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Brevi note sulla tutela della salute nella più recente giurisprudenza amministrativa*
Sommario: 1. Il diritto alla salute tra attuazione amministrativa e applicazione giudiziaria.
– 2. Pubblico e privato nell’accesso al sistema delle prestazioni sanitarie. – 3. La tutela
della salute tra Stato e Regioni. – 4. I livelli essenziali di assistenza ovvero il diritto alla
salute tra obbligo e potere della pubblica amministrazione. – 5. Quale tutela dinanzi al
giudice amministrativo.
1. Il diritto alla salute tra attuazione amministrativa e applicazione giudiziaria
Il riconoscimento in Costituzione della salute come diritto fondamentale ha posto le
premesse per l’istituzione di un’organizzazione pubblica della sanità, pur non indicando l’art. 32
Cost. quale dovesse essere il modello da adottare. Se è vero che la tutela della salute presuppone
un’organizzazione amministrativa del servizio, in un rapporto di stretta correlazione reciproca,
secondo uno schema che è comune a tutti i diritti sociali, si prospettavano al principio diverse
possibilità: dall’istituzione di un sistema sanitario interamente pubblico, alla promozione di un
sistema misto, al finanziamento e alla regolazione di un sistema gestito solamente da soggetti
privati. Si è parlato, per questo, di una forma di ritrosia da parte del Costituente che, in passato,
ha alimentato la tesi originaria circa la natura programmatoria di questa come di altre
disposizioni inserite nella prima parte della Carta.
Non solo la Costituzione non definisce il modello ma, nell’opinione dei principali
studiosi della materia, neppure il legislatore lo ha mai fatto in forma davvero compiuta.
Osservava Giannini già alla fine degli anni ’70 come il legislatore nazionale non avesse saputo o
voluto sciogliere i nodi più importanti della materia sanitaria, rinviando sempre ad altri luoghi e
ad altre fonti: a fonti regionali, regolamenti dell’esecutivo, piani, accordi, intese e protocolli1. In
effetti la materia è fortemente delegificata.
Se è vero che, soprattutto a partire dal 1978 e dall’istituzione del servizio sanitario
nazionale, l’organizzazione (del sistema sanitario) è andata ampliandosi e complicandosi
1* Il testo rappresenta una versione riveduta ed ampliata della relazione svolta al Convegno Tutela della salute e concorrenza che si è svolto il 28 settembre 2016 a Roma presso la sede dell’AGCM. M.S. GIANNINI, Relazione di sintesi, in Il Servizio sanitario nazionale. Atti del convegno sulla legge n. 833/1978 (Parma, 22-23 giugno 1979), Milano, 1981, 116.
1
progressivamente, le norme fondamentali della materia non hanno mai offerto un quadro
sufficientemente delineato e chiaro delle principali scelte di fondo compiute o da compiere.
A cominciare dal rapporto tra pubblico e privato.
Il disegno ispiratore sotteso al d.lgs. 502/1992, nel segno della parità tra pubblico e
privato nell’offerta della prestazioni sanitarie in funzione della libertà di scelta dell’utente, ha
subito una prima torsione con il d.lgs. 229/1999, che ha introdotto una serie di limiti ai principi
appena richiamati.
Ma limiti ancora maggiori sono stati introdotti in sede di attuazione della riforma e alla
loro concreta definizione ed estensione ha concorso, in misura rilevante, l’applicazione in sede
giudiziaria del diritto alla salute.
Vi sarebbe stata, quindi, una sorta di trasformazione silenziosa rispetto alla linee
ispiratrici della riforma degli anni ’90 del secolo scorso, al di fuori di scelte pubblicamente
discusse ed assunte, originata dal convergere di indirizzi a livello amministrativo (per quanto
generale) e di orientamenti giurisprudenziali (del giudice amministrativo)2.
I primi, gli indirizzi amministrativi, sono stati dettati e giustificati in misura sempre più
accentuata dal sorgere e dall’acuirsi della crisi economica, nazionale ed internazionale, i cui
effetti si sono riflessi sull’andamento dei conti pubblici e sulla disponibilità, decrescente, delle
risorse da destinare alle attività e alle prestazioni sanitarie; i secondi, gli orientamenti
giurisprudenziali, sono stati elaborati in una situazione non di rado presentata come eccezionale
o comunque emergenziale e dove, nel bilanciamento tra diritti e risorse, è stato (e resta) forte il
rischio che l’urgenza del problema economico potesse (e possa) relegare in secondo piano ogni
altra tematica3.
Di questo processo, più o meno silenzioso, cercherò di ricostruire alcuni passaggi
attraverso l’esame (di una parte) del contenzioso svoltosi più di recente dinanzi al giudice
amministrativo, senza avere la pretesa di una trattazione completa, che richiederebbe uno spazio
maggiore, potendomi soffermare solamente su talune delle questioni a mio avviso più
importanti.
2. Pubblico e privato nell’accesso al sistema delle prestazioni sanitarie
2 Per questa lettura si vedano, tra gli altri, M.CONTICELLI, Privato e pubblico nel servizio sanitario, Milano, 2012 e R.FERRARA, L’ordinamento della sanità, Torino, 2007.3 L’argomento della crisi economica è stato approfondito soprattutto nel quadro della giurisprudenza e del diritto costituzionale, in particolare e con efficacia da M.BENVENUTI , Brevi considerazioni intorno al ricorso all’argomento della crisi economica nella più recente giurisprudenza costituzionale , in Giur. cost., 2013, 969 ss.
2
Cominciamo dal tema della concorrenza amministrata tra pubblico e privato e, in
particolare, dal regime dell’accesso attraverso le cd. quattro “A” (v. artt. 8 bis- 8 quinques del
d.lgs. 502/1992): autorizzazioni alla realizzazione della struttura; autorizzazioni all’esercizio di
attività sanitarie; accreditamenti; accordi.
I primi due provvedimenti assicurano il rispetto dei presupposti minimi per svolgere
qualsiasi attività sanitaria, che sia o meno a carico del sistema nazionale. Per il rilascio della
prima autorizzazione, che spetta al Comune, c’è tuttavia bisogno anche della verifica di
compatibilità da parte della Regione e tale verifica è effettuata in base al fabbisogno
complessivo e alla localizzazione territoriale delle strutture. C’è, insomma, un ambiguo
elemento di pianificazione che si inserisce, come una fase sub-procedimentale, all’interno di un
procedimento principale che altrimenti sarebbe da qualificare come autorizzatorio di tipo
vincolato.
Il terzo atto, l’accreditamento, che spetta alla Regione, è propedeutico a fornire
prestazioni sanitarie per conto del servizio pubblico e presuppone il possesso, da parte
dell’operatore, di tutta una serie di requisiti. Il quarto, l’accordo, è necessario per fornire
prestazioni a spese del servizio sanitario e con esso sono determinati il tetto massimo e la
remunerazione. Si tratta di un accordo sui generis con un contenuto misto: in parte individua e
definisce le caratteristiche del servizio reso all’utenza; in altra parte il volume delle prestazioni
erogabili. Come dire che, da un lato, è rivolto all’utente finale e, dall’altro, al rapporto con il
pubblico che ha accreditato la struttura privata.
Gli accordi in materia sanitaria sulla carta sono espressione di quella amministrazione
consensuale, paritaria, teorizzata ed auspicata, tra gli altri, soprattutto da Feliciano Benvenuti.
Nella realtà, tuttavia, i rapporti di forza sono notevolmente differenti. Paradigmatica di questa
asimmetria è la prassi di subordinare la stipula dell’accordo all’accettazione dei provvedimenti
in tema di fissazione dei tetti di spesa e di tariffe e alla rinuncia di pretese (e ad azioni in
giudizio, spesso già pendenti) riferite ad annualità pregresse.
Ci si domanda se tali previsioni siano valide condizioni sul piano civilistico e si
segnalano, al riguardo, Tar Catanzaro 16 maggio 2016, n. 1039 e Consiglio di Stato, III, ord. 26
febbraio 2015, n. 906. Il primo, in particolare, ha distinto attentamente tra l’acquiescenza e la
rinuncia manifestate nell’accordo rispetto a provvedimenti già adottati e ad azioni già intraprese,
istituti consolidati e del tutto compatibili con i principi costituzionali relativi alla tutela in
giudizio; dalle clausole contrattuali che facciano invece riferimento all’esclusione della tutela
giurisdizionale rispetto ad atti non ancora adottati o non conosciuti, delle quali clausole ha
prospettato la nullità ai sensi degli artt. 1418 e 1419 c.c.
3
I vincoli a carico delle strutture accreditate private sono per lo più giustificati sul rilievo
che la struttura privata, a differenza di quella pubblica, non ha l’obbligo di rendere le prestazioni
agli assistiti oltre il tetto di spesa preventivato ed assegnatole (v., ad esempio, Cons. St., III, 7
gennaio 2014, n. 2).
Accenneremo tra poco agli accordi tra Stato e Regioni, esempio non meno calzante di un
consenso “coatto”, che non prevede alternative, nel quadro della vicenda dei piani di rientro dal
deficit sanitario e dei commissariamenti.
Torniamo al regime dell’accesso al “mercato” delle prestazioni sanitarie.
Si tratta di un potere vincolato o discrezionale? E se discrezionale, secondo quali criteri?
Con la precisazione che i criteri potrebbero essere prescelti anche, se non soprattutto, dalla
Regioni e quindi teoricamente essere differenti da Regione a Regione, oltre che a seconda della
tipologia di prestazioni da erogare.
Il piano teorico del discorso deve fare i conti con la programmazione degli interventi e il
contenimento della spesa, dove il secondo obiettivo è divenuto sempre più pressante.
Come si concilia l’esigenza pianificatoria, sempre più avvertita proprio in chiave di
contenimento della spesa sanitaria, con il principio di parità tra vecchi e nuovi operatori?
Con riferimento al momento autorizzativo, Cons. St., III, 14 febbraio 2014, n. 728 ne ha
riconosciuto l’insopprimibilità, escludendo che l’autorizzazione possa essere sostituita da una
semplice Scia e quindi, in definitiva, confermando come sia del tutto necessario che questo
genere di attività siano sottoposte ad un regime amministrativo.
Quanto alla rilevanza della verifica di compatibilità di competenza regionale, quale sub-
procedimento in senso al procedimento autorizzatorio, a fronte di prassi amministrative
“escludenti”, che avevano determinato un vero e proprio blocco all’ingresso di nuovi operatori
nel mercato, la giurisprudenza amministrativa nel corso dell’ultimo quinquennio ha posto dei
paletti.
Si segnala l’orientamento di Cons. St., III, 29 gennaio 2013, n. 550 (v. anche la sentenza
3 febbraio 2015, n. 523), secondo cui tale verifica, per quanto discrezionale, “non può risolversi
alla luce degli artt. 32 della Costituzione - che eleva la tutela della salute a diritto fondamentale
dell'individuo - e 41, teso a garantire la libertà di iniziativa di impresa, in uno strumento
ablatorio delle prerogative dei soggetti che intendano offrire, in regime privatistico (vale a dire
senza rimborsi o sovvenzioni a carico della spesa pubblica, e con corrispettivi a carico
unicamente degli utenti), mezzi e strumenti di diagnosi, di cura e di assistenza sul territorio”.
Debbono essere richiamate, inoltre, le ripetute segnalazioni dell’AGCM sul punto, tra le
quali spicca quella del 18 luglio 2011, volte nell’insieme a porre in rilievo come una politica di
4
contenimento dell'offerta sanitaria possa tradursi in una posizione di privilegio degli operatori
del settore già presenti nel mercato, che possono incrementare la loro offerta a discapito dei
nuovi entranti, assorbendo la potenzialità della domanda”; e a sottolineare l'irrilevanza di criteri
di contenimento della spesa sanitaria, non versandosi a fronte di soggetti che operino in
accreditamento. Laddove, invece, le valutazioni inerenti all'indispensabile contenimento della
spesa pubblica ed alla sua razionalizzazione hanno la loro sede propria nei procedimenti di
accreditamento, di fissazione dei tetti di spesa e di stipulazione dei contratti con i soggetti
accreditati; procedimenti distinti e susseguenti (sia logicamente che cronologicamente) rispetto a
quello relativo al rilascio della pura e semplice autorizzazione.
Molto interessanti sono, inoltre, i pareri puntuali resi nell’esercizio dei poteri di cui
all’art. 21 bis della legge 287/1990 dall’AGCM, sempre in tema di autorizzazioni in materia
sanitaria: alla Regione Lazio il 28 marzo 2013, avente ad oggetto una verifica di segno negativo
sulla compatibilità rispetto al fabbisogno di assistenza; alla Regione Calabria il 24 dicembre
2014, avente ad oggetto una determina di assegnazione di fondi in funzione unicamente della
spesa storica.
Il tema, più in generale, è quello del procedimenti e degli atti amministrativi che
realizzano effetti anticoncorrenziali.
Quanto alla natura giuridica dell’accreditamento, l’indirizzo di gran lunga prevalente lo
assimila alla concessione (v. Cons. St., III, 16 gennaio 2015, n. 110 che pone alla base del
rilascio del provvedimento un giudizio di merito favorevole); con la conseguenza di declinare la
posizione del privato in termini di interesse legittimo (v. Cons. St., III, 7 marzo 2014, n. 1071).
Ma vale la pena ricordare come di segno diverso, prima delle modifiche del 1999 ad
opera della c.d. riforma bis, si era mostrata la prima giurisprudenza costituzionale (Corte cost.
28 luglio 1995, n. 416), ricostruendo l’accreditamento nei termini di un procedimento
amministrativo di tipo dichiarativo e riconoscendo, pertanto, un “diritto all’accreditamento delle
strutture in possesso dei requisiti”.
I maggiori limiti introdotti nel 1999 e, ancor più, la determinazione dei tetti di spesa
adottata in sede di programmazione, hanno finito per mutare la natura giuridica
dell’accreditamento e delle autorizzazioni. Una trasformazione avvenuta per lo più in sede di
attuazione amministrativa e recepita dalla giurisprudenza del giudice amministrativo, sebbene,
come veduto, entro certo limiti.
Il giudice amministrativo ha reagito agli effetti distorsivi legati ad una visione e
soprattutto ad una pratica eccessivamente restrittiva (Cons. St., III, 16 settembre 2013, n. 4574 e
26 settembre 2013, n. 4788) ma senza che il momento programmatorio possa essere rimosso e
5
rinviato alla fase a valle della contrattazione (lo testimonia l’interessante sentenza del Cons. St.,
III, 25 giugno 2014, n. 3219 in un caso in cui, all’opposto, si rimproverava alla Regione
Lombardia una liberalizzazione illimitata degli accreditamenti).
In questo modo il giudice amministrativo sembra collocarsi al crocevia tra soluzioni
ispirate da un lato ad eccessivo dirigismo e dall’altro a troppa liberalizzazione. Alla ricerca di
una via mediana4.
Da sottolineare come l’attenzione per la qualità e per il possesso dei requisiti da parte
delle strutture private sia molto alta al momento del rilascio delle autorizzazioni e
dell’accreditamento; assai meno nel prosieguo del rapporto, non essendo frequenti i casi di
revoca dell’accreditamento per l’accertato venir meno dei requisiti, come testimonia una
casistica giurisprudenziale non particolarmente ricca sul punto (v. Cons. St. III, 16 marzo 2015,
n. 1352 e 14 gennaio 2014, n. 105 quest’ultima interessante anche ai fini del riparto di
competenze tra regioni ed ASL in ordine ai controlli sul rispetto degli accordi e alla verifica
dell’effettivo possesso dei requisiti).
3. La tutela della salute tra Stato e Regioni
Fin qui l’attenzione è stata riposta al tema dell’accesso al mercato dal lato dell’offerta e
alla programmazione regionale; alle conseguenze derivanti dal peso crescente dei vincoli di
bilancio e dall’esigenza pressante di contenere la spesa sanitaria.
Tutto ciò era stato già all’origine della “riforma della riforma” del 1999.
Ha poi conosciuto uno sviluppo maggiore a partire dal primo patto della salute del 2001
e si è tradotto in una serie di intese tra Stato e Regioni, poi recepite con legge statale, che hanno
introdotto un complesso sistema di controlli con la previsione del commissariamento delle
Regioni in deficit e della loro sottoposizione a piani di rientro ai sensi della l. 311/2004. Su
questo processo si è poi innestato un vasto contenzioso in massima parte dinanzi al giudice
amministrativo ma con frequenti interventi anche della Corte Costituzionale.
Per paradosso, forse solo apparente, questo è avvenuto proprio all’indomani della
riforma del titolo V, che in teoria avrebbe accresciuto i poteri delle Regioni. Come sembrava
dimostrare la potestà concorrente in materia di tutela della salute, laddove in precedenza, alla
luce dell’originario art. 117, la legislazione concorrente aveva ad oggetto la materia, più definita
e quindi più circoscritta, della “assistenza sanitaria e ospedaliera”.
4 Per un’analisi di tale giurisprudenza, corredata da richiami bibliografici, si segnala V.MOLASCHI, Autorizzazione, accreditamento e accordi contrattuali tra esigenze di contenimento della spesa pubblica e tutela della concorrenza, in Giur. it., 2014, 3.
6
Si poteva quindi credere che, per effetto della riforma del 2001, allo Stato spettasse
solamente la individuazione e definizione dei principi della materia e alle Regioni tutto il resto.
E che, di conseguenza, fossero prospettabili, almeno in teoria, tanti diritti sanitari quante sono le
Regioni.
Così non è stato, anche per effetto della funzione di riequilibrio svolta dalla materia (non
materia) trasversale dei livelli essenziali delle prestazioni a tutela dei diritti civili e sociali di cui
all’art. 117 lett. m). Piuttosto, si sono registrate crescenti limitazioni alla autonomia regionale,
ritenute legittime dalla Corte Costituzionale, a partire dalla sentenza 193 del 2007, valorizzando,
anche se non soprattutto, il coordinamento della finanza pubblica.
L’autonomia legislativa concorrente delle Regioni nel settore della tutela della salute ed
in particolare nell’ambito della gestione del servizio sanitario è stata quindi sottoposta a limiti
sempre maggiori alla luce degli obiettivi della finanza pubblica e del contenimento della spesa,
in un quadro di esplicita condivisione da parte delle Regioni della assoluta necessità di
contenere i disavanzi del settore sanitario (cfr. Corte cost.,18 aprile 2012, n. 91; 14 giugno 2007,
n. 193). Si è quindi ritenuto che il legislatore statale potesse legittimamente imporre alle Regioni
vincoli alla spesa corrente per assicurare l’equilibrio unitario della finanza pubblica
complessiva, in connessione con il perseguimento di obiettivi nazionali, condizionati anche da
obblighi comunitari (cfr. Corte cost., 29 maggio 2013, n. 104; 28 marzo 2013, n. 51; 18 aprile
2012, n. 91; 12 maggio 2011, n. 163; 18 febbraio 2010, n. 52 ).
In applicazione del principio costituzionale di leale collaborazione, il Governo si è
andato sostituendosi agli organi delle Regioni, in particolari casi stabiliti dalla legge, nominando
un Commissario ad acta (art. 120, co. 2, Cost.). In caso di riscontro negativo del Piano di rientro
approvato dalla Regione, ovvero in caso di mancata presentazione dello stesso, il Consiglio dei
ministri ha quindi nominato il Presidente della regione quale Commissario ad acta per la
predisposizione, entro i successivi trenta giorni, del Piano di rientro e per la sua attuazione (art.
2, co. 79, l. n. 191/2009). L’operato del Commissario ad acta, incaricato dell’attuazione del
Piano di rientro dal disavanzo sanitario previamente concordato tra lo Stato e la Regione
interessata, sopraggiunge all’esito di una persistente inerzia degli organi regionali, essendosi
questi ultimi sottratti ad un’attività che pure è imposta dalle esigenze della finanza pubblica. È,
dunque, proprio tale dato – in uno con la constatazione che l’esercizio del potere sostitutivo è,
nella specie, imposto dalla necessità di assicurare la tutela dell’unità economica della
Repubblica, oltre che dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti un diritto fondamentale
(art. 32 Cost.), qual è quello alla salute – a legittimare la conclusione secondo cui le funzioni
7
amministrative del Commissario devono essere poste al riparo da ogni interferenza degli organi
regionali (cfr. Corte cost., 26 febbraio 2013, n. 28; 11 marzo 2011, n. 78).
Il modello del piano di rientro è stato di recente esteso anche agli enti del servizio
sanitario nazionale (vedi l’ultima legge di stabilità, commi 524, 525 e 535).
Al cospetto dei poteri del commissario straordinario ci si è domandati se tali poteri
fossero di natura amministrativa o anche normativa, potendosi comunque inquadrare nel più
ampio fenomeno del diritto dell’emergenza e del favor per gli organi monocratici.
Più volte la Corte costituzionale è stata investita della questione. Si segnala in ultimo la
sentenza 12 dicembre 2014, n. 278 (redattore il Presidente Mattarella), su una questione rimessa
dal Tar Molise, con la quale si è escluso che il Commissario possa derogare con i propri atti a
fonti propriamente normative.
Il sindacato del giudice amministrativo su tali atti, ai quali va quindi riconosciuta natura
amministrativa per quanto generale, resta comunque un sindacato “debole”, nei limiti della
manifesta irragionevolezza o incongruità (v. Cons. St. III, 18 marzo 2013, n. 1585).
I piani di rientro hanno come obiettivo quello di ripristinare l’equilibrio economico-
finanziario del sistema sanitario della singola Regione e, al tempo stesso, salvaguardare il
rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni (sul rapporto tra questi due obiettivi si segnala
Cons. St., III, n. 6 febbraio 2015, n. 604, in una vicenda che riguardava la sanità piemontese,
con particolare riferimenti ai malati di alzheimer e alle liste di attesa, sulla quale si tornerà più
avanti).
Sul piano procedimentale, è ricorrente l’affermazione secondo cui il carattere vincolato
dei provvedimenti adottati ai fini dell'attuazione dei Piani di rientro e la loro natura di
provvedimenti generali di programmazione finanziaria supererebbe e priverebbe di fondamento
tutte le censure relative alla mancanza di procedure negoziali e partecipative, sia con gli
operatori privati che con le associazioni di categoria, previste dalla normativa, nazionale e
regionale, preesistente alla legislazione "emergenziale" introdotta con i Piani di rientro,
assumendo che sarebbe altrimenti vanificata la stessa ratio di tale legislazione e della
conseguenti misure straordinarie, introdotte per risanare la situazione di grave dissesto
finanziario registratasi in diverse Regioni (Cons. St., III, 19 luglio 2016, n. 3201).
In nome dell’equilibrio di bilancio sono stati giustificati, per lo più, anche le regressioni
tariffarie con effetti retroattivi, perché intervenute ad esercizio annuale già avviato (v. Ad.Plen.
12 aprile 2012, n. 3 e 4 e prima ancora 2 maggio 2006, n. 8).
8
4. I Livelli essenziali di assistenza ovvero il diritto alla salute tra obbligo e potere della
pubblica amministrazione.
La cornice è quella delle prestazioni amministrative rese ai privati, in un settore, quello
della sanità, che presenta delle peculiarità discendenti, in larga parte, direttamente dall’art. 32
Cost. e dalla oggettiva complessità del bene “salute” che è oggetto (oltre che di interesse della
collettività) al contempo di un diritto fondamentale e sociale, di una libertà negativa e positiva,
di una garanzia passiva e attiva, dell’individuo5.
Valorizzando il primo aspetto ha trovato spazio la teoria del diritto non degradabile,
devoluto per definizione alla giurisdizione del giudice ordinario, che una volta individuato dal
legislatore diventerebbe pienamente esigibile dinanzi alla p.a., investita di compiti solo di
accertamento, in termini di adeguatezza/appropriatezza, e di erogazione. Questa teoria è alla
base, ad esempio, di quella giurisprudenza della Cassazione che riconosce all’utente il diritto al
rimborso delle spese anticipate per curare la propria patologia in centri non convenzionati con il
servizio sanitario (v. Cass. s.u. 558/2000).
Come diritto sociale, in una logica pretensiva di richiesta di prestazioni di cura, il diritto
alla salute riceve una serie di condizionamenti, in primo luogo sul piano finanziario, e deve
essere comparato e bilanciato con altri interessi. Si correla ad un potere della p.a. in senso
proprio, sicché è più agevole rinvenire, sulla via della sua tutela, situazioni riconducibili allo
schema dell’interesse legittimo.
La locuzione “livelli essenziali di assistenza” era già presente nella l. 833/1978, declinata
nei termini di “livelli uniformi”, è stata costituzionalizzata nel 2001 con l’art. 117, co. 1, lett. m).
La determinazione dei livelli essenziali si è avuta in concreto, in ambito sanitario, con il d.p.c.m.
29 novembre 2001 – di cui è in corso l’aggiornamento ai sensi della l. 208/2015, art. 1 comma
553 - che si articola in cinque allegati tecnici il cui contenuto è eterogeneo e non privo di un
elevato grado di indeterminatezza.
E’ ricorrente la domanda se i livelli di assistenza debbano essere intesi come livelli
minimi o come livelli necessariamente uniformi. Detto altrimenti, se siano ammissibili
prestazioni aggiuntive da parte delle Regioni, il che sarebbe un elemento importante di
differenziazione.
Corte cost. 104/2013, quanto meno per le Regioni sottoposte a piani di rientro, è
sembrata configurare i LEA come un limite massimo.
5 Sulle diverse forme e declinazioni della salute come diritto dell’individuo, dalla matrice originaria e codicistica dell’integrità fisica (art. 5 c.c.), al nesso con la tutela dell’ambiente, agli ambiti concernenti le cure, pretese o rifiutate, sino quindi al tema del consenso informato, si fa rinvio al commento di A.SIMONCINI-E.LONGO, Art. 32, in Commentario alla Costituzione, a cura di Bifulco, Celotto e Olivetti, Vol. 1, Torino, 2006, 655 ss.
9
Si può ammettere, ad esempio, che la Regione assuma in carico la quota di ticket
imposta con legge dello stato?
Per Corte cost. 11 luglio 2012, n. 178 la risposta è negativa, spettando allo Stato non solo
la determinazione della prestazione, rientrante nel perimetro dei LEA, ma anche la definizione
del costo economico della stessa e, dunque, la scelta se tale costo debba essere interamente a
carico del pubblico o debba prevedersi una compartecipazione del privato.
Il ricordato d.p.c.m. 29 novembre 2001 è stato a suo tempo emanato d’intesa con la
Conferenza Stato-regioni, sulla base di un accordo (l’intesa e l’accordo sono entrambi richiamati
nelle premesse del d.p.c.m.) poi “legificato” ad opera dell’art. 54 della legge 27 dicembre 2002,
n. 289. Da qui l’improcedibilità dei ricorsi proposti dinanzi al giudice amministrativo avverso il
d.p.c.m. (Cons. St., 16 maggio 2013, n. 2675).
La Corte cost. 31 marzo 2006 n 134 ha qualificato il d.p.c.m. come atto normativo
secondario, il Consiglio di Stato, dapprima come un atto amministrativo generale (IV, 4 febbraio
2004, n. 398) e poi come atto-fonte regolamentare, esecutivo dell’art. 6 del d.l. 347/2001 e
coperto dall’art. 117 co. 6 (IV, n. 3983/2004).
L’art. 117, co. 2, lettera m), pone una riserva assoluta o relativa?
La giurisprudenza costituzionale ha giustificato lo slittamento di sede – dal legislativo
all’esecutivo – della materia dei livelli essenziali. Quasi un “disimpegno” da parte del legislatore
primario che finisce per sottrarre l’atto di determinazione al sindacato di costituzionalità.
A giustificazione di questo disimpegno potrebbe invocarsi la natura eminentemente
tecnica delle valutazioni, che richiedono periodici aggiornamenti.
E’ possibile affermare l’esistenza di un diritto degli utenti all’inclusione nei livelli
essenziali di una prestazione anziché di un’altra?
Il contenzioso dinanzi al giudice amministrativo ha riguardato più spesso ricorsi proposti
non da utenti ma da soggetti privati accreditati operanti in branchie della sanità le cui terapie
erano escluse (esempio della medicina fisica riabilitativa).
La difficoltà di una tutela del singolo utente, che richieda l’erogazione di una prestazione
in tesi non prevista, è data dal fatto che il contenuto del diritto alla salute è determinato a priori e
in astratto: prima dal legislatore e poi attraverso il livello amministrativo generale della
programmazione.
Sicché, all’amministrazione sarà sufficiente motivare il proprio diniego in ragione
dell’esclusione della terapia dai LEA e il sindacato del giudice amministrativo si concreterà in
un controllo per lo più sulla motivazione.
10
La giurisprudenza amministrativa ha dato un’interpretazione estensiva del catalogo delle
prestazioni ricomprese nei LEA, ad esempio nel caso della mobilizzazione della colonna
vertebrale ove effettuata da dottori in chiroterapia sotto controllo medico (Cons. St., VI, 10
febbraio 2009, n. 744).
5. Quale tutela dinanzi al giudice amministrativo
Il Servizio sanitario quale servizio pubblico rientra tra le materie devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133 lett. c) del c.p.a., il cui
testo, come noto, riproduce il risultato dell’intervento manipolativo posto in essere dalla
sentenza 204/2004 della Corte costituzionale sull’originario e discusso art. 33 del d.lgs. 80/1998.
La Corte con quella sentenza recuperava il momento autoritativo ed organizzatorio del
servizio pubblico, lasciando al giudice ordinario ciò che attiene al profilo patrimoniale del
rapporto tra concedente e concessionario (indennità, canoni ed altri corrispettivi), in aggiunta
alle controversie concernenti il rapporto di utenza che già nell’originario art. 33 erano
espressamente escluse, dalla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Ebbene, l’accentuarsi del carattere programmatorio nell’organizzazione del servizio
sanitario, come anche dei momenti di discrezionalità (soprattutto tecnica), ha finito per
accrescere gli spazi per la giurisdizione amministrativa, secondo la logica potere-interesse
legittimo. Questo con particolare riferimento al rapporto tra Regioni ed aziende sanitarie da un
lato, e strutture private dall’altro. Rapporto che costituisce la parte preponderante sul piano
numerico del contenzioso; un contenzioso nel quale, schematizzando non poco, nella generalità
dei casi i privati lamentano illegittimità poste in essere nella fase di accesso al sistema
(impugnando dinieghi di autorizzazione o di accreditamento) ovvero, una volta dentro il
sistema, si dolgono degli atti di revoca di autorizzazioni o accreditamenti, per il sopravvenuto
venir meno dei requisiti legittimanti, ovvero delle modalità di remunerazione delle prestazioni
da loro erogate (impugnando, ad esempio, le delibere sulla fissazione dei tetti di spesa).
Ma la giurisdizione amministrativa è stata riconosciuta anche laddove la tutela era
azionata dagli utenti del servizio, ad onta della natura di diritto soggettivo fondamentale della
situazione soggettiva fatta valere: talvolta invocando l’art. 7 del codice del processo
amministrativo, andando alla ricerca dell’esercizio del potere o comunque ravvisando nella
fattispecie un comportamento ad esso riconducibile; altre volte, richiamando Corte
costituzionale 140 del 2007 e più di recente l’Adunanza plenaria n. 7 del 12 aprile 2016 (v.
Cons. St., III, 2 settembre 2014, n. 4460; 10 giugno 2016, n. 2501).
Relativamente all’intero contenzioso in materia sanitaria si può osservare come:
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- da un lato, la natura programmatoria e quindi generale degli atti delle Regioni comporta
la dispensa dagli obblighi di comunicazione individuale sia preventiva che successiva (Cons. St.
13 maggio 2011, n. 2903) e apre la strada per un sindacato “debole” e del tutto estrinseco,
limitato ai profili di irragionevolezza, illogicità, arbitrarietà manifesta (v. Cons. St., III, 6
febbraio 2015, n. 604, già ricordato, secondo cui tale non sarebbe la scelta di collocare i malati
di Alzheimer tra le persone anziane non autosufficienti anziché tra i malati con problemi
psichiatrici);
- dall’altro, l’affermazione della natura meramente applicativa degli atti delle Asl (che
peraltro ne contraddice l’autonomia imprenditoriale e l’enfasi aziendalistica), fa sì che le sorti
del giudizio siano decise, quasi sempre, in sede di scrutinio dell’atto generale presupposto
rispetto al quale, però, si è già osservato che il sindacato è debole (v. ad esempio Cons. St., III, 3
luglio 2013, n. 3572 che indugia sulla discrezionalità degli atti di programmazione).
Abbiamo quindi un modello di giudizio impugnatorio di tipo cassatorio. Poco o nessuno
spazio per l’azione di adempimento, come anche per la tutela risarcitoria che le strutture
coltivano di rado, forse anche perché consapevoli che dovranno tornare a “confrontarsi” con
l’amministrazione sanitaria. In conclusione, la tutela è demolitoria e l’annullamento fa salvi gli
ulteriori atti dell’amministrazione. In questo panorama si segnala, per le sue peculiarità, la
sentenza del Consiglio di Stato, III, 21 luglio 2016, n. 3297 sulla fecondazione eterologa nella
regione Lombardia il cui costo, all’indomani della pronuncia della Corte costituzionale (la n.
162 del 2014), era stato posto a carico degli assistiti, a differenza di quanto stabilito invece per
quella omologa.
Il Consiglio, nel dare atto come le Regioni non sottoposte a piani di rientro possono
prevedere prestazioni aggiuntive rispetto al catalogo dei LEA, precisa tuttavia che ciò deve
avvenire pur sempre nel rispetto dei principi di imparzialità e di non discriminazione. Il risultato
è una sorta di sentenza “additiva”, ossia un annullamento contrassegnato da un forte effetto
conformativo, tale da vincolare la regione soccombente a prevedere che – come per l’omologa -
anche il costo dell’eterologa sia posto a carico della Regione, salvo il pagamento di un ticket da
parte degli assistiti.
Dal lato della domanda, di prestazioni sanitarie, si è registrato negli ultimi anni un
contenzioso significativo in risposta ai programmi e ai conseguenti atti di razionalizzazione dei
presidi sanitari. Soprattutto i comuni, rivendicando e facendo valere la propria natura di enti
esponenziali di comunità territoriali, hanno impugnato i sempre più frequenti atti di chiusura di
ospedali, disattivazione dei punti nascita, riduzione sotto vari profili dell’offerta del servizio.
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Nel quadro di una tendenza generale che gli studiosi di scienza dell’amministrazione
chiamano della razionalizzazione amministrativa (riduzione del numero delle strutture pubbliche
disseminate lungo il territorio: prefetture, filiali della Banca d’Italia, uffici giudiziari, uffici Inps
e Inail, uffici postali, infine gli ospedali). E che i sociologhi con espressione meno
tranquillizzante ma forse appena più sincera, chiamano desertificazione.
E’ il problema enorme delle aree interne, della coesione territoriale e che si misura
proprio sulla base dei servizi e della loro omogenea distribuzione sul territorio (vedi art. 119
cost.).
La riduzione dei presidi e la chiusura degli ospedali è giustificata per lo più sulla base di
una duplice motivazione: la riduzione della spesa e la garanzia della qualità. La prima guarda al
sistema e alla sua sostenibilità complessiva, la seconda all’utenza e alla tutela della salute. Sul
presupposto che un ospedale che lavora poco sia meno sicuro. Si segnalano la vicenda,
affrontata dal CGA con la sentenza 12 marzo 2015, n. 271, del punto nascite nell’isola di Lipari
dove il “diritto” di nascere sulla propria isola era posto a confronto con la garanzia di una
struttura adeguata, sul presupposto che tale non potesse essere una struttura in cui non si
raggiungesse un numero minimo di nascite all’anno. E quella dell’ospedale di Bracciano nel
precedente deciso dal Consiglio di stato 30 maggio 2012 n. 3242, dove la chiusura dell’ospedale
non è stata ritenuta compatibile con la golden hour, ossia con quel tempo massimo entro il quale
è necessario assicurare ai pazienti l’accesso a trattamenti fondamentali per la sopravvivenza
quali, in particolare, quelli offerti dal pronto soccorso.
Meno frequente è il contenzioso avviato da singoli utenti.
Vi è il filone originato dal diniego di autorizzazione ad effettuare cure specialistiche
presso strutture situate all’estero (o dal rimborso di cure già effettuate in via d’urgenza, in
assenza di autorizzazione), relativamente al quale la Cassazione è costante nell’attribuire la
giurisdizione al giudice ordinario (Cass. s.u. 6 settembre 2013, n. 2057; in senso adesivo v.
Cons. st., III, 10 febbraio 2016, n. 592).
Vi sono stati casi in cui il privato chiedeva, a strutture nazionali, l’erogazione di
prestazioni sanitarie non rientranti tra i LEA, il più noto dei quali è stato il caso Englaro.
Si trattava, lo ricordo appena, dell’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione,
intese come prestazioni sanitarie, della cui interruzione, assecondando la volontà del paziente, si
assumeva che il servizio sanitario dovesse farsi carico (anche a seguito della pronuncia della
Corte di Cassazione, I, 16 ottobre 2007, n. 21748, resa in sede di volontaria giurisdizione
sempre nella stessa vicenda). A fronte della richiesta di cure presentata dal privato, la Regione
aveva emanato un provvedimento di diniego espresso, con cui ordinava a tutte le strutture
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sanitarie di quella regione di non dare corso alla richiesta. In questo modo rifiutando la
prestazione sanitaria richiesta dal privato mediante l’esercizio di un potere autoritativo.
Come noto, quel provvedimento, fu annullato dal Tar Lombardia, annullamento
confermato in appello dal Consiglio di Stato (III, 2 settembre 2014, n. 4460), riprendendo la
distinzione codicistica (del c.p.a., all’art. 7) tra potere e (meri)comportamenti, piuttosto che tra
diritti e interessi, e così ravvisando la propria giurisdizione, non disconoscendo peraltro come in
una vicenda simile il Tar Lazio tale giurisdizione avesse invece negato (12 settembre 2009, n.
8650). La vicenda non è peraltro del tutto conclusa, pendendo ancora, dinanzi al giudice di
appello, la causa risarcitoria.
Vi sono altri casi ancora in cui singoli pazienti, o associazioni di malati, si dolgono delle
conseguenze derivanti dal modo in cui la loro malattia è trattata a confronto con altre. Cons. St.,
3 maggio 2016, n. 1713 ha di recente affrontato la condizione di persone affette da malattie
neurovegetative gravissime ed invalidanti nei cui confronti era stato previsto dalla Regione
Puglia un contributo mensile, in favore delle famiglie, di 600 euro, pari a circa la metà di quello
previsto invece, dalla stessa delibera, per i malati di sclerosi laterale amiotrofica (la tristemente
nota SLA).
Nel giudicare tale distinzione arbitraria e ingiustificata, trattandosi di persone che
subiscono una limitazione della vita quotidiana misurabile secondo il medesimo punteggio
Barthel (superiore a 90 punti e tale da richiedere assistenza continuativa di tipo sanitario e socio-
sanitario), il Consiglio ha concluso come la Regione sia tenuta ad affrontare il nodo dei vincoli
finanziari e della limitatezza delle risorse “o stanziando risorse aggiuntive, o mediante una
redistribuzione generale delle risorse. Non è invece possibile la discriminazione tra categorie di
potenziali beneficiari, in assenza di esplicitati e motivati criteri distintivi legati alla gravità delle
situazioni ed al bisogno assistenziale”.
Hadrian Simonetti
Consigliere di Stato
Pubblicato il 2 novembre 2016
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