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Massimiliano CapatiBENEDETTO CROCE E LE METAMORFOSI DEL BAROCCO
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Massimiliano Capati
BENEDETTO CROCE
E LE METAMORFOSI DEL BAROCCO
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INDICE
Dall’erudizione all’estetica
Tra Marino e D’Annunzio
Storia dell’età barocca in Italia
Critica e stile
Note
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DALL’ERUDIZIONE ALL’ESTETICA
Nel momento stesso in cui Croce completava il suo sistema filosofico,
cominciava la fondazione del suo personale canone critico. Sono gli anni delle
monografie su Hegel e Vico e poi della vasta indagine sulla storia della
storiografia e sui grandi autori della letteratura universale. Esce nel 1910
anche il volume di Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, che segna un
punto fermo nella rivalutazione del Barocco nella critica di lingua italiana.
Era una scoperta che risaliva però ad anni lontani.
Sopravvissuto al terremoto di Casamicciola del 1883, Croce era stato
ospite per due anni nella casa romana dello zio Silvio Spaventa. In quel
periodo doloroso e cupo amava rinchiudersi nelle biblioteche a far ricerche su
temi disparati. In una di quelle biblioteche scopre una dimenticata tragedia di
un’anima gemella, l’astigiano Federico Della Valle, raro scrittore tragico del
seicento. Di quella tragedia farà una lettura pubblica e ne scriverà su un
giornale romano. Quasi settant’anni dopo, nei suoi ultimi giorni, ormai
vecchio e malato, verga sulla carta o detta alle figlie alcune note discontinue e
spesso malinconiche, che saranno poi raccolte nelle Terze pagine sparse. Tra
quelle note, alcuni argomenti di cultura, vita civile, letteratura secentesca (e
ricompaiono i nomi di Caravaggio e del cavalier Marino) su cui non aveva
mai smesso di pensare e discutere.
Due momenti che racchiudono in termini cronologici tutta la sua
vicenda umana. Due immagini che valgono come emblemi sull’ideale
frontespizio di quello sterminato libro sul seicento che Croce ‐ tra saggi,
recensioni, aneddoti ‐ ha continuato a scrivere durante tutta la sua vita.
Lasciata la politicante società romana e tornato a Napoli nel 1886, Croce
si ritrovò in una società composta di archivisti, eruditi, curiosi “e altra onesta
e buona e mite gente, uomini vecchi e maturi che non avevano l’abito del
troppo pensare”. In questo ambiente, ritrovata una apparente serenità, si
dedica a ricerche di erudizione locale. Il suo sguardo sul seicento fa tutt’uno
con il suo interesse per la storia napoletana, e comprende l’attenzione
pionieristica verso autori dialettali come Giulio Cesare Cortese, Filippo
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Sgruttendio e soprattutto Giambattista Basile. Sono di questi anni anche i
saggi sui Viaggi di Parnaso del Cervantes, su Salvator Rosa e molti scritti sul
teatro secentesco confluiti nel volume sui Teatri di Napoli dal Rinascimento alla
fine del secolo XVIII.
La sua scrittura è spia di una condizione esistenziale. Ha un ritmo
martellante, ossessivo, procede per giustapposizione di argomenti
equivalenti, senza sforzo di riduzione ad unità. Una prosa senza centro. Il
Croce maturo guarderà ai suoi Teatri di Napoli come a una selva di notizie, un
regesto di documenti. L’uomo era scomparso dietro un cumulo di dati e
citazioni. La serenità, la calma di quegli anni, come ce la descrive nel
Contributo alla critica di me stesso, ci appare allora come uno stordimento, una
fuga nell’opera per fuggire l’angoscia e l’orrore del vuoto.
Negli anni seguenti, tra la pubblicazione della Storia ridotta sotto il
concetto dell’arte del 1893 e l’Estetica del 1902, gli studi eruditi passeranno
gradualmente in secondo piano. Intanto ha conosciuto il marxismo, di cui
resta traccia anche in una divagazione storica su Pulcinella, “simbolo del
proletariato napoletano”, che decade come personaggio teatrale in seguito a
un mutamento di sensibilità delle classi colte napoletane ed europee.
Il saggio più compiuto di questo periodo è quello sui Predicatori italiani
del Seicento e il gusto spagnuolo del 1899. Come guida spirituale nella selva dei
concetti e delle prediche secentesche, Croce adotta un libro che diverrà
canonico negli studi sul seicento, Il cannocchiale aristotelico di Emanuele
Tesauro, specialista di arguzie e concettosità, dove trova scritto che “ancora il
grande Iddio gode talora di fare il poeta e l’arguto favellatore, motteggiando
agli uomini e agli angeli con vari motti e simboli figurati gli altissimi suoi
concetti”.
Sulla scia del Tesauro, Croce si sofferma a lungo sull’uso delle allegorie
e sulle diverse forme della retorica: temi per cui in seguito – una volta
sopraggiunta la negazione estetica – perderà poi ogni interesse. Ma
l’importanza di questo saggio sta in un dato formale. Nel contemporaneo
scritto di estetica sui Trattatisti italiani del concettismo e Baltasar Gracian, Croce
aveva provato a togliersi l’abito ormai stretto dello storico puro, rivelando
innumerevoli difficoltà stilistiche. Nel saggio sui Predicatori è invece scrittore
di notevole sapienza figurativa. La sua scrittura comincia come rievocazione
storica, per poi adattarsi con qualche fatica alle forme della teoria. Un buon
esempio è la pagina sulla predica come forma che rispecchia i mutamenti della
sensibilità nelle diverse epoche:
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Alla moda non si sottrae la parola di Dio. Ai tempi nostri ascoltiamo talora dal
pulpito dissertazioni sulla questione sociale o sui mali del liberalismo […]. Nel
Settecento, si agitavano dal pulpito problemi di economia, di finanza, di
amministrazione, di popolazione: è noto il motto di Luigi XVI, per il quaresimale
dinanzi a lui predicato nel 1781 dal poi famoso abbate e cardinale Maury: ‘Se l’abbate
Maury ci avesse parlato un po’ anche di religione, ci avrebbe parlato di tutto!’ […].
Tanto più l’efficacia della moda si faceva sentire nel Seicento, per effetto della
devozione largamente diffusa, le prediche formavano uno spettacolo, al quale tutti
prendevano vivo interesse […] il bel mondo cercava nella quaresima un sostituto ai
divertimenti del carnevale; le rivalità tra gli ordini religiosi suscitavano nel pubblico
partiti entusiastici. Di questi fatti son piene le cronache di quei tempi; e, del resto, chi
può ripensare al Seicento senza rivedere in fantasia la figura del Predicatore,
nerovestito come gesuita, o biancovestito come domenicano, o col rozzo saio
cappuccino, gesticolante in una chiesa barocca, dinanzi a un uditorio dai fastosi
abbigliamenti? Appartiene a quel piccolo numero d’immagini dominanti e
caratteristiche, in cui si riassume e condensa per la nostra fantasia un’intera epoca
storica.
In questi scritti il giudizio estetico è ancora del tutto occasionale; ciò che
interessa Croce è l’aspetto storico, sociale, psicologico dei fenomeni letterari.
L’erudizione locale è un pretesto per viaggiare tra gli usi e i costumi del
passato europeo. Il Cunto de li cunti del Basile gli apre la strada per studiare la
novellistica di Grimm e i rapporti tra cultura popolare e cultura dotta, così
come dietro i lazzi di Pulcinella ci fa intravedere gli scenari variopinti dei
teatri europei o le risa e i sentimenti dei popolani che assistevano allo
spettacolo. La sua visione della letteratura è vicina a quella di alcune figure di
eruditi della Scuola storica. Uno di loro, Arturo Graf, studioso di ogni
simbolo e superstizione dei “secoli bui”, aveva parlato della letteratura come
sistema di interferenze infinite. Una definizione che non sarà dispiaciuta al
Croce di quegli anni, nel cui animo il problema estetico non aveva assunto
quel carattere di urgenza assoluta che avrà negli anni immediatamente
seguenti. In effetti la chiusa ideale agli scritti di questo periodo è la parte
dell’Estetica dedicata ai trattatisti secenteschi, da cui aveva tratto spunti
importanti nella descrizione delle forme alogiche – e dunque secondo lui
estetiche – della conoscenza. Era stato importante soprattutto il libro Del Bene
del cardinale Sforza Pallavicino, che distingueva la poesia dalla scienza e
dalla storia, assegnandole una funzione conoscitiva nell’ambito delle “prime
apprensioni”. Croce ne fa un precursore di Vico, che in quegli anni gli appare
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soprattutto come un filosofo estetico, anzi
l’inventore dell’estetica. In realtà il
Pallavicino conta più per Croce che per
Vico. Non sarebbe inutile indagare
l’influsso di quel forbito gesuita (e in
generale della teoria retorica gesuitica)
per comprendere lo stanco formalismo
dell’Estetica del 1902.
Queste brevi considerazioni fanno
già capire come la cultura italiana del
XVII secolo non fu solo un argomento di
studio erudito, ma entrò nella genesi del
pensiero di Croce, sin dall’inizio. Mentre
gli eruditi del metodo storico si erano
esercitati soprattutto sul medioevo, Croce
aveva subito scelto il seicento, già
partecipe della rivalutazione che partiva dagli storici dell’arte tedeschi. E
forse, giunto a Napoli dal severo Abruzzo, sarà anche rimasto colpito, come
D’Annunzio a Roma, dalla ridondanza espressiva delle forme secentesche,
che ancora oggi determina la fisionomia della città.
Era come immergersi nel ventre della Napoli barocca, scrutarne le
figure caratteristiche, seguirne le mode, i lazzi, i costumi. Questo scrittore
austero, di timbro protestante, continuerà per tutta la vita a mostrare
simpatia per le espressioni native ed enfatiche di quel mondo. Forse,
attraverso la rievocazione della vita aristocratica, piccolo‐borghese e plebea
del seicento, amava risentire lo spirito dei luoghi. E negli ultimi anni, in una
visione di solitudine e calma psichica, stanco di lotte e di contrasti,
immaginava intorno a sé ancora quel mondo variopinto e rumoroso.
Vagheggiava di trovarsi al riparo di un antico monastero secentesco, protetto
da alte e bianche mura, intorno alle quali folle tumultuose continuavano nella
vita di tutti i giorni.
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TRA MARINO E D’ANNUNZIO
Le ricerche erudite di fine Ottocento appartengono alla preistoria di
Croce, che al passaggio del secolo si incamminò per tutta altra strada. Per
molti anni accantonò la mera erudizione e non scrisse quasi niente sul
periodo storico in cui quella erudizione si era esercitata, il seicento. Tornò a
occuparsene nel 1910, quando decise di pubblicare per l’editore Laterza di
Bari l’antologia dei Lirici marinisti, a cui affiancò la raccolta dei suoi Saggi sulla
letteratura italiana del Seicento, che conteneva molti di quei lontani scritti
giovanili e alcuni nuovi testi. La differenza tra il vecchio e il nuovo salta
all’occhio. Un critico moderno ha preso il posto dell’erudito di tradizione. In
quel periodo Croce aveva messo su un sistema filosofico e aveva pubblicato
sulla “Critica” molti dei suoi scritti sulla Letteratura della nuova Italia, riuniti di
lì a poco in quattro volumi (che poi diverranno sei). Ma a parte la sua diversa
consapevolezza, questi saggi sono importanti perché iniziano in Italia la vera
e propria rivalutazione del Barocco, consegnato dalla critica a un lungo oblio.
Poche le eccezioni: D’Annunzio nel Piacere, un articolo del suo amico Enrico
Nencioni, alcuni studi dell’erudito e letterato arcaizzante Corrado Ricci (a cui
il libro di Saggi è dedicato). È significativo che nello stesso 1910 il ragazzo
Roberto Longhi cominciasse a scrivere la sua tesi di laurea su Caravaggio,
dando così inizio ‐ con Matteo Marangoni, Hermann Voss e Lionello Venturi
‐ alla riscoperta della civiltà figurativa del seicento italiano, di cui diverrà il
maggior conoscitore.
Gli scritti più importanti sono le due prefazioni al volume dei Saggi e
all’antologia della poesia marinista. Nella prima, Croce sente di dover fare i
conti con la tradizione storiografica e con la condanna ultrasecolare del
barocco. Comincia con gli esangui Arcadi di inizio ‘700 (in seguito da lui
rivalutati), i quali intrapresero una reazione antisecentesca che “fece
sommarie esecuzioni in massa, demolì le case dei nemici, sparse sul terreno il
sale e vi eresse colonne d’infamia”. Destino volle che questi eruditi e letterati
(Gravina, Muratori, Zeno) furono anche i primi a delineare una storia della
letteratura italiana “nella quale si adoperarono a collocare in bieca luce il
secolo che li aveva preceduti. Parlare della letteratura del Seicento come di
una follia, di una pestilenza, di una decadenza, divenne consueto”. Semmai
di quel secolo si rivalutarono gli scrittori meno esuberanti e sperimentali:
“corretti e languidi petrarchisti, noiosi imitatori di Orazio e Pindaro, frigidi
dicitori di celie ebbero, per tal modo, il lasciapassare e l’approvazione, e
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figurarono da pauci electi nel paradiso della storia letteraria […]. E poiché i
più di codesti ‘innocenti’ furono toscani, si continuò ad attribuire per quel
secolo alla Toscana l’egemonia che, allora per l’appunto, essa veniva
perdendo, così nella poesia e nel pensiero politico come nelle arti figurative.”
I successivi storici, da Tiraboschi a Belloni, manterranno il giudizio
negativo sul secolo, accentuando semmai la riprovazione morale. Lo stesso
Manzoni – su cui Croce va un po’ troppo veloce – ha un atteggiamento
bonario ma sempre ironico e distaccato. I primi giudizi equilibrati li trova
invece in Settembrini e De Sanctis, che pure non amavano il seicento, per
“una certa ritrosia che gli uomini del Risorgimento dovevano provare al
ricordo di un tempo nel quale l’Italia, schiava non fremente, si avvolse
nell’ozio e nelle voluttà”.
Poi toccherà alla critica erudita e positivistica, che indagherà soprattutto
il problema delle cause del secentismo, indicando di volta il volta l’elemento
generatore o corruttore, un falso problema secondo lui: “Tutte le cause finora
arrecate, la servitù politica, il gesuitismo, lo spagnolismo, il petrarchismo, la
poesia pastorale, la smania di novità, e perfino, se si vuole, la cosiddetta
‘causa antropologica’ onde alcuni individui possono esser definiti secentisti
nati, accennano a cose reali; ma tutte poi riescono false nel modo in cui
vengono presentate. La vera e compiuta causa è il fatto stesso, esposto
geneticamente in tutti i particolari”. Posizione ragionevole in apparenza ma
nel fondo generica. Lui stesso indagò solo alcuni di quei particolari e di quelle
cause, accantonando proprio la più probabile, l’influsso dei gesuiti nella vita
morale del tempo. Un argomento trattato soprattutto da Settembrini nelle sue
Lezioni, ancora molto presente nella Storia di De Sanctis, sporadico nell’opera
di Croce.
A suo parere il fenomeno del secentismo appartiene alla storia della
cultura e non a quella dell’arte; va considerato “piuttosto sotto l’aspetto
sociale, come un lato della vita cortigiana, in relazione al cerimoniale che
questa coltivava e ai giuochi nei quali si dilettava”. Fenomeni che giudica nel
segno della passività storica. Nella storia della poesia e del pensiero conviene
invece dare risalto alla attività e non alla passività: il fiorire delle scienze
naturali e delle scienze morali, le prime riflessioni estetiche, le teorie sulla
ragion di stato o sull’arte di far fortuna nel mondo, e poi “l’erudizione, la
critica e lo scetticismo storico. In quel tempo, per un verso fu continuato
Machiavelli; ma per l’altro, fu preparata quell’esplosione filosofica che si
chiamò la Scienza nuova”. Infine chiede giustizia anche alla produzione
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artistica, senza però fare l’errore di lodare troppo un’arte e una letteratura
“priva di sentimento etico, epperò, sotto apparenze lussureggianti, assai
ristretta e povera”.
Molto diversa la prefazione ai Lirici marinisti, ristampata nel volume dei
saggi col titolo Sensualismo e ingegnosità nella lirica del Seicento. Seguendo la
tesi di De Sanctis, si accorge che in questi poeti è rimasta viva soltanto la
sensualità, “la passione rudimentale e quasi animale”, e cantano la natura
come oggetto sensuale, le bellezze della donna, “gli occhi neri o azzurri o
chiari; la bocca; le mani; il seno; la pozzetta nelle guance; il neo, e,
specialmente, le chiome bionde o nere”. Ne viene fuori una perfetta
orchestrazione di voci poetiche, dirette con tocco leggero; e scorgiamo il
filosofo in atteggiamento edonistico, rapito da quelle musiche lontane in cui
risentiva il fremito della sensualità barocca. Una così intima partecipazione
per quella poesia è un fatto inconsueto in lui, e si può far risalire in parte alla
contemporanea frequentazione della letteratura contemporanea. Anche nel
saggio del 1903 su D’Annunzio aveva ricantato i passi in cui il poeta
descriveva “con visione delicatissima di pittore” le mani, i capelli, gli occhi
delle sue amanti reali e immaginarie. Il testo del ’10 si chiude infatti con un
paragone tra Marino e D’Annunzio, diversi nei presupposti concettuali e
culturali ma simili per l’aspetto sensuale e per l’assenza in entrambi
dell’elemento etico. Nel ‘46, mutato ormai il suo primitivo giudizio positivo
sul poeta coetaneo, tornava sul paragone tra i due autori dicendo che
D’Annunzio “nel Parnaso italiano, sta molto prossimo al Marino (del quale
gli è forse riserbata la sorte letteraria), ma molto lontano, e in certa guisa
separato, dalla corona dei geni poetici”.
Il giudizio del 1910 resta comunque significativo se si pensa che tutta la
rivalutazione del barocco tra otto e novecento era sempre cominciata da un
impulso dell’arte contemporanea. A indirizzare Nietzsche e Wölfflin verso
l’arte secentesca era stato l’ascolto di Wagner, a Roberto Longhi il maggiore
stimolo venne dalla pittura francese dell’ottocento, da Courbet
all’impressionismo. Per Croce la musa contemporanea era stata innanzitutto
Gabriele D’Annunzio. Quando si libererà di lui, a farne le spese sarà anche la
letteratura del barocco.
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STORIA DELL’ETÀ BAROCCA IN ITALIA
Una sensazione di spaesamento può impossessarsi del lettore che,
accantonato sul tavolo i Saggi sulla letteratura italiana del Seicento del 1910, si
metta a sfogliare la Storia dell’età barocca in Italia, da lui scritta tra il ’24 e il ’25,
pubblicata sulla “Critica” tra il ’24 e il ’28, e poi definitivamente in volume
nel 1929. Ora il giudizio di condanna sulla decadenza italiana, prima
sporadico, informa di sé tutto il libro, ne è il motivo dominante. Duro il tono
sulla vita morale, sul pensiero, ma soprattutto sulla poesia ‐ o pseudopoesia ‐
secentesca, ormai lontana dalla sua sensibilità e dal suo gusto.
Tra i due libri c’erano stati i suoi saggi sui grandi poeti del passato –
Dante, Ariosto, Shakespeare – rispetto ai quali gli sforzi dei rimatori
secenteschi dovevano parergli misera cosa. Ma c’era stata soprattutto la
prima guerra mondiale, che aveva segnato il distacco “o piuttosto la
voragine” tra due Europe, tra due mondi e tra due Croce. Il suo moralismo
d’origine rischiava di divenire anche il fine delle sue letture del passato. Dei
primi anni venti è la teorizzazione della storiografia etico‐politica come unico
luogo della vera storia. E se la Storia del regno di Napoli del ’23 è il manifesto di
questa nuova concezione, la Storia dell’età barocca è l’opera in cui questo
aspetto della sua riflessione è più riconoscibile e scoperto, anche nelle
difficoltà. Opera in cui l’indagine sulla decadenza del passato diviene un
ammonimento ai contemporanei. In questo senso, opera non meno politica
della Storia d’Italia del ’27 e della Storia d’Europa del ’32. Quasi un gigantesco
pamphlet contro quella che a lui pareva la decadenza moderna. Lui stesso in
una nota autobiografica del ’34 ricordava che “già, quando io scrivevo il mio
libro, cominciavano a fiorire gli amoreggiamenti con la controriforma,
l’assolutismo, la regola dall’alto, la letteratura e l’arte sensuale; e la mia storia
fu, anche contro di ciò, un’implicita protesta”.
Nel primo dei tre capitoli introduttivi del libro, intitolato Controriforma
– gli altri due riguardano il Barocco e la Decadenza – Croce interviene nel
dibattito tra storici tedeschi sul primato del rinascimento o della riforma
protestante nella genesi dell’età moderna. Tra i seguaci della tradizione
accademica tedesca, che davano una preminenza alla riforma, e tra gli altri
che – suggestionati da Nietzsche – riconoscevano nel rinascimento l’origine
della civiltà moderna, il filosofo napoletano trovava una diversa spiegazione,
di carattere non documentario ma concettuale. Scorgeva infatti nel
rinascimento e nella riforma “i termini ideali e fondamentali, di terra e cielo,
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uomo e Dio, individuo e universo, spirito profano e spirito religioso […] in
unità dialettica: l’universo è impensabile senza l’individuo e l’individuo
senza universo, la terra senza il cielo e l’uomo senza Dio”.
Di seguito, affermato il carattere ideale del rinascimento e della riforma,
lo negava invece alla controriforma, a cui comunque riconosceva molte
positività (cultura, dottrina, diffusione popolare ecc.). Di fatto la controriforma
semplicemente difendeva una istituzione, la chiesa romana. Una grande
istituzione secondo lui, che però non può avere l’infinità di un eterno
momento spirituale e morale: “Per quanto si cerchi, non si troverà mai nella
Controriforma altra idea che questa: che la chiesa cattolica era un’istituzione
altamente salutare, e perciò da serbare e da rinsaldare”. Un giudizio non
dovuto a insufficiente informazione storica (ancora da venire le rivalutazioni
della cosiddetta riforma cattolica) ma a una ben precisa contemporaneità. Nella
prima redazione apparsa in rivista, questo capitolo terminava con un
riferimento d’attualità, poi prudentemente tolto nella versione definitiva: “La
Controriforma stessa, come epoca e ideale storico, par che venga
raccogliendo, nei giorni che corrono in Italia, ammirazioni, entusiasmi e
nostalgie; e dalle file del partito dominante si odono uscire frequenti
invocazioni alla Controriforma […]. E temo che, nel vuoto dei concetti politici
storicamente giustificati e attuosi, gli animi torbidi e gli intelletti rozzi si
appiglino ad altri ideali letterari, per procurare di celare, agli altri e a sé stessi,
quel vuoto”.
Delio Cantimori ha ipotizzato che Croce intendesse riferirsi al giovane
Curzio Malaparte, che in quei giorni andava proponendo l’unione di
controriforma e rivoluzione fascista come momenti inscindibili di reazione
alla moderna civiltà europea. Non è improbabile però che il bersaglio di
Croce si trovasse più in alto, e che quelle pagine fossero state pensate come
una indiretta risposta alla riforma della scuola di Gentile, che manteneva
molte ambiguità sull’insegnamento della religione cattolica nelle scuole, e ad
alcune dichiarazioni dello stesso Gentile sulla superiorità del cattolicesimo
sul protestantesimo. Si era, al tempo di quel saggio, negli stessi giorni in cui si
consumava la definitiva rottura tra i due filosofi, dopo un quarto di secolo di
collaborazione e di amicizia.
Le severe parole di Croce sulla controriforma si allargano a ogni aspetto
della vita civile italiana del seicento. La morale cattolica mancava di
entusiasmo morale e fu incapace di farsi principio di vita attiva, e l’ortodossia
controriformistica “accompagnava e favoriva la decadenza italiana, ed era
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ortodossia di decadenza”. La prospettiva della decadenza domina il libro, e
in questo il Croce storico contraddice il Croce teorico, che predicava possibile
solo la positività della storia, che domina e riassume in sé il negativo. Ma,
quasi parlando con sé stesso, il filosofo rispondeva in anticipo all’obiezione di
chi riteneva impossibile una storia decadente. Se la prendeva con i generici
della filosofia, che negano fatti o epoche di decadenza, perché “non si può
progredire se non lasciando cadere o decadere qualcosa, come non si può
vivere senza morire, e, poiché la decadenza è sempre in ogni vita, non c’è mai
come particolare modo di vita: il mondo va sempre innanzi. Ai quali generici
si risponde che, se il mondo va sempre innanzi, un individuo o un popolo
possono servire da sgabello al mondo che va innanzi; e, se il mondo passa da
vita a vita, il popolo italiano poteva morire, come sono morti altri popoli”.
Come mostra anche lo stile drammatico, erano risposte a un sé stesso
antico. Era stato proprio lui a scrivere, quindici anni prima, che bisognava
farla finita con le accuse al seicento: “età di decadenza, sia pure; ma importa
stabilire che il concetto di decadenza è affatto empirico e relativo: se qualcosa
decade, qualche altra nasce e germina: una decadenza totale e assoluta non è
concepibile”.
La negatività dell’età barocca diviene così il tratto dominante
dell’opera, che non è affatto una storia “per punti vivi”, come si disse
all’epoca. Semmai è da sottolineare ancora una volta come questa prevalenza
del negativo in un sistema che ammette soltanto il positivo, determini in
Croce una ambiguità irrisolta, perché vicina alla realtà della sua condizione
esistenziale. Da una vita andava predicando l’inesistenza della negatività, il
dominio del pensiero sull’irrazionale; eppure, puntualmente, questo mondo
ucciso se lo ritrovava davanti. Non è solo un problema di psicologia. Una
simile difficoltà si riscontra nel discorso teoretico sulla categoria dell’utile o
dell’economico. Dopo aver fondato il sistema sulle quattro positività del vero,
del bene, del bello, dell’economico, quest’ultimo gli si rivelava sempre più
residuale e irriducibile al dominio filosofico. Fino a quando negli ultimi anni
gli si presenterà col volto della pura negatività, la vitalità nuda e
incontrollabile.
Nella Storia dell’età barocca siamo ancora lontani da queste riflessioni,
ma alcune difficoltà strutturali sono già evidenti, anche se ricomposte nella
narrazione storica. Nel seicento l’aspetto più visibile della negatività, della
decadenza, è il barocco, inteso come perversione artistica, che consiste nella
sostituzione della verità poetica con l’effetto scenografico, stupefacente: “è un
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peccato estetico, ma anche un peccato umano, e universale e perpetuo come
tutti i peccati umani”. E nega anzitutto che il barocco possa essere arte,
perché risponde alla richiesta di capriccio, di libidine o di stupore: è insomma
un bisogno pratico, utilitario. E si sa che nel suo sistema la pratica è altro
dall’estetica. Fenomeno semmai culturale, che sostituisce “il pratico stupore
al soave palpitare e al contemplativo rapimento artistico”. In questa ricerca
dello stupore sta la sua unica coerenza, e spiega perché “esso sembri a volte
passare dal più sottile intellettualismo al più crasso realismo e verismo di
rappresentazioni”. L’incoerenza coerente di questo fine pratico si è sostituita
alla coerenza propria dell’arte.
Questa non è soltanto la spiegazione di un fenomeno secondo le leggi
della sua estetica. In realtà Croce vuole riportare il barocco al significato
negativo che ebbe per oltre due secoli, contro la massiccia rivalutazione degli
ultimi tempi, a cui lui stesso aveva partecipato e in cui ormai vedeva soltanto
un segno di decadentismo.
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CRITICA E STILE
Tra ottocento e novecento il maggiore impulso alla rivalutazione del
barocco venne dalla cultura tedesca. Era una storia cominciata nel 1855, in
alcune caute rivalutazioni di opere d’arte secentesche nel Cicerone di
Burckhardt. Del 1872 è invece la Nascita della tragedia di Nietzsche, in cui è
esposta una ingegnosa variazione sulla concezione dualistica dell’arte tipica
del romanticismo. Stavolta la dualità era fatta derivare dai simboli mitici di
Apollo e Dioniso, come antitesi tra contemplazione ed ebbrezza, tra sereno
dominio della natura e tripudio orgiastico nella natura. L’antinomia tra
apollineo e dionisiaco sembrò a molti essersi verificata in epoche artistiche
del passato, e il barocco, come già il romanticismo, diverrà antitesi dello
spirito classico. Il persuasivo libro Rinascimento e Barocco di Heinrich Wöllflin,
allievo di Burckhardt, rese istituzionale quella dicotomia, perpetuata in vari
modi negli studi di lingua tedesca, fino ai saggi di Karl Vossler, a cui Croce
dedicò la Storia dell’età barocca e col quale in un denso scambio di lettere
dibatterà a lungo su questi temi.
Nel frattempo si era impadronito del termine anche Oswald Spengler,
nel Tramonto dell’Occidente. Nello stesso libro in cui profetizzava, con evidente
compiacimento, il ritorno dei Cesari, la svolta autoritaria inscritta nel declino
dell’occidente, il barocco diveniva il simbolo dell’anima faustiana, l’unica
genuinamente germanica. Dopo di lui non pochi furono, in Germania ma
anche in Italia, coloro che coprirono il barocco di mitologie nazionalistiche o
intesero questa rivalutazione come richiamo a una autorità assoluta per
sanare le malattie del presente. Così andavano le cose in quel tempo. A
questo moto irruente intese metter riparo Benedetto Croce, che interpretava
in modo diverso il sentimento della decadenza. Inerme o velleitario nella
lotta politica, sapeva però come scacciare fantasmi sotto‐culturali. E così nella
Storia dell’età barocca svalutava completamente la vita morale e letteraria di
quel secolo, qualificando il barocco come non stile, o come “una delle forme
particolari del brutto”. Si sbarazzava inoltre delle recenti polemiche sulla
appartenenza razziale del barocco: “Io non so quale gusto ci sia a disputare se
Sigfrido o Arminio, Alarico e Teodorico fossero o no ‘anime barocche’, e a
complicare si nuove stravaganze gli stolti contrasti etnici e nazionali”.
Rifiutava inoltre quel dualismo estetico su cui si erano innestate simili
discussioni razziali, distaccandosi in tal modo anche dalle intuizioni formali
della migliore cultura tedesca. Era una morfologia, una storia per stili a cui
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Croce ormai non era più disposto a concedere nessuna chance di utilità
conoscitiva. Anche questo gli pareva segno di una decadenza culturale.
Ormai, su questi temi, qualsiasi sua parola prendeva forma di chiusura e di
polemica.
Una maggiore disponibilità si rivela nelle singole analisi dell’opera.
Croce segue il metodo a lui consueto dell’isolamento di passi poetici seguiti
da un breve commento, ma è ormai svanito l’edonismo dei vecchi saggi. Tra
la folla di letterati, giocolieri e rimatori del seicento sono poche le anime
fraterne in cui riconosce la voce della poesia o dell’entusiasmo morale. Si
comincia con Tommaso Campanella, quasi un nuovo Jacopone da Todi, poeta
aspro, scontroso, costretto a stare tra gente di facili costumi. Subito dopo si
incontra l’ombra del Cavalier Marino, in un intero capitolo diminutivo
intitolato La pseudopoesia barocca. Tra tanto sdegno ne viene fuori persino un
accostamento tra marinismo e futurismo: “la libertà verso le regole perdeva il
suo valore di affermazione dell’interiorità spirituale e trapassava in cosa
affatto diversa, nell’ardimento di tentare i modi più insoliti, violando l’arte
stessa, pur di ottenere il successo sul mercato dei piaceri o d’incuriosire e
sbalordire la gente: invece di libertà estetica, era, insomma, una libertà, come
ora si chiamerebbe ‘futuristica’.”
Una constatazione che trova esatto riscontro in alcuni termini da lui
usati nei commenti alle strofe di Marino, quando parla del suo procedimento
meccanico che produce un rumore simile allo “scoppiettio di elastiche molle
d’acciaio, scattanti a rapidi intervalli regolari”. Non si insisterà mai
abbastanza su questi accostamenti con l’arte moderna. La ricerca della
meraviglia, che era stato il programma di Marino, gli si era chiarita in tutti i
suoi aspetti sociologici e culturali dopo aver assistito allo spettacolo offerto
da artisti contemporanei, tra dannunziani e futuristi, e messo in scena sul
variopinto palcoscenico di una incipiente società di massa nell’Italia di primo
novecento.
Il tono dell’opera non è però sempre cupo; a tratti diventa ironico e
scherzoso. I suoi commenti si accomodano alle iperboli secentesche
producendo una amplificazione in cui la pretesa serietà dei poeti barocchi
mostra il suo lato comico. Un altro procedimento tipico consiste nel far
seguire sempre a una constatazione positiva una constatazione negativa: ciò
che costoro non seppero fare. In tal modo si minimizzano regolarmente le
cose buone dell’epoca. E’ lo stesso procedimento usato – al contrario – nel
capitolo sull’età di Giolitti nella Storia d’Italia dal 1870 al 1915, in cui le
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deficienze dei governi dello statista piemontese sono enumerate di sfuggita e
subordinate a quello che Giolitti e la sua classe dirigente fecero di buono.
Sicché aveva ragione Federico Chabod a rimproverare i lettori che avevano
visto in quel capitolo solo una apologia del giolittismo, ma avrebbe dovuto
ricordare che era stato lo stesso Croce ad appiccicarsi addosso quella
interpretazione, a cominciare dai meccanismi retorici della sua scrittura.
La negatività dell’età barocca non è comunque uniforme. Pochi nomi di
scrittori, voci isolate in età di corruzione che si disegnano come alveoli di luce
nella diffusa penombra dell’opera. Ottavio Rinuccini o Carlo de Dottori e
l’amato Federico della Valle, unici ad avere in quel tempo il senso tragico
della poesia. O ancora Maria Menadori, sconosciuta poetessa di canzoni
delicate e fragili come “un sospiro che si perde e continua nella musica che
l’accompagnava”. Il prediletto è Giovan Battista Basile, raccoglitore e
rifacitore di fiabe nel suo Cunto de li cunti, di cui Croce curò una edizione
incompleta nel 1890, e tradusse poi nel 1925 dal napoletano all’italiano.
Belle pagine di critica letteraria sono anche quelle del capitolo Accenni di
poesia tragicomica, interamente dedicato al personaggio di Corisca nel Pastor
fido del Guarini. Corisca è la femminilità sfrenata, rapace, sfrontata e
consapevole di sé. Eroina di un mondo di raziocinio politico e di precettistica,
dominatrice di sensi e di capricci. In un crescendo di immagini teatrali, ci è
rivelato il segreto di questa donna senza scrupoli, ignorata dall’adorato
Mirtillo, ma riamata da un essere degno di lei, il satiro, che ella ha illuso e
deluso, usato e sfruttato, tutto promettendogli e nulla concedendogli: “Ma
quando il satiro l’abbranca, sicuro che non possa questa volta sfuggirgli, e
l’acciuffa ben forte per le chiome, essa, dopo avergli lasciato credere per un
istante alla vittoria, dà una scossa e scappa, abbandonandogli tra le mani la
sua chioma posticcia, la bionda parrucca con la quale rialzava la procace
bellezza avuta da natura. Quella chioma posticcia, che rimane nelle mani del
satiro reso immobile dallo stupore, non è una trovata da farsa per far ridere,
ma è un simbolo, l’artistico simbolo di Corisca”. E il sipario si chiude su
questa rivelazione.
Un discorso a parte va fatto per Torquato Accetto, poeta e autore di un
trattato Della dissimulazione onesta, fatto ristampare da Croce nel 1928 dopo
due secoli di oblio. Scrittore di grande introspezione morale che parla della
vittoria sui propri sentimenti in tempi illiberali. Era un tema diffuso nel
primo seicento, ma Accetto sente una differenza psicologica, di onestà
morale, tra la simulazione e la dissimulazione, e considera questa sola, “che è
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vero composto di tenebre oneste e di rispetti violenti, da che non si forma il
falso, ma si dà qualche riposo al vero, per dimostrarlo a tempo”. Se si pensa
alla fiducia che negli anni del fascismo Croce infondeva ai molti che
andavano a trovarlo per una parola di conforto, e l’atteggiamento verso sé
stesso, costretto a “stornare la mente” senza perdere la speranza, risulta
evidente il valore politico di quella pubblicazione. Un appello a non perdersi
d’animo, a dar riposo al vero per dimostrarlo a tempo, rivolto a coloro che
avessero saputo coglierne la cifra.
A parte il caso isolato di Accetto, il suo giudizio sulla precettistica
secentesca è sostanzialmente dissolutorio. Spunta ogni tanto qualche
eccezione, inserita quasi come nota di colore: è il caso di Tommaso Garzoni di
Bagnocavallo, autore della Piazza universale di tutte le professioni, in cui trovava
il primo tentativo di una sociologia delle arti e dei mestieri. Nel complesso, tra
le scritture secentesche Croce riconosce vitalità e interesse solo ai prosatori
scientifici, ai teorici dell’arte e, sulla scorta di Meinecke, ai teorici della ragion
di stato. Numerosi sono anche gli accenni che verranno sviluppati dalle
future generazioni di storici: sull’Italia come preistoria del mondo moderno o
sull’importanza da attribuire alla storia degli italiani fuori d’Italia.
L’elenco dei “punti vivi” della Storia dell’età barocca potrebbe continuare
ma non renderebbe giustizia alla sua complessità. Un’opera che somiglia a
una strana pianta, tra il cirro e il cespuglio, cresciuta come la Storia d’Europa
su una radice triforcuta (le tre introduzioni) ma a differenza di quella non
sviluppata in modo eretto ma informe, per articolarsi in ramificazioni
molteplici, dai frutti diversi. E può parere anche esagerata la generosità di
Croce nel donare questi frutti se si pensa che, per dare un’idea, nelle 5‐6
paginette iniziali del capitolo (comunque riduttivo) sulle Scienze fisiche
troviamo di seguito: una dimostrazione della soltanto parziale influenza delle
costrizioni politiche nello spegnersi del pensiero in Italia, una rievocazione
del dilemma dei cattolici di fronte alle contrapposte autorità della bibbia e
della chiesa, un appunto sull’inconsistenza filosofica della dottrina della
doppia verità, un bell’aforisma sull’eterna fisiologia dei professori, una
contrapposizione spiegata tra filosofia sistematica e indagine monografica, un
illuminante paragrafo sui rapporti fra teologia e scienza, e altre cose ancora.
In questa densità di scrittura la Storia dell’età barocca si riconosce come
una delle poche grandi opere di storia della cultura, proiettata nel passato e
nel presente, terreno di meditazioni sulla storia e sulla decadenza. Fin dalle
soglie del libro aveva detto che avrebbe anche potuto intitolarlo Storia della
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letteratura italiana del seicento, dichiarazione inconsueta sulla bocca di chi
aveva affermato l’infondatezza teorica della storia letteraria, che è sempre
monografica, procede per individualità, per momenti poetici irrelati e non
per tipologie storiche. Già qui si annuncia insomma quella rielaborazione
estetica che lo porterà alla difficoltosa giustificazione della “letteratura” nel
libro sulla Poesia del 1936. E questa osservazione fa capire come per Croce il
seicento fosse una specie di epoca‐laboratorio, in cui sperimentare le sue
teorie o la sua perizia di storico. Lo era stata alla fine dell’ottocento, all’inizio
del nuovo secolo e continuerà ad esserlo fin quasi agli ultimi giorni. Alla
Storia dell’età barocca seguiranno molti altri scritti che inseguivano la vita
secentesca in tutti i suoi aspetti, con un’ansia enciclopedica rimasta senza
paragone.
E non è difficile immaginarselo come una specie di scienziato‐demiurgo
al centro del mutevole universo barocco, lui che è stato il più grande lettore di
testi del seicento italiano. Questo non gli impedì di condannare quell’epoca. Il
prevalere in lui del momento etico, dell’avversione al decadentismo
contemporaneo accentuò il tono dell’invettiva. La sorte aveva voluto che
quella condanna riguardasse proprio il secolo da lui più amato e studiato in
gioventù, a cui in astratto doveva più riconoscenza, perché perdendosi in
quelle minuziose ricerche aveva un tempo placato le sue angosce.
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NOTE
Una prima versione di questo saggio è apparsa nel libro Il maestro abnorme. Benedetto
Croce e l’Italia del Novecento, Pagliai Polistampa, Firenze 2000.
Le notizie sulla gioventù di Croce sono nel Contributo alla critica di me stesso, (prima
edizione 1918), Milano 1989, p. 26 e passim.
Il giudizio sui Teatri di Napoli si trova nell’Avvertenza all’edizione 1916,
completamente riscritta, pp. VII‐VIII. Vedi anche l’edizione Milano 1992 con una nota del
curatore Giuseppe Galasso che riporta brani di lettere di Croce all’erudito Alessandro
Ademollo, interessanti per scorgere la nascita di interessi sociologici nel giovane studioso;
per esempio, a proposito del ritrovamento di un vecchio testo satirico scriveva: “Simili
testimonianze […] sono preziose e per molti versi insostituibili, quando si voglia penetrare
nel profondo di certe rivoluzione sociali e ci si voglia render conto delle loro conseguenze
artistiche.”
Le parole di Emanuele Tesauro su dio “poeta e arguto favellatore” sono citate a p.
161 dei Saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1910), Bari 1948. Il cannocchiale aristotelico
del letterato torinese è molto presente nei primi scritti di Croce, tra cui quello sui Trattatisti
italiani del concettismo e Baltasar Gracian del 1899, poi incluso nei Problemi di estetica (1910),
Laterza, Bari 1954, pp. 313‐348 (dove, curiosamente, il Tesauro non figura nell’Indice dei
Nomi). In quel saggio è riportata la arzigogolata distinzione tra Retorica e Dialettica
proposta dal Tesauro, la prima funzionale alla piacevolezza del discorso, la seconda
rivolta al vero: una evidente anticipazione della distinzione crociana tra Estetica e Logica.
Commenta infatti il filosofo abruzzese (p. 341): “Spogliata della sua veste scolastica,
gesuitesca e barocca, e rivestita alla moderna, questa risposta suona così: ‘Non è lecito
considerare come affermazione logica quel ch’è forma letteraria. Si potrà dire che queste o
quelle forme siano brutte, ma non già che siano false o sofistiche, perché con esse non si
ragiona e non s’indaga il vero, ma semplicemente si parla”. Tra l’altro in questa frase
Croce usa per la prima volta, che io sappia, il termine barocco (non ho però potuto
verificare la precocità dell’attestazione linguistica nella prima edizione del saggio).
A. Graf, Di una trattazione scientifica della storia letteraria, Roma‐Torino‐Firenze 1877,
p. 16.
Su Vico inventore dell’estetica vedi B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e
linguistica generale (1902), Bari 1950.
La visione del ritiro nel monastero secentesco è ricordata più volte dall’allievo
Francesco Flora, di cui vedi Viaggio nel tempo crociano (1946), in Saggi di poetica moderna. Dal
Tasso al Surrealismo, D’Anna, Messina‐Firenze 1949, p. 62.
Le citazioni dei Saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1910), Bari 1948, sono alle
pp.. VIII, XIV, XIX, 361.
A proposito della sottovalutazione del gesuitesimo (come lo chiamava Settembrini)
nella vita del ‘600, va notato che l’accenno storico più vivace al tema si trova nella Storia
dell’età barocca (p. 19) ma riguarda il secolo successivo, quando dinanzi alla chiesa cattolica
e alle altre chiese “si andava ergendo come nuova chiesa cattolica, cioè universale, la
chiesa della Ragione, la quale volle perfino istituire ai suoi servigi un esercito politico, sul
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modello della ‘compagnia’ che Ignazio di Loyola aveva istituita, la libera muratoria o
massoneria”. In quella occasione Croce omise di dire che la nuova Chiesa della Ragione, la
massoneria, non tardò molto a diventare gesuitica.
I giudizi di Croce sia sul sensualismo sia sul meccanicismo dei poeti secenteschi
derivano dalla Storia della letteratura italiana (a cura di B. Croce, Laterza, Bari 1949) di
Francesco De Sanctis. A p. 192 del II volume, a proposito del Pastor fido del Guarini (di cui
aveva appena ricordato la frase famosa, “Questo è un secolo di apparenza e si va in
maschera tutto l’anno”) scriveva De Sanctis: “Se ci è lì dentro un sentimento, è una
sensualità raffinata, la poesia della libidine”; e a proposito del Marino, a p. 208: “È inutile
dire che tutte queste combinazioni non hanno pel Marino alcun valore effettivo ed
intrinseco, e che esse sono una materia qualunque, arricchita di moltissime favole
mitologiche, buona a sviluppare le sue forze poetiche: il solito macchinismo fantastico
dell’amore ne’ poemi italiani.”
Il giudizio del ’46 su Marino e D’Annunzio è nelle Letture di poeti (1950), Bari 1960,
p. 272.
La Nota autobiografica del ’34 è nel Contributo, cit., p. 76.
Il saggio Controriforma apparve su “La Critica”, XXII, 1924.
D. Cantimori, Il dibattito sul barocco (1960), incluso nella raccolta postuma Storici e
storia, Einaudi, Torino 1971, pp. 610‐623.
Le citazioni della Storia dell’età barocca in Italia, Bari 1929, sono alle pp. 5, 10, 485, 48,
25, 219, 347, 377.
La frase sulla relatività della decadenza è nei Saggi, cit., p. XIII. Poco dopo il libro
crociano, nel 1930 il filosofo vitalista spagnolo Ortega y Gasset pubblicava il noto saggio
La ribellione delle masse, dove tra l’altro ribadiva il concetto della relatività della decadenza
(ediz. il Mulino, Bologna 1984, p. 55): “La decadenza è, non c’è dubbio, un concetto
comparativo. Si decade da uno stato superiore verso uno stato inferiore. Ebbene: questa
comparazione può farsi dai punti di vista più differenti e vari che sia possibile
immaginare. Per un fabbricante di bocchini d’ambra il mondo è in decadenza perché
ormai non si fuma più con bocchini d’ambra. Altri punti di vista saranno più rispettabili di
questo, però, a rigore, non cessano d’essere parziali, arbitrari ed esterni alla vita stessa di
cui precisamente si cerca di valutare il peso.”
Era stato Luigi Salvatorelli, in una recensione su “Pegaso”, I, 1929, p. 501, a
osservare che la Storia dell’età barocca era una storia per “punti vivi”, non rispecchiante la
media culturale di quell’epoca: “L’accento è messo non su quel che fu la vita spirituale
secentesca, ma sugli elementi migliori, sugli spunti di vita nuova […] il Seicento di Croce
è, per dirla un po’ paradossalmente, il Settecento e magari l’Ottocento”.
L’accostamento tra marinismo e futurismo, in Storia, p. 176, non venne ripreso da
Croce ma da Carlo Antoni, che chiamava il Barocco un “futurismo ante‐litteram”, in Dallo
storicismo alla sociologia, Sansoni, Firenze 1973, p. 218.
Il saggio di Chabod, Croce storico è nelle sue Lezioni di metodo storico, Laterza, Bari
1972.
La Prefazione del ’28 alla Dissimulazione onesta è riportata nei Nuovi saggi sulla
letteratura del Seicento, pp. 86‐94. Il librino dell’Accetto è stato in seguito oggetto di
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molteplici discussioni e interpretazioni, che tuttavia non hanno portato elementi nuovi
rispetto alla lettura di Croce.