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Bergamo sottosopra

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Rino Casazza, giallo Sono trascorsi sette mesi dal dicembre 1902, quando l'opera d'apertura della Stagione di Carnevale del Teatro alla Scala, per motivi non ancora del tutto chiari, ha dovuto interrompersi dopo il primo atto. Il "Fantasma", diabolico re del crimine, annuncia al Cavalier Auguste Dupin, nonagenario genio dell'investigazione, di voler compiere un vero e proprio salto mortale: vuole mettere le mani, in circostanze al limite dell'impossibile, sulla preziosissima e venerabile "Corona dell'Addolorata", al centro delle celebrazioni per i trecento anni dell'Anniversario dell'Apparizione, che si terranno il 17 agosto nel Santuario di Borgo Santa Caterina a Bergamo. Per Dupin si profila un ritorno in Italia, al fianco di un collaboratore inedito: il commediografo Giuseppe Giacosa, già suo improvvisato aiutante in occasione della Prima scaligera dell'anno precedente.

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In uscita il 30/5/2016 (15,00 euro)

Versione ebook in uscita tra fine giugno e inizio luglio 2016

(4,99 euro)

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RINO CASAZZA

BERGAMO SOTTOSOPRA

Un’avventura di Auguste Dupin e Giuseppe Giacosa

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BERGAMO SOTTOSOPRA Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-993-7 Copertina: immagine tratta dalla Mostra "La città visibile", autore anonimo

(http://www.lacittavisibile.eu/)

Prima edizione Maggio 2016 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Ognuno vede quel che tu pari, pochi sentono quel che tu

sei. (Niccolò Machiavelli)

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1 Faceva un caldo infernale in quell’agosto del 1903, e Giuseppe Giacosa lo soffriva tutto. Non solo per la zavorra delle svariate decine di chili che superata la cin-quantina aveva messo su, trasformandosi in ciccione dall’uomo robusto ma piacente che era sempre stato e che tutti, in special modo le signore, ancora ricordavano. Influiva parecchio l’abitudine a rimaner vestito dal primo mattino fino a tarda sera con pantaloni, redingote, gilè e cravatta, come un provetto dandy. Un dandy sudaticcio e un po’ affannato che però non aveva perso nulla, poteva ben dirlo, in brillantezza. Nel buen retiro di Colleretto Perella, il paesino del canavese dove con-servava la proprietà della grande casa natale, i suoi concittadini rimane-vano incantati, dal notabile al più umile contadino, nell’ascoltare la sua spumeggiante conversazione. Un interesse che lui ben volentieri ricambiava, intrattenendosi con chi-unque incontrasse passeggiando per il paese. La moglie Maria, col dovuto tatto, tentava di insinuargli il dubbio che la sua loquacità lo portasse a esagerare. Rimaneva convinto che la preoccupazione della donna, fatta propria an-che dalle loro tre figlie ch’erano ormai adulte e sposate, fosse eccessiva; chi parla con verve, e a proposito, non parla mai troppo. E lui non per caso era considerato, bando alle false modestie, uno dei migliori conferenzieri sulla piazza… Nonché, in qualità di curatore e prima firma del supplemento letterario del Corriere della Sera, uno dei più apprezzati giornalisti culturali della stampa italiana… Per tacere dei meriti acquisiti come drammaturgo e librettista d’opera.

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Immergersi nella cara provincia piemontese gli piaceva sempre. Ci tor-nava non appena era libero dagli impegni giornalistici, che lo tratteneva-no per la maggior parte dell’anno a Milano. Nel mese di agosto la sua presenza a Colleretto era garantita. Non c’era niente di più bello che salire in compagnia della devota con-sorte sulla carrozza carica di bagagli e lasciarsi alle spalle la capitale lombarda per un viaggio fino all’Alto Canavese. Il paesaggio era bellis-simo e gli riempiva il cuore, in particolare l’immagine in lontananza del Gran Paradiso e delle Prealpi Biellesi. Peccato che la rigogliosa ma umida campagna della sua infanzia fornisse scarso refrigerio dalla canicola. Da quando alla fine di luglio si erano tra-sferiti a Colleretto, il solleone era divenuto sempre più implacabile. Do-po una settimana l’afa aveva appannato anche il profilo delle montagne che si ergevano maestose all’orizzonte. Alle dieci di mercoledì dodici agosto Giacosa era rimasto sordo ai moniti di Maria che, preoccupata per la brutta asma che lo affliggeva da qualche anno, non voleva s’avventurasse sotto il sole già rovente. Ma per nulla al mondo lui avrebbe rinunciato ad andarsi a sedere al prediletto tavolino dell’unica locanda del paese. In quel periodo lo impegnavano due lavori, uno piacevole, l’altro assai meno: la revisione finale de “Il più forte”, una commedia cui teneva mol-to, e la laboriosissima stesura, in collaborazione con l’amico Illica, del libretto di un’opera di ambiente orientale incentrata sulle pene amorose di una geisha. Giacomo Puccini era attratto da storie del genere, e anche a lui tutto sommato non dispiacevano, a parte la tendenza del composito-re viareggino a far diventare matti lui e Luigi con continue richieste di rifacimenti. Gli impegni letterari nel suo angolo a “Il Gallo ruspante” erano più leg-geri, tra bibite fresche e quattro chiacchiere (che si trasformavano in lun-ghi suoi monologhi…) col proprietario e gli altri, scarsi avventori. Ma non mancava quasi mai qualcuno che venisse a rendergli omaggio. Era un piacevole onere cui una celebrità del luogo non poteva sottrarsi. Così non si stupì nel veder presentarsi al locale il sindaco di Colleretto. «Avvocato carissimo!» lo salutò Carmine Panero appena varcata la so-glia. Il sindaco, un pezzo d’uomo con una folta capigliatura che faceva invidia al pelatissimo Giacosa, era gioviale fino alla leziosità e vestito con ele-ganza ricercata ma inguaribilmente provinciale. Chiamava avvocato il commediografo per il pregiudizio, anch’esso provinciale, di considerarlo l’unico titolo qualificante tra quelli che l’illustre concittadino poteva

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vantare. Era un modo per dare importanza anche a se stesso, visto che esercitava la professione forense. «Esimio sindaco!» rispose Giacosa con cerimoniosa deferenza. L’arrivo dell’uomo l’aveva messo di buon umore. Panero era persona di cultura e anche intelligente, ma la vanità con cui s’immedesimava nella carica di primo cittadino lo trasformava, non solo agli occhi di Giacosa ma anche degli altri colleresi, in una macchietta. Giacosa pensava di divertirsi alle sue spalle. «Si segga, si segga qui con me caro Carmine!» Panero fece un’espressione di rammarico. «Eh, molto volentieri, se avessi tempo… in municipio mi reclamano pra-tiche urgenti.» Giacosa trattenne a stento un sogghigno; figurarsi se l’uomo avrebbe perso l’occasione per sottolineare l’importanza del suo incarico pubbli-co… «Sono qui per avvertirla che la desiderano al telefono.» La sorpresa spense di colpo l’allegria di Giacosa. Il telefono comunale era l’unico del paese. Non ce l’avevano nemmeno tutti i grandi comuni, figuriamoci uno minuscolo come Colleretto; ma Panero aveva smosso le montagne per ottenere l’allacciamento, pagando di tasca propria. Ne a-veva fatto un punto d’onore. L’unica volta che qualcuno aveva provato a rintracciare Giacosa sulla linea comunale era per comunicargli la notizia di un lutto. «Una chiamata dalla Francia da parte di un suo amico» lo rassicurò Pa-nero «il cavalier Auguste Dupin.» «Perbacco!» esclamò tutto eccitato il commediografo, e senza por tempo in mezzo sollevò dalla sedia la pachidermica mole incominciando a rac-cogliere e infilare nella borsa la stilografica e le carte appoggiate sul ta-volino. «Andiamo!» Un quarto d’ora più tardi, ansante per il percorso attraverso le strade in-fuocate, stava seduto alla scrivania del sindaco. Panero l’aveva lasciato solo per discrezione, e il commediografo attendeva di comunicare con la casa di riposo “Parnassus sur terre” di San Germaine en Laye. “Auguste Dupin! Che emozione poterlo risentire!”

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Alla prima della Carmen di Arturo Toscanini, nell’ultimo dicembre, ave-vano avuto un momento di intensa complicità; negli ultimi sette mesi lui aveva sperato di poter mantenere fede alla promessa, annunciata nell’articolo uscito sulla prima pagina del Corriere il ventotto dicembre, di raccontare i retroscena della sospensione della recita di Santo Stefano, evento ancora misterioso ad onta della spiegazione ufficiale. Contava di riuscirci grazie alle confidenze di quello che riteneva esser divenuto un proprio grande amico. Invece da allora il cavalier Dupin a-veva respinto ogni tentativo di riallacciare il rapporto. Di più; sulla vi-cenda aveva mantenuto uno stretto riserbo. Ma infine quel muro di silenzio sembrava caduto, e Giacosa pregustava di poter raccogliere l’eredità del grande Edgard Allan Poe aggiungendo un nuovo capitolo alla biografia dell’anziano ma sempreverde investiga-tore parigino. Dall’altro capo del filo Dupin, con la sua voce inconfondibile anche se fioca per la cattiva ricezione - e la vecchiaia… - diede immediata prova della sua capacità di leggere il pensiero. «So di deluderla, caro Giacosa» esordì nel suo buon italiano «ma non ho intenzione di parlare dei fatti dello scorso ventisei dicembre.» Giacosa restò senza parole, cosa rara per un loquace inguaribile. La prontezza nel cogliere il lato positivo delle cose lo aiutò a riprendersi. Dupin sapeva di imporgli una grave rinuncia, perciò confidava di poterla compensare. Immediata gli si accese la curiosità per l’argomento che il cavaliere rite-neva degno di stare alla pari coi misteri dell’inaugurazione scaligera. «La chiamo» seguitò il suo interlocutore «a proposito della prossima “fe-sta dell’apparizione” al santuario della beata vergine addolorata, a Ber-gamo.» Di nuovo Giacosa non riuscì a trovare una replica pronta. Ricordava solo vagamente la cerimonia menzionata da Dupin, per averne letto qualcosa sul Corriere della Sera senza prestarvi particolare atten-zione. Il cavaliere doveva aspettarselo visto che lui, vissuto in Piemonte e a Milano, non poteva essere esperto delle usanze bergamasche. Peraltro non era nemmeno conosciuto come attento alle tradizioni ecclesiali; di-ciamo pure che era un credente tiepido e un praticante discontinuo. Qualcuno insinuava addirittura, calunniosamente, che fosse “senza Dio”, ma rimaneva che ben pochi avrebbero pensato di ricorrere a lui su que-stioni legate al culto cattolico. Per di più neppure Dupin, a quanto si sa-peva, aveva mai mostrato interesse per la religione.

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«Eppure della notizia si è parlato parecchio, lì in Lombardia…» aggiunse il cavaliere percependo lo sconcerto di Giacosa. Giacosa trovò finalmente modo di riscuotersi da par suo: «Il fatto è, caro amico, che i quarant’anni di differenza tra di noi pesa-no…! Io non ho ancora raggiunto l’età in cui il problema dell’aldilà di-venta così pressante da risvegliare la devozione alla Madonna!» La risata di Dupin arrivò nitida all’orecchio di Giacosa. «Lei la pensa come “l’amico” che, sia pure in modo sibillino, mi ha se-gnalato la festa dell’apparizione! Mi sono informato, e so che lei ha un confortevole appartamento a Milano dove potrebbe ospitarmi. I collega-menti tra Milano e Bergamo sono piuttosto comodi.» Se Dupin pensava di poter passare subito a definire i dettagli del suo nuovo soggiorno milanese, Giacosa provvide a disilluderlo. Forse il cavaliere era troppo abituato ad aver a che fare col suo collabo-ratore preferito, quell’Antoine Juve che la sera del ventisei dicembre gli aveva presentato come suo nipote e che poi aveva scoperto essere invece un vice ispettore della polizia parigina. Per quanto avesse potuto osservarli insieme solo per poco tempo, gli era parsa chiara la deferenza di Juve nei confronti di Dupin. Ma il cavaliere non poteva aspettarsene una eguale da parte sua. «Caro Dupin» replicò «sarei felice di godere ancora della sua compagni-a, così da approfondire una conoscenza che si è dimostrata proficua per entrambi. Ma non posso stravolgere il programma delle mie vacanze, concordato con mia moglie.» In realtà non aveva concordato nulla; Maria subiva ogni anno la scelta di tornare al paesello nel mese di agosto, rammaricandosi in silenzio di do-ver lasciare il più interessante capoluogo lombardo dove tra l’altro abita-vano le famiglie, ricche di nipotini, di due delle loro figlie. Il cavaliere non si scompose. «Forse non ha capito che le sto offrendole materiale di prima mano per scrivere il racconto della mia prossima indagine.» «Sarò ben lieto di farne il resoconto quando si sarà conclusa. Com’è av-venuto con mister Poe, no?» «Si sbaglia. Mister Poe mi ha affiancato nelle indagini sui delitti della Rue Morgue e sull’omicidio Roget. Solo che poi per scelta letteraria ha

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preferito celarsi dietro a un fantomatico terzo, l’amico anonimo che narra le due storie, e anche la terza, quella sulla lettera introvabile.» «Se ha bisogno di un collaboratore sul campo farebbe meglio a rivolgersi al vice ispettore Juve, cavaliere.» «Mi sta deludendo, Giuseppe» disse Dupin passando a un tono più con-fidenziale «dovrebbe capire che questa possibilità è impraticabile.» «Si spieghi meglio, Auguste» replicò Giacosa, lusingato di potersi rivol-gere a Dupin col nome di battesimo. «Be’, dopo i fatti dello scorso dicembre l’amico Juve non gode di buona considerazione alla Sureté, e la responsabilità è mia, che l’ho coinvolto in quell’indagine. Juve è senza dubbio la più brillante promessa della po-lizia parigina, ma la sua carriera al momento è in una fase delicata. Non me la sento di trascinarlo in un’avventura incerta e rischiosa, come sem-pre quando c’è di mezzo un criminale del calibro del “Fantasma”…» «Altolà, Auguste! Mi sta dicendo che costui esiste veramente? Eppure sette mesi fa le polizie di ben tre stati europei si sono dichiarate concordi nell’escluderlo!» «Tentativo astuto da parte sua, Giuseppe, ma non riuscirà a farmi sbotto-nare sul caso del furto - o presunto tale - del ventaglio di Floridablanca. Consideri tranquillamente oro colato la versione ufficiale. Io sto chie-dendole di partire da zero con un nuovo caso. Già una volta ho avuto bi-sogno del suo aiuto, e lei me l’ha generosamente fornito. Aiuto prezioso, devo ammettere. Ora le sto chiedendo qualcosa di più, ovvero una vera e propria collaborazione con una contropartita credo molto conveniente. Comprendo le sue perplessità, e penso di riuscire a fugarle, ma non pos-siamo continuare a discutere per telefono…»

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2 Per il momento Giacosa vedeva un unico lato positivo nella decisione presa (o carpitagli?): il radioso buonumore di Maria. Quando le aveva proposto di tornare a Milano per ricevere un personag-gio di riguardo, era rifiorita. Entusiasta per l’imprevisto rientro in città, non aveva neppure approfondito le ragioni che spingevano di nuovo nel capoluogo lombardo quel cavalier Dupin, arzillo nonagenario con fama di cervellone. L’altro incontro tra suo marito e Dupin avrebbero dovuto metterla in allarme, ma la seduceva troppo l’idea di poter fare un po’ di vita mondana sottraendosi alla monotonia della campagna canavese. Il marito invidiava il suo entusiasmo e si era ben guardato dal frustrarlo. Temeva tuttavia che il rendez vouz con Dupin non sarebbe stato la pia-cevole parentesi di novità che sua moglie vagheggiava. Avrebbe dovuto declinare l’invito del cavaliere. Questi era un intellettua-le delizioso, ricco di saggezza per la veneranda età, ma con l’irresistibile vocazione - lo dimostravano le sue gesta narrate da Poe - a scovare den-tro a torbide vicende la mala pianta della perversione umana. Il fatto era che Dupin - o meglio Auguste come ormai aveva il privilegio di chiamarlo - aveva toccato le corde giuste per convincerlo: passare alla storia come prosecutore dell’opera del genio letterario di Boston avrebbe smosso anche scrittori meno dotati e ambiziosi di lui. Giacosa aveva informato riservatamente il direttore del Corriere della Sera a proposito del progetto, sul quale contava di pubblicare - a puntate in terza pagina - il resoconto di quell’avventura. Aveva ricevuto da Al-bertini un’approvazione entusiastica. “E bravo Auguste!” pensava mentre attendeva nel caldo asfissiante della Stazione Centrale che Dupin comparisse al cancello dell’area d’attesa per i parenti.

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Al suo fianco, abbigliata con un vezzoso vestito di seta verde pastello e munita di ombrellino bianco tutto trine, stava Maria, fresca, sorridente e profumata come se fosse maggio e non il picco infuocato dell’estate. Te-neva a esser presente all’arrivo del treno che portava l’ospite, e lui l’aveva assecondata. Ammirava e detestava al tempo stesso la capacità della moglie di mostrarsi a proprio agio in qualsiasi circostanza. A esser sinceri, a Milano avevano trovato un clima migliore che a Colle-retto. Il sole batteva senza sosta e le temperature stazionavano sopra i trenta gradi quasi tutto il giorno, ma era un caldo più secco e dunque più sopportabile di quello umidissimo e spossante del Canavese. Con tutto ciò la stazione, con quella gigantesca cupola che sovrastava le banchine soffocando l’aerazione, alle undici di quel quattordici agosto era un for-no. Lui almeno, tutto rosso in viso e grondante di sudore sotto ai vestiti, si sentiva cuocere. Era un po’ preoccupato per Dupin, costretto ad affronta-re quella botta di calore con lo svantaggio degli oltre novant’anni. Lo vide sopraggiungere in coda a tutti gli altri passeggeri, sostenendosi nel lento incedere col bastone a testa d’aquila. Benché avvolto in un completo primaverile di vetusta eleganza, con tanto di soprabito e bom-betta, mostrava lo stesso aplomb del loro incontro nel rigido dicembre scorso. Simpatizzando istintivamente con l’ospite, simile a lei nell’imperturbabilità al clima, Maria gli si fece incontro con slancio. «Carissimo cavaliere! Spero abbia fatto buon viaggio.» Giacosa intuì dall’espressione di Dupin che l’anziano investigatore non era entusiasta di trovar lì sua moglie. Tuttavia in lui il gentiluomo riprese il sopravvento, e restituì il saluto chinandosi per un galante baciamano eseguito alla perfezione nonostante l’equilibrio incerto. «Cavaliere, che fa? Non deve! Si tiri su!» esclamò Maria aiutandolo premurosa a rialzare il busto. In realtà - come ben sapeva il marito - era sensibile ai complimenti ma-schili, specie da quando si era alquanto ingrossata mettendo su due fian-chi da matrona che gli abiti a vita stretta in voga nella moda femminile faticavano a inguainare. Maria si trovava nell’età in cui una donna gra-ziosa si ribella con tenace puntiglio, pur se con scarsi risultati, al proprio sfiorire. «Signora cara, quando non riuscirò a rendere a una creatura leggiadra come lei l’omaggio che merita, vorrà dire che riposerò nella tomba da un pezzo!»

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«Troppo gentile, signor Dupin!» si schermì Maria, lusingatissima. Il panegirico del cavaliere aveva lasciato perplesso Giacosa, soprattutto per l’accenno alla sua dipartita da questo mondo, inquietante da parte di chi mostrava interesse per il culto mariano. S’incaricò di dissipare l’alone di malaugurio che le parole di Dupin ave-vano lasciato dietro di sé. «Suvvia cavaliere! A giudicare dalla sua invidiabile forma, lei avrà modo di fare il galante con le signore per molti anni ancora!» Il viaggio fino alla centralissima residenza di via Dante, con le tendine della carrozza che faticavano a contenere la luce sfolgorante, fu monopo-lizzato dalla conversazione di Maria, che si profuse nell’illustrare a Du-pin le bellezze di Milano. Giacosa, sornione, si ritagliò una parte da comprimario per osservare l’atteggiamento del cavaliere. Continuò a percepire un certo fastidio sot-to la sua impeccabile cortesia, il che incominciò a divertirlo. Era chiaro che Dupin desiderava intrattenersi quanto prima e tu per tu con lui. Quantunque non gli avesse detto che Maria lo avrebbe accompa-gnato in città, doveva aspettarselo. La sorpresa stava nel vedersi ricevere come un ospite di famiglia, oggetto di squisite premure da parte della padrona di casa. Vedendo che Maria stava prendendo gusto a questo ruolo, decise di la-sciarle condurre le accoglienze come accadeva con i visitatori non appar-tenenti alla categoria dei letterati o in genere degli uomini di cultura, che lui tendeva a trascurare. Era curioso di vedere come Dupin avrebbe reagito al suo distacco, dopo la considerazione che gli aveva riservato a dicembre. A volte Giacosa pensava che lui e Maria, al di là d’essere figli di fratelli, si fossero proprio trovati. La moglie, quando ci si metteva, sapeva essere vivace e ciarliera quanto lui. Aveva ricevuto un’ottima educazione ed era donna di buone letture. Dupin non riuscì a liberarsi dalle amabili spire di Maria fino a quando, servito il caffè in salotto dopo un pranzo leggero, Giacosa ritenne di a-verlo tenuto abbastanza sulle spine e chiese alla moglie di lasciarli soli “per una fumatina di sigaro e quattro chiacchiere sui nostri argomenti preferiti”.

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Maria non la prese benissimo. Oramai si riteneva parte di un rapporto di amicizia a tre, anche se era stata soprattutto lei ad aprirsi con Dupin men-tre questi si era mantenuto sulle sue. Se ne andò col dispiacere di doversi ritirare proprio quando la conversazione si faceva più interessante. «Sua moglie è molto simpatica» esordì il cavaliere non appena la porta si richiuse dietro di lei. La finestra del salotto, all’ultimo piano, aveva le ante aperte con le ser-rande abbassate, ma il riverbero acceso del sole filtrava abbondantemen-te nella stanza. Il caldo, per quanto intenso, era sopportabile. «Ma indiscreta» aggiunse subito Giacosa «non abbia paura a dirlo.» «Vede caro Giuseppe, io non mi sono mai sposato. Non per misoginia, tutt’altro; giudico meraviglioso l’altro sesso. Ma ho molti dubbi che la detection sia adatta alle donne. Forse per lo stesso motivo per cui non lo è nemmeno il gioco degli scacchi. So che lei ne mastica, giusto?» «Se si riferisce a “Una partita a scacchi” - l’atto unico che ho scritto in gioventù - sta facendo una gaffe, Auguste; la protagonista è una campio-nessa del gioco.» «Perdoni l’ignoranza. Mi riprometto di leggerlo. Gli scacchi hanno avuto un ruolo centrale nelle mie due ultime indagini. Volevo dire che ci sono attività agli antipodi con la natura femminile. L’investigazione criminale e gli scacchi sono tra queste. Come la guerra, del resto. Ecco; tutto quan-to ha a che fare con la prevaricazione e l’assenza di scrupoli - gli scacchi sono una battaglia senza esclusione di colpi, no? - non è affare da don-ne.» «Insomma, sta dicendo che Maria deve essere tenuta al di fuori dell’impresa, chiamiamola così, che mi sta proponendo.» «Vedo che non fatichiamo a capirci, Giuseppe!» «Cosa le fa pensare che io possa aiutarla in una faccenda caratterizzata da - come ha detto? - ah: “prevaricazione e assenza di scrupoli”.» Il volto raggrinzito di Dupin si aprì a un sorriso. Gli occhi azzurrissimi brillavano. «Voglio essere sincero fino in fondo: nella mia nuova indagine ho biso-gno di una base qui in Italia. Lei era quello che faceva meglio al caso.» Anche gli occhi scuri di Giacosa, piccoli nel tondo viso paffuto, luccica-vano d’arguzia. «Dica piuttosto che sono l’unico candidato possibile.» «Non si butti giù!» il cavaliere era visibilmente divertito «lei ha anche, per fortuna, l’elasticità mentale indispensabile.» Per lo spiccato amor proprio, Giacosa era costretto a credergli. Ma rima-neva il dubbio che la scelta di Dupin fosse caduta su di lui per necessità;

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a quale altra persona ben introdotta e di fiducia poteva rivolgersi per una trasferta in quel di Bergamo? Conosceva l’italiano, d’accordo, ma era pur sempre un anziano signore francese che raramente si era mosso da Parigi, a parte il soggiorno milanese di fine 1902. «Mi dica come mai le è venuto tutto questo interesse per l’anniversario dell’apparizione.» «Così mi piace, Giuseppe! Finalmente ritrovo il compagno d’avventura dello scorso ventisei dicembre! Guardi, voglio partire proprio dall’inizio» estrasse dalla tasca della giacca una busta, porgendola al suo interlocutore «legga, legga! È la lettera che mi è arrivata qualche giorno fa.» Giacosa ripose il sigaro che fino ad allora si era gingillato tra le mani senza accenderlo e si alzò a fatica dalla poltrona per prenderla. Riaccomodatosi con altrettanto impaccio per l’ingombro della pancia, incominciò a esaminare l’indirizzo, vergato con tratto rotondo: Ecc.mo cavalier Auguste Dupin, presso Parnassus sur Terre, San Germaine en Laye. Dupin sorrideva, convinto che a lui quella calligrafia nitida e sicura do-vesse suggerire qualcosa. In realtà per il momento non gli diceva nulla. Estrasse il foglio e incominciò al leggere. Il testo era in francese, ma Giacosa conosceva bene l’idioma d’oltralpe e non ebbe difficoltà a com-prenderlo. Egregio cavaliere, Non crede urga prendersi cura della sua anima immortale? Non mi fraintenda: le auguro ancora lunga vita, ma mi preoccupa che il suo pervicace culto della razionalità la tenga lontano dalle pratiche religio-se. Mi permetto di suggerirle un ritorno all’ovile di santa madre Chie-sa… quanto le farebbe bene il conforto della fede! Tutti noi dobbiamo rassegnarci a essere esentati dai quotidiani triboli dell’esistenza, un giorno. Mi raccomando, non la prenda come un’estrema unzione! Le faccio mille auguri. Il suo affezionato nemico «Che ne dice?» chiese Dupin appena Giacosa alzò lo sguardo dal foglio.

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Con le scure sopracciglia aggrottate, i baffoni tinti e la barba bianca ca-dente fin sotto al mento, il faccione di Giacosa esprimeva una buffa per-plessità. «Dico che ci vuole fantasia a trovare in queste righe un riferimento alla festa dell’apparizione di Bergamo.» «Non sia affrettato» fece il cavaliere con compiaciuto tono didattico «la lettera richiede un’analisi attenta. Innanzitutto le fornisco un’informazione importante: l’ha scritta il criminale conosciuto sotto il nome di “Assassino fantasma” o più semplicemente “Fantasma”. Ne so-no sicuro perché conosco bene la sua grafia. Fermo là!» aggiunse prima che Giacosa potesse aprir bocca «indipendentemente dall’indagine uffi-ciale sull’ultima prima al Teatro alla Scala, che ne ha smentito il coin-volgimento, so per esperienza diretta che questo individuo esiste. La sua caratteristica, come dice il soprannome, è di non lasciar tracce della pro-pria presenza grazie a una non comune capacità di assumere le sembian-ze altrui. Io e il Fantasma abbiamo da tempo una questione in sospeso. Lui si vanta di poter sfuggire alle mie indagini, mentre io posso dimo-strare di aver sempre smascherato i suoi piani prima che li portasse a compimento, anche se per circostanze accidentali non sono riuscito a cat-turarlo. Così lui continua a sfidarmi annunciando dove e quando progetta di realizzare un colpo. La sua specialità è il furto di oggetti molto prezio-si e molto ben custoditi…» «Be’, non nego che la “corona dell’addolorata” abbia queste caratteristi-che, ma…» «Ero sicuro che non avrebbe indugiato a documentarsi sul prossimo an-niversario dell’apparizione!» «Ho fatto di più caro Auguste» fece Giacosa con un sorriso orgoglioso «mi sono rivolto a una fonte diretta e autorevolissima. Deve sapere che l’arcivescovo di Milano, il cardinal Ferrari, mi onora della sua amicizia.» «Ma è fantastico, Giuseppe» esclamò Dupin. Era certo che, se non glielo avessero impedito le logore articolazioni delle gambe, si sarebbe alzato di scatto per abbracciare Giacosa.

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3 Rinchiusa da imponenti palazzi, tutta acciottolata e con scarso verde, Piazza Fontana alle otto e trenta del mattino era già afosa nonostante la presenza, al centro, della fontana in stile neoclassico da cui prendeva il nome. Giacosa, come Dupin aveva potuto constatare, si era svegliato con la lin-gua particolarmente sciolta; appena furono scesi dalla carrozza si profuse in una dotta presentazione del luogo. «Benvenuto in una delle piazze storiche di Milano! È stata concepita alla fine del 1700 dall’allora “imperial regio architetto” Giuseppe Piermarini, cui si deve anche l’ideazione della fontana che vede là in mezzo con ai piedi quelle piacevoli sirene scolpite nel marmo di Carrara. Detto en pas-sant, Piermarini è anche il progettista dell’edificio che accoglie il Teatro alla Scala, a lei ben noto giusto?» strizzò un occhio a Dupin, che teneva a braccetto, visibilmente poco ricettivo alla dissertazione. Giacosa se ne accorse, e nell’accompagnarlo a lenti passi verso il “Portale del Pellegri-no”, entrata della sede arcivescovile, aggiunse: «La capisco sa? Neanche io stravedo per le arti figurative… preferisco di gran lunga la letteratura, e non solo per deformazione professionale: il potere evocativo della parola scritta è impareggiabile! Adesso, per esem-pio, crede subisca la suggestione di questo grandioso ingresso manieri-sta, commissionato a metà del ‘500 dal cardinal Carlo Borromeo all’architetto Pellegrino Tibaldi? Macché! Con l’occhio dell’immaginazione mi sposto intorno al 1630, una cinquantina d’anni dopo la scomparsa del grande cardinale, e vedo muoversi in questa dimo-ra il suo altrettanto meritevole cugino, il cardinal Federigo, come ce l’ha descritto il padre della moderna letteratura italiana!»

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Non c’era niente da fare; Giacosa soffriva, felicemente per lui un po’ meno per gli interlocutori, d’incontinenza verbale. Dupin lo sapeva, e l’aveva preventivato. Le chiacchiere del commediografo, beninteso, non erano banali, al con-trario amenissime; solo che seguivano il suo estro volubile, col rischio di confondere chi lo stava ad ascoltare. Vero anche che nella serata di Santo Stefano, alla prima della Scala, pro-prio nel torrentizio discorso di Giacosa Dupin aveva trovato il bandolo della matassa. «Conosco e apprezzo “I promessi sposi”» disse il cavaliere «ma adesso sono concentrato sul nostro imminente incontro. Il cardinal Ferrari ha fama di persona straordinaria!» «Certo! Degno dei due predecessori di cui abbiamo parlato! Attualmente è reduce dal Conclave che ha eletto Papa Pio X, il Patriarca di Venezia, Giuseppe Melchiorre (sic!) Sarto. Dell’argomento, com’è ovvio, non farà con noi il minimo accenno; ma avrà saputo, caro Auguste, delle indiscre-zioni sull’andamento del Conclave!» In realtà il commediografo avrebbe dovuto aspettarsi da Dupin un’attenzione solo superficiale alle vicende vaticane; la cultura razionali-sta del cavaliere era quanto più lontano dalla chiesa cattolica, istituzione basata su dogmi e verità indiscutibili. Forse Dupin non era pregiudizialmente irreligioso, più probabilmente agnostico, in linea col rigore del suo approccio che non dava nulla per scontato. Ma era prevedibile il suo sfavore verso gli aspetti politici del Papato. In accordo col “bonapartistismo” che accomunava tutti i liberi pensatori d’oltralpe, a cui egli a buon diritto apparteneva, per certo considerava lo Stato Vaticano un ostacolo al progresso civile. Tuttavia l’interesse per il cattolicesimo, suscitatogli dalla sibillina lettera del Fantasma, doveva averlo indotto a riservare un occhio di riguardo al conclave apertosi dopo la morte di Leone XIII. Sul collegio cardinalizio incaricato di scegliere il nuovo Pontefice, riuni-tosi a Roma il primo agosto, era calato un fulmine a ciel sereno. Si profilava una rapida elezione del cardinal Mariano Rampolla del Tin-daro, segretario di stato e più stretto collaboratore del Papa defunto. Ma il primate polacco, cardinal Pawel Puzyna, aveva estratto dal cilindro lo “ius exclusivae” affidatogli dall’imperatore d’Austria e Ungheria, ovvero il diritto, riconosciuto ai sovrani cattolici, di opporsi all’elezione di un candidato sgradito, in quel caso proprio il cardinal Rampolla. Era un pri-

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vilegio antichissimo, assai controverso, più volte esercitato nella storia della Chiesa. Le voci trapelate parlavano di profondo sdegno fra tutti i cardinali, cul-minato nella dichiarazione dell’arcivescovo di Milano, che aveva parlato senza mezzi termini di “episodio disgustoso”. Ciò tuttavia non aveva evitato che la candidatura del cardinal Rampolla sfumasse, e che nella solenne cerimonia dello scorso 9 agosto il patriarca di Venezia fosse incoronato Papa col nome di Pio X. La reazione stizzita del cardinal Ferrari, per come veniva riportata, era probabilmente un’esagerazione giornalistica, ma ben si accordava all’ispirazione dell’arcivescovo, che aveva sempre privilegiato l’azione pastorale a contatto con il popolo, sostenendone le istanze di emancipa-zione civile e riscatto sociale. Nessun dubbio quindi che il cardinal Ferrari fosse insofferente ai giochi di potere; l’ostracismo austriaco verso Rampolla nasceva dal sospetto di un eccessivo riguardo del segretario di stato uscente verso gli interessi francesi. Il Ferrari non era nemmeno troppo convinto, pur rimanendo fedele all’istituzione, dello sdegnoso isolamento in cui la Chiesa si era arrocca-ta. Dopo la presa di Porta Pia la Santa Sede, ritenendo un sopruso l’annessione dello Stato Vaticano, aveva bandito ogni impegno attivo dei cattolici nelle istituzioni civili italiane, mentre secondo il cardinale ciò avrebbe potuto contribuire a risollevare, se esercitato con saggezza, le condizioni della povera gente. «Sì, ho saputo del “veto laicale” di Francesco Giuseppe, e l’arcivescovo Ferrari ha tutto il mio consenso per essersene scandalizzato. Non mi spiego però come un religioso così socialmente impegnato possa aver aderito, con un ruolo di primo piano, ai prossimi festeggiamenti per la festa dell’apparizione…» Giacosa fece un sorriso malizioso. Aveva capito a cosa alludeva Dupin. L’aspetto più sfarzoso della cerimonia, l’apposizione della corona dell’addolorata, di cui il cardinal Ferrari sarebbe stato protagonista, con-trastava con la sobrietà sempre praticata dal presule parmense. Ma si stavano recando a colloquio con lui appunto per chiarire tutti i ri-svolti di quell’evento così sentito nel mondo ecclesiale lombardo.

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Giacosa temeva di scontrarsi con la ritrosia dell’arcivescovo, visto che gli aveva proposto di incontrare un alfiere del libero pensiero, frequenta-zione insidiosa in un periodo in cui il cattolicesimo si sentiva minacciato dalle tendenze culturali e filosofiche del mondo moderno. Invece il cardinale, avendo letto l’opera di Poe nella traduzione di Bau-delaire (scelta non proprio ortodossa per un principe della Chiesa…) a-veva accettato con entusiasmo di intrattenersi con il cavalier Auguste Dupin. Come già era accaduto al commediografo di Colleretto quando lo scorso ventisei dicembre gli avevano prospettato la stessa opportunità, sua emi-nenza si era stupito che il leggendario investigatore parigino non fosse un’invenzione letteraria ma una persona reale. Dupin sapeva di dover portare quella croce sino alla fine dei suoi giorni, e forse anche oltre. Entrare nell’arcivescovado fu facilissimo perché il cardinal Ferrari aveva voluto che rimanesse, secondo tradizione, un luogo aperto a tutti. C’era solo una portineria presidiata da un paio di frati d’aspetto umile e dispo-nibile. Quando Giacosa disse loro che erano attesi da sua eminenza, li lasciarono passare senza batter ciglio, e non solo perché conoscevano il commediografo; avrebbero indirizzato all’arcivescovo anche due scono-sciuti straccioni, cosa che doveva accadere spesso. L’interno del palazzo era maestoso ma senza sfarzo, e inerpicarsi su per l’ampia scalinata che conduceva agli alloggi cardinalizi causò a Dupin un po’ d’affanno, anche se appoggiandosi al bastone riuscì a completare la salita di buona lena. Quando giunsero a meta il più ansimante era Giacosa, sfavorito dalla mole massiccia. Addirittura Dupin si preoccupò, sentendo il suo respiro sibilare un po’ troppo. «Niente paura!» lo rassicurò Giacosa recuperando il fiato «residui di una brutta infiammazione alla gola.» Dupin glissò, anche se nelle lunghe chiacchiere con la moglie non gli e-rano sfuggiti alcuni accenni all’indisciplina del marito nel curare un principio d’asma. Giacosa aveva sempre cambiato discorso con insoffe-renza, segno che si ostinava a non riconoscersi ammalato. Chi invece godeva sicuramente di buona salute era il cinquantatreenne arcivescovo. Di struttura robusta senza essere grasso, portava la veste purpurea e lo zucchetto con signorile solennità, dando un’impressione d’imponenza benché arrivasse a stento al metro e sessantacinque.

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A Giacosa veniva da paragonarlo a Carmine Panero, spilungone sempre col petto in fuori, ma non c’era confronto; il sindaco di Colleretto sareb-be rimasto vita natural durante un avvocaticchio di paese, mentre l’arcivescovo Ferrari faceva subito percepire la propria grandezza. Giacosa lo ringraziò, anche a nome di Dupin, per aver acconsentito a ri-ceverli la mattina di Ferragosto, per l’arcivescovo piena di impegni per l’imminente messa delle undici nel Duomo. «Così lei ha ritrovato la “lettera rubata”!» se ne uscì l’arcivescovo, rivol-gendosi al cavaliere con un sorriso di simpatia non appena si furono ac-comodati nel salotto del suo ufficio, essenziale ma trasudante il fascino dei luoghi storici. Giacosa, eccitato dal trovarsi in una sorta di scena apocrifa del capolavo-ro manzoniano, si sostituì prontamente a Dupin nel rispondere: «Già, un bel colpo di genio! E il nostro cavaliere, quantunque abbia su-perato da un po’ il traguardo dei novant’anni, non ha perduto nulla del suo acume!» Il commediografo sapeva, un po’ compiacendosene, che Dupin temeva la sua esuberanza verbale. Avevano concordato di non rivelare al cardinale, per ovvia cautela, i reali motivi del loro interesse per l’anniversario dell’apparizione. La scusa, proposta da Giacosa e approvata dal cavalie-re, era il proposito di dedicare sul supplemento del Corriere della Sera un servizio sull’evento (a Giacosa l’idea non dispiaceva in assoluto) allar-gando il discorso alla centralità, nella tradizione italiana, delle manife-stazioni di religiosità popolare. L’ottica avrebbe dovuto essere rispettosa ma critica, secondo la tradizione liberale del quotidiano milanese. La presenza di Dupin, cui Giacosa aveva chiesto di collaborare, avrebbe ga-rantito un confronto con analoghe manifestazioni di culto di massa in Francia, ben conosciute (?) da una personalità dai multiformi interessi come il cavaliere, nonché un particolare rigore grazie al metodo logico-deduttivo dell’ospite francese. Una spiegazione insolita, per non dire ai limiti della credibilità. Proprio per quello, vista l’esperienza e la statura intellettuale del loro in-terlocutore, Dupin si era raccomandato con Giacosa di non strafare. Il commediografo attraversava una fase di notevole autostima, ammesso che quest’ultima mai si affievolisse in lui, per l’intuizione avuta il giorno

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prima mentre continuava a esaminare assieme al cavaliere la lettera del Fantasma.

*** «Raffreddi l’entusiasmo» aveva detto a Dupin, dopo che questi si era ral-legrato del contatto con l’arcivescovo di Milano «non intendo scomodare l’amicizia con sua eminenza prima di essermi convinto che l’obiettivo di questo Fantasma sia proprio la corona dell’addolorata. Concedo che il suo messaggio indichi un luogo di culto, ma si rende conto di quanti te-sori non facilmente trafugabili sono custoditi nelle chiese della nostra bella Europa? E dico Europa in quanto non è nemmeno certo che il ter-reno d’azione del Fantasma sarà l’Italia. Perché questo portentoso crimi-nale non potrebbe aver messo gli occhi, per esempio, sulla Trasfigura-zione di Raffaello, custodita nei munitissimi Musei Vaticani? Colpo sen-sazionale, non trova? Altrettanto clamoroso sarebbe, se mi permette, riu-scire a impadronirsi della croce del tesoro di San Giovanni realizzata da Antonio Pollaiolo con altri artisti per il Battistero di Firenze, e conserva-ta con ogni cura nel Museo di Santa Maria del Fiore. Senza troppo allon-tanarsi da casa il suo Fantasma avrebbe potuto assurgere a imperitura no-torietà mettendo le mani sulla Santa Corona di Spine, vanto della catte-drale di Notre Dame. E che dire di un bottino come la statua della Ma-donna dell’Almudena, simbolo della fede cattolica spagnola, conservata nella cattedrale di Madrid? No caro Auguste, lei mi deve convincenti spiegazioni per giustificare, perdoni il termine, la sua fissazione per la festa dell’appar… accidenti!» aveva esclamato scattando in piedi con a-gilità imprevedibile per la sua considerevole stazza. Dupin sorrideva sornione. Giacosa, con impazienza, gli aveva chiesto la lettera. Avutala, si era messo a scorrerla. «Ah, ecco qui!» aveva esclamato «ero sicuro di non sbagliarmi! Si chiu-de con “Le faccio mille auguri. Il suo affezionato nemico”!» «Con ciò?» aveva fatto eco il cavaliere con affettata perplessità. «Non faccia il finto tonto, Auguste! Non avrò la sua logica, ma non sono del tutto sciocco! La città di Bergamo ha una caratteristica unica!» «Mi illumini.» «Su’, Auguste, non ha certo bisogno di una lezione sulla storia dell’unità d’Italia! Conoscerà ben le gesta dell’eroe dei due mondi!» «Non lo nego.»

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«Saprà allora che nel 1860 il Regno delle due Sicilie era sotto la domina-zione borbonica e fu annesso al Regno d’Italia grazie a una spedizione militare guidata dal generale Garibaldi!» «Per la verità, su questa vicenda ho notizie un po’ diverse, Giuseppe ca-ro» era evidente che il cavaliere stava divertendosi assai «neppure troppo difficili da reperire; basta leggere la propaganda degli ambienti vicini al-la chiesa romana. Risulta che la conquista del Regno delle due Sicilie non sia riuscita per merito del contingente, piuttosto sparuto, ai comandi del generale Garibaldi, ma grazie all’appoggio di sua maestà la regina Vittoria. Si dice che quando i patrioti italiani sbarcarono sulle coste sici-liane fossero scortati, con tutta la sua potenza di fuoco, dalla Royal Navy» «Lei è molto malizioso Auguste, ma non mi farò tirar dentro ai giochi della politica europea, che del resto interessano poco a tutti e due. Impor-ta come è passata alla storia l’impresa di Garibaldi e dei suoi seguaci. Tutti la conoscono come “la spedizione dei mille” in quanto i due battelli che salparono da Genova alla volta della Sicilia ospitavano pressappoco mille soldati, le cosiddette “camicie rosse”. Ebbene; elenchi alla mano, la maggioranza dei membri della spedizione erano bergamaschi. Ciò ha valso alla città lombarda l’appellativo di “città del mille”.» Auguste Dupin, sorridente, aveva fatto un applauso con le palme rinsec-chite. Giacosa aveva risposto con un ironico inchino, subito aggiungendo: «Non creda che tutto sia chiaro, Auguste. Rimane da spiegare il perché della preferenza del suo Fantasma. Bergamo, con tutto il rispetto, è una gran bella città ma non certo famosissima. E la corona dell’addolorata è un oggetto di indubbio valore, ma non certo più prezioso, soprattutto non più prestigioso, di altri. Senz’altro meno di quelli elencati prima…» «È un problema che mi sono posto anch’io, caro Giuseppe. Ma la rispo-sta è facile: passione irresistibile, e ricambiata, per il rischio.»

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4 «A proposito» fece il cardinale con la sua accattivante cadenza lombarda «io apprezzo la lirica, benché alcune volte scelga soggetti un po’ discuti-bili… nevvero caro Giacosa?» rimproverò sorridendo il commediografo con bonario gesto della mano «ma ho declinato l’invito del direttore Gat-ti Casazza alla scorsa prima scaligera. Non ritengo sia bene che l’arcivescovo partecipi a cerimonie civili in cui abbonda il lusso. Un pa-store si deve far vedere tra la gente umile, che soffre e lotta per guada-gnarsi il pane, e ce n’è ancora tanta, troppa nella nostra diocesi! Ho però seguito sui giornali il trambusto che ha caratterizzato quello spettacolo. Quale migliore occasione per chiedere a voi, che eravate presenti, qual-che lume? Mi interessa sapere soprattutto quanto c’è di vero nell’articolo del nostro Giacosa pubblicato sul Corriere, così indigesto alle forze dell’ordine da costringere il direttore Albertini a precisare che si tratta d’invenzione letteraria. Lei, monsieur Dupin, non mi risulta si sia ancora pronunciato in proposito.» “Eccoci subito al punto critico” pensava Giacosa “meglio così: via il dente via il dolore.” Dupin recitò con una spudoratezza così convincente che Giacosa se ne stupì. «Tutta farina del sacco del nostro valente narratore, eminenza. Con la storia dei nostri movimenti nell’intervallo ha prodotto un piccolo capola-voro di letteratura “poliziesca” degna del mio biografo statunitense. In realtà Giuseppe ha solo provato ad accompagnarmi, come gli avevo chiesto, al camerino di Toscanini, ma il precipitare degli eventi non l’ha permesso.» Il cardinale, secondo previsione, si dimostrò un osso duro. «Così il grande Dupin è capitato per caso in una vicenda che sembra ri-entrare tra i misteri investigativi di cui è solito occuparsi…» osservò pa-cato ma incalzante. Giacosa rimase ammirato per come il cavaliere riuscì a trarsi d’impaccio, mostrando disinvoltura nel rigirare gli argomenti a suo profitto.

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«Lei s’intende di miracoli eminenza, ovvero di fatti che sfuggono a qual-siasi logica. Ebbene, la mia presenza alla prima della Scala in circostanze di rilevanza “poliziesca” è, sia detto con tutto il rispetto, un specie di mi-racolo… Giuseppe, con cui sono in rapporti epistolari da anni, ha insisti-to a farmi assistere allo spettacolo per approfondire una nostra disputa tra lo stile lirico scaligero e quello dell’Opera di Parigi. Se mi sono trovato nel bel mezzo di quel popò di quarantotto, la responsabilità è tutta dell’amicizia e dell’ospitalità del nostro commediografo, null’altro!» «Non sapevo di questo sodalizio così eterogeneo; uno scrittore italianis-simo, famoso per le sue storie ricche d’approfondimento storico e psico-logico…» «Lei m’incensa troppo eminenza!» si inserì Giacosa con falsa modestia. «…il giusto, il giusto. E l’esponente, parigino che più parigino non si può, del metodo scientifico applicato alla lotta al crimine. Nel mezzo sta quella creatura geniale ma infelice di Edgar Allan Poe, che ha scoperto e fatto conoscere monsieur Dupin, benché fatichi a trovare un autore più lontano di lui dal nostro Giacosa. Ma i cardinali, per fortuna, non hanno autorità di critici letterari…» aggiunse scherzoso lasciando cadere, alme-no per il momento, la questione. «Sicché la vostra collaborazione continua!» riprese con calore «e per ra-gioni più meritorie del confronto tra il melodramma italiano e quello francese!» «Già!» esclamò Dupin «e guarda caso abbiamo a che fare con un miraco-lo altrettanto stupefacente del caso fortuito che mi ha visto presenziare alla prima della Scala!» aggiunse con una punta d’ironia. Giacosa era perplesso. Il cavaliere si era raccomandato con lui di evitare gli svolazzi dialettici in cui eccelleva, e adesso ne proponeva uno provo-catorio. Ma il cardinale era un conversatore in grado di reggere qualsiasi argo-mento. «Perdoni, caro cavaliere, se le propino una predica. Ma tutti abbiamo i nostri difetti, e io sono pur sempre un prete. Poco fa, bontà sua, lei mi ha attribuito una particolare competenza in materia di miracoli. È inesatto. Ai miracoli io ci credo e basta. In modo spontaneo, non per dovere di ruolo. Se siano credibili o meno, mi astengo da qualsiasi giudizio. In ve-rità reputo la “critica dei miracoli” un esercizio noioso. E sono contentis-

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simo quando non mi includono nelle commissioni ecclesiastiche chiama-te a valutarli. Per cui la avverto che difenderò a spada tratta il miracolo dell’apparizione!» “Parata e risposta!” pensava ammirato Giacosa. Ma l’allusione un po’ irriverente di Dupin coglieva nel segno. Non c’erano dubbi che tra i miracoli di cui l’Italia - terra prediletta dal Signo-re - abbondava, quello avvenuto il 18 agosto del 1602 nel borgo di Santa Caterina a Bergamo fosse uno dei più improbabili. Soprattutto perché mancante di vera utilità pratica, mentre la caratteristi-ca dei miracoli, oltre a sottrarsi alle regole dell’esperienza comune e del-la scienza, era portare beneficio all’afflitta umanità: guarire un malato incurabile, salvare dalla morte un poveretto che precipita in un burro-ne… Il Mar Rosso, insomma, non si era aperto per mostrare agli ebrei lo spet-tacolo di una via asciutta tra due muraglie d’acqua, ma per consentir loro di sfuggire all’esercito del faraone. Non si sapeva che tempo facesse a mezzogiorno in quella secentesca domenica d’agosto. Probabile splendesse un sole sfavillante, anche se sarebbe stato più coreografico un cielo nuvoloso, visto che secondo la tradizione una stella comparve all’improvviso e colpì con tre raggi un muro presso il ponte detto “della Spongarda”. Lì un artista, Giacomo Anselmi, qualche anno prima aveva dipinto un affresco della Madonna addolorata, ovvero la madre del Signore che tiene sulle ginocchia il cor-po del figlio appena morto sulla croce. Il dipinto, molto conosciuto e venerato tra i fedeli di quel quartiere ber-gamasco di periferia - dignitoso nonostante la povertà degli abitanti - era assai logorato dalle intemperie. I fasci di luce celeste gli fecero riprende-re l’aspetto di quando il maestro Anselmi l’aveva appena finito di pittu-rare. Enorme l’emozione della gente. Si narrava di altri non meglio identificati prodigi causati dall’apparizione della stella, ma l’unico passato alla storia - e in che modo! - era il restauro sovrannaturale dell’affresco. La storia religiosa bergamasca dei secoli successivi testimoniava una de-vozione mai sopita, che aveva portato all’erezione, promossa dalla curia vescovile fin dall’anno successivo, di un santuario nelle vicinanze del luogo del miracolo. Il riquadro di muro con l’affresco, estratto e incorniciato, era esposto nell’altare maggiore del santuario, la chiesa della Madonna addolorata. «Non tema eminenza! Sono d’accordo con lei nel considerare quello dell’apparizione il miracolo perfetto» spiazzò tutti Dupin.

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Al cardinale, udendo quell’affermazione, si illuminarono gli occhi. Giacosa, da troppo tempo ormai - per i suoi gusti - ai margini della sce-na, esclamò: «Evviva! Abbiamo una pecorella smarrita! Chissà che Domineddio non ci riservi una conversione come quella di Fernando Bernardino Visconti, alias l’Innominato!» Era una chiosa ironica, ma fino a un certo punto. Più si andava avanti e più Dupin si mostrava erudito nelle faccende di fede, come se la lettera del Fantasma gli avesse risvegliato non solo un interesse investigativo, ma anche religioso. «Il nostro ottimo Giuseppe è maestro nel trarre sagaci conclusioni, emi-nenza» fece Dupin «ma questa volta esagera. Non è ancora venuto il momento della mia conversione, anche perché, seguendo i dettami della coscienza, credo d’esser rimasto sulla retta via. Quanto alla mia adesione alla Chiesa, posso assicurare che, come ogni buon francese, sono battez-zato, comunicato e cresimato…» gli occhi del cavaliere balenavano di divertita malizia «volevo solo dire di comprendere i motivi che - secondo quanto ho dedotto - le rendono, signor arcivescovo, così caro il “miraco-lo dell’apparizione”.» «Monsieur Dupin» fece il cardinale con un sorriso compiaciuto «lei di presenza tiene testa, e anzi supera l’immagine tramandataci da mister Poe. Sentiamo!» «Be’, anche senza consultare le cronache dell’epoca è evidente che l’effige della Madonna addolorata fosse divenuta oggetto di intensa de-vozione, come spesso accade a certi tabernacoli di strada verso cui il fer-vore religioso della gente, chissà perché, si rivolge in modo particolare. L’affresco dell’Alselmi - siamo onesti - un gran capolavoro non è, né vo-leva esserlo, ma ha riscosso un successo inarrestabile. Si può star certi che a qualsiasi ora del giorno davanti all’immagine sostassero in racco-glimento fedeli, né vi mancassero mai fiori, ceri votivi e lettere di auspi-cio o ringraziamento. Sole, vento e pioggia sbiadivano sempre più la Madonna affranta col Cristo defunto in grembo, ma il pio via vai davanti al dipinto non accennava a diminuire. Tralasciamo» aggiunse dopo una pausa in cui i suoi occhi cercarono complici quelli dell’arcivescovo «se davvero comparve una stella a mezzogiorno rimettendo a nuovo l’affresco coi suoi taumaturgici raggi, o piuttosto qualche furfante, o bur-

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lone, gli abbia dato di nascosto una mano di fresco. C’interessa che il prodigio premi l’abitudine alla preghiera in quel quartiere bergamasco, dove tutto il popolo, per il tramite di quella figura scrostata impressa so-pra un muro di strada, si rimetteva con fiducia alla misericordia divina.» «Lei sarebbe un predicatore coi fiocchi, Auguste!» si complimentò Gia-cosa dedicandogli un piccolo applauso che incontrò il consenso del car-dinale. «Verissimo!» aggiunse questi «quasi quasi le propongo di sostituirmi nell’omelia alla messa dell’assunzione!» «No, quella la lasciamo tutta a lei, vero Auguste?» disse Giacosa «sa-remmo lietissimi di venire in Duomo ad ascoltarla, se non avessimo un altro impegno!» «Già…» confermò il cavaliere «confesso però, eminenza, che la corona dell’addolorata sembra stonare alla festa per eccellenza della religiosità popolare, che ha bisogno di poco per manifestarsi, non certo di simboli appariscenti e costosi…» «Eh sì…» disse pensieroso il cardinale «anch’io mi sono posto il pro-blema. Ma deve considerare che alla festa dell’apparizione sono un sem-plice ospite. Ho ben chiaro d’esser vescovo di Milano, non Papa» ag-giunse sfoderando nuovamente il suo sorriso «e le celebrazioni per il tri-centenario di quel miracolo così bello ed educativo sono competenza del vescovo locale, monsignor Carmine Elitropi, un amico col quale condi-vido molte idee pastorali. È stato Elitropi a volermi invitare, proprio per la nostra particolare sintonia. Avrei potuto respingere l’onore d’incoronare il ritratto dell’addolorata solo perché avevo da ridire sulla corona?» altro disarmante sorriso «sarebbe più giusto che ponesse il suo dubbio a Elitropi, cavaliere. Sa che le dico? Mi impegno a organizzare un incontro tra voi e sua eccellenza. Credo che sarà lieto di ricevere due personalità del vostro calibro, interessate alle celebrazioni del diciassette. Oggi stesso lo contatterò, e penso di riuscire a combinare per domani» strizzò l’occhio ai due interlocutori «qualche ascendente su di lui ritengo, modestamente, di possederlo. Sì miei cari, non c’è niente di meglio che una chiacchierata col vescovo di Bergamo per chiarirvi le idee…»

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5 Lo scompartimento era piccolo e stretto, e i duri sedili accentuavano in modo sgradevole il traballio della marcia. Almeno l’aria che entrava dai finestrini spalancati attenuava la calura. Era piacevole anche il paesaggio che scorreva ai lati del treno in corsa: campagne inframmezzate da qualche piccolo paese e in lontananza il profilo delle montagne, ben visibili malgrado il vapore dell’afa sotto al cielo senza una nuvola, invaso dalla luce potente del sole. Giacosa, non appena era comparsa la cima irregolare del “Resegone”, una mezz’ora dopo la partenza dalla Stazione di Milano, si era messo a declamare a un invero abbastanza freddo Dupin: «Addio monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo, cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente non meno che l’aspetto dei suoi più famigliari!» Stavano in un angolo solitario della vettura, ma il commediografo non avrebbe rinunciato a quella citazione ad alta voce per tutto l’oro del mondo. Era anzi sicuro che qualsiasi passeggero indigeno l’avrebbe apprezzata molto più di Dupin: “l’addio ai monti” manzoniano stava cominciando a diventare popolarissimo. «La vedo pensieroso, Auguste» provò a stuzzicarlo «non mi dica che la imbarazza incontrare il sindaco!» Dupin in effetti era assorto da quando si erano congedati dal cardinal Ferrari per raggiungere la stazione. All’arcivescovo non avevano detto dell’appuntamento a Bergamo con il sindaco della città, il conte Giuseppe Luca Belleni. Giacosa era riuscito a combinarlo grazie alle sue conoscenze, ma ancora una volta era consa-pevole che non ci sarebbe riuscito senza specificare che lo accompagna-va il suo ospite parigino.

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Nessuno dei due, Dupin e Giacosa, era troppo contento che il primo fun-gesse da “passpartout”. Il cavaliere non sembrava apprezzare che si facesse troppa pubblicità, perlomeno prima che la missione andasse in porto, alla sua presenza in Italia. Il commediografo cominciava a sentirsi un po’ irritato che la fama di Dupin facesse ombra alla sua, nonostante giocasse in casa. Il conte Belleni, un uomo politico di provincia, conosceva la narrativa poliziesca di Allan Poe. Naturalmente anche lui in prima battuta si era stupito che Dupin fosse una persona in carne e ossa. «Che bella notizia! Col cavalier Dupin potremo parlare di Sherlock Holmes, il grande investigatore londinese!» aveva commentato al telefo-no Belleni con una voce stentorea che, malignamente, Giacosa trovava simile a quella del suo collega di Colleretto Parrella. Non era dato sapere l’opinione di Dupin sul detective d’oltremanica che era divenuto più popolare del suo predecessore e, lo si poteva ben dire, maestro francese. A Giacosa Sherlock Holmes non piaceva per nulla. Non solo perché esi-stevano scarse traduzioni dall’inglese delle sue storie, ma soprattutto perché chi le scriveva, Arthur Conan Doyle, gli sembrava non valere un’unghia di Poe. «Alla mia età e con la mia esperienza, nulla più mi imbarazza. Stavo solo riflettendo. Più lo faccio più mi convinco che questa volta il Fantasma vuol superarsi. Rubare la corona dell’addolorata sarebbe difficile persino con una rapina a mano armata; il che peraltro non è nello stile del mio avversario, tantomeno dopo aver lanciato una sfida a me…» «Uhm…» fece Giacosa «eppure lei sostiene che può imitare alla perfe-zione le sembianze di chiunque… vuol dire che questo talento non è poi così efficace? Sospetto che la leggenda che circonda il Fantasma abbia contribuito a esagerarne le capacità, prima fra tutte quella trasformisti-ca…» «No» lo smentì il cavaliere «lei potrebbe essere il Fantasma nei panni di Giacosa; dico per assurdo naturalmente» gli occhi azzurri di Dupin spri-gionavano malizia «e io non riuscire ad accorgermene. È tutto dire, visto che lei è unico!» Il commediografo non sapeva se fosse una lode o uno sberleffo. Non tro-vò di meglio che sorvolare. «Deve però ammettere» replicò «che un’abilità a tal punto formidabile pone molti dubbi. Qualche anno fa a Roma ho assistito allo spettacolo di un teatrante italiano, Leopoldo Fregoli - non so se è arrivata notizia di lui in Francia - famoso per riuscire in pochi istanti a mutare aspetto e co-

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stume di scena. È però certo che Fregoli, fuori del palcoscenico, non sa-prebbe ripetersi. Quindi il trasformismo del suo Fantasma deve fondarsi su qualcos’altro che naturali doti istrioniche, anche ammettendo ne pos-sieda in abbondanza. Non potrebbe ricorrere a droghe, alterando i sensi di chi assiste alle sue sostituzioni?» «L’uso di droghe è da escludere. I travestimenti del Fantasma si sono protratti troppo a lungo e hanno ingannato troppe persone, anche con-temporaneamente e nelle più varie circostanze, per poter funzionare. Ma lei ha ragione, Giuseppe; è un problema aperto. Io ho avuto modo in uno dei nostri faccia a faccia di saperne qualcosa di più, legato all’uso di sba-lorditive quanto misteriose conoscenze scientifiche, ma preferisco non parlarne, almeno per il momento. Chiariremo l’arcano solo catturando il Fantasma. Nel frattempo dobbiamo assumere la sua abilità trasformista come un dato di fatto, e concentrarci a scoprire chi, e perché, il Fantasma ha convenienza a sostituire per i suoi colpi. Finora» concluse con orgo-glio ai confini con la superbia «ho sempre azzeccato questa previsione.» «Bene! Ha già qualche idea?» Dupin fece una smorfia scontenta. «Questa volta il fatto che il furto della corona dell’addolorata sia la clas-sica impresa impossibile rende tutto più difficile» disse mentre il treno, diminuendo la frequenza del suo sbuffare e facendo stridere le rotaie per la frenata, stava avvicinandosi alla stazione di Treviglio. Giacosa ascoltava interessato ma un po’ scettico. «Siccome non riesco a individuare» spiegò il cavaliere «tempo e modo propizi per metter le mani sulla corona, inattaccabile durante i festeg-giamenti, non so neppure quale sostituzione faccia meglio al caso…» “Andiamo bene!” pensò Giacosa. Ma al suo interlocutore disse, un po’ per incoraggiamento e un po’ per restituirgli l’elogio ironico di poco prima: «Per fortuna il suo rinomato metodo logico-deduttivo prima o poi coglie nel segno, no?» Giacosa sapeva che le soste nelle stazioni di provincia, tra salita e disce-sa dei passeggeri e preparativi per la partenza, duravano un quarto d’ora abbondante. Nell’attesa la vettura sotto il sole a picco sarebbe diventata una fornace. Convinse il cavaliere a scendere per prendere una boccata d’aria. Soprattutto a proprio beneficio; dopo l’arresto della locomotiva

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aveva cominciato a sudare come una fontana. Invece Dupin, accidenti a lui, non si mostrava particolarmente accaldato. Passeggiarono su e giù a braccetto sulla banchina della stazione disador-na, oltre alla quale si intravedevano i tetti e i campanili della cittadina. Giacosa, come al solito elegante in un completo chiaro all’ultima moda, si sventolava sul viso un ventaglio. Dupin, sicuro secondo costume nel maneggiare il bastone, continuava a indossare la bombetta e il soprabito. Non se li era tolti nemmeno in tre-no. Per un po’ si limitarono a un lento andirivieni senza fiatare, finché Gia-cosa, allergico ai silenzi prolungati, provò a stuzzicare il cavaliere. «A proposito; scorrendo la stampa francese ho scoperto che lei si è di-menticato di dirmi in cosa i travestimenti di sicuro giovano al suo riva-le…» «Cioè?» Giacosa assaporò per la prima volta il gusto di cogliere impreparato l’uomo che tutti consideravano il re della deduzione. Nel frattempo il fischietto del capostazione aveva squarciato la quiete, annunciando la partenza del treno. Riuscirono a riprendere il discorso so-lo dopo esser risaliti sulla carrozza, assai più affollata che nel tratto per-corso fin lì. Evidentemente un po’ di trevigliesi aveva approfittato della giornata di festa per una gita nella vicina Bergamo, città d’indiscutibile bellezza che inoltre, situata com’era ai piedi delle Prealpi Orobie, doveva godere di un clima meno afoso. «Be’» fece Giacosa in francese per non farsi capire dai vicini dei quali, soprattutto per il loro abbigliamento, avevano richiamato l’attenzione «i giornali del suo paese ricamano parecchio sullo straordinario fascino del Fantasma. Infinitamente superiore persino a quello dei più grandi sedut-tori della storia, Don Giovanni e Casanova; in ordine inverso poiché il primo, malgrado il lunghissimo catalogo di conquiste, è solo un mito, mentre il secondo, mio connazionale, è un donnaiolo vissuto per davve-ro!» «Capito» fece Dupin «ritiene che il segreto di questa eccezionale capaci-tà di adescatore stia nel trasformismo, che gli permetterebbe di assumere di volta in volta le sembianze gradite alla preda. C’è del vero in quello che dice. Comunque sì, confermo che il Fantasma è un “tombeur des femmes” infallibile. Ma non basta; so per certo che il nostro antagonista riesce, se gli serve, a plagiare le sue conquiste fino a farsele complici.» «Ah, però!»

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Giacosa era più ammirato che preoccupato. «Questo, caro Giuseppe, crea una complicazione. Non solo non possia-mo fidarci di nessun uomo, poiché potrebbe essere il Fantasma sotto mentite spoglie, ma neanche di nessuna donna, perché potrebbe essere d’accordo con lui.» «Caspita!» scherzò il commediografo «ecco perché non vuol mia moglie tra i piedi, Auguste! È preoccupato che il Fantasma possa portarmela vi-a!» Dupin sorrise. «Non la prenda sottogamba, Giuseppe. La signora Maria ha tutto per at-trarre un casanova!» L’allegro scambio di battute distese l’atmosfera dopo i poco rassicuranti discorsi che li avevano impegnati fin lì. Contribuì a rasserenarli anche il paesaggio, per il comparire in lontanan-za del profilo della cosiddetta “città alta” di Bergamo. In una zona collinare ai piedi di più alte montagne, velata dalla foschia della calura, incominciò a emergere, sempre più nitida con l’avvicinarsi del treno, un’immagine irreale: una composizione armoniosa di case, pa-lazzi, torri e campanili abbarbicata al sommo di una piccola altura. Sem-brava il fantasmagorico fondale di un film di Méliès, ma era troppo ben riuscito, troppo realistico per essere meramente coreografico.

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6 Sul piazzale della stazione il conte Giuseppe Belleni li aspettava accanto a una bellissima carrozza con cocchiere in livrea. L’eleganza del sindaco, per quanto meno ricercata e più austera, rivaleg-giava con quella di Giacosa. Nel fisico, invece, i due erano agli antipodi. Belleni era un uomo minuto e snello, con ancora tutti capelli in testa e il viso pulito, a parte un accenno di baffi. Aveva anche, così a occhio, una decina d’anni in meno del commediografo, e ciò, oltre la corporatura a-sciutta, gli garantiva un’energia e un’agilità in contrasto con l’impacciata lentezza di Giacosa. Per vero dire, Belleni diede l’impressione di essere addirittura iperattivo. Riconosciuti i due ospiti appena ebbero messo piede fuori dal caseggiato della stazione, si slanciò verso di loro per salutarli con vigorose strette di mano che sballottarono entrambi. Il conte non aveva mai incontrato neanche Giacosa, e si alienò subito le sue simpatie incentrando le attenzioni su Dupin. L’età veneranda del cavaliere, la sua provenienza straniera e - soprattutto - la leggenda “letteraria” che lo accompagnava rendevano la sua visita a Bergamo un evento; tuttavia il sindaco esagerò, facendosi sopraffare dall’entusiasmo per l’incontro con un alfiere dei nuovi metodi d’indagine poliziesca che tanto lo affascinavano. Cinse infatti amichevolmente col braccio le spalle dell’anziano ospite e, staccandosi da Giacosa, lo spinse di qualche passo verso il viale alberato, fiancheggiato da bei palazzi, che partiva dalla stazione. In fondo, sulla sinistra di una maestosa basilica, si ammiravano due bassi tempietti paralleli in stile neoclassico cinti da colonnati. Ma soprattutto, in alto, campeggiava uno scorcio della collina affollata da un incastro di torri ed edifici che avevano veduto dal treno. «Benvenuto nella città dei mille, monsieur Dupin!» esclamò il conte in-dicando con un ampio gesto del braccio la vista che si parava innanzi.

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Il cavaliere lo deluse inaspettatamente, mostrandosi interessato a un par-ticolare più che al colpo d’occhio complessivo. «Un tram elettrico!» esclamò. Indicava sul lato destro del viale la vettura che, con un’antenna protesa ai cavi sovrastanti le rotaie, muoveva lenta verso la stazione. Belleni ebbe un moto d’orgoglio, facendo prevalere il sindaco sul cultore della moderna detection. «Be’, questi nuovi mezzi pubblici non sono un’esclusiva delle metropoli come Parigi o Milano! Si accorgerà presto, cavaliere, che la città che mi onoro di rappresentare è all’avanguardia sotto ogni profilo! Abbiamo una funicolare che è un gioiello, e le zone più importanti dispongono di illu-minazione elettrica!» Dupin era in imbarazzo per la gaffe, sfuggitagli peraltro senza intenti de-nigratori, per la sincera meraviglia di trovar lì una novità tecnologica che non credeva così diffusa. Intervenne in suo aiuto Giacosa, avvicinatosi nel frattempo agli altri due, smanioso di rivincita per l’emarginazione subita. «Ma sì, sappiamo che Bergamo è piena di meriti, oltre a quello d’aver contribuito in modo speciale all’unità d’Italia! Se devo fare un appunto però, il comune non è ancora riuscito a dotarla di un efficace sistema di pubblica refrigerazione: fermi qui sotto il sole rischiamo di andare arro-sto! Infatti siamo rimasti veramente in pochi!» aggiunse alludendo alle scarse presenze che si notavano in giro «ma questo dipende dall’ora.» Il commediografo tirò fuori dal panciotto l’elegante orologio da tasca con catena dorata. «Caspita, già la una e un quarto!» esclamò dopo averlo consultato «sa-ranno tutti a tavola!» «Ha ragione signor Giacosa!» fece Belleni, resosi finalmente conto che la figura peggiore l’aveva fatta lui trascurando l’illustre connazionale «saliamo subito in vettura, a casa ci aspettano per il pranzo… a proposi-to; mi permetta di farle i complimenti per la sua Bohème» aggiunse con recupero tardivo che suonava insincero «l’ho vista qui al Teatro Donizet-ti qualche anno fa, con la soprano Emilia Corsi, e l’ho trovata delizio-sa…» «Tutto merito dell’acustica del vostro teatro. E dell’illuminazione di sce-na, alimentata - ci scommetto - a elettricità…» lo punzecchiò Giacosa.

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«Sì, in quel punto della città la corrente arriva. Ci passeremo tra poco.» Dupin nel frattempo, muovendosi più veloce del solito per spegnere gli strascichi del doppio “incidente diplomatico”, si era avvicinato alla car-rozza. Il sindaco si premurò di aiutarlo a prender posto all’interno. Poi ridiscese, invitando Giacosa a salire a sua volta con un gentilissimo “Prego!”. Approfittando del fatto che il commediografo dovette risparmiare il fiato per compiere un’operazione sempre macchinosa per uno della sua taglia, aggiunse: «A proposito di lirica, spero che lei e monsieur Dupin possiate illumi-narmi su quanto accaduto alla prima della Scala. Confesso che non ci ho capito nulla…» Poi salì anche lui, ordinando al cocchiere di avviarsi. Sia Dupin che Giacosa erano preparati a dover pagare quel dazio. Inge-nuo pensare che in provincia il ricordo della serata del ventisei dicembre scorso si fosse sopito. Come aveva concordato con l’amico, il cavaliere ripropose la versione addomesticata già esposta a sua eminenza Ferrari. Giacosa dubitava che il sindaco, patito com’era delle indagini di Sherlock Holmes, se la sareb-be bevuta facilmente. Soprattutto era assai improbabile che Belleni non avrebbe collegato la presenza di Dupin a Bergamo in quei giorni alla mi-naccia di un furto della corona dell’addolorata. «Meglio» l’aveva sorpreso a tal riguardo Dupin poco prima, mentre era-no ancora in viaggio sul treno «l’aiuto del sindaco ci sarà prezioso. Po-tremo valercene senza necessariamente dirgli chi, e come, vuol rubare il cimelio. Ma dobbiamo frenarne la curiosità sul caso della Prima; meglio non accennare in alcun modo al Fantasma.» Il sindaco ascoltò senza obiezioni la frottola di una pregressa amicizia epistolare tra Dupin e Giacosa e dell’ospitalità che questi gli aveva offer-to per assistere alla Carmen di Toscanini. Palese fu invece lo scetticismo con cui accolse la conferma che l’articolo di Giacosa comparso sul Cor-riere della Sera del ventotto dicembre era una novella camuffata da reso-conto giornalistico. La sua reazione si trasformò in delusa incredulità nell’apprendere che il grande Auguste Dupin non aveva niente da ag-giungere alla versione sui fatti di quella sera fornita dagli inquirenti. Ma la prese nel verso giusto. «Va bene» commentò «comprendo la sua riservatezza; ci conosciamo appena. Ma spero che possa nascere tra di noi, anche con Giacosa benin-teso!» si affrettò a precisare «una duratura amicizia. Quando al reportage sulla festa dell’apparizione, come bergamasco mi lusinga che il Corriere

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della Sera voglia dedicare attenzione alla ricorrenza. Aggiungo però che, come liberale pur rispettoso della fede cattolica, non ho mai amato la fe-sta. Non ne sopporto il misto di retorica e pretenziosità. Come sindaco poi, e soprattutto quest’anno, la amo ancor meno per le grane che la sua organizzazione crea al comune, anche per la concomitanza con la festa del patrono. A proposito…» s’interruppe «Giambattista, fermati un atti-mo!» vociò all’indirizzo del cocchiere; poi, mentre quest’ultimo tirava le briglie ai cavalli, aggiunse, rivolto ai suoi ospiti: «Sulla sinistra potete vedere il complesso della fiera di Sant’Alessandro, il grattacapo principale del sindaco nel mese di agosto!» Giacosa e Dupin si protesero verso il finestrino. Si trovavano in una via molto ampia, divisa a metà da una fila d’alberi intercalati da lampioni. Lo stradone terminava sul sagrato di una grande basilica. Il sindaco indi-cava la lunga facciata della costruzione fiancheggiante il lato opposto a quello in cui procedeva la carrozza. Balzavano agli occhi, nell’edificio, i teloni che ombreggiavano i nume-rosi ingressi aperti lungo il muro perimetrale. Alcuni tendoni erano chiu-si sul davanti con una tela spiovente fino a terra. Era, con ogni evidenza, una sfilata di botteghe in allestimento (malgrado l’ora, si sentivano voci e rumori dietro agli ingressi) in vista dell’apertura al pubblico. Giocosa notò tra i tendaggi tre portoni, serrati, che dovevano dare accesso alla parte interna. Bastava fare due conti, moltiplicando per quattro il numero di botteghe presenti su quella facciata (e dentro v’era senza dubbio spazio per altret-tante) per comprendere che lo stabile poteva contenere un mercato di no-tevoli dimensioni. «Grande, vero?» fece Belleni come leggendogli nel pensiero «eh, la fiera di Sant’Alessandro ha una tradizione secolare. Pensate che prima del ‘700 era fatta tutta di baracche di legno… ha rappresentato la principale attrazione della città e il volano della sua economia nonostante la durata ristretta, dal ventidue agosto - fra poco, mannaggia - all’otto settembre. La prendevano d’assalto decine di migliaia di persone e vi si poteva tro-vare tutto il meglio, non solo per quanto riguarda il commercio, ma an-che lo svago…» «Perché ne parla al passato?» lo pungolò Dupin.

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«Perché oggigiorno sarebbe da buttar giù, questo carrozzone, sostituen-dolo con qualcosa più degno di una città così prestigiosa!» «Caspita!» lo beffeggiò Giacosa «lei è un bel rivoluzionario per essere un liberale!» «Ma quale rivoluzione!» s’infervorò il sindaco «la fiera è un relitto del tempo che fu. L’avvento del Regno d’Italia l’ha affossata. Sotto il domi-nio austriaco Bergamo ha vissuto una fioritura, tanto da divenire il centro economico di tutto il lombardo-veneto. Così la sua fiera era la fiera per eccellenza, luogo di incontro fra produttori, mercanti e consumatori non solo italiani ma anche del centro Europa. Non fraintendetemi; non dico che noi bergamaschi abbiamo sbagliato a volere con tanto slancio l’indipendenza d’Italia. Ma l’unificazione ha ampliato gli orizzonti e ora di mercati notevoli ce ne sono molti anche altrove, soprattutto nel mila-nese. La “grande” fiera, orgoglio di questa città, si è tramutata - bisogne-rebbe prenderne atto - in sagra di provincia. Salvo rimanere comunque, come tutte le occasioni di affollamento, un problema d’ordine pubbli-co… ne so qualcosa! Vogliamo dirla tutta? Consiglierei la fiera di Sant’Alessandro a chi cerca divertimenti un po’ di grana grossa - saltim-banchi, giocolieri, attori di strada, queste cose qui - e meglio ancora se non disdegna sbevazzare vino di seconda scelta e sollazzarsi con mere-trici a buon prezzo, il solo mercato rimasto fiorente… o tempora o mo-res!» concluse amaro «e pensare che la fiera ha contribuito all’elevazione della città… date un’occhiata da questa parte» e indicò l’altro lato «ec-co» continuò, quando Dupin e Giacosa ebbero seguito il consiglio «que-sto è il Teatro Donizetti, costruito all’inizio del secolo scorso per arric-chire la fiera con spettacoli di alto livello…» Allungando il collo i due ospiti poterono ammirare una facciata neoclas-sica con un ampio ingresso a portici. La sormontava un terrazzo in mar-mo con vetrate ad arco alternate a colonne corinzie. «Più avanti, sempre sulla destra, in quel giardino che si intravede» pro-seguì il sindaco «c’è un monumento al nostro grande compositore, inau-gurato qualche anno fa. Giambattista, procedi piano.» La carrozza sfilò davanti a un piccolo parco frondoso. Al centro, in cima a una base di marmo davanti a un laghetto, la statua di un uomo signori-le, seduto su un sedile semicircolare, rivolgeva lo sguardo alla Musa Eu-terpe che in piedi davanti a lui suonava la cetra. «E proseguendo per questa via» disse ancora Belleni «sempre sulla de-stra s’incontrano, nell’ordine, il palazzo municipale e quello di provincia e prefettura. La chiesa sulla sinistra è dedicata ai santi Bartolomeo e Ste-fano. Ditemi voi se queste bellezze hanno qualcosa da spartire con la se-

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de bruttarella di una fiera morta…» a quel punto, accorgendosi di aver tenuto fin troppo banco con divagazioni chissà quanto gradite «a propo-sito; spero che contraccambierete» aggiunse sorridendo «i miei servigi di “cicerone” allietandomi con discorsi altrettanto interessanti…» fece una pausa, poi: «Soprattutto lei, caro cavaliere, senza nulla togliere agli argomenti su cui potrà erudirmi Giacosa. Non vedo l’ora di sentirla parlare un po’ di Sher-lock Holmes. Vi siete conosciuti?» «Mi spiace signor conte, non ho avuto questo piacere» mise subito le mani avanti Dupin. Giacosa percepì fastidio nella voce del cavaliere. Ebbe l’impressione che non stesse dicendo la verità. Forse tra lui e l’investigatore londinese qualche contatto, magari solo epistolare, c’era stato. Dopotutto Londra e Parigi non erano troppo distanti. In ogni caso era pronto a scommettere che per lui Holmes fosse un ar-gomento di conversazione indigesto, e non si poteva dargli torto. Le cronache sulle inchieste del detective britannico avevano cominciato a diffondersi da una quindicina d’anni (Giacosa ricordava bene la prima, dal plateale titolo “Uno studio in rosso”) ma non citavano mai, neppure di sfuggita, Auguste Dupin. Che questa dimenticanza, certo voluta, fosse da attribuire al protagonista delle indagini o allo scrittore delle storie, quel Doyle, non cambiava le cose: si trattava di plagio bell’e buono. I lettori avrebbero dovuto essere informati che Sherlock Holmes investigava applicando il metodo svilup-pato cinquant’anni prima da Dupin. A pensarci bene, Doyle gli sembrava addirittura più colpevole di Hol-mes. La personalità egocentrica dell’investigatore spiegava, pur non giustifi-candola, l’omissione, ma Doyle ne traeva un vantaggio doppio: oltre a spacciare come nuova una tecnica investigativa inventata da altri, copia-va anche l’artificio letterario del biografo di Dupin, ovvero attribuire la paternità della narrazione a un amico, aiutante ed entusiastico ammirato-re del detective. E poco importava se il medico che svolgeva il ruolo di testimo-ne/assistente nelle inchieste di Holmes esistesse veramente, del che lui peraltro dubitava.

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Doyle rimaneva un imitatore abusivo di Poe, come Holmes lo era di Du-pin. Questa almeno era la convinzione di Giacosa, per cui gli venne facile da-re una mano al cavaliere nel sottrarsi alla passione “sherlockholmiana” del sindaco. «Suvvia caro conte! Non assilli il cavaliere! Lei ha detto di voler diven-tare nostro amico, e posso assicurare che entrambi, vero Auguste?» cercò con lo sguardo l’assenso di Dupin che, afferrate le sue intenzioni assentì «non chiediamo di meglio. Ci sarà tempo e modo, in futuro, di approfon-dire l’argomento. Ma oggi siamo qui per un altro motivo e di questo vor-remmo parlare!» «Avete ragione» convenne il conte, pur a malincuore. «Peccato però…» aggiunse subito con aria maliziosa «perché gli argo-menti hanno qualcosa in comune…» «La festa dell’apparizione e Sherlock Holmes?» fece eco un perplesso Giacosa. Dupin teneva fissi sul sindaco i suoi penetranti occhi azzurri. «Certo! A Holmes la nostra celebrazione religiosa interesserebbe molto. Avrebbe benissimo potuto riguardare una sua inchiesta. Lui e il dottor Watson non risultano essersi mai mossi dal Regno Unito, ma ce li vedrei a presentarsi a Bergamo il prossimo diciassette agosto!» «A fare che?» Era stato il cavaliere a porre la domanda. «Be’, Holmes è specialista nel risolvere casi di furti d’oggetti pregiati. Basti pensare al “carbonchio blu” e al “diadema di berilli”, ritrovati gra-zie al suo acume. Credo di non peccare di campanilismo se dico che alla festa dell’apparizione ci sarà un oggetto prezioso unico…» «La corona dell’addolorata!» finse d’indovinare Giacosa. Belleni annuì. «La ricorrenza riguarda la storia delle tradizioni religiose ma riveste an-che un interesse investigativo, visto che vi si trova un “trofeo” allettante per un ladro ambizioso…» Una pausa, poi: «E Holmes è nel suo habitat laddove c’è odore di ladri ambiziosi!» «Non posso darle torto…» buttò l’amo Dupin «secondo lei la corona dell’addolorata corre qualche rischio?» «Assolutamente no!» esclamò Belleni con aria impunita, sicuro di aver spiazzato i suoi ospiti. Fine anteprima.Continua...