (e perciò l'avevamo scelto al delicato ufficio), non ha voluto lasciare che il discorso diventasse imbarazzante, ed ha ripreso: - Noi abbiamo divagato. Tornando alla domanda che le facevo, come Ella spiega che da due anni ch'Ella si trova alla direzione del Museo si facciano continui mutamenti senza che nessuna collezione sia stata ancora definitivamente riordinata ed aperta al pubblico?…

- Io ho fatto l'ordinamento, provvisorio, dei grandi bronzi; ho fatto quello, provvisorio, dei piccoli bronzi; ho fatto l’altro, anche provvisorio, s'intende, delle gemme ed ori; ho disposto, provvisoriamente, molte statue nell'atrio; tra giorni aprirò la Pinacoteca con un ordinamento provvisorio...

- Un momento. Di questo provvisorio appunto Ella è accusata! La gente competente dice che rimuovere gruppi e statue equestri e pedestri, abbattere muri, decorare sale, costruire armadi, ecc., in via provvisoria, oltre che esser causa di troppo frequenti pericoli, importa uno spreco enorme di danaro, giacché questi sono tutti lavori costosissimi, che, quando si fanno, devono durare almeno un mezzo secolo, e non si debbono eseguire materialmente se non dopo che l'intero ed armonico piano di essi sia stato disegnato sulla carta nei suoi più piccoli particolari…

- Vedo che Ella è assai minutamente informata. Congratulazioni! L'avrà istruita il suo caro amico Croce, che non ho mai capito perché si occupi con tanto zelo di ciò che fanno e di ciò che non fanno università, accademie e musei. L'intrigante! Gli manderei un certo augurio di cuore, se non sapessi che egli usa portare alla catenina dell'orologio un piccolo phallos antico di bronzo (che, tra parentesi, ho ragione di credere che sia stato sottratto a questo Museo, al tempo della passata amministrazione)» A questo punto dell’intervista, Croce mette una nota a propria firma, precisando: «Oh, questo poi no! L'oggetto, al quale allude il prof. Pais, è un'anticaglia d'imitazione; e mi è stato regalato da un amico, perché oggetti simili, per essere efficaci, non debbono aversi per compra, ma per dono. Consultare in proposito la Cicalata sul fascino detto volgarmente iettatura di Nicola Valletta».

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La presunta intervista proseguiva: «- Di modo che, professore, Ella crede che il capitale di errori, accumulato dal suo predecessore, sia inesauribile? - Inesauribile ! - E che il male presente venga pienamente scusato dal male passato ? - Pienamente, anzi con sovrabbondanza. - E che perciò il Museo di Napoli potrà ancora procedere come disgraziatamente ora procede? Il prof. Pais ha allargato le braccia, e con un' espressione che al nostro amico è sembrata oltremodo sincera : - Che cosa vuole ? - ha esclamato - Ne dia la colpa alla passata amministrazione!»

L’ ‘intervista’ apparsa il 14 gennaio 1903 era firmata Don Fastidio. Dopo numerose inchieste, fu messa in chiaro la verità di tutte le accuse formulate dal Croce, e il Pais venne rimosso dalla direzione del Museo di Napoli. Croce espresse il suo compiacimento in una lettera a Giornale d’Italia, concludendo: «Spesse volte, discorrendo di questo o quel particolare di pubblica amministrazione con amici giornalisti, mi è stato offerto con prontezza e con larghezza: - Scrivi, mandaci tutto quel che vuoi, e noi pubblicheremo. - Grazie, o amici, ma ciò non è sufficiente. Ciò muta l'adempimento di un dovere e l'esercizio di un diritto in un atto di fiducia e in una cortesia personale; e mette in grande imbarazzo chi deve profittare di siffatta cortesia e recare fastidi in casa altrui. Noi, che non siamo giornalisti, possiamo indicare, suggerire, richiamare l'attenzione…»

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LA BIBLIOTECA NAZIONALE IN PALAZZO REALE

Ero presente nel novembre 1953 alla celebrazione di Benedetto Croce a un anno dalla sua scomparsa, nella Biblioteca Nazionale di Napoli; una manifestazione particolarmente significativa anche perché fu l’occasione di far conoscere un volume che recava la prefazione di Croce (era stato l’ultimo suo scritto). Francesco Flora, così legato al maestro, pronunciò un commosso discorso prendendo lo spunto proprio da quel libro: si trattava dell’edizione della commedia cinquecentesca La Vedova di G.B. Cini, ideata e patrocinata dal Croce, attuata dalla direttrice della Nazionale, Guerriera Guerrieri, e curata da Costantino del Franco, in una superba veste tipografica dovuta ad Angelo Rossi, costituendo «una nuova gemma dello scrigno dei volumi dell’Arte Tipografica». La prima copia era stata offerta al presidente Luigi Einaudi, impossibilitato ad intervenire. Il pensiero di tutti andava alla tenacia con cui Benedetto Croce si era battuto per far sì che Napoli avesse la più prestigiosa sede di una biblioteca nazionale italiana, il Palazzo reale (e c’è ora chi coltiva il progetto di spostarla in un qualche colossale edificio, magari tecnicamente perfetto ed idoneo ma anonimo, senza storia, senz’anima. Ma a Palazzo reale l’anima c’è, è quella di Benedetto Croce). In quell’occasione ci fu anche – e se ne fece portavoce il periodico La Riviera - chi propose di intitolare al Croce la Biblioteca, eliminando la denominazione di Vittorio Emanuele III. Non se ne fece niente, anche perché qualcuno obiettò che in fondo i locali prestigiosi erano stati assegnati col consenso dell’allora sovrano.

Al centro dell’attenzione di Croce fu per vari anni la sistemazione della Biblioteca Nazionale di Napoli: ne parlò in vari articoli su giornali e riviste, e presentò nel gennaio del 1922 un’interrogazione in Senato. Quando nel 1919 il Palazzo reale di Napoli con gli altri beni della Corona fu retrocesso al Demanio, da ogni parte sorsero richieste di associazioni, di enti e di privati per occupare i locali disponibili; senza pensare che il Ministero della Pubblica Istruzione, al quale quel Palazzo era assegnato, aveva a Napoli – sottolineava Croce - suoi propri Istituti, bisognosi di migliore assetto, e, in prima linea, il Museo Nazionale e la Biblioteca Nazionale, «che, entrambi collocati nell' edifizio degli Studi, si ostacolano a vicenda; e gravissime sono sopratutto le condizioni della Biblioteca Nazionale, la quale formò oggetto, dal 1901, di ben quattro successivi e diversi disegni di

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ampliamento o trasferimento, tutti approvati e nessuno eseguito». Nel bilancio della Pubblica Istruzione rimase anche stanziata, dal 1908, una somma per una nuova sistemazione. Ma le cose andavano per le lunghe, e Croce sottolineò ripetutamente le varie fasi della complicata vicenda. Notava tra l’altro: «L' on. Nitti, presidente del Consiglio, nella parte del decreto di assegnazione del 1919 che si riferiva alla Reggia di Napoli, fece due ottime cose: l°) mise un veto all' occupazione di essa per ogni altro uso che non fosse d'istituti dello Stato, dipendenti dal ministero dell' Istruzione; 2°) procurò di risolvere il problema annoso della Biblioteca e del Museo di Napoli, disponendo il trasferimento nella Reggia del Museo e lasciando così alla Biblioteca l'intero edifizio degli Studi, nel quale, certo, si sarebbe potuta distendere per secoli. Senonché, dovendo io, come ministro dell' Istruzione, provvedere l'anno dopo a tradurre in atto questo disegno, e studiandolo nei particolari, come l' on. Nitti non aveva potuto fare, mi persuasi che il trasferimento del Museo nel Palazzo Reale sarebbe urtato in difficoltà quasi insormontabili. Lasciando stare che questo trasferimento non incontrava favore nella pubblica opinione, e non era accettato con entusiasmo neppure dal direttore del Museo, sarebbe stata necessaria per esso una profonda trasformazione delle sale e dei cortili della Reggia, e una spesa ingentissima, e molti anni di attesa… Perciò, raccolti gli avvisi dei competenti e anzitutto dei direttori del Museo e della Biblioteca, io proposi all'on. Giolitti d'introdurre un ritocco nel decreto Nitti, consistente in ciò: al Museo si lasciava intero l'edifizio degli Studi, rimovendone la Biblioteca, e questa veniva collocata in una parte della Reggia, con entrata separata; mentre l'appartamento reale rimaneva sotto il nome di Museo storico della monarchia napoletana, per poterlo offrire a S. M. il Re nell' occasione di sue dimore nella nostra città, e accanto a esso si apriva un Museo di arti minori».

In una suggestiva pubblicazione fatta dalla Biblioteca in occasione di una mostra collegata alla celebrazione dei cinquant’anni dalla morte di Croce, il direttore dott. Mauro Giancaspro sottolineava con grande efficacia il profondo rapporto tra chi lavora alla Biblioteca Nazionale di Napoli e la figura di Benedetto Croce, al quale era stata già dedicata una sala: «C'è un legame solidissimo di riconoscenza. Non è certo la sola intitolazione di una grande sala a dare la testimonianza e la misura di una gratitudine che, piuttosto, si manifesta, quasi quotidianamente, nel costante impegno a gestire un organismo cosi

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prestigioso e complesso e ad allargarne gli spazi per consentire la sua naturale e inarrestabile crescita lungo un indirizzo che proprio il filosofo di fatto indicò, sia con gli interventi ufficiali, che con la sua appassionata attività a favore della nostra biblioteca. Eppure l'operazione semplice e naturale dell'intitolazione d'una stanza, desti-nata a custodire i libri da lui donati e, più tardi, quelli a lui dedicati, era un atto, in fondo, di amore, tanto di chi lo aveva seguito e gli era riconoscente quanto dello stesso Croce, che pur notoriamente restio ad accettare riconoscimenti ed encomi, desiderava che fosse ricordato, piuttosto che il suo nome, questo suo grande amore».

Giancaspro sottolineava l’iniziativa di una precedente direttrice, la dott. Guerrieri, che così ricordava un incontro con Croce avvenuto nel 1950. Alla proposta fattagli di costituire alla Biblioteca Nazionale di Napoli una Sala Croce, il filosofo - scriveva nel 1952 Guerriera Guerrieri poco dopo la sua scomparsa - «aderì, e, nella sua penultima visita, si fermò nella sala che gli sarebbe stato gradito conservasse il suo nome. Fu una proposta di omaggio - continuava la Guerrieri - dettata da viva riconoscenza. Egli, pur schivo da ogni manifestazione che potesse apparire laudativa, accettò, certo perché sentiva la necessità del suo sopravvivere in questa Biblioteca, del rimanere per sempre in essa, costituendo con la sua incomparabile produzione una parte che avesse il suo nome, a gloria dell'Istituto, a monito di coloro che dovranno anche nel futuro valorizzarla e, ove necessario, difenderla». Guerriera Guerrieri - notava Giancaspro - coglieva in pieno il significato e il valore di quella intitolazione, che era gradita al filosofo perché aveva ritenuto sempre la Nazionale un vero e proprio 'rifugio', avvertendo anche per i suoi spazi fisici quell'attaccamento istintivo che si conserva per i luoghi ai quali si legano i ricordi più belli della giovinezza. «Nella Biblioteca Nazionale - confessò Croce nel 1918 - ho passato molta parte dei miei migliori anni giovanili; e il luogo perciò mi è familiare e caro... In questi tempi nei quali tanti legami con persone e con cose si scindono o sono destinati a scindersi, bramosamente si cercano, per alcune parti almeno di noi, per le mi-gliori, luoghi di rifugio».

Il trasferimento fu deciso con il decreto del 1922 del ministro Antonino Anile, e realizzato nel 1927, anche con l'accorpamento delle biblioteche napoletane negli spazi di Palazzo Reale. Ma l’interessamento di Croce si evidenziò anche dopo il secondo conflitto mondiale con il sostegno insostituibile per il ripristino delle parti

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danneggiate gravemente dai bombardamenti, la trepidazione per il salvataggio delle collezioni librarie, la partecipazione attiva agli eventi culturali più significativi della biblioteca nella faticosa ma inarrestabile ripresa della vita delle sue strutture e del suo lavoro dopo la guerra. I più gravi danni alla Biblioteca furono causati nel marzo del 1943 dall'esplosione di un piroscafo carico di munizioni, il 10 aprile e il 4 agosto dello stesso anno, dai bombardamenti aerei che ebbero fatali conseguenze per i locali e la suppellettile. Ma già nel 1948, grazie proprio all’abnegazione e alla tenacia di Benedetto Croce, la Nazionale riusciva, anche se parzialmente e faticosamente, a riprendere la sua attività.

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PER L’ACQUARIO DOHRN

Un notevole impegno di Croce fu dedicato a una complessa vicenda sulla condizione giuridica della Stazione zooologica di Napoli fondata dal tedesco Antonio Dohrn e che nel 1920, dopo la prima guerra mondiale, era oggetto di proposte contrastanti sulla proprietà e sulla sopravvivenza dell’istituzione. Parlando come ministro in Senato, Croce tagliò corto alle polemiche affermando tra l’altro: «Qui né l’italianità né il decoro della scienza italiana hanno nulla da vedere. La questione è tutt’altra: è giuridico-amministrativa, tecnica, ed io l’ho studiata per debito d’ufficio, sono in essa più competente di tutte le accademie e i sodalizi che non l’hanno studiata».

Fino alla prima guerra mondiale l'istituto, fondato dal naturalista Dohrn, fu proprietà privata, ma fu demanializzata durante la guerra del '15-18 proprio perché appartenente a un cittadino della Germania; successivamente fu eliminato questo carattere pubblico e l'istituto tornò privato, divenendo infine un ente morale nel 1923. Alla fine del 1920 bisognava decidere sulla qualificazione giuridica della Stazione zoologica, dopo la guerra, e Croce, ministro dell’Istruzione, dovette appunto affrontare il problema. Parlando in Senato ricordò con tono pungente le difficoltà che il Dohrn superò per realizzare la sua iniziativa: «Come tutti coloro che hanno una idea utile e nuova - disse il filosofo-ministro - Antonio Dohrn dovette durare molte lotte e vincere moltissimi ostacoli per attuarla, a Berlino non meno che a Napoli»; a Berlino, dove dapprima il governo prussiano gli rifiutò il modesto sussidio richiesto e l'Accademia prussiana riferì in modo sfavorevole sul suo disegno; a Napoli, dove suscitò diffidenza e gelosia. Solo quando il capo della maggioranza del consiglio comunale di allora, il barone Savarese, dopo aver letto uno scritto del Dohrn, intuì l'importanza del suo disegno e volle conoscere lo scienziato, la concessione chiesta fu concessa. Benedetto Croce ricordò che il Dohrn fu circondato a Napoli da stima ed affetto e fu nominato persino cittadino onorario nel venticinquesimo anniversario della fondazione della Stazione zoologica; dopo la sua morte fu collocato nella Villa Comunale un suo busto marmoreo. Il contratto stipulato tra il Dohrm e il Comune di Napoli stabiliva che questo concedeva il suolo per la costruzione e l'esercizio dell'istituto, e dopo un trentennio (poi, ampliato l'edificio, si decise per un novantennio) il Comune sarebbe diventato pieno ed assoluto proprietario della

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Stazione e di tutti i suoi annessi e connessi. Morto Antonio Dohrn nel 1909 gli successe nella concessione il figlio Rinaldo, il quale, quando l'Italia entrò in guerra contro la Germania nel maggio del 1915, partì da Napoli per consiglio del console tedesco e lasciò la procura per la gestione della Stazione zoologica a un italiano, il prof. Federico Raffaele, dell'università di Roma. Di ciò fu subito informato il governo italiano, che ritenne opportuno insediare nell'istituto una commissione per la gestione temporanea e straordinaria. Ma nel maggio del 1918 ci fu una decisione del governo, definita mostruosa da alcuni giuristi: con un decreto legge il dottor Rinaldo Dohrn era spogliato dei diritti che gli venivano dal contratto stipulato con il Comune di Napoli e la Stazione zoologica assumeva la natura di un ente autonomo. Veniva di fatto estromesso anche il Comune che conservava la proprietà dell'istituto solo a parole, perché il nuovo ente aveva una durata illimitata e quindi non si parlava più di un novantennio.

Finì la guerra e il decreto non era stato ancora convertito in legge. Il nodo venne al pettine quando Benedetto Croce divenne ministro. Il filosofo non volle presentare il decreto per la conversione, ed è facile immaginare le polemiche che furono sollevate dalla sua decisione. Già era qualificato come «germanofilo» per la sua stima mai taciuta per la cultura tedesca; ora che si levava come paladino di un istituto tedesco piovvero critiche da ogni parte, dall'Italia e dall'estero, perché anche dagli alleati dell'«Intesa» (francesi ed inglesi) giunsero proteste. Ma Croce affrontò il dibattito alla Camera e al Senato non tanto con argomenti culturali quanto con più semplici ragionamenti di natura economica ispirati naturalmente alle sue idee politiche: «E' noto che è sempre assai pericoloso - disse polemicamente - sostituire l'organizzazione statale a ciò che è stato creato ed amministrato dai privati, che vi portano il loro entusiasmo e il loro interesse. A me tre direttori, nominati per concorso, con tre relativi gabinetti e istituti, che la commissione per l'assetto proponeva, facevano paura. La sola salvazione mi appariva la ricerca di un nuovo concessionario. E, se bisognava ricorrere a un intraprenditore e concessionario, perché mai rifiutare l'antico? Perché mai non cogliere l'occasione, da una parte di chiudere la lite col Dohrm (che già si annunciava con un ricorso al Consiglio di Stato e con una protesta inviata al ministro degli Esteri) e, dall'altra, di compiere opera di pacificazione internazionale abolendo un provvedimento preso con la psicologia, anzi con la

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psicosi, della guerra». Il Croce prese contatti con Rinaldo Dohrn, ottenne una sua dichiarazione di ampia e piena rinuncia a tutti i suoi diritti e ragioni verso lo Stato italiano per quello che era accaduto dal 1915 in poi, preparò un decreto con il quale abolire il decreto legge del maggio 1918 e lo portò in consiglio dei ministri, che l'approvò.

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“LA CRITICA”

Come è stato rilevato da vari studiosi, il primo decennio del secolo XX è contraddistinto dall'affermazione di riviste culturali completamente diverse dalle tradizionali riviste accademiche in voga nel secolo precedente. La loro presenza contribuirà a creare, in particolare durante l'età giolittiana, un clima culturale nuovo, incentrato sulla trasformazione del ceto colto e contraddistinto dalla nascita dell'intellettuale militante. In questo contesto si inserisce l'esperienza della Critica, rivista anch' essa militante ma soprattutto espressione della varietà e della complessità dei contenuti dell'itinerario culturale crociano.

La Critica di Croce, fondata il 20 gennaio 1903, è probabilmente il più rappresentativo di questi veicoli di comunicazione e di dibattito e lascerà un segno tangibile nel rinnovamento della cultura italiana attraverso quarant'anni di vita nazionale. Il ruolo che il filosofo assegna alla rivista è chiaramente espresso in un'intervista rilasciata a Luigi Ambrosini del Marzocco l’11 ottobre 1908: «Sapete perché l'ho fondata? L'ufficio al quale io la destinava era quello di promuovere un' attività degli spiriti del mio paese più larga e più viva che non potessi far nascere coi soli miei volumi di speculazione astratta e solitaria… Ora, perché una teoria filosofica abbia presa specialmente in un paese antifilosofico come il nostro, è necessario che il pensiero scenda dalla larga astrazione e si fissi in determinati punti... La mia Critica è la mia filosofia in azione; e i singoli scrittori, di cui io parlo, sono per me tante singole esperienze teoretiche e pratiche».

Queste, ed altre analoghe considerazioni, saranno ribadite in altre occasioni: «La fondazione della Critica segna il cominciamento di un'epoca della mia vita, quella della maturità, ossia dell' accordo con me medesimo e con la realtà. Nel lavorare alla Critica mi si formò la tranquilla coscienza di ritrovarmi al mio posto, di dare il meglio di me e di compiere opera politica, di politica in senso lato: opera di studioso e di cittadino insieme, così da non arrossire del tutto, come più volte m'era accaduto in passato, innanzi a uomini politici e cittadini socialmente operosi». Negli anni dell' età giolittiana, La Critica è un terreno di confronto, a volte di scontro, tra il filosofo e le diverse espressioni dell'idealismo italiano come quelle rappresentate dagli scrittori fiorentini. Interessante per la comprensione dei termini di

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questo confronto è un passo di Giovanni Papini inserito in un articolo del 1905 sulla “logica di Croce” pubblicato da Leonardo, rivista fiorentina di grande prestigio. «Si vanno formando due gruppi filosofici che hanno dei punti di contatto e delle zone di coincidenza, ma che sono, malgrado le amicizie personali, in aperta opposizione per le origini, le tendenze e le teorie. I due gruppi si son polarizzati uno a Napoli e l'altro a Firenze, e perciò corriamo il pericolo di avere una scuola napoletana e una scuola fiorentina, o, meglio ancora, una scuola tedesco-napoletana e una scuola anglo-fiorentina». Dopo aver evidenziato come le due scuole siano formate l'una da La Critica, l'altra dal Leonardo, Papini individua le rispettive ascendenze - per l'una la filosofia classica tedesca, per l'altra l'empirismo anglosassone - e le caratteristiche filosofiche di ciascuna: «La prima è francamente idealista e razionalista, ama le grandi sintesi a priori... L'altra invece è prevalentemente empirista e pragmatista... e ricerca a preferenza il particolare e le questioni particolari». Unico motivo di alleanza è la battaglia contro i comuni nemici: «In due cose, e non delle meno importanti, i due gruppi si trovano a fianco: nell' ostilità contro quell'ignobile contaminatio di cattivo spinozismo e di puerile naturalismo che fra noi ha preso il nome di scuola positivista, e nella vivacità della critica contro i capoccia dei nostri circoli accademici e universitari. Ma nel resto mi pare che il contrasto sia quasi completo, e i due gruppi, pur restando buoni amici, e in certe occasioni buoni alleati, possano cominciare allegramente a guerreggiarsi».

Ma il fascismo non gradiva la presenza di una rivista di ispirazione liberale anche se non strettamente di impegno politico, ed arrivò perfino al tentativo di sopprimerla con un’esplicita intimazione all’editore barese Laterza. In un articolo sul Messaggero di Roma veniva raccontato nel 1966 l’episodio dell’incontro tra Croce e Giovanni Laterza nel quale il filosofo apprese la notizia della decisione del ministero della Cultura Popolare e si concordò la reazione per evitare la soppressione.

«Il diciannove giugno del 1940 – scriveva Matteo De Monte - alle diciotto Benedetto Croce era a Foggia, seduto in un bar del viale della stazione, in compagnia dell'ing. Raffaele Tramonte. La giornata era stata eccezionalmente calda. Il filosofo aveva voluto scendere in strada, per rinfrancarsi con una spremuta all’arancia. Croce era calato in Puglia da Sorrento, due o tre giorni prima, per sistemare di persona l'intricata questione dell'appoderamento della sua proprietà terriera

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che, per gran parte, è raggruppata nella Daunia. Anche quel giorno Croce aveva avuto il suo da fare, tra progetti, piante, sopralluoghi in campagna e formalità burocratiche, accompagnato dall'ing. Tramonte. Al calar del sole una carrozzella da nolo si arrestò in Viale XXIV Maggio e ne scese in fretta un signore trafelato con una grossa borsa di cuoio in mano e la paglietta sottobraccio. Era l'editore Giovanni Laterza giunto da Bari col diretto della sera, latore di una notizia poco confortante. Accasciatosi su una sedia Laterza tirò fuori dalla borsa un telegramma e in silenzio lo spiegò sotto gli occhi del filosofo. Il messaggio, firmato da Bottai, annunciava la soppressione de La Critica, giustificando il provvedimento “con la necessità di limitare nelle attuali circostanze il numero delle riviste”. Croce accusò il colpo senza perdere la calma. “Prima o poi – disse – c’era da aspettarselo”. Si pensò subito ad una protesta. Laterza voleva che Croce si recasse di persona da Bottai, ma il filosofo fu irremovibile: “Ma quando mai! Io da Bottai… e perché non da Mussolini? Mai visti da vent’anni questi signori, ed ora, sia pure per salvare La Critica… No, amico mio, questo è affar tuo. Io non mi impiccio. Mi spiace per La Critica, ma da Bottai non ci vado”. Più tardi nel salotto dell’ing. Tramonte il senatore si lasciò convincere a scrivere di persona una lettera indirizzata “all’amico Laterza” che poi l’editore avrebbe trasmessa a Bottai. Croce in meno di venti minuti stese la lettera che per anni fu conosciuta soltanto da pochi intimi del filosofo. L’ing. Tramonte trascrisse a macchina la missiva, che consegnò a Laterza. L’originale rimase tra i cimeli di famiglia del professionista foggiano». Nella lettera (pubblicata nel 1945 nel volume Pagine politiche, luglio-dicembre 1944 da Laterza) Croce scriveva tra l’altro: «Caro Amico, ricevo la Vostra comunicazione che La Critica è soppressa “per limitare nelle attuali contingenze il numero delle riviste”, e poiché la comunicazione è fatta a voi, a voi invio, perché la comunichiate a vostra volta, la mia risposta, che è una doverosa protesta. Per trentasette anni e mezzo La Critica ha esercitato un’assidua opera per la formazione e l’applicazione di un metodo moderno e scientifico negli studi di filosofia, storia e letteratura, e per contribuire a togliere alla cultura italiana quel che di chiuso e di provinciale ancora le rimaneva… Certo non mi nascondo che la mia rivista era di un uomo rimasto fedele (né poteva altrimenti per ragioni di coscienza, con la quale non si transige) agli ideali che aveva preso ad amare nella sua giovinezza, e che non sono quelli che dominano nel nuovo tempo

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della storia italiana ed europea. Ma La Critica non era una rivista politica e perciò non è intervenuta nelle cose politiche propriamente dette, come tali che uscivano dai confini del suo programma… Se qualcosa io ho dovuto dire o fare come cittadino nella politica attiva, l’ho detto e fatto in altra sede, nei giornali politici quando ciò era possibile, o nel Senato del regno… Per il danno che da essa viene agli studi italiani e per la mancanza che proveranno i molti studiosi che, anche quando dissentivano, traevano indirizzo, aiuto, e informazioni dalla lettura della Critica, ho dunque il dovere di fare questa protesta, quale che possa essere la sua sorte. Abbiatemi con affetto, Vostro aff.mo B. Croce». (Tuttavia, nel 1925, sulla rivista fu pubblicata la Protesta contro il Manifesto degli intellettuali fascisti e nello stesso anno il testo del discorso tenuto da Croce come presidente del Partito liberale).

Si seppe poi che Bottai, appena venne in possesso della protesta, si recò a Torino dove in quei giorni si trovava Mussolini e sollecitò la revoca della sospensione della rivista, facendo notare al duce le ripercussioni negative che un gesto di intransigenza avrebbe determinato nel mondo culturale italiano e internazionale, in un momento politicamente difficile come quello che si attraversava.

In una conferenza che Alfredo Parente aveva stesa per la Radio italiana prima della scomparsa di Croce, e letta per il terzo programma il 7 dicembre del 1952 (Croce era morto in novembre) si ricordavano i collaboratori della rivista, principalmente Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Francesco Flora e Giovanni Gentile, la collaborazione del quale finì con l’annata del 1923. Inoltre Parente ricordava «Papini e Borgese, Cecchi e Gargiulo, Volpe e Schipa, Nicolini e Brognoligo, Vossler e G. Lombardo Radice, Citanna e Ragghianti e Ciardo, e negli ultimi anni le figliuole del Croce, Elena ed Alda, la prima con articoli di letteratura tedesca, la seconda di letteratura spagnola. Egli volle associarle entrambe, come un patetico suggello nell’ultimo quaderno de La Critica». Lo stesso Parente collaborò solo in due occasioni. La pubblicazione della rivista, bimestrale, cessò nel 1944, proseguendo poi, dal marzo del 1945, appunto con i Quaderni.

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UNA LAPIDE PER GIAMBATTISTA VICO

Nel cuore della vecchia Napoli era nato, nel 1668, colui che sarà per Benedetto Croce “l’antenato spirituale e ispiratore”, Giambattista Vico. A breve distanza dal locale dove Vico vide la luce (e dove fu posta anni fa una targa commemorativa oggi pressoché celata), Croce, nella casa di via Atri, iniziava a comporre una monografia sul filosofo napoletano pubblicandola nel 1911. Nel terzo centenario della nascita di Vico la Rivista di Studi Crociani, di Alfredo Parente, pubblicava una ricchissima documentazione sull’attuale, diffusa conoscenza dell’autore della Scienza nuova. Risultava soprattutto che da qualche tempo Giambattista Vico era divenuto oggetto di sollecitudini che soltanto alcuni decenni prima sarebbero apparse inverosimili. Significativo soprattutto l’interesse di studiosi degli Stati Uniti d'America. Oltre a Croce il “furore vichiano” era dovuto anche agli studi del suo amico e collaboratore di mezzo secolo, Fausto Nicolini. Stupende edizioni critiche, vastissime e minuziose ricerche e preziosi apparati esegetici risvegliarono un moto di studi quando, in alcune regioni della cultura, di Vico s'ignorava perfino il nome, se uno storico della filosofia della grandezza di Guglielmo Windelband - al quale Croce dedicò, assai significativamente, la sua grande monografia del 1911 su La filosofia di Giambattista Vico - ne aveva fatto un appena fuggevole cenno nella Storia della filosofia moderna, e confessava di non averne letto le opere.

Ma torniamo alla singolare vicenda della lapide apposta nella casa dove era nato Vico. Il racconto di Fausto Nicolini è vivacissimo e sottilmente polemico verso il regime imperante: «Molti anni fa – afferma Nicolini - attraverso una ricerca archivistica alquanto lunga e complessa, riuscii ad assodare che Giambattista Vico - nato il 23 giugno 1668 - vide la luce non già, come si credeva, nel vico dei Miliorani, bensì nella via San Biagio dei Librai. Con ciò non è da credere che il futuro autore della Scienza nuova venisse al mondo in una vera e propria casa. Non per nulla suo padre - il semi analfabeta Antonio de Vico, come allora si chiamava la famiglia, - era il più povero fra quanti librai e libraiucci avessero bottega in quella strada. L'abitazione, dunque, in cui, dal 4 maggio 1658 al 4 maggio 1685, dimorarono lui, la moglie e i non pochi figliuoli venuti via via al mondo, si riduceva a un bugigattolo lungo sei metri, largo tre e alto non più di altrettanti: quello che sovrasta alla bottega era tappezzata

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dai libri che Antonio de Vico esponeva in vendita, e dalla quale s'accedeva all'anzidetto bugigattolo o mezzanino per una scala interna, ora murata. Quante volte, la notte, il piccolo Giambattista, levatosi silenzioso, scendeva in questa botteguccia per darsi a studiare».

Nicolini spiega poi come si giunse alla decisione di porre una lapide: «Sin dal principio del 1941, il Croce prese a manifestarmi il suo vivo desiderio che, accanto alla finestretta aprentesi in quella topaia, il Municipio di Napoli facesse apporre una lapide commemora-tiva. E, rapidissimo, qual era, nel tradurre in atto qualunque suo proposito, al tempo stesso che mi officiò a condurre col Municipio le pratiche del caso, mi fece tenere questa sua iscrizione, bellissima: IN QUESTA CAMERETTA / NACQUE / IL XXIII GIUGNO MDLXVIII GIAMBATTISTA VICO / QUI DIMORÒ / SINO AI DICIASSETTE ANNI / E NELLA SOTTOPOSTA / PICCOLA BOTTEGA / DEL PADRE LIBRAIO / USÒ PASSARE LE NOTTI / NELLO STUDIO / VIGILIA GIOVANILE / DeLLA SUA OPERA SUBLIME / LA CITTÀ DI NAPOLI / P. / IL XXIII GIUGNO MCMXLI»

Condurre le pratiche del caso col Municipio! In pieno regime fascistico, «quando qualunque parola uscisse dal labbro o dalla penna di Benedetto Croce doveva essere o ignorata o ricordata al solo scopo di divenir segno a ogni sorta di contumelie», Nicolini riuscì nell'intento grazie anche al suo amico Mario Forges-Davanzati, che occupava un posto di prestigio ma gli chiese esplicitamente di presentare la proposta come propria. Nicolini si confidò con Croce «che si spassò un mondo a quella piccola gherminella». Avendo avuto carta bianca anche per la spesa, ci si avvalse dell' opera del miglior marmoraio napoletano, il quale, guidato da Roberto Pane, consegnò una lapide, che, anche sotto l'aspetto artistico, riuscì un vero gioiello.

Ma c’era il problema del rito dello scoprimento della lapide. «Croce, testardissimo sempre che avesse deliberato qualcosa, manifestò l'intenzione di assistere “in incognito” alla cerimonia. In incognito lui, le cui fattezze erano note a tutta Napoli! E se da qualche nerocamiciato indisciplinato e impulsivo gli si fosse fatto un affronto? Per fortuna, sua accompagnatrice abituale era la figliuola Alda, adusata, sin da quando era in fasce, a considerarmi un vecchio e affettuoso zio. E Alda e io gli propinammo una piccola spiritosa invenzione, consistente nell'annunziargli fissato per le ore tredici l'inizio della ‘celebrazione’, stabilito, invece, alle undici. È vero che, more neapolitano, essa invece che alle undici, ebbe principio quasi

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alle dodici e mezza. Tuttavia, quando il nostro Benedetto, lento pede, giunse sul posto con la figliuola, non vi trovò se non me, circondato da uno stuolo di popolani e femminelle, curiosi di conoscere chi fosse quel tal Vico. E il Croce, a cui non riuscì difficile farsi, come sempre, umilissimo fra gli umili, sottentrò a me nell'ufficio di cicerone, riuscendo a giungere al cuore e alla mente di quella povera gente, con lo spiegar che il Vico era quasi un popolano come loro; che, come loro, aveva sofferto la fame; e che, ciò nonostante, a furia di duro lavoro, era divenuto, pur restando sempre povero, un grand'uomo».

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LA RELIGIOSITA’ POPOLARE E ALFONSO DE’ LIGUORI

Sulle manifestazioni della religiosità popolare di Napoli si è scritto moltissimo, soprattutto con aspre critiche, anche da visitatori stranieri. Ma anche su questo tema Croce intende mettere le cose in chiaro, dedicando largo spazio alla Vita religiosa di Napoli nel Settecento (inserita nel volume Uomini e cose della vecchia Italia. Serie seconda). Croce dà una interpretazione respingendo le frequenti polemiche da parte di osservatori che vedevano solo manifestazioni superstiziose senza cercare di intenderne il significato e le radici profonde. Accenna tra l’altro a un argomento scottante ma usa un tono sereno: «Il famoso ‘miracolo’ del sangue di san Gennaro, che dava materia, da parte dei miscredenti, alle più strane dicerie e congetture, e ai tentativi di riprodurlo artifizialmente e chimicamente». Croce sottolineava che si trattava spesso di giudizi partigiani e superficiali nel quale l’intera nazione veniva coinvolta con la plebe e si commetteva anche ingiustizia «sia col non tener conto dei sentimenti morali e religiosi che spiravano in quelle pratiche, sia col porre in falsa relazione i tipi della credenze con virtù e vizi, che possono stare con essi e senza essi». Croce afferma che per intendere la religiosità popolare conviene guardarla con «benevolenza e simpatia»; benevolenza e simpatia che egli trova per due personaggi tipici a Napoli in quel tempo, il famoso cappuccino padre Rocco, che tramezzava, nel suo atteggiamento, il ‘guappo’ e il Pulcinella. Corpulento com’era, lo si vedeva per le vie di Napoli armato di «una corona di quindici poste, un crocifisso di quasi due palmi e un saldo bastone col quale minacciava i ‘peccatori’». Tuttavia, osserva Croce, «a lui, tra le molte opere di devozione e di beneficenza, si dovette l’illuminazione notturna della città, che fu opera di polizia, compiuta mercé il pio espediente di moltiplicare nelle strade le immagini sacre con le lampade accese; a lui l’idea del regio reclusorio, o Albergo dei poveri; a lui quella di un camposanto; a lui molteplici provvidenze nella carestia del 1764».

Diverso il discorso per l’altro religioso di fama, il principe Alfonso Maria de’ Liguori, «Gentiluomo di nascita, avvocato nei suoi primi anni finché Dio non lo volle tutto per sé» - come dice con una bella espressione un laico quale Benedetto Croce – Alfonso diventerà il grande asceta e il grande teologo. E riferendosi al «molto simpatico santo napoletano», sempre Croce, su un fascicolo della Critica,

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sottolineava nel 1949 che il teologo moralista «dié l’ultima e ancora vivente forma alla casistica per confessori che, togliendo da mani i peggiori, si adoperò, da napoletano di buon senso e non da fanatico spagnolo (i moralisti gesuiti di quei tempi) a moderare quanto più potrà, non certo a servigio nostro o dell’alta morale, ma a servigio delle occorrenze pratiche della sua Chiesa».

Croce tratta anche delle poesie religiose del de’ Liguori, ma le giudica negativamente sul piano estetico anche se ne riconosce l’efficacia edificante. La religiosità, popolare e non, si è alimentata e si alimenta pure del canto, della musica di ogni livello. Alfonso de’ Liguori volle sfruttare per il suo apostolato anche questa via. Benedetto Croce lo ricorda come «autore di un gran numero di opere ascetiche, apologetiche, teologiche e morali, ancora oggi assai studiate tra i cattolici di tutti i Paesi» e aggiunge che «ritmò canzonette spirituali, anch'esse cantate dappertutto, tra le quali notissima quella del Natale: ‘Tu scendi dalle stelle’». Ma a questo tema il de’ Liguori aveva dedicato anche una lunga pastorale in napoletano; una composizione che non è una versione in dialetto di quella scritta in italiano ma una creazione del tutto nuova, anche se si snoda, in parte, sullo stesso motivo musicale. Direi di più: alla concettuosità teologica che ispira la canzoncina in italiano il testo dialettale contrappone una liricità più immediata, immagini più efficaci; ed anche se la composizione appare disuguale e non sempre raggiunge lo stesso livello, risulta artisticamente più valida. C’è comunque chi, come il musicologo Roberto De Simone, contesta l’assegnazione al de’ Liguori e parla – mi sembra paradossalmente – di origine popolare.

Forse oggi non siamo più in grado di intendere perfettamente il significato dei versi: questo parlare settecentesco che nemmeno il popolo più modesto usa più, ci appare lontanissimo, e anche molti napoletani che pur conoscono il dialetto stentano ad interpretarlo o non riescono a cogliere con immediatezza la freschezza di certe immagini. Il Croce, che pure aveva dedicato più volte la sua attenzione alla questione del dialetto, non sembra conoscesse questa composizione in napoletano del de’ Liguori. Approfondisce invece la canzoncina natalizia in italiano e, a proposito della traduzione in spagnolo delle poesie del Liguori apparse a Città del Messico nel 1949 scrive che, anche a mettervi tutta la buona volontà, nei versi di Alfonso non si rinviene altro che «una sequela di frasi devote, non splendenti di coerenza né di concisione né di proprietà, ritmate in

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metri e in rime perché più facilmente venissero ricordate e scorressero dalle ugole dei fanciulli, delle donne e dei popolani che il Liguori raccoglieva nelle sue "cappelle serotine"; canzoni che furono poi adattate ad altre adunate simili. Un giudizio sostanzialmente negativo, sul piano artistico, viene espresso dal Croce anche per la più popolare di queste canzonette, «che ci commosse e ci commuove, accompagnata dal suono delle cornamuse» a Natale e che «talvolta anche oggi, se si riode in lontano per qualche istante, ci riporta alle sensazioni della nostra infanzia». Pur ammettendo che ci sia - ne tratta in particolare nelle sue Conversazioni critiche - una poesia popolare da qualificare «poesia minore, ossia di minore complessità, con minori sottintesi e riferimenti spirituali», il Croce non trovava nulla di ciò nelle rime del Liguori, gentiluomo e coltissimo.

A questo punto il discorso ci porta alla questione del dialetto, sul quale si è scritto tutto e il contrario di tutto. Da una parte i dialettofili che considerano l'uso della parlata locale come segno di vitalità culturale, dall'altra parte c'è chi si rinchiude in una dialettofobia che identifica arbitrariamente dialetto e povertà culturale. Il dialetto fa storcere la bocca a molti che si piccano di essere avanzati politicamente, mentre il ‘borghese’ Benedetto Croce nel 1932, in pieno fascismo, respinse il concetto che allora si andava diffondendo sul dialetto come di cosa «triviale e vieta e contrastante al culto della nazionalità italiana», e criticò «le guerre contro il dialetto che oltre il resto sono prova di ignoranza circa lo storico e vero rapporto che corre tra letteratura dialettale e letteratura nazionale». Molti anni prima, nel 1906, lo stesso Croce aveva affermato che la geniale produzione artistica di Salvatore di Giacomo, pur essendo scritta in dialetto, «era una delle pochissime vere poesie dell’Italia contemporanea». Su questo tema Croce scriverà numerosissime pagine e s’impegnerà nella pubblicazione di un’opera seicentesca di Giambattista Basile, il Cunto de li cunti, che poi, come vedremo, tradurrà anche in italiano.

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LA VALIDITA’ DEL DIALETTO

Benedetto Croce difensore del dialetto. Ma parlava egli in napoletano? E’ interessante sapere che nella Discoteca di Stato che si trova a Roma nel Palazzo Antici-Mattei, migliaia di dischi racchiudono le voci degli italiani più illustri e celebri, da quelli dei generali della prima grande guerra (Cadorna, Diaz, Thaon di Revel) a quelle di Pirandello, di Marconi, di Grazia Deledda, di Adelina Patti ed anche di Benedetto Croce. Nel 1981 sul giornale Provincia di Como, un certo Corrado Benevenuti, che si dichiarava grande amico del letterato sannita Francesco Flora che frequentava a Milano, affermava che Croce «parlava spaccatamente un napoletano imbastardito con il basilicatese»; Alfredo Parente, che aveva ricevuto un ritaglio di stampa, nella sua Rivista replicava duramente a queste assurde affermazioni e scriveva: «La verità è che Croce, della cui voce, nella mia ricca e per certi aspetti rara raccolta di cose che lo riguardano, serbo anche una riproduzione discografica, conosceva a fondo, gustava ed amava il dialetto napoletano che aveva letto e studiato in mille testi, dai Ricordi del puteolano quattrocentesco Loise de Rosa a il Cunto de li cunti di G.B. Basile, alle poesie e canzoni di Salvatore di Giacomo, ed aveva quotidianamente colto dalla fanciullezza nella lingua viva del popolo della sua città; ma egli parlava non quel dialetto, bensì, quantunque non aulicamente, anzi con spontanea naturalezza, la lingua italiana, non senza un proprio personalissimo accento, in modo piano, disteso e limpido. Il dialetto faceva entrare nei colloqui confidenziali suolo quando avvertisse il bisogno dell’efficacia unica di un vocabolo o di una locuzione intraducibili, per dare al discorso un tocco di colore o di arguzia partenopea».

In un articolo del giornalista Tommaso Martella, riportato poi nel volume Senatori in graticola, si parla di una visita a Benedetto Croce nel 1949 per un servizio da pubblicare sul Corriere della Sera. Tra gli altri argomenti trattati nell’incontro, Martella dice che Croce, che l’aveva accolto con grande affabilità, cominciò a sfogarsi contro i tempi che quasi non gli permettevano più di starsene tranquillo a leggersi e a meditarsi i suoi libri. «L’ospite, a questo sfogo, rimase piuttosto interdetto. “Sì, sì – riprese a dire Croce – è proprio così. Devo fare, adesso, ‘o giornalista, a ottant’anni suonati. Tutti mi

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chiedono articoli, anche i giornali stranieri, e io come faccio a dire di no? E quello che è peggio è che spesso mi chiedono articoli su argomenti che non sono di mia competenza. Li vogliono lo stesso. Ma c’aggia fa?» Questo è un esempio di parole dialettali. Ma un altro esempio è in un aneddoto che Giovanni Artieri riporta nel suo volume Napoli, punto e basta? «Croce era una sera a fare la consueta lenta passeggiata, quella volta accompagnato dal comune amico Costantino Del Franco, quando gli si avvicinò “con piglio deciso” un fascista in uniforme. Questi voleva semplicemente accendere la sigaretta a quella del filosofo, il quale “con buona grazia gli porse il mozzicone, volgendosi sottovoce al Del Franco per dirgli: Chisto nun sape niente”».

Ma c’è una sostanziale differenza tra chi parla in dialetto e chi scrive in dialetto. Significativa la scelta di un uomo di cultura che ha maturato esperienze artistiche di alto livello in vari campi, il romagnolo Tonino Guerra, trapiantato a Roma ma che conserva solidi legami con il suo paese d’origine, sceneggiatore cinematografico (ha collaborato con Fellini, Antonioni, Tarkovskij), romanziere in lingua italiana, che ha scelto di scrivere le proprie poesie in dialetto santarcangiolese. Interessante anche un’affermazione di Federico Fellini: «In tutti i miei film il dialetto, sia esso romagnolo o romanesco o quello dell’entroterra napoletano, è il linguaggio verbale più diffuso, non soltanto per motivo di credibilità, di coerenza, di folklore o di suggestione, ma perché il dialetto riesce ad esprimere con una forza, una violenza addirittura visive, folgoranti connotazioni di tipo storico, psicologico, sociologico, emotivo. Insomma, dei tanti segni in cui la vita e la storia si coagulano, il dialetto è il riverbero più vivido, una sonora, incessante metafora da proteggere e conservare». Il problema che Croce affrontava tanti anni fa è, insomma, di attualità e forse anche più pressante.

In Parlamento sono state presentate in varie legislature (ed anche in quella in corso, con iniziative dei deputati Pecoraro Scanio e Molinari) proposte di legge per «la tutela e la valorizzazione dei dialetti». Nelle relazioni che accompagnano i progetti legislativi si è, in genere, fatto sfoggio di erudizione citando linguisti e semiologi illustri come De Mauro ed Eco, concordi nel sostenere che al rischio di una eccessiva standardizzazione e massificazione si risponde con la riscoperta e la valorizzazione delle 'lingue altre'. Per l'antropologo Luigi Maria Lombardi Satriani «ritenere in ogni caso positiva la

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perdita del dialetto per l'acquisizione della lingua è posizione estremamente generica e acritica». In varie proposte di legge presentate si chiedeva tra l'altro che «le Regioni sostengano le attività per la tutela del patrimonio dialettale, quali la narrativa, il teatro, la poesia e il canto». Le parlate locali che parlate non saranno più, potranno restare – ci si augura - come materie di studio nelle scuole superiori e universitarie, come il latino, il greco e, nelle varie nazioni, altre lingue moribonde. Scompariranno dalla vita di ogni giorno per 'esaurimento' della loro funzione pratica di comunicazione, ed entreranno nei sacrari della cultura, mentre le nuove generazioni, sempre più immerse nell'ambiente globalizzato della tecnica, del computer, dei mass-media si allontaneranno dalle parole, dalle immagini, dalle tradizioni secolari, e solo l'impegno degli studiosi specifici potrà conservare vivo il ricordo dei dialetti attraverso la storia, la linguistica, la semiologia, la glottologia.

Benedetto Croce ha dedicato a questo problema varie opere oltre alla fondamentale «Estetica come scienza dell' espressione linguistica generale». Nel volume «Poesia popolare e poesia d'arte» scrive che «la poesia popolare è, nella sfera estetica, l'analogo di quel che il buon senso è nella sfera intellettuale e la candidezza o innocenza nella sfera morale. Essa esprime moti dell' anima che non hanno dietro di sé, come precedenti immediati, grandi travagli del pensiero e della passione; ritrae sentimenti semplici in corrispondenti semplici forme. L'alta poesia muove e sommuove in noi grandi masse di ricordi, di esperienze, di pensieri, di molteplici sentimenti e gradazioni e sfumature di sentimenti; la poesia popolare non si allarga per così ampi giri e volute per giungere al segno, ma vi giunge per via breve e spedita. Le parole e i ritmi in cui essa s'incarna sono affatto adeguati ai suoi motivi, come adeguati ai motivi della poesia d'arte sono le parole e i ritmi a lei propri, di cui ciascuno è grave di sottintesi, che mancano nell' altra».

E la poesia 'popolareggiante'? Senza impegolarci in polemiche legate a concetti sociologici piuttosto che estetici diremo, col Dizionario della Treccani, che si tratta di «componenti letterari o musicali (meno comuni in altre forme d'arte) che si ispirano all'arte popolare e cercano di imitarla». E sempre Croce ribadisce, in Conversazioni critiche, il concetto di fondo: «Col negare come ho sempre negato, e ancora nego in pura estetica, la possibilità di una graduatoria delle opere d'arte, non voglio già negare l'opportunità di

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classificare empiricamente certe poesie in maggiori o minori. E la poesia che si chiama popolare è, in genere, poesia minore, ossia di minore complessità, con minori sottintesi e riferenze spirituali, e può paragonarsi all'idillio rispetto al dramma e alla tragedia della vita». Ed aggiunge: «Gli è che gli autori di questi canti erano umile e povera gente, che non potevano mettere nelle loro parole e nelle loro melodie cose più grandi delle loro anime».

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IL CUNTO DE LI CUNTI

Croce non si limitò alle teorie sui dialetti. Venne al concreto, pubblicando un testo del Seicento di grande rilievo, il Cunto de li cunti di Giambattista Basile. I primi amori di Benedetto Croce con la letteratura dialettale napoletana del Cinque e Seicento risalgono al 1886, quando consacrò gli anni della prima giovinezza a studiare storicamente la città da lui tanto amata, e a studiarla non soltanto nella sua storia politica, civile e culturale, ma altresì nella sua topografia, nei suoi monumenti, nel suo dialetto e nella sua letteratura dialettale. In una modesta rivista col titolo Giambattista Basile (che usciva a intervalli quanto mai irregolari sotto la direzione di Luigi Molinaro del Chiaro, curioso tipo di bohémien) Croce si occupava di dialettologia e di folklore con alcuni suoi scritti di cui qualcuno, rifatto, è raccolto nelle Storie e leggende napoletane, qualche altro negli Aneddoti di varia letteratura, altri ancora nelle Pagine sparse.

Divenuto sempre più esperto in lavori di questo genere, Croce, intorno al 1890, volle affrontare lo studio della maggiore opera dell'antica letteratura dialettale napoletana: quella raccolta di cinquanta fiabe ripartite in cinque giornate, e che perciò l'autore, Giambattista Basile, nato a Napoli intorno al 1575, morto a Giugliano il 23 febbraio 1632, intitolò anche Pentamerone e dette a esse il titolo principale di Cunto de li cunti, cioè Fiaba delle fiabe. In un documentato scritto pubblicato nel volume Il Croce minore, Fausto Nicolini dà molti dettagli su questa pubblicazione, notando tra l’altro che «di quel libro meraviglioso, il grande valore artistico era stato messo in forte rilievo da Vittorio Imbriani». Croce «nell'atto stesso che si risolveva a pubblicare, sotto la sua direzione e a sue spese, una Biblioteca napoletana di storia e letteratura, assegnava a se medesimo il compito di dar fuori un'edizione critica e commentata di quella raccolta di fiabe che, anteriore di oltre mezzo secolo ai Contes del Perrault, viene a essere la prima apparsa nelle moderne letterature europee. Compito, a dir vero, quanto mai difficile. Anzitutto occor-reva una perizia consumata in lavori del genere per restituire il testo, del quale, nelle varie ristampe fattesene dal 1674 in poi, compresa quella vulgata inserita alla fine del secolo decimottavo dal libraio Porcelli nella sua collezione degli scrittori del dialetto napoletano, correva una raffazzonatura lavorata da Pompeo Sarnelli (il futuro autore della Posillecheiata, divenuto poi vescovo di Bisceglie).

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Raffazzonatura ben diversa, dalla stesura originaria, pubblicata postuma negli anni 1634-36 in cinque volumetti, introvabili (non meno di quarant'anni occorsero al Croce stesso per procurarseli tutt'e cinque) e, per soprammercato, esemplati su un disperso manoscritto, che in molti punti era stato lasciato dall'autore quasi nello stato di abbozzo, e che i primi editori, a lor volta, non mancarono, spesso e volentieri, di fraintendere».

Che dire poi dell'interpretazione del testo medesimo? Conoscitore minuzioso del dialetto, il Basile si compiacque, anche troppo spesso, di vocaboli, frasi e costrutti napoletani bensì, ma affatto inconsueti. Non contento di ciò, storpiò in forma pseudonapoletana voci comuni all'italiano e al dialetto, al tempo medesimo che ne napoletanizzò a suo modo altre non poche, esistenti nell'italiano, ma non nel dialetto, e altre ancora esibì in significati e costrutti totalmente ignoti all'uso comune. Per ultimo, costrettovi dai bisogni del suo stile e dai suoi intenti caricaturali, foggiò molte altre parole e frasi, segnatamente astratte, che il popolo non possiede punto. E il risultato di tutto ciò fu precisamente quello additato dal Croce: che “quando si legga ora il Cunto de li cunti avendo riguardo al dialetto vivente, che non può essere molto diverso da quello di tre secoli fa, il dialetto del Basile sembra, più che una lingua realmente parlata, una di quelle lingue arbitrarie create dai letterati per fini letterari, come la lingua maccheronica o la lingua pedantesca”. Né, con ciò, l'elenco delle difficoltà è giunto al termine. Ne restava, un'altra ancora, e forse la più aspra di tutte, ché nel Cunto de li cunti abbondano, frammiste a 'riferimenti classici e mitologici, le allusioni a giuochi fanciulleschi, nonché a canti, danze, divertimenti e ogni altra sorta di usanze popola-resche napoletane del tardo Cinquecento o del primo Seicento. Xioè a cose di cui oggi s'è spento del tutto il ricordo»

Croce superò tutte le sue difficoltà aggiungendo al testo esaurienti note. Ma quando nel 1891 comparve il primo volume comprendente le prime due giornate se ne vendettero pochissime copie. Si rinunziò quindi a pubblicare il secondo volume progettando comunque «di dar piuttosto, quando ne avesse avuto tempo e agio, una traduzione italiana del difficile testo. Senonché lavori più urgenti non gli consentirono di attuar subito codesto proposito, divenuto un fatto compiuto soltanto trentaquattro anni dopo». Nel frattempo Croce condusse altri studi intorno all’antica letteratura dialettale napoletana interessandosi tra l’altro di una farsa del cinquecentesco Velardiniello,

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di un cantastorie del primo Seicento conosciuto col soprannome di Giovanni della Carriola e pubblicando anche un saggio intitolati La letteratura dialettale riflessa, la sua origine nel Seicento e il suo ufficio storico: letteratura dialettale riflessa, cioè non dialettale ma d’arte.

Nel 1924 Croce riprese in mano i racconti di Basile, e in un paio di mesi realizzò una traduzione in italiano scrivendo una quindicina di cartelle al giorno. Racconta sempre Nicolini: «La sera, dopo pranzo, lieto della fatica compiuta, leggeva, con gli opportuni tagli, la fiaba o le fiabe tradotte durante la giornata alle figliole piccolette, che avide di quei racconti attendevano quel momento con ansia». Nell’aprile 1925 l’editore Laterza stampò due volumi che smentivano l’antica convinzione che la traduzione è “o brutta fedele o bella infedele”. In realtà senza cascare nell’infedeltà, Croce non lasciava perdere «nemmeno una sfoglia di quella patina barocca e serio-burlesca, e nemmeno una sfumatura di quel forte colorito napoletanesco che distinguono l’originale».

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SALVATORE DI GIACOMO GRANDE POETA

Poteva un napoletano, un grande poeta come Salvatore Di Giacomo, che scriveva versi in dialetto, avere l’onore di entrare nel Senato del regno? Il Senato della Repubblica ha reso omaggio, conferendo il laticlavio a vita, a due scrittori di esperienze dialettali, il romano Trilussa (Carlo Alberto Salustri) e il napoletano Edoardo De Filippo. Ma a Salvatore Di Giacomo fu detto no.

Una esatta ricostruzione della vicenda si legge in un volume (pubblicato dalla Newton Compton) di un acuto studioso dell’opera di Di Giacomo, Arturo Fratta. La candidatura, data dai giornali di tutta Italia con molta evidenza, doveva cadere il mese successivo, nel novembre del 1924. Il ministro Casati aveva proposto la nomina al Senato di Salvatore Di Giacomo (insieme con quelle del giornalista Ugo Ojetti, dello storico dell'arte Adolfo Venturi e del musicista Giacomo Puccini), e fu scelto Benedetto Croce per la perorazione dinanzi al Comitato segreto del Senato. Tutti sapevano dell'amicizia che legava il filosofo a Casati e di come la ‘rivelazione’ di Di Giacomo e la pubblicazione del volume di poesie fossero opera sua. Quando, dopo avere illustrato i meriti artistici che rendevano Di Giacomo meritevole della nomina, Croce disse che la notizia della scelta del suo nome per il Senato “aveva dovuto fargli la stessa impressione che proverei io se il papa mi nominasse cardinale” era facile intendere come questa dichiarazione dovesse servire soltanto a descrivere il carattere semplice del poeta, che nel settembre precedente aveva inviato a Croce uno scherzoso telegramma: “Domine, non sum dignus”. Insomma l'elegante understatement del filosofo fu frainteso, ma non fu causa della caduta della candidatura di Di Giacomo. La stessa sorte subì Ugo Ojetti, il quale, peraltro, scrisse al poeta una lettera affermando: «Arrossirei al pensiero di entrare per censo in Senato, dove, solo perché povero, non ha potuto entrare un grande poeta!»

Ne nacquero vivaci polemiche, e la vicenda contribuì a guastare i rapporti tra il poeta e il filosofo, rapporti già diventati difficili per motivi politici dopo l’avvicinamento di Di Giacomo al fascismo. Di fronte a pubblicazioni inesatte, Croce prese carta e penna e scrisse una

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lettera al Giornale d’Italia il 29 novembre: «Poiché vedo riferita nei giornali una frase staccata del breve discorso che pronunciai in Senato per l'applicazione della categoria 20 a Salvatore di Giacomo, discorso che, con nuovo esempio, è stato perfino sottoposto a critica pubblica, quantunque tenuto in Comitato segreto, sono costretto a prendere la parola affinché da coloro che non erano presenti non sia stortamente interpretato il senso in quella mia frase. Io dunque, dopo aver illustrato il carattere e il pregio dell'opera del Di Giacomo, dissi che questi vive chiuso nel cerchio della pura poesia, e tanto estraneo alle cose pratiche e politiche, e lontano da ogni ambizione di questa sorta, che la nomina a senatore giuntagli inaspettata, aveva dovuto fargli la stessa impressione che proverei io “se il papa mi nominasse cardinale” (questa è la frase incriminata). Ed aggiunsi che né io, suo antico e saldo estimatore, né altri dei suoi amici napoletani, avevamo mai pensato a proporlo per quella nomina; tanto la sua figura ci portava in una sfera al di sopra e anche, se si vuole, al disotto del Senato e, insomma, diversa; ma che noi siamo spesso ingiusti con le persone a noi vicine e che, quando poi un ministro lombardo, guardando all' alto valore artistico del Di Giacomo, aveva proposto quella nomina, io avevo provato un grande compiacimento. E che mi sarebbe parso assai mal compensare un uomo di anima candidissima, che tutta la vita aveva consacrata all'arte, col ridargli la solenne testimonianza di stima, che gli era stata resa. E infine, che era bensì ottima cosa riportare a uso più rigoroso l'applicazione della categoria 20, ma che non bisognava dimenticare che l'Italia non era solo l'Italia della politica, ma anche l'Italia della poesia». Precisiamo che la categoria 20 prevedeva la nomina per alti meriti culturali e la polemica di Croce si riferiva in particolare al senatore V. Morello, che aveva partecipato alla riunione della commissione ma, non rispettando il segreto, spiattellò in pubblico (con nuovo esempio! lo redarguì infatti il Croce) informazioni sulla seduta del Comitato.

Quando conobbe Croce, Di Giacomo aveva pubblicato le sue poesie sparsamente e raccogliendole in tre volumetti: ‘O Funneco verde, 'O munasterio e Zi' munacella. Le Canzoni erano in un altro volume, ma soprattutto nei fogli volanti che apparivano a ogni Piedigrotta. E a questo proposito va ricordato che Di Giacomo aveva chiesto a Benedetto Croce una presentazione di un fascicolo di canzoni ricordando la nascita e la storia della secolare festa napoletana, e Croce l’accontentò. Un articolo rivelatore della

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‘grandezza’ del poeta apparve nella Critica il 21 novembre 1903, ma successivamente sempre sulla stessa rivista Croce scriverà: «Quando or sono otto anni io pubblicavo nella Critica un saggio su Salvatore Di Giacomo, dopo aver trattato nei saggi precedenti del Carducci, del Fogazzaro, del De Amicis, del Verga e della Serao (e trattando subito dopo del D'Annunzio), ricordo che non pochi mi attestarono la loro meraviglia che mettessi quasi in linea con scrittori stimati tra i maggiori della nuova Italia un poeta dialettale, novelliere e drammaturgo non ignoto al certo, ma di poca fama. La meraviglia sarebbe stata maggiore se io avessi detto allora apertamente tutto il mio intimo pensiero; cioè che, da lungo tempo, stimavo il Di Giacomo uno dei pochissimi odierni poeti italiani, assai superiore a taluni di quelli dianzi nominati e a moltissimi che godevano maggiore reputazione di lui. Ma preferii di non urtare per allora troppo violentemente l'opinione comune; mi restrinsi perciò a dare saggi dell'arte del Di Giacomo e a sradicare il pregiudizio che si opponeva a una giusta estimazione di esso, il pregiudizio della letteratura dialettale come ‘genere’ chiuso e inferiore di arte, lasciando pel resto che si facesse strada a poco a poco negli animi la persuasione del vero. Considero vanto non piccolo della Critica l'aver contribuito a far sì che si rendesse giustizia al Di Giacomo, col toglierlo dal gruppo dei poeti regionali e porlo in quello dei poeti nazionali o, meglio, dei poeti senz'altro». Nel suo primo saggio Croce – nota Arturo Fratta - dopo aver affermato la possibilità di aggregarlo «in un certo senso» al cosiddetto verismo, arricchito di elementi fantastici, affronta la questione del dialetto. «Molta parte dell'anima nostra è dialetto, come tanta altra parte è fatta di greco, latino, tedesco, francese, o di antico linguaggio italiano. Il dialetto non è una veste, perché la lingua non è veste. Suono e immagine si compenetrano perfettamente. Sopravviene il grammatico e, pei suoi fini e in modo del tutto arbitrario e convenzionale, stacca le categorie di queste e quelle lingue, e di lingue e dialetti. Ma siffatte categorie grammaticali non sono giudizi di valutazione, e non possono servir di base a esclusioni o a delimitazioni estetiche... E allorquando sembra che il dialetto suoni male, si guardi meglio e si vedrà che la colpa non è della poesia dialettale, ma della poesia senz'altro, che manca».

Fratta prosegue: «Ci siamo dilungati nel citare Croce perché i critici che verranno dopo di lui, e non sono pochi né poco importanti (Gaeta, Russo, Serra, Vossler, De Robertis, Flora, Tilgher, Pasolini

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per ricordarne solo alcuni), non aggiungeranno molto, né muteranno questa impostazione sistematica. Tanto per esemplificare, si possono fare rapidi accenni. Francesco Gaeta afferma, a ragione, che Di Giacomo con il dialetto si libera dalla letteratura; che non è una personalità “conclusiva” di generi di poesia vernacola ma un “iniziatore”; che i suoi caratteri distintivi sono l'essenzialità, la sapiente povertà, la musicalità straordinaria, l'economia espressiva. Karl Vossler, che scrive nel 1908 facendo conoscere Di Giacomo in Germania, afferma: “Nemmeno un rigo di tutto ciò che Di Giacomo ha scritto è deturpato dalla malattia di moda dell'odierna letteratura europea. Nessuna affettazione o frivolezza, nessun estetismo o artifi-cio retorico”. Luigi Russo è alluvionale. Chiama in causa Tasso, Ariosto, Metastasio, Carducci, Pascoli, la musa popolare ecc. E conclude dicendo, e non è poco: “Egli ci si rivela non solo compiutissimo artista ma il solo che, dopo il grandissimo esempio leopardiano, nella poesia moderna italiana abbia saputo restaurare nella loro primitiva intensità e purità le espressioni della passione amorosa”. Flora, nel suo primo saggio parla di “parole liberate da ogni peso e da ogni inerzia”», afferma che Di Giacomo “presta agli altri i suoi sentimenti e prende su di sé i sentimenti altrui”… nel secondo coglie una serie di verità profonde e tra le altre questa: “Di Giacomo toccherà le sue cime nella lirica, quando avrà esaurito i temi narrativo-drammatici delle prove che egli compì dai primi sonetti a quelli che nel 1895 intitolò A San Francisco”. E accenna a una ricerca di sincerità lirica, che conferisce alle parole il segno della necessità, avvicinandolo in ciò a Leopardi. Pasolini, infine, vede Di Giacomo vivere “in una fusione un poco torbida con la realtà… tutto assorbito nell’alone della sua sensualità, in cui il mondo si faceva puro fervore, puro ardore, entusiasmo, felicità».

La sensibilità di Croce verso la poesia di Di Giacomo o di Gaeta smentisce chi talvolta ha parlato di freddezza, di aridità spirituale del filosofo, quasi vivesse in un olimpo goethiano, staccato dal mondo di un Mastriani o di un Viviani, e insensibile anche all’arte di un Roberto Bracco al quale era pure legato da cordiale amicizia e fede antifascista. Ma leggiamo questa pagina riportata da un giornalista di classe, di solito brillante e pungente, ma scosso da un aneddoto “autobiografico” raccontato dallo stesso Croce. Vincenzo Talarico lo cita in un articolo celebrativo di Di Giacomo a venti anni dalla scomparsa. Ecco le parole di Croce: «La sua arte, oltre l’incanto della

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debolezza e della classicità, mi faceva soccorrevole in certi casi innanzi ai quali sarei passato indifferente. Per un piccolo e quasi comico esempio. Mi misuravo, una volta, certe camicie nuove o rinnovate, e poiché, nel tentare di abbottonarle alla gola, mi stringevano in modo fastidioso, gridai stizzito alla persona di famiglia che me le porgeva: “Ma da qual bestia le avete fatte cucire così?”. Mi fu riposto che era una signora che stava in un piccolo monastero o ritiro in un umile luogo di Napoli – e mi fu detto il nome popolare del ritiro; - e di colpo, nella mia fantasia, si dipinse una di quelle povere vecchiette, naufraghe della vita, di quelle dignitose miserie che s’industriavano, con cuore doloroso, a guadagnarsi il pane con le loro mani lavorando come meglio sapevano, una di quelle che il Di Giacomo aveva raffigurato in suoi bozzetti e novelle; e subito nel mio interno non solo un placamento, ma una sorta di rimprovero, quasi mi dicessi: “Ti commuovi alle pagine del Di Giacomo, e resti insensibile innanzi la realtà che le ha ispirate…”» Naturalmente – concludeva Vincenzo Talarico - le camicie furono salve dall’ira del filosofo, e la poesia compì un’altra buona azione.

Negli ultimi anni i rapporti che erano stati calorosissimi tra Croce e Di Giacomo si raffreddarono soprattutto per i suddetti motivi politici. Il poeta morì la notte del 15 aprile 1934. Accompagnò il corteo funebre la musica di Marechiare. Benedetto Croce era assente perché per ragioni politiche si asteneva dal mostrarsi in manifestazioni pubbliche. Inviò alla vedova, signora Elisa, questo commosso biglietto: «Cara Signora, Voi sapete quel che è stato per me Salvatore Di Giacomo: sapete come io gli abbia voluto gran bene e quanto abbia amato l’arte sua. Non sono venuto alla dolorosa cerimonia, perché, purtroppo, le condizioni dei tempi distaccano ora gli amici dagli amici e chiamano al loro luogo gente nuova ed estranea».

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PULCINELLA, DON FELICE E IL “FIGLIO DI JORIO”

Fra i tanti temi legati a Napoli e trattati da Benedetto Croce non poteva mancare quello di Pulcinella: ne parlò a lungo nel volume I Teatri di Napoli e vi ritornò su pubblicando, nell’Archivio storico per le Province napoletane, una recensione del libro di un noto filologo tedesco, Alberto Dieterich, su Pulcinella e le pitture murali pompeiane. Croce dimostrò, contro la tesi del Dieterich, che non sussisteva continuità storica tra la commedia popolare romana e la commedia italiana dell’arte, e questa dimostrazione fu poi accolta da tutti gli studiosi dell’argomento fino al volume su Pulcinella di quell’infaticabile ricercatore di cose di teatro che fu Anton Giulio Bragaglia, edito nel 1953. Qualche politico a corto di argomenti culturali ricorse a un volgare e balordo avvicinamento tra il filosofo e la maschera napoletana e altri suoi pari lo ripeterono, ma Croce reagì con pungentissima ironia augurando ai suoi critici, tra i quali un docente universitario, di essere in grado di scrivere anch’essi «qualcosa di simile a quella sua diligente e metodica recensione».

La molteplice “vita” della maschera napoletana fu largamente sottolineata da Croce: essa assumeva significati diversi nei molteplici canovacci, nelle diverse interpretazioni date dai diversi, numerosissimi attori, e che non sempre si estrinsecavano in burle rudimentali, in battute anche licenziose, ma spesso diveniva arma per colpire con la satira i potenti. Significativo un aneddoto citato appunto da Croce: lo spagnolo conte di Monterey, viceré di Napoli, intorno al 1635, nutriva tutte le sue grazie per i comici, tanto che «conduceva volentieri con sé in gondola, alle quotidiane ricreazioni di Mergellina, il Coviello Buonuomo e il Pulcinella Calcese o Ciuccio; i quali, coi loro motteggi, poterono persino qualche volta echeggiare il malcontento popolare e produrre qualche bene: come quando, messosi il Monterey, sull’esempio dei suoi predecessori, a riscuotere per suo conto il terzo degli arrendamenti, ossia degli appalti di gabelle assegnati ai privati, andando un giorno quei due con lui in gondola e fingendo essi di litigare tra loro sopra non so qual punto, a un tratto il Coviello propose di chiamare un terzo a decidere la differenza, e il Pulcinella replicò che “terzi” non ce n’erano più, perché se li erano presi tutti Sua Eccellenza. Il Monterey rise e fece sospendere l’odiosa esazione».

Ma la maschera di Pulcinella andò perdendo nel tempo la sua

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forza di rappresentazione e ci fu un cambiamento di rotta, il teatro popolare diventava borghese e tra gli innovatori si affermò l’attore Eduardo Scarpetta. Croce – che aveva frequentato, amato, studiato il teatro – ebbe rapporti cordiali con Scarpetta fino a scrivere, nel 1899, la prefazione ad un libro dell’attore che si era rivolto a lui quale “storico dei teatri di Napoli”, e a difenderlo in tribunale in una vertenza giudiziaria contro Gabriele D’Annunzio. Quel che Croce scrisse nella prefazione alle memorie scarpettiana Dal San Carlino ai Fiorentini conferma l’impegno, la serietà e l’amore con cui il filosofo e storico guardava alle vicende di Napoli. Croce ricordava innanzitutto di avere sulla coscienza un grosso volume di ricerche sulla storia dei teatri di Napoli dal secolo XV a tutto il secolo XVIII, pubblicato una decina di anni addietro. E aggiungeva che «il sottoscritto anche di recente, stuzzicato dagli arzigogoli di un bravo archeologo tedesco, e tornando per poco a quegli amori giovanili, ha messo fuori una monografia sul glorioso personaggio di Pulcinella».

Croce si congratulava, poi, con lo Scarpetta «per queste Memorie, così divertenti pei lettori contemporanei, così utili ai curiosi futuri». E aggiungeva un esame di importanti aspetti culturali del teatro: «Napoli non ha avuto parte molto importante nella storia del teatro letterario di prosa in Italia. Essa non può vantare né la splendida fioritura della commedia italiana del Rinascimento, il primo dei teatri moderni, precursore ed educatore degli altri di Europa; né l’affermazione di realismo artistico del Goldoni con accanto la fantasiosa protesta di Carlo Gozzi, che la Venezia del settecento ci offre; né quel grido di riscossa dello spirito nazionale che fu la tragedia del piemontese Alfieri. Nel secolo XV, seguendo esempi venuti d’altre parti d’Italia, produceva rozze rappresentazioni sacre e fredde farse allegoriche e cortigiane; nel XVI, non ebbe se non pochi e sparsi e deboli scrittori di cose sacre, e solo nella seconda metà di quel secolo un commediografo d’ingegno, Giambattista della Porta, abile nella composizione, brioso nella forma, ma in fondo poco originale in quelle opere drammatiche, laddove originale fu come scienziato e inventore della camera oscura e del telescopio. Nel XVII, o ripetette con senile borbottio le situazioni e i caratteri della commedia cinquecentesca, o tradusse e guastò le opere geniali della contemporanea letteratura drammatica spagnola. Qual nome di autore nostro di tragedie, commedie e drammi possiamo pronunziare con vanto pel secolo passato e per la prima metà del presente? Certo potrei

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snocciolare parecchie decine di nomi, ma da bibliografo e da erudito, non da critico. Bisogna giungere al decennio tra il 1860 e il 1870 per trovare qualche autore drammatico napoletano che prenda posto nella storia generale del teatro in Italia; ma in quel tempo spariscono anche le condizioni che rendevano opportuno di parlare dei teatri delle varie parti d’Italia come distinti tra loro. L’importanza che Napoli - sottolineava Croce - non ha avuta nel teatro letterario l’ha avuta invece nella commedia popolare e dialettale, nell’opera buffa, nelle rappresentazioni all’improvviso, negli attori o nei personaggi comici che ha messo in circolazione. E già nel secolo decimoquinto accanto alla farsa allegorica sorgeva la farsa cavaiola, e il personaggio del cavaiolo era accolto nelle corti e sulle piazze del resto d’Italia. Sulla fine del Cinquecento e ai primi del secolo seguente, fondato il teatro pubblico, nascevano qui in folla e a gara i Covielli, i Pascarielli, i Policinelli, gli Scaramuccia e tanti altri personaggi che, incarnati da attori quali Silvio Fiorillo, Andrea Calcese, Ambrogio Buonuomo, Tiberio Fiorino, portarono per tutt’Italia e anche all’estero la giocondità, i balli, le canzoni e la fantasia satirica napoletana. “Lazzi alla napoletana e soggetti alla lombarda” era il proverbio che allora correva tra i buongustai di commedia; e si voleva dire che se l’invenzione e la disposizione del dramma meglio si lavoravano dagli attori dell’alta Italia, nel dialogo e nelle trovate mimiche valevano più i napoletani. La vita del popolo era ritratta, e non sempre burlescamente ma talora con serietà e con certa vena di affetto di passione, nell’opera musicale dialettale e nella commedia letteraria in dialetto. Ora, nel teatro nel quale si venne accentrando il meglio di siffatte recite di ispirazione popolare, il “San Carlino”, questo volume di Memorie contiene, con ricchezza di particolari e impressioni dirette e personali, la storia degli ultimi tempi. Storia tanto più attraente in quanto l’autore di esse non è stato solo testimone e collaboratore dell’arte degli ultimi comici del San Carlino, ma anche un rinnovatore fortunato che ha saputo espellere da quell’arte elementi invecchiati e aggiungervene altri vivi e freschi. Si tratta, in queste Memorie, di un periodo, per così dire, ‘critico’ del teatro popolare napoletano, narrato per bocca di uno degli autori principali della ‘crisi’».

Dopo di aver sottolineato le migliori «di quelle sue abilissime riduzioni, che spesso s’avvantaggiano sugli originali e sempre li rinnovano, trasportandoli nell’ambiente partenopeo», Croce arrivava ad una gustosa conclusione: «Badi lo Scarpetta – voglio dargli un

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saggio delle noie che potrà avere dai posteri – gli eruditi faranno allora diligenti confronti tra le sue prime e le seconde Memorie, cercando il pelo nell’uovo e investigando semmai vi fossero tra le une e le altre divergenze in qualche particolare. Precursore di quegli eruditi futuri, di divergenze ne ho già scoperto io una – una sola, ma grave – proprio nelle rispettive prime pagine dei due volumi, e tale che mostra che egli comincia ad avere (posso dirlo?) la civetteria di scemarsi gli anni. Perché, come mai sedici anni fa, nel 1883, stampava di esser nato nel 1853, e ora stampa di esser nato nel 1854? Lo storico futuro, insospettito, andrà a frugare nei registri dello stato civile, e chissà che non scopra che nessuna delle due date è la vera e che Eduardo Scarpetta nacque nel 1852? E ne dedurrà che voi che ridevate così bene di ogni cosa, non sapevate ridere, nemmeno voi, del tempo che vola!…». Era l’anno 1890.

Ventitré anni dopo Scarpetta tornò da Croce annunciandogli la ristampa delle sue Memorie con l’aggiunta di nuovi capitoli e gli chiese un’aggiunta alla vecchia prefazione. Croce scrisse poche righe, ricordando in particolare la storia del processo per la parodia della Figlia di Jorio, nel quale fu perito di difesa, insieme con Giorgio Arcoleo (come narrava lo stesso Scarpetta nel volume), ed in particolare sottolineò un significativo dettaglio di una seduta in tribunale: «Ricordo che quel giorno sedeva tra i periti di accusa un buono e dotto professore nostro amico, il quale sostenne nel suo discorso la tesi alquanto temeraria che “ogni parodia è plagio”; e ne seguì questo spunto di dialogo. “Il professore (disse lo Scarpetta, volgendosi a lui, nel rispondere al tribunale), il professore qui afferma che la parodia è plagio e non è lecito farne. Professore, noi abbiamo parodiato persino Dante!”. – “Ma Dante (ribatté l’altro) è morto”. – “Professore, per me Dante non è morto mai!”. Chi rimase male fu l’amico professore, che si trovò non solo sorpassato nello zelo per Dante, ma accusato di lesa ortodossia dantesca».

Ma vediamo nel dettaglio come si svolse la questione dell’accusa di D’Annunzio contro Scarpetta. Poiché l’opinione pubblica era sfavorevole all’attore, e i letterati e giornalisti tutti parziali per D’Annunzio (in particolare Roberto Bracco e Salvatore Di Giacomo), Croce spontaneamente si offerse di difendere l’attore comico contro quello che gli pareva un sopruso; e si unì nella perizia di difesa Giorgio Arcoleo. Fu presentata al Presidente e ai Giudici dell’8° Sezione del Tribunale di Napoli una breve relazione, il 27

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ottobre 1907. Vi si leggeva tra l’altro: «La domanda che ci viene rivolta, è: se, tenute presenti le circostanze risultanti dagli atti, e fatto il confronto tra la Figlia di Jorio del D’Annunzio e Il figlio di Jorio dello Scarpetta, possa dirsi che questi abbia commesso reato di contraffazione, mercé rappresentazione e riproduzione abusiva; o se egli invece si sia mantenuto nei limiti di una parodia, non vietata dalle leggi e ammessa da tutti i popoli e in tutti i tempi. E noi, eseguito il confronto ed esaminati gli atti, non dubitiamo di rispondere nel più preciso modo negativo alla prima parte della domanda, e nel più reciso modo affermativo alla seconda. Contraffare un’opera d’arte non può significare altro se non appropriarsene l’effetto artistico e poetico, sia col tradurla e ridurla, sia col mutare qualche nome o qualche particolare, sia con altri espedienti, che possano mai escogitarsi, dello stesso genere; sempre mirando a sostituire, con l’opera così camuffata e alterata, l’opera originale, e dando luogo per tal modo ad una vera concorrenza sleale».

I periti difensori sottolineavano alcuni aspetti fondamentali della vertenza: «La contraffazione, - la quale, per le forme ingannevoli onde si riveste, non sempre può essere colpita dalla legge, - consiste, dunque, nel mutare, se questo giova, in maggiore o minor misura, lingua e particolari, serbando lo spirito dell’opera. La parodia, invece, può serbare moltissimi particolari, e persino quasi integro in apparenza il linguaggio dell’opera parodiata; ma ne cangia sempre lo spirito animatore. Il criterio distintivo dei due fatti è perciò nettissimo; e non vale, per determinare se un’opera sia contraffazione anziché parodia, mettersi a cercare i particolari, che in quell’opera si trovino, simili all’originale, e a compitarne il numero. La ricerca da fare è, invece, se lo spirito animatore o il tono dell’originale sia stato o no cangiato: di tragico in comico, di serio in ridicolo, di triste in giocondo. Che questo cangiamento si abbia di fatto nel Figlio di Jorio dello Scarpetta, in relazione alla tragedia pastorale del D’Annunzio, sembra a noi cosa non dubitabile. Non solo il titolo delle due opere è diverso, ma è diverso il sesso dei protagonisti, e diversi i personaggi, con la stessa radicale differenza di sesso, che basta da solo a cangiare sostanzialmente idee, affetti, linguaggio, azione. Diverso è l’ambiente, saturo di tradizioni selvagge, di paure mistiche, di pregiudizi religiosi, di forze brutali, che dà rilievi e contrasti violenti sopra uno sfondo scuro e tragico, nell’opera del D’Annunzio: laddove, in quella dello Scarpetta, si trasforma o deforma in una serie volgare di equivoci, di

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sorprese, di pettegolezzi, nei quali prevale il trivio, che vuol essere comico sempre, con l’unico intendimento di destare riso, non pietà. Diversa è la fine, che è una catastrofe nell’opera dannunziana, e diventa una lieta soluzione nell’opera scarpettiana. Si aggiunga la forma dialettale, che in questa è adoperata non già a fornire l’equivalente del pathos dannunziano, ma a darne la caricatura. Se tutto ciò non bastasse a far conoscere nel caso presente la parodia, basterebbe considerare che il lavoro dello Scarpetta è quello di un autore-attore, ed di un attore radicalmente comico, e capo di compagnia comica, per persuadersi che era del tutto impossibile, in questo caso, perfino il tentativo di una contraffazione. La tragedia del pensiero, dell’amore o della vita, Amleto, Otello e Faust, si capovolge e diventa commedia, anzi farsa, se viene rappresentata dallo Scarpetta: l’attore, in questo caso, dà inevitabilmente, anche contro sua voglia, la fisionomia comica dell’autore. Perciò qui manca del tutto la possibilità della frode, dell’inganno, della concorrenza: e il lucro stesso viene attinto a fonte ben diversa, così rispetto al lettore come allo spettatore».

I difensori di D’Annunzio asserivano che «non esistono nell’arte teatrale precedenti di parodie ordite, condotte e sceneggiate come Il figlio di Jorio dello Scarpetta. E noi potremmo ben rispondere che esistono, e proprio nella letteratura teatrale napoletana, e sono, per esempio, le parodie dei drammi metastasiani, la Didone, il Demetrio, l’Artaserse, fatte da Michele Zezza nel 1834, ’35 e ’36, coi titoli: Metastasio a la Conciaria, zoè l’Artaserse acconciato a usanza nostra; Metastasio a lu Mandracchio, zoè la Dedone abbandonata; Metastasio a lu Mercato, zoè lu Demetrio co la marca de bazzareota: parodie nelle quali si seguono i drammi del Metastasio non solo scena per scena, ma quasi verso per verso. Ma, se anche non ci fosse tale precedente – affermavano Croce e Arcoleo - noi crediamo che sarebbe arbitrario restringere il concetto di parodia a un tipo particolare senza tener conto delle diverse situazioni e necessità, in cui può essersi trovato il parodista di un’opera. Nel caso della Figlia di Jorio, lo Scarpetta aveva innanzi un’opera di argomento e forma rara e ricercata, che si svolge in un ambiente di usi, sentimenti e tradizioni recondite o ignote, e dove si fa uso di parole nomi nuovi e non facili, e perciò egli si è sentito costretto a riprodurne i punti salienti, affinché fosse possibile allo spettatore, che ride, il chiamo del dramma, che aveva destato invece terrore e pietà».

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Il processo, trascinatori per quattro anni, terminò nel maggio del 1908 con la piena assoluzione dello Scarpetta, avendo il Tribunale accolto le conclusioni dei periti Arcoleo e Croce.

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LA STORIA DEL REGNO DI NAPOLI

Nel 1925 uscì la Storia del Regno di Napoli, primo compiuto esempio di storiografia etico-politica. Croce aveva cominciato a raccogliere materiale fin dagli anni 1896-98 ma, attratto da altri argomenti, mise da parte il progetto «e fu buona sorte – annota Alfredo Parente nel volume Croce per lumi sparsi – perché Croce tornerà su quell’idea quando avrà compiuto il suo lungo viaggio attraverso la provincia filosofica e la prima densa esperienza etico-politica che gli consentiranno di scrivere la Storia del Regno di Napoli da alcuni studiosi considerata il suo capolavoro storiografico».

Resta fondamentale il giudizio che ne diede Giuseppe Galasso in un acuto saggio pubblicato nel 1963 nella Rivista Storica Italiana (allora edita a Napoli dalle Edizioni scientifiche italiane). Galasso scriveva che «il grande albero della Storia crociana ancora vigoreggia, vegeto e robusto, quale unica ricostruzione d’insieme della storia meridionale; e le ripulse, le condanne e gli studi degli ultimi anni sembrano averne semplicemente tagliato dove qualche ramoscello e dove anche qualche prezioso germoglio»; ed aggiungeva che quella Storia poneva «una serie di problemi che da più articolati e complessi svolgimenti potrebbero ricevere più soddisfacenti – anche se, ovviamente, mai definitive – risposte».

Ma qui interessa trattare, anche se brevemente, solo qualche aspetto riguardante strettamente Napoli, e precisamente la rivolta di Masaniello, l’opera di Carlo di Borbone, la rivoluzione del 1799, la fine del Regno e accennare a quel particolare tipo di plebei che furono i lazzaroni, che ebbero in due fasi addirittura un ruolo ‘storico’ sia pure in senso negativo. Fermiamoci, innanzitutto, su Carlo di Borbone, sottolineando peraltro un caso significativo. A questo re aveva dedicato un volume il grande storico Michelangelo Schipa (Il Regno di Napoli al tempo di re Carlo di Borbone ed. Pierro, 1904), e Croce lo aveva recensito con serenità, facendo però varie riserve sul giudizio globale che lo Schipa dava del re borbone. Ma i rapporti erano sempre cordiali, la stima profonda e Croce dedicò la Storia del Regno di Napoli proprio “a Michelangelo Schipa, che l’intera vita ha consacrata a illustrare la storia del Mezzogiorno d’Italia”, dedica non soppressa – rileva Giuseppe Galasso – «ma intenzionalmente datata per metterne in rilievo l’appartenenza a un periodo precedente, nelle

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edizioni posteriori a seguito del ralliement dello Schipa al fascismo». Ecco, in sostanza, come Croce giudicava re Carlo, recensendo il

libro di Schipa: «Il risorgimento dell'Italia meridionale non accadde in quel tempo: spetta ad altre epoche, anzi, in gran parte, aspetta: re Carlo non fu grand’ uomo, né grande statista, né grande militare, né re filosofo. E lo Schipa mette in mostra, servendosi di frequente anche dell'arma dell'ironia, il fallimento dell' opera di quel governo. Senonché, in altro luogo egli stesso osserva benissimo che venticinque anni sono ben corto spazio nella vita di un popolo: osservazione che doveva indurlo, mi sembra, a non applicare una misura troppo alta al movimento progressivo di quei venticinque anni… Non bisognava attendersi né che le vecchie classi sparissero o mutassero fisionomia, né che l'agricoltura, il commercio, la forza politica vigoreggiassero rapidamente. Ma il racconto dello Schipa ci mostra che il Regno di Napoli ricevette il gran beneficio dell' indipendenza e cessò il secolare sfruttamento di esso, che era continuato anche nel periodo austriaco; che si mise qualche ordine alle finanze e si accrebbero le pubbliche entrate; che si creò una piccola marina e un non piccolo esercito, il quale fece buona prova a Velletri, e dette al nuovo re e al nuovo stato la coscienza della forza, la fiducia, la serenità; che si concluse un concordato con Roma, il quale in certa misura frenò le immunità e gli arbitri del clero e cominciò a sottoporlo alle imposte; che si tentò l’unificazione della legislazione, sebbene, per allora, non si riuscisse; che si cercò di promuovere il commercio col negoziare trattati e con l'istituire un Supremo Magistrato del Commercio; che s'iniziò il riscatto delle rendite pubbliche dalle mani degli “arrendatori”, con la Giunta delle ricompre; che si fondarono grandiose opere di beneficenza sociale come l'Albergo dei Poveri. Nel campo della cultura, fu riformata l'Università e collocata in un adatto edifizio; si cominciarono gli scavi archeologici importantissimi della regione vesuviana; architetti e pittori di grido ebbero agio di lavorare a monumenti, che ancora ammiriamo; Napoli fu una delle sedi principali dell'arte musicale, alla quale fu dato un magnifico teatro, il San Carlo. E si potrebbe continuare».

Ma fermiamoci brevemente su Masaniello, che «fu uno strumento d’altri e divenne presto d’impaccio», e che da molti stranieri fu visto poi con simpatia («si coniarono in Europa medaglie che portavano nell’un verso l’effige di Cromwell e nell’altro quella di Masaniello»). Croce esamina a fondo le vicende e conclude che «la rivoluzione detta

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di Masaniello finì, insomma, come sempre le rivolte proletarie, prive di sodi e attuosi concetti politici e perciò incapaci di intima resistenza e di perseveranza». Ma – aggiunge Croce - «la repressione di quel tumulto segnò insieme il tracollo del baronaggio napoletano, perché il governo spagnolo si avvide che i baroni avevano pari o maggior bisogno del suo sostegno di quel che esso avesse dell’aiuto loro; che la forza della plebe e dei comuni era impetuosa e veemente, e andava tenuta in conto; e che a ribellare il popolo avevano certamente concorso gli stolti espedienti finanziari e le odiose gabelle fatte imporre dai viceré, ma altrettanto le prepotenze e l’egoismo economico della nobiltà».

Sulla Rivoluzione napoletana del 1799, nella ricorrenza del primo centenario della repubblica napoletana, era stato pubblicato un Albo a cura di Croce, Ceci, d’Ayala, Di Giacomo, e fu dato a Croce l’incarico di raccogliere e ordinare il materiale illustrativo e di scrivere quasi tutte le note (ben 175) ricche di documenti e notizie inedite. Gli avvenimenti del 1799 avevano attratto l’attenzione di Croce fin da quando aveva 21 anni, e vi aveva dedicato alcuni saggi, unendo poi in un volumetto quelli relativi ad Eleonora de Fonseca Pimentel, a Vincenzio Russo e a Luisa Sanfelice, che costituiranno poi la prima edizione dell’opera definitiva La Rivoluzione napoletana del 1799. Biografie. Racconti. Ricerche. Fu ripubblicata da Bibliopolis, in occasione del bicentenario per iniziativa dell’Università Federico II, in uno splendido volume stampato dall’Arte Tipografica, con una presentazione di Fulvio Tessitore, il quale sottolineava come molti problemi connessi agli studi crociani sul 1799 fossero «le grandi questioni della nostra vita contemporanea, questioni non ancora chiarite e risolte».

Tessitore fa notare, tuttavia, che le tesi di Croce sulla storia di Napoli e sul 1799 «hanno subìto non poche revisioni e critiche, talora aspre e radicali, pur quando non infondate». Tra i critici vorrei sottolineare il nome di Carlo Zaghi, l’ultimo grande studioso del giacobinismo italiano, napoletano di adozione, scomparso di recente nella sua Ferrara. Ha dedicato sei volumi al giacobinismo italiano e l’ultimo riguarda la Rivoluzione napoletana. Ho avuto la fortuna di poter pubblicare uno scritto di Carlo Zaghi nel periodico Iter parlamentare: gli avevo chiesto un articolo che puntasse soprattutto sulle difficoltà di intese per realizzare le prime riforme, e Zaghi fece una precisa scelta mandandomi un testo su Vincenzio Russo (non

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saprei accettare l’attuale scrittura Vincenzo!) come figura “più emblematica ed esaltante della rivoluzione partenopea”, e in una lettera aggiungeva: «L’articolo che le ho mandato corregge l’interpretazione dei miei due amici più cari: Croce e Galasso». Un’affermazione sulla quale si dovrebbero pronunciare gli studiosi specifici, ma che confermano che sul testo di Croce non mancano, anche ora, riserve. Si potrà controllare il vero scritto di Zaghi? Purtroppo i sei volumi consegnati all’Istituto Storico per l’età moderna e contemporanea di Roma giacciono in qualche cassetto e non si sa bene che fine faranno… Tuttavia il testo di Benedetto Croce rimane fondamentale e vivo, e vi traspare tutta la passione per i protagonisti di quella eroica vicenda.

Nella Storia Croce dedica a quell’episodio pagine ricche di pathos, elenca i vari patrioti che avevano preparato la rivolta notando tra l’altro che «erano tra essi le legioni dei seguaci e degli scolari del Giannone e del Genovesi, gli scienziati e letterari ed economisti di Napoli, i giovani e i provetti». Mancava il Filangieri, che era morto alcuni anni prima, ma tra i giacobini comparvero la sorella di lui e la vedova coi due giovinetti figliuoli. Numerosi particolarmente gli studenti dell'università, e più ancora delle scuole private, dove maggiore era la libertà degli spiriti; e, per mezzo degli studenti, le fila di quelle società si allungavano nelle province. Tra i più fervidi c’erano frati, sacerdoti, vescovi, anch'essi quasi tutti noti in scienza e letteratura. L'aristocrazia napoletana vi rifulgeva coi nomi delle sue più antiche famiglie, Carafa, Caracciolo, Pignatelli, Filomarino, e poi ancora coi Riario, i De Marini, i Serra, i Doria.

Croce sottolinea: «Come nel seicento primi in Italia gli ingegni napoletani accolsero il pensiero di Cartesio, così sul cadere del settecento, primi in Italia, cioè, fin dal 1792, essi si misero in corrispondenza con le società patriottiche francesi, e i più giovani e ardenti riformarono le loro logge massoniche in clubs giacobini, tramando una cospirazione per rovesciare la monarchia e introdurre istituzioni democratiche, repubblica o, in ogni caso, libertà. “I giacobini di Napoli (scrisse uno di quei giovani, il Mattei, che morì sul patibolo nel 1799) furono i primi che dettero il grido all'Italia sonnacchiosa. Quando altri appena ardiva pensare, quando pareva ancor dubbia la sorte della Francia medesima, essi, giovani, inesperti, privi di mezzi, ma pieni d'entusiasmo per la libertà, d'odio per la tirannia, tentarono un' impresa difficile, vasta, perigliosa, che, se non

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fosse andata a vuoto, li avrebbe resi immortali e felice l'Italia”. La cospirazione del 1794 fu scoperta e sventata: seguirono carcerazioni, supplizi, esili, e, mentre quelli che restavano nel paese fremevano e si preparavano, aspettando gli eventi, gli esuli napoletani si spargevano per l'Italia, segnatamente in Lombardia, in Liguria e poi a Roma, e prendevano parte operosa nelle repubbliche che le armi francesi vi andavano suscitando. “L'Italia (diceva un altro di quei primi giacobini, il Lauberg) ha trovato tanti piccoli vulcani in quanti napoletani ha raccolti nel suo seno, né tra i fasti della sua rigenerazione l'ultimo luogo occuperanno i figli del Sebeto”… Quei giacobini napoletani, uniti coi loro fratelli di tutta Italia, trapiantarono in Italia l'ideale della libertà secondo i tempi nuovi».

Una fiera condanna contro la reazione del Borbone: «Una reazione che forse non ha pari nella storia, perché non mai come allora in Napoli si vide il monarca mandare alla morte e agli ergastoli o scacciare dal paese prelati, gentiluomini, generali, ammiragli, letterati, scienziati, poeti, filosofi, giuristi, nobili, tutto il fiore intellettuale e morale del paese». E concludendo la sua Storia, Croce scrive parole di altissimo valore morale: «Ricercando la tradizione politica nell’Italia meridionale ho trovato che la sola di cui essa possa trarre intero vanto è appunto quella che mette capo agli uomini di dottrina e di pensiero, i quali compierono quanto di bene si fece in questo paese, all'anima di questo paese, quanto gli conferì decoro e nobiltà, quanto gli preparò e gli schiuse un migliore avvenire, e l’unì all'Italia. Benedetta sia sempre la loro memoria e si rinnovi perpetua in noi l'efficacia del loro esempio!»

Sia nella rivolta di Masaniello sia nella reazione del Borbone fu negativamente notevole il ruolo dei lazzari, che Croce in uno studio specifico sull’argomento definì: «l’infima classe dei proletari di Napoli, quella classe che i sociologi moderni contrappongono al proletariato industriale, del quale infatti forma spesso l’antitesi e talvolta l’avversaria, col nome di “proletario cencioso” (Lumpenproletariat)». Soprattutto all’estero si sottolineò spesso questa presenza dei lazzaroni e perfino il maggiore rappresentante dell’idealismo tedesco, Hegel, se ne interessò: «La povertà in sé non trasforma alcuno in plebe; questa è determinata, soltanto dal sentimento che si connette con la povertà, dalla ribellione interna contro i ricchi, la società, il governo, eccetera. Inoltre è collegato a questo il fatto che l’uomo, il quale è diretto dall’accidentalità, diviene

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frivolo e pigro come, per esempio, i lazzaroni a Napoli». In un libro della signora Dora Marra Beth, l’attenta bibliotecaria di Croce (Conversando con Croce su alcuni libri della sua biblioteca), sono riportate alcune annotazioni che il filosofo faceva su vari libri acquistati e in proposito è interessantissima proprio la nota che Croce apponeva all’opuscolo Neapel un die Lazzaroni (Frankfurt und Lipzig 1700) che dice: «E’ una sorta di ‘excerpta’ di tutto ciò che fino a quel tempo si era stampato sull’argomento. All’opuscolo va unita un’incisione rappresentante in caricatura l’armamento dei lazzaroni: sfilano una schiera di straccioni, dei quali uno reca una bandiera con l’effige di un teschio e la scritta “Evvia il Santo Januario il nostro Generalissimo” (sic); altri portano sulle spalle la statua del santo che tiene preso con mano, a guisa di lanterna, il suo capo reciso (quasi fosse San Dionigi!); altri suonano veri strumenti. Ai lati balla un Pulcinella con un coltello insanguinato». Ma Croce aggiunge una notazione che è una acuta puntura polemica, una sorridente vendetta: «Curioso peraltro è notare che quei lazzari rassomiglian fisicamente in modo mirabile ai villani tedeschi dei dipinti Luca Cranach e dello Holbein!». In sostanza questa specie di ‘subumani’ non era caratteristica solo di Napoli!

Per concludere sul contributo di Croce alle ricerche sulle vicende del Regno, vorrei ricordare l’interessamento di Croce perché tornasse a Napoli l’Archivio Borbonico che era in possesso del vecchio principe, già “pretendente al trono”, Pio Ferdinando duca di Calabria, figlio del conte di Caserta e nipote quindi in linea collaterale dell’ultimo re di Napoli Francesco II. Le trattative per l’acquisto dell’Archivio riservato dei Borbone – o meglio di quella parte di esso, la più preziosa dal punto di vista storico – che fu portato via nell’esilio da Francesco II, erano iniziate nel 1938 tra Riccardo Filangieri, sovrintendente dell’Archivio di Stato di Napoli, e la principessa Urraca, figlia del duca di Calabria, dopo che Mussolini aveva promesso il concorso statale di due milioni. Ma la guerra bloccò tutto e i contatti furono ripresi solo dopo una lettera personale di Benedetto Croce al presidente Einaudi. Ci fu una visita del conte Filangieri in Baviera per un esame sommario dell’imponente massa archivistica, e il contratto fu stilato a Napoli l’11 settembre 1951 in Prefettura. Prezzo: 80 milioni con la sola ritenuta del 3 per cento dell’IGE. Difficoltà burocratiche, finanziare e doganali fecero perdere due anni e solo nell’agosto 1953 settantasette casse sigillate arrivarono per

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ferrovia a Napoli e furono chiuse nella sala reale della sede dell’Archivio. Croce, morto l’anno prima, non aveva potuto vedere conclusa una iniziativa alla quale aveva validamente cooperato.

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L’ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI STORICI

Fui tra i primi allievi dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici fondato da Benedetto Croce nel 1947 e ricordo con commozione la cerimonia d’inaugurazione in palazzo Filomarino con l’intervento del filosofo. Leggendo la Premessa allo statuto, Croce notò tra l’altro, che «nelle facoltà universitarie (e non diciamo solo di quelle italiane) la preparazione all'opera dello storico si compie in relazione quasi esclusiva con la filologia, che comprende l'apprendimento delle lingue antiche e moderne e dell' archeologia e della paleografia e di altrettali specialità, aggiungendo talvolta la raccomandazione agli scolari di seguire qualche corso di economia e di giurisprudenza. Ma affatto trascurato è il rapporto sostanziale della storia con le scienze filosofiche, della logica, dell' etica, del diritto, dell'utile, della politica, dell'arte, della religione, le quali sole definiscono e dimostrano quegli umani ideali e fini e valori, dei quali lo storico è chiamato a intendere e narrare la storia… Da codesta unilateralità e deficienza di preparazione vengono fuori filologi ed eruditi, diligenti ricercatori e indagatori di documenti e costruttori di dotte cronache, i quali, quando sono messi alla prova di interpretare e giudicare pensieri, azioni e avvenimenti, si sentono inferiori all'assunto e, o se la cavano con convenzionali e triviali riflessioni, o applicano, seguendo la qualsiasi moda, concetti e sistemi composti in servigio di tendenze di parte. Ora l'Italia, pel suo passato e pel suo presente culturale, meglio forse di ogni altro paese è atta a risanare l'unilateralità e la deficienza che abbiamo descritte; e noi speriamo che le nostre stesse facoltà universitarie verranno via via integrando l'utile opera, precipuamente filologica, che esse seguono e che da noi è adottata e difesa come strumento indispensabile di lavoro, e daranno una parte delle loro forze all' altra opera che è da promuovere e che è del pari necessaria, e certo più urgente, sia perché più difficile e sia perché troppo in passato negletta. Ma, per intanto, giova che intervenga il concorso dei singoli volenterosi; e appunto da un gruppo di questi, che ha trovato consenso ed aiuto così da parte di privati come di enti pubblici, sorge il presente Istituto».

Croce mise in evidenza che l’Istituto sorgeva «nella città in cui Giambattista Vico, in un tempo di grandiosi e rapidi progressi delle

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scienze matematiche, fisiche e naturali, per il primo levò la voce ad ammonire che se queste discipline, volte a soddisfare i bisogni pratici degli uomini, mancano di intima verità perché costruite su convenzioni, ciò solo che l'uomo deve e può veramente conoscere è la storia sua, perché l'ha fatta lui e in ciò egli è simile a Dio, che conosce il mondo naturale per averlo creato; e con la scorta di questo pensiero meditò la Scienza Nuova. E questo Istituto trova la sua sede in un antico palazzo napoletano, le cui scale egli soleva ascendere per recarsi a esercitare il suo mestiere d'insegnante in una casa principesca, dove altresì, in un'accolta di gentiluomini e di letterati, mentre elaborava la prima trattazione sistematica della Scienza Nuova, anticipò le sue discoverte. E questa medesimezza di luogo e questi ricordi sono di fausto auspicio, che innalza il nostro animo nel sentimento della prosecuzione di un compito sacro, a noi trasmesso come per domestico retaggio». Croce concludeva ribadendo le intenzioni tese «al rinvigorimento e al progresso, in Italia e oltre l'Italia, del pensiero storico, premessa di seria e feconda vita sociale e politica. Intenzioni che crediamo buone, e tali da meritare che la fortuna le assista nell'opera alla quale ora si dà avviamento».

Ma, come era facile prevedere, emersero ben presto, soprattutto dopo la morte di Croce, opinioni contrastanti sulle finalità e la prassi attuata nell’Istituto. Vivo ancora il filosofo – come risulta dal volume La scuola di Croce di Elsa Romeo – c’era una certa tensione soprattutto verso l’insegnante che più specificamente trattava i temi filosofici, Alfredo Parente (altri docenti erano per la storia antica Giovanni Pugliese Carratelli e per la storia della letteratura Achille Geremicca). Significative le dichiarazioni dell’attuale direttore dell’Istituto, Gennaro Sasso: «A insegnare la filosofia crociana avrebbe dovuto essere naturalmente lo stesso Croce… Ma Croce era troppo in là con gli anni per assumersi un compito che non era stato mai il suo. E per questo forse ritenne che ad assolverlo potesse essere Parente, che conosceva bene il suo pensiero e, per conto suo, pensava rigorosamente all’interno del suo quadro categoriale. Credo che fosse, allora, una scelta inevitabile e obbligata. Certo è però che, in molti casi, il contatto coi giovani che provenivano da altre esperienze, che magari conoscevano Croce di seconda mano (che è il modo peggiore di conoscere) e che, non ritrovandosi nei suoi discorsi, tendevano alla polemica, non fu positivo. Sentendosi aggredito, Parente si faceva, a sua volta, polemico…». Anche un altro allievo, Giuseppe Giarrizzo,

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mette in evidenza i contrasti con Parente: «Un giorno Alfredo Parente, per spiegare a dei giovani cosa facesse l’unità di un libro di storia, ripropose scolasticamente la tesi di Croce; la nostra reazione lo sconcertò e fece diretto appello, come spesso gli accadeva, a Croce». Ma, nonostante certi contrasti – in realtà inspiegabili perché la preparazione specifica e genericamente culturale di Alfredo Parente era molto al di sopra di certe critiche – nell’Istituto si lavorava con zelo e dall’esperienza di studio nascevano spesso lavori di rilievo che venivano pubblicati negli Annali.

Giovanni Pugliese Carratelli, che fu alla testa dell’Istituto per vari anni, sottolineava, nel ventennale della fondazione, che l’Istituto stesso «serba inalterato il suo carattere di libera scuola, aperta a quanti diano chiaro segno d’essere chiamati agli studi storici ed animati da autentico interesse per la storia, quali che siano le loro ideologie. Di questo infatti può vantarsi l’Istituto, che né i giovani italiani e stranieri che hanno concorso in tanti anni alle borse di studio, né i maestri che li hanno avviati all’Istituto hanno mai avvertito nell’attività di questo intolleranze o preclusioni ideologiche».

Ma critiche all’istituzione vengono ugualmente: nel primo capitolo del singolare volume Il capitale d'avventura. I centri della cultura in Italia (1974) Federico Orlando fornisce una sintesi assai persuasiva dei fini e dei risultati raggiunti dall'Istituto italiano per gli studi storici, da lui definito nel titolo “cittadella della ragione nel con-formismo delle mode”. Orlando osserva che «il livello degli allievi… è discontinuo: forti personalità giovanili si alternano a elementi mediocri, cultori di studi storici si affiancano a contestatori che non ne sono per niente interessati; costoro nel 1971 non gradirono Braudel, uno dei maggiori storici contemporanei, perché non allineato con la sociologia marxista e benché sociologizzante sul piano storico, mostrando così una incompetenza che fa temere perduti i tempi in cui gli allievi si chiamavano De Caprariis, Matteucci, Violante, Franchini, Romeo. Spesso la preparazione delle nuove leve è soltanto lo specchio del disordine portato nella vecchia scuola da riforme prive di nuovi contenuti: le preparazioni, quando ci sono, sono strettamente specia-listiche, sicché chi all'Università abbia studiato storia degli Aragonesi può arrivare all'Istituto senza sapere nulla del Risorgimento; e più spesso senza aver letto un rigo di Croce».

Strettamente legata all’Istituto è la ricchissima Biblioteca di Croce, eretta in ente morale nel dicembre del 1956. Ottantamila

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volumi e cinquantamila opuscoli raccolti amorevolmente da Croce sono rimasti in sette stanze del palazzo Filomarino a disposizione degli studiosi. Ma anche questi libri avevano dovuto ‘superare’ numerosi travagli. Il giornalista Tommaso Martella, del Corriere della Sera, che si incontrò con Croce nel 1945, ne parlò direttamente con il filosofo: «Dopo qualche minuto di anticamera, passato col batticuore, lo scrivente ebbe la sorpresa di vedere Croce che, uscito dalla porta dello studio, gli andava incontro a passettini rapidi, gli stringeva affabilmente le mani e lo faceva accomodare in una poltrona dello stesso studio, di fronte a lui che s'era seduto in un'altra. L'imbarazzo passò subito perché Croce era la semplicità fatta persona; chiestogli quanti fossero i libri giacenti ancora nei sotterranei del Museo Nazionale, si mise a sorridere e raccontò argutamente che aveva temuto per la loro sorte assai di più con l'arrivo e la permanenza delle truppe alleate che non quando la città era martoriata dai continui bombardamenti. Già, perché alcuni soldati americani prendevano i loro pasti in quegli stessi sotterranei; e delle casse in cui i libri erano racchiusi si servivano come tavole da pranzo, lasciando che i brodi e i sughi colassero per gli interstizi a rovinare, più o meno irrimediabilmente, le edizioni rare, i volumi introvabili. Col cuore in tumulto, non appena seppe del pericolo che correva parte della sua biblioteca, s'affrettò a scrivere al generale Clark, manifestandogli tutta la sua più fiera preoccupazione che, peraltro, non ebbe modo di prolungarsi molto perché il comandante americano, di lì a un paio di giorni, mise a disposizione di Croce alcuni autocarri militari per mezzo dei quali le casse dei libri ritornarono felicemente al palazzo di Trinità Maggiore, salve dai sughi e dai brodi delle truppe alleate. Qualche cassa era ancora da riaprire e Croce, ormai trasportato in pieno da quell'argomento prediletto, si alzò dalla poltrona, affettuosamente prese l'ospite sotto braccio e, felice, lo accompagnò in giro per le vaste stanze ripiene di libri fino al soffitto. Davanti a un solenne scaffale, montò su una scaletta e, a colpo sicuro, trasse da un palco un volumetto, ridiscese e, sempre sorridendo, ne aprì la prima pagina per mostrarmi la firma d'un Benedetto Croce quindicenne. A quindici anni - disse - aveva acquistato il libriccino e s'era affrettato, con quella gioia che solo chi ama i libri può capire, a metterci la sua firma, come per un'affermazione di proprietà che nessuno ormai avrebbe più potuto contestargli. “Come vede - aggiunse, con una punta d'arguzia non priva di malinconia, facendo scorrere un dito sulla

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firma fatta con scolastica diligenza - scrivevo meglio allora che adesso”… Riprese a parlare dei suoi libri; anzi, per una seconda volta, ebbe la condiscendente amabilità di rialzarsi dalla poltrona per accompagnare di nuovo l'ospite in un altro degli stanzoni, dove con la felicità d'un ragazzo che ha un ghiotto segreto da svelare, trasse, ancora a colpo sicuro dall'imponente schieramento, un vecchissimo, rarissimo libro sul quale era caduto il discorso. “Questo - egli disse - l'ho trovato a 17 anni. Ecco, infatti, la mia firma e la data. Anche due anni dopo, come vede, ancora riuscivo a scrivere bene”. Tornò a sorridere con la consueta arguzia, mentre carezzava amorosamente sul dorso il prezioso volume».

L’Istituto Italiano per gli Studi Storici e la ricchissima, qualificatissima Biblioteca, costituiscono la più grande eredità che Benedetto Croce ha lasciato alla ‘sua’ amata Napoli.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

A Napoli Benedetto Croce ha dedicato alcuni volumi specifici, ed in particolare in ordine di tempo I Teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo (1891); La Rivoluzione Napoletana del 1799. Biografie, racconti, ricerche (1911); Storie e leggende napoletane (1919); Storia del Regno di Napoli (1925). Ma in numerose altre opere ci sono capitoli che trattano argomenti collegati a Napoli. Nelle indicazioni che seguono verrà citato l’anno della prima edizione dei vari volumi, ma va anche tenuto presente che gran parte dei testi inseriti in questi lavori erano già stati pubblicati in giornali, riviste, Atti accademici (tra gli altri Napoli nobilissima, Atti dell’Accademia Pontaniana, Archivio storico della provincia di Napoli, La Critica)

Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, 1911 - Giambattista Basile e il “Cunto de li Cunti” (commento all’edizione critica pubblicata dallo stesso Croce); Soggiorno di Miguel Cervantes a Napoli alla fine del Seicento; Studio su Pulcinella e la Commedia dell’Arte, in polemica col tedesco Albrecht Dietricht, che sosteneva la tesi della derivazione di Pulcinella dal teatro romano antico; Il tipo del napoletano nella commedia; Un descrittore di Napoli: Carlo Celano autore di una notevole guida della città per gli stranieri.

La letteratura della nuova Italia: saggi critici, 1914 - Saggi su Matilde Serao, Salvatore Di Giacomo, Francesco D’Ovidio, Giovanni Bovio; La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900.

La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, 1915 - La corte spagnuola di Alfonso d’Aragona a Napoli; Memorie degli spagnuoli nella città di Napoli; Alcuni artisti spagnuoli che lavoravano a Napoli; Un’osteria famosa di Napoli e una parola della lingua spagnola (l’osteria era quella del Cerriglio, parola derivata da un nomignolo spagnuolo affibbiato a soldati frequentatori di quella taverna).

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Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici, 1919 - La monografia “una famiglia di patrioti”, quella dei Poerio con riferimenti anche al marito di Carlotta, Paolo Emilio Imbriani; Le lezioni del De Sanctis nella sua prima scuola privata a Napoli.

Uomini e cose della vecchia Italia, 1927 - Il “paradiso abitato da diavoli”, riferendosi a Napoli con un proverbio scherzoso preso sul serio da alcuni stranieri tra cui il tedesco Adlerhold; Sentenze e giudizi di Bernardo Tanucci; La vita religiosa a Napoli nel Settecento; Maria Cristina di Savoia, regina delle Due Sicilie; Gli ultimi borbonici.

Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, 1931 - Donne letterate nel Seicento, tra le quali suor Orsola Benincasa di Napoli e Margherita Sarrocchi anch’essa napoletana; Sulla letteratura dialettale e i costumi napoletani (Giambattista Basile, Giulio Cesare Cortese, Francesco Antonio Giusto, Gabriele Fasano e considerazioni su alcune voci dialettali come ‘farinello’, ‘scuietato’, ‘mozzarella’; Shakespeare, Napoli e la Commedia napoletana dell’arte, con particolare riguardo a The Tempest.

Conversazioni critiche, 1932 - Villanelle napoletane; Il “Pentamerone” del Basile e le sue traduzioni; La poesia di Francesco Gaeta e altri scritti del poeta (suicidatosi a Napoli subito dopo la morte della madre).

Poesia popolare e poesia d’arte: studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento, 1933 - Saggi, tra gli altri, su Vittorio Colonna, sul Pontano e sul Sannazaro.

Varietà di storia letteraria e civile, 1935 - I “lazzari” negli avvenimenti del 1799; Il “linguaggio” dei gesti, come commento a un volume dell’archeologo Andrea De Iorio dal titolo “La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano”.

Vite di avventure, di fede, di passione, 1935 - Il marchese di Vico, Galeazzo Caracciolo, che abbandonò l’Italia, la moglie e sei figli, per professare il calvinismo a Ginevra; Isabella di Morra e Diego

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Sandoval de Castro, due poeti che si erano scambiati lettere d’amore e furono trucidati dai fratelli di lei.

La letteratura della nuova Italia, 1940 - Memorie e fantasie di artisti (tra i quali Domenico Morelli, Gioacchino Toma, Eduardo Dalbono); Storici (tra cui Raffaele De Cesare); Traduttori (tra cui Michele Kerbaker); Scrittori in dialetto (tra cui Ferdinando Russo), e ancora saggi su Edoardo Scarfoglio e Francesco Gaeta.

Poeti e scrittori del pieno e tardo Rinascimento, 1945 - Intorno alle parodie, in particolare la traduzione parodistica dell’Eneide del gesuita Nicola Stigliola in dialetto napoletano, alla parodia della Gerusalemme Liberata dovuta a Gabriele Fasano in napoletano, e quella dei primi libri dell’Iliade stesa nello stesso dialetto da Nicola Capasso; Letterati e poeti in Napoli sul cadere del Cinquecento e il sorgere del Marinismo (con particolare riferimento alla gara poetica celebratasi tra letterati napoletani in compianto della bellissima Maria d’Avalos, uccisa, insieme con l’amante Fabrizio Carafa, dal marito Carlo Gesualdo, autore di madrigali); Il cantastorie napoletano Velardiniello.

La letteratura del Settecento, 1949 - La “Cicalata” di Nicola Valletta, sul “fascino volgarmente detto iettatura”; Opuscoli e disegni giocosi dell’abate Galiani.

Varietà di storia civile e letteraria, 1949 - Servi di Dio, beati e santi napoletani, tra il Seicento e l’Ottocento; La Riconquista del Regno di Napoli nel 1799 e la politica del cardinal Ruffo; Don Gaspare Selvaggi, già giacobino, esule in Francia dove fu maestro di musica, rientrato a Napoli nel 1848 e a ottantacinque anni nominato prefetto della Biblioteca borbonica.

Aneddoti di varia letteratura, 1942 - Poesia volgare a Napoli nella prima metà del Quattrocento; Vedute della città di Napoli nel Quattrocento; Il primo descrittore di Napoli: Benedetto De Falco; I seggi di Napoli (Capuana, Nido, Montagna, Porto, Portanuova e del Popolo); Lodi di dame napoletane del Cinquecento; Recensione del libro di Ferdinando Russo sul poeta napoletano Velardiniello; Napoli, Roma e Venezia: paragoni di città italiane; Piedigrotta: l’origine della

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chiesa e della festa in una lettera aperta a Salvatore Di Giacomo nel settembre 1942 e curiosità storiche sulla citata festa nella vita e nella storia; Canti politici del popolo napoletano (da una canzone del 1432 ai canti composti nel 1860 contro Francesco II di Borbone e Maria Sofia); Stampatori e librai napoletani nella prima metà del Settecento; Il Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo e la leggenda degli amori del Pergolesi; La casa di Caffarello, che il celebre soprano castrato Gaetano Magliorato si era fatto costruire nel vico Carminiello apponendovi una sua lapide; Il palazzo Cellammare a Chiaia e il principe di Francavilla; Il primo pallone aerostatico a Napoli, elevato nel settembre 1789; Wolfang Goethe a Napoli; Federico Munter e la massoneria in Napoli nel 1785-86; I “Rinaldi” o i cantastorie in Napoli; I “lazzari”: origine seicentesca del nome; Il divorzio nelle province napoletane: ammesso nel 1809 col Codice Napoleonico e soppresso nel 1815 da re Ferdinando; Monsignor Perrelli nella storia (il prototipo del prelato balordo, che secondo Croce sarebbe l’espressione di due persone effettive di tal nome); Francesco De Sanctis e lo scioglimento e la ricomposizione della Società reale di Napoli; Carlo Poerio, commemorato alla Camera italiana nel 1877.

Pagine sparse, 1943 - Difesa di una chiesetta barocca, la Croce di Lucca; Polemica sul Museo Nazionale; Sistemazione della Biblioteca Nazionale a Palazzo Reale; Intervento in Parlamento per la Stazione zoologica Dohrn; La mancata nomina a senatore di Salvatore Di Giacomo; Perizia in tribunale a favore di Edoardo Scarpetta nella vertenza con D’Annunzio per “Il figlio di Jorio”; Relazioni alla Società di Storia Patria e all’Accademia Pontaniana.

Quando l’Italia era tagliata in due, 1946 - Una toccante dedica “alla mia Napoli”.

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INDICE DEI NOMI

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Ainslie, DouglasAmbrosini, LuigiAngirsani, FrancoAnile, AntoninoArcoleo, Giorgio Artieri, Giovanni

Basile, GiambattistaBenincasa, suor OrsolaBenvenuti, CorradoBernari, CarloBoccaccio, GiovanniBorraro, Pietro Bottai, GiovanniBovio, GiovanniBracco, RobertoBragaglia, Anton GiulioBuonuomo, Ambrogio

Calcese, AndreaCapasso, BartolomeoCarafa, FabrizioCarafa, Riccardo Carlo di Borbone Caracciolo, GaleazzoCarratelli, Giovanni PuglieseCaserta, Ernesto G.Cassandro, GiovanniCeci, GiuseppeCelano, CarloCerulli, EnricoChabod, FedericoCini, G.B.Colonna, VittorioCompagna, FrancescoConforti, LuigiCorbino, EpicarmoCortese, Giulio CesareCortese, Guido

Cranach, LucaCroce, AdeleCroce, AldaCroce, Elena Croce, Pasquale

D'Avalos, MariaD'Ovidio, FrancescoDalbono, EduardoDe Cesare, RaffaeleDe Falco, BenedettoDe Filippo, EdoardoDe Fonseca Pimentel, EleonoraDe Iorio, AndreaDe la Ville-Sur-Yllon, LodovicoDe Leva, EnricoDe' Liguori, Alfonso MariaDe Mauro, TullioDe Monte, MatteoDe Nicola, EnricoDe Rinaldis, AldoDe Rosa, LoiseDe Sanctis, FrancescoDe Simone, RobertoDel Franco, Costantino Della Porta, GiambattistaDi Giacomo, SalvatoreDi Morra, IsabellaDieterich, AlbertoDohrn, AntonioDohrn, RinaldoDoria, Gino

Eco, UmbertoEinaudi, Luigi

Fasano, GabrieleFederico d'AragonaFellini, Federico

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Ferdinando IVFilangieri, GaetanoFilangieri, RiccardoFiorillo, SilvioFiorino, TiberioFlora, FrancescoForges-Davanzati, MarioFortunato, ErnestoFortunato, GiustinoFrancesco IIFranchini, RaffaelloFratta, ArturoFuscà, Franco

Gaeta, FrancescoGalasso, GiuseppeGaliani (abate)Gemito, VincenzoGentile, Giovanni Geremicca, AchilleGesualdo, CarloGiancaspro, MauroGiarrizzo, GiuseppeGigante, MarcelloGiusto, Francesco AntonioGoethe, WolfgangGozzi, CarloGuerra, ToninoGuerrieri, Guerriera

Imbriani, Paolo EmilioImbriani, Vittorio

Kant, EmmanuelKerbaker, Michele

Labriola, AntonioLaterza, GiovanniLeone, Giovanni

Lombardi Satriani, Luigi MariaLucrezi, Bruno

Maffei, SalvatoreMagliorato,GaetanoManselli, RaoulMaria Cristina di SavoiaMarra Beth, DoraMartella, TommasoMedicus, FritzMarini, GiuseppeMolinaro, LuigiMonterey (vicerè)Morelli, DomenicoMunter, Federico

Nicolini, FaustoNicolini, NicolaNitti, Francesco Saverio

Ojetti, UgoOmodeo, AdolfoOrlando, Federico

Pais, EttorePane, RobertoPapini, GiovanniParente, AlfredoParrino, Domenico AntonioPedullà, WalterPerrelli (monsignor)Peyrefitte, RogerPierro, LuigiPio Ferdinando duca di CalabriaPoerio (famiglia)Pontieri, Ernesto Porzio, GiovanniPuccini, Giacomo

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Raffaele, FedericoRagghianti, Carlo LudovicoRea, DomenicoRicciardi, RiccardoRocco (padre)Romeo, ElsaRossi, Angelo Russo, FerdinandoRusso, LuigiRusso, VincenzioRuta, Enrico

Salustri, Carlo Alberto detto TrilussaSandoval de Castro, DiegoSanfelice, LuisaSannazaro, JacopoSarnelli, PompeoSarrocchi, MargheritaSasso, GennaroScanio, PecoraroScarfoglio, EdoardoScarpetta, EdoardoScarfoglio, EdoardoSchipa, MichelangeloSelvaggi, don GaspareSerao, MatildeSipari, Francesco

Sipari, LuisaSpaventa, SilvioSpinazzola, Vittorio

Talarico, VincenzoTanucci, BernardoTessitore, Fulvio Toma, GioacchinoTorraca, Francesco Tramonte, RaffaeleTroya, Carlo

Valletta, NicolaVelardinielloVenturi, AdolfoVico, GiambattistaViviani, RaffaeleVorluni, GiuseppeVossler, Karl

Windelband, Guglielmo

Zaghi, CarloZampanelli, Angiolina Zezza, Michele

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