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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE Francesca Maria Claudio, 748981 Stefano Viganò, 749518 Relatore: Prof. Anna Paola Florio Correlatore: Prof. Laura Rondi A.A. 2010/2011 POLITECNICO DI MILANO Facoltà di Ingegneria dei Sistemi Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Gestionale

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI

MACROECONOMICHE

Francesca Maria Claudio, 748981

Stefano Viganò, 749518

Relatore: Prof. Anna Paola Florio

Correlatore: Prof. Laura Rondi

A.A. 2010/2011

POLITECNICO DI MILANO

Facoltà di Ingegneria dei Sistemi

Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Gestionale

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"Se avessi saputo di vivere così a lungo, mi sarei preso più cura di me stesso"

Mickey Mantle

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Ringraziamenti

Un primo, sentito ringraziamento va alla prof. Anna Florio, che con il supporto, la

serenità e i preziosi consigli ha reso possibile questa tesi. Tesi che non sarebbe

stata realtà anche in assenza di un corso, quello di Economia Monetaria, le cui

conoscenze sono risultate indispensabili. Per questo motivo, ci sentiamo di dover

ringraziare anche il prof. Giangiacomo Nardozzi.

Più in generale, non si può che essere grati al Politecnico e a tutti professori che ci

hanno seguito e hanno contribuito alla nostra formazione professionale e

personale in questi cinque anni.

Un grazie di cuore va poi alle nostre famiglie, che sono qui per rendere il nostro

cammino migliore, aiutandoci nelle difficoltà e guidandoci nelle scelte di vita.

Infine, un grazie a tutti i nostri amici. Quelli veri, che sono qui per restare, che

danno colore e armonia alle nostre giornate. Perché senza i sorrisi che ci hanno

regalato, non saremmo qui a ringraziare tutti.

Grazie a tutti!

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Sommario

Abstract ..................................................................................................................................................................... 9

Introduzione ......................................................................................................................................................... 11

1. Demografia, volatilità e altri elementi strutturali ........................................................................ 15

1.1 Obiettivi e struttura ........................................................................................................................ 15

1.2 Introduzione ...................................................................................................................................... 15

1.3 Il punto di vista strutturale: elementi demografici ........................................................... 20

1.3.1 La relazione con produttività, risparmi e investimenti ......................................... 20

1.3.2 Et{ della forza lavoro e volatilit{ dell’ output ............................................................ 22

1.3.3 Ulteriori elementi demografici: paesi, genere, etnia ed istruzione ................... 28

1.3.4 Demografia e tasso di disoccupazione: approfondimenti ..................................... 33

1.4 Conclusioni ......................................................................................................................................... 39

2. Demografia e Teoria del Ciclo Vitale ................................................................................................. 41

2.1 Obiettivi e struttura ........................................................................................................................ 41

2.2 Introduzione ...................................................................................................................................... 41

2.3 Le origini dell’Ipotesi del Ciclo di Vita .................................................................................... 45

2.4 Il Modello “base” del Ciclo di Vita ............................................................................................. 46

2.5 Il modello base: una prima verifica empirica ...................................................................... 50

2.6 Le implicazioni del Modello “base” della LCH...................................................................... 54

2.6.1 Livello individuale ................................................................................................................. 54

2.6.2 Livello aggregato .................................................................................................................... 58

2.7 Le Estensioni rispetto al Modello base ................................................................................... 61

2.7.1 Tasso di interesse diverso da zero .................................................................................. 61

2.7.2 Composizione realistica del nucleo famigliare .......................................................... 65

2.7.3 Vincoli di liquidità.................................................................................................................. 68

2.7.4 Durata periodo lavorativo, crescita di produttività e Previdenza Sociale...... 70

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2.7.5 Il consumo durante il periodo di pensionamento .................................................... 74

2.8 Conclusioni ......................................................................................................................................... 80

3. Demografia e mercati finanziari ......................................................................................................... 83

3.1 Obiettivi e struttura ........................................................................................................................ 83

3.2 Introduzione ...................................................................................................................................... 83

3.3 Andamento dei mercati finanziari: una questione di età? .............................................. 89

3.4 I modelli DDG e una possibile integrazione .......................................................................... 96

3.5 Conclusioni ...................................................................................................................................... 104

4. Demografia e politiche monetarie: sviluppi recenti ................................................................ 107

4.1 Obiettivi e struttura ..................................................................................................................... 107

4.2 Introduzione ................................................................................................................................... 107

4.3 Demografia e politiche economiche: il modello di Gertler (1997) ........................... 112

4.4 Struttura demografica e politiche monetarie: Fujiwara e Teranishi (2007) ....... 119

4.5 Crescita demografica e politiche monetarie: un modello della BCE ........................ 128

4.6 Conclusioni ...................................................................................................................................... 135

5. Demografia e politiche economiche: un framework analitico ............................................. 137

5.1 Obiettivi e struttura ..................................................................................................................... 137

5.2 Introduzione ................................................................................................................................... 137

5.3 Variabili demografiche ............................................................................................................... 141

5.3.1 Composizione in età della popolazione ..................................................................... 141

5.3.2 Tasso di crescita della popolazione ............................................................................. 151

5.3.3 Durata media della vita .................................................................................................... 155

5.3.4 Istruzione e competenze .................................................................................................. 159

5.3.5 Variabili non più rilevanti: Genere ed Etnia ............................................................ 160

5.4 Sintesi degli effetti delle variabili demografiche ............................................................. 162

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5.5 Politiche economiche .................................................................................................................. 165

5.5.1 Politiche fiscali ..................................................................................................................... 165

5.5.2 Politica Monetaria ............................................................................................................... 173

5.6 Conclusioni ...................................................................................................................................... 179

6. Un esempio pratico: il caso Italia ..................................................................................................... 181

6.1 Obiettivi e struttura ..................................................................................................................... 181

6.2 Introduzione ................................................................................................................................... 181

6.3 L’Italia che fu .................................................................................................................................. 182

6.4 Il futuro e le riforme .................................................................................................................... 188

6.5 Conclusioni ...................................................................................................................................... 191

7. Conclusioni................................................................................................................................................ 193

Allegato A: Hodrick-Prescott ....................................................................................................................... 199

Allegato B: Volatilità di Output ................................................................................................................... 201

Allegato C: La teoria del Reddito Permanente ..................................................................................... 205

Allegato D: Dividend Discount Model ...................................................................................................... 209

Bibliografia ......................................................................................................................................................... 211

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Indice delle Figure

Figura 1.1: andamento della volatilità in relazione alle principali fasce

d’et{

Figura 1.2: relazione tra fasce d’et{ e volatilit{ di ore lavorate, suddivise

per livello di scolarizzazione

Figura 2.1: reddito, consumo e risparmi in funzione dell’et{

Figura 2.2: Funzione di consumo di breve e di lungo periodo

Figura 2.3: tasso di risparmio nel tempo

Figura 3.1: andamento nascite

Figura 3.2: efficacia di MY nel catturare l’”informazione”.

Figura 4.1: Relazione tra tasso di interesse reale e offerta di lavoro da

parte dei pensionati.

Figura 4.2: Risposte delle principali grandezze economiche in seguito ad

uno shock tecnologico, in un’economia che considera comportamento del

Ciclo di Vita.

Figura 4.3: Risposte delle principali grandezze economiche in seguito ad

uno shock monetario, in un’economia che considera comportamento del

Ciclo di Vita.

Figura 4.4: Variabili previsionali dell'area Euro fondamentali per lo

sviluppo del modello.

Figura 5.1: Andamento di reddito, ricchezza e consumo nell'arco della vita

dell'individuo, in Euro.

Figura 5.2: Variazione dei risparmi aggregati al variare della composizione

della popolazione.

Figura 5.3: Mappa delle relazioni di causa-effetto tra variabili

demografiche e grandezze macroeconomiche.

Figura 5.4: Andamento dei risparmi in caso di modifica delle variabili

demografiche come descritto.

Figura 6.1: Composizione della popolazione in Giovani, Adulti e Anziani

per gli anni 1862, 1951 e 2009.

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Figura 6.2: Andamento del tasso di crescita naturale, calcolato come

differenza tra tasso di natalità e tasso di mortalità, dal 1862 ad oggi.

Figura 6.3: Distribuzione della popolazione per fasce di età nel 1862, 1951

e 2009.

Figura 6.4: Aspettativa di vita degli individui, dal 1974 ad oggi.

Figura 6.5: Andamento del rapporto pensioni per gli anni che vanno dal

1901 al 2009.

Figura 6.6: Qualifica di studio della popolazione, in percentuali.

Figura 6.7: Istruzione in valori assoluti, data dal numero di studenti per

classe di educazione.

Figura 6.8: Composizione della popolazione in Giovani, Adulti e Anziani nel

2011 e nel 2051.

Figura 6.9: Distribuzione della popolazione per fasce d'età, nel 2011 e nel

2051.

Figura 6.10: Andamento del rapporto tra lavoratori e pensionati e

dell'aliquota contributiva di equilibrio corrispondente.

Figura A.1 output del filtro Hodrick-Prescott applicato ai dati di PIL reale

dal 1947 al 2007.

Figura A.2: Andamento della volatilità di output dal 1952 al 2006, il cui

calo registrato nel decennio che va dal 1980 al 1990 è interpretato come

conseguenza delle nuove conoscenze legate alle tecniche di politica

monetaria.

Figura A.3: Andamento della volatilità di output dal 1952 al 2006, il cui

calo è interpretato come conseguenza di variazioni strutturali.

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Indice delle tabelle

Tabella 1.1: forza lavoro e volatilità di ciclo.

Tabella 1.2: volatilit{ dell’occupazione nei vari paesi del G7. I valori sono

riportati come volatilità in relazione al gruppo compreso tra i 40 e 49 anni,

che pertanto presenta valori unitari.

Tabella 1.3: alcuni risultati empirici riguardo il rapporto tra occupazione,

disoccupazione e partecipazione.

Tabella 1.4: coefficienti modelli ARMA per le varie fasce d’et{. Tra

parentesi, gli errori standard calcolati con lo stimatore di Newey-West.

Tabella 2.1: Risultati delle verifiche empiriche relative alla funzione di

consumo aggregato

Tabella 5.1: Analisi delle conseguenze di variazioni demografiche sugli

schemi pensionistici a ripartizione e capitalizzazione.

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Abstract

L’oggetto di studio qui proposto è la

relazione tra demografia e sistema

economico. Con il termine demografia si

vuole intendere quella moltitudine di

caratteristiche di una popolazione che

spaziano dall’et{ all’istruzione, dall’etnia

al genere. Queste caratteristiche, per loro

natura tempo varianti, hanno un impatto

innegabile su una moltitudine di eventi

del contesto sociale. E tema sociale è

senza dubbio l’andamento economico,

così fortemente legato all’insieme di

individui che lo compongono. Le

relazioni presentate sono di varia natura

e determinano, al mutare del contesto

demografico di riferimento, una

variazione nelle dimensioni economiche

principali, tra cui: la volatilit{ dell’output

economico, il rapporto risparmi-

investimenti, stabilità e andamento dei

mercati finanziari. A queste dimensioni si

aggiunge l’ambito di manovra delle

istituzioni, tra cui governi e banche

centrali, che possono prendere decisioni

in grado di influenzare il sistema nel

complesso o di adeguarlo al nuovo

scenario di riferimento. I risultati a cui si

giunge dimostrano una notevole

complessità tra le relazioni sopra

presentate, spingendo verso la necessità

di meglio integrare la componente

demografia nello studio delle politiche

economiche. A questo scopo, si presenta

una mappa causale che possa permettere

una rapida comprensione delle

dinamiche che legano demografia ed

economia. A completamento di questa

analisi, si accompagna un caso empirico

di interesse: il sistema paese Italia.

The object of study is the relationship

between demography and the economic

system. The word “demography” stands

for all those population characteristics

that go from age to education, from

ethnic group to gender. These

characteristics, time-varying for their

own nature, have undeniable effects on a

multitude of events of the social context.

And the economic trend is doubtless a

social theme since it is so tightly related

to the group of people that characterize

its relevant aspects. The relationships

presented are of different nature and,

with the changing of the demographic

setting, determine the variation of the

principal economic elements, such as:

economic output volatility, saving-

investment ratio, financial market

stability and trends. In addition to these

dimensions, economic policies by

governments and central banks are

analyzed, as they can influence the

economic system as a whole or adjust it

to the changing demographic scenario.

The main findings demonstrate the high

complexity of the relations presented

above, pointing out the necessity of

better integrating demography in the

study of economic policies. To this end, a

cause-effect map is presented, allowing a

straightforward understanding of the

dynamics that link demography and

economy. In addition, a description of the

intervention options of monetary and

fiscal policy in relation to demographic

changes is proposed. The analysis is

enriched with an empirical case study

about Italy.

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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Introduzione

Lo studio in esame prende le mosse dall’osservazione di come la maggior parte dei

paesi industrializzati sia attualmente soggetta a cambiamenti strutturali nelle

caratteristiche demografiche della popolazione. Per caratteristiche demografiche si

intendono, in questa sede, quella moltitudine di variabili che caratterizzano gli

abitanti di un paese, quali la speranza di vita, la vita media, la composizione della

popolazione in fasce di et{, il tasso di crescita, l’istruzione, l’etnia e il genere.

Come sottolineato da Bean (2004), l’evoluzione delle variabili demografiche

ricopre una significativa rilevanza per i policy maker: i cambiamenti demografici

rappresentano infatti uno shock macroeconomico, che può portare a movimenti

bruschi nel prezzo degli asset e nel comportamento del risparmio; inoltre, essi

influenzano il tasso di interesse naturale, parametro fondamentale nella

definizione delle manovre monetarie. Pertanto, i policy maker dovrebbero tener

conto delle caratteristiche demografiche di una nazione nel momento in cui

prendono decisioni in merito a politiche economiche e monetarie.

Nonostante queste intuizioni, lo studio della relazione tra demografia e

macroeconomia è ancora in una fase embrionale: non si dispone infatti di alcun

framework capace di tenere in considerazione tutte le diverse relazioni che legano

variabili demografiche e sistema economico.

Dato questo contesto, l’obiettivo che si persegue in questa sede è

l’approfondimento dell’analisi della relazione tra demografia e sistema economico,

con particolare riferimento alle manovre fiscali e monetarie, di modo da muovere

un passo in avanti verso lo sviluppo di uno schema logico di sintesi che sia di

supporto alla definizione delle politiche economiche.

Per raggiungere l’obiettivo, in primo luogo si sono andati ad analizzare gli sforzi

presenti in letteratura indirizzati verso lo studio della relazione tra variabili

demografiche e politica monetaria. Essi sono risultati scarsi in numero e,

soprattutto, caratterizzati da un punto di vista ristretto, che si limita ad integrare

all’interno di framework tradizionali il comportamento del Ciclo Vitale. La Teoria

del Ciclo Vitale di Modigliani (1954) si focalizza infatti sul legame tra età degli

individui e risparmio, lasciando in ombra tutta una serie di legami tra variabili

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Introduzione _

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demografiche e elementi macro. Si fa riferimento in primo luogo alla relazione tra

demografia e volatilità di output. In letteratura sono presenti numerosi contributi

in tal senso, cha analizzano gli effetti sulla volatilità di output della distribuzione

della popolazione in fasce di et{ (Jaimovich e Siu, 2009), l’istruzione (Shimer,

1998), il genere (Clark e Summers, 1981) e l’etnia (Shimer, 1998). Come si nota, gli

studi analizzati tendono a focalizzarsi su una sola variabile demografica per volta,

fornendo spunti estremamente interessanti che non sono però integrati in un

quadro di sintesi. In secondo luogo, ci si riferisce ad una serie di studi che

sostengono l’esistenza di una relazione tra età della popolazione e andamento dei

mercati finanziari (Fama, 2010). Questa intuizione è rilevante nell’ambito dello

studio dei legami tra demografia e sistema economico, in quanto al giorno d’oggi

risulta chiaro come l’andamento dei mercati finanziari abbia ripercussioni molto

forti sull’economia reale. Infine, si considera un ulteriore filone che si focalizza

sull’analisi dell’interazione tra demografia, politica fiscale e politica monetaria

(Fujiwara e Teranishi, 2007 e Kara e Thadden, 2010), mettendo in luce come le

politiche fiscali costituiscano un potente “mezzo di trasmissione” delle manovre

monetarie, e che pertanto devono essere a queste coordinate per ottenere i

risultati sperati a livello macroeconomico.

Sulla base degli spunti sopraccitati si è andati a costruire una proposta di schema

logico che costituisse uno quadro di riferimento il più possibile completo in

relazione agli effetti della demografia sul sistema economico. Il framework

proposto definisce quali siano le variabili demografiche di rilievo in relazione agli

elementi macro, ne descrive le implicazioni e ne analizza la significatività per i

policy maker.

Le principali conclusioni a cui si è giunti possono essere riassunte come segue. Le

variabili demografiche più rilevanti in ambito macroeconomico sono la

composizione della popolazione per età, la crescita della popolazione, la speranza

media di vita, l’istruzione e le competenze. Esse influenzano il valore aggregato di

consumi, risparmi/investimenti, produttività e asset e la volatilità di occupazione e

di asset; inoltre, rivestono un ruolo di primaria importanza nella definizione delle

politiche economiche. Per quanto riguarda le politiche fiscali, l’evoluzione delle

caratteristiche demografiche di una nazione implica la necessità di apportare

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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riforme strutturali al sistema pensionistico e alla gestione del debito pubblico,

volte ad evitare che una “classe” di et{ venga favorita rispetto alle altre. Per quanto

riguarda le politiche monetarie, l’evoluzione delle caratteristiche demografiche di

una nazione causa la variazione del tasso naturale di interesse; questa variazione è

però distribuita in un arco temporale molto lungo, cosicché il suo monitoraggio

risulta particolarmente complesso. Inoltre, attraverso la determinazione del tasso

di interesse la banca centrale può influenzare direttamente la distribuzione delle

risorse, agevolando una determinata “classe” di et{ della popolazione. Sussiste

quindi la possibilità che le banche centrali siano chiamate a prendere decisioni

“politiche” rilevanti, con la conseguente necessit{ di agire tenendo in

considerazione numerosi fattori. Infine, l’efficacia delle politiche monetarie

dipende anche dalle decisioni di politica fiscale intraprese dai governi. In

particolare, le manovre monetarie tendono ad essere più efficaci nel caso in cui la

previdenza sociale sia gestita mediante un sistema pensionistico a capitalizzazione,

cui corrispondono valori più bassi di tasso di interesse naturale e volatilità del

sistema finanziario.

La relazione tra variabili demografiche e politiche monetarie risulta quindi forte e

complessa, conseguente sia da legami diretti che dall’azione di “mezzo di

trasmissione” svolta dalle politiche fiscali.

Le conclusioni teoriche sopra riportate trovano riscontro nell’analisi di un caso

pratico, relativo al paese Italia. Data l’evoluzione demografica che interessa il

paese, in cui la speranza di vita è in crescita costante, il tasso di crescita naturale ha

assunto valori negativi e la composizione in età della popolazione vede la

percentuale di anziani rispetto al totale in costante aumento, in ambito fiscale

l’Italia si trova di fronte alla necessit{ di prendere decisioni forti, che possano

rivoluzionare il sistema previdenziale corrente evitando di cadere in una spirale

discendente in cui aumento della pressione fiscale o deficit di bilancio siano le

uniche opzioni disponibili. In ambito monetario invece, la costituzione della

moneta unica e l’affidamento della maggior parte delle funzioni alla Banca Centrale

Europea limita le possibilità di manovra a fronte di un cambiamento demografico

in una singola Nazione. L’omogeneit{ dei trend demografici in atto nell’Unione

Europea permette però di contenere il problema, offrendo l’opportunit{ di

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Introduzione _

14

prendere decisioni in grado di andare incontro alle necessità di tutti i paesi

membri.

Il corpo della tesi è strutturato come segue. Il capitolo 1 raccoglie e discute i

principali contributi di letteratura che trattano del rapporto tra variabili

demografiche e volatilità. Il capitolo 2 presenta la Teoria economica del Ciclo

Vitale, che costituisce l’approccio più tradizionale di analisi della relazione tra

demografia ed economia. In questa sede l’attenzione si focalizza quindi sulla

variabile demografica dell’et{ della popolazione e sulla composizione percentuale

della popolazione in lavoratori e pensionati, che permette il passaggio da consumo

e risparmio individuale ai corrispondenti valori aggregati per una nazione. Il

capitolo 3 discute la relazione tra demografia e mercati finanziari. Si toccano sia il

tema del valore del mercato finanziario sia il tema della sua volatilità, entrambi

connessi alla variabile demografica della composizione della popolazione in fasce

di età. Il capitolo 4 è dedicato ai primi modelli teorici che trattano della relazione

tra variabili demografiche e politiche monetarie, di cui vengono evidenziati sia gli

spunti di rilievo sia i limiti dell’analisi. Il capitolo 5 propone un nuovo framework

logico che, a partire da un’analisi critica della letteratura, consente di sintetizzare e

integrare tutti i principali elementi demografici riscontrati e di analizzarne la

relazione con le politiche fiscali e monetarie. Il capitolo 6 cala le considerazioni

teoriche condotte nel capitolo che lo precede in un caso pratico, relativo al paese

Italia. Infine, il capitolo 7 sintetizza le principali conclusioni del lavoro svolto.

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

15

1. Demografia, volatilità e altri elementi strutturali

1.1 Obiettivi e struttura

In questa prima sezione, l’attenzione è rivolta al concetto di volatilit{ di output,

facendo riferimento alla deviazione standard dell’output dell’economia,

adeguatamente filtrato per catturare le variazioni di lungo periodo. Il capitolo è

strutturato in tre parti principali: in una prima parte introduttiva, l’attenzione è

rivolta al concetto di volatilità e alla sua importanza in ambito economico; la

seconda parte presenta i principali studi che mettono in relazione la volatilità con

le variabili demografiche di maggior rilievo nella letteratura, con alcuni cenni

storici ai primi tentativi di introduzione delle stesse; infine, si propone una

digressione sul concetto di istruzione e del suo valore in relazione alla volatilità di

occupazione, che a sua volta ha un impatto diretto sulla volatilità di output.

L’obiettivo che ci si prefigge è una comprensiva riproposizione di tutti i principali

studi finora effettuati, con lo scopo di meglio comprendere l’effetto dei

cambiamenti demografici sulla varianza dell’output economico.

1.2 Introduzione

Il tema principale trattato da questo capitolo riguarda la relazione tra politiche

economiche e volatilit{ dell’output. Esiste una vasta letteratura su questo

argomento, che tratta il tema della riduzione della volatilit{ nell’output e

nell’inflazione verificatisi in corrispondenza della “Great Moderation”1. Questo

tema è di grande interesse per i policy makers: comprendere le determinanti di

una riduzione della volatilità può permettere di conservare questa condizione nel

tempo nel caso in cui ci si trovi in Paesi dove la volatilità è bassa, o può abilitare gli

strumenti per arrivare a tale condizione nel caso in cui ci si trovi invece in Paesi

dove la volatilità è ancora elevata.

1 Fenomeno che ha interessato gli U.S. a partire dagli anni Ottanta e che è tutt’ora in corso.

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Demografia, volatilità e altri elementi strutturali _

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Perché avere condizioni di bassa volatilità è preferibile? Vi sono varie motivazioni,

la maggior parte delle quali sono, secondo Bernanke (2004):

- Minori fluttuazioni nell’output e nell’inflazione rendono i mercati più stabili

e meglio funzionanti;

- Condizioni stabili permettono anche una più efficace pianificazione delle

manovre di politica economica che verranno impiegate in futuro;

- Visti i minori rischi di “spike” nell’inflazione, si possono ridurre le risorse

impiegate a copertura del rischio stesso;

- Ad un ambiente più stabile si accompagna un più stabile mercato del lavoro,

che permette maggiore sicurezza nel prendere decisioni da parte di nuclei

familiari e imprese;

- Infine, se tali condizioni persistono, si riduce anche il numero di crisi e

quelle che accadono hanno un impatto meno severo (quest’ultimo punto

sarebbe sicuramente ridiscusso da Bernanke stesso alla luce dei recenti

accadimenti).

Le spiegazioni possibili legate a questo fenomeno di riduzione della volatilità sono

classificate in tre macro categorie. La prima riguarda una migliore conoscenza

degli strumenti di politica monetaria e dei loro effetti, che ha permesso ai

regolatori una migliore capacità di far fronte alle variazioni di contesto e agli

shock. Questa categoria è supportata da Bernanke (2004) che però rileva come sia

difficile dimostrarne la validità utilizzando tecniche di macro econometria classica.

Questa difficolt{, secondo l’odierno governatore della Federal Reserve (d’ora in poi

FED), rischia di porre in secondo piano il ruolo degli strumenti di politica

monetaria nella riduzione della volatilità, rendendo così meno rilevante questo

filone di studi che potrebbe invece essere di grande utilità.

Da citare in questo senso è lo studio effettuato da Clarida, Galì e Gertler (2000), il

quale dimostra come le politiche monetarie attuate nel periodo precedente

all’elezione di Volcker2 fossero inadeguate al contesto e in particolare non

seguissero il cosiddetto principio di Taylor (1993). Si reagiva, infatti, in modo non

2 i.e. periodo precedente al 1979.

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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sufficiente all’inflazione, amplificandone l’effetto invece che ottenere il risultato

desiderato. Anche gli autori di questo studio credono che il ruolo degli shock,

benché non trascurabile, non sia predominante nel cambiamento di volatilità

avvenuto in tale periodo storico.

In particolare, gli autori considerano una funzione di reazione "forward-looking"

della politica monetaria. Questa funzione sarà poi stimata per il periodo storico

precedente all'incarico di Volcker come banchiere centrale e per quello successivo,

dimostrando sostanziali differenze tra i valori ottenuti. Benché non sia di primario

interesse esporre lo studio svolto dai tre autori nel dettaglio, si trova utile

descrivere alcuni dei risultati raggiunti. La funzione da loro introdotta si basa in

prima approssimazione sulla regola di Taylor, dove il Federal Fund rate viene

regolato in base al gap tra inflazione e output attesi e il loro valore target. Il modo

in cui la FED operava in caso di inflazione crescente, nell'era precedente a Volcker,

era alzare i tassi nominali in misura non sufficiente, ottenendo un abbassamento

dei tassi reali che portava a un risultato sull'inflazione opposto rispetto a quello

sperato. Nell'epoca Volcker e Greenspan invece, si è passati a una politica

proattiva, dove il tasso nominale veniva regolato adeguatamente, comportando un

conseguente innalzamento del tasso reale e quindi un aggiustamento

dell'inflazione verso i livelli desiderati.

Bernanke fa inoltre riferimento ad un altro fenomeno, citando un altro famoso

lavoro di Taylor (1998) che ha dato luogo alla curva di Taylor. Secondo tale curva,

costruita tramite studi empirici, la volatilit{ dell’output e dell’inflazione sono in

trade-off. Di conseguenza, se si desidera una minore volatilit{ nell’inflazione, è

necessario sopportare una maggiore volatilit{ dell’output e viceversa. Ciò che

avviene è che, se in un dato periodo temporale, come la “Great Moderation”, si

assiste a una riduzione di entrambe, due possono essere le cause: da una parte può

essere che le politiche monetarie adottate fino a tale momento fossero non

adeguate, ottenendo così un’economia distante dalla frontiera efficiente

determinata dalla curva di Taylor; dall’altra, la curva stessa potrebbe aver subito

uno spostamento dovuto a fattori strutturali. Secondo l'autore, è più probabile e

dimostrabile la veridicità della prima ipotesi che non quella della seconda.

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Se quindi l’attenzione di Bernanke si focalizza sulla prima possibilità, che

spiegherebbe così il miglioramento di condizioni con una modifica delle politiche

monetarie attuate, un altro filone di studi si concentra sull’ultima possibilit{, dando

luogo alla seconda macro categoria di spiegazioni: i cambiamenti strutturali.

Con cambiamenti strutturali si fa riferimento a cambiamenti nelle istituzioni

economiche, nella tecnologia, nelle business practices e nelle caratteristiche

demografiche di una nazione. In particolare, l’ultimo di questi cambiamenti

strutturali sar{ oggetto di studio di questo capitolo. E’ evidente come questa

categoria di spiegazioni sia altrettanto importante ai fini della comprensione della

volatilit{. D’altra parte però questo insieme di fattori rappresenta un insieme di

leve esogene che i policy makers non possono controllare direttamente, e in alcuni

casi nemmeno indirettamente. Per questo motivo è importante per i regolatori

conoscere questi fattori, tenendone conto nel compiere i necessari interventi.

Ulteriori studi riguardanti cambiamenti strutturali rilevanti analizzano

l’andamento della volatilit{ di varie componenti del GDP, come in un famoso paper

di Blanchard e Simon (2001). Questo lavoro è considerato rilevante perché uno dei

primi a documentare in modo preciso la variazione di volatilità dell'output che si è

registrata dagli anni '80 a oggi. Ciò che viene fatto è l'utilizzo di semplici tecniche

econometriche atte a misurare la volatilità e in seguito la verifica di come la stessa

si sia ridotta di circa un fattore 3 dal 1980. La prima supposizione è che l'output

segua un modello autoregressivo di primo grado, cioè:

(1.1)

Dove rappresenta il logaritmo dell'output con frequenza trimestrale, Δ una

differenza prima, g è il tasso di crescita dell'output, ε è uno shock white-noise con

deviazione standard pari a e a(L) è un lag polinomiale. Si definisce poi la

deviazione standard di come . Essa dipende sia dalla deviazione standard

che dal lag polinomiale a(L), come in ogni serie autoregressiva. Se quindi si

suppone come un processo AR(1), si avrà che la sua deviazione standard è

definita come segue:

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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(1.2)

Di conseguenza, più alto è il valore di a, più alta sar{ la varianza dell’output.

Utilizzando questa formula per definire una serie di dati relativa all’output

statunitense dal 1952 al 2000, si arriva alla conclusione che la volatilità sia

effettivamente scesa e che il motivo di ciò sia legato a un minore impatto degli

shock che si sono verificati piuttosto che a una minore durata degli effetti degli

shock stessi nel tempo.

Gli autori scompongono poi il GDP in: consumi, investimenti, spesa pubblica,

esportazioni nette e investimenti in scorte3. Dimostrano quindi come vi sia stata

una notevole riduzione nella volatilità di alcune di queste componenti, in

particolare negli investimenti, i consumi in beni non durevoli e la spesa pubblica.

Gli investimenti in scorte invece hanno cambiato “segno”, divenendo da pro-ciclici

ad anticiclici. Per Blanchard e Simon quindi questi potrebbero essere i

cambiamenti strutturali causa della riduzione della volatilità, anche se si

esprimono alcune perplessità dovute al fatto che la riduzione di volatilità in queste

componenti è accompagnata da un quasi speculare incremento della volatilità nelle

esportazioni nette e in quella componente dei consumi legata ai beni di

investimento. In questo studio si esaminano anche altri possibili elementi

d’interesse. In particolare si cerca da una parte di comprendere il ruolo e il legame

dell’inflazione nelle variazioni della volatilit{ dell’output, dall’altra si vuole

dimostrare come la riduzione in frequenza e impatto degli shock non basti a

spiegare le migliori condizioni economiche. Si vuole cioè contrastare quel filone di

studi che vede nella “good luck” il principale fattore caratteristico per la

diminuzione della volatilità. Per fare ciò, gli autori compiono un particolare studio

della volatilità: dopo aver introdotto un modello auto-regressivo di prim’ordine

capace di filtrare i dati e ottenere una misura di volatilità, aggiungono delle

dummies atte a catturare gli effetti delle crisi e dei periodi espansivi sulla volatilità.

Identificano poi, seguendo i dettami del NBER (National Bureau of Economic

Research), i periodi di crisi come due quarti di crescita negativa e i periodi di

3 Le scorte sono particolarmente rilevanti nello studio della volatilità.

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espansione in modo speculare. Con questo nuovo modello si nota come la volatilità

decresca in modo del tutto simile a quanto ottenuto in assenza di dummies. Gli

autori giungono così alla conclusione che non sia stata la riduzione del numero e

dell’impatto delle crisi a causare una riduzione della volatilit{.

Ed è proprio il ruolo della “fortuna” che rappresenta l’ultima macro categoria: in

pratica, si sostiene che le mutate condizioni di volatilità siano dovute

principalmente a una serie di eventi fortuiti che hanno causato una riduzione in

frequenza e impatto degli shock4. Se questo fosse il caso, a ben poco servirebbero

migliori politiche economiche o mutate situazioni strutturali.

Per chi scrive, tutti e tre i fattori sono di grande rilevanza nello spiegare il nuovo

contesto. Ai fini dei nostri studi però, si vuole procedere a un’analisi specifica

dell’elemento demografia e delle sue implicazioni non solo su volatilità, ma anche

produttività, risparmi e investimenti e tasso di disoccupazione medio.

1.3 Il punto di vista strutturale: elementi demografici

Come detto, l’argomento che verr{ analizzato in dettaglio riguarda la relazione tra

demografia e volatilità del ciclo economico. Studi che si occupano della relazione

tra demografia e alcuni aspetti della macroeconomia quali produttività e flussi di

capitali tra nazioni sono numerosi, mentre è molto recente lo studio specifico degli

effetti della demografia stessa sull’andamento del ciclo economico. Anche se il

secondo campo di analisi è più interessante per quanto si vuole analizzare, è

comunque utile presentare i risultati di alcuni articoli particolarmente rilevanti, tra

cui quelli di Feyrer (2005) e Higgins (1998).

1.3.1 La relazione con produttività, risparmi e investimenti

Il lavoro svolto da Feyrer (2005) è citato in molti studi successivi ed è utile per

comprendere l’impatto della demografia sulla produttivit{ aggregata di una

nazione al fine di spiegare la differente volatilit{ dell’output. Il primo importante

4 Questo filone di studi è molto sviluppato e vede in Ahmed, Levin e Wilson (2002) e Stock e Watson (2003) i principali esponenti.

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contributo di tale lavoro riguarda l’attenzione rivolta alla scomposizione della

forza lavoro in fasce d’et{. Molti studi che trattano demografia si riducono alla

mera analisi del dependency ratio, il rapporto che vi è cioè tra la popolazione

lavorativa e quella non lavorativa. Sebbene tale dato sia in grado in parte di

spiegare alcuni fenomeni, non permette di arrivare a conclusioni più precise.

L’autore passa poi all’introduzione di un modello tramite il quale vuole dimostrare

come una delle possibili cause della divergenza in produttività tra paesi OECD e

paesi a basso reddito sia l’et{ della forza lavoro. Questo può essere dovuto a molti

fattori, tra i quali cita in particolare il fattore esperienza. Nei paesi a basso reddito,

infatti, la forza lavoro tende a essere più giovane, meno esperta e a rimanere tale

negli anni, per via dei maggiori tassi di natalit{ e mortalit{. Secondo l’autore, un

vantaggio della relazione che si può riscontrare tra produttività e demografia è

anche la maggiore facilità di dimostrazione del legame stesso con modelli

quantitativi. Altri fattori utilizzati per spiegare le differenze di produttività tra

nazioni, come il livello di scolarizzazione, gli investimenti e la crescita della

popolazione, sono soggetti a problemi di endogeneità difficilmente risolvibili. Per

questo motivo, non si è in grado di costruire modelli validi e utilizzabili a scopo

predittivo, rendendo l’utilit{ di tali relazioni limitata.

Nello specifico, il modello presentato da Feyrer spiega da un quarto a un terzo

della differenza di produttività che si riscontra tra paesi sviluppati e paesi in via di

sviluppo. Nonostante ciò, il più importante contributo di questo studio riguarda

proprio la riscoperta del ruolo cruciale del fattore demografia negli studi

macroeconomici.

Il lavoro di Higgins (1998) si occupa invece della relazione tra età, risparmi e

bilancia delle partite correnti. In particolare analizza come risparmi e investimenti

varino in base alla composizione di età della popolazione, andando poi a

comprendere come un eventuale squilibrio tra i due fattori porti a un deficit o

surplus della bilancia delle partite correnti. Si utilizza come base di partenza un

altro studio di Higgins e Williamson (1996), nel quale si presenta un modello di

crescita neoclassica cui si vanno ad aggiungere più periodi del ciclo di vita

dell’individuo. In particolare tale modello è utilizzato per eseguire delle

simulazioni che permettono di ottenere alcune importanti considerazioni

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Demografia, volatilità e altri elementi strutturali _

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qualitative. La prima fa riferimento alla domanda di investimenti: essi sono legati

primariamente alla percentuale di giovani presenti in una popolazione, per via

della crescita della forza lavoro. Al contrario, i risparmi tendono a crescere quando

la percentuale di adulti è alta, con un maggior numero di persone interessate a

risparmiare per la pensione. Il risultato di ciò è che in un’economia aperta con un

crescente numero di giovani ci si trova in una situazione di deficit della bilancia

delle partite correnti. Questo è vero solo se i risparmi costituiscono effettivamente

una costrizione agli investimenti, cosa che potrebbe non verificarsi. Viceversa, se

l’economia presenta un crescente numero di adulti la bilancia delle partite correnti

si troverà in surplus. Al di là di queste considerazioni di economia aperta, ciò che è

interessante è la differente proporzione di risparmi e investimenti in base alla

composizione in età della popolazione di una nazione5. La capacità di prevedere

anche soltanto in parte l’andamento di tali elementi è, infatti, di estrema utilit{ per

un paese.

Queste ipotesi ottenute tramite simulazione sono testate da un modello empirico

applicato a dati di 100 diverse nazioni. Tale modello si presenta efficace e robusto,

e porta l’autore a concludere che la relazione ipotizzata sia utilizzabile, con le

adeguate attenzioni, a fini predittivi.

1.3.2 Età della forza lavoro e volatilità dell’ output

Passando invece al secondo filone, il primo studio cui si fa riferimento è quello

svolto da Jaimovich e Siu (2009). Tramite tecniche econometriche che saranno

presentate in seguito, gli autori vogliono dimostrare che da un quinto a un terzo

della riduzione di volatilità nel ciclo economico statunitense è dovuta ai

cambiamenti demografici. Si riprende quindi quella parte di ricerca che vede nei

cambiamenti strutturali una delle principali cause della nuova situazione di

variabilit{ dell’output. In particolare si fa riferimento soprattutto all’avvento del

periodo storico definito in letteratura come “Great Moderation”. Per quanto

riguarda le caratteristiche demografiche esaminate invece, si tratta nello specifico

della composizione in et{ della forza lavoro. E’ importante notare come gli autori

5 A tal proposito, si faccia riferimento anche al capitolo 2 (Demografia e Teoria del Ciclo Vitale)

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arrivino a definire una relazione tra volatilità e demografia senza però analizzare

nel dettaglio quali potrebbero essere le causali che spiegano tale rapporto.

Per rendere lo studio il più valido e generale possibile, esso è eseguito

parallelamente su dati riguardanti Stati Uniti, Giappone e gli altri paesi del G7. Ciò

che è considerato determinante per spiegare la relazione tra demografia e

volatilità del ciclo di business è la relazione pregressa tra demografia e volatilità

nel mercato del lavoro. Si nota cioè una maggiore volatilità nelle ore lavorate in

periodi di fluttuazioni economiche come la possibile causa della maggiore volatilità

dell’output in periodi positivi e negativi del ciclo economico. La causa di questa

maggiore volatilità è da ricercarsi per esempio in una popolazione più giovane.

Tale relazione è stata introdotta e spiegata in numerosi studi, tra cui Clark e

Summers (1981), José-Víctor Ríos-Rull (1996) e Gomme (2005).

Ciò che mostrano è che la volatilità del mercato del lavoro presenta una forma a U

in relazione all’et{. Per esempio, la deviazione standard delle fluttuazioni nel

mercato del lavoro per le fasce di età comprese tra i 15 e 19 anni è 6 volte

maggiore rispetto alla deviazione standard della fascia compresa tra i 40 e 49 anni.

La situazione è analoga se si confronta la fascia di età compresa tra i 60 e i 64 anni

con quella tra i 40 e 49, con la prima caratterizzata da una volatilità molto più

elevata. Quanto introdotto è esemplificato in Figura 1.1, dove il grafico rappresenta

l’andamento della volatilit{ in relazione alle principali fasce d’et{ prese in esame. I

dati riguardano gli Stati Uniti per un periodo che va dal 1963 al 2005 e sono

distinti per genere.

Si noti la caratteristica forma a U, fatta eccezione per la prima fascia che è però

poco rilevante ai fini dello studio e può essere ignorata. Questo è in particolare

vero per Stati Uniti e Giappone mentre sono presenti alcune peculiarità in altri

paesi del G7.

Questi studi inoltre arrivano a determinare relazioni tra mercato del lavoro e altre

caratteristiche demografiche quali genere, istruzione ed etnia. Alcuni di questi

studi, considerati rilevanti, verranno ripresi in seguito.

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E’ importante comprendere che la volatilit{ di cui Jaimovich e Siu parlano non è

quella legata alle fluttuazioni ad alta frequenza dell’output ma quella correlata al

ciclo economico. Infatti, il loro lavoro utilizza due diverse definizioni analoghe di

output prese dalla letteratura, facenti riferimento alla volatilità di medio - lungo

periodo. La prima misura la volatilità come la deviazione standard del GDP reale

filtrato misurato ogni trimestre, in una finestra temporale di 10 anni. Il filtro

utilizzato è in particolare l’Hodrick-Prescott, con un valore di smoothing di 6.25

(vedi Allegato A e B). I valori utilizzati dagli autori per il filtro HP sono presi da un

recente studio empirico di Ravn e Ulhig (2002) che esamina quali sono i valori

adeguati in determinate circostanze. In particolare, 6.25 si riscontra essere il

valore più funzionale per dati annuali nei quali si voglia isolare un andamento di

ciclo con frequenze tipiche, pari a circa otto anni. La seconda tecnica invece è

ripresa da un precedente lavoro di Stock e Watson (2003, 2005).

Si passa così alla costruzione del modello vero e proprio, nello specifico:

(1.3)

Dove è la volatilità del ciclo economico misurata con una delle due tecniche

precedentemente introdotte per il paese i e nell’istante temporale t. La variabile ,

0,000

1,000

2,000

3,000

4,000

5,000

6,000

15+ 15-19 20-24 25-29 30-39 40-49 50-59 60+

Donne

Uomini

Figura 1.1: andamento della volatilità in relazione alle principali fasce d’et{.

Fonte: Jaimovich e Siu (2009).

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invece, rappresenta la costante per il paese i e cattura la parte non osservata di

volatilità del dato paese. Si utilizza invece un set di dummies temporali, , per

raccogliere variazioni note nella volatilità inter-paese. Infine, la variabile

rappresenta la quota della forza lavoro facente parte di quelle classi di età a

maggiore volatilità, relativa al paese i in un dato istante temporale t. Sarà quindi

a catturare l’effetto della demografia sull’output. Questa variabile però non spiega

quale sia il nesso causale che lega i due fattori.

I risultati ottenuti con questo primo modello sono molto significativi e supportano

della tesi presentata dai due autori. In particolare, per testare la robustezza delle

ipotesi, si utilizzano 7 diverse tecniche di misura della volatilità. In 4 casi, è

significativa all’1%, in 2 casi al 5% e soltanto in un caso non risulta significativa.

Tale caso però utilizza una definizione di volatilità di medio periodo invece che una

di lungo come negli altri 6. Gli autori compiono poi altre analisi di robustezza sul

loro modello. In particolare, temendo si possa riscontrare un caso di endogeneità

delle variabili, si passa all’utilizzo delle variabili strumentali.

Lo studio viene infine ripetuto e approfondito sostituendo l’utilizzo della variabile

con un set di variabili che riguardano ognuna una specifica classe di età

della forza lavoro. Dal momento che le quote percentuali delle varie fasce d’et{

sommano a uno, uno dei gruppi viene escluso. Nel caso del primo test si esclude il

gruppo riguardante la fascia d’et{ compresa tra i 15 e 29 anni, per poi utilizzare

nuovamente il modello escludendo a turno fasce diverse di età, in modo da testare

ogni possibile combinazione. Ciò che si ottiene dalla regressione è, infatti, un set di

coefficienti, uno per ogni fascia inclusa, ognuno dei quali descrive la variazione di

volatilit{ nel ciclo economico dovuta ad un aumento percentuale di tale fascia d’et{

a discapito di quella esclusa dalla regressione stessa. I risultati ottenuti (Tabella

1.1) sono del tutto analoghi per significatività a quelli riscontrati in precedenza e

presentano una distribuzione a U, come si riscontra nello studio della

composizione in età della forza lavoro. Essi derivano dall’utilizzo della tecnica dei

minimi quadrati ordinari, escludendo come fascia d’et{ quella riguardante i 15-29

anni. In particolare, risultano significativi i coefficienti delle prime tre fasce mentre

risulta non significativo il coefficiente della fascia riguardante i 60-64 anni. Ciò è in

linea con quanto in precedenza riscontrato: sia la fascia 15-29 che quella 60-64

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presentano un impatto sulla volatilità decisamente maggiore. Per questo, uno shift

dalla fascia 15-29 alla fascia 60-64 non è significativo.

Tabella 1.1: forza lavoro e volatilità di ciclo.

Distribuzione forza lavoro e volatilità del ciclo di business

Fascia d'età 15-29 30-39 40-49 50-59 60-64 Valore 0,000 -2,873 -4,133 -2,775 -3,806 Significatività 1% 10% 1% Non sign.

Ultimo punto d’interesse di questo studio riguarda l’impatto della relazione

appena dimostrata sulla volatilit{ di ciclo durante il periodo storico della “Great

Moderation”.

La tesi appoggiata dagli autori è quella di un lento ma costante declino della

volatilità negli anni. In particolare, vedono i cambiamenti demografici soltanto

come parte della spiegazione e citano le seguenti cause come valide:

- Una riduzione nella volatilit{ dell’inflazione e dell’output dovute ad una

migliore gestione e applicazione delle politiche monetarie. I sostenitori più

importanti di tale tesi, come già sottolineato, sono: Clarida, Galí e Gertler

(2000), Blanchard e Simon (2001) e Stock e Watson (2003);

- Modifiche nelle regolamentazioni e innovazione finanziaria riguardante il

mercato immobiliare. Questa tesi è presente in Campbell e Hecowitz (2005),

Fisher e Gervais (2007) e Justiniano e Primiceri (2008);

- Cambiamenti che hanno ridotto la volatilità della produzione in relazione

alla volatilità del venduto. Si vedano McConnell e Perez-Quiroz (2000) e

Ramey e Vine (2006);

- La “good luck”, altra tesi già introdotta. In questo caso gli studi citati sono

Stock e Watson (2003, 2005), Justiniano e Primiceri (2008) e Arias, Hansen

e Ohanian (2007).

Fonte: Jaimovich e Siu (2009).

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Per calcolare quale percentuale di riduzione della volatilità sia dovuta in prima

approssimazione ai cambiamenti demografici, gli autori eseguono un

ragionamento esemplificativo molto semplice: nel 1978, anno di massima volatilità

rilevata, la fascia d’et{ tra i 15 e 29 anni comprendeva il 39.7% della popolazione.

In tali anni i cosiddetti baby-boomers erano entrati nella forza lavoro. Nel 1999

però, la fascia d’et{ tra i 15 e 29 anni comprende il 27.9% in quanto i baby-

boomers sono ormai adulti. Utilizzando i coefficienti stimati in precedenza, gli

autori calcolano che si dovrebbe osservare una riduzione della volatilità di 0.479

mentre si ha una riduzione maggiore, pari a 1.424. Si arriva così a definire che il

cambiamento demografico spiega circa il 34% della riduzione della volatilità. Come

si può notare, queste sono solo considerazioni di massima senza un’adeguata

dimostrazione, rimandata dagli autori stessi a un altro loro lavoro, Jaimovich,

Pruitt e Siu (2008). In tale studio gli autori passano a un’analisi quantitativa del

rapporto tra demografia e cambiamento in volatilità, fornendo prove empiriche

per quanto è stato solamente introdotto nel primo lavoro.

In conclusione, si può affermare l’esistenza di una relazione tra la composizione in

età della forza lavoro e la volatilità del ciclo economico. Questo elemento è

sicuramente interessante per lo studio delle possibili relazioni tra politiche

monetarie e demografia. Una banca centrale, infatti, dovrebbe tenere debitamente

conto delle caratteristiche del proprio paese per massimizzare l’efficacia delle

operazioni svolte. Come visto in introduzione di capitolo, un paese con minore

volatilità di output è caratterizzato da un sistema finanziario ed economico più

stabile e maggiormente prevedibile, permettendo una pianificazione più attenta e

una gestione meno reattiva e più proattiva.

E’ bene specificare come la composizione della forza lavoro, per quanto

ovviamente non influenzabile tramite manovre di politica monetaria, è molto

prevedibile perché deriva da decisioni di natalità prese almeno 20 anni prima. Di

conseguenza, avere la possibilità di tenere sotto controllo tali caratteristiche è

senza dubbio un vantaggio, ricordandosi però che le variabili strutturali non sono

le uniche determinanti della variabilit{ dell’output. Al fine di rendere lo studio il

più possibile completo, saranno qui di seguito presentati ulteriori risultati empirici

rilevanti, a cui seguiranno alcune considerazioni di sintesi.

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1.3.3 Ulteriori elementi demografici: paesi, genere, etnia ed istruzione

Esaminando in modo più approfondito il tema dell’et{ della forza lavoro, si

possono notare alcune principali differenze tra paesi (Tabella 1.2). Assumendo

come caso base quello statunitense, in cui si ha una distribuzione a U della

volatilit{ delle ore lavorate per fascia d’et{, si possono fare considerazioni

rilevanti. In particolare, in Giappone risulta molto più significativa la quota

riguardante la fascia d’et{ sopra i 65 anni. In questo paese, infatti, vi sono molti più

lavoratori in tale fascia d’et{ rispetto agli Stati Uniti e hanno anche un maggior

impatto sulla volatilità totale. Opposta è la situazione per la maggior parte dei

restanti paesi del G7, in particolare per quelli Europei. L’Italia rappresenta il caso

limite, in cui la fascia d’et{ superiore ai 60 anni riduce la volatilit{ totale

presentando addirittura un valore negativo. Ciò significa che in periodi negativi per

il ciclo economico, in Italia tale fascia di popolazione tende a lavorare più ore. Ciò è

senza dubbio dovuto sia al contesto culturale che alle leggi sul lavoro. Di questi

fattori si dovrà tenere conto nel caso si voglia svolgere un’analisi approfondita di

un dato paese. Comprendere l’impatto che un aumento del numero di individui di

una data fascia d’et{ comporta sulla volatilit{ non è quindi scontato.

Tabella 1.2: volatilit{ dell’occupazione nei vari paesi del G7. I valori sono riportati come volatilità in relazione al gruppo compreso tra i 40 e 49 anni, che pertanto presenta valori unitari.

Volatilità dell'occupazione per età, paesi appartenenti al G7

15-19 20-24 25-29 30-39 40-49 50-59 60-64

US 4,783 2,678 1,791 1,456 1,000 1,067 0,897 Giappone 6,793 1,433 1,264 1,100 1,000 1,307 2,645 Canada 4,147 2,310 1,648 1,289 1,000 0,888 1,262 Francia 8,272 6,368 2,784 1,658 1,000 1,711 4,095 Germania 3,073 3,276 2,454 1,577 1,000 1,226 6,692 Italia 6,300 3,878 2,023 1,166 1,000 2,422 3,455 UK 5,268 3,346 2,109 1,667 1,000 1,549 2,426

Fonte: Jaimovich e Siu (2009).

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Il genere della forza lavoro per Jaimovich e Siu, invece, non ha nessun impatto sulla

volatilità del ciclo economico. Come si può notare in Figura 1.1, infatti, non vi sono

notabili differenze tra uomini e donne.

Diverso è il discorso riguardante l’istruzione. A maggiore istruzione corrisponde

generalmente una minore volatilità. Questo tipo di relazione è mostrato in Figura

1.2. Come si nota, a maggiore istruzione corrisponde minore volatilità, con

l’eccezione forse della fascia d’et{ 20-24 e più di 60.

Figura 1.2: relazione tra fasce d’et{ e volatilit{ di ore lavorate, suddivise per livello di

scolarizzazione.

Questo può essere dovuto al legame che vi è tra istruzione e tipologia di lavoro

presente in una nazione. Una popolazione caratterizzata da un alto grado di

scolarizzazione permetter{ all’economia di avere un numero di imprese skill-

intensive maggiore, notoriamente meno affette dalla variabilità dei cicli economici

rispetto alle loro controparti labour-intensive. Inoltre, un individuo dotato di

maggiore istruzione, e conseguentemente di una maggiore specializzazione,

presenta dei costi più alti di licenziamento. L'impresa che si dovesse trovare a

sostituire un lavoratore altamente qualificato si troverebbe in una situazione in cui

0,000

0,500

1,000

1,500

2,000

2,500

15+ 20-24 25-29 30-39 40-49 50-59 60+

High school o meno

Più di High school

Fonte: Jaimovich e Siu (2009).

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Demografia, volatilità e altri elementi strutturali _

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il mercato del lavoro presenta poche alternative. Anche per questo motivo, in

periodi di crisi le imprese tendono a licenziare prima quei lavoratori per i quali

esiste un mercato del lavoro consistente e facilmente raggiungibile.

Come si vedrà in seguito, nonostante l'istruzione garantisca una riduzione della

volatilità dell'occupazione, non è altrettanto vero che un aumento dell'istruzione

media di un paese porti a una riduzione del tasso medio di disoccupazione.

Altri rilevanti studi su questi aspetti sono quelli di Clark e Summers (1981),

introdotti in precedenza. Tali studi in particolare si concentrano sulla relazione tra

caratteristiche demografiche della popolazione e volatilit{ dell’occupazione e della

“partecipazione”, intesa come popolazione che cerca attivamente lavoro,

prendendo spunto da lavori precedenti come Feldstein (1973). Si studia inoltre

l’effetto di politiche espansive, le quali fanno leva sulla domanda aggregata e

sull’occupazione.

Una prima considerazione riguarda appunto la relazione che vi è tra occupazione e

partecipazione: spesso le banche centrali fanno riferimento alla sola occupazione,

dimenticandosi come alcune politiche che stimolano la domanda aggregata

abbiano forte impatto anche sulla partecipazione, riducendo così i benefici

immediatamente percepiti nel caso si presti attenzione solamente al dato relativo

la disoccupazione. Per questo motivo, secondo gli autori, bisogna distinguere gli

aumenti di disoccupazione legati all’aumento della partecipazione, da considerare

positivi, da quelli dovuti invece a una riduzione effettiva degli occupati. I primi

sono generalmente legati a una fase positiva del ciclo economico: la crescita porta,

oltre a un aumento dei posti lavoro effettivamente disponibili, a un rialzo delle

aspettative, generando così in un maggior numero di persone il desiderio di

cercare lavoro. Nel secondo caso invece ci si trova in una situazione speculare,

dove si ha un’effettiva riduzione dei posti lavoro alla quale si accompagna un

peggioramento delle aspettative future, che si traduce in minore partecipazione.

Non fare questo tipo di analisi può portare a considerazioni errate anche quando si

tratta di comprendere l’effetto di fattori come il sussidio di disoccupazione o il

salario minimo. Per descrivere la relazione che lega partecipazione, occupazione e

disoccupazione, utilizzano la seguente identità:

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(1.4)

Dove E rappresenta l’occupazione, N la popolazione totale e L la forza lavoro. Gli

indici i denotano lo specifico gruppo demografico preso in considerazione. Di

conseguenza, il primo termine dell’equazione è la frazione degli occupati sulla

popolazione, che si può scomporre come il prodotto della frazione degli occupati

sulla forza lavoro e della partecipazione, definita come forza lavoro su totale della

popolazione. I cambiamenti del primo termine quindi possono essere spiegati

tramite cambiamenti dei due termini del prodotto.

Esprimendo l’identit{ (1.4) in logaritmi e applicandovi una differenza di primo

grado, si ottiene:

(1.5)

Gli autori hanno svolto alcuni esercizi empirici in relazione all’identit{ (1.5); di

seguito ne sono riportate le conclusioni principali.

Tabella 1.3: alcuni risultati empirici riguardo il rapporto tra occupazione, disoccupazione e partecipazione.

Anno Cambiamento nella log

occupazione su popolazione Cambiamento nella log

occupazione su lavoratori Cambiamento nella log partecipazione

1972-73 1,48 0,69 0,78 1973-74 -0,02 0,78 -0,80 1974-75 -3,14 -0,04 -3,10 1975-76 1,43 0,53 0,85 1976-77 2,06 1,34 0,72

Fonte: Clark e Summers (1981).

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La loro analisi si concentra inoltre sulla variabilità di occupazione e partecipazione

in base ad alcuni gruppi demografici. Sono analizzate principalmente differenze di

genere, etnia e livello di scolarizzazione6.

Per quanto riguarda il genere è bene presentare il risultato ottenuto da Clark e

Summers in quanto differisce da quello ottenuto dagli altri due autori.

Sostanzialmente si riscontra che la volatilità di occupazione è più alta per le donne,

in particolare per le fasce di età più giovani. I risultati ottenuti possono essere

interpretati alla luce del più attento metodo utilizzato per calcolare l’occupazione.

Come già sottolineato, in Clark e Summers si misura non solo la volatilità

dell’occupazione ma anche la volatilit{ della partecipazione, calcolando poi la

disoccupazione in relazione ad essa.

Se invece si studiano i risultati ottenuti per quanto riguarda il livello di

scolarizzazione, si scopre che i valori ottenuti sono del tutto analoghi a quelli di

Jaimovich e Siu. Infine, sono presenti differenze nella volatilità anche per quanto

riguarda l’etnia, con individui di differente etnia caratterizzati da diversa

deviazione standard dell'occupazione.

Gli autori analizzano nel dettaglio anche l’effetto che manovre sulla domanda

aggregata hanno sull’occupazione. Si sostiene che molte ricerche atte a screditare

l’efficacia delle manovre di domanda aggregata sull’occupazione siano infondate,

perché misurano in modo scorretto la disoccupazione. Molti studiosi, come lo

stesso Feldstein, vedono i problemi di occupazione di taluni gruppi demografici,

come per esempio i giovani con poca istruzione, legati solamente a cause

strutturali. Si pensa così che non vi sia modo di influire su tali gruppi con manovre

di domanda aggregata, che risulterebbero del tutto inefficaci.

Clark e Summers invece, utilizzando i valori di occupazione e partecipazione,

ottengono risultati differenti: tali manovre aumentano in modo efficace

l’occupazione, mantenendo però costante la disoccupazione7. Tale aumento di

partecipazione è più consistente proprio nelle fasce più giovani, che da sole sono

causa dei due terzi della volatilità di occupazione. Di conseguenza, risulta difficile

6 Come si può notare, molti di questi temi sono stati trattati anche nel lavoro precedentemente esposto di Jaimovich e Siu, anche se in tale lavoro l’attenzione è concentrata su aspetti differenti. 7 In quanto aumenta proporzionalmente anche la partecipazione.

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stimare con precisione il ruolo delle politiche di domanda aggregata su determinati

gruppi demografici. Ci si trova nella situazione in cui manovre espansive agiscono

non solamente sull’occupazione ma anche sulla partecipazione, portando in

evidenza una parte di disoccupazione che si può definire “nascosta”.

Questo risultato è da considerarsi rilevante e deve essere tenuto in considerazione

nella misurazione degli effetti di manovre espansive per evitare di giungere a

conclusioni errate.

1.3.4 Demografia e tasso di disoccupazione: approfondimenti

Il tema della relazione tra età della forza lavoro e tasso di disoccupazione non è

stato studiato esclusivamente dai due precedenti autori. Shimer (1998) è fonte di

numerosi spunti di riflessione su questo argomento. Il principale problema

affrontato non riguarda la componente dinamica come nei precedenti studi, ovvero

la differente volatilit{ delle diverse fasce d’et{ della forza lavoro, bensì la

componente statica: come lo shift avvenuto negli Stati Uniti tra le varie fasce d’et{

abbia influenzato il tasso di disoccupazione. Ciò che si è riscontrato per via del

baby-boom è un iniziale aumento del tasso medio di disoccupazione, che l’autore

calcola essere di circa il 1.9%, per via dell’aumento della fascia lavorativa

compresa tra i 16 e i 24 anni, che come visto in precedenza presenta maggiori

turbolenze. Con il successivo invecchiamento dei baby-boomers, il tasso di

disoccupazione è tornato a scendere per un totale di circa 1.5%.

Il passo successivo è comprendere quale parte della variazione del tasso sia da

attribuire effettivamente alla variata demografia e quale parte invece dipenda da

altri fattori. Si fa notare che, benché vi sia stato uno shift nell’et{ della forza lavoro,

il tasso medio di disoccupazione interno alle singole fasce d’et{ considerate sia

invece aumentato negli anni. Per portare alcuni esempi, la disoccupazione media

per gli uomini di 42 anni negli anni duemila era del 3.7%, mentre nel 1973 tale

disoccupazione era del 2.0%. Analogamente, la disoccupazione media per un

ragazzo di 18 anni era negli anni duemila del 17.2%, mentre nel 1973 solamente

del 13.9%. E’ evidente quindi che determinare le cause della variazione del tasso di

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disoccupazione negli anni sia compito non banale e possa dipendere da numerose

cause che l’autore cerca di esplorare. La parte più interessante di questo lavoro

riguarda, infatti, l’attenta analisi di fattori demografici quali et{, genere, etnia ed

istruzione e del loro impatto sull’occupazione. In particolare, il tema approfondito

in modo rigoroso riguarda la relazione tra disoccupazione e istruzione, arrivando a

risultati di notevole interesse.

L’autore parte con lo stabilire una semplice relazione tra disoccupazione ed età

della forza lavoro, basata su una regressione lineare che spiega il tasso di

disoccupazione nel tempo con la frazione di giovani sul totale degli occupati. Si può

subito notare da come è costruita tale relazione che l’interesse primario dello

studio verte sulla fascia più giovane, quella compresa tra i 16 e i 24 anni. Ciò è

dovuto proprio all’obiettivo dell’autore, legato all’andamento del tasso di

disoccupazione e non alla volatilità. Se infatti anche le fasce più anziane della

popolazione comportano un’alta volatilit{, non è altrettanto vero che in tali fasce vi

sia un tasso di disoccupazione medio più alto.

I risultati ottenuti con questa prima analisi sono utili per comprendere in prima

approssimazione quale sia l’impatto delle variabili demografiche sul cambiamento

del tasso. L’autore in particolare stima che l’1.3% di riduzione della disoccupazione

dagli anni ’80 in poi sia dovuto all’invecchiamento dei baby-boomers. Una

regressione così semplice però non è robusta e non aiuta a comprendere

adeguatamente le variabili in gioco. Si passa così alla costruzione di modelli più

complessi, sui quali si possano eseguire test significativi a supporto delle varie

ipotesi possibili. In particolare, il primo modello costruito studia l’impatto della

variabile età ed è basato su un ARMA (2,2), così costituito:

(1.6)

Dove è il tasso di disoccupazione all’istante t per una data fascia d’et{ i,

mentre è il tasso di disoccupazione non condizionato della fascia i. Il valore

è invece un white noise con varianza che quindi permette di

modellizzare la possibile presenza di eteroschedasticità.

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I risultati ottenuti tramite l’utilizzo del modello presentato sono consistenti e validi

per tutto il periodo di analisi, compreso tra Ottobre 1957 e Novembre 1998

(Tabella 1.4). Come si nota immediatamente osservando tali valori, il tasso di

disoccupazione non condizionale per la fascia d’et{ tra i 16 e 19 anni è circa

quattro volte quello degli adulti (35+) mentre quello per la fascia tra i 20 e 24 anni

è circa tre volte.

A questo punto l’autore si chiede quanta parte di variazione del tasso negli anni sia

dovuta a una diversa composizione in età e quanta invece dalla variazione di altri

fattori, che lui chiama “genuini”. Per fare ciò scompone il tasso nel tempo in due

componenti. La prima è rappresentata da come descritto in precedenza, la

seconda misura il peso di tale fascia d’et{ nel tempo ed è indicata come . Si

ottiene:

(1.7)

Mantenendo invariata una delle due componenti e facendo variare la rimanente,

l’autore esegue diverse simulazioni, ottenendo che la composizione demografica

arrivi a spiegare circa il 70% della riduzione del tasso di disoccupazione dagli anni

Tabella 1.4: coefficienti modelli ARMA per le varie fasce d’et{. Tra parentesi, gli errori standard calcolati con lo stimatore di Newey-West.

Fonte: Shimer (1998).

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’80 a oggi. La demografia spiega anche l’aumento del tasso che vi è stato durante il

baby-boom ma in maniera meno rilevante. La restante parte invece potrebbe

essere legata a effetti “indiretti”, che l’autore stesso descrive meglio in un

successivo lavoro, Shimer (2001). Questi effetti sono legati al tradizionale modello

di crescita neoclassica, che prevede in caso di crescita della forza lavoro una

riduzione del rapporto tra capitale e lavoro, un rialzo dei tassi di interesse e una

riduzione dei salari. Introducendo in questo schema possibili frizioni del mercato

del lavoro, bassi salari potrebbero portare a un’alta disoccupazione nel caso in cui

la forza lavoro riduca i suoi sforzi per trovare un’occupazione. Questi effetti sono

però di difficile verifica e non è opportuno proseguire nell’analisi degli stessi.

In seguito a tale analisi, si procede all’esame di altre caratteristiche demografiche,

quali genere ed etnia. Entrambe queste variabili sembrano di poco interesse, anche

se per motivi differenti. In dettaglio, il genere non è significativo e non spiega la

variazione di tasso di disoccupazione. Se, infatti, le donne presentavano

storicamente un tasso più alto, questa differenza si è annullata dagli anni ’50 a oggi.

Per quanto riguarda l’etnia invece, si notano differenze significative che però

l’autore non esamina in dettaglio in quanto convinto che possibili differenze siano

legate non all’etnia di per sé ma alle differenze di istruzione e povert{ che vi sono

tra le stesse.

L’ultimo punto toccato dal lavoro di Shimer, forse il più interessante, riguarda

l’istruzione, componente solo marginalmente analizzata nei precedenti lavori

esposti.

Non si vuole in questa sede entrare nel dettaglio del modello probabilistico

presentato, ma si vogliono comunque riportarne considerazioni relative ed

elementi chiave. Tale modello prende spunto da lavori precedenti di Blanchard e

Diamond (1994) e di Pissarides (1985). Si basa sull’idea che la probabilit{ di

mantenere un determinato posto di lavoro dipenda dalle capacità del lavoratore e

dalla loro adeguatezza al posto di lavoro corrente. A questo si aggiungono fattori

legati a età e istruzione per dimostrare o supportare alcune ipotesi.

Tra queste ipotesi, si discute il perché secondo l’autore non si possa attribuire

all’istruzione una relazione immediata con il tasso di disoccupazione. Summers

(1986), infatti, sostiene che a maggiore istruzione dovrebbe corrispondere un

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minore tasso di disoccupazione. Questa tesi è però confutata dalle analisi

empiriche che portano Summers a sostenere l’inadeguatezza del fattore istruzione

nel spiegare variazioni di tasso. Per Shimer, questo è dovuto a due principali

elementi:

- Il livello di istruzione che rende minore la probabilità di essere disoccupati

non è quello assoluto ma quello relativo. Ciò significa che un incremento

dell’istruzione universitaria porterebbe a un aumento della disoccupazione

sia nei laureati che nei diplomati, lasciando invariato il tasso di

disoccupazione complessivo. Questo avviene in quanto in tal caso, il numero

di laureati e diplomati complessivo aumenterebbe, rendendo minore la loro

"esclusività" sul mondo del lavoro. Ciò che interessa un lavoratore quindi,

non è il suo grado di istruzione assoluto ma la sua qualifica in relazione alla

media della popolazione. In un contesto in cui nessuno è laureato, un

laureato avrà un tasso di disoccupazione molto inferiore rispetto agli altri.

Con l’aumentare dei laureati, il tasso di disoccupazione in questa categoria

tenderà ad aumentare. Per questo motivo, non è possibile dimostrare

empiricamente una relazione stabile tra livello di istruzione medio di un

paese e tasso di disoccupazione.

- Il fatto che un individuo con un livello di istruzione superiore abbia

mediamente un livello di abilità superiore non comporta che un incremento

del livello di scolarizzazione media di un paese incrementi il livello di abilità

medio dello stesso. In particolare, secondo l’autore per un individuo con più

abilità sarà più semplice raggiungere un livello più elevato di istruzione. Di

conseguenza, dato che nel proseguire con gli studi si rinuncia a una data

paga a fronte di una paga maggiore ricevuta in seguito, il tempo speso è

ricompensato solamente se si può ottenere un più alto livello di istruzione

con uno sforzo adeguato. Questo fatto porta ai maggiori gradi di istruzione

soltanto quella parte di popolazione dotata di maggiore abilit{. Per l’autore

quindi un incremento del livello medio di istruzione di un paese è

solitamente ottenibile solo con un abbassamento medio della qualità

dell'insegnamento. E’ un punto di vista poco ortodosso ma che presenta, per

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chi scrive, una certa veridicità. Volendo estremizzare tale concetto, si può

introdurre un lavoro di Spence (1973) secondo il quale l’utilit{ di una

maggiore istruzione è da attribuirsi solamente all’effetto segnalazione che

essa comporta. Come esposto in precedenza, solitamente a maggiore

istruzione corrisponde un maggiore livello di abilità. Si ottiene così che un

lavoratore più abile vorrà ottenere una più alta qualifica di studio per

segnalare a chi offre una posizione lavorativa la sua abilit{. Dato che l’abilit{

comporta un minore sforzo per ottenere istruzione, tale lavoratore otterrà

il risultato più semplicemente di chi non è dotato di sufficiente abilità. Si

può così sostenere che il grado di istruzione permetta a un individuo di

mostrare in modo esplicito (titolo di studio) una sua qualità implicita e

quindi non misurabile (set di abilità).

Ne consegue che ciò che influenza direttamente il tasso di disoccupazione non è il

livello di istruzione di un paese ma il grado di abilità che è presente nello stesso.

Purtroppo tale elemento non è osservabile, mentre l’istruzione ne è soltanto una

misura relativa.

Questa parte del lavoro di Shimer presenta molti spunti interessanti e non è in

diretto contrasto con gli studi presentati in precedenza. Risulta, infatti, che un

maggior grado di istruzione porti a un’inferiore volatilit{ del lavoro senza ridurre

però il tasso di disoccupazione medio. Questo risultato è sensato: a maggiore

istruzione corrisponde maggiore specializzazione del proprio set di abilità; questo

comporta più alti costi di licenziamento e ricerca di un sostituto riducendo così la

volatilit{ di tale posizione lavorativa. D’altra parte però, per i motivi sovraesposti,

non si ha una riduzione del tasso medio di disoccupazione. Queste considerazioni

sono importanti in quanto l’istruzione media di un paese è una variabile facilmente

osservabile, sufficientemente prevedibile e in taluni casi anche influenzabile con

determinate politiche.

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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1.4 Conclusioni

I risultati mostrati nel corso di questo capitolo sono chiari: esiste una relazione tra

molteplici variabili demografiche, di cui le più importanti sono composizione in età

della popolazione e grado di istruzione, e volatilit{ di output dell’economia. Questo

implica che, nello studio che si propone di svolgere, finalizzato ad una più chiara

comprensione dei fenomeni demografici e del loro impatto sull'economia, la

volatilità di output è senza dubbio un elemento di interesse, in quanto

direttamente correlato con l'andamento della composizione in età della

popolazione e dell'istruzione. Fra i tanti contributi introdotti, si ritengono di

primario interesse: Jaimovich e Siu (2009), per la capacità di sintetizzare tutte le

scoperte fatte fino ad ora in un unico modello che permetta di verificare

un'oggettiva importanza della demografia nel campo delle variazioni strutturali, le

quali sono rilevanti per comprendere l'andamento dell'output economico; Shimer

(1998), per la sua intuizione sull'istruzione, che permette di comprenderne gli

effetti su volatilità e tasso naturale di disoccupazione. In particolare, si esclude un

impatto diretto su quest'ultimo da parte del grado di istruzione medio della

popolazione.

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2. Demografia e Teoria del Ciclo Vitale

2.1 Obiettivi e struttura

In questo capitolo si vuole presentare la Teoria economica del Ciclo Vitale, che

costituisce l’approccio di analisi più tradizionale riguardo alla relazione tra

demografia ed economia. In particolare, si discute l’andamento delle funzioni

individuali di consumo, risparmio/investimento e ricchezza in base alla posizione

nel ciclo vitale dell’individuo e si analizzano i fattori che consentono di dedurre le

grandezze economiche aggregate a partire da quelle individuali, con l’obiettivo

finale di dimostrare la (eventuale) rilevanza delle variabili demografiche in

relazione alle grandezze economiche di un paese.

Il capitolo prende le mosse dalla presentazione del modello “base” del Ciclo Vitale,

che consente di dedurre le implicazioni fondamentali della teoria sia a livello

individuale che a livello aggregato. In seguito si discutono le principali estensioni

del modello, che mettono in luce alcuni aspetti rilevanti non considerati dalla

prima versione. Ogni estensione è presentata nei suoi contributi fondamentali,

seguita da un commento finale che ne evidenzia la rilevanza nell’ambito dello

studio che si va sviluppando.

2.2 Introduzione

Lo studio del risparmio individuale ed aggregato ha ricoperto un ruolo centrale in

ambito economico fin dallo sviluppo della Teoria Economica Tradizionale8, che

pensava al risparmio come premessa necessaria per poter investire. Il risparmio

era perciò visto come un comportamento virtuoso, tanto dal punto di vista del

singolo quanto dal punto di vista della collettività. Questa visione semplicistica del

risparmio rimase tale fino a che le scienze economiche non furono di fronte al loro

primo grande ostacolo: la Grande Depressione. Questo evento, che colpì gli Stati

8 i.e. Neoclassica

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Demografia e Teoria del Ciclo Vitale _

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Uniti tra la fine degli anni Venti e i primi anni del decennio successivo – portando

con sé un calo del reddito nazionale degli Stati Uniti del 38%, dei prezzi del 50% e

una aumento della disoccupazione che toccò un picco del 25% – pose infatti

fortemente in dubbio la validità dei principi base della Teoria Economica

Tradizionale. Come conseguenza, gli economisti furono spinti a riconsiderare

profondamente le basi delle teorie fino ad allora considerate intoccabili,

impattando così anche sulla funzione che si era attribuita al risparmio. In questo

contesto si inserisce la Teoria Generale di Keynes (1936), che prende coscienza

della possibilit{ di funzionamento dell’economia a livelli inferiori a quelli di piena

capacità – come testimoniato dalla Grande Depressione – e sostiene che il settore

pubblico debba intervenire sull’economia per stimolare la domanda e ripristinare

piena produzione e piena occupazione. In questa prospettiva, non si poteva più

guardare al risparmio come semplice risorsa per garantire gli investimenti: esso

andava a costituire un importante fattore che si legava con la teoria del consumo,

in quanto riduceva tale componente della domanda senza assicurare un

corrispondente aumento degli investimenti e, conseguentemente, poteva

comportare fluttuazioni cicliche nel breve periodo e stagnazione nel lungo. In

particolare, gli interpreti di Keynes espressero la funzione di consumo come una

funzione lineare del reddito aumentata di un termine noto positivo, ipotizzando

che il reddito fosse l’unica variabile rilevante nel determinare le decisioni di

consumo. La funzione di consumo Keynesiana così espressa ha come naturale

implicazione che la frazione di reddito risparmiato cresca al crescere del reddito

stesso o, in altre parole, che la propensione marginale al consumo decresca al

crescere del reddito. Inizialmente, studi empirici condotti su dati cross-settoriali

sembrarono dare conferma alla teoria Keynesiana: nuclei famigliari ricchi e poveri,

osservati in uno stesso istante temporale, presentavano una percentuale di reddito

risparmiato diversa, ovvero crescente al crescere del reddito. Nella seconda metà

degli anni quaranta invece, studi su consumo e risparmio basati sull’utilizzo di

serie storiche portarono a mettere in discussione l’ipotesi Keynesiana. Il primo

risale già agli anni Quaranta, periodo in cui Kuznets (1946) mostrò come in media

la frazione di reddito destinata al consumo negli Stati Uniti non fosse calata a

partire dal 1870, nonostante il reddito reale fosse cresciuto costantemente; la

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relazione inversa restava valida solo nel breve periodo. Kuznets (1952) attribuì il

fenomeno da lui osservato ad un mero aumento nella domanda di beni di consumo.

Nonostante le conclusioni semplicistiche, a Kuznets va il merito di aver aperto il

dibattito sul tema del comportamento del consumatore, stimolando numerosi

studi aventi l’obiettivo di spiegarne coerentemente la propensione al

consumo/risparmio, scavando nelle motivazioni che spingerebbero i consumatori

a risparmiare una parte più o meno consistente del proprio reddito. Le ipotesi più

rilevanti che si svilupparono circa la funzione di consumo individuale sono:

- L’Ipotesi del Reddito Relativo (Relative Income Hypothesis): introdotta da

Duesenberry (1949), propone l’idea che il consumo non dipenda dal reddito

assoluto bensì dalla posizione relativa del reddito individuale all’interno

della funzione di distribuzione del reddito della comunità di riferimento;

- L’Ipotesi del Ciclo Vitale: secondo il Life Cycle Hypothesis Model (LCHM),

proposto da Modigliani e Brumberg (1954), i consumatori risparmiano con

l’obiettivo di rendere omogeneo il proprio profilo di consumo lungo un

orizzonte temporale di lungo periodo, pari alla lunghezza della propria vita.

Di conseguenza, il consumo di ogni anno non dipenderà dal reddito

corrente bensì dalle aspettative sull’evoluzione del reddito nel lungo

periodo, descrivendo un profilo sostanzialmente stabile nel tempo;

parallelamente, la ricchezza descriver{ un profilo a forma di “gobba”, in cui

all’accumulo di risorse durante l’et{ lavorativa segue il consumo delle

stesse durante il periodo di pensionamento;

- L’Ipotesi del Reddito Permanente: come il LCHM, anche la teoria di

Friedman (1957) ipotizza che i consumatori risparmino con l’obiettivo di

rendere omogeneo il proprio consumo nel lungo periodo. A differenza del

LCHM però, la teoria del Reddito Permanente considera un periodo di

pianificazione infinito, cosicché il risparmio non dipende dalla distribuzione

delle risorse lungo il ciclo di vita ma dalla relazione tra “reddito corrente” e

“reddito permanente”9;

9 Reddito medio atteso dall’individuo nel corso della propria vita.

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Demografia e Teoria del Ciclo Vitale _

44

- Buffer Stock Model: il modello sviluppato da Carroll (1997) paragona la

liquidit{ ad una sorta di “buffer” (Carroll, 1997), utilizzato dai consumatori

per assorbire variazioni impreviste del reddito. Di conseguenza, la volatilità

del reddito sarà ricalcata dalla volatilità del buffer di liquidità, mentre il

consumo seguirà un profilo più stabile nel tempo. Il consumo segue da

vicino il reddito solo se aggregato per l’intera economia o per gruppi;

- Modello del Risparmio Precauzionale: Leland (1968) conduce un’analisi

formale sull’effetto dell’incertezza sui risparmi. Secondo la sua teoria, i

consumatori risparmiano per tutelarsi dall’incertezza relativa al reddito

futuro, che non è noto in modo deterministico: i risparmi saranno perciò

una funzione crescente dell’incertezza sul livello di reddito. Si sottolinea

come l’analisi di Leland conduca a risultati parziali, in quanto il modello da

lui proposto, che considera due periodi temporali soltanto, risulta

inadeguato a modellizzare le decisioni di risparmio, che sono invece

multiperiodali e di lungo periodo.

Tra le ipotesi sopraccitate, quelle che ebbero maggiore eco all’interno della

comunità scientifica furono il Ciclo Vitale e il Reddito Permanente. Esse hanno in

comune l’idea che i consumatori intraprendano le decisioni di consumo con

l’obiettivo di massimizzare la propria utilit{ lungo la propria vita (l’ipotesi del

Reddito Permanente però approssima la durata della vita all’infinito. Vedi Allegato

C). La funzione di consumo individuale, quindi, non dipenderà dal reddito corrente,

come postulato dalla teoria Keynesiana, bensì dal reddito medio atteso. Il

principale punto di differenza tra le due teorie è invece relativo alle implicazioni di

carattere aggregato. Il LCHM ha infatti la peculiarità di risultare predittivo anche a

livello aggregato10, consentendo di derivare una relazione tra le caratteristiche

demografiche di un Paese e alcune delle variabili macroeconomiche più rilevanti,

quali il Consumo, il Risparmio e gli Investimenti. Inoltre, tramite estensioni del

modello e relazioni indirette, il LCHM permette di stabilire un contatto anche con

altre variabili, quali la Spesa Pubblica e i Trasferimenti.

10 Tant’è che Modigliani stesso definì il suo modello come una “teoria sulla ricchezza individuale ed

aggregata” (Modigliani, 1986).

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

45

Per questi motivi, nei paragrafi successivi andremo ad approfondire quello che

riteniamo essere la più interessante e completa Teoria del Risparmio nell’ambito

della nostra analisi: l’Ipotesi del Ciclo Vitale.

2.3 Le origini dell’Ipotesi del Ciclo di Vita

Tra il 1952 e il 1954 Modigliani, in collaborazione con Brumberg, scrisse due

articoli, “Analisi dell’Utilit{ e della Funzione di Consumo” (1954) e “Analisi

dell’Utilit{ e della Funzione di Consumo Aggregata: un Tentativo di Integrazione”

(pubblicato nel 1979), che costituiscono le basi dell’Ipotesi del Ciclo di Vita. I due

saggi sono caratterizzati da un contenuto estremamente innovativo: per la prima

volta si tentava di derivare la funzione di consumo aggregata a partire da quella

individuale. Nello sviluppare il LCHM, Modigliani fu influenzato soprattutto da

Irving Fisher e Umberto Ricci, sostenitori del principio della massimizzazione

razionale dell’utilit{ come fattore-guida delle scelte individuali dei consumatori.

Secondo Ricci (1926), ciascun individuo opera un confronto razionale tra il reddito

presente e quello che si attende nel futuro; se il primo risulta superiore al secondo

avrà convenienza a risparmiare, trasferendo quote del reddito corrente nel futuro.

Anche nell’opera di Fisher (1930) si ipotizza che gli individui prendano le decisioni

di consumo in modo razionale, con l’obiettivo di massimizzare la propria utilit{ nel

lungo periodo. L'opera di Fisher è particolarmente ricercata e vuole non solo

gettare le basi per la definizione di come si può misurare il consumo, ma anche

comprendere quale siano i profondi bisogni che portano a ricercare la felicità

attraverso il consumo stesso. Si interpreta così il consumo come una misura

indiretta della volontà dell'uomo di raggiungere la felicità e da qui l'idea di

funzione di utilità. I consumatori massimizzano la propria utilità tenendo in

considerazione non solo la distribuzione dei flussi di reddito nel tempo – come in

Ricci (1926) – ma anche il tasso di interesse11. Si introduce quindi la tesi che si

possa misurare il valore di ogni flusso in un generico istante temporale

11 Secondo Fisher, il tasso di interesse non è determinato dall’incontro tra risparmi ed investimenti. Esso è invece quel tasso di sconto che relaziona il consumo presente e il valore futuro di flussi di denaro.

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Demografia e Teoria del Ciclo Vitale _

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attualizzandolo ad un tasso di interesse che permette di "scontare" il valore del

consumo ad oggi rispetto a quello futuro e che gli individui tendano a livellare il

proprio valore di consumo nel tempo prestando (investendo) o prendendo a

prestito denaro. In quest’ottica, si distingue tra diverse forme di ricchezza: la

ricchezza stock12, che può essere utilizzata per posticipare il consumo di entrate

correnti nel futuro, e i flussi di denaro. Come vedremo in seguito, questa

distinzione è alla base della teoria del LCHM.

Oltre alle influenze esterne di Fisher e Ricci, è importante notare come Modigliani

abbia tratto l’ispirazione per il LCHM anche dal progetto “Pianificazione e

Controllo delle Operations nell’Industria”, a cui prese parte insieme a Holt, Muth e

Simon all’inizio degli anni cinquanta, durante il quale si occupò di studiare il

processo decisionale di definizione del livello di scorte in condizioni di

incertezza13. Risulta naturale condurre un parallelo tra il ruolo delle scorte

nell’industria e quello del risparmio a livello individuale: le scorte isolano la

produzione dalle fluttuazioni dettate dalla stagionalità nello stesso modo in cui il

risparmio permette di mantenere un profilo di consumo costante a fronte di

variazioni del reddito.

Le osservazioni sopra esposte furono integrate e rielaborate da Modigliani, fino a

dar vita a quella che oggi è universalmente nota come l’Ipotesi del Ciclo di Vita. Nel

prossimo capitolo si entra nel merito del LCHM nella versione del 1954, nota come

modello “base” del Ciclo di Vita.

2.4 Il Modello “base” del Ciclo di Vita

La prima versione del LCHM, definita “base” o “standard” (Modigliani, 1986), ha

subito negli anni numerose rivisitazioni, allo scopo di rendere il modello il più

generale possibile e migliorarne la predittività rispetto ai dati empirici che

venivano progressivamente raccolti. La versione “base” è infatti caratterizzata

dalla presenza di numerose ipotesi semplificative che possono essere facilmente

rilassate senza modificare le conclusioni fondamentali del LCHM. 12 i.e. accumulo di capitale 13 Per un approfondimentosul tema si rimanda a Holt et al. (1955) e Holt et al. (1956).

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Si procede ora alla presentazione della versione base del modello, che, grazie alla

sua caratteristica di “semplificare il problema riducendolo alla sua essenza”

(Modigliani, 1954), consente di esporre con chiarezza il framework analitico

generale del LCHM. La principale innovazione del modello di Modigliani e

Brumberg risiede nell’applicazione del principio dell’utilit{ marginale, tratto dalla

teoria microeconomica del consumatore, alla teoria macroeconomica del

risparmio. L’utilit{ dell’individuo dipende dal consumo in ogni anno di vita – a

partire da quello corrente – e dagli assets che lascia in eredità alla sua morte.

Assumendo che il prezzo dei beni di consumo resti costante lungo l’intervallo di

pianificazione, la funzione di utilità può essere espressa nella forma

),,...,( 11 LLtt acccUU (2.2)

Dove t denota il periodo corrente, c rappresenta la spesa in consumo nel periodo

, L è la durata della vita dell’individuo e 1La sono gli asset lasciati in eredità.

Si sottolinea come L non coincida con la vita totale reale dell’individuo, ma con la

sua vita “economica”, in quanto il primo anno incluso in L coincide con il primo

anno in cui l’individuo entra nel mercato del lavoro. Si assume quindi che il

consumo che precede l’et{ lavorativa venga considerato all’interno del consumo

dei genitori. Questa semplificazione sarà poi rilasciata estendendo il modello a

mutamenti di dimensione del nucleo famigliare, come si vedrà in seguito.

Modigliani e Brumberg postulano che l’utilit{ dell’individuo aumenti quanto più il

consumo annuale si mantiene costante nel corso della vita. La motivazione

principale al risparmio risulta essere quella di accumulare risorse per poter

mantenere inalterato lo standard di vita anche in periodi in cui il reddito è

inferiore al consumo, come il pensionamento. Dalla (2.2) risulta come un’ulteriore

motivazione al risparmio possa essere il desiderio di lasciare un’eredit{ ai propri

discendenti. Altre motivazioni al risparmio individuate da Modigliani e Brumberg

sono la spinta precauzionale14 e l’esigenza di fornire garanzie a fronte della

richiesta di un prestito. Le ultime due motivazioni, però, non appaiono nella

14 Spinta verso l’accumulo di ricchezza con l’obiettivo di far fronte a possibili emergenze.

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funzione di utilità (2.2), in quanto il modello non incorpora in modo rigoroso il

fenomeno dell’incertezza.

Nel definire il consumo annuale e le risorse 1La che intende lasciare in eredità,

l’individuo è vincolato dal valore attualizzato del reddito15 che si attende di

percepire nei restanti anni della propria vita.

Assumendo che il tasso di interesse r resti costante lungo il periodo di

pianificazione, il vincolo di budget può essere espresso nella forma:

N

tttL

LL

t r

ya

r

a

r

c

111

1

11 )1()1()1(

(2.3)

Dove denota l’ammontare degli asset detenuti dal consumatore durante il t-

esimo anno di vita e, in ipotesi di efficienza perfetta dei mercati, coincide con il

valore attualizzato del reddito da interessi. e y rappresentano i valori attesi di

consumo e reddito da lavoro per l’anno -esimo, con t . Infine, N simboleggia

l’intervallo di tempo durante il quale l’individuo percepisce un reddito da lavoro,

che tipicamente sarà inferiore rispetto a L16.

Se il reddito corrente, composto dal reddito da lavoro ty e dagli interessi sugli

asset tra , non è pari al consumo corrente tc , allora l’individuo sta

alternativamente risparmiando o spendendo più di quanto guadagni.

Parallelamente, se lo squilibrio si verifica per un generico anno allora l’individuo

sta pianificando di accrescere o diminuire la propria ricchezza all’et{ . Come

sottolineato da Branson (1972), il vincolo di budget così espresso trasmette l’idea

che il consumatore possa alternativamente prendere denaro a prestito o

prestarlo17, di modo da separare l’andamento temporale del reddito da quello del

consumo, a patto che il valore attuale di consumo e asset da lasciare in eredità non

superi quello delle risorse a disposizione.

15 Il reddito totale comprende il reddito da lavoro, calcolato al netto delle tasse, e il reddito dato

dagli interessi sugli assets. 16 , con M durata del periodo di pensionamento. 17i.e. investire

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Modigliani e Brumberg introducono poi una serie di assunzioni semplificative che,

come accennato in precedenza, rispondono all’obiettivo di restringere il campo di

analisi e derivare le sole implicazioni essenziali del modello. Nello specifico:

- Assunzione I: l’individuo considerato non riceve né lascia eredit{:

.

Di conseguenza, il consumatore può accumulare ricchezza solo attraverso il

risparmio individuale. Questa assunzione porta a semplificare sia la

funzione di utilità (2.2) che il vincolo di budget (2.3); inoltre, elimina dal

modello la motivazione al risparmio relativa all’eredit{;

- Assunzione II: la funzione di utilità è tale per cui la frazione delle risorse

totali che l’individuo pianifica di destinare al consumo ogni anno non si

modifica nel tempo;

- Assunzione III: il tasso di intesse r è nullo;

- Assunzione IV: il consumatore sceglie di consumare una frazione costante

delle proprie risorse totali durante la propria vita.

Incorporando nella funzione di utilità (2.2) le assunzioni di cui sopra, si arriva alla

definizione della funzione di consumo individuale corrente “standard”:

11

1)(1),,,(

t

t

e

t

t

t

t

t

e

ttt aL

yL

tNy

Ltayycc (2.4)

e della funzione di risparmio individuale corrente “standard”:

(2.5)

Dove rappresenta il reddito da lavoro medio atteso nel periodo corrente per il

restante periodo di vita lavorativa – il reddito permanente – mentre tLLt 1

denota gli anni di vita rimanenti al periodo corrente t18.

18 Per i dettagli della relazione tra la (2) e la (4) si rimanda a Modigliani e Brumberg (1954).

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Dalla funzione di consumo individuale (2.4) si ricava la funzione di consumo

aggregato, elemento imprescindibile del modello. L’aggregazione è condotta su due

stadi, il primo per fascia di età e il secondo sul totale della popolazione

considerata19. Risulta:

(2.6)

, , e rappresentano gli aggregati per i valori individuali , ,

e ,

mentre I coefficienti sono il risultato della media pesata dei coefficienti medi

relativi alle diverse fasce di età, dove i pesi sono dati dal numero di persone che

compongono ogni fascia. Introducendo poi l’ipotesi che il reddito da lavoro atteso

sia proporzionale al reddito da lavoro corrente, e considerando il caso in cui il

coefficiente di proporzionalità sia circa unitario, si ottiene:

(2.7)

Dove

. La (2.7) è considerata di fondamentale rilevanza

all’interno del modello, tanto che è stata oggetto di numerosi test empirici. Nel

paragrafo seguente si espongono le prime verifiche empiriche a riguardo.

2.5 Il modello base: una prima verifica empirica

Il modello fin qui presentato vuole essere un framework teorico di

rappresentazione del ciclo di vita degli individui che permetta una migliore

comprensione del sistema economico. Questo fine non può essere ovviamente

raggiunto se il modello stesso non è coerente con la realtà che vuole rappresentare.

Per questo motivo è di grande rilevanza l'utilizzo di vari test empirici atti a

verificare le ipotesi di base e il comportamento della realtà in relazione al

framework considerato. Il primo e più importante lavoro in questo senso è stato

19 Si veda Modigliani e Ando (1963).

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svolto dall'autore stesso in Modigliani e Ando (1963).Gli autori, nello svolgere la

verifica, si devono confrontare con una serie di problematiche teoriche legate alle

tecniche econometriche impiegate che furono ampiamente discusse proprio in tale

periodo storico. Tra queste, le più comuni che sarebbero in grado di rendere

inconsistenti i risultati sono correlazione spuria, multicollinearità,

eteroschedasticità e la presenza di relazioni simultanee tra variabili. Di

conseguenza, un classico approccio che utilizzi il metodo dei minimi quadrati per

la regressione lineare sarebbe risultato inopportuno. Nonostante ciò, la difficoltà

nel testare un modello così complesso è dovuta alla possibile presenza simultanea

di più di uno dei problemi sopra citati. Questo fatto rende complicata la trattazione,

dal momento che esistono metodi in grado di risolvere soltanto un problema alla

volta, spesso a scapito di un peggioramento degli errori dovuti agli altri elementi di

disturbo. L'approccio scelto è stato quello di testare le varie ipotesi del modello

utilizzando più tecniche, ognuna delle quali in grado di correggere un solo

problema presente nelle variabili. Sebbene gli autori si rendano conto che questo

tipo di approccio non è formalmente esente da difetti, credono sia la migliore

scelta possibile al fine di ottenere risultati credibili senza rendere la trattazione

econometrica eccessivamente pesante. Il risultato dei vari test effettuati è

presentato in Tabella 2.1, mentre le tecniche utilizzate e le conclusioni che vengono

tratte sono presentate in seguito.

Tabella 2.1: Risultati delle verifiche empiriche relative alla funzione di consumo aggregato

Y XY A XA

(α1) (α1x) (α3) (α3x)

(1) A 8.1 (1.0) .75 (.05) - .042 (.009) - .75 88.289 2.233 .998 1.26

(3) A - .56 (.09) - .081 (.015) - .56 88.289 4.414 .997 .33

(4) A - .87 (.08) - .046 (.012) -.018 (.003) .87 88.289 2.826 .998 1.13

(6) B - .52 (.11) - .072 (.018) - .52 8.292 2.208 .929 1.85

(7) B - .60 (.16) -.11 (.13) .074 (.018) - .60 8.292 2.177 .931 1.92

(8) B - .51 (.12) - .089 (.031) -.017 (.024) .51 8.292 2.184 .930 1.91

(11) C - .44 (.05) - .105 (.008) - .44 .092 .030 .899 .34

(12) C - .69 (.07) -.07 (.02) .071 (.009) - .69 .092 .021 .948 .93

(13) C - .69 (.06) - .071 (.009) -.012 (.003) .69 .092 .020 .953 .95

RigaMetodo di

regressioneR2

Test

Durbin-

WatsonCostante

Coefficienti ed errori standard di stima

α1 + α2

Errore standard

della variabile

dipendente

Errore

standard

della stima

Fonte: riadattamento di Modigliani e Ando (1963).

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Per svolgere questi test, i dati utilizzati sono serie storiche degli Stati Uniti nel

periodo che va dal 1929 al 1959, escludendo però gli anni della Seconda Guerra

Mondiale in quanto non considerati rappresentativi. Come sempre, le variabili

sono C per i consumi, Y per il reddito al netto delle tasse e A la ricchezza netta, tutte

misurate in miliardi di dollari correnti.

La prima riga indica i risultati ottenuti nel testare la (2.7) tramite una semplice

regressione lineare ottenuta con il metodo dei minimi quadrati ordinari, senza

nessuna modifica o alterazione delle variabili utilizzate. Nonostante l'R2 possa far

apparire le variabili come altamente significative, si nota immediatamente che i

valori ottenuti non sono coerenti con quelli che vengono previsti dalla teoria. Si ha

infatti un coefficiente di Y, stima di , più alto di quello teorico e un A molto

più basso. Osservando di conseguenza il valore della Durbin-Watson, inferiore a 2,

si può dedurre la presenza di una forte correlazione tra i residui.

Il primo test non ha infatti il fine di ottenere risultati concreti, ma mira ad

evidenziare la necessità di introdurre tecniche più sofisticate di verifica. Inoltre, il

valore ottenuto per la costante del modello, sebbene rilevante statisticamente, è

considerato non sufficientemente lontano da 0 da poter indicare un errore teorico

nella (2.7). I due autori decidono così di forzare a 0 il valore delle costanti nei

modelli successivi al fine di rendere il modello di test più simile a quello teorico. Si

noti come questa decisione potrebbe non essere adeguata, dal momento che

forzare a 0 la costante può andare ad introdurre un bias nella stima di tutti gli altri

coefficienti. Si preferisce solitamente mantenere la costante nel modello

includendo considerazioni addizionali sul valore che la stessa assume.

Le righe 3 e 4 si pongono in quest'ottica, andando a ripetere i test in assenza di

costante. I risultati ottenuti sono più vicini a quelli sperati, ma la presenza ancora

forte di correlazione nei residui non permette conclusione alcuna. Gli autori

passano così all'utilizzo di variabili in differenza prima, riuscendo a ridurre

l'impatto di correlazione e multicollinearità contemporaneamente. I risultati

ottenuti con questa variazione sono presentati nelle righe dalla 6 alla 8. Si possono

fare due considerazioni di interesse: una prima riguarda la similitudine dei

risultati ottenuti con quelli precedenti, che aumenta la confidenza che le stime

siano corrette e robuste; una seconda riguarda il test di Durbin-Watson, che

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migliora considerevolmente permettendo di concludere che il bias introdotto dalla

correlazione è ora molto ridotto. I risultati ottenuti fin qui sono sicuramente

confortanti, ma fanno uso ancora di tecniche di stima basate sui quadrati ordinari.

Questa tecnica porta a risultati con bias in quanto una o più variabili dipendenti

risultano correlate alla variabile dipendente tramite altre relazioni simultanee. Gli

autori decidono così di fare un passo avanti introducendo un nuovo metodo. Nello

specifico, il miglior approccio teorico possibile sarebbe quello che si otterrebbe

costruendo un modello completo dell'economia degli Stati Uniti, stimando poi i

vari coefficienti con una tecnica di stima simultanea delle varie equazioni così

ottenute. Questo approccio è estremamente complesso e non viene seguito,

preferendo una formulazione che si basi sulla stessa idea di fondo ma limiti la

definizione dell'economia ad un modello più banale. La trattazione matematica non

è di interesse per lo studio qui presentato e si vuole dare soltanto un'idea della

stessa: il modello sarà un'identità che metta in relazione consumi, risparmi e

redditi notando che i risparmi sono pari agli investimenti e assumendo questi

ultimi come autonomi. Si passa così alla stima dei parametri della funzione di

consumo dalla regressione del consumo stesso con i risparmi.

Ciò che si ottiene però è un insieme di risultati altamente lontani da quelli sperati,

con valori dei coefficienti spesso privi di significato. Questo è dovuto al

peggioramento della multicollinearità introdotto dall'uso di questo ultimo modello.

Gli autori passano così all'introduzione di varie correzioni al test eseguito,

ottenendo valori non sempre soddisfacenti.

Le conclusioni che vengono tratte complessivamente da questo studio sono

ottimistiche, dal momento che è presente una certa evidenza a favore del modello

teorico. Sfortunatamente, i problemi in grado di rendere complicata una stima

precisa ed esente di errori non vengono risolti da Modigliani e Ando e sono lasciati

in sospeso.

Si passa ora ad analizzare le principali implicazioni che il LCHM presenta

relativamente alla Teoria del Risparmio.

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2.6 Le implicazioni del Modello “base” della LCH

Le implicazioni del modello base possono essere classificate a seconda che facciano

riferimento al livello individuale o al livello aggregato. A livello individuale sono

relative principalmente alle motivazioni che spingono i consumatori al risparmio,

mentre a livello aggregato riguardano soprattutto le grandezze macroeconomiche

di Consumo e Risparmio. Ad entrambi i livelli risulta utile, ai fini dell’analisi,

distinguere tra il caso di economia in stato stazionario – caratterizzato da crescita

di produttività e crescita di popolazione nulle – e quello di economia in crescita

costante. Nei paragrafi seguenti si analizzano le principali implicazioni del modello,

classificate secondo le considerazioni appena esposte.

2.6.1 Livello individuale

Nel caso di economia in stato stazionario è possibile introdurre l’ipotesi che gli

individui si aspettino di mantenere un reddito da lavoro costante e che le

aspettative siano verificate per ogni anno t. Come conseguenza, il profilo del

reddito da lavoro risulta noto a priori: costante durante tutto il periodo di vita

lavorativa, zero durante il periodo di pensionamento. I primi N anni di vita sono

quindi caratterizzati da risparmio positivo, con l’obiettivo di accumulare risorse da

utilizzare durante il pensionamento. Gli M anni di pensionamento sono invece

caratterizzati da risparmio negativo; l’individuo infatti utilizza le risorse

accumulate per mantenere costante il proprio profilo di consumo, esaurendole

esattamente in corrispondenza della fine della propria vita. La ricchezza

accumulata segue perciò un profilo “a gobba” (Modigliani, 1986), sintetizzato in

Figura 2.1. In tale figura, si mostra l’andamento di reddito, consumo, risparmio e

ricchezza in funzione dell’et{. L’area in azzurro rappresenta i risparmi positivi

accumulati durante l’et{ adulta; quella in blu i risparmi negativi corrispondenti al

pensionamento.

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Figura 2.1: reddito, consumo e risparmi in funzione dell’et{.

L’ipotesi di reddito da lavoro costante, unita all’Assunzione IV, porta a definire il

consumo come una percentuale fissa del reddito da lavoro:

(2.8)

Lo stesso vale per il risparmio, che però presenta uno scalino in corrispondenza

del passaggio all’et{ pensionistica:

(2.9)

Di conseguenza risulta che, se si considera un cluster di nuclei famigliari in stato

stazionario, la frazione di reddito risparmiata sarà sostanzialmente la stessa per

ogni livello di reddito, contrariamente da quanto postulato dalla teoria Keynesiana.

Fonte: riadattamento di Modigliani (1986).

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L’analisi di nuclei famigliari in stato non stazionario consente di arrivare a

deduzioni di validità più generale. Modigliani e Brumberg partono dalla riscrittura

della (2.5) nella forma:

(2.10)

Dove la “componente non permanente del reddito”, , rappresenta lo scarto

tra reddito corrente e reddito permanente, mentre lo “sbilanciamento degli assets”,

, rappresenta la differenza tra il livello iniziale degli assets e il nuovo

livello ottimo calcolato in base a . Secondo la (2.10), un individuo che veda il suo

reddito aumentare inaspettatamente20 può reagire in due modi, a seconda di come

ridefinisca le sue aspettative di reddito e

ty . Nel caso in cui viva l’aumento di

reddito corrente come un avvenimento del tutto temporaneo, le sue aspettative

resteranno inalterate. Come conseguenza, lo sbilanciamento degli assets sarà nullo,

mentre la componente non permanente del reddito sarà positiva. Si avrà quindi un

aumento del risparmio rispetto al caso stazionario esplicitato dalla (2.5), in quanto

il secondo membro della (2.10) risulterà positivo. Nel caso in cui invece l’aumento

di reddito corrente determini un aumento delle aspettative future dell’individuo21,

il secondo membro della (2.10) sarà nullo e lo sbilanciamento degli assets sarà

negativo, riflettendo un’insufficienza in relazione alle nuove aspettative. Anche in

questo caso il risparmio aumenterà, sebbene di una percentuale inferiore rispetto

al primo caso.

La funzione di risparmio (2.10) fu di grande impatto all’epoca in cui fu formulata, in

quanto riusciva a fornire una spiegazione teorica rigorosa allo studio di Kuznets

(1946) che, sulla base di analisi di serie storiche, aveva dimostrato come la

propensione marginale al risparmio fosse indipendente dal livello di reddito. Alla

stessa conclusione si giunge con il LCHM, secondo cui gli scostamenti dalla

percentuale di risparmio “stazionaria” non dipendono dal livello di reddito ma

20 Tale per cui e

tt yy 1

21 Tale per cui t

e

t yy

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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dalle fluttuazioni di breve periodo del reddito corrente rispetto al reddito

permanente.

Allo stesso tempo, il modello di risparmio individuale del Ciclo di Vita riusciva a

rendere conto anche delle osservazioni apparentemente contrapposte basate su

dati cross-settoriali, che mostravano come la percentuale di reddito risparmiato

crescesse al crescere dello status economico dell’individuo. Secondo la teoria del

LCH infatti, in presenza di fluttuazioni di breve periodo del reddito le fasce a

reddito più elevato conterranno una percentuale maggiore di individui il cui

reddito corrente è superiore al livello normale e i cui risparmi sono di conseguenza

temporaneamente più elevati. Le fasce inferiori conterranno invece una

percentuale maggiore di individui il cui reddito corrente è più basso rispetto al

livello normale e i cui risparmi sono conseguentemente inferiori. La presenza di

questi individui farà sì che la propensione marginale al risparmio della fascia di

reddito considerata si discosti da quella dei suoi componenti permanenti, M/L,

risultando mediamente più alta nelle fasce ad alto reddito e più bassa nelle fasce a

basso reddito.

Si è visto come le spiegazioni fornite dal LCHM relativamente ai risultati delle

analisi basate su serie storiche e su dati cross-settoriali siano differenti da quelle

fornite rispettivamente da Keynes e Kuznets. Secondo Kuznets il fatto che la

propensione marginale al consumo non sia calata a fronte di un aumento del

reddito trova spiegazione semplicemente nell’aumento della domanda di beni di

consumo. Secondo il LCHM, invece, ciò è dovuto all’indipendenza tra propensione

marginale al risparmio e reddito. D’altra parte, per la teoria Keynesiana, le fasce ad

alto reddito risparmiano di più rispetto a quelle a basso reddito, in quanto la

propensione marginale al risparmio cresce al crescere del reddito. Per il LCHM,

invece, ciò dipende dal diverso peso percentuale assunto dagli individui il cui

reddito corrente si discosta da quello permanente nelle diverse fasce. Si sottolinea

come Modigliani e Brumberg non forniscano evidenze che portino a ritenere le

loro spiegazioni più corrette rispetto a quelle fornite in precedenza; in ogni caso, si

ritiene che il vero punto di forza del modello risieda nella sua capacità di

riconciliare osservazioni che in precedenza sembravano essere del tutto

discordanti.

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Demografia e Teoria del Ciclo Vitale _

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2.6.2 Livello aggregato

A livello aggregato il modello della LCH definisce quali siano i driver fondamentali

nella determinazione del risparmio di un Paese.

In ipotesi di stato stazionario, il rapporto aggregato ricchezza-reddito A/Y può

essere calcolato come rapporto tra la somma della ricchezza detenuta per ogni

età22 e l’area sottesa al profilo del reddito23:

(2.11)

Risulta pertanto che il rapporto tra ricchezza e reddito aggregati in stato

stazionario dipenda dalla lunghezza del periodo di pensionamento M e non dalla

distribuzione della popolazione nelle diverse fasce di reddito, come sostenuto dalla

Teoria Keynesiana.

Si rimarca come queste considerazioni siano valide solo sotto l’ipotesi di

stazionarietà; nonostante ciò, il rapporto ricchezza-reddito calcolato in base al

modello riflette le stime di Goldsmith (1956)24.

L’analisi del caso più generale dello stato non stazionario con crescita costante

consente di definire i driver che, insieme alla lunghezza dell’et{ di pensionamento

M, vanno ad impattare sulla propensione marginale al risparmio. Modigliani e

Brumberg ricavano il comportamento del tasso di risparmio a partire dalla

ricchezza aggregata, in quanto il risparmio tra due istanti temporali è appunto pari

alla ricchezza accumulata nello stesso intervallo:

(2.12)

22 i.e. l’area sottesa al profilo della ricchezza, in Figura 2.1. 23 L’ipotesi di zero crescita della popolazione implica che gli individui siano uniformemente distribuiti per fascia d’et{; Il calcolo dei valori aggregati risulta perciò semplificato rispetto al caso generale, perché non vi è la necessità di calcolare della media pesata rispetto al numero di componenti che popolano le diverse fasce di età. 24 Goldsmith (1956) fu il primo a condurre uno studio dettagliato del risparmio negli Stati Uniti; il suo lavoro consta di più di 850 pagine di tavole relative al risparmio negli U.S., costruite aggregando dati provenienti da centinaia di fonti diverse. Il rapporto ricchezza-reddito che deriva da questo studio è pari a 5, paragonabile a quello calcolato da Modigliani considerando un tempo medio di pensionamento pari a 10 anni.

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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Dove rappresenta il tasso di crescita dell’economia che, in stato non stazionario

con crescita costante, coincide con il tasso di crescita della ricchezza aggregata. w è

invece il rapporto tra ricchezza e reddito ed è funzione decrescente del tasso di

crescita. I driver fondamentali che, insieme ad M, impattano sul risparmio

aggregato sono la crescita della popolazione e la crescita della produttività, le quali

determinano il tasso di crescita di lungo periodo dell’economia. La crescita della

popolazione comporta un’accelerazione della crescita della ricchezza, in quanto

aumenta la percentuale di giovani. D’altra parte, implica anche una riduzione del

rapporto ricchezza-reddito, in quanto i giovani sono caratterizzati da un livello

inferiore di ricchezza-stock. L’effetto netto vede prevalere la prima componente,

tale per cui si può concludere che un aumento della popolazione abbia come

conseguenza un aumento del tasso di risparmio aggregato. La crescita della

produttività invece comporta un aumento del reddito futuro; questo incremento va

a vantaggio dei più giovani, in quanto potranno godere di un reddito più elevato

per un numero maggiore di anni rispetto ai più anziani. Il risparmio dei giovani

sar{ pertanto superiore rispetto all’assorbimento di ricchezza degli anziani,

comportando un aumento del risparmio aggregato. Il modello della LCH implica

perciò un radicale mutamento nei fattori che determinano il risparmio: il legame

tradizionale con il reddito procapite è sostituito dalla relazione con durata media

del periodo di pensionamento, crescita della produttività e crescita della

popolazione.

Una ulteriore implicazione del LCHM risiede nella distinzione tra comportamento

di lungo e di breve termine della funzione di consumo aggregato, che conduce

verso una riconciliazione con la Teoria Keynesiana. Per analizzare questo punto è

bene sottolineare le differenze tra la funzione di consumo aggregato del LCHM

espressa nella (2.7) e la funzione di consumo Keynesiana:

(2.13)

Dove denota il reddito totale e P il solo reddito non da lavoro. La differenza

principale risiede nel temine noto , non presente nel LCHM e responsabile

dell’interpretazione per cui la propensione marginale al consumo cala al crescere

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Demografia e Teoria del Ciclo Vitale _

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del reddito. Nel LCHM essa è infatti considerata costante per ogni livello di reddito,

cosicché nel lungo periodo il consumo in funzione del reddito da lavoro può essere

espresso come una retta passante per l’origine, la in Figura 2.2.

Nel breve periodo invece il termine è considerato dato, perché rappresenta il

livello raggiunto dagli assets durante il periodo precedente, e quindi non varia

durante l’anno corrente. Nel breve periodo quindi la funzione di consumo

aggregato ricalca la funzione Keynesiana, dove il termine noto è rappresentato

da . La differenza tra le due sta nel fatto che l’intercetta della funzione di

consumo di breve varia nel tempo, come conseguenza del crescete accumulo di

ricchezza A negli anni25. La crescita della ricchezza netta farà quindi traslare la

funzione di consumo corrente verso l’alto, di modo che i punti consumo-reddito

osservati vadano a tracciare la funzione di lungo periodo. Nel caso in cui il reddito

subisca una fluttuazione ciclica rispetto al trend di lungo periodo, la componente

non permanente del reddito sarà diversa da zero, comportando un

aumento/diminuzione della frazione di reddito risparmiata nel caso di

aumento/diminuzione del reddito, secondo le considerazioni sopra esposte a

partire dalla (2.10).

Figura 2.2: Funzione di consumo di breve e di lungo periodo.

25 In Figura 2.2 sono rappresentate la funzione di consumo di breve per l’anno 0,

, e quella per l’anno 1,

.

Fonte: riadattamento di Modigliani e Ando (1963).

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Dalle considerazioni sopra esposte risulta chiaro come il LCHM attribuisca un

ruolo fondamentale alle variabili di durata del periodo di pensionamento,

distribuzione della popolazione per età, crescita della produttività e crescita della

popolazione. Si deduce pertanto che la demografia ricopre un ruolo fondamentale

nella determinazione delle grandezze macroeconomiche di Risparmio, Consumo e

Investimenti. Nei paragrafi successivi si espongono le principali estensioni al

modello, che consentono di aumentare la profondit{ dell’analisi finora condotta.

2.7 Le Estensioni rispetto al Modello base

Fin dalla sua prima pubblicazione nel 1954, la Teoria del Risparmio di Modigliani e

Brumberg destò particolare interesse all’interno della comunit{ scientifica.

Numerosi economisti offrirono un contributo personale all’evoluzione del modello,

concentrando gran parte degli sforzi nel tentativo, più o meno riuscito, di rilassare

le assunzioni semplificative del modello base, sostituendole con ipotesi più

realistiche. Alcuni risultati sono particolarmente interessanti ai fini dell’analisi

della relazione tra demografia e politiche monetarie. Nei successivi paragrafi si

espongono i principali contributi in questo senso.

2.7.1 Tasso di interesse diverso da zero

L’assunzione di Modigliani e Brumberg (1954) secondo cui il tasso di interesse non

abbia impatto alcuno sulle decisioni di consumo degli individui, e che di

conseguenza possa essere considerato nullo, fu profondamente messa in

discussione negli anni successivi. Il primo ad occuparsi dell’argomento fu Tobin

(1967), che elaborò una generalizzazione del LCHM che, insieme ad altre

estensioni – durata probabilistica della vita, infanzia, e struttura famigliare –

ammetteva la presenza di un tasso di interesse positivo diverso da zero.

Il modello proposto da Tobin sottolinea come il tasso di interesse abbia un impatto

sul reddito dell’individuo e sulla regola di allocazione del consumo nel tempo.

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Il reddito aumenta, in quanto alla componente del reddito da lavoro si va a

sommare la componente del reddito da interessi sugli assets. Approssimando il

reddito da interessi a , la funzione di consumo aggregato (2.7) può essere

riscritta nella forma

(2.14)

dove sta ad indicare la propensione al consumo del reddito da interessi che, in

generale, è diversa rispetto a quella del reddito da lavoro .

La regola di allocazione, che nella versione base prevedeva che il consumo si

mantenesse in valore assoluto constante nel tempo, viene riformulata nella forma:

“l’individuo massimizza la propria utilità quando il valore attuale del consumo è

uguale per ogni anno” (Tobin, 1967). A mantenersi costante pertanto non è più il

consumo in valore assoluto ma il corrispondente valore scontato al tasso di

interesse reale. Le successive ricerche condotte da Hansen e Singleton (1983) e

Summers (1985) hanno portato alla definizione del modello di distribuzione

congiunta di consumo e tasso di interesse: “la distribuzione congiunta del logaritmo

del consumo nel periodo t, , e gli interessi guadagnati sugli assets dal periodo t-1 al

periodo t, , è una normale con matrice di covarianza stabile nel tempo” (Hall,

1988). Le medie allora seguono la relazione lineare

(2.15)

Il cambiamento atteso nel logaritmo del consumo perciò coincide con il prodotto

tra il tasso di interesse reale e l’elasticit{ di sostituzione, che misura l’elasticit{

della frazione di consumo al prezzo relativo corrispondente, più una costante k.

Vengono così a delinearsi due casi possibili di consumo, a seconda del valore

assunto dall’elasticit{ di sostituzione. Nel caso di sostituzione nulla, l’individuo

continuerà a scegliere un tasso di consumo costante lungo la vita, come nel caso

particolare del modello con tasso di interesse pari a zero. Il profilo di consumo

continuerà perciò ad essere una linea orizzontale come in Figura 2.1, ma il valore

costante sarà più alto per effetto della presenza del reddito da interesse. La

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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ricchezza aggregata invece, come osservato da Modigliani (1986), diminuirà

all’aumentare di r, e così anche il tasso di risparmio. Nel caso di sostituzione

positiva invece, il profilo del consumo sar{ inclinato positivamente. L’individuo

infatti attribuirà valore alla possibilità di consumare di più nel futuro a patto di

aumentare i risparmi nel primo periodo di vita, in quanto si attende che gli stessi,

investiti al tasso reale atteso r, garantiscano rendimenti tali da permettere un

innalzamento del profilo futuro di consumo. Come conseguenza, i risparmi

aumenteranno e così anche la ricchezza aggregata. Nel breve termine pertanto, a

fronte di un aumento del tasso di interesse, si osserverà una riduzione dei

consumi, con un parallelo aumento dei risparmi e degli investimenti.

Dalle considerazioni sopra riportate risulta chiaro come la definizione del corretto

valore di elasticità di sostituzione sia di fondamentale importanza in ambito

macroeconomico. Nel caso in cui la sostituzione fosse significativamente diversa da

zero, allora le politiche macroeconomiche avrebbero un effetto diretto e

immediato su consumi e risparmi, agendo sulla leva del tasso di interesse; al

contrario, in caso di sostituzione nulla l’impatto del tasso di interesse sui consumi

sarebbe trascurabile. Con questo non si nega il legame tra ciclo di vita e politiche

monetarie; semplicemente, la connessione tra politiche monetarie e ciclo di vita

sarebbe di carattere indiretto, mentre il legame diretto dovuto al tasso di interesse

verrebbe a mancare.

In letteratura si distinguono due filoni di pensiero a seconda che si attribuisca

all’elasticit{ di sostituzione un valore positivo o nullo. Tra i sostenitori

dell’elasticit{ di sostituzione positiva si citano Hansen, Singleton e Summers.

Hansen e Singleton (1983) interpretano il parametro sigma come il reciproco del

coefficiente di avversione al rischio. Sotto determinate ipotesi il tasso di

avversione può essere considerato il reciproco della sostituzione, in quanto

l’aumentare dell’avversione al rischio porta il consumatore a prediligere un

consumo sicuro oggi rispetto a un consumo maggiore domani, facendo così calare

la sostituzione. Gli autori procedono alla stima del coefficiente di avversione al

rischio misurando come il consumo si modifica in corrispondenza di differenti

tassi di interesse reale attesi. L’analisi dei dati di consumo mensili aggregati e del

tasso di interesse reale atteso per gli anni dal 1959 al 1978 portano a stimare il

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Demografia e Teoria del Ciclo Vitale _

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valore del coefficiente di avversione al rischio tra 0 e 2, corrispondente a un valore

della elasticità alla sostituzione molto elevato e in ogni caso non inferiore a 0,5.

Summers (1982) utilizza dati di consumo e tasso di interesse atteso relativi allo

stesso periodo temporale ma quadrimestrali; anch’egli arriva alla conclusione che

l’elasticit{ di sostituzione sia significativamente maggiore di zero, ipotizzando un

valore medio pari all’unit{.

Hall (1998) sostiene invece l’ipotesi di elasticit{ di sostituzione nulla. Egli analizza

i dati di consumo e tasso di interesse reale atteso per lo stesso periodo di tempo

considerato da Hansen, Singleton e Summers, arrivando però alla conclusione

opposta che l’elasticit{ di sostituzione sia presumibilmente nulla, e in ogni caso

inferiore a 0,1. Hall giustifica la discordanza tra i risultati da lui ottenuti e quelli

ricavati da Summers per il fatto che quest’ultimo abbia trascurato di utilizzare

l’estimatore di Hayashi-Sims, necessario per evitare di ottenere una regressione

spuria. Le stesse considerazioni valgono anche per Hansen e Singleton; secondo

Hall il loro lavoro è però ulteriormente viziato dall’utilizzo di dati mensili, in

quanto introducono una componente di autocorrelazione negativa.

Nonostante l’acceso di battito, ad oggi ancora non si è giunti ad una conclusione

relativamente alla presenza o meno di una correlazione tra tasso di interesse

atteso e cambiamenti nel consumo. Si ritiene che entrambe le ipotesi trovino

riscontro nel comportamento del consumatore. Da una parte, è sensato pensare

che gli individui non si lascino condizionare dal tasso di interesse atteso nel

momento in cui prendono decisioni d’acquisto routinarie: non si studia

l’andamento di r per acquistare un elettrodomestico o un paio di scarpe. Dall’altra,

risulta intuitivo che il tasso di interesse atteso possa impattare su decisioni più

rilevanti: ad esempio, nel momento in cui r cala, il consumatore può essere

incentivato ad acquistare una casa finanziandosi tramite l’accensione di un

prestito, oppure dismettendo investimenti in titoli sicuri il cui rendimento risulta

ridotto.

Data la mancanza di una risoluzione definitiva e sulla base delle considerazioni

sopra riportate, si conclude che, ad oggi, non si possa assumere la presenza di una

correlazione diretta tra tasso di interesse reale atteso e consumo nel prosieguo

dell’analisi della relazione tra demografia e politiche monetarie.

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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2.7.2 Composizione realistica del nucleo famigliare

Il LCHM di Modigliani e Brumberg esclude dall’analisi gli individui in et{ infantile.

Gli L anni di vita assunti dal modello sono infatti dati dalla somma tra N, l’intervallo

di percezione del reddito, e M, l’intervallo di pensionamento, assumendo che il

consumo degli individui in età infantile vada a sommarsi a quello dei rispettivi

genitori. Questa semplificazione è però incoerente con l’ipotesi che gli individui

adulti mantengono costante il consumo negli anni, in quanto la presenza di figli

all’interno del nucleo famigliare ha una notevole influenza sulla spesa in consumo.

Anche in questo caso risulta fondamentale il contributo di Tobin (1967), che

elaborò due estensioni del modello capaci di includere gli individui in età infantile.

La prima estensione si basa sull’inclusione del periodo d’infanzia all’interno degli L

anni di vita considerati dal modello. L sarà allora pari alla somma

(2.16)

dove I sta ad indicare gli anni che intercorrono tra la nascita dell’individuo e il suo

ingresso nel mondo del lavoro, durante i quali l’individuo consuma ma non

percepisce alcun reddito. Nel periodo I si avr{ pertanto l’accumulo di un debito

fittizio, da ripagarsi nel corso della vita adulta. Come conseguenza, la propensione

al risparmio aumenterà, in quanto durante gli N anni di percezione del reddito

l’individuo dovr{ accumulare ricchezza per provvedere non solo al successivo

periodo di pensionamento ma anche al precedente periodo d’infanzia. Il rapporto

tra gli aggregati di ricchezza e reddito da lavoro invece diminuirà, con la possibilità

di assumere valori negativi. In particolare, nel caso di stazionarietà il rapporto A/Y

non sarà più pari a M/2 bensì a

(2.17)

Risulta quindi che la ricchezza aggregata sarà positiva se il periodo di

pensionamento è in durata superiore al periodo di infanzia; viceversa sarà

negativa.

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La prima estensione proposta da Tobin presenta numerosi punti di debolezza. Ad

esempio, l’inclusione degli I anni di infanzia nell’orizzonte di pianificazione L

implica che gli individui in età infantile definiscano in prima persona il proprio

consumo, quando invece sono i genitori a decidere per loro; inoltre, il modello

implica che ogni individuo sia in grado di definire razionalmente il proprio profilo

di consumo obiettivo fin dalla nascita, il che è incompatibile con le facoltà

intellettive di un neonato. Tobin propose allora un ulteriore modello, che definisce

più realistico e che permette di modellizzare in maniera più rigorosa la presenza di

individui di età infantile. Questo modello è basato sulla considerazione che gli

individui tendono ad aggregarsi in nuclei famigliari. Al concetto di individuo si

sostituisce allora quello di nucleo famigliare, il cui reddito è la somma dei redditi

dei diversi componenti; lo stesso vale per risparmio, ricchezza e consumo. Tobin

“costruisce” il generico nucleo famigliare sulla base di una serie di assunzioni

semplificative. In primo luogo, la “nascita” del nucleo famigliare si ha nel momento

in cui una “generica” donna compie 18 anni, in quanto a questa età si assume che la

donna lasci il nucleo famigliare dei genitori per andare a comporne uno proprio.

Alla donna è associato il numero medio di uomini (di 20 anni), pari a 1, e il numero

medio di figli. Con la crescita della donna, il nucleo famigliare associato si modifica:

nascono altri figli, le figlie femmine lasciano il nucleo a 18 anni mentre i figli

maschi a 20, alcuni figli muoiono, l’uomo adulto e la donna adulta muoiono. In

particolare, per ogni età della donna è associata la probabilità di ciascuno degli

eventi citati; in questo modo è possibile calcolare la composizione media del

nucleo famigliare per ciascuna età della donna, in termine di numero di donne

adulte (tra 0 e 1), numero di uomini adulti (tra 0 e 1), numero di figli sotto i 14

anni, numero di figlie femmine tra i 14 e i 18 anni e numero di figli maschi tra i 14 e

i 20 anni.

Risulta intuitivo che il profilo del consumo non sarà costante col passare degli anni

della donna: la nascita di nuovi figli porterà ad un aumento del consumo del nucleo

famigliare, che tornerà ai livelli di partenza nel momento in cui i figli avranno

lasciato la famiglia. Ciononostante, Tobin introduce l’assunzione secondo cui il

profilo del consumo rispetto agli anni di vita del nucleo famigliare si mantiene

costante, che ricalca il postulato di Modigliani e Brumberg. L’incoerenza tra

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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l’andamento del consumo rispetto all’et{ della donna e all’et{ del nucleo famigliare

è solo apparente, in quanto per “et{ del nucleo famigliare” si intende la cumulata

degli anni di vita dei suoi componenti. Come conseguenza, all’aumentare dei figli

l’et{ del nucleo famigliare crescer{ più velocemente rispetto all’et{ della donna, e il

consumo nell’anno solare subir{ un incremento. Tobin rende il modello ancor più

realistico attraverso l’introduzione del concetto di “adulto equivalente”, che

permette di tenere in considerazione sia l’economia di scala, che interessa il

consumo al crescere delle dimensioni del nucleo famigliare, sia il fatto che il

consumo di un bambino sia in linea generale minore rispetto a quello di un adulto.

In particolare, si ipotizza che un bambino fino ai 14 anni consumi il 60% rispetto

ad un adulto, e che con l’adolescenza – tra i 14 e i 18 anni per le femmine, tra i 14 e

i 20 per i maschi – la percentuale salga a 80%.

La modifica principale che l’estensione di Tobin introduce rispetto al LCHM è

quindi relativa al profilo di consumo e di ricchezza. Il profilo del consumo parte da

un livello relativamente basso, si alza in corrispondenza della nascita dei figli e

torna ad abbassarsi quando questi abbandonano il nucleo famigliare, discostandosi

dal profilo piatto del modello base. Parallelamente, il profilo della ricchezza

accumulata non sar{ più la classica “gobba” descritta da Modigliani, ma le “gobbe”

saranno invece due, una precedente la nascita dei figli e una precedente il

pensionamento dei genitori, mentre il valore della ricchezza accumulata sarà

decrescente rispetto al numero di figli. Le stesse considerazioni portano al tasso di

risparmio evidenziato in Figura 2.3. In tale figura si può notare l’andamento del

tasso di risparmio nel tempo in relazione al nucleo famigliare “medio” in

corrispondenza di differenti metodologie di calcolo. La prima (linea tratteggiata)

non considera il consumo dei figli; la seconda (linea continua) include il consumo

dei figli in età infantile (Ch) e in età adolescenziale (T).

Le considerazioni sopra esposte mostrano come la composizione del nucleo

famigliare abbia un impatto significativo sui risultati del LCHM. In particolare, due

Paesi con identiche preferenze di consumo a livello individuale e uguale tasso di

crescita potranno presentare consumo e ricchezza aggregati molto diversi in base

alla composizione media del nucleo famigliare. Anche in questo caso, la demografia

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Demografia e Teoria del Ciclo Vitale _

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assume un ruolo di primo piano nello spiegare l’andamento macroeconomico di

Risparmio, Consumo e Ricchezza.

Figura 2.3: tasso di risparmio nel tempo.

2.7.3 Vincoli di liquidità

Nel modello base del Ciclo di Vita, ogni individuo è per assunzione libero di

investire e di prendere denaro a prestito, di modo da separare l’andamento

temporale del reddito da quello del consumo, a patto che venga rispettato il

vincolo di budget in (2.3). In realtà non tutti i consumatori hanno la possibilità di

accendere un prestito per finanziare necessità di consumo superiori alle risorse

correnti. Secondo Zeldes (1989) e Deaton (1991), la presenza di vincoli di liquidità

dipende dalla presenza di asimmetrie informative sul reddito futuro del

consumatore, che impediscono l’accesso al credito alle famiglie sprovviste di

sufficienti garanzie, nonché da imperfezioni nel mercato del credito. Questi vincoli

Fonte: riadattamento di Tobin (1967).

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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si manifestano in due modi distinti, come sottolineato da Zeldes (1989). In primo

luogo, il consumatore potrebbe non avere la possibilità di accendere prestiti oltre

ad un certo importo o potrebbe non poterne ricevere del tutto. In secondo luogo, il

tasso di interesse a cui l’individuo ha la possibilit{ di prendere denaro a prestito

potrebbe differire da quello a cui investe. In entrambi i casi gli individui reagiscono

aumentando il proprio tasso di risparmio, di modo da accumulare autonomamente

la ricchezza necessaria. Di conseguenza, il consumo risulterà posticipato rispetto al

profilo ottimale definito in assenza di vincoli di liquidità.

Deaton (1991) propone un’estensione al LCHM che introduce i vincoli di liquidit{.

L’effetto dei vincoli di liquidit{ sul consumo può essere analizzato modificando il

problema di ottimizzazione del consumo dell’individuo, costituito dalla

massimizzazione della funzione di utilità in (2.2) e dal vincolo di budget in (2.3),

per aggiungere il vincolo ulteriore

(2.18)

La (2.18) rappresenta la forma più semplice di vincolo di liquidità: il consumatore

non può prendere denaro a prestito. Sarebbe ugualmente legittimo assumere

qualche limite negativo sugli assets, nella forma , dove B è il limite di

indebitamento. L’ottimo di questo problema vincolato è descritto dalla funzione di

Eulero

(2.19)

Dove β rappresenta il rapporto

, con δ tasso di preferenza temporale

soggettivo, mentre la somma indica il totale delle risorse correnti detenute

dall’individuo. Il vincolo in (2.18) sar{ quindi attivo se l’utilit{ marginale delle

risorse correnti, , è superiore all’utilità marginale scontata attesa per il

periodo successivo, . Ne consegue che il consumo di un individuo

soggetto a vincoli di liquidità sarà inferiore rispetto a quello di un individuo non

vincolato. Inoltre, nel momento in cui il vincolo di liquidità è attivo, il consumo

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dipende più dalle risorse correnti piuttosto che dal valore attuale del reddito

futuro, portando ad un comportamento del consumatore simile a quello postulato

da Keynes.

Zeldes (1989) sottolinea che la presenza di vincoli di liquidità può deprimere il

consumo anche se il vincolo non è attivo durante il periodo corrente. Se l’individuo

è avverso al rischio infatti, può essere portato a ridurre il proprio consumo

corrente per far fronte a vincoli di liquidità che possono manifestarsi nel futuro.

Si conclude allora che la presenza di vincoli di liquidità porta ad un aumento della

propensione marginale al risparmio della fascia più giovane della popolazione, che

posticipa il consumo per accumulare autonomamente le risorse che, in un contesto

non vincolato, avrebbe invece preso a prestito e ripagato nel futuro. A livello

aggregato, le implicazioni dipenderanno dalla composizione in termini di età della

popolazione e dalla crescita dell’economia. Per quanto riguarda la composizione di

età, maggiore sarà la percentuale di giovani sul totale, maggiore saranno il tasso di

risparmio aggregato e la ricchezza aggregata; per quanto riguarda la crescita

dell’economia, la presenza di vincoli di liquidit{ amplifica l’effetto di aumento del

tasso di risparmio tipico della crescita di popolazione e di produttività.

2.7.4 Durata periodo lavorativo, crescita di produttività e Previdenza Sociale

Oltre che per la durata della vita totale dell’individuo, la versione base del LCHM

assume valori deterministici anche per la durata del periodo del periodo lavorativo

(N), che invece è significativamente variabile da Paese a Paese. Estendere il

modello per considerare valori diversi di N ha un forte impatto sui risultati

fondamentali del modello stesso. In particolare, con la diminuzione degli anni di

lavoro e la conseguente dilatazione del periodo di pensionamento crescono anche

la propensione marginale al risparmio – come sottolineato dalla (2.9) e la (2.10) - e

la ricchezza totale accumulata dal Paese – come visibile dalla (2.11). Risulta

pertanto fondamentale capire quali siano le variabili chiave che determinano N. La

letteratura è ricca di studi sul tema; tra i contributi principali si citano Feldstein

(1974, 1976), Jappelli e Modigliani (1998), Modigliani e Sterling (1983), la cui

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

71

analisi porta ad identificare nella crescita della produttività e nella Previdenza

Sociale le principali determinanti di N.

L’impatto della crescita della produttivit{ sulla durata del periodo lavorativo si

articola in due componenti. Da una parte, i lavoratori possono sfruttare la crescita

del reddito pro capite indotta dalla crescita della produttività per ritirarsi

precocemente dal mondo del lavoro; dall’altra, la crescita della produttivit{

aumenta il costo opportunità di un anno incrementale di pensionamento,

incentivando a lavorare più a lungo. L’analisi condotta da Modigliani e Sterling

(1983), basata su dati cross-settoriali di 21 paesi dell’OECD relativi al periodo

1960-1970, conclude che la componente predominante sia quella data dalla

crescita del reddito, ma che l’impatto non sia tale da produrre un effetto misurabile

sul tasso di risparmio.

Anche l’impatto della Previdenza Sociale è molto complesso. Feldstein (1974)

sottolinea come la naturale implicazione della Previdenza Sociale sia quella di

ridurre il risparmio privato, in quanto fornisce un reddito anche durante il periodo

di pensionamento. Parallelamente, essa costituisce però anche un incentivo ad

andare in pensione prima di quanto si sceglierebbe altrimenti, in quanto riduce

l’utilit{ di ogni anno di lavoro successivo all’et{ di pensionamento minima. Di

conseguenza, il risparmio individuale durante gli anni di lavoro aumenta, perché si

dilata la durata del periodo in cui la ricchezza accumulata deve essere distribuita.

Sulla base di analisi empiriche, Feldstein giunge alla conclusione che l’impatto

prevalente della Previdenza Sociale sia la depressione del risparmio personale

aggregato; in particolare stima che, in assenza del sistema pensionistico, il

risparmio aggregato aumenterebbe di una percentuale che varia tra il 50 e il 100%.

Inoltre, il metodo “pay-as-you-go”, largamente utilizzato, implica una riduzione

della ricchezza aggregata, perché i contributi versati dai lavoratori passano

direttamente nelle mani dei pensionati, senza andare ad accrescere lo stock di

ricchezza.

Anche Modigliani e Sterling (1983) sostengono che la Previdenza Sociale agisca

contemporaneamente da una parte alzando il tasso di risparmio e dall’altra

abbassandolo. A differenza di Feldstein però, le analisi da loro condotte portano

alla conclusione che le due componenti si controbilanciano, portando ad un effetto

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Demografia e Teoria del Ciclo Vitale _

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netto pressoché nullo. Gli individui inseriti in un programma di Previdenza Sociale

infatti mantengono elevata la propria propensione al risparmio, atteggiamento che

Modigliani e Sterling ipotizzano essere la conseguenza dell’acquisizione di

consapevolezza relativa al problema indotta dall’inserimento nel programma. In

particolare, risulta che l’effetto netto sul risparmio aggregato varia dal -0,05%

della Grecia al +0,08% dell’Irlanda; la media del campione - 21 paesi OECD -, pari a

10 punti base, appare trascurabile.

Nel 1998 Jappelli e Modigliani tirano le fila del discorso, arrivando a formalizzare

una generalizzazione del LCHM che considera in modo rigoroso il contributo della

Previdenza Sociale e che fornisce una spiegazione alle osservazioni empiriche

secondo cui il risparmio tende ad essere positivo anche durante il pensionamento.

La loro analisi si basa sulla distinzione tra i concetti di “reddito disponibile” e

“reddito guadagnato”. Il primo, tradizionalmente utilizzato per la conduzione delle

verifiche empiriche del LCHM, è calcolato sottraendo dal reddito sia le tasse che i

contributi pensionistici; il secondo invece va a sottrarre dal reddito le sole tasse.

Modigliani e Jappelli propongono la sostituzione, all’interno del LCHM, del reddito

disponibile con il reddito guadagnato, in quanto è più corretto considerare i

contributi pensionistici come risparmi che permettono di accumulare ricchezza in

vista del pensionamento. Si distingue allora tra i concetti di “risparmio totale”,

“risparmio privato” e “risparmio obbligatorio”, di cui l’ultimo, dato dai contributi

pensionistici, è pari alla differenza tra i primi due; la grandezza più coerente con il

LCHM risulta essere il risparmio totale, in quanto include nel risparmio i contributi

pensionistici. Le stesse considerazioni valgono per i concetti di “ricchezza totale”,

“ricchezza privata” e “ricchezza pensionistica”. L’ultima modifica introdotta

riguarda il modo di considerare i versamenti pensionistici agli anziani:

tradizionalmente considerati come trasferimenti, essi devono invece essere

interpretati come l’utilizzo da parte degli anziani della ricchezza pensionistica

“virtuale” accumulata durante gli anni di lavoro. Modigliani e Jappelli testano

l’estensione del LCHM – considerando quindi reddito guadagnato, risparmio totale

e utilizzo della ricchezza pensionistica durante il periodo di pensionamento -

attingendo ai dati relativi ad una survey condotta dalla Banca d’Italia relativa a

reddito e ricchezza peri il periodo 1984-1995 dei nuclei famigliari italiani. Il

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modello così esteso risulta in linea con i dati osservati: il profilo della ricchezza

totale presenta infatti la tipica forma “a gobba” teorizzata dal modello. Le analisi

condotte mostrano infatti che, nonostante il risparmio totale sia dato per

definizione dalla somma tra risparmio privato e risparmio obbligato, un aumento

del risparmio obbligato non è compensato da una proporzionale riduzione del

risparmio privato. In particolare, il risparmio privato si riduce meno che

proporzionalmente, provocando un aumento del risparmio totale. In linea con

Feldstein, Modigliani e Jappelli interpretano il fenomeno come conseguenza

dell’aumento della lunghezza del periodo di pensionamento, indotto dalla

Previdenza Sociale.

Una considerazione addizionale riguarda invece la ricchezza privata presa

singolarmente, che appare non soggetta a riduzione durante il pensionamento.

Modigliani e Jappelli giustificano questa osservazione rifacendosi al motivo

ereditario del risparmio; per un’analisi più dettagliata di questo elemento si

rimanda al paragrafo 2.7.5.2.

I contributi sintetizzati in questo paragrafo attribuiscono un ruolo fondamentale

alla Previdenza Sociale nella determinazione di risparmio e ricchezza. L’impatto è

sia diretto, in quanto i contributi pensionistici si sostituiscono in parte al risparmio

e alla ricchezza aggregati, sia indiretto, in quanto la Previdenza Sociale incentiva ad

anticipare il pensionamento e, conseguentemente, impatta positivamente sul

risparmio privato.

Come effetto netto si avrà quindi un aumento del risparmio totale, dato da una

riduzione del risparmio privato meno che proporzionale rispetto all’aumento di

quello obbligatorio. Si sottolinea che la validità di questa considerazione dipende

da una serie di requisiti che il sistema pensionistico deve rispettare affinché i

contributi pensionistici possano essere effettivamente considerati alla stregua di

risparmi, come sarà analizzato più avanti in questo capitolo. La ricchezza aggregata

invece varierà a seconda del sistema di Previdenza Sociale adottato; in particolare,

il metodo “pay-as-you-go” far{ calare la ricchezza aggregata, perché i risparmi

obbligatori dei più giovani passano direttamente nelle mani degli anziani

sottoforma di contributi pensionistici, senza essere prima accumulati. Nel

complesso, risulta chiaro come la Previdenza Sociale risulti un fattore

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Demografia e Teoria del Ciclo Vitale _

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fondamentale per giustificare differenze nel risparmio e nella ricchezza di Paesi

diversi, e che le sue caratteristiche devono essere tenute in considerazione in

occasione della definizione di politiche fiscali e monetarie.

La crescita della produttività risulta invece ricoprire un ruolo nel complesso

trascurabile per quanto riguarda la durata del periodo di pensionamento. Sebbene

l’impatto indiretto della crescita della produttivit{ su risparmio e ricchezza

attraverso N sia quindi poco significativo, si ricorda però come l’impatto diretto sia

invece significativo, come commentato in precedenza e come sintetizzato dalla

(2.12).

2.7.5 Il consumo durante il periodo di pensionamento

In letteratura si utilizza l’espressione “rompicapo del consumo nel periodo di

pensionamento” in relazione al calo che il consumo subisce durante il periodo di

pensionamento. Questa considerazione, basata su osservazioni empiriche

largamente condivise, è in contrasto con il postulato di Modigliani e Brumberg

secondo cui gli individui pianificano razionalmente il proprio consumo di modo da

mantenerne costante il profilo nel tempo. Nemmeno l’estensione relativa alla

composizione reale del nucleo famigliare è capace di rendere conto del fenomeno,

in quanto il ridimensionamento del nucleo avviene ben prima rispetto al

pensionamento dei genitori. Di seguito si analizzano le principali ipotesi introdotte

per spiegare questo fenomeno. Si sottolinea come queste ipotesi non debbano

essere considerate tra loro alternative; è infatti verosimile pensare che la riduzione

complessiva del consumo durante il periodo di pensionamento sia il risultato

dell’azione di più componenti.

2.7.5.1 L’incertezza sulla durata della vita

La versione base del LCHM assume valori deterministici per la durata della vita

dell’individuo. Il modello proposto da Tobin esposto nel paragrafo 2.7.2 costituisce

un esempio di generalizzazione che rende variabile la durata totale di vita L, in

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quanto ad ogni età della donna del nucleo famigliare sono associate le probabilità

di sopravvivenza dei rispettivi figli, del compagno e della donna stessa.

Dell’argomento si sono occupati in seguito numerosi autori, in particolare Davies

(1981) e Hurd (1990). Il loro contributo è particolarmente interessante, in quanto

mettono in evidenza come l’incertezza sulla durata della vita abbia un forte

impatto sulla propensione al risparmio. Non essere a conoscenza della data della

propria morte infatti spinge l’individuo ad accumulare ricchezza addizionale per

far fronte ad una eventuale vecchiaia più lunga della media, inserendo tra le

motivazioni al risparmio la “spinta precauzionale” di cui Modigliani e Brumberg gi{

nel 1954 avevano riconosciuto l’importanza, ma che era poi stata esclusa dal

modello base.

Secondo Hurd la spinta precauzionale si traduce in un abbassamento del profilo

del consumo, che rimane costante lungo la vita; questa visione riflette l’ipotesi che

l’individuo sconti l’incertezza della lunghezza di vita fin dal primo anno di lavoro.

Secondo Davies invece, l’incertezza sulla durata della vita riduce il consumo di una

frazione che aumenta con l’et{. In particolare, osserva che la percentuale media di

consumo durante il periodo di pensionamento della ricchezza accumulata scende

dal 9 al 3,7%, con valori annuali inversamente proporzionali all’et{.

L’analisi di Davies risulta particolarmente interessante, in quanto dimostra che

“l’incertezza sulla durata della vita costituisce un elemento fondamentale nella

spiegazione della riduzione della propensione al consumo tra i pensionati [rispetto a

quanto risulterebbe dal modello base del Ciclo di Vita]” (Davies, 1981).

L’avversione al rischio dei consumatori risulta quindi un parametro importante nel

determinare lo stock di ricchezza detenuto durante il periodo di pensionamento. Si

conclude che, all’aumentare dell’avversione al rischio, aumenterà anche la

ricchezza media detenuta dal consumatore in corrispondenza della fine della

propria vita di una quantità mediamente proporzionale alle risorse accumulate

lungo la vita26. Anche a livello aggregato si avrà un aumento della ricchezza; in

26 Si assume che il motivo precauzionale spinga i pensionati a mantenere un “buffer” di ricchezza

proporzionale al picco raggiunto al termine del periodo lavorativo; pertanto, la ricchezza detenuta

dei pensionati aumenterà –rispetto al LCHM base- di una percentuale che non varia al variare della

fascia di reddito considerata.

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particolare, la percentuale di incremento della ricchezza aggregata crescerà con

l’avversione al rischio media, mentre sar{ indipendente dalla distribuzione della

popolazione nelle diverse fasce di reddito.

2.7.5.2 Il desiderio di lasciare una eredità

Nonostante Modigliani e Brumberg (1954) riconoscano il desiderio di lasciare

un’eredit{ tra le motivazioni al risparmio, la versione base del LCHM adotta

l’assunzione semplificativa che non vi sia alcun trasferimento di ricchezza

sottoforma di eredità. La ragionevolezza di questa assunzione venne

profondamente messa in discussione da Kotlikoff e Summers (1981), i quali

stimarono che negli Stati Uniti la percentuale di ricchezza ereditata rispetto alla

ricchezza aggregata totale fosse compresa tra il 50 e l’80%. Successivamente

Modigliani (1985) dimostrò come le loro stime dovessero essere corrette al

ribasso, principalmente a causa di errori nella metodologia utilizzata per il calcolo

del flusso di eredit{ e a causa dell’utilizzo di una definizione non convenzionale di

ricchezza ereditata. Egli giunse a definire una percentuale pari al 20%, con un

margine di circa 5%. Anche la visione di Modigliani, seppur più moderata, porta ad

attribuire un forte peso all’eredit{. In caso di crescita positiva infatti, affermare che

la percentuale di ricchezza ereditata sia pari al 20% significa sostenere che gli

individui passino ai propri eredi circa la metà del picco di ricchezza da loro

raggiunto durante la vita. Come dimostrato da Kennickell (1984) infatti, nel caso di

crescita positiva i risparmi portano ad accrescere velocemente il totale della

ricchezza accumulata: per esempio, in corrispondenza di una crescita pari al 3%, la

ricchezza lasciata in eredità da un nucleo famigliare è circa 2,5 volte rispetto a

quella ricevuta dai nuclei famigliari estinti.

Queste osservazioni contrastano con l’idea di base del LCHM, secondo cui gli

individui accumulano ricchezza in vista del pensionamento, per poi esaurirla in

corrispondenza della fine della vita. Modigliani (1986) sottolinea però come

l’eredit{ possa essere facilmente inserita all’interno del modello del Ciclo di Vita

esteso. Prima di tutto, distingue tra il concetto di eredità involontaria e volontaria.

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L’eredit{ involontaria è quella parte di ricchezza non utilizzata che dipende dalla

motivazione precauzionale, legata all’incertezza sulla durata della vita; questa

parte di eredit{ può essere facilmente inglobata nel LCHM attraverso l’estensione a

una durata di vita stocastica e a un comportamento avverso al rischio, come

analizzato nel paragrafo precedente. L’eredit{ volontaria è invece la parte di

eredità generata appositamente per rispondere al desiderio di lasciare ricchezza ai

propri eredi. Secondo Modigliani, questa parte di eredità sarà pari ad una frazione

delle risorse totali accumulate lungo la vita27:

(2.20)

dove BL rappresenta la ricchezza lasciata in eredità, BR quella ricevuta e il valore

attuale del reddito. Il fenomeno dell’eredit{ appare essere concentrato negli strati

più ricchi della popolazione, di modo che “la percentuale di risorse che un nucleo

famigliare decide di destinare a eredità volontaria è, in media, una funzione non

decrescente del rapporto tra le risorse del nucleo famigliare e la media delle risorse

della fascia di età di cui il nucleo fa parte” (Modigliani, 1975). In particolare,

Modigliani ipotizzò che la percentuale γ fosse vicina a zero fino a circa l’80-esimo

percentile nella distribuzione delle risorse, per poi crescere rapidamente con il

reddito.

Questa generalizzazione del modello base del Ciclo di Vita comporta una serie di

implicazioni, sia nel caso di economia in stato stazionario che nel caso di economia

in crescita . Nel caso di crescita nulla28 la ricchezza media di ogni nucleo famigliare

sarà maggiorata della costante , e il nuovo profilo della ricchezza in

funzione dell’et{ rimarr{ parallelo a quello in assenza dell’eredit{.

Con crescita positiva invece, BL risulterà superiore rispetto a BR. In particolare,

, dove ρ simboleggia la crescita media e T indica il gap medio di età tra

chi dona e chi riceve l’eredit{. In questo caso allora, il desiderio di lasciare

un’eredit{ porter{ gli individui a risparmiare, determinando un aumento della

27 Nel modello esteso, le risorse totali lungo la vita includono non solo il valore attuale del reddito,

ma anche il valore attuale della ricchezza ricevuta sottoforma di eredità. 28 Tale per cui BR = BL con BR =

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propensione marginale al risparmio e del rapporto tra ricchezza e reddito, in

misura proporzionale alla crescita ρ.

Dalle considerazioni di cui sopra si conclude che il fenomeno dell’eredit{ ha un

impatto significativo sulla ricchezza aggregata di un Paese. L’eredit{ involontaria

contribuisce ad aumentare la ricchezza aggregata di una quantità proporzionale

alle risorse dei nuclei famigliari lungo il ciclo di vita. Anche l’eredit{ volontaria

aumenta la ricchezza aggregata, ma il suo impatto dipende dal numero di nuclei

famigliari che cadono nella fascia più alta di reddito. In particolare, in caso di

crescita positiva, i nuclei famigliari più ricchi aumenteranno la propria

propensione al risparmio motivati dal desiderio di lasciare un’eredit{,

determinando una crescita del valore della ricchezza che passa da una generazione

all’altra. Si deduce quindi che, in caso di crescita positiva, la propensione al

risparmio dei diversi nuclei famigliari crescerà al crescere del reddito – seppur non

linearmente –, osservazione che riavvicina il LCHM alla dottrina Keynesiana. Lo

stesso vale per la ricchezza aggregata di un Paese che, a parità di altri fattori,

crescerà col crescere della percentuale di nuclei famigliari appartenenti alle fasce

più alte di reddito.

2.7.5.3 L’utilità del tempo libero e gli shock negativi nella ricchezza

L’introduzione nel LCHM del risparmio precauzionale dettato dell’incertezza sulla

durata della vita costituisce una prima ipotesi finalizzata a rendere conto del

“rompicapo del consumo nel periodo di pensionamento”. Di seguito si analizza il

lavoro di Smith (2004), che sintetizza alcune ipotesi alternative all’incertezza, ed

introduce interessanti spunti di riflessione.

La prima ipotesi riportata da Smith si basa sulla constatazione che la caduta della

spesa in consumo nell’et{ di pensionamento non implica necessariamente una

caduta nel consumo effettivo del nucleo famigliare. Gli individui potrebbero infatti

decidere razionalmente di acquistare gran parte dei beni durevoli necessari

durante il pensionamento in anticipo rispetto al termine del periodo lavorativo,

cosicché il consumo successivo si manterrebbe costante nonostante una

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diminuzione della spesa corrispondente. Smith rimanda però ad uno studio di

Miniaci, Monfardini e Weber (2003), in cui si dimostra che non esiste evidenza

empirica della creazione di una scorta di beni durevoli come anticipazione del

pensionamento.

Una seconda ipotesi si rif{ all’idea che esista una parte di spesa di consumo data

dall’attivit{ lavorativa, come ad esempio le spese per l’acquisto degli abiti da

lavoro o per il trasporto verso il posto di lavoro, che non sussiste più durante il

pensionamento. Anche questa ipotesi è però screditata da Smith, che cita uno

studio di Banks, Bundell e Tanner (1998) in cui risulta il calo del consumo in età di

pensionamento è significativo anche a valle della sottrazione delle spese indotte

dal lavoro dalla spesa in consumo totale.

Smith spiega invece che una significativa parte della riduzione del consumo da

parte degli anziani può essere dovuta alla presenza di inaspettati shock negativi

nella ricchezza, che sono ammessi dal LCHM in condizioni di incertezza. Le cause

principali di questa riduzione inaspettata del valore attuale della ricchezza di cui

l’individuo si attende di disporre durante la restante parte della propria vita sono il

sopraggiungere di malattie gravi o il pre-pensionamento forzato. In questi casi

l’individuo andrà in pensione prima del tempo da lui razionalmente previsto, con

una conseguente riduzione del reddito anticipata; l’unica risposta che l’individuo

può dare sarà allora quella di rivedere i propri piani di consumo al ribasso. Smith

verifica la propria ipotesi andando a comparare panel data relativi alla spesa in

cibo pre e post pensionamento di nuclei famigliari del Regno Unito, classificati a

seconda che abbiano scelto volontariamente o meno di smettere di lavorare29. I

dati confermano l’ipotesi che gli individui il cui pensionamento è anticipato e

involontario riducono il proprio consumo in proporzioni significativamente

superiori agli altri. La presenza di questo gruppo contribuisce quindi a rendere

conto della riduzione della spesa media in consumo durante la vecchiaia, sebbene

non sia tale da poter essere considerata l’unica causa. La seconda motivazione

identificata da Smith si basa sull’idea che la funzione di utilit{ dell’individuo

dipenda non solo dal consumo durante la vita ma anche dal tempo libero. In questo

29 Si sottolinea come la scelta di utilizzare dati relativi alla spesa in cibo permetta di depurare dalla

spesa indotta dal lavoro e dall’eventuale accumulo di beni durevoli prima del pensionamento.

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caso allora sar{ l’utilit{ marginale data da consumo e tempo libero a mantenersi

costante; il consumo invece si modificherà in relazione a cambiamenti nel tempo

libero. L’individuo è vincolato nel monte di tempo libero di cui può disporre; in

particolare, in corrispondenza del pensionamento si avrà necessariamente un

aumento discreto e ingente dello stesso, in quanto in linea generale non è possibile

diminuire progressivamente le ore di lavoro.

Si sottolinea come le considerazioni di Smith attribuiscano un ruolo fondamentale

alla salute dell’individuo e alle sue preferenze in relazione al tempo libero. Si

deduce pertanto che, a parità di altri fattori, Paesi diversi si differenzieranno per

consumo, risparmio e ricchezza aggregati in base allo stato di salute medio di cui

gode la fascia di popolazione più anziana e in base all’importanza che mediamente

viene attribuita al tempo libero, variabili che non erano emerse dallo studio di

Modigliani e Brumberg.

2.8 Conclusioni

I contributi di letteratura analizzati evidenziano come le variabili demografiche

abbiano una fondamentale rilevanza nel determinare consumo,

risparmio/investimento e ricchezza aggregati di un paese. In sintesi, le più

rilevanti risultano essere:

- La durata del periodo di pensionamento, che determina il monte di

ricchezza che è necessario accumulare durante l’et{ attiva per poter

mantenere inalterato lo stile di vita una volta in pensione;

- La composizione in età della popolazione, che costituisce il ponte di

collegamento tra le grandezze individuali di consumo,

risparmio/investimento e ricchezza e i corrispettivi aggregati;

- Il tasso di crescita della popolazione, che a livello aggregato determina un

innalzamento del tasso di risparmio.

Oltre alle tre variabili principali sopra elencate, l’analisi condotta ha messo in luce

l’importanza di altri fattori, quali la crescita della produttivit{, la composizione del

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nucleo famigliare, la presenza di vincoli di liquidità, il sistema di Previdenza

Sociale, l’incertezza sulla durata della vita e il desiderio di lasciare un’eredit{.

Questi elementi concorrono nel determinare l’evoluzione del consumo individuale

nel ciclo di vita e di conseguenza – filtrate attraverso la composizione in età della

popolazione – influiscono sulle grandezze economiche aggregate.

Gli studi analizzati confermano quindi l’ipotesi di base da cui prende le mosse lo

studio che si va sviluppando, e cioè che la demografia riveste un ruolo chiave nella

determinazione delle grandezze economiche di un paese.

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3. Demografia e mercati finanziari

3.1 Obiettivi e struttura

Il ciclo di vita dell’individuo, presentato in precedenza, non vede la sua unica

applicazione in ambito economico: può infatti essere declinato anche dal punto di

vista finanziario. Percorrendo la storia di un investitore si possono riscontrare

delle similitudini tra individui della stessa età, arrivando così a definire un profilo

comune che permette di identificare una relazione tra fascia d’et{ e portafoglio

d’investimento. Partendo da questo tipo di ragionamento, si è sviluppato in

letteratura un filone di studi molto recente che sostiene la relazione tra

demografia, in questo caso identificabile nella variabile composizione in età della

popolazione, e andamento dei mercati finanziari. L’obiettivo di questo capitolo è

quindi analizzare nel dettaglio i risultati raggiunti in questo campo, cercando di

comprenderne l’utilit{ ai fini di un’analisi di tipo macroeconomico. Questo punto di

vista si contrappone all’idea da cui nasce la ricerca stessa in ambito finanziario, che

è strettamente mirata ad individuare possibili modi di sfruttare questa relazione a

fini di previsione, per una migliore gestione di portafoglio.

3.2 Introduzione

La relazione che lega economia reale e finanza è tema di dibattito fin da quando

esistono le scienze economiche. Diverso è il ruolo attribuito alla finanza in base al

punto di vista con il quale la si studia, ma ormai certa è la sua rilevanza per il

funzionamento dell’intero sistema economico. Per questo motivo, non si possono

ignorare le recenti ricerche in questo campo, le quali arrivano a definire un legame

tra l’andamento del mercato finanziario e la demografia.

Come si può facilmente intuire, di primario interesse è proprio l’elemento di

prevedibilit{ insito nell’esistenza di un legame. Per moltissimo tempo gli

economisti non hanno messo in discussione l’idea che il mercato finanziario fosse

guidato dall’efficienza e per questa ragione non fosse possibile stabilire una

relazione matematica tra l’andamento dello stesso ed altri fattori. Nel celebre

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Demografia e mercati finanziari _

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paper di Fama (1970) sono descritte e verificate in modo rigoroso le varie ipotesi

che riguardano l'efficienza del mercato, dove per efficienza di mercato si intende

una situazione in cui il mercato stesso riflette tutte le informazioni disponibili

incorporandole nel prezzo delle azioni. In uno scenario di questo tipo, non è

possibile ottenere sistematicamente dei guadagni tramite operazioni di

compravendita in quanto, nel lungo termine, il mercato riflette sempre in modo

perfetto il valore delle azioni stesse. Di conseguenza, non è possibile costruire

facilmente e ripetutamente delle posizioni di arbitraggio in grado di permettere

facili guadagni.

Ciò che è accaduto storicamente in questo campo è qualcosa di differente rispetto

alle tradizionali teorie economiche. Se, infatti, comunemente si ha prima lo

sviluppo di una teoria basata su assunzioni e ipotesi e poi il test empirico, ciò che è

accaduto nell’ambito dell’efficienza è lo studio di numerosi modelli empirici in

grado di descrivere l’andamento dei prezzi azionari e, solo in seguito, si è passati

allo studio delle motivazioni teoriche che possono portare a tali risultati. Il

prodotto di questa analisi dei modelli ha portato alla definizione della teoria

dell’efficienza di mercato, che in particolare è possibile suddividere logicamente in

tre forme:

- Efficienza in forma debole: gli studi relativi a questa forma di efficienza

derivano dall’analisi del prezzo di numerosi titoli azionari e del loro

comportamento statistico. In particolare, si riscontra una grande capacità di

descrizione dell’andamento dei prezzi tramite l’utilizzo di modelli di tipo

random walk. Si può quindi definire la funzione dei rendimenti come:

(3.1)

Dove f è la funzione che descrive l’andamento dei rendimenti r del titolo j

all’istante temporale t+1, mentre rappresenta il set di informazioni a

disposizione nell’istante t. La (N.1) riflette semplicemente l’idea che la

miglior previsione dell’andamento del rendimento all’istante di tempo t+1

dato un certo set informativo è uguale alla stessa previsione che si

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otterrebbe in assenza di tali informazioni. Per questo motivo, considerando

quindi l’andamento del prezzo di un’azione come un random walk, si può

descrivere l’andamento del rendimento come un semplice white noise del

tipo:

(3.2)

Dove è un white noise gaussiano e è il rendimento medio per tale

azione. Una semplice ma efficace descrizione del perché ciò avvenga fu data

da Cootner (1964): “Se un sostanziale gruppo di investitori pensasse che i

prezzi siano troppo bassi, acquisterebbero alzando così i prezzi. Lo stesso

sarebbe vero nel caso opposto. […] l’aspettativa condizionata del prezzo di

domani, dato il prezzo di oggi, è il prezzo di oggi. In un mondo così

strutturato, le uniche variazioni di prezzo deriverebbero da nuova

informazione. Dato che non vi è ragione di aspettarsi che tale informazione

sia non casuale, la variazione inter periodale del prezzo delle azioni dovrebbe

seguire dei movimenti casuali, statisticamente indipendenti gli uni dagli altri”.

Una vera e propria teoria che spiegasse questo fenomeno la dobbiamo però

agli studi di Samuelson (1965) e Mandelbrot (1966), che si occuparono di

razionalizzare tutti gli studi empirici svolti fino a tale momento storico. In

particolare, un mercato si dice efficiente in forma debole quando i prezzi

azionari riflettono tutta l’informazione disponibile, identificata nel solo

andamento storico dei prezzi stessi.

- Efficienza in forma semi-forte: questo tipo di efficienza fa riferimento ad un

grado maggiore di informazione disponibile. In particolare si sostiene che il

prezzo di un’azione rifletta tutte le possibili informazioni disponibili

pubblicamente, non solo l’andamento storico dei prezzi. Quando si vuole

testare questa ipotesi ci si scontra però con la difficoltà di definire quali

siano gli eventi che effettivamente generano informazione e come sia

possibile testarli. Ciò che è stato fatto è considerare principalmente quegli

eventi che inevitabilmente producono nuova informazione, come lo split

dell’azione stessa, l’annuncio di nuovi report finanziari o l’emissione di

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Demografia e mercati finanziari _

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nuovi titoli o warrants. A questo punto, per comprendere se il mercato sia

effettivamente efficiente, si è analizzato l’impatto di ogni tipo di questi

eventi sul prezzo di un’azione, singolarmente. L’idea di fondo è che sia poi

possibile aggregare le conclusioni ottenute per stabilire l’effettiva esistenza

di efficienza in forma semi-forte.

Un approccio di questo tipo è stato seguito dall’autore stesso, in Fama,

Fisher, Jensen e Roll (1969), dove lo studio fa riferimento principalmente

allo split di azioni. Altri studi rilevanti sono quelli di Ball e Brown (1968),

che si occupa delle variazioni di prezzo legate all’annuncio degli utili di un

dato anno, Waud (1970), riguardante l’impatto di annunci di variazioni del

tasso della FED, e Scholes (1969), il quale si occupa dell’effetto

dell’emissione di nuove azioni.

- Efficienza in forma forte: per forma forte si intende la possibilità dei prezzi

azionari di incorporare pienamente le informazioni esistenti, comprese

quelle non strettamente disponibili al pubblico o “privilegiate”. Questa

forma di efficienza è senza dubbio quella più controversa e di più difficile

discussione. Vari studi, tra cui Niederhoffer e Osborne (1966) e il

precedentemente citato Scholes giungono a conclusioni non pienamente

soddisfacenti, determinando che non esiste nel mercato reale una forma di

efficienza forte. Questo tipo di conclusione è comprensibile e ampiamente

condivisa, infatti, nella realtà esistono numerose leggi contro l’insider

trading, per impedire cioè che un individuo che dispone di migliori

informazioni, siano esse meno costose, più accurate o più rapide da

ottenere, possa agire sul mercato.

Un altro elemento da tenere in considerazione riguarda le condizioni sufficienti

che permettono di trovarsi in un mercato efficiente. Queste sono: l’assenza di costi

di transazione dovuti alla compravendita di titoli, tutte le informazioni pubbliche

sono disponibili senza costi a tutti gli enti operanti e tutti gli agenti di mercato

condividono una stessa valutazione del valore e della distribuzione dei prezzi

futuri dei titoli.

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E’ evidente che tali condizioni si verificano di rado in modo stabile e simultaneo nel

mercato reale. Si potrebbe quindi dubitare dell’efficienza dello stesso. Tali

condizioni però sono sufficienti ma non necessarie perché il mercato sia efficiente.

Anche in presenza di alti costi di transazione, per esempio, se le operazioni che

avvengono riflettono comunque tutta l’informazione disponibile, non si ha un

evidente impatto negativo della mancanza di tale condizione. Analogamente, è

sufficiente che la maggior parte degli operatori di mercato siano in possesso delle

informazioni, senza la necessità che tutto il mercato sia informato. Infine, anche in

una situazione in cui non tutti gli agenti sono d’accordo sulla valutazione di un

titolo, è sufficiente che vi sia una parte di essi in grado di esprimere correttamente

il valore del titolo stesso perché il mercato risulti efficiente.

Sebbene questa tesi sia ancora ritenuta valida per quanto riguarda il

comportamento di massima dei mercati, sembra possibile individuare una

componente di lungo periodo che presenti una certa “mean-reversion”. Con questa

espressione si fa riferimento alla tendenza del prezzo di azioni a ritornare, nel caso

si trovino a un alto o basso valore, alla loro media storica nel lungo periodo. Questo

concetto include un dato grado di prevedibilit{ dell’andamento del prezzo

dell’azione stessa. Lo studio che ha per primo mostrato questa possibilità si deve

ancora una volta a Fama e French (1988).

Ciò che viene introdotto dai due autori è un modello in grado di individuare

nell’andamento dei rendimenti un’autocorrelazione negativa nella componente di

lungo periodo della serie storica dei rendimenti stessi. Esso presenta però un

problema dovuto all’orizzonte temporale scelto: più il periodo di analisi preso in

considerazione è lungo, più la componente autoregressiva risulta rilevante, al costo

però di una minore precisione statistica. Entrano infatti in gioco i problemi tipici

legati all’uso di serie storiche così lunghe, come l’eteroschedasticit{ e la variazione

di alcuni parametri. Esiste quindi un trade-off tra precisione statistica del modello

e sua rilevanza e capacità predittiva.

In breve, il modello è così costituito:

(3.3)

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Dove è il logaritmo naturale del prezzo dell’azione considerata al tempo t ed è

somma di due componenti: definita come una random walk con drift atteso

pari a e con assunto come white noise e è una componente stazionaria.

In particolare, tale componente viene definita dai due autori prendendo spunto da

un altro lavoro, in particolare Summers (1986). Egli suggerisce che tale

componente sia un autoregressivo di prim’ordine del tipo:

(3.4)

Dove è un white noise e è molto vicino ma minore di 1. In seguito alla

definizione di questo semplice modello, i due autori si occupano delle implicazioni

derivanti dallo stesso e delle varie verifiche empiriche necessarie. La

considerazione che risulta più importante riportare riguarda l’analisi di generalit{.

I due autori si chiedono se la componente stazionaria del modello da loro

introdotto è dovuta a fattori che sono specifici della singola impresa o invece

fattori riguardanti l’economia nel suo complesso e di più facile analisi. Ciò è di

grande rilevanza, in quanto una componente di fondo negativamente autocorrelata

avrebbe poca utilità se fosse dovuta a fattori che vanno ricercati di volta in volta

nella storia di una singola azione. Tramite una serie di test sulla autocorrelazione

dei titoli e sull’andamento della stessa nel tempo, gli autori notano come questa sia

comune a tutti i titoli negli anni in esame, e, quindi, che sia indipendente da fattori

specifici della singola impresa. Altro elemento d’interesse che deriva dallo studio

dei due autori è l’andamento dell’autocorrelazione in base al lag temporale preso

in considerazione. Quello che gli autori ottengono è un andamento dalla forma ad

U. L’autocorrelazione negativa compare cioè con un lag temporale minimo di due

anni, tende ad aumentare in modulo nell’orizzonte che va dai tre ai cinque anni per

poi ridursi fino ad annullarsi. Ciò che si ottiene è quindi una autocorrelazione nulla

per brevi orizzonti temporali, i quali sono tipicamente utilizzati nei normali studi

previsionali dell’andamento dei titoli, un aumento del modulo della correlazione

nell’orizzonte che va dai due ai cinque anni e un ritorno a valori pressoché nulli

oltre i cinque anni, in quanto la componente random walk torna a prevalere.

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Questo andamento è per altro ben supportato da ragioni di carattere teorico, anche

se in letteratura sono presenti due possibili interpretazioni discordanti che

portano allo stesso risultato. L’autocorrelazione che si rileva potrebbe essere

dovuta a situazioni più o meno temporanee di inefficienza di mercato, come

sostenuto dagli studi di Summers (1986), o dal variare da parte degli agenti delle

previsioni riguardanti il rendimento dei titoli nel tempo.

Quale sia l'interpretazione valida delle due rimane campo di studio, ma ciò che è

importante ai fini di un'analisi orientata ai fattori demografici è la scoperta di una

componente di fondo, chiamata da ora in poi "informazione", che presenta una

certa prevedibilità su orizzonti temporali di medio e lungo termine.

L'insieme di studi che risultano quindi rilevanti fanno riferimento all'analisi della

scomposizione tra "rumore" e "informazione" e ai fattori che meglio sono in grado

di spiegare l'andamento della componente di lungo nel tempo.

3.3 Andamento dei mercati finanziari: una questione di età?

In seguito all'introduzione del concetto di "informazione", numerosi autori si sono

impegnati nello studio delle potenzialità di questo nuovo fattore a fini predittivi.

I primi studi che hanno inferito la possibilità di riscontrare una relazione tra

l'andamento dei mercati finanziari e variabili demografiche sono quelli di

Geanakoplos, Magill e Quinzii (2004). Gli autori in particolare partono con

l’analizzare l’andamento degli stock market nel periodo che va dal dopoguerra agli

anni 2000. In questo arco temporale, i mercati finanziari sono stati caratterizzati

da molte variazioni, ma è possibile individuare tre periodi principali: un primo

periodo, dal ’45 al ’66 caratterizzato da grande euforia e ripresa dopo la grande

guerra, un secondo periodo, tra gli anni ’70 e i primi anni ’8030, caratterizzato da

una forte discesa e infine un nuovo periodo di grande crescita a partire dalla

seconda metà degli anni ’80 alla fine del secolo. Vari studi economici si sono

occupati di identificare le cause dell’andamento dei mercati finanziari di questi

periodi. Tra le cause principali, vengono citate la “new economy” della fine del

secolo, alla quale si accompagna una diffusa opinione per la quale le nuove 30 Periodo in cui ricadono gli shock petroliferi.

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tecnologie avrebbero portato un così forte e permanente aumento di produttività

tale da giustificare un incremento del valore della borsa. Ad essa si affianca una

minore avversione al rischio da parte della generazione dei baby-boomers e una

maggiore partecipazione nei mercati finanziari.

A cause simili, legate a forti miglioramenti di produttivit{, si adduce l’ascesa dei

mercati negli anni successivi al dopoguerra. Molto numerose sono invece le

possibili spiegazioni che riguardano l’andamento fortemente negativo dei mercati

nel periodo degli shock petroliferi, tra cui viene citata la celebre spiegazione data

da Modigliani e Cohn (1979), secondo i quali in periodi di forte e inattesa

inflazione gli investitori soffrono di illusione monetaria. Per questo motivo,

tendono a valutare il mercato azionario guardando al tasso nominale di interesse

invece che guardare al tasso reale, sottovalutando sistematicamente il valore dei

titoli.

Ciò che gli autori si propongono di fare è trovare un'ulteriore causa in grado di

spiegare l’andamento del valore della borsa che sia comune a tutto il periodo preso

in esame. Se infatti le teorie sviluppate fino a questo momento sono efficaci nel

spiegare gran parte delle fluttuazioni, nessuna teoria è riuscita a trovare un unico

fattore che accomuna l’andamento dei mercati finanziari nell’arco dei 60 anni presi

in esame. In particolare, il fattore che si vuole introdurre riguarda la demografia e

il ruolo determinante della stessa nei comportamenti degli investitori. L’idea base

che sottostà allo studio riguarda le diverse esigenze di investimento degli individui

durante il ciclo di vita. Tipicamente ciò che si riscontra è un indebitarsi durante la

giovinezza, una fase di forti investimenti durante la mezza età che permetta di

ottenere così una valida pensione, e infine forti disinvestimenti nella terza età per

poter mantenere il proprio tenore di vita utilizzando i risparmi accumulati in

precedenza. Come si può notare, questo è un concetto di ciclo di investimenti che si

rifà direttamente alla Life Cycle Hypothesis of Savings presentata da Modigliani e

Brumberg (1954), che è stata analizzata nel dettaglio nel capitolo 2 (Demografia e

Teoria del Ciclo di Vita).

L’obiettivo degli autori è duplice: da una parte si vuole dimostrare attraverso

verifiche empiriche e modelli sempre più precisi che la tesi da loro proposta è

fondata, dall’altra si vogliono confutare una serie di studi eseguiti da vari autori

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dalla seconda met{ degli anni ’90 che vogliono dimostrare la sostanziale incapacità

delle variabili demografiche di spiegare l’andamento dei mercati. Tra questi è bene

citare gli studi empirici di Macunovich (1997, 2002) e Poterba (2001), che

affermano la scarsa rilevanza dei fattori demografici, e gli studi teorici di Brooks

(1998, 2002) e Bakshi e Chen (1994) che sostengono che a una popolazione più

giovane corrisponde un premio azionario – equity premium – più basso.

Queste due tesi sono confutate dagli autori con i loro modelli, che fanno uso di

strumenti di analisi più precisi e verosimili. In particolare, gli studi citati in

precedenza fanno uso di variabili demografiche stocastiche e generate

casualmente, mentre Geanakoplos et al. Introducono l’effettivo profilo delle nascite

che si è osservato negli anni presi in considerazione.

Il primo modello presentato è deterministico, con un rateo di adulti rispetto ai

giovani che è alternativamente alto e poi basso, periodi della durata di 20 anni e

dividendi visti come flussi continui in ogni periodo. Anche se il modello è

particolarmente semplice, presenta subito un certo grado di interesse dovuto ai

dati che sono utilizzati in input: il profilo della popolazione, l’andamento dei

dividendi e dei salari è costituito da dati reali del periodo in esame.

In Figura 3.1 è rappresentato il numero di nascite per anno, dal periodo che va dal

1910 al 2005. Si noti che per il periodo dal 1910 al 1950 si hanno dati a frequenza

quinquennale e si sono ottenuti i valori mancanti tramite una interpolazione

lineare e di conseguenza i dati reali potrebbero presentare un andamento

differente. Come si nota, l’andamento della popolazione segue dei pattern precisi e

facilmente identificabili, con un totale di tre fasi di crescita della natalità e due fasi

di forte decrescita, evidenziati dalle barre rosse verticali. Analogamente, gli autori

si servono di dati storici per quanto riguarda l’andamento dei dividendi generati

dai titoli nel tempo e il salario reale suddiviso per fasce d’et{.

Il modello che viene introdotto è come detto deterministico e si basa sulla funzione

di utilità degli individui intertemporale. In particolare, ogni individuo attraversa

quattro fasi durante la sua vita: dagli 0 ai 19 anni è un bambino e non viene

considerato nel modello, dato che in quanto tale non produce reddito e non opera

sui mercati finanziari; dai 20 ai 39 è un individuo giovane, prende a prestito e ha

un salario basso; dai 40 ai 59 anni è un adulto, investe per il periodo successivo

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della sua vita e ha il più alto salario; infine, dai 60 anni ai 79 è in pensione,

disinveste per poter consumare e non produce salario.

La funzione di utilità sarà di conseguenza la seguente:

(3.5)

Dove rappresenta il flusso dei consumi casuali di un agente nelle

sue tre fasi di vita, mentre è il tasso di sconto. Dato che ogni periodo del

modello corrisponde a 20 anni di vita, 0.5 equivale ad un tasso annuo di sconto

pari a 0.97.

Per la calibrazione del modello, la funzione di utilità utilizzata è una funzione

isoelastica del tipo:

(3.6)

Figura 3.1: andamento nascite.

Fonte: rielaborazione di dati da infoplease.com.

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dove è il coefficiente di avversione al rischio. Per comprendere facilmente

l’andamento del modello, è sufficiente capire il pattern di comportamento del rateo

di adulti in rapporto ai giovani. Partendo dal primo periodo del modello, ci si trova

in una situazione in cui un ampio numero di giovani è introdotto, per poi passare al

secondo periodo del modello in cui i giovani sono in numero minore. Si crea così

una situazione in cui, ad anni alterni, varia la proporzione di individui facenti parte

i tre grandi gruppi di età. Nel primo periodo sarà alto il numero di giovani, basso il

numero di adulti e di nuovo alto il numero di anziani. Il periodo successivo, visto il

minor numero di giovani, dovuto al più basso tasso di natalità del periodo

precedente, ci si troverà in una situazione opposta: si avranno molti adulti e pochi

giovani ed anziani. E’ immediato notare come nei vari periodi si modifichi di

conseguenza anche il comportamento aggregato degli agenti sul mercato. Come

detto infatti i giovani chiedono in prestito per via del basso reddito di cui

dispongono, gli adulti investono per il periodo di pensionamento e hanno i più alti

guadagni mentre gli anziani non hanno salario e disinvestono. Diventa così

particolarmente importante al fine di comprendere l’andamento del prezzo degli

asset il rapporto che vi è tra il numero di giovani e il numero di adulti. Per questo

motivo, la variabile tipicamente considerata in questo tipo di studi è il rapporto tra

adulti e giovani, o medium-to-young ratio (MY).

Formalmente, il modello prevede l’esistenza di un solo bene di consumo. Definito il

prezzo di un bond al tempo t come , esso rappresenta la quantità di unico bene

necessario al tempo t per poter acquistare un’unit{ di bene nel periodo successivo.

Di conseguenza, il tasso di interesse del periodo t al periodo t+1, definito come , è

ottenuto semplicemente come:

(3.7)

Dato l’alternarsi delle caratteristiche demografiche della popolazione nella

semplice formulazione utilizzata, è di facile dimostrazione l’esistenza di due prezzi

di bond di equilibrio, uno per i periodi dispari, pari a , e uno per i periodi

pari, dato da . Gli individui possono utilizzare l’investimento in bond per

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trasferire la propria ricchezza da un periodo all’altro della loro vita,

massimizzando così la loro funzione di utilità sotto il vincolo:

(3.8)

Dove C è il consumo nei vari periodi temporali e w rappresenta invece il salario.

Questo vincolo è valido per il primo periodo di iterazione del modello e per tutti i

periodi dispari, mentre per i periodi pari, dato il valore dei bond ottenuto in

precedenza, si avrà:

(3.9)

Dal momento che non è ammessa incertezza, i bond e i titoli azionari devono

essere sostituti perfetti in ogni iterazione del modello. Utilizzando la proprietà di

non arbitraggio dei mercati in equilibrio, il ritorno sull’investimento dovuto ai

bond deve essere equivalente al ritorno dovuto ai titoli azionari. Così, se i bond si

alternano tra valore e valore , analogamente i titoli azionari si alterneranno

tra e

e varrà la seguente relazione:

(3.10)

Da tali equazioni si nota come i tassi di interesse siano alti quando i valori azionari

sono in aumento e bassi quando invece sono in diminuzione. Analizzando il

modello nel complesso, ciò che si ottiene è di semplice intuizione: nei periodi

dispari, la situazione demografica comporta un eccesso di pensionati in relazione

agli adulti, con conseguente eccesso di domanda di consumo. Nei periodi pari

invece, la situazione si ribalta vedendo un eccesso di adulti che intendono

risparmiare per la loro pensione, creando una situazione di eccesso di domanda di

risparmio. Perché la situazione sia in equilibrio, nel primo caso si avranno dei tassi

di interesse alti che scoraggino i consumi mentre nel secondo caso i tassi di

interesse si abbasseranno scoraggiando i risparmi. Infine, per la proprietà di non

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arbitraggio, i prezzi degli asset saranno più alti nei periodi pari rispetto ai periodi

dispari.

Gli autori analizzano inoltre il risultato del modello nelle due ottiche prima

introdotte, quella miope e quella razionale. Se gli agenti sono miopi, non

comprendono il comportamento dei mercati dovuto alle variabili demografiche. Si

ha così una situazione, come sopra descritto, con un effetto di tali variabili che

spiega circa il 50% dell’andamento dei prezzi azionari.

Nel caso invece si abbiano degli agenti razionali, essi saranno in grado di capire che

l’andamento della demografia avr{ un forte impatto sull’equilibrio del sistema

economico. Di conseguenza, ciò che faranno sar{ incrementare i risparmi nell’et{

adulta nei periodi che vedono un alto numero di adulti, in quanto una volta

raggiunta l’et{ di pensionamento si troveranno in una situazione in cui il consumo

sarà scoraggiato e vorranno equilibrare questa condizione. Così facendo, si otterrà

un effetto della demografia ancora più forte di quello che si ottiene in situazione di

agenti miopi. Nel caso di agenti razionali però, si dovrà tenere conto anche di un

altro elemento di interesse: tali agenti saranno anche a conoscenza del fatto che il

prezzo degli asset è più alto nei periodi da dispari a pari che non nei periodi

opposti. Di conseguenza, il costo di consumare in tali periodi sarà inferiore per gli

adulti, creando un effetto sostituzione che spinge a risparmiare meno e spendere

di più, in contrasto rispetto a quanto visto in precedenza. Questo effetto

sostituzione è catturato dal reciproco del parametro introdotto in precedenza.

Nonostante questo, supponendo che gli individui abbiano in ogni caso un’elasticit{

alla sostituzione bassa, si avrà che complessivamente in uno scenario che vede la

presenza di agenti razionali, l’effetto delle variabili demografiche sia rafforzato.

In seguito, gli autori complicano il modello introducendo più elementi che però

non alterano la linea di pensiero presentata in precedenza. In particolare, si

introducono variabili che tengano conto dei nuclei famigliari, degli shock

all’economia e si riducono sempre più le lunghezze dei periodi. Inoltre, tutti i

parametri introdotti sono ottenuti tramite tecniche econometriche che permettono

un’attenta calibrazione sull’andamento storico che si è verificato. Anche con il

modello complesso, i risultati ottenuti sono molto significativi e portano a

conclusioni a favore delle variabili demografiche. Si individua una relazione stabile

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tra andamento dei mercati finanziari e variabile MY, in particolare a cambiamenti

nella struttura di MY corrispondono variazioni nei valori azionari. Ciò che è bene

comprendere però è che, con la crescente internazionalizzazione dei mercati, il

parametro MY non dovrà più essere semplicemente misurato nella nazione di

appartenenza dei titoli, ma comprendere anche tutte le nazioni partecipanti a tale

mercato.

Il contributo apportato da Geneakoplos et al. è di notevole importanza nell’ambito

della comprensione dei fattori che sottostanno l’andamento dei mercati. Com’è

facile notare, questo tipo di studi non trova immediato impiego per gli operatori di

mercato, in quanto definisce il periodo di analisi su un orizzonte troppo lungo

perché sia di utilit{ nel trading. E’ invece molto più efficace per i policy makers, i

quali si propongono di comprendere l’andamento dei prezzi degli asset con lo

scopo di agire sui tassi in modo adeguato. Ovviamente la demografia non è l’unico

elemento utile per prevedere il comportamento dei mercati, ma è senza dubbio

una delle determinanti dei movimenti di lungo periodo del mercato stesso. Sapere

che in un dato periodo futuro ci si troverà più probabilmente in una situazione di

surriscaldamento dei mercati può permettere di prendere decisioni più

strutturate.

3.4 I modelli DDG e una possibile integrazione

Se da una parte la trattazione di Geneakoplos et al. risulta innovativa e capace di

creare un dibattito intorno ad un tema così poco sviluppato, dall’altra si sente

l’esigenza di un modello quantitativo in grado di testare più efficacemente le varie

ipotesi presentate. Prima di presentare uno studio che si pone proprio questo

obiettivo, è bene introdurre un lavoro di Campbell e Shiller (1988), dal quale le

successive elaborazioni prendono spunto, e che risulta di interesse anche in

quanto modello capace di esprimere la distinzione tra “informazione” e “rumore”

di cui si è parlato nell’introduzione del capitolo. In dettaglio, la formulazione

presentata dai due autori si propone come modello Dividend Discount Growth

(DDG - Vedi Allegato D).

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I due autori, infatti, si interrogano sul significato di una variazione nel tempo del

dividend/price ratio31. In letteratura vi sono due differenti visioni di tale

fenomeno: da una parte, può essere visto come un predittore per i dividendi,

assumendo alti valori quando le previsioni di crescita dei dividendi futuri sono

negative; dall’altra, può essere interpretato come il riflesso del valore del tasso di

sconto che viene applicato, assumendo alti valori quando tale tasso è alto. I due

autori vedono come possibili entrambe le interpretazioni e introducono un

modello che permetta di verificarne la veridicità. Tale modello costituirà una

naturale estensione del modello di Gordon e Shapiro (1956), che è valido per un

tasso di crescita indefinitamente invariante nel tempo.

L’idea base sul quale è costruito è che il logaritmo dei dividendi e il tasso di sconto

siano due importanti elementi di un vettore di variabili che descrive lo stato

dell’economia in un dato istante temporale. Questo vettore evolve nel tempo come

un processo lineare stocastico multivariato con coefficienti costanti. L’ipotesi di

coefficienti costanti è ritenuta accettabile in quanto implica che i manager

prendano decisioni sui dividendi senza considerare il valore in borsa dell’azione

della loro impresa, fatto che risulta plausibile. Gli attori del mercato inoltre

osservano questo vettore nel tempo e lo utilizzano per fare previsioni sui futuri

dividendi logaritmici e tassi di sconto.

Sulla base di uno scenario così costituito, è possibile trarre alcune considerazioni

rilevanti. In primo luogo, la differenza di prezzo ex post delle azioni rispetto al

tasso di sconto ex post non può essere prevista tramite un modello di regressione

lineare; è possibile però utilizzare il dividend-price ratio come un predittore

ottimale per i tassi di crescita dei dividendi e i tassi di sconto. Il problema degli

autori nel verificare questo scenario riguarda l’osservabilit{ delle variabili in

questione. Se, infatti, non ci sono problemi nel reperire i dati riguardanti i

dividendi, non è così semplice misurare il tasso di sconto applicato dal mercato,

che è teoricamente ottenibile come informazione dal valore stesso delle azioni. Al

fine di ridurre al minimo le implicazioni dovute a un’errata misurazione del tasso

31 Anche detto D/P ratio, o dividend yield.

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di sconto nel modello, gli autori costruiscono quattro differenti modelli che

catturano tale dato in modo differente:

- Modello 1: in questo semplice modello, il tasso di sconto è preso come

costante nel tempo;

- Modello 2: nella seconda iterazione, si utilizza come tasso di sconto il tasso

ex ante sul debito di breve (misurato sui Treasury bills americani) sommato

ad un premio per il rischio costante;

- Modello 3: questo terzo modello utilizza il tasso atteso di crescita del

consumo aggregato ex ante per capita moltiplicato per il coefficiente di

avversione al rischio, sommato al premio al rischio;

- Modello 4: questa versione differisce dalla precedenti in quanto si basa su

di una diversa assunzione. La variabile che si modifica nel tempo è infatti il

premio al rischio, misurato come il prodotto tra la varianza condizionale dei

tassi di sconto moltiplicata per il coefficiente di avversione al rischio, al

quale viene sommato un valore costante di tasso privo di rischio.

La trattazione matematica dello studio non è qui riportata in quanto non si ritiene

di interesse per il tema in esame. E’ importante però introdurre le conclusioni a cui

giungono gli autori in quanto permettono di comprendere quali spunti il loro

lavoro abbia dato a quello successivo di Favero e Tamoni (2010a, 2010b), la cui

rilevanza è chiave ai fini della analisi e che verrà analizzato nel dettaglio in seguito.

Innanzitutto, i due autori verificano la relazione presente tra il log dividend-price

ratio e la crescita futura dei dividendi. D’altra parte però non si riesce a verificare

una relazione statisticamente rilevante tra i tassi di sconto e l’andamento dei

prezzi delle azioni, nonostante i vari modelli introdotti. Infine, una componente

sostanziale della variazione del log dividend-price ratio rimane del tutto non

spiegata dal modello. Questo ultimo risultato, non di certo confortante, è

parzialmente attenuato dal fatto che gli autori si rendono conto di una crescente

capacit{ previsionale del loro modello all’allungarsi dell’orizzonte temporale di

riferimento. I loro primi test, riguardanti dati di un solo anno, riconoscono al

modello una capacità previsionale decisamente inferiore rispetto a quella

riscontrata utilizzando dati di periodi più lunghi. Questi risultati sono analoghi a

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99

quelli presentati in precedenza di Fama e French, nonché ad un altro studio da

parte di Flood, Hodrick e Kaplan (1986).

Ed è proprio da queste ultime considerazioni che deriva l’idea di modellazione

presentata da Favero e Tamoni (2010a, 2010b).

Come appena accennato, questo contributo è particolarmente rilevante. I due

autori si occupano della relazione che sussiste tra la componente di “informazione”

presente nell’andamento degli indici finanziari e il precedentemente introdotto MY

ratio. Il metodo da loro utilizzato per la scomposizione in “rumore” e

“informazione” fa uso dei risultati raggiunti da Campbell e Shiller (1988). I due

autori, come visto, non si occupano in realtà direttamente di questo tema, ma il

loro modello DDG per la previsione dei tassi di crescita reali dei dividendi viene

preso come ispirazione da Favero e Tamoni.

Questi ultimi, infatti, si pongono l’obiettivo di coniugare il modello di Campbell e

Shiller con le intuizioni di Geneakoplos et al, completando la capacità previsionale

dei dividendi in relazione alla componente “informazione” tramite l’introduzione

del MY ratio come seconda variabile predittiva.

Da notare come anche la componente demografica possa permettere una

scomposizione tra “informazione” e “rumore”. Analizzando la componente di

rischio dei mercati azionari, misurata tradizionalmente come la varianza e

covarianza condizionale del ritorno a un periodo, si nota come utilizzando MY

come predittore si ottengano naturalmente due componenti distinte, una ad alta

frequenza e una a bassa frequenza. La possibilità di avere queste due componenti

distinte è particolarmente utile nel caso si vogliano costruire modelli previsionali

non interessati ai ritorni di brevissimo termine, ma in grado di spiegare

l’andamento dei mercati azionari tramite l’utilizzo di variabili macroeconomiche.

Queste ultime sono tipicamente caratterizzate da variazioni più lente nel tempo e

non sono di conseguenza adeguate in modelli ad alta frequenza.

Dal punto di vista della modellizzazione, gli autori iniziano esponendo brevemente

il modello DDG di partenza, derivato sostanzialmente dal precedente lavoro di

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Campbell e Shiller. In breve, il modello, sotto l’ipotesi di stazionariet{ del P/D ratio,

è costruito come segue32:

(3.17)

Dove alla sinistra dell’uguale troviamo il ritorno totale del mercato azionario, alla

destra invece vi sono gli elementi che lo compongono, con la lettera d che sta ad

indicare i dividendi, dp il dividend-price ratio, k la media costante di equilibrio di

lungo periodo attorno alla quale è svolta la linearizzazione da cui deriva il modello

e

. Non si vuole esaminare nel dettaglio questa formulazione, dal

momento che sarà presentata a breve la variazione comprendente anche la

variabile demografica. Si vuole però segnalare che in questo modello sono presenti

numerose difficoltà derivanti dalle ipotesi sottostanti il modello stesso. Gli autori si

occupano di esaminarne alcune, focalizzando però l’attenzione sul risultato più

interessante del modello stesso, cioè il modo in cui permette di rendere

trascurabile la componente di “rumore” su lunghi orizzonti previsionali,

permettendo una facile identificazione della componente di “informazione” a cui

gli autori sono interessati.

Il modello che ottengono introducendo la variabile demografica prescelta, in

questo caso MY prendendo spunto dal paper di Geneakoplos et al, è il seguente:

(3.18)

La prima equazione presentata differisce da quella precedentemente introdotta

solo nel termine k, che è rimosso. Questo perché la linearizzazione attorno alla

quale viene costruita tale funzione non è più considerata costante ma variabile

32 Tutte le variabili sono in logaritmo.

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attorno alla struttura della popolazione, catturata da MY. Questa variabile si evolve

molto lentamente nel tempo ed è facilmente prevedibile in quanto dipende dalle

decisioni di natalità precedenti. Essa costituisce la parte in grado di catturare

l’”informazione” e non ha errore, in quanto è presa come deterministica dal

momento che è altamente prevedibile per il periodo di analisi solitamente preso in

considerazione. Errore però che è presente ed attribuito al D/P, nella forma di

. Importante anche notare come , dal momento che D/P è affetto da

mean-reversion ed è destinato a tornare al suo valore di lungo periodo catturato

dalla variabile di “informazione”. Eventuali scostamenti da questo valore, dovuti a

shock, sono da considerarsi temporanei. Queste implicazioni sono verificate dalle

prove empiriche, che dimostrano come il D/P abbia delle variazioni lontano dalla

sua media di lungo, catturata dalla variabile demografica, a frequenza

estremamente alta e quindi trascurabile rispetto alle variazioni di lungo della

media stessa.

L’altro termine di errore presente nel modello, , spiega invece il

comportamento della crescita dei dividendi, che può essere visto come

sostanzialmente non prevedibile.

Procedendo nello sviluppo del modello, si può sviluppare la prima equazione m

passi avanti nel tempo ottenendo:

(3.19)

Questa equazione mostra come il modello sia in grado di prevedere i ritorni di

lungo periodo. Una deviazione del D/P ratio dal suo valore di equilibrio, infatti,

permette di prevedere il ritorno azionario di m periodi in avanti, ammesso che m

sia abbastanza grande da rendere così trascurabile l’ultimo addendo di tale

equazione.

L’ultimo passaggio permette di rendere il modello adatto ai dati di cui si dispone.

L’ipotesi sottostante implica che il valore attorno il quale l’equazione viene

linearizzata dal tempo t al tempo t + m sia il valore atteso condizionale del dividend

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yield per il tempo t + m data l’informazione conosciuta al tempo t. Questo permette

di scrivere:

= 22 =1 22 1 23 + + +

(3.20)

Da questa formulazione si nota come, con l’estendersi dell’orizzonte temporale di

riferimento, la componente di “rumore” perde di rilevanza, rendendo la

componente di mean-reversion del dividend yield predominante. Per quanto

riguarda i due noise presenti nel modello, si può affermare che sia trascurabile,

in quanto per crescenti valori di m, tende rapidamente a 0 anche con valori di

prossimi all’unit{. Per quanto riguarda , la situazione è più complessa: per valori

di prossimi all’unit{ tale elemento diventa persistente nell’equazione e non può

essere ignorato, mentre con valori più bassi di anche tale componente si annulla.

Nel dettaglio, dall’equazione (3.20) si possono derivare tre principali risultati di

interesse:

- La capacità del modello di prevedere il rendimento nel tempo migliora

all'aumentare dell'orizzonte temporale preso in considerazione, quindi al

crescere di m.

- Come evidenziato anche in altri studi33, i residui del modello così costruito

sono caratterizzati dalla presenza di una componente a media mobile che va

trattata correttamente nell'analizzare i risultati.

- Infine è importante notare come utilizzando tale modello a scopi predittivi,

si avrà una struttura del rischio di mercato dipendente da m così definita:

(3.21)

33 Si veda, in particolare, Valkanov (2003).

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Che come si può facilmente notare si riduce all'aumentare di m, fatto

facilmente comprensibile dal momento che la componente di "rumore" del

modello tende a 0 con l'aumentare di m.

Il modello viene poi testato empiricamente dai due autori, tramite il Metodo

Generalizzato dei Momenti (GMM). Il set di dati fa riferimento al periodo

temporale che va dal 1910 al 2008 e permette di ottenere risultati molto

significativi. Si nota infatti come il parametro demografico introdotto da questo

studio, MY, sia significativo. Tale parametro risulta anche incredibilmente efficace

nel catturare l'"informazione", risultando ideale nel supportare il modello nel suo

fine di predittore di lungo periodo. Questo risultato è ben evidente in Figura 3.2,

rappresentata in seguito.

Un altro elemento di notevole importanza legato all'utilizzo della variabile MY

riguarda la facilità nel reperire dati inerenti ad essa. Non solo è possibile trovare

serie storiche complete e accurate per la maggior parte dei paesi, ma in molti casi è

Figura 3.2: efficacia di MY nel catturare l’”informazione”.

Fonte: Favero e Tamoni (2010).

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altrettanto semplice ottenere delle previsioni sull'andamento di tale variabile con

un orizzonte temporale molto lungo. Esistono per esempio delle stime riguardanti

il comportamento di MY negli Stati Uniti fino al 2050, fornite dal Bureau of Census

(BoC).

Il paper di Favero e Tamoni non si limita a queste analisi ma compie anche studi

accurati sull'andamento del rischio tramite tecniche VAR (Vector Auto Regression)

che però non verranno affrontate in questa sede. Si vuole invece evidenziare il

grande apporto di questo studio nella determinazione di una relazione tra variabili

demografiche e comportamento dei rendimenti dei titoli azionari. La capacità di

prevedere l'andamento di lungo periodo dei rendimenti può essere utile per vari

motivi. Da una parte si può avere una capacità previsionale dello stato "di fondo"

dei mercati finanziari, inteso come una naturale componente a bassa frequenza che

si può trovare in uno stato più o meno "critico" rispetto alla media storica.

Dall’altra, è possibile sfruttare questa informazione per eseguire manovre

correttive con il giusto anticipo: si possono prendere decisioni in modo proattivo,

adeguando i tassi al rialzo in periodi in cui i mercati tenderebbero naturalmente a

crescere o, nel caso opposto, adeguandoli verso il basso per ridurre la possibilità di

entrare in una recessione.

3.5 Conclusioni

Nonostante nel corso del capitolo si siano esaminati numerosi studi, risulta

evidente che i risultati davvero interessanti sono da attribuire a uno studio

specifico tra quelli presentati: quello di Favero e Tamoni (2010). In particolare, la

variabile MY ratio da loro introdotta, è estremamente efficace nello spiegare due

fenomeni legati alla composizione in età della popolazione: da una parte vi è

l’andamento di fondo dei mercati finanziari, denominato “informazione”, che vede

nel MY ratio un ottimo predittore se combinato con il dividend yield; dall’altra vi è

la volatilit{ dei mercati stessi, che risulta inferiore in periodi in cui l’MY ratio è

elevato. Sebbene non di primario interesse per lo studio dell’andamento

economico legato alla demografia, specie se confrontate con altri risultati ottenuti

in letteratura, queste due relazioni non sono da ignorare. Il forte impatto dei

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mercati finanziari sull’andamento dell’economia reale è ormai fatto certo; di

conseguenza è bene poter disporre di uno strumento addizionale per la

comprensione dei mercati stessi. Per questo motivo Le considerazioni trattate in

questo capitolo verranno tenute in considerazione anche nelle analisi successive,

con lo scopo di meglio delineare una relazione generale tra variabili demografiche

ed andamento dell’economia.

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107

4. Demografia e politiche monetarie: sviluppi

recenti

4.1 Obiettivi e struttura

In questo capitolo si analizzano i primi modelli teorici che trattano della relazione

tra variabili demografiche e politiche monetarie. L’obiettivo è duplice: da una

parte, si vogliono evidenziare i primi risultati ottenuti in relazione al tema;

dall’altra, si mira a comprendere le difficolt{ e i limiti delle analisi condotte, di

modo da evidenziare opportunità di sviluppo.

Il capitolo prende le mosse dalla discussione della rilevanza dell’evoluzione delle

variabili demografiche per le banche centrali, con riferimento anche al ruolo delle

politiche fiscali. In seguito si presenta un contributo di Gertler (1997), che

costituisce il primo modello economico caratterizzato da comportamento del Ciclo

di Vita. Si discutono poi due modelli di politica monetaria basati su Gertler. Il

primo, proposto da Fujiwara e Teranishi (2007), si focalizza sugli effetti

determinati da shock tecnologici e monetari in corrispondenza di diverse

composizioni della popolazione in fasce di età e sui diversi effetti che gli shock

determinano su lavoratori e pensionati. Il secondo, presentato dalla BCE (Kara e

Thadden, 2010), analizza invece quali possano essere le manovre monetarie da

utilizzare in corrispondenza di diverse evoluzioni della popolazione, con

particolare riferimento alla situazione europea.

4.2 Introduzione

Sebbene l’attenzione nei confronti degli aspetti demografici e dei loro effetti sia

cresciuta in modo rilevante negli ultimi anni, la letteratura che si occupa di un

legame diretto tra cambiamenti demografici e politiche monetarie è ancora molto

limitata. Se, da una parte, non si nega la presenza di forti trend, come

l’invecchiamento della popolazione e l’allungamento della vita media in Occidente

o l’elevato tasso di natalit{ in Asia, dall’altra si vede ancora la demografia come un

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Demografia e politiche monetarie: sviluppi recenti _

108

elemento estraneo. E’ infatti indubbio che tali trend influenzino principalmente i

governi e le politiche fiscali e pensionistiche che gli stessi mettono in pratica.

Questo però non deve indurre a non considerare la necessità di politiche

monetarie responsabili e informate, come giustamente sottolineato da Bean

(2004). Nello specifico, si ritiene che tale testimonianza sia esemplificativa di

quelle che sono le principali sfide che i cambiamenti demografici pongono alle

banche centrali. Tali cambiamenti sono identificati in: il progressivo allungamento

della vita media, la riduzione del tasso di fertilità e lo shock provocato dal picco di

nascite avvenuto in molti paesi in seguito alla Seconda Guerra Mondiale. Per Bean,

tali fattori hanno un primario legame con il tasso di crescita del GDP pro capite, i

risparmi e gli investimenti. Come si è studiato estensivamente nel capitolo relativo

al LCHM, la teoria e le evidenze empiriche dimostrano che, in una popolazione che

invecchia, l’effetto primario dovuto ad un innalzamento dell'et{ media nel lungo

periodo è una riduzione dei risparmi aggregati. In un primo periodo vi sarà, infatti,

un aumento dei risparmi dovuto alla necessità di avere una maggiore ricchezza da

consumare per via della più lunga durata della vita. In seguito però, in uno stato di

equilibrio di lungo, il maggior numero di anziani che si trovano a consumare la

ricchezza accumulata causerà una riduzione dei risparmi.

Altri elementi che vengono citati sono: l’aumento della durata del periodo

lavorativo, in quanto gli individui devono risparmiare di più per far fronte ad un

periodo di pensionamento più lungo; l’incremento dell’abilit{ media dei lavoratori,

in quanto hanno un’et{ maggiore e quindi maggiore esperienza; la riduzione del

tasso naturale di interesse, per via della riduzione dei risparmi aggregati a fronte

di una curva degli investimenti invariata.

Tutti questi elementi possono però differire nel caso ci si trovi in un’economia con

un grado di apertura elevato, dove la circolazione dei capitali e della forza lavoro

sono agevolati. In tal caso, gli effetti di una popolazione che invecchia si

vedrebbero primariamente sulla bilancia delle partite correnti e sui tassi di cambio

reali34. Questi effetti non saranno approfonditi in questa sede, dove si fa

riferimento ad un’economia chiusa.

34 Lo squilibrio che si genererebbe nella relazione risparmi-investimenti sarebbe colmato da un

flusso in ingresso o uscita di capitali.

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Tutto ciò che riguarda i cambiamenti demografici è però caratterizzato da una

rapidità di sviluppo estremamente bassa. Affinché si abbiano cambiamenti

consistenti nella composizione della popolazione, si deve guardare ad un orizzonte

temporale di almeno un decennio. Questo fatto rende a prima vista di poca

importanza la necessità di operare con delle politiche monetarie che abbiano un

occhio di riguardo per la demografia. Ed è proprio qui che Bean dà il suo principale

contributo: il mezzo di “trasmissione” che rende le variazioni demografiche dei

veri e propri shock a cui prestare attenzione sono le politiche fiscali.

I governi devono infatti decidere come modificare i propri piani pensionistici. Una

prima possibilità consiste nel ridurre le pensioni erogate, mantenendo il livello di

tassazione attuale. In questo caso, gli individui si troverebbero nella situazione di

dover incrementare i propri risparmi al fine di sopperire alla riduzione del

supporto dei governi. Questo comporterebbe un maggiore peso dei piani

pensionistici privati, con una più alta quantità di risparmi investiti in borsa. Se

invece si opta per mantenere costante l’impegno nelle pensioni, l’unica opzione che

i governi hanno per mantenere il bilancio in pareggio nel lungo è alzare le tasse a

quella parte di popolazione che lavora. Se questo non fosse sufficiente, è richiesto

un contemporaneo aumento dell’et{ pensionabile, manovra non sempre di facile

attuazione.

Qualunque sarà la decisione presa dai vari governi, ciò che risulta evidente è che la

tendenza odierna è rimandare il più possibile l’attuazione della politica scelta. La

conseguenza di ciò è che, invece che ottenere un progressivo e graduale

adattamento del sistema economico, si avrà una brusca variazione nel momento in

cui si sarà costretti ad intervenire. Ed è proprio questo meccanismo che Bean

individua come pericoloso per le banche centrali, che si troveranno di fronte ad

uno shock più rapido di quanto si può ora auspicare.

Riassumendo, si possono elencare i seguenti punti chiave derivanti da tale

situazione:

- Un calo del tasso naturale di interesse. Questo risultato, già introdotto nei

capitoli precedenti, non è destabilizzante in quanto tale variazione non è

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Demografia e politiche monetarie: sviluppi recenti _

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troppo significativa. Inoltre, fattori come l’aumento della produttivit{

causano effetti opposti che smorzano la riduzione.

- Una riduzione del tasso naturale di disoccupazione. L’invecchiamento della

popolazione causa infatti una riduzione sia del tasso di ingresso di nuovi

lavoratori che del tasso di uscita dal mondo del lavoro. Come si può

facilmente comprendere, una riduzione della forza lavoro entrante riduce

anche il numero di persone in cerca di nuovo impiego mentre un’et{ di

pensionamento più alta riduce il numero di posti lasciati a disposizione. Nei

modelli standard di matching, la risultante di questi due effetti contrastanti

è un più basso tasso di disoccupazione naturale. Contemporaneamente a

questo, si presenta un altro effetto già presentato nel Capitolo 1

(Demografia, volatilità e altri elementi strutturali): una ridotta volatilità nel

mercato del lavoro.

- Una modifica del tasso di interesse come mezzo di trasmissione delle

politiche monetarie. Questo è un tema molto delicato, che riguarda la

variazione della rilevanza di tre principali canali: l’effetto ricchezza, la

sostituzione intertemporale e il problema del razionamento del credito. Il

primo di questi tre canali è più importante per gli anziani, in quanto

consumano proprio utilizzando la ricchezza accumulata. Gli altri due canali

sono invece di maggiore rilevanza per la fascia di popolazione più giovane.

Per quanto riguarda la sostituzione intertemporale, per i giovani una

modifica del tasso comporta più che per gli anziani la necessità di bilanciare

i consumi nell'arco della vita in modo ottimale. Il razionamento invece

influenza maggiormente i giovani in quanto è più difficile che essi abbiano

un collaterale come garanzia. Di conseguenza, il canale della ricchezza

assumerà un ruolo sempre più centrale, per di più rafforzato nel caso in cui i

governi decidano per manovre che riducono il supporto delle pensioni,

portando gli individui a risparmiare di più con un ulteriore aumento della

ricchezza stessa. Da questa variazione deriverà una variazione degli effetti

delle politiche monetarie. Sfortunatamente, come questo avverrà e con

quale intensit{ risulta tutt’ora non prevedibile applicando i comuni modelli

teorici.

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- Una variazione della curva di Phillips. Attraverso due possibili meccanismi,

si avrà un progressivo appiattimento della curva di Phillips35. Il primo

meccanismo riguarda la necessità per gli individui di prolungare la propria

vita lavorativa al fine di poter risparmiare di più per il periodo di

pensionamento. I governi potrebbero optare per una riduzione della

tassazione per i lavoratori più anziani, agevolandone così la permanenza nel

mondo del lavoro. Questo elemento, accompagnato dal fatto che si riscontra

una maggiore elasticità di impiego negli anziani, comporta una maggiore

volatilità di impiego rispetto al ciclo economico che appiattisce così la curva

di Phillips. Il secondo meccanismo è invece legato alla migrazione della

forza lavoro. L’invecchiamento della popolazione è solitamente causa di

flussi migratori in ingresso, dovuti all’innalzamento dei salari per una

mancanza di offerta lavoro a parità di domanda. Di conseguenza, si avrà un

progressivo aumento della forza lavoro non accompagnato da una

pressione inflazionistica, come dimostrato empiricamente dal caso

Irlandese.

- Una spinta al ribasso delle tendenze inflazionistiche, dovuta ad una

modifica delle preferenze nei portafogli degli investitori. I risparmiatori,

dato che dovranno far fronte ad un periodo di pensionamento più lungo,

vorranno contenere i rischi legati ai loro investimenti, aumentando

percentualmente le quote di bond a discapito delle azioni.

Contemporaneamente, in una situazione in cui la maggior parte dei bond è

denominata nominalmente, la volont{ di mantenere bassa l’inflazione sar{

più marcata, spingendo per l’attuazione di policy che vadano in tale

direzione.

- Una riduzione della volatilità nei mercati finanziari. Questo è dovuto al

crescere della rilevanza dei fondi pensionistici, tipicamente investitori di

lungo periodo non votati al rischio. Questo dovrebbe far decrescere la

volatilità del mercato azionario, aumentandone la stabilità. Bean fa però

35 La curva rappresenta il rapporto tra disoccupazione e inflazione. Un appiattimento della stessa

comporta un minor aumento dell'inflazione in corrispondenza di una diminuzione della

disoccupazione e vice versa.

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Demografia e politiche monetarie: sviluppi recenti _

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notare come è possibile che ci si trovi semplicemente di fronte ad una

situazione di mutamento del mercato azionario che diventa soggetto a

nuovi rischi, piuttosto che ad una riduzione degli stessi.

Come si può notare dai punti ora elencati, il tema delle variabili demografiche

porta a notevoli complicazioni nell’analisi. In questo capitolo, si vogliono

presentare i primi modelli teorici sviluppati in quest’ultimo decennio che si

occupano di strutturare gli effetti delle variabili demografiche sui vari elementi di

interesse per le politiche monetarie, con lo scopo di poter meglio comprendere

quali sono le difficoltà di analisi e i primi risultati ottenuti.

4.3 Demografia e politiche economiche: il modello di Gertler (1997)

Il primo modello economico che incorpora in modo strutturato la demografia è

stato sviluppato dall’economista americano Gertler alla fine degli anni Novanta. Il

modello si focalizza sul ruolo rivestito dalla struttura demografica nel determinare

gli effetti delle politiche economiche, con particolare attenzione alle scelte

governative relative a livello di indebitamento e Previdenza Sociale. Gertler non si

spinge ad analizzare il ruolo della demografia in relazione alle politiche monetarie,

ma il suo modello costituisce la base per gli studiosi che si sono occupati del tema

durante gli anni successivi. Risulta perciò di particolare rilevanza esporne i

passaggi principali.

Lo studio di Gertler (1997) prende le mosse dall’analisi dei framework

tradizionalmente utilizzati in relazione alle politiche economiche, basati

sull’assunzione di vita infinita degli agenti rappresentativi e sulla conseguente

neutralità della domanda rispetto ai livelli di debito pubblico e Previdenza

Sociale 36 . Essi non erano in grado di rendere conto del comportamento

36 Nel caso di vita infinita degli individui, infatti, vale l’Equivalenza Ricardiana. Secondo questa

teoria, i consumatori internalizzano i vincoli di bilancio di modo che la tempistica dei cambiamenti

della tassazione non influisca sul loro profilo di spesa. Come conseguenza, la scelta di finanziare le

spese governative attraverso il debito piuttosto che con un aumento delle tasse non ha influenza sul

livello della domanda. Studi empirici smentiscono la validità generale della teoria, che rimane

applicabile al solo caso di vita infinita degli individui.

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113

dell’economia statunitense di quel tempo, in cui l’attuazione di una politica fiscale

espansiva aggressiva37 era stata accompagnata da un netto declino del risparmio

privato e da un deciso aumento del tasso di interesse reale ex post38. Inoltre, essi

non consentivano di analizzare gli effetti di politiche redistributive tra lavoratori e

pensionati, nonché le conseguenze di cambiamenti demografici.

Per ovviare a queste criticità, Gertler prende spunto dalla versione base del LCHM

di Modigliani (1966), discusso diffusamente nel paragrafo 2, e dal framework di

Blanchard (1985) e Weil (1987), che introduce agenti con vita finita e una

probabilità di morte costante per ogni periodo. La combinazione di questi due

framework dà origine ad un modello a generazioni sovrapposte (OLG) capace di

modellizzare gli effetti della struttura demografica e delle manovre fiscali

sull’economia.

Il modello si basa su una serie di assunzioni sulle dinamiche demografiche, sulla

disponibilità di mercati assicurativi e sulle preferenze di utilità, allo scopo di

semplificare il problema ed agevolare l’aggregazione. In particolare:

- Dinamiche demografiche: La popolazione si divide in lavoratori (w) e

pensionati (r), cresce al tasso e i nuovi nati entrano direttamente a far

parte della forza lavoro. I lavoratori sono caratterizzati da una probabilità

costante di rimanere nella forza lavoro (ω) e da una conseguente

probabilità costante di andare in pensione (1-ω) durante il periodo

successivo. Il parametro ω è definito di modo che la durata media del

periodo lavorativo (

) rispecchi l’et{ media di pensionamento effettiva. I

pensionati sono invece caratterizzati da una probabilità costante di

sopravvivenza (γ) e da una conseguente probabilità costante di morte (1-γ).

Il parametro γ è calibrato di modo che la vita media risultante dal modello

rispecchi quella effettiva.

37 Tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Novanta, negli Stati Uniti il rapporto debito su

PIL è cresciuto di 20 punti percentuali e la spesa pubblica in contributi pensionistici è cresciuta

circa del 50%. 38 i.e. la differenza tra il tasso di interesse dei titoli di stato con scadenza a un anno e il tasso di

inflazione a posteriori.

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Demografia e politiche monetarie: sviluppi recenti _

114

- Disponibilità di mercati assicurativi: Gertler non ammette la presenza di

trasferimenti sottoforma di eredità. Questa semplificazione è modellizzata

attraverso l’introduzione di un mercato dei titoli con scadenza a un anno

che assicura contro l’incertezza sulla durata della vita.

- Preferenze di utilità: Anche il rischio di reddito e i risparmi precauzionali

che ne derivano sono esclusi dal modello, attraverso l’utilizzo di funzioni di

utilità di tipo CES. Questa classe di funzioni, proposta da Farmer (1990),

permette infatti di separare l’avversione al rischio dalla sostituzione

intertemporale, rendendo gli individui neutrali rispetto al rischio di reddito

ma mantenendone positiva l’elasticit{ di sostituzione intertemporale.

Sulla base delle assunzioni sopra esposte, Gertler definisce le funzioni di utilità

individuali di lavoratori e pensionati. La funzione di utilità del lavoratore è data

da:

(4.1)

Dove simboleggia il consumo, ρ è il parametro di curvatura che modellizza lo

smoothing del consumo nel tempo39 e rappresenta il tasso di sconto soggettivo.

La (4.1) sottolinea come l’utilit{ per il lavoratore sia il risultato della somma tra

consumo corrente e utilità attesa futura, tra cui la seconda è data dalla somma tra

l’utilit{ di un lavoratore e quella di un pensionato pesate per le relative probabilità

di accadimento.

La funzione di utilità del pensionato è invece data da:

(4.2)

Si noti come il tasso di sconto per il pensionato ( ) sia inferiore rispetto a quello

di un lavoratore ( ), a causa della presenza della probabilità di sopravvivenza (γ).

Anche l’utilit{ attesa futura si modifica, in quanto il modello non prevede la

possibilità che il pensionato possa riprendere a lavorare. 39 Dove

, con σ elasticità intertemporale di sostituzione

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

115

Anche la funzione di consumo si distingue tra pensionati e lavoratori. Per il

pensionato, si ha:

(4.3)

Con consumo corrente, ricchezza non umana corrente e valore

capitalizzato dei flussi dati dalla previdenza sociale, tutti e tre dipendenti dall’anno

di nascita (j) e dall’anno di abbandono del lavoro (k) del pensionato. La frazione

rappresenta il ritorno totale sulla ricchezza40, con ritorno totale di ogni

dollaro investito attraverso il fondo assicurativo. Infine, rappresenta la

propensione marginale al consumo della ricchezza da parte del pensionato. Si noti

come nella funzione non appare alcuna variabile relativa alla ricchezza umana, in

quanto si assume che il pensionato smetta completamente di lavorare.

La funzione di consumo del lavoratore è invece data da:

(4.4)

Dove alla ricchezza non umana va a sommarsi anche la ricchezza umana , e dove

simboleggia il valore capitalizzato dei flussi futuri della previdenza sociale che

il lavoratore si attende di ricevere durante il periodo di pensionamento. Si noti che

la propensione marginale al consumo della ricchezza è inferiore rispetto a quella di

un pensionato41, in accordo con le previsioni del LCHM in assenza di motivo

ereditario del risparmio.

Le funzioni di consumo individuale (4.3) e (4.4) vengono poi aggregate per

ottenere la funzione di consumo di pensionati e lavoratori, rispettivamente.

L’aggregazione è molto semplice, data l’assunzione di propensione marginale al

consumo costante per ogni individuo. La funzione aggregata di consumo per i

pensionati è data da: 40 La probabilità di sopravvivenza al denominatore sottolinea come la percentuale di pensionati che

sopravvive fino al periodo successivo riceva tutti i ritorni, mentre chi muore non ne riceve. 41 i.e. .

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(4.5)

Dove ,

e indicano i valori aggregati di consumo, ricchezza non umana e

pensioni per l’insieme dei pensionati, rispettivamente. Si noti che il ritorno totale

sulla ricchezza non umana non è più diviso per la probabilità di sopravvivenza γ,

in quanto i ritorni individuali, , sono incassati solo dalla frazione γ di chi

sopravvive.

Parallelamente, la funzione aggregata di consumo per i lavoratori è data da:

(4.6)

Con ,

, e valori aggregati di consumo, ricchezza non umana, ricchezza

umana al netto delle tasse e valore capitalizzato delle pensioni future attese dei

lavoratori.

La combinazione della (5) e la (6) dà origine alla funzione di consumo aggregata sul

totale degli individui:

(4.7)

Dove e simboleggiano i valori aggregati di consumo e ricchezza. Il fattore

rappresenta invece la percentuale di asset detenuta dai pensionati e

serve a pesare correttamente le diverse propensioni al consumo rispetto alla

ricchezza non umana di pensionati e lavoratori.

La (7) consente di evidenziare come il modello sia in grado di esplicitare la

relazione tra consumo e struttura demografica, Previdenza Sociale e debito

pubblico. L’aumento della percentuale di anziani sul totale della popolazione – e il

conseguente aumento di – influenza positivamente il consumo aggregato, in

quanto i pensionati hanno una propensione al consumo superiore a quella dei

lavoratori42. Anche la Previdenza Sociale aumenta i consumi, in quanto implica il

42 In quanto

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trasferimento di ricchezza dai lavoratori ai pensionati che, come appena detto,

sono caratterizzati da una maggiore propensione al consumo. Infine, anche la

crescita del debito pubblico favorisce i consumi. Il tasso di sconto da parte dei

lavoratori delle tasse future è infatti superiore a quello a cui il governo può

prendere denaro a prestito ( ), cosicché politiche espansive che pospongono le

tasse nel futuro aumentano e stimolano il consumo aggregato.

Il framework del Ciclo di Vita sopra descritto viene poi incorporato in un modello

canonico di crescita ad un settore, con output dato dalla funzione di Cobb-

Douglas43. In particolare, Gertler si focalizza sull’analisi di equilibrio dinamico e

stato stazionario del modello.

L’analisi dell’equilibrio dinamico fornisce risultati limitati, in quanto la pesantezza

del modello è tale da non consentire la risoluzione analitica. Ciononostante, si

ritiene rilevante soffermarsi sulla definizione dell’insieme delle variabili endogene

predeterminate, i.e. . Mentre nel modello tradizionale di crescita ad un

settore vi è una sola variabile endogena predeterminata, lo stock di capitale

44, in Gertler (1997) si va ad aggiungere anche la percentuale di ricchezza

detenuta dai pensionati , dipendente dalla struttura demografica. Ancora una

volta, quindi, si sottolinea l’importanza della demografia all’interno di un’economia

caratterizzata da un comportamento del Ciclo di Vita, in cui pensionati e lavoratori

sono caratterizzati da valori diversi di propensione marginale al consumo.

L’analisi dello stato stazionario45 si spinge invece fino alla caratterizzazione

analitica di tutte e diciotto le variabili del modello. Sebbene l’analisi della

trattazione analitica esuli dallo scopo del capitolo, risulta interessante

approfondire qualitativamente gli effetti dei fattori del Ciclo di Vita sul valore

stazionario di alcune variabili, con riferimento in particolare al rapporto stock di

capitale su output e al tasso di interesse .

43 i.e.

. simboleggia lo stato della tecnologia, che cresce esogenamente di una

percentuale annua fissa x. rappresenta il capitale, mentre α la percentuale di lavoro rispetto al

capitale. 44 , con δ tasso di deprezzamento del capitale. 45 i.e. tale per cui tutte le variabili quantitative crescono al tasso di crescita esogeno della forza

lavoro effettiva

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Demografia e politiche monetarie: sviluppi recenti _

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In primo luogo, diminuisce all’aumentare della percentuale di ricchezza

detenuta dai pensionati, a sua volta dipendente dalla composizione della

popolazione in termini di età. Il modello ipotizza infatti che lo stock di capitale sia

l’unico mezzo per risparmiare, cosicché la più alta propensione al consumo da

parte dei pensionati ne provoca la riduzione. In secondo luogo, la finitezza della

vita induce ad un aumento generalizzato della propensione al consumo, generando

un’ulteriore riduzione dello stock di capitale. Inoltre, l’introduzione del

comportamento del Ciclo di Vita fa sì che anche le politiche economiche vadano ad

influenzare e . In particolare:

- La crescita del debito pubblico contribuisce ad aumentare il consumo e a

ridurre i risparmi, provocando la riduzione di e l’aumento di . L’effetto

è amplificato dal fatto che i bond sono acquistati principalmente dai

pensionati, i quali, come sottolineato più volte nel corso di questo

paragrafo, sono più propensi al consumo rispetto ai lavoratori;

- Anche la crescita della spesa pubblica contribuisce ad abbattere lo stock di

capitale e incrementare il tasso di interesse. Il modello del Ciclo di Vita

prevede infatti che un aumento della spesa pubblica spiazzi il consumo

privato meno che proporzionalmente, in quanto i lavoratori non

capitalizzano appieno le tasse future associate ai maggiori servizi. Si

sottolinea come questo elemento risulti differenziale rispetto ai framework

tradizionali, caratterizzati da spiazzamento totale.

- Infine, anche l’aumento dei contributi destinati ai pensionati sottoforma di

Previdenza Sociale influenza negativamente e positivamente . È però

importante sottolineare che questo effetto vale solo nel caso di aumento dei

contributi pensionistici pro capite. Il modello di Gertler, infatti, non è in

grado di modellizzare evoluzioni temporali della struttura demografica;

come conseguenza, non permette di giungere ad alcuna conclusione

relativamente agli effetti di un aumento del valore della Previdenza Sociale

dato dall’aumento del numero dei pensionati.

In aggiunta alle considerazioni qualitative sopra riportate, Gertler conduce anche

una serie di simulazioni quantitative di politiche economiche. I risultati ottenuti

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per le variabili del modello risultano molto simili ai valori reali, andando così a

confermare l’importanza rivestita dalla struttura demografica nel determinare

l’andamento economico. Inoltre, il modello riesce ad avvicinarsi al comportamento

di capitale e tasso di interesse osservato negli U.S. a cavallo tra gli anni Settanta e

Novanta, obiettivo che i modelli tradizionali avevano mancato.

È bene ricordare però come il modello proposto da Gertler sia applicabile

esclusivamente al caso di una struttura demografica stazionaria, mentre nulla dice

relativamente agli effetti dei cambiamenti nella composizione della popolazione. Il

tema è invece di fondamentale importanza, come analizzato nei capitoli precedenti,

e di estrema attualità, come dimostrato dal trend di riduzione di crescita della

popolazione che sempre più caratterizza i paesi sviluppati.

Pur dati i limiti evidenziati, al modello di Gertler va il merito di rappresentare il

primo esempio di modello economico capace di inglobare il modello del Ciclo di

Vita e la demografia. Inoltre, ben si presta ad essere utilizzato per studiare un

insieme molto vasto di problematiche economiche, tra cui le politiche monetarie.

Nel successivo paragrafo si analizza una delle prime applicazioni in tal senso.

4.4 Struttura demografica e politiche monetarie: Fujiwara e

Teranishi (2007)

Il primo modello di politica monetaria che considera esplicitamente la demografia

è stato sviluppato recentemente dagli economisti giapponesi Fujiwara e Teranishi

(2007). Esso si basa sull’incorporazione all’interno di un modello Neo-Keynesiano

DSGE46 dell’economia caratterizzata da comportamento del Ciclo di Vita proposta

da Gertler. Il suo utilizzo permette di analizzare da una parte in che misura gli

shock strutturali all’economia possano determinare effetti diversi su lavoratori e

pensionati, dall’altra in che misura la struttura demografica di un Paese alteri la

risposta dell’economia rispetto agli shock stessi. Per presentare i risultati

46 I modelli Neo-Keynesiani sono classificati come modelli dinamico-stocastici di equilibrio generale

(DSGE), in quanto derivano il comportamento macroeconomico dall’interazione delle decisioni di

più agenti – imprese, nuclei famigliari, governo, banca centrale, ed altri ancora – che agiscono nel

tempo in condizioni di incertezza.

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raggiunti, si ritiene utile riportare le principali caratteristiche del modello Neo-

Keynesiano utilizzato per l’analisi.

In primo luogo, il modello è aggiustato seguendo il modello canonico proposto da

Edge (2003), che introduce lo sticky price mechanism47 e la presenza di costi di

aggiustamento di Rotemberg (1982)48. Inoltre, alle assunzioni in Gertler (1997) si

aggiunge quella di informazione perfetta49, necessaria per abilitare l’aggregazione

in presenza di attori eterogenei. Gli attori considerati non sono più esclusivamente

i nuclei famigliari, distinti tra pensionati e lavoratori; ad essi si aggiungono le

imprese, i produttori di capitale, gli intermediari finanziari, il governo e la banca

centrale. Il modello è particolarmente articolato, così come è tipico dei modelli

Neo-Keynesiani. Le considerazioni relative agli attori e alle relazioni tra di essi

sono perciò riportate qualitativamente, ad eccezione dei nuclei famigliari che

meritano un approfondimento.

1. Imprese: le imprese definiscono i prezzi di modo da massimizzare la somma

scontata dei propri dividendi, espressi in termini reali. Il tasso di sconto

utilizzato è calcolato come somma pesata delle utilità marginali degli azionisti,

diverse a seconda che l’azionista sia un lavoratore o un pensionato, con peso

dato dalla percentuale di pensionati rispetto all’insieme di azionisti

dell’impresa. Risulta pertanto che la composizione demografica dell’azionariato

di una società influisca significativamente sulla determinazione dei prezzi.

2. Produttori di capitali: i produttori di capitali prestano denaro alle imprese,

ricevendone un ritorno, e ricevono a loro volta denaro a prestito dagli

intermediari finanziari. Gli interessi richiesti dai produttori di capitale, le

47 Ipotesi secondo cui i prezzi di equilibrio sono “vischiosi”, e cioè si adeguano lentamente a

cambiamenti nelle altre variabili. 48 Approccio che consente di introdurre rigidità nominali in un modello Neo-Keynesiano. Si basa

sull’ipotesi che tutte le imprese possano fissare il prezzo in maniera ottimale in ogni periodo, ma

nel fare ciò ciascuna di esse debba sostenere un “costo di aggiustamento” per modificare i "listini",

proporzionale all’aggiustamento effettivo. 49 i.e. ogni individuo è in grado di formulare previsioni corrette e precise relativamente al valore

futuro delle variabili. Come conseguenza, si ha che tutti gli asset sono caratterizzati dallo stesso

ritorno. Questa assunzione, seppur distante dalla realtà, è necessaria per permettere la successiva

aggregazione con agenti eterogenei.

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commissioni richieste dagli intermediari finanziari e gli investimenti delle

imprese contribuiscono alla determinazione della funzione del costo del

capitale a prestito.

3. Intermediari finanziari: gli intermediari finanziari prestano fondi ai produttori

di capitali e detengono azioni delle aziende produttrici di beni finali e dei

produttori di capitali. Data l’assunzione di informazione perfetta, le scelte di

portafoglio degli intermediari sono invarianti. I nuclei famigliari possono dare

in gestione il proprio denaro agli intermediari finanziari, ricevendone un

ritorno.

4. Governo: il governo rastrella denaro tramite tasse, che interessano lavoratori e

pensionati allo stesso modo e nelle stesse quantità.

5. Banca centrale: la banca centrale conduce una politica monetaria basata sulla

regola di Taylor standard (Taylor, 1993), con un coefficiente per l’output gap

pari a 0.5. Come implicito nei costi di aggiustamento del tipo Rotemberg, il

livello target dell’inflazione è fissato a zero.

6. Nuclei famigliari: le equazioni di utilità di lavoratori e pensionati ricalcano,

rispettivamente, la (4.1) e la (4.2) del modello di Gertler. Anche la funzione di

consumo dei lavoratori non cambia, rispecchiando la (4.4) a livello individuale

e la (4.6) a livello aggregato. La funzione di consumo dei pensionati, invece, si

modifica, in quanto viene introdotta la possibilità che gli stessi possano fornire

ore di lavoro e riceverne una conseguente ricchezza

, calcolata assumendo

salario orario inferiore rispetto ai lavoratori50. Passando al livello aggregato

sul totale degli individui, risulta che la funzione di consumo è data da

(4.8)

Dove costituisce l’elemento differenziale rispetto a Gertler (1997).

50 Infatti,

, con

salario reale e

offerta di lavoro. Il parametro sta a

significare che il lavoro del pensionato è remunerato meno rispetto a quello del lavoratore, in

quanto è meno produttivo.

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All’analisi delle relazioni tra attori segue poi l’analisi dell’equilibrio dinamico del

modello. Come in Gertler (1997), la pesantezza del modello è tale da non

consentirne la risoluzione analitica. La soluzione numerica è però sufficiente per

giungere a considerazioni rilevanti in relazione sia allo stato stazionario che al

comportamento dinamico.

L’analisi dello stato stazionario permette di derivare gli effetti di lungo termine

determinati da diverse strutture demografiche sul tasso di interesse naturale. In

particolare, Fujiuara e Teranishi confrontano il comportamento economico di una

popolazione “più giovane” con quello di una popolazione “più anziana”,

caratterizzate da valori diversi della probabilità di sopravvivenza del pensionato

γ51. Al crescere di γ si generano due spinte contrapposte sul tasso di interesse. Da

una parte, i lavoratori risparmiano di più, con l’obiettivo di accumulare le risorse

necessarie ad una vecchiaia più lunga; come conseguenza, la domanda di capitale

aumenta e il tasso di interesse cresce. Dall’altra, aumentano i pensionati che

continuano a lavorare anche una volta raggiunta l’et{ minima di pensionamento,

con l’obiettivo di mantenere inalterato il proprio livello di consumo; ciò riduce la

propensione al risparmio, comportando un calo del tasso di interesse. Risulta

pertanto che la direzione d’impatto dell’invecchiamento della popolazione sul

tasso di interesse non è univoca, ma dipende da quale delle due spinte si trovi a

prevalere. Sulla base di analisi parametriche condotte sull’equilibrio dinamico del

modello, gli autori sostengono che la variabile chiave capace di determinare quale

spinta prevarrà sia la durata media del periodo di pensionamento. Risulta infatti

che se l’et{ di pensionamento è inferiore ai 10 anni, la prima spinta domina e il

tasso scende; viceversa, è la seconda a dominare, e il tasso sale (si faccia

riferimento alla Figura 4.1). La portata di queste osservazioni è particolarmente

rilevante; esse implicano infatti la revisione dell’osservazione di Bean – riportata a

introduzione del capitolo – secondo cui l’aumento del rapporto pensionati su

lavoratori implica necessariamente un calo nel tasso di interesse naturale.

51 In particolare, Fujiwara e Teranishi considerano per la popolazione “più giovane”, cui

corrispondono età di pensionamento pari a 66 anni, vita media pari a 75 anni e rapporto pensionati

su lavoratori pari a 0,21. Per la popolazione “più anziana” considerano invece , cui

corrispondono età di pensionamento pari a 65 anni, vita media pari a 85 anni e rapporto pensionati

su lavoratori pari a 0,39.

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Figura 4.1: Relazione tra tasso di interesse reale e offerta di lavoro da parte dei pensionati.

Fonte: adattamento da Fujiwara e Teranishi (2007).

Lo studio del comportamento dinamico permette invece di analizzare gli effetti

degli shock economici su lavoratori e pensionati, nonché di verificare il contributo

della struttura demografica nel determinare l’entit{ della risposta all’impulso. In

particolare, si considerano due tipi di shock strutturali: quello tecnologico e quello

monetario.

L’analisi degli effetti degli shock tecnologici conferma la rilevanza della demografia

nella determinazione della risposta all’impulso. In primo luogo, questo tipo di

shock influenza diversamente il consumo dei diversi individui: mentre quello dei

lavoratori aumenta, quello dei pensionati resta sostanzialmente invariato, perché

la loro offerta di lavoro è più bassa (si faccia riferimento ai grafici Consumo

Lavoratori e Consumo Pensionati in Figura 4.2). Questo tipo di impulso, quindi,

favorisce i giovani, che vedono la propria ricchezza crescere di più rispetto a quella

degli anziani. In secondo luogo, gli effetti degli shock tecnologici variano al variare

della struttura demografica considerata con riferimento, in particolare, alla durata

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media del periodo di pensionamento e alla produttività dei pensionati.

All’aumentare della durata del periodo di pensionamento – che, come

precedentemente accennato, spinge gli anziani a continuare a lavorare,

avvicinandoli allo status di lavoratori – aumenta l’influenza sul consumo dei

pensionati, seppur in misura inferiore rispetto ai lavoratori, come emerge dal

grafico Consumo Pensionati in Figura 4.2 (in cui la linea continua corrisponde a

pensionamento pari a 10 anni, quella tratteggiata a 30 anni).

Figura 4.2: Risposte delle principali grandezze economiche in seguito ad uno shock tecnologico, in un’economia che considera comportamento del Ciclo di Vita.

Fonte: adattamento da Fujiwara e Teranishi (2007).

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Al crescere della produttività dei pensionati – e, quindi, al crescere del numero di

anziani che lavorano in stato stazionario – cresce invece la volatilit{ dell’economia,

in quanto aumenta l’entit{ della risposta all’impulso di tutte le variabili endogene

del modello. Quest’ultima analisi rimanda ad alcune conclusioni raggiunte

successivamente da Jaimovich e Siu (2009), secondo cui l’apporto dei pensionati

alla volatilit{ dell’output varia da paese a paese a seconda delle abitudini

lavorative dei pensionati (si veda, in particolare, il paragrafo 2.3.2). Più in

generale, si conclude quindi che la struttura demografica della popolazione, con

riferimento particolare all’aspettativa media di vita, influisce pesantemente sugli

effetti degli shock tecnologici.

Lo studio della risposta agli shock monetari è chiave in relazione all’analisi di chi

scrive, in quanto guarda al cuore della relazione tra politiche monetarie e struttura

demografica.

In primo luogo, risulta che questo tipo di shock ha effetti opposti su pensionati e

lavoratori. In particolare, una politica monetaria restrittiva aumenta il consumo

dei pensionati –il cui reddito deriva principalmente dagli asset finanziari

accumulati–, mentre deprime quello dei lavoratori, come è visibile dai grafici

Consumo Lavoratori e Consumo Pensionati in Figura 4.3. Risulta infatti che l’effetto

derivante da un aumento del tasso di interesse nominale domina l’aumento

dell’effetto di sostituzione nel caso dei pensionati, mentre per i lavoratori vale il

viceversa. Anche in questo caso si ha quindi una potenziale redistribuzione di

ricchezza nel momento in cui l’economia si stabilizza.

In secondo luogo, gli effetti dello shock monetario variano al variare della struttura

demografica considerata. In particolare, se la popolazione invecchia –i.e. se

l’aspettativa di vita cresce– a parità di età di pensionamento, allora i pensionati

sono spinti a lavorare, diventando simili ai lavoratori. Come conseguenza, si riduce

anche la disparità di effetto dello shock sulle due classi di individui, cosicché la

politica monetaria restrittiva risulta avere un effetto negativo anche sul consumo

dei pensionati (si faccia riferimento al grafico Consumo Pensionati in Figura 4.3. Si

noti che in figura grafici a linea continua corrispondono ad una struttura di

popolazione giovane, con rapporto pensionati/lavoratori pari a 0,21, mentre quelli

tratteggiati si riferiscono ad una popolazione più anziana, con rapporto pari a

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0,39). Infine, un altro punto importante riguarda la produttività dei pensionati.

Come nel caso degli shock tecnologici, più la produttività è bassa (e, quindi, meno i

pensionati lavorano nello stato stazionario), più l’economia risulta stabile. In

questo contesto, le conseguenze di uno shock tecnologico sono inferiori su tutte le

variabili del modello – ad eccezione, naturalmente, per l’offerta di lavoro da parte

dei pensionati – cosicché risulta che l’economia è meno volatile.

Figura 4.3: Risposte delle principali grandezze economiche in seguito ad uno shock monetario, in un’economia che considera comportamento del Ciclo di Vita.

Fonte: adattamento da Fujiwara e Teranishi (2007).

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Dalle considerazioni sopra riportate risulta pertanto che per le banche centrali è di

fondamentale importanza tenere in considerazione la demografia per condurre

una valida politica economica. In primo luogo, il tasso di interesse naturale52

cambia al variare della struttura demografica. In secondo luogo, shock economici

strutturali hanno diverso effetto su lavoratori e su pensionati, portando ad una

potenziale redistribuzione di ricchezza tra gli stessi. In particolare, shock

tecnologici positivi comportano l’aumento della ricchezza dei lavoratori e la

riduzione della ricchezza dei pensionati, mentre shock positivi sul tasso di

interesse nominale hanno l’effetto opposto. Come conseguenza, risulta che le

banche centrali possano decidere di favorire una classe rispetto all’altra.

Da una parte, ciò permette alla banca centrale di implementare politiche più

articolate; dall’altra, c’è il rischio che l’alto potere contrattuale tradizionalmente

rivestito dai più anziani in politica possa influenzare la politica economica verso

l’innalzamento dei tassi, che favorisce appunto gli anziani ma nell’aggregato

deprime l’economia. Infine, la struttura demografica influenza anche la volatilità

delle variabili economiche rispetto agli shock. In particolare, meno pensionati

lavorano nello stato stazionario, minore saranno gli effetti di shock tecnologici e

monetari.

Se è vero che il modello di Fujiwara e Teranishi consente di condurre un’analisi ad

ampio spettro relativamente alla relazione tra demografia e politiche monetarie, è

però importante ricordare che esso, al pari di Gertler, prende in analisi il solo caso

di struttura demografica stazionaria. Nulla dice invece relativamente agli effetti dei

cambiamenti nella composizione della popolazione, la cui rilevanza è stata

precedentemente discussa nel corso di questo capitolo.

Nel successivo paragrafo si fa un passo avanti in questa direzione, commentando il

primo contributo che analizza la relazione tra crescita demografica e le politiche

monetarie.

52 Considerazioni scorrette sul tasso naturale portano ad effetti non voluti in seguito all'attuazione

di una manovra espansiva o restrittiva. Si faccia riferimento a Clarida, Galì e Gertler (2000).

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4.5 Crescita demografica e politiche monetarie: un modello della

BCE

I modelli fino ad ora presentati sono di indubbio interesse, ma poco rilevanti

nell’ambito delle politiche monetarie. Il modello di Fujiwara e Teranishi per

esempio, ha un occhio di riguardo per le politiche fiscali e, solo in un secondo

momento, si concentra sui possibili effetti di manovre monetarie in condizioni

statiche. Ciò che si vuole introdurre ora è, invece, un modello di Kara e Thadden

(2010) presentato dalla Banca Centrale Europea (BCE) che vuole concretamente

arrivare alla determinazione di quelli che possono essere dei fattori correttivi di

interesse di cui tenere conto nell’applicazione delle manovre stesse. A mutare

inoltre è anche il contesto preso in considerazione: nell’opera della BCE i fattori

che variano sono legati alla crescita dell’et{ media della popolazione, più che alla

variazione del numero di lavoratori e pensionati.

E’ importante comunque notare come questo modello prenda direttamente spunto

dai lavori citati in precedenza di Gertler. In particolare, si sviluppa un framework

DSGE che incorpori delle variabili demografiche sulle quali si può agire simulando

il verificarsi di uno shock come può esserlo, per esempio, uno shock tecnologico.

Per farlo si prende spunto dalle idee introdotte nel modello Neo-Keynesiano di

Gertler stesso.

Lo scopo del lavoro della banca centrale è fondato sull’idea, gi{ vista in Bean, che

sia possibile che l’introduzione della demografia nello studio delle politiche

monetarie porti ad un ottimo differente in base alla composizione in età della

popolazione. Nello specifico, si crede che diverse fasce di età abbiano differenti

composizioni di portafoglio e vengano quindi più o meno avvantaggiate da una

determinata politica scelta. E’ bene sottolineare però come questo modello, con le

ipotesi impiegate, non porti a conclusioni confortanti: si sostiene la tesi che i

cambiamenti demografici, sebbene influenzino il tasso naturale di interesse, non

siano sufficientemente rapidi da richiedere delle politiche monetarie attive che ne

tengano conto.

Per quanto riguarda il modello vero e proprio, si elencano di seguito, solo in

maniera qualitativa, le modifiche introdotte al modello di Gertler.

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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- Modifica della funzione di utilità: nella funzione di utilità si introduce la

moneta in termini reali, costituita dal rapporto tra la moneta disponibile e

un indice dei prezzi adeguatamente scelto.

- Introduzione di caratteristiche di offerta tipiche dei modelli Neo-

Keynesiani: il nuovo modello aggiunge equazioni al lato dell’offerta e ne

modifica altre per raggiungere un maggiore realismo. Tra queste, si

rimuove l’ipotesi di concorrenza perfetta nel mercato intermedio dei beni e

si introducono l’accumulazione del capitale, similmente a quanto fatto da

Calvo (1983). In tale opera si introduceva un modello comprendente tali

caratteristiche, anche basato su individui a vita infinita, con obiettivi però

molto differenti: dimostrare la superiorit{ dell’applicazione di politiche

monetarie in contrasto a politiche fiscali al fine di migliorare il benessere di

una nazione.

Come si può notare, la prima di queste due modifiche ha lo scopo di permettere

un’analisi efficace dell’effetto di variazioni della quantit{ di moneta sull’output del

modello. Il secondo set di modifiche invece è stato attuato con il solo fine di

rafforzare la veridicità dei risultati raggiunti.

Si può così formulare la funzione di utilità di lavoratori e pensionati, che come si

potrà facilmente dedurre è molto simile a quella presente in Gertler:

(4.9)

Dove z sta genericamente ad indicare w e r nelle due funzioni che riguardano le

due tipologie di individui. La principale novità rispetto al modello di Gertler è

presente nella prima funzione nella forma di m che rappresenta appunto la moneta

in termini reali. Con l’introduzione di questa sola modifica, i passaggi richiesti per

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Demografia e politiche monetarie: sviluppi recenti _

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calcolare l’equilibrio sono del tutto analoghi a quelli del modello presentato in

precedenza, rendendo questo nuovo modello di facile applicazione.

Ciò che è interessante presentare sono i vari risultati ottenuti applicando a questo

modello alcuni scenari probabili in merito ai cambiamenti demografici in atto

nell’Unione Europea. Tali cambiamenti riguardano principalmente due trend: da

una parte vi è la rapida crescita dell’et{ media lavorativa, dovuta ad un progressivo

invecchiamento della popolazione legato a numerosi fattori quali i bassi tassi di

nascita; d’altra parte, si riscontra un innalzamento della durata della vita e quindi

del periodo di pensionamento dovuto al miglioramento nella medicina e negli stili

di vita. Questi due trend non agiscono però indipendentemente dal contesto in cui

sono applicati. Gli effetti che essi determineranno saranno, infatti, fortemente

legati alle decisioni politiche e sociali sulle pensioni e sull’et{ di pensionamento.

Combinando i vari possibili fattori sopra presentati, il modello viene testato

variando alcuni dei parametri presenti. Questo permette la costruzione di sei

possibili scenari. I primi quattro fanno riferimento al caso in cui le pensioni

vengano ridotte con l’aumentare dei pensionati in modo tale da mantenere

inalterato l’equilibrio pensioni-tasse ai lavoratori. Gli ultimi due si riferiscono

invece a situazioni in cui vengono mantenute costanti le pensioni, dovendo così

aumentare le tasse alla popolazione lavorativa per mantenere i bilanci statali in

equilibrio. In tutti gli scenari l’orizzonte temporale impiegato va dal 2008 al 2030,

impiegando dati previsionali. Si esaminano di seguito i primi cinque scenari, in

quanto l’ultimo non riguarda direttamente il tema demografico:

- Scenario I: esso fa riferimento alla semplice situazione in cui l’unico fattore

a variare è il tasso di crescita della popolazione lavorativa, in diminuzione.

Questo causa un aumento della popolazione anziana, con più alta

propensione al consumo, e causa, nel caso di una riduzione del tasso di

crescita della popolazione dell’1%, una decrescita del tasso di interesse

naturale dello 0,9%. Considerando che l’arco temporale preso in

considerazione è di 32 anni, si può comprendere come questo scenario sia

poco significativo. I risultati di questo scenario sono molto simili a quelli

che si sarebbero ottenuti con un modello a vita infinita degli agenti.

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- Scenario II: in questo caso, ceteris paribus, a variare è la longevità degli

individui, che cresce di 3.4 anni nell’orizzonte considerato. Questo implica

per ipotesi una riduzione delle pensioni erogate, costringendo gli individui

a risparmiare di più durante il loro periodo lavorativo. Questo causa di

conseguenza una riduzione del tasso naturale di interesse che passa da

3.9% a 3.6%. Tutti gli effetti che si hanno in questo scenario sono dovuti alla

particolare costruzione del modello, che introduce delle dinamiche della

LCH. In un modello tradizionale, con individui a vita infinita, non sarebbe

possibile registrare tale variazione.

- Scenario III: in questo step si combinano le variazioni precedentemente

introdotte con i primi due scenari. Si vogliono così valutare gli effetti

complessivi, in modo da comprendere se sia presente un certo

“spiazzamento” o se le due variabili generino una variazione aggregata che

è la combinazione delle due. I risultati portano a concludere a favore della

seconda ipotesi: il tasso di interesse naturale scende fino ad un valore del

2.8%.

- Scenario IV: l’ultimo scenario testato in cui si mantengono costanti le spese

aggregate per la previdenza sociale combina lo Scenario III con la possibilità

che si accompagni l’invecchiamento della popolazione e l’allungamento

della durata della vita con un innalzamento dell’et{ di pensionamento. In

particolare, tale aggiustamento accompagna interamente l’aumento di et{: a

un invecchiamento di 3.4 anni corrisponde un innalzamento dell’et{

pensionabile di 3.4 anni. Non sorprende per cui che i risultati a cui si giunge

sono praticamente indistinguibili da quelli dello Scenario I, in quanto la

situazione descritta nello Scenario II viene pareggiata dalla nuova età di

pensionamento.

- Scenario V: in questo caso si applica una situazione del tutto analoga a

quella dello Scenario III, con l’ipotesi però che il contributo previdenziale

pro capite rimanga invariato nel tempo. Di conseguenza, il risultato sarà

differente. Ciò che avviene è che ad un aumento dell’et{ media corrisponde

un aumento della tassazione sulla popolazione lavorativa. Questo

controbilancia l’effetto che si aveva nello Scenario III che avrebbe portato

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ad un aumento dei risparmi da parte dei lavoratori, smorzando così la

decrescita del tasso naturale di interesse. In questo caso si ha infatti una

riduzione del tasso più moderata, a 3.4%.

L’analisi di questo scenario porta a riflettere su una rilevante particolarit{

che distingue l’area Euro dal resto del mondo: perché si possa ragionare in

certi termini riguardo alle politiche monetarie, è necessario che vi sia una

certa collaborazione anche nello sviluppo delle politiche fiscali.

Figura 4.4: Variabili previsionali dell'area Euro fondamentali per lo sviluppo del modello.

Fonte: adattamento da Kara e Thadden (2010).

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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Terminata l’analisi per scenari atta a definire il funzionamento del modello, si

passa all’utilizzo del framework applicandolo alle variabili stimate per i prossimi

vent’anni nell’area EURO. I dati impiegati fanno riferimento a una serie temporale

basata sulle reali previsioni degli andamenti demografici, i quali sono facilmente

prevedibili anche per ampi orizzonti temporali. Anche in questo caso ovviamente,

si sono dovute fare delle ipotesi legate alle variazioni nelle pensioni erogate. Nello

specifico, si sono costruiti due scenari facenti riferimento ai due possibili sistemi

pensionistici precedentemente menzionati, in modo da ottenere i due casi limite

entro i quali si troverà lo scenario reale. Si avrà così un limite superiore con

contributo totale della previdenza sociale fissato e un limite inferiore nel caso in

cui si decida invece di tenere costanti le pensioni pro capite erogate. La definizione

di uno scenario unico e deterministico non è purtroppo possibile in quanto le

politiche fiscali di ogni paese non sono controllate centralmente dall’unione

Europea e non è di conseguenza possibile sapere in anticipo quali saranno le

decisioni dei vari governi.

Passando allo svolgimento vero e proprio, si attua una linearizzazione del modello

in ipotesi di perfetta prevedibilit{, ottenendo così l’andamento delle variabili fino

al 2030. Come è evidente, si avranno differenti variazioni a seconda dello scenario

considerato:

- Nel caso in cui venga mantenuto costante lo sforzo previdenziale dei

governi, riducendo così le pensioni a disposizione degli individui, si avranno

conseguenze più marcate sul tasso naturale di interesse, in modo similare a

quanto studiato negli scenari di test. La vera differenza in questa

applicazione reale è l’orizzonte in cui avviene il cambiamento. Dato che le

variazione qui introdotte sono più lente a manifestarsi rispetto a quelle

negli scenari di test, più lenta sarà anche la decrescita del tasso naturale che

si attester{ a soli 50 punti base nell’arco dei trent’anni considerati. Inoltre,

nel 2030, ultimo anno dell’orizzonte previsionale, il transitorio del modello

non sarà ancora terminato, in quanto le variazioni demografiche si

propagano lentamente e hanno effetto sul tasso di interesse in modo

indiretto.

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- Nel caso i governi vogliano mantenere lo stato di welfare così com’è ora,

sarà ovviamente necessario finanziare le maggiori spese, dovute ad un

maggior numero di popolazione in pensione, tramite deficit di bilancio, con

un conseguente aumento del debito pubblico. Questo avrebbe quindi un

effetto negativo sulle posizioni finanziarie degli Stati Europei e, vista la

situazione attuale, è poco probabile che sia una strada perseguibile. I

risultati del modello sotto queste ipotesi portano, come era prevedibile in

seguito alle simulazioni prima eseguite, ad una riduzione del tasso naturale

minore rispetto al caso precedente. Nello specifico, si assiste ad un declino

di soli 35 punti base di tale tasso, in un arco di tempo ventennale.

Osservando i risultati raggiunti dal modello della BCE ci si rende conto di come, nel

caso ci si trovi di fronte ad una situazione in cui le decisioni dei governi vengano

attuate in modo coordinato e preventivo, gli effetti di variazioni in età della

popolazione siano troppo lenti perché possano costituire un termine rilevante

nelle decisioni di politica economica. Questa conclusione si scontra con quanto

teorizzato da Bean, il quale presuppone un più difficile scenario politico. Anche in

questo caso però il modello presentato mantiene valore, dal momento che integra

in modo efficace gli effetti del ciclo di vita in un framework tradizionale come

quello di Gertler, ed è quindi ulteriormente estendibile o modificabile per analisi in

differenti condizioni.

In ogni caso non è possibile ignorare una questione immediatamente chiara: i

cambiamenti di variabili demografiche non hanno mai sola rilevanza per le

decisioni delle banche centrali, interagendo fortemente con le decisioni prese dai

vari governi. Ci si trova così nella difficile situazione di dover bilanciare politiche

fiscali ed economiche, in modo da evitare che tali variabili provochino uno shock

non voluto di proporzioni maggiori di quanto previsto. Si presenta così una

ulteriore sfida che certamente la maggior parte dei paesi avanzati si troverà ad

affrontare nei prossimi decenni.

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4.6 Conclusioni

Dalle analisi condotte in questo capitolo emerge come gli sforzi presenti in

letteratura indirizzati verso la studio della relazione tra variabili demografiche e

politica monetaria siano esigui e molto concentrati. I modelli che si occupano del

tema sono scarsi in numero e, soprattutto, abbracciano un punto di vista ristretto,

che si limita ad integrare il comportamento del Ciclo Vitale all’interno di

framework tradizionali senza tenere in considerazione i numerosi ed eterogenei

elementi demografici emersi nel Capitolo 1 (Demografia, volatilità e altri elementi

strutturali) e nel Capitolo 3 (Demografia e mercati finanziari). Nondimeno, i

contributi analizzati forniscono spunti di riflessione molto interessanti.

Dal modello di Fujiwara e Teranishi (2007) emerge come le variabili demografiche

ricoprano un ruolo di rilievo nella definizione delle manovre monetarie, in quanto:

- Il tasso di interesse naturale varia in base alla composizione della

popolazione in lavoratori e pensionati;

- Gli shock economici hanno effetti diversi su lavoratori e pensionati,

portando ad una potenziale redistribuzione di ricchezza. In particolare, una

politica monetaria espansiva tende a favorire i pensionati a discapito dei

più giovani, mentre vale il contrario per una politica monetaria restrittiva;

- La volatilità delle variabili economiche rispetto agli shock aumenta al

crescere del numero di pensionati che lavorano nello stato stazionario.

Per quanto riguarda invece il modello di Kara e Thadden (2010) proposto dalla

BCE, gli spunti più interessanti risultano essere:

- Le variabili demografiche di crescita della popolazione e speranza media di

vita concorrono alla determinazione del tasso di interesse naturale,

parametro fondamentale nella conduzione delle manovre monetarie;

- Le politiche fiscali devono essere coordinate con l’evoluzione demografica

per evitare l’amplificazione degli shock demografici;

- L’evoluzione demografica prevista per i paesi dell’Unione Europea avr{ un

effetto sul tasso di interesse naturale limitato e comunque inferiore a 50

punti base nell’arco di vent’anni.

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Demografia e politiche monetarie: sviluppi recenti _

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A differenza di quanto emerso dall’articolo di Fujiwara e Teranishi, le

conclusioni cui giunge la BCE sembrano ridimensionare il ruolo della

demografia in ambito macroeconomico. Ciò dipende però dal fatto che la BCE

analizzi esclusivamente cambiamenti molto lenti nel tempo, che non tengono in

considerazione la composizione statica della popolazione in fasce di età né i

possibili shock demografici conseguenti a cambiamenti nel sistema di

previdenza sociale. Le successive analisi relative all’interazione tra demografia

e politica monetaria dovranno quindi prestare particolare attenzione a questi

elementi.

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

137

5. Demografia e politiche economiche: un

framework analitico

5.1 Obiettivi e struttura

L’analisi della letteratura sviluppata nel corso dei capitoli precedenti ha messo in

luce come lo studio della relazione tra variabili demografiche e elementi

macroeconomici sia ancora in una fase embrionale. I pochi modelli di politica

monetaria che tengono in considerazione la demografia si limitano infatti ad

integrare il comportamento del Ciclo Vitale, trascurando tutti quegli elementi

demografici emersi nell’ambito dei capitoli 1 (Demografia, volatilità e altri elementi

strutturali) e 3 (Demografia e stock prices). L’obiettivo che si persegue in questo

capitolo è quindi quello di proporre un nuovo framework logico che, a partire da

un’analisi critica della letteratura, consenta di sintetizzare e integrare tutti i

principali elementi demografici riscontrati e di analizzarne la relazione con le

politiche fiscali e monetarie.

Nella prima sezione del capitolo si vanno a definire le variabili demografiche che

hanno maggiore rilevanza in ambito macroeconomico e se ne presentano gli effetti

sulle principali grandezze macro. Gli effetti delle singole variabili vengono poi

integrati in un unico schema logico, utilizzando un approccio il più possibile

sistematico. In conclusione, si discute la rilevanza delle variabili demografiche per

governi e banche centrali, prestando particolare attenzione alla relazione tra

politiche fiscali e monetarie.

5.2 Introduzione

Alla semplice ed iniziale domanda "vi è una relazione che lega demografia e banche

centrali?" abbiamo dato chiara e univoca risposta. La relazione, forte e complessa,

interagisce con il sistema economico di una nazione in via sia diretta che indiretta,

andando a modificare gli equilibri esistenti. Le ragioni che guidano questa

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Demografia e politiche economiche: un framework analitico _

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relazione sono molteplici e partono dal presupposto che a diverse caratteristiche

demografiche di una popolazione corrispondano differenti "comportamenti" degli

individui traducibili in funzioni di utilità eterogenee. Come si è visto dalla

comprensiva analisi della letteratura, queste differenti funzioni, in un framework

di analisi aggregato, portano ad una variazione dei principali fattori influenzanti un

sistema. Da questo ne consegue una necessaria attenzione agli elementi

demografici e soprattutto alla loro variazione nel tempo. E' proprio questa

variazione che comporta una ridistribuzione degli individui in "classi" di funzioni

di utilità, generando dei mutamenti nel comportamento complessivo del sistema.

Nel dettaglio, è risultato evidente come alla nota ipotesi del Ciclo Vitale,

ampiamente trattata nel capitolo 2 (Demografia e Teoria del Ciclo Vitale), si

affiancano un insieme di possibili fattori i cui effetti non sono di così semplice

individuazione. Alcuni di essi hanno un legame diretto con il sistema finanziario

(capitolo 3, Demografia e mercati finanziari), mentre altri influenzano non il valore

assoluto delle variabili, bensì la volatilità che caratterizza il sistema, come negli

studi presentati nel capitolo 1 (Demografia, volatilità e altri elementi strutturali).

Questa relazione, di carattere stabile e persistente, è sì condizione necessaria

perché vi sia un interesse da parte di chi attua politiche economiche, ma non è

condizione sufficiente. E' possibile, infatti, che una variazione delle caratteristiche

demografiche di una popolazione abbia un effetto non prevedibile o non utile ai

fini di intervento delle istituzioni. Tuttavia, vi sono due elementi che rendono le

variabili demografiche di grande interesse:

La prevedibilità: le variazioni demografiche seguono i lenti tempi dettati

dalla vita degli individui, il cui orizzonte è lungo se paragonato a quello in

cui avvengono variazioni dell'economia. Questo vale sia per le

caratteristiche demografiche più semplici, come la ripartizione in fasce di

età della popolazione, che per le caratteristiche che possono a prima vista

sembrare meno dirette, quali l'istruzione. Nel primo caso, infatti, ad un dato

tasso di natalità di un certo periodo è associabile una curva di ripartizione

delle fasce per interi decenni. Nel secondo, risulta evidente come un insieme

di politiche legate all'istruzione, per quanto complesse e radicali, richiedano

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sempre molto tempo perché possano effettivamente avere conseguenze e,

una volta applicate, permettano di comprendere l'andamento di tale

variabile per gli anni a seguire.

La significatività: l’influenza sui principali fattori macroeconomici della

demografia è stato dimostrato, nel corso dei numerosi studi empirici e

teorici, essere fortemente significativa, rendendone quindi inopportuna

l’esclusione dal contesto decisionale. Gli effetti di questa relazione sono stati

analizzati sia tramite modelli complessi del comportamento degli individui,

come nella LCH, che tramite tecniche di econometria applicate a dati di più

paesi. Molto più incerto è invece comprendere quali politiche necessitino

maggiore analisi integrata alle variabili stesse. Non è immediato

comprendere se l'aggiunta delle componenti demografiche possa

influenzare le decisioni prese in ambito di politica fiscale e monetaria.

Questo è dovuto anche alla poca diffusione di modelli in grado di costruire

legami di causa ed effetto tra le variabili considerate.

Dati questi presupposti, si può concentrare l'attenzione sulla relazione tra

demografia e variabili macro, cercando ci comprenderne le numerose peculiarità.

Come è apparso evidente nel capitolo 4 (Demografia e politiche monetarie: sviluppi

recenti) gli sforzi presenti in letteratura sono esigui e molto concentrati. Ci si

riferisce in particolare a due fattori di interesse: basso numero di modelli, con un

fine più teorico che pratico di integrazione di fenomeni intergenerazionali in

classici framework largamente impiegati; totale mancanza di un punto di vista

"globale", che sia in grado di catturare tutte le possibili interazioni tra demografia e

macroeconomia.

Per quanto riguarda i modelli analizzati, essi sembrano introdurre la demografia

più a scopo di completezza che per una reale volontà di esplorarne i possibili effetti.

Molti di tali modelli non sono applicati a contesti reali, oppure, quando viene fatto,

è per dimostrare la poca rilevanza degli elementi demografici nei contesti

decisionali, in particolare per quanto riguarda le banche centrali. Questo tipo di

approccio non permette un critico riesame della situazione, soprattutto alla luce

della mancanza nei modelli stessi di molti degli effetti riscontrati in letteratura.

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Fino ad ora si è, infatti, integrato un approccio di tipo LCH in tradizionali

framework decisionali di tipo Neo Keynesiano, senza tenere conto delle numerose

altre variabili legate alla demografia. Per di più, dal momento che un approccio di

tipo LCH si basa esplicitamente sulla funzione di utilità dei consumatori, ignora gli

effetti di una modifica delle variabili sul sistema finanziario. Questo rende i modelli

poco funzionali, in quanto è possibile che gli effetti dell'introduzione di dinamiche

di tipo LCH possano non essere di eguale entità a quelli dovuti ad altri fattori, come

per esempio la Q di Tobin53. Quanto la mancanza di una corretta considerazione

dei sistemi finanziari possa risultare pericoloso è ancora più evidente in seguito

alla crisi del 2007.

Ed è proprio partendo da questa analisi critica della letteratura attuale che si vuole

muovere nella proposta di un diverso framework: quanto segue vuole essere uno

studio il più possibile completo di tutti gli elementi demografici riscontrati.

Procederemo attraverso i seguenti due passi:

Definizione delle variabili demografiche di interesse: in questa prima fase,

si vogliono dettagliare tutti i fattori demografici di cui si è studiato il

comportamento. Lo scopo di questo esercizio è permettere l'identificazione

di alcune macro aree di elementi demografici di cui è possibile

comprendere l’influenza sulle variabili macroeconomiche. Per questo

motivo, ad ogni fattore si accompagneranno l'insieme di effetti causati dal

fattore stesso.

Definizione delle funzioni delle politiche economiche: terminata l'analisi di

tutti i fattori determinanti, si vuole comprendere come gli effetti degli stessi

siano rilevanti per governi e banche centrali. Lo scopo di questa fase è la

costruzione di un insieme di elementi chiave che comportano la necessità di

intervento da parte di politiche monetarie o fiscali.

Al fine di svolgere la suddetta analisi, si propone la costruzione di un framework

qualitativo in grado di evidenziare la relazione tra tutti gli elementi considerati, in

53 La Q di Tobin è definita come il rapporto tra il valore di mercato di un asset e il suo valore di rimpiazzo. Se questo è maggiore di 1 significa che è più conveniente investire per la costituzione di un nuovo asset piuttosto che acquisire lo stesso in borsa. In letteratura, Tobin (1969).

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modo da rendere più semplice l'identificazione di eventuali politiche richieste.

Come si vedrà, nello svolgere questo esercizio ci si scontra con alcune difficoltà

legate in primis alla non semplice determinazione dell'effetto dominante nel caso

in cui lo stesso fattore demografico abbia impatti contrastanti su un'unica variabile

macroeconomica. Questo accade quando un fattore è in grado di agire tramite più

canali di trasmissione, rendendo l'effetto ambiguo.

5.3 Variabili demografiche

In questo paragrafo, l’obiettivo sar{ la descrizione degli effetti delle principali

variabili demografiche emerse dall’analisi della letteratura. Il primo contributo che

si vuole apportare è di sintesi, in quanto, a fronte di numerosi studi di vario tipo,

non è presente nessun lavoro in grado di riproporre i numerosi elementi introdotti

in un unico schema logico. A questo scopo, si vogliono introdurre cinque classi di

variabili. Le prime tre fanno diretto riferimento all’et{ dell’individuo, ma sono

logicamente suddivisibili in classi separate per via della forte differenza di

conseguenze sui valori macroeconomici. Queste sono la composizione in età della

popolazione, il tasso di crescita della popolazione e la durata media di vita. A

queste variabili si aggiungono altre due classi: l’istruzione e competenze, che

riguardano l’insieme di conoscenze e abilit{ di cui un individuo dispone; le

variabili non più rilevanti, qui analizzate perché dotate di valore storico e utili per

comprendere futuri trend.

5.3.1 Composizione in età della popolazione

Nell’ambito delle variabili demografiche direttamente derivate dall’et{

dell’individuo, quella facente riferimento alla composizione in et{ della

popolazione è senza dubbio la più presente in letteratura. Questo è, come si vedrà,

più che giustificato dall’influenza che questa variabile ha sugli elementi

macroeconomici principali. Con essa si intende l’importanza relativa di una

determinata classe di et{ all’interno della popolazione totale. Questa definizione,

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piuttosto ampia, è dovuta al fatto che differenti lavori si sono concentrati su

definizioni specifiche di “classe d’et{”. Le più note sono:

- Popolazione in età lavorativa/di pensionamento: questo tipo di definizione

è stata utilizzata primariamente nel modello relativo alla LCH. Suddivide la

popolazione totale in due macro gruppi, chi lavora e chi è in pensione, e

utilizza il peso relativo di queste due componenti sulla popolazione totale

per comprendere l’andamento aggregato e gli effetti sull’economia di una

variazione delle componenti stesse. La ratio dietro a questa suddivisione è

la differente funzione di utilità che caratterizza gli individui in età lavorativa

rispetto a quella relativa agli individui in età di pensionamento.

- Fasce di età: è senza dubbio la definizione più semplice utilizzata negli studi

macroeconometrici presentati. Questa definizione, differentemente dalla

precedente, si concentra sulla parte di popolazione attiva e la suddivide in

fasce di età più o meno ampie a seconda della disponibilità di dati. Ogni

fascia d’et{ è espressa in percentuale sul totale della popolazione attiva,

dove con popolazione attiva si intende quella parte di popolazione che

ancora lavora, compresi i pensionati che hanno un impiego part-time. In

linea teorica, la volont{ sarebbe quella di tracciare una funzione dell’et{

continua, soluzione non implementabile per via delle tecniche di

regressione lineare impiegate. Questo tipo di suddivisione è stato impiegato

per tracciare delle relazioni tra composizione in età e produttività, volatilità

di output e di impiego.

- Middle to Young ratio: è definibile come il rapporto tra popolazione

lavorativa in et{ adulta e popolazione lavorativa “giovane”, con una

suddivisione approssimativa fissata a circa 35 anni. Questa definizione è

stata impiegata negli studi riguardanti l’andamento del prezzo degli asset. E’

inoltre risultata essere una variabile fortemente predittiva dell’andamento

della componente informativa del prezzo dei titoli di mercato.

Come si può notare, queste tre definizioni presentano analogie e differenze: in tutti

e tre i casi non si considera la parte di popolazione sotto l’et{ minima lavorativa; di

contro, alcune definizioni considerano i pensionati mentre altre non li considerano

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o lo fanno parzialmente; infine, alcune sono definite come percentuali e altre come

rapporti.

Al fine di ottenere un’analisi di sintesi si vuole procedere nella seguente maniera:

come primo step, saranno presentati gli effetti della variabile mantenendo le tre

definizioni qui presentate; in seguito, si utilizzer{ un’unica definizione il più

possibile ampia che permetta di studiare tali effetti da un punto di vista unitario,

risolvendo eventuali incoerenze tra i risultati ottenuti. Gli effetti evidenziati dai

vari studi sono riassumibili come segue:

- Modello del Ciclo Vitale: in questo modello, la relazione stabilita dipende

direttamente dalla definizione di due funzioni di utilità degli individui. La

prima riguarda gli individui in età lavorativa, la seconda è valida per i

pensionati. Non si vuole in questa sede compiere una riproposizione dei

contenuti del modello stesso, quanto un sunto delle conseguenze che questo

framework teorico determina. I fattori economici fortemente connessi con

questo modello sono i consumi e i risparmi/investimenti. Nella prima fase

del ciclo di vita, infatti, l'individuo sarà portato a consumare una

percentuale inferiore all'unità di ciò che guadagna, in quanto deve

garantirsi la sussistenza anche nel periodo di pensionamento, durante il

quale non percepirà più un'entrata da lavoro. Di conseguenza, in questa fase

l'individuo sarà caratterizzato da una propensione marginale al consumo

più bassa che nella fase successiva e avrà un alto livello di risparmi,

necessari per il periodo di pensionamento. Una volta in pensione, la

situazione sarà simmetrica, con una più alta propensione al consumo,

prossima all'unità, e un livello di risparmi in forte decrescita in quanto

vengono consumati in assenza di reddito. In questa definizione del ciclo di

vita, la più semplice possibile, le conseguenze sulle variabili sembrerebbero

nette e prevedibili: bassi consumi ed alti risparmi in una popolazione in

prevalenza lavoratrice, vice versa in una popolazione con predominanza di

pensionati. In realtà, l’effetto totale non è di così banale individuazione. Se

da una parte ai lavoratori corrisponde una propensione marginale al

consumo inferiore, è anche vero che i lavoratori stessi godono di un reddito

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da lavoro che è tendenzialmente molto più elevato del reddito da pensione

che corrisponderanno una volta ritirati. Per di più, la maggior parte delle

estensioni introdotte da Modigliani al suo modello nel corso degli anni

rendono ancora più ambigua la questione, introducendo fattori in grado di

"smorzare" l'idea di consumo integrale dei risparmi da parte dei pensionati,

quali l'eredità e l'incertezza della durata della vita. Di conseguenza, nel

tener conto degli effetti delle due fasi del ciclo sui consumi, è necessaria la

stima della propensione marginale al consumo di lavoratori e pensionati,

che va poi pesata per il reddito medio, sia esso da lavoro o da pensione, dei

due tipi di individuo. Così facendo, si avrà un'accurata comprensione delle

dinamiche che legano i due fattori.

Vi sono invece meno dubbi riguardo ai risparmi: i lavoratori hanno alti tassi

di risparmio, finalizzati ad accumulare ricchezza in vista della pensione.

Quanto elevati siano questi tassi dipende però dal sistema pensionistico

presente nel paese considerato. Nel caso la previdenza sociale sia forte,

come in Italia, i tassi saranno più bassi se confrontati a paesi dove il

supporto dello stato è minore e il peso dei piani pensionistici privati è

maggiore, come gli Stati Uniti.

Qualitativamente, si può sostenere quanto segue: al crescere della

popolazione lavorativa sul totale, crescono i risparmi e i consumi. In

particolare, per i consumi si ha una più bassa propensione marginale più

che bilanciata dal maggior reddito percepito.

- Modelli econometrici: da questi modelli, quali quello di Jaimovich e Siu

(2007), si sono ottenute numerose evidenze empiriche. La relazione che si è

stabilita è fra peso percentuale di una certa fascia di popolazione e una

caratteristica del sistema economico. In particolare, le caratteristiche

introdotte sono la volatilità di output del sistema economico, la volatilità

della forza lavoro e la produttivit{ della popolazione. Quest’ultima verr{

analizzata in dettaglio nella sezione riguardante l'istruzione e le

competenze, in quanto la relazione che sussiste non dipende direttamente

dalla sola età dell'individuo. Per quanto riguarda invece la volatilità di ciclo

e di forza lavoro, il rapporto è il seguente: al crescere del peso percentuale

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delle fasce d'età più estreme, tra i 15 e 25 anni e tra i 60 e 65, cresce la

volatilità. Si può inoltre stabilire un legame di causalità fra la volatilità della

forza lavoro e di ciclo: una maggiore volatilità della forza lavoro causa una

maggiore volatilità di ciclo, in quanto in un sistema più flessibile è più facile

rispondere agli shock economici con licenziamenti e riduzioni di organico,

così come con rapide assunzioni in caso di shock positivi. Così facendo, si ha

un più rapido aumento della disoccupazione in fasi negative,

amplificandone ulteriormente gli effetti in quanto si riduce il reddito del

paese, riducendo così anche le possibilità di spesa.

Perché tali fasce siano più "flessibili" è di facile intuizione: nel caso di

individui molto giovani, manca esperienza e di conseguenza il costo

opportunità di licenziamento è molto basso. Per di più, la maggior parte dei

giovani lavora e studia contemporaneamente, ottenendo così più

frequentemente lavori part-time con contratti che vengono

immediatamente interrotti in caso di fasi negative del ciclo. Analoga è la

situazione per i più anziani: non hanno più la necessità di lavorare, in

quanto in pensione o prossimi alla stessa, e tornano al lavoro solo quando la

domanda è molto alta, salvo poi abbandonare tale lavoro in caso di

condizioni meno vantaggiose.

Come si può capire, da questi studi non si ottiene una semplice relazione tra

demografia e variabili economiche quanto una variazione strutturale della

"volatilità" del sistema stesso.

- Modelli finanziari: in questo ultimo tipo di approccio, si è stabilita una

relazione tra la composizione in età della popolazione, definita come MY

ratio, e l'andamento dei mercati finanziari di lungo periodo. In particolare,

si è utilizzata una tecnica di filtro che garantisse l'ottenimento di una

componente di "informazione", contrapposta alla componente di "rumore",

al fine di stabilire una relazione tra una variabile di così lenta evoluzione

come la composizione in età e i turbolenti mercati finanziari. La relazione

ottenuta ha evidenziato un legame diretto tra valore dei mercati e il MY

ratio. Questo significa che, all'aumentare percentuale degli adulti rispetto ai

giovani, cresce il valore dei titoli azionari. Questo perché solitamente i

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Demografia e politiche economiche: un framework analitico _

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giovani, che si trovano in una situazione di reddito basso e alte necessità di

spesa, si indebitano, chiedendo denaro a prestito mentre gli adulti,

caratterizzati da redditi più alti e spese inferiori, investono in borsa i propri

risparmi causando una crescita dei valori azionari dei titoli. Si otterrà di

conseguenza che, in un paese dove si sono avuti anni di alta natalità, i quali

hanno causato un MY ratio molto basso, si assisterà ad un progressivo

innalzamento del valore dei titoli nel tempo, coincidente con l'aumento

relativo dell'età della popolazione.

Questa relazione è molto importante, anche per via di alcuni canali di

trasmissione direttamente collegati al valore degli asset. Tra questi, i più

rilevanti sono la Q di Tobin, l'effetto ricchezza, l'effetto fiducia e il canale del

patrimonio netto. Tutti questi canali agiscono in un'unica direzione, con

effetti ovvi sull'economia. Nel dettaglio, un aumento del valore degli asset

dovuto alla composizione della popolazione comporterebbe: il superamento

per la Q di Tobin del valore unitario, incentivando i nuovi investimenti sul

mercato; per effetto ricchezza e fiducia, i consumi aumenterebbero sia tra

chi ha i propri risparmi investiti in borsa sia tra chi non li ha e aumenta i

consumi per "imitazione"; infine, per il canale del patrimonio netto, una

rivalutazione degli asset comporta un aumento dei prestiti di cui si può

disporre, con un conseguente aumento di consumi e/o investimenti.

Come si può notare, il risultato è un forte shock positivo sull'economia, che

se non ben gestito può portare ad una bolla speculativa. Un possibile

collegamento diretto tra composizione della popolazione e periodi di forte

"sovravalutazione" era già stato evidenziato nel corso dell'analisi della

letteratura nel capitolo 3 (Demografia e mercati finanziari).

A questo tema si affianca un altro elemento di interesse, meno studiato ma

sicuramente rilevante: la volatilità dei mercati in base alla composizione in

età. Si vuole qui dare un'idea qualitativa di come essa si comporti.

Intuitivamente, gli investimenti degli anziani sono molto poco rischiosi in

quanto, giunti in una fase della vita in cui si utilizzano i risparmi come fonte

di sostentamento, è necessario potersi garantire una adeguata stabilità.

Analogamente, i giovani si trovano in una situazione di precarietà

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economica dovuta al basso reddito e alla necessità di ripagare eventuali

debiti, come il mutuo sulla casa. Per questo motivo necessitano di

investimenti sicuri e i pochi risparmi sono impiegati in fonti a più bassa

variabilità. Infine, in età adulta generalmente si dispone di sufficiente

stabilità e risparmi che spesso sono utilizzati per accentuare il profilo di

rischio del proprio portafoglio. Per questi motivi, si può intuire che la

volatilità sia più alta in popolazioni nelle quali la fascia di adulti è maggiore

e diminuisce al crescere di anziani e giovani.

Al termine di questa prima analisi, è possibile stabilire un unico framework che

permetta di studiare gli effetti della composizione della popolazione nel suo

complesso. Al fine di raggiungere tale scopo, si è optato per l'utilizzo di un

compromesso tra completezza e semplicità che permetta di studiare gli effetti

globali senza complicare troppo l'analisi. Esso consiste nell'utilizzo di una

definizione della composizione in età come segue: si suddivide la popolazione

globale in tre fasce, costituite da giovani lavoratori, lavoratori adulti e pensionati.

L'indicatore sarà di conseguenza di tipo percentuale. Rispetto all'analisi LCH, si

aggiunge una scomposizione dei lavoratori che non complica eccessivamente

l'analisi ma permette di integrare nelle nuove due classi di lavoratori gli effetti

legati al ciclo di "investimenti", il quale consente di introdurre dinamiche simili a

quelle del MY ratio, nonché ottenere una suddivisione in fasce che permetta una

certa analisi di volatilità. In particolare, si identificano nei giovani lavoratori e nei

pensionati le due fasce più volatili di popolazione, similmente a quanto fatto dagli

studi di Jaimovich e Siu ma con minore grado di dettaglio.

Così facendo, si possono identificare tre casi estremi, con l'insieme dei conseguenti

effetti che ne derivano. Questi possono essere a loro volta combinati per ottenere

scenari più realistici senza perdere di generalità. Essi sono:

- Aumento relativo di giovani lavoratori: in questo caso, il sistema economico

si aggiusterà verso una condizione di maggiore volatilità complessiva e di

minore valore dei titoli di borsa, in quanto i giovani chiedono a prestito per

poter consumare, invece che investire o risparmiare. Nonostante il modello

LCH non preveda una divisione dei lavoratori, si può ipotizzare comunque

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un effetto di riduzione dei consumi dovuto alla minor capacità di spesa data

dal minor reddito medio della fascia più giovane della popolazione.

- Aumento relativo di lavoratori adulti: questo è il caso in cui l'economia si

trova in maggiore spinta di crescita. La volatilità complessiva è

estremamente ridotta e si assiste a una grande crescita della borsa, che

consente anche un aumento dei consumi. Per il modello LCH, si assiste a un

incremento dei risparmi che permette così un maggior volume di

investimenti da parte delle imprese che vedono crescere la domanda di beni.

Il reddito potenziale cresce, garantendo una maggiore prosperità.

- Aumento relativo di pensionati: il caso più complesso da analizzare,

presenta caratteri discordanti. Da una parte vi è un aumento della volatilità

della forza lavoro e un aumento, anche se di rilevanza inferiore, della

volatilità di output (per chiarimenti si faccia riferimento al capitolo 1,

Demografia, volatilità e altri elementi strutturali). Contemporaneamente, si

assiste a una forte riduzione degli investimenti in titoli, in quanto i

pensionati consumano i propri risparmi. Questo genera una riduzione del

valore degli asset e una analoga riduzione degli investimenti e consumi. Si

può ipotizzare il passaggio ad un equilibrio a minore reddito potenziale.

Come si può notare, gli effetti di una sola variabile demografica sono molteplici e

agiscono su più variabili. Al termine del capitolo, si vuole costruire una mappa che

tenga conto di tutti gli effetti in modo da costituire un framework analitico

spendibile per successivi studi.

In questa fase si vogliono invece proporre alcuni grafici esplicativi dell'andamento

di reddito, ricchezza e consumi del singolo individuo durante il suo ciclo di vita. I

tre grafici, riportati in Figura 5.1, sono costruiti con funzioni matematiche che

replichino l'andamento descritto nei modelli LCH. I valori numerici sono riferiti

alla situazione italiana, fonte ISTAT. La vita media è di 82 anni mentre l'età di

pensionamento di 65 anni. Il grafico sul reddito è basato sul valore medio netto di

16,900€ e su una pensione pari a circa 10,000€. Il grafico sulla ricchezza è

costruito partendo dal dato medio di ricchezza accumulata da un individuo nel

corso del ciclo di vita, pari a circa 7,5 volte il reddito. La curva parte con ordinata

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negativa in quanto si presuppone l'indebitamento da parte dei giovani al fine di

finanziare l'acquisto di beni durevoli. Dal momento del pensionamento, l'individuo

inizia a consumare la ricchezza accumulata per il sostentamento senza arrivare

però ad esaurirla del tutto. Questo per i motivi teorici introdotti durante la

trattazione del modello LCH: incertezza sulla durata della vita e volontà di lasciare

una eredità. Infine, il grafico sui consumi è costruito partendo dalla supposizione

che gli individui consumino il reddito e la ricchezza, con propensione diversa in

base alla fase nel ciclo di vita.

Figura 5.1: Andamento di reddito, ricchezza e consumo nell'arco della vita dell'individuo, in Euro.

0

5000

10000

15000

20000

25000

30000

35000

G A V

Consumo

Consumo

0

5000

10000

15000

20000

25000

30000

G A V

Reddito

Reddito

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Demografia e politiche economiche: un framework analitico _

150

Inoltre, è proposto un grafico dei risparmi aggregati che simula diversi scenari in

base alla composizione della popolazione (Figura 5.2). Il primo caso mostra una

situazione di partenza in cui la distribuzione della popolazione è uniforme, con il

33% di individui in ogni categoria. Gli altri tre casi riguardano la variazione che si

otterrebbe nei risparmi aggregati al variare della distribuzione, qui estremamente

semplificata: si passa al 50% della categoria in aumento e al 25% nelle altre due

categorie. In tale raffigurazione non vi è pretesa di realismo, come si capisce

facilmente dai valori presi in considerazione, ma si vuole semplicemente mostrare

al lettore un effetto della modifica della composizione della popolazione, date tutte

le altre condizioni costanti.

Figura 5.2: Variazione dei risparmi aggregati al variare della composizione della popolazione.

0

2

4

6

8

10

Base Più giovani Più Adulti Più Anziani

Risparmi aggregati

Anziani

Adulti

Giovani

-50000

0

50000

100000

150000

200000

250000

G A V

Ricchezza

Ricchezza

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151

5.3.2 Tasso di crescita della popolazione

Dall’analisi della letteratura è emerso come il tasso di crescita della popolazione

abbia una forte influenza sui principali elementi macroeconomici. Si sottolinea

come in questo contesto si faccia riferimento in particolare alla crescita naturale

della popolazione, definita come differenza tra tasso di natalità e mortalità di un

paese. L’analisi che segue non tiene quindi in considerazione i flussi migratori, i cui

complessi e controversi effetti sull’economia sconfinano dallo scopo dell’analisi. La

crescita naturale delle fasce di età che compongono la forza lavoro e i pensionati

sarà del tutto prevedibile, in quanto determinata da scelte di natalità osservabili

con almeno 15 anni di anticipo. Le considerazioni che seguono, quindi, mettono in

luce effetti che ben si prestano ad essere tenuti in considerazione da governi e

banche centrali.

Come si è visto in precedenza, di questo elemento si sono occupati

contemporaneamente più filoni:

- Modello del ciclo di vita: il modello si concentra sullo studio del rapporto tra

tasso di crescita della popolazione e propensione marginale al risparmio. La

crescita della popolazione porta all’aumento della percentuale di lavoratori

sulla popolazione totale, che producono, consumano e risparmiano di più

rispetto ai pensionati. Si osserverà perciò un generale miglioramento delle

condizioni economiche. Questa visione, seppur intuitiva e supportata

dall’andamento positivo del PIL nei paesi caratterizzati da crescita

demografica, rispecchia la sola divisione lavoratori/pensionati adottata dal

LCHM, senza addentrarsi in considerazioni più dettagliate. In particolare, si

trascura che la crescita della popolazione implica anche un aumento della

fascia dei giovani all’interno della popolazione lavorativa, caratterizzati da

capacità di spesa inferiore, bassi risparmi e bassi investimenti. Come si

evidenzier{ a breve, in equilibrio gli effetti dati dall’aumento dalla

percentuale di lavoratori più che compensano l’aumento di giovani; vice

versa, l’effetto netto nel transitorio non è di banale individuazione, in

quanto l’aumento/diminuzione della popolazione si ripercuote in primis sul

numero di giovani, e solo successivamente si estende ad adulti e anziani;

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- Modelli economici che incorporano il LCHM: il tema della crescita della

popolazione è stato trattato diffusamente dalla BCE nell’articolo di Kara e

Thadden (2010), i cui risultati principali sono stati riportati a conclusione

del Capitolo 4 (Demografia e politiche monetarie: sviluppi recenti). La

riduzione del tasso di crescita della popolazione attesa nel prossimo

ventennio per l’area Euro comporter{ un aumento della popolazione

anziana, e una conseguente leggera riduzione del tasso di interesse naturale

dello 0,9%. A fronte di una riduzione di tasso di interesse così lieve, la BCE

conclude che la variabile abbia effetti di rilevanza secondaria. Questa

deduzione è però valida solo in corrispondenza di una riduzione lenta e

graduale del tasso di crescita (si ricorda che lo studio simulativo considera

una riduzione che arriva ad un punto percentuale in ben 20 anni); diversi

risultati emergono invece dall’analisi di shock demografici dati da

variazioni repentine del tasso di crescita, come si evidenzia nel seguente

paragrafo;

- Modelli econometrici: anche i modelli econometrici affrontano il tema del

tasso di crescita, seppur indirettamente. Si fa riferimento in particolare allo

studio di Jaimovich e Siu (2009), in cui si analizza l’effetto sull’economia

dell’ingresso nella forza lavoro dei baby-boomers, cioè degli individui nati

nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale54. Il fenomeno è infatti

da considerarsi alla stregua di uno shock demografico, dove l’impulso è dato

dal cambiamento repentino e discreto del tasso di crescita della

popolazione nel ventennio considerato. Le conclusioni a cui giungono gli

autori differiscono profondamente da quelle della BCE: la variazione del

tasso di crescita ha conseguenze davvero rilevanti, che vedono una

variazione di tasso di disoccupazione, volatilità di output, risparmio

aggregato e consumo aggregato della popolazione con la crescita dei “baby-

boom” e la loro conseguente transizione attraverso le diverse fasce di et{.

Lo shock considerato ha infatti caratteristiche profondamente diverse

rispetto a quello analizzato dalla BCE: non è graduale e permanente, bensì

54 In particolare si fa riferimento al boom di nascite sperimentato durante il ventennio 1946-1964

da Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e Australia.

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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repentino e caratterizzato da una andamento ad onda, nel senso che dopo lo

shock il valore del tasso è tornato alla normalità, se non a livelli addirittura

inferiori. Ad oggi gli individui nati nel periodo del boom si apprestano a

diventare pensionati, il che, come si vedr{ in seguito, fa temere l’avvento di

un periodo di stagnazione.

A valle di questa analisi si persegue l’obiettivo di tirare le fila relativamente a come

il tasso di crescita della popolazione vada ad influenzare le principali grandezze

macroeconomiche. In particolare, si ritiene utile distinguere tra due tipologie di

variazione del tasso di crescita55:

- Variazione “a onda”: si fa riferimento ad un aumento/diminuzione del tasso

osservabile lungo un orizzonte temporale finito e limitato, per poi tornare a

valori “normali”. Le conseguenze sull’economia sono molto forti e mutano

radicalmente nel tempo, fino ad esaurirsi. In particolare, a circa 15 anni

dall’inizio della variazione si osserver{ un aumento/diminuzione della

percentuale di giovani lavoratori sul totale della popolazione. Come

analizzato nel paragrafo relativo alla composizione in età della popolazione,

un aumento relativo di giovani lavoratori spingerà verso un aumento della

volatilità complessiva, una riduzione del valore dei titoli di borsa e una

riduzione dei consumi; viceversa in caso di riduzione. Trascorsi altri

vent’anni, e quindi a 35 anni dal primo impulso, l’onda di individui inizier{ a

migrare verso la fascia dei lavoratori adulti. Se l’onda è positiva – i.e.

aumenta il numero di individui nella fascia degli adulti – influenzerà

positivamente l’economia, aumentando la probabilit{ di sperimentare un

periodo caratterizzato da bassa volatilità, crescita del mercato azionario,

aumento dei consumi e degli investimenti; se al contrario l’onda è negativa

– i.e. si riduce il numero di adulti a causa di un pregresso calo di nascite –

55 La distinzione proposta trova giustificazione nelle diverse conclusioni cui giungono Jaimovich e

Siu (2009) e Modigliani e Brumberg (1954) in relazione agli effetti sull’economia del tasso di

crescita della popolazione, considerato più forte dai primi. Jaimovich e Siu (2009) analizzano infatti

il caso di una variazione discreta e molto forte, che genera un vero e proprio shock demografico

sull’economia. Data la dinamica degli effetti così generati, nell’analisi che segue questo tipo di

variazione del tasso di crescita verr{ chiamata “variazione a onda”.

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Demografia e politiche economiche: un framework analitico _

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l’economia ne risulter{ penalizzata. Infine l’onda si sposter{ verso la fascia

dei pensionati, spingendo verso un aumento/riduzione dei consumi, degli

investimenti e del valore dei titoli in borsa in corrispondenza di una passata

riduzione/aumento del tasso di crescita, per poi annullarsi con la morte

degli individui nati nel periodo dello shock. Si osserva quindi che gli effetti

sul ciclo economico di una variazione del tasso di crescita “a onda” sono

particolarmente complessi ma del tutto prevedibili a priori, e devono essere

adeguatamente tenuti in considerazione da governi e banche centrali. Se è

vero che un fenomeno della portata del baby-boom del Secondo

Dopoguerra sia difficilmente replicabile, si ritiene importante sottolineare

come questo tipo di variazione del tasso di crescita della popolazione non

sia affatto infrequente. Andamenti di questo tipo si verificano nelle più

disparate situazioni, come ad esempio nel caso della vincita dei Campionati

del Mondo di calcio da parte del Paese considerato. Se questi eventi non

dovrebbero in alcun modo essere prevedibili a priori, le loro conseguenze

sull’economia sono invece scritte.

- Variazione di tipo strutturale: si fa riferimento ad un aumento/diminuzione

del tasso di crescita di carattere permanente (o meglio di lungo periodo),

che porta al raggiungimento di un nuovo equilibrio nell’economia. Gli effetti

di questo tipo di variazione si articolano in due fasi. La prima fase è relativa

al periodo di transitorio, e ricorda le implicazioni della variazione “a onda”

sopra descritte. In particolare, in corrispondenza di un mutamento del tasso

di crescita si avrà una iniziale modifica sulla sola fascia dei giovani, per poi

toccare, negli anni, anche quella degli adulti e successivamente degli anziani.

A differenza dell’onda però, l’effetto sulle fasce più giovani non sia annulla,

perché il tasso di crescita non ritorna ai valori iniziali. Inoltre, l’effetto non

necessariamente si verificherà: in caso di variazioni molto lente e graduali,

l’onda sar{ pressoché nulla. Gli effetti del transitorio saranno allora

trascurabili, come assunto dalle simulazioni condotte dalla BCE. La seconda

fase è invece relativa alle implicazioni strutturali del cambiamento.

L’economia si stabilizzer{ infatti a livelli diversi di equilibrio. Nel caso di

una riduzione strutturale del tasso di crescita, la popolazione andrà

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riducendosi in numero (considerando fissa la durata media di vita) e si

raggiungerà un equilibrio caratterizzato da minori consumi, risparmi e

investimenti, in una condizione generale di stagnazione dell’economia.

Questo scenario è di particolare attualità, in quanto ricalca le previsioni

relative all’andamento demografico dell’area Euro: le prospettive di

stagnazione che emergono mostrano chiaramente la necessità di prendere

provvedimenti precoci e strutturali che limitino i danni.

Si conclude sottolineando come, nonostante gli effetti delle due tipologie di

variazioni del tasso sopra analizzate siano differenti, essi siano in ultima istanza

riconducibili alle analisi in precedenza condotte in relazione alla composizione in

et{ della popolazione. La caratterizzazione “dinamica” tradizionalmente ed

intuitivamente associata al concetto di crescita si riduce ai minimi termini nel caso

della demografia, in quanto gli effetti di un aumento/diminuzione delle nascite

impiegano decenni a manifestarsi e sono prevedibili con largo anticipo.

5.3.3 Durata media della vita

L’ultima variabile demografica legata all’et{ che influenza significativamente le

principali grandezze economiche è la durata media della vita degli individui. I suoi

effetti, però, non sono diretti, ma vengono filtrati dalla durata del periodo di

pensionamento: un allungamento delle aspettative di vita causa infatti una

dilatazione del periodo di pensionamento, che ha ripercussioni significative

sull’economia. Come è facile notare, la durata del pensionamento dipende però

anche dall’et{ minima prevista per il ritiro dal lavoro che, a differenza delle

variabili demografiche, non è un fattore esogeno, ma dipende dalle scelte

governative in materia di Previdenza Sociale. Un’analisi approfondita sul tema sar{

condotta nella successiva sezione di questo capitolo, dedicata alla relazione tra le

scelte dei governi e delle banche centrali e i fattori demografici. Di seguito, invece,

si analizza la durata del periodo di pensionamento “esogena”, considerando l’et{ di

pensionamento fissa e riconducendosi quindi a considerazioni relative alla durata

media della vita degli individui. In particolare:

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- Modello del Ciclo Vitale: la durata del periodo di pensionamento ricopre un

ruolo chiave nel modello. Si ipotizza, infatti, che il motivo principale che

spinge gli individui al risparmio sia accumulare risorse in vista della

pensione, di modo da poter mantenere un livello di consumo costante anche

a seguito della riduzione del reddito che inevitabilmente accompagna

l’uscita dalla forza-lavoro. In particolare, in caso di stato stazionario

(crescita zero) il modello arriva a definire la ricchezza aggregata di un paese

come il prodotto tra il PIL del paese stesso e la durata media del periodo di

pensionamento. Prescindendo dalle scelte in merito all’et{ di entrata in

pensione, risulta chiaro come le aspettative sulla durata della vita ricoprano

un ruolo chiave nella determinazione del risparmio e della ricchezza di una

nazione, in quanto implicano l’allungamento del periodo di pensionamento.

I lavoratori saranno indotti a risparmiare di più durante il periodo

lavorativo, portando a una riduzione dei consumi pro capite e causando un

aumento del tasso di interesse naturale. Questa situazione è comune a tutti i

paesi sviluppati, che vedono le aspettative di vita degli individui allungarsi

sempre più grazie ai progressi della medicina e al miglioramento delle

condizioni di vita. In particolare, per i paesi dell’Euro si prevede un

aumento della vita media di circa 3,4 anni entro il 2030 (Kara e Thadden,

2010).

- Modelli economici che incorporano il Ciclo Vitale: le analisi condotte in

ambito del modello del ciclo di vita, seppur molto interessanti, non colgono

al completo la complessità delle conseguenze della variabile oggetto di

studio sull’economia. In particolare, si trascura di sottolineare come un

aumento delle aspettative di vita e la conseguente estensione del periodo di

pensionamento non solo spingano i lavoratori a risparmiare di più, ma

abbiano anche l’effetto di aumentare il numero di pensionati che scelgono

di continuare a lavorare; percepire un reddito da lavoro più a lungo è infatti

il metodo alternativo (o complementare) al risparmio per mantenere un

tenore di vita in linea con quello condotto durante l’et{ lavorativa. Al

contrario della spinta al risparmio, la pressione verso l’allungamento del

periodo lavorativo porta ad un abbassamento del tasso di interesse.

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Comprendere quale delle due spinte prevalga sull’altra è un esercizio non

banale. Secondo i risultati dell’analisi di simulazione economica condotta da

Kara e Thadden (2010), l’effetto aggregato risulta essere la riduzione del

tasso di interesse naturale;

- Modelli econometrici: anche i modelli econometrici si occupano delle

aspettative di vita degli individui, seppur indirettamente. Si fa riferimento

in particolare alle analisi condotte da Jaimovich e Siu (2009) relativamente

al contributo delle diverse fasce di et{ alla volatilit{ dell’output, secondo cui

la fascia di lavoratori più anziani (60 - 65 anni) risulta essere soggetta ad

alta volatilit{, di modo che l’aumento percentuale degli individui che la

compongono causerebbe un aumento generalizzato della volatilità del ciclo

economico. Queste considerazioni possono essere reinterpretate alla luce

del fatto che all’aumentare della vita media i pensionati sono spinti a

continuare a lavorare, come si è discusso nel precedente paragrafo. Si può

infatti dedurre che, all’aumentare dell’et{ media, la fascia più anziana di

lavoratori cresca sia in numero di individui che ne fanno parte sia in termini

di età dei lavoratori che include (i.e. incorporando individui di età anche più

avanzata). Si verificherà quindi un aumento generalizzato della volatilità

d’impiego dell’economia, accompagnato dall’appiattimento della curva di

Phillips56;

- Modelli finanziari: la durata della vita ha conseguenze rilevanti anche sui

mercati finanziari. L’allungamento delle aspettative di vita e la conseguente

estensione del periodo di pensionamento spingeranno infatti i lavoratori a

risparmiare di più per la vecchiaia, come è emerso dall’analisi del modello

del ciclo vitale. Oltre alla “quantit{” dei risparmi ne cambier{ però anche la

“qualit{”: si modificheranno infatti le preferenze nei portafogli degli

investitori i quali, dato lo scopo di salvaguardia del tenore di vita rivestito

dai propri investimenti, vorranno contenere il rischio. Pertanto,

aumenteranno percentualmente le quote di bond a scapito delle azioni,

riducendo la volatilità del mercato finanziario. In una situazione in cui la

56 Aumenta la forza lavoro senza che vi sia pressione inflazionistica.

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maggior parte dei bond è denominata nominalmente, le banche centrali

dovranno andare incontro alla volontà di mantenere sottocontrollo

l’inflazione, come vedremo nell’analisi delle relazioni tra effetti della

demografia e scelte politico-monetarie.

Dall’analisi critica sopra condotta in relazione ai principali contributi della

letteratura, è possibile tirare le fila su quali siano gli effetti corrispondenti ad una

variazione delle aspettative di vita. Le considerazioni che seguono fanno

riferimento in particolare al caso del miglioramento delle aspettative di vita, che

rispecchia il tipico andamento della variabile. Le stesse considerazioni sono valide

nel caso di una peggioramento delle aspettative di vita, ovviamente con effetti di

segno opposto. Gli effetti principali individuati risultano essere:

- Aumento relativo di pensionati: se non accompagnato da un corrispondente

innalzamento dell’et{ pensionabile, l’aumento delle aspettative di vita

contribuisce ad incrementare il numero di individui nella fascia dei

pensionati. Gli effetti sull’economia saranno quindi gli stessi

precedentemente evidenziati in relazione allo studio della composizione

della popolazione in età: riduzione del valore degli asset, degli investimenti

e dei consumi e aumento della volatilit{ d’impiego e di output;

- Tendenza degli individui a continuare a lavorare anche una volta raggiunta

l’et{ di pensionamento, che rafforza gli effetti sulla volatilità appena

commentati e che causa l’appiattimento della curva di Phillips;

- Aumento della propensione al risparmio dei lavoratori, con conseguente

riduzione del consumo aggregato e rallentamento della crescita del PIL;

- Riduzione del rischio e della volatilità dei mercati finanziari.

Si sottolinea ancora una volta come gli effetti sopra sintetizzati siano relativi al

miglioramento delle aspettative di vita a parità di altri fattori, con riferimento in

particolare all’et{ minima di pensionamento. Nulla si è dedotto relativamente a

spesa e debito pubblico, in quanto il loro studio non può essere condotto senza

prendere in considerazione le caratteristiche del sistema di previdenza sociale. Si

accenna solo che, nel caso in cui i contributi pro-capite annui ai pensionati si

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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mantenessero costanti, allora la spesa e il debito pubblico sarebbero

irrimediabilmente destinati a lievitare, a meno che non si verifichi un

corrispondente aumento delle tasse ai lavoratori. Viceversa se fosse il contributo

aggregato a mantenersi costante, allora le pensioni annue si ridurrebbero

drasticamente, amplificando ancor più gli effetti sopra analizzati. Il tema, di

straordinaria attualità, verrà ripreso e approfondito in seguito.

5.3.4 Istruzione e competenze

Inizieremo col chiarire cosa si intende con istruzione e con competenze. Questo in

quanto, sebbene siano due termini di uso comune, possono lasciar spazio a

fraintendimenti. Inoltre, è fondamentale nel caso di questa analisi comprendere la

metodologia di misurazione delle due variabili. Per istruzione si fa riferimento al

grado di educazione di un individuo (in inglese, education) misurato non come

numero di anni di studio conseguiti prima di accedere al mondo del lavoro ma

come grado di studio conseguito. Questo permette di suddividere i campioni in

fasce discrete di istruzione e comprendere l’influenza di questa variabile

sull’economia. E' un tipo di misurazione molto utilizzato anche in altri campi,

quando si vuole per esempio confrontare il ritorno economico di un dato titolo di

studio. Per esempio, si possono confrontare i redditi medi di individui con un MBA

che lavorano in un certo settore industriale con i redditi medi di chi non ha tale

titolo.

Le competenze sono invece un tema delicato, perché sono collegate direttamente

con il numero di anni che un individuo ha speso nel mondo del lavoro. Di

conseguenza, spesso sono una variabile che viene in parte catturata dall'età

dell'individuo stesso. Alcune volte, per ovviare al problema di variabili tra loro

fortemente correlate, si misurano gli anni di lavoro nello stesso settore,

presupponendo meno sinergie conoscitive nel caso si passi ad un nuovo settore

lavorativo.

I risultati ottenuti dagli studi di letteratura presentati nel corso dei capitoli

precedenti rendono però di semplice discussione queste due variabili. In entrambe

i casi è possibile stabilire una relazione diretta fra istruzione e competenze e il

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Demografia e politiche economiche: un framework analitico _

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grado di volatilità della forza lavoro in una nazione. E' verificato57 che ad una più

alta istruzione o ad un maggiore livello di competenze corrisponde una minore

volatilità della forza lavoro. Questo garantisce una stabilità elevata del sistema

economico in quanto in presenza di shock la disoccupazione aumenta in modo

minore, garantendo anche una volatilità di output inferiore. Ciò è dovuto a cause

differenti per le due variabili. In particolare, nel caso dell'istruzione il fattore che

spinge in questa direzione è da ricercarsi nelle maggiori conoscenze possedute da

parte del lavoratore più "istruito". A più istruzione corrisponde solitamente un set

di abilità specifiche per posizioni altamente qualificate, posizioni per le quali sono

disponibili numeri molto ridotti di lavoratori. Per questo motivo, tali posti di

lavoro tendono ad avere una stabilità maggiore anche in caso di crisi.

Il fattore che guida le competenze è invece direttamente legato al costo di

licenziamento e ricerca. Un lavoratore con numerosi anni di esperienza alle spalle

possiede una vasta conoscenza tacita che non può essere facilmente trasferita e

che costituisce un asset di grande valore. Per questo motivo, è molto costoso

licenziare un lavoratore di grande competenza in quanto sarà complesso andare in

seguito a rimpiazzarlo con uno di eguale livello. Ciò comporta una minore volatilità

di chi ha maggiore competenza.

A queste considerazioni si aggiungono quelle relative allo studio di Shimer (1998)

sul tasso naturale di disoccupazione. Tale studio dimostra l'assenza di correlazione

inversa tra grado di istruzione e tasso naturale di disoccupazione, che non è quindi

influenzabile da politiche fiscali che se ne interessino direttamente.

In conclusione, l'unica relazione stabilita in letteratura tra istruzione e competenze

riguarda la volatilità della forza lavoro: istruzione e competenze riducono la

volatilità, migliorando così la stabilità del sistema economico nel suo complesso.

5.3.5 Variabili non più rilevanti: Genere ed Etnia

Per completezza di analisi si ritiene utile commentare brevemente alcune variabili

demografiche tradizionalmente considerate rilevanti in relazione alla volatilità nel

57 Dallo studio empirico di Clark e Summers (1981), precedentemente introdotto negli studi di

letteratura.

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mercato del lavoro ma il cui ruolo appare ad oggi ridimensionato. Si fa riferimento

in particolare al genere, che guarda alle differenze tra volatilità di occupazione tra

uomini e donne, e all’etnia, che fa riferimento alle differenze tra individui di etnia

diversa da quella del paese di riferimento.

Per quanto riguarda il genere, esso è andato perdendo progressivamente rilevanza

nel tempo. Se negli anni ‘50 le donne presentavano infatti un tasso di

disoccupazione più alto, questa differenza si è oggi annullata. Sembra permanere

una differenza per quanto riguarda invece la volatilità di occupazione calcolata

includendo anche la volatilità di partecipazione, come proposto da Clarks e

Summers (1981). Anche in relazione a quest’ultima definizione le differenze legate

al genere risultano però sempre più flebili, tanto da spingere ad escludere la

variabile dal framework di analisi che si va sviluppando in questa sede.

Anche la variabile etnia è da escludersi dall’analisi, seppur per motivi differenti

rispetto a quanto detto in relazione al genere. Non si nega infatti che la volatilità di

occupazione relativa ad individui di etnia diversa da quella del paese di riferimento

sia più elevata rispetto alla media, punto su cui concordano contemporaneamente i

diversi contributi di letteratura analizzati. Ciò che viene messo in discussione è la

ragionevolezza di attribuire all’etnia la ratio dell’elevata volatilit{ osservata. Essa

costituisce infatti un “calderone” in cui convivono spinte di natura differente che

sarebbe forzato ricondurre ad un’unica variabile; si fa riferimento, ad esempio, alla

composizione del nucleo famigliare, la tendenza al risparmio e il livello di

istruzione. La composizione del nucleo famigliare va a modificare il profilo di

consumo: in particolare, un aumento/diminuzione del numero medio di figli

determina un innalzamento/abbassamento dei consumi del nucleo nella fascia di

età che va tra i 25 e i 40 anni. Nuclei famigliari composti da individui di etnia

diversa da quella del paese di riferimento risultano allargati rispetto alla media, ma

il ragionamento non ha valore generale in quanto dipende strettamente delle

caratteristiche culturali del paese di provenienza. Anche la tendenza al risparmio è

legata alla cultura: ad esempio, in alcuni paesi è tipico che i risparmi siano molto

ridotti, al limite nulli, in quanto gli individui non hanno la cultura alla pensione e

vengono mantenuti dai figli una volta divenuti anziani. Infine, agli immigrati risulta

essere inizialmente associato un grado di istruzione inferiore alla media,

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corrispondente ad un più alto livello di volatilità del lavoro. Individui di etnia

diversa risultano in buona parte immigrati da paesi i cui abitanti vivono in

condizioni disagiate rispetto al paese di destinazione, dove meno attenzione viene

riservata all’istruzione.

Risulta quindi chiaro come il comportamento di consumo, risparmio e volatilità del

lavoro di individui di diversa etnia non dipendano dall’etnia stessa ma da una serie

di variabili ad essa correlate, e come i valori di queste variabili si modifichino al

variare dalla cultura del paese di provenienza.

La compresenza di spinte diverse, la complessit{ di modellazione e l’evoluzione

storico-culturale portano quindi ad escludere l’etnia e il genere dalle variabili

demografiche che influenzano significativamente l’andamento dell’economia.

5.4 Sintesi degli effetti delle variabili demografiche

A valle della discussione degli effetti che le variabili demografiche determinano

sull’economia, si ritiene utile presentare un breve sunto delle principali

considerazioni emerse. L’obiettivo che si persegue è infatti quello di raccogliere in

un unico schema logico tutte le considerazioni finora esposte, utilizzando un

approccio il più possibile sistematico.

Le principali conclusioni a cui si è giunti, suddivise per variabile demografica di

competenza, risultano essere:

- La composizione della popolazione è l’elemento demografico più

significativo, che influenza tutti i fattori economici inclusi nell’analisi. Al

crescere della percentuale di anziani sul totale della popolazione si osserva

un calo nei consumi, risparmi/investimenti, produttività e valore dei

mercati finanziari, che deprime l’output, accompagnato da una riduzione

della volatilità dei mercati finanziari e un aumento della volatilità di

occupazione, che si ripercuotono sulla volatilit{ dell’output. Le stesse

considerazioni valgono in corrispondenza di un aumento della percentuale

di giovani, sebbene il legame causale e l’entit{ degli effetti siano differenti.

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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Al crescere della percentuale di adulti si verifica invece l’effetto opposto,

con un conseguente stimolo all’economia;

- Il tasso di crescita ha conseguenze dirette sui consumi e sugli

investimenti/risparmi, che crescono all’aumentare della popolazione. Il

tasso ha inoltre conseguenze indirette sull’economia: esso determina infatti

la composizione futura della popolazione, portando agli effetti sopra

analizzati in relazione a modifiche percentuali delle diverse fasce di età;

- La vita media influenza in primo luogo i risparmi e i consumi: i primi

crescono al crescere della variabile, in quanto gli individui devono

accumulare ricchezza per far fronte ad un periodo di pensionamento più

esteso; viceversa i consumi diminuiscono, per lo stesso motivo. In secondo

luogo, l’allungarsi della vita media spinge gli anziani a dedicarsi a lavori per

arrotondare la pensione, aumentando la volatilità di occupazione. Infine,

all’aumentare della variabile si riduce la volatilit{ dei mercati finanziari, in

quanto aumenta il peso dei fondi pensionistici i cui portafogli son per

definizione poco rischiosi;

- L’istruzione e le competenze influenzano negativamente la volatilità di

occupazione: le posizioni qualificate a cui la prima dà accesso e i maggiori

costi di licenziamento che la seconda determina hanno infatti un effetto

stabilizzante sul mercato del lavoro. Questo garantisce una stabilità elevata

del sistema economico in quanto in presenza di shock la disoccupazione

aumenta in modo minore, garantendo anche una volatilità di output

inferiore.

Le conclusioni sopra riportate possono essere integrate in una classica mappa

causale (Figura 5.3), che sintetizza graficamente le relazioni di causa-effetto tra le

variabili. Gli archi orientati, che rappresentano i nessi causali, sono contrassegnati

alternativamente come positivi o negativi. Gli archi positivi rappresentano

situazioni in cui al crescere della variabile-causa cresce anche la variabile-effetto,

vice versa per gli archi negativi. Si noti che agli archi che hanno come variabile-

causa la composizione della popolazione sono associati tre segni diversi: ognuno di

essi rappresenta la direzione d’impatto causata dal crescere, nell’ordine, della

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percentuale di giovani, adulti e anziani rispetto al totale della popolazione. Infine,

le relazioni tra le variabili demografiche stesse sono rappresentate da archi

orientati tratteggiati, e le variabili economiche sono raggruppate mediante graffe

in base a che influenzino il valore dell’output o la sua volatilità.

Figura 5.3: Mappa delle relazioni di causa-effetto tra variabili demografiche e grandezze

macroeconomiche.

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5.5 Politiche economiche

Terminata l'analisi delle variabili demografiche, si vuole sondare la loro (eventuale)

rilevanza per governi e banche centrali. In questo paragrafo si andranno quindi ad

analizzare gli effetti che variazioni demografiche determinano sull’efficacia di

differenti politiche fiscali e monetarie, e le conseguenti necessità di intervento da

parte delle politiche stesse. È importante sottolineare come le considerazioni che

seguono non hanno l’obiettivo di definire “ricette” di politica fiscale e monetaria:

l’analisi tiene infatti in considerazione le sole variabili demografiche, che

costituiscono uno dei tanti fattori che contribuiscono a determinare le politiche

economiche. L’intento è piuttosto quello di definire adeguatamente gli effetti della

demografia, di modo che i policymaker possano basare le proprie scelte su un

quadro sempre più completo.

5.5.1 Politiche fiscali

Nell’ambito delle politiche fiscali, si analizzeranno due temi principali: la

Previdenza Sociale e il finanziamento della spesa pubblica. Come si vedrà, infatti,

essi risultano essere strettamente interconnessi con le variabili demografiche di

una nazione.

5.5.1.1 Previdenza sociale

Le analisi finora condotte portano ad individuare nella Previdenza Sociale un tema

strettamente interconnesso con le caratteristiche demografiche di una nazione. In

questo paragrafo ci si pone l’obiettivo di analizzare in particolare due aspetti di

questa relazione:

- Come un dato sistema di pensionamento si debba adattare a cambiamenti

demografici;

- Quale sistema di pensionamento meglio si presti a far fronte a differenti

evoluzioni.

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Per raggiungere l’obiettivo è utile presentare brevemente le principali

caratteristiche degli schemi pensionistici ad oggi più diffusi: a capitalizzazione e a

ripartizione58.

Lo schema a capitalizzazione, adottato principalmente nei paesi anglosassoni,

abbraccia un’ottica assicurativa individuale, in cui i contributi che ogni individuo

versa durante l’et{ lavorativa sono investiti sul mercato dei capitali e riscossi

successivamente – durante il pensionamento – sottoforma di rendita. Risulta

pertanto che ogni generazione finanzia le proprie pensioni, senza impegni nei

confronti delle generazioni precedenti né diritti nei confronti di quelle successive.

Lo schema a ripartizione, principalmente adottato nei paesi latini, si fonda invece

su un “patto intergenerazionale” in cui i contributi prelevati dai lavoratori vengono

destinati al pagamento delle pensioni erogate nello stesso periodo agli anziani; le

pensioni delle generazioni anziane risultano pertanto finanziate dalle generazioni

attive. La contribuzione obbligatoria in questo schema non partecipa alla

formazione dei risparmi/investimenti aggregati, perché subito usata per pagare le

pensioni in corso. La proporzione tra generazioni attive e in pensione costituisce

un indicatore fondamentale della sostenibilità del sistema: se il rapporto cala

l’equilibrio finanziario viene meno, rendendo necessario l’abbassamento della

rendita dei pensionati (a parit{ di aliquota contributiva) o l’aumento dei contributi

pensionistici (a parità di pensioni pro capite).

Si procede ora analizzando gli effetti determinati da variazioni demografiche59 in

corrispondenza dei sistemi pensionistici appena discussi, con particolare

attenzione alle misure che si rendono necessarie (Tabella 5.1). Per ogni variabile

considerata si distinguono gli effetti di una crescita (segno +) e di una decrescita

(segno -) della stessa, ad eccezione della durata media di vita60.

58 Si noti che l’analisi fa riferimento alle sole forme pensionistiche pubbliche. Nondimeno in molte

nazioni la previdenza sociale statale è affiancata da forme di assistenza complementari private. In

Italia la possibilità di ricorrere a questo tipo di soluzione è stata introdotta dalla Riforma Amato

(1992). 59 Con riferimento alle variabili demografiche sintetizzate nel grafico N.X. L’istruzione è esclusa

dall’analisi in quanto non determina effetti diretti sul sistema di pensionamento. 60 La riduzione della spettanza di vita non è presa in considerazione in quanto si osserva che la

variabile presenta un andamento in costante crescita.

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Tabella 5.1: Analisi delle conseguenze di variazioni demografiche sugli schemi

pensionistici a ripartizione e capitalizzazione.

Variabile ∆ Ripartizione Capitalizzazione

% di anziani

sul totale

della

popolazione

+

Viene meno il rapporto tra lavoratori e

pensionati necessario per garantire

l’equilibrio finanziario del sistema

pensionistico. Le alternative che si

presentano sono:

• Contributo pensionistico totale fisso,

con conseguente riduzione delle

pensioni pro capite. Questa

situazione scarica il costo del

cambiamento demografico

esclusivamente sugli anziani e porta

allo sviluppo di forme di assistenza

complementari “private”;

• Pensioni pro capite costanti e

conseguente aumento delle tasse ai

lavoratori. Questa alternativa è in

toto a carico dei lavoratori e

penalizza la crescita economica;

• Innalzamento dell’et{ pensionabile.

Il “costo” di questa opzione è

distribuito più equamente tra

pensionati e lavoratori; la non

retroattività del provvedimento

implica però che chi già è in pensione

ne risulterà avvantaggiato.

Il sistema è in

equilibrio

finanziario per

definizione; non si

vede necessaria

alcuna modifica.

-

La proporzione lavoratori/pensionati

cresce, stabilizzando il sistema e

gettando le basi per una eventuale

riduzione dell’aliquota contributiva e/o

della possibilità di anticipare il

pensionamento. La prima alternativa è

sicuramente la più auspicabile, in

quanto fungerebbe da stimolo

all’economia.

Non si verifica

alcuna modifica. Si

perde però

l’opportunit{ di

ridurre i contributi

versati dalla

popolazione attiva.

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Vita media +

Il miglioramento delle aspettative di vita

causa un aumento della percentuale di

anziani sul totale, con le stesse

conseguenze sopra descritte. In questo

caso la soluzione più ragionevole è

innalzare l’et{ di pensionamento,

coerentemente con la variazione della

vita media.

Nonostante

l’equilibrio

finanziario sia

garantito, le

pensioni si

troveranno a

diminuire. Gli

anziani possono

scegliere di

adeguarsi al nuovo

standard o lavorare

più a lungo.

Tasso di

crescita

della

popolazione

-

Genera gli stessi effetti descritti in

relazione all’aumento della percentuale

di pensionati sul totale, ma è osservabile

con largo anticipo rispetto al

manifestarsi degli effetti. I governi

hanno quindi l’opportunit{ di agire

attraverso riforme graduali e

lungimiranti.

Il sistema è in

equilibrio

finanziario per

definizione; non si

vede necessaria

alcuna modifica.

+

Come descritto in relazione ad una

diminuzione della percentuale di

pensionati sul totale, il sistema si

stabilizzerà ed eventualmente

consentirà di ridurre la pressione fiscale

sui lavoratori, con conseguenti effetti

positivi sull’economia.

Il sistema non

necessita di alcuna

modifica. Si perde

l’opportunit{ di

ridurre i contributi

versati dalla

popolazione attiva.

Dalle considerazioni sintetizzate in tabella risulta chiaro come l’efficacia dei

sistemi pensionistici dipenda strettamente dalla capacità dei governi di

mantenerne l’allineamento con le caratteristiche demografiche del paese. Si ritiene

utile sottolineare gli effetti del tasso di crescita nel sistema a ripartizione: in caso di

crescita positiva, risulta auspicabile una riduzione dei contributi versati dalla

popolazione attiva, che fungerebbe da stimolo all’economia; in caso di crescita

negativa (o di crescita ridotta, accompagnata dal miglioramento delle aspettative

di vita), cui corrisponde un aumento della percentuale di anziani, la leva più

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efficace è invece l’innalzamento dell’et{ di pensionamento, che contribuisce alla

crescita economica. Perché l’innalzamento dell’et{ pensionabile rispetti il principio

di equità intergenerazionale è però necessario che venga attuato con il dovuto

anticipo, in quanto chi già è in pensione non potrà più essere coinvolto nel

cambiamento. Si dimostra quindi come il monitoraggio dell’evoluzione futura delle

variabili demografiche sia molto utile per implementare riforme efficaci.

Le analisi condotte non si limitano però a fornire indicazioni in merito a come

“tarare” le caratteristiche del sistema di pensionamento in base ai cambiamenti

demografici. È infatti possibile spingersi oltre, andando ad analizzare quale

sistema risulti più conveniente adottare in corrispondenza di diverse

caratteristiche demografiche di una nazione61.

Nel caso di composizione della popolazione sbilanciata verso le generazioni più

giovani, il sistema a ripartizione offre l’opportunit{ di ridurre i contributi

pensionistici versati dai lavoratori, a parità di età di pensionamento e pensioni pro

capite. L’aumento della base lavoratrice non è invece sfruttabile dal sistema a

capitalizzazione, che si basa sul rapporto anni di lavoro/pensionamento del

singolo individuo. Le stesse considerazioni valgono nel caso di un aumento del

tasso di crescita della popolazione; in questo caso le indicazioni che se ne derivano

riguardano però l’adeguatezza del sistema nel lungo termine, e permettono di

prendere provvedimenti con il dovuto anticipo.

Le considerazioni più interessanti riguardano però il caso che vede le aspettative

di vita in costante aumento e il tasso di crescita della popolazione in diminuzione –

con un conseguente aumento del peso percentuale degli anziani rispetto alla

popolazione totale –, che rispecchia il trend attualmente in atto nei paesi sviluppati.

In questo contesto, il sistema a ripartizione rispetto a quello a capitalizzazione

soffre di due principali difetti:

- l'incertezza congenita sulla sua capacità di pagare in futuro le pensioni

promesse, dovuta al fatto che il sistema è stato creato sulla base di ipotesi non

61 Esiste una vasta letteratura sul tema. Si citano, tra gli altri, Modigliani e Ceprini (1998) e

Morcaldo (2007).

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Demografia e politiche economiche: un framework analitico _

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più valide sulla crescita della popolazione e sulla vita media dopo il

pensionamento;

- l’ingente contribuzione obbligatoria che non partecipa alla formazione del

risparmio e dell'investimento nazionale (e quindi alla crescita dell'economia)

perché usata per pagare le pensioni già in corso.

Al contrario, il sistema a capitalizzazione garantisce automaticamente l’equilibrio

finanziario e si basa sull’investimento dei contributi sui mercati finanziari,

caratteristica particolarmente apprezzabile in corrispondenza di una situazione di

stagnazione che il trend demografico sopra descritto implica, come illustrato in

precedenza (si faccia riferimento alla Figura 5.3).

È importante ricordare come queste considerazioni facciano riferimento agli effetti

di sole variazioni demografiche, escludendo dai confini dell’analisi variazioni di

altre variabili e obiettivi di governo dei policymaker. Le scelte “ottime” dei governi

non devono infatti necessariamente coincidere con quanto finora esposto. Si

consideri, per esempio, una situazione caratterizzata da vita media in aumento e

tasso di crescita negativo accompagnata da elevata inflazione e instabilità dei

mercati finanziari. Se da una parte le variabili demografiche fanno propendere per

il sistema a capitalizzazione, dall’altra inflazione e volatilit{ dei mercati finanziari

spingono verso l’adozione del sistema a ripartizione. Lo schema a capitalizzazione

prevede infatti che i contributi versati vengano investiti sul mercato dei capitali,

soggetti al rischio di perdite in conto capitale a causa dell’inflazione e caratterizzati

de rendimenti più variabili; pertanto, per applicarlo serve stabilità politica ed

economica.

È quindi importante ricordare che le variabili demografiche sono solo una

categoria tra le tante variabili che dispiegano i propri effetti sul sistema di

pensionamento; nondimeno è importante valutare adeguatamente questi effetti, di

modo da poter intraprendere provvedimenti tempestivi sulla base di un quadro il

più possibile completo.

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5.5.1.2 Finanziamento della spesa pubblica

Il tema del finanziamento della spesa pubblica è di particolare rilevanza per le

economie contemporanee, che si ritrovano a fare i conti con livelli elevati di debito

e necessità di operare una stretta sulla pressione fiscale. Come si è visto nel corso

del capitolo 4 (Demografia e politiche monetarie: sviluppi recenti), la scelta di

finanziare la spesa pubblica attraverso il debito piuttosto che con un aumento delle

tasse influenza la domanda privata (Gertler, 1997). In particolare, nel breve

periodo il ricorso al deficit di bilancio favorisce i consumi, mentre vale il contrario

in corrispondenza di un innalzamento della pressione fiscale62.

In questo paragrafo ci si pone l’obiettivo di approfondire l’analisi del tema, con

riferimento in particolare a due aspetti: l’agevolazione di una generazione in

corrispondenza di strategie di finanziamento alternative; l’interazione tra variabili

demografiche e soluzioni di finanziamento.

Per esplorare gli effetti indotti dalle strategie di finanziamento su diverse

generazioni risulta utile distinguere tra effetti di breve e di lungo periodo:

- Nel breve periodo, un aumento della spesa pubblica per beni e servizi

finanziato attraverso la sottoscrizione di debito nazionale favorisce i

consumi delle generazioni presenti al momento dell’aumento;

- Nel lungo periodo, il debito costituisce un fardello63 sulle nuove generazioni,

in quanto la necessità di pagare gli interessi sul debito si ripercuote in una

riduzione nel flusso di beni e servizi erogati dallo stato e/o in un aumento

della pressione fiscale.

Risulta allora che il finanziamento della spesa pubblica tramite ricorso al debito

favorisce le generazioni presenti al momento della scelta rispetto a quelle che

62 Modigliani (1961). L’antecedente teoria economica dell’Equivalenza Ricardiana, secondo cui i

consumatori internalizzano i vincoli di bilancio di modo che la tempistica dei cambiamenti della

tassazione non influisca sul loro profilo di spesa, resta applicabile unicamente al caso di vita infinita

degli individui. 63 Il fardello/guadagno verso le generazioni future determinato da una aumento/diminuzione della

spesa pubblica possono essere misurati attraverso il cambiamento del tasso di interesse sul debito

pubblico, posto che il tasso di interesse a cui i governi prendono denaro a prestito possa

considerarsi una buona proxy della produttività marginale del capitale (Modigliani, 1961).

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172

seguono, determinando un trattamento impari tra quelle che saranno in futuro la

fascia di età degli anziani e le fasce di giovani e adulti. Queste conclusioni risultano

ribaltate nel caso di finanziamento tramite aumento della pressione fiscale, che

costituisce un fardello sulle generazioni presenti mentre tende a generare un

guadagno per quelle future. Si noti inoltre che il fardello che si genera sulle

generazioni future in corrispondenza dell’incremento del debito può essere

compensato parzialmente o in toto nel caso in cui il debito sia utilizzato anche per

attuare una serie di interventi pubblici che contribuiscano ad incrementare il

reddito reale delle generazioni future (rilancio dell’economia). Le generazioni

future riceveranno così anche i benefici delle spese, nel rispetto del principio di

equità intergenerazionale. Risulta quindi auspicabile che i governi investano nel

rilancio dell’economia e che, parallelamente, mantengano un saldo controllo sul

livello del debito, definendo piani temporali per il pareggio di bilancio.

Le soluzioni di finanziamento risultano inoltre strettamente interconnesse con le

variabili demografiche. Si prendano in esame le seguenti evoluzioni demografiche

“limite”:

- Aumento del tasso di crescita della popolazione, che presuppone un futuro

aumento del numero di contribuenti;

- Innalzamento delle aspettative di vita accompagnato da riduzione del tasso

di crescita,

che implicano un futuro sbilanciamento della popolazione verso le fasce più

anziane.

In corrispondenza della prima situazione la scelta di finanziare il debito attraverso

deficit di bilancio avrà effetti più contenuti sulle generazioni future, in quanto le

spese si distribuiranno su un numero di individui in aumento e nell’ambito di

un’economia caratterizzata da elevati consumi, risparmi/investimenti e

produttività (si faccia riferimento alla Figura 5.3)

In corrispondenza della seconda situazione, invece, gli effetti negativi sulle

generazioni future determinati dal ricorso al debito risulteranno amplificati. Le

spese sostenute andranno infatti a riversarsi su un numero di individui in

diminuzione, con conseguente aumento dei costi pro capite. Si avrà quindi un

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173

effetto depressivo sull’economia, gi{ penalizzata dall’evoluzione demografica

considerata (si faccia riferimento alla Figura 5.3).

Risulta quindi che la scelta di ricorrere al finanziamento della spesa pubblica

tramite utilizzo del debito avrà effetti negativi più o meno amplificati in

corrispondenza di condizioni demografiche diverse. I governi dovrebbero quindi

tenere conto delle variabili demografiche al momento della definizione dei piani di

finanziamento, di modo da assumere decisioni il più possibile ragionate e

responsabili. La tendenza degli ultimi anni ha visto invece i governi agire sulla base

di considerazioni prevalentemente di breve periodo, che hanno favorito le

generazioni di allora ma hanno portato oggi alla formazione di un debito pubblico

difficilmente sostenibile. Si giunge così a un punto di rottura in cui il sistema non

regge più e si è costretti a prendere provvedimenti radicali che generano uno

shock sull’economia. Una politica fiscale lungimirante, basata sulla corretta stima

dei costi e benefici delle scelte nel breve e nel lungo periodo, si rende quindi

necessaria per garantire la stabilità economica.

5.5.2 Politica Monetaria

Nell'ambito delle politiche monetarie, si esporranno tre temi principali: gli effetti

del sistema pensionistico scelto, l'andamento del tasso naturale e, analogamente a

quanto fatto con le politiche fiscali, l'agevolazione di una fascia di età in

corrispondenza delle varie politiche perseguibili.

5.5.2.1 Sistema pensionistico

Per quanto riguarda il sistema pensionistico, sussiste una corrispondenza tra

sistema scelto in una nazione e gestione dei risparmi da parte degli individui. Come

già detto in precedenza, in un sistema a capitalizzazione ciò che avviene è che ogni

singolo individuo si preoccupa di risparmiare una parte del reddito ed investirlo,

tipicamente in fondi pensione privati. Questo si contrappone al sistema

pensionistico a ripartizione, nel quale la tassazione imposta ai lavoratori è

immediatamente impiegata per le pensioni correnti. La differenza tra i due sistemi

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Demografia e politiche economiche: un framework analitico _

174

implica una variazione di due fattori principali che possono interessare una banca

centrale: il tasso di interesse naturale e la volatilità dei mercati finanziari.

Nei paesi che adottano il sistema a capitalizzazione la quantità di risparmio

aggregata cresce, in quanto i risparmi per la pensione vengono investiti sul

mercato dei capitali. Come conseguenza si avrà da una parte la riduzione del tasso

di interesse di equilibrio, dall'altra un innalzamento della liquidità e una riduzione

della volatilità dei sistemi finanziari, dato che i risparmi pensionistici sono

solitamente impiegati in titoli azionari dall'elevato dividend yield. Di conseguenza,

manovre espansive di politica monetaria avranno conseguenze forti su tutti i

risparmi presenti nel sistema e, attraverso i canali di trasmissione già descritti,

porteranno ad un innalzamento dei consumi molto marcato. Nel complesso risulta

quindi che in corrispondenza del sistema a capitalizzazione le azioni della banca

centrale possono avere effetti molto forti sull'economia reale, in quanto i canali di

trasmissione sono "potenziati".

Al contrario, nei paesi che adottano il sistema a ripartizione non vi è la necessità di

accumulare risparmi privati legati alla pensione. Infatti, si garantisce la pensione

tramite l'immediata ridistribuzione del prelievo fiscale ai pensionati, situazione

che dovrebbe garantire maggiore consumo sia da parte dei pensionati, che possono

impiegare tutto ciò che percepiscono di pensione dato che non si devono

preoccupare di gestire uno stock ma hanno a disposizione un flusso monetario, che

dei lavoratori, che non si devono preoccupare del sostentamento futuro. Nel caso

in cui però non vi sia il corretto equilibrio tra lavoratori e pensionati, si potrebbe

generare una situazione di precarietà che comporta la necessità di aumentare la

spesa pubblica da parte dei governi, con conseguenze negative sul bilancio statale.

E' bene comunque notare come in molti paesi in cui questo sistema è utilizzato,

come l'Italia, il risparmio individuale è comunque molto elevato, smorzando le

differenze teoriche tra i due sistemi. Tuttavia, per le differenze esposte tra i due

casi, in questo tipo di sistema le manovre di politica monetaria tendono ad essere

meno efficaci che nel caso di un sistema a capitalizzazione.

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

175

5.5.2.2 Tasso di interesse naturale

Il tema del tasso di interesse naturale è stato già introdotto nel capitolo precedente,

in quanto trattato diffusamente dal paper della BCE di Kara e Von Thadden (2010).

Sarà qui ripreso al fine di spiegare in dettaglio quali sono le necessità di intervento

nel caso di variazioni delle variabili demografiche presentate. Come è noto dalla

teoria, le banche centrali dovrebbero costantemente monitorare l’andamento del

tasso naturale di interesse in quanto ad esso sono ancorati importanti fattori

macroeconomici, come il tasso naturale di disoccupazione e il reddito naturale.

Ogni intervento di politica monetaria atto ad intervenire sul tasso di interesse

nominale dovrebbe infatti tener conto del suo valore teorico di equilibrio,

identificato appunto nel tasso naturale. La fissazione di un tasso nominale

inadeguato porterebbe il tasso reale ad essere al di sopra o al di sotto del tasso

naturale, causando inflazione o deflazione. Dato che le principali banche centrali,

tra cui BCE e FED, hanno come obiettivo nel proprio statuto il controllo

dell'inflazione, è necessario che siano in grado di monitorare costantemente

l'andamento del tasso nominale.

Nel caso di interesse di questa trattazione, una variazione delle principali variabili

demografiche ha conseguenze principalmente sullo stock di risparmio. Questo può

avvenire nel caso di una variazione della composizione della popolazione o per il

suo invecchiamento dovuto alla crescita della vita media, due situazioni che come

visto causano l'aumento del risparmio privato delle famiglie. Un altro fattore che

può avere ripercussioni sui risparmi è la riduzione dei risparmi pubblici dovuta

all'innalzamento del deficit per sostenere le maggiori spese per l'erogazione delle

pensioni. Questo secondo fattore è presente solamente nel caso in cui il sistema

pensionistico di riferimento di un dato paese sia quello a ripartizione. Come si può

immediatamente dedurre, in questo caso un innalzamento dell'età media di una

nazione comporta due effetti contrapposti sui risparmi, che si mitigano

parzialmente: un aumento dei risparmi privati e una riduzione dei risparmi

pubblici. Gli studi della BCE mostrano infatti come dei due effetti quello dominante

sia il primo, portando ad un complessivo aumento dei risparmi in una nazione. Nel

caso in cui invece si sia di fronte ad un paese il cui sistema pensionistico è a

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capitalizzazione, ciò amplificherà ulteriormente l'aumento di risparmi privati, in

quanto gli individui dovranno detenere uno stock più elevato per garantirsi una

rendita adeguata nel periodo di pensionamento.

Si nota perciò come in entrambi i casi l'effetto netto sarà un aumento dei risparmi

complessivi, più o meno marcato a seconda del sistema pensionistico in uso.

Questa variazione dei risparmi comporta una riduzione del tasso naturale di

interesse significativa, ma spesso distribuita in un arco temporale molto lungo, che

rende difficile monitorarne l'andamento. Questo potrebbe comportare una scarsa

attenzione delle banche centrali, con effetti negativi nel lungo periodo.

La relazione descritta è presentata in Figura 5.4: S e I rappresentano

rispettivamente risparmi (Savings) e investimenti (Investments). Un aumento dei

risparmi privati porta ad uno spostamento verso l'alto della curva S in S', mentre

una riduzione dei risparmi pubblici porta ad un abbassamento di tale curva, in S".

Come precedentemente spiegato, l'effetto netto porta ad uno spostamento verso

l'alto di S, che, come da grafico, causa l'incontro tra risparmi e investimenti in una

nuova ascissa, corrispondente ad un tasso naturale inferiore.

Figura 5.4: Andamento dei risparmi in caso di modifica delle variabili demografiche come descritto.

0

50

100

150

200

250

300

0

0,5

1

1,5

2

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3

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4

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5

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6

6,5

7

7,5

8

S

I

S'

S"

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

177

Come descritto dal paper della BCE, in Europa si terrà conto di questo spostamento

del tasso adattando il tasso nominale di conseguenza, senza dover però reagire in

modo brusco come per situazioni di shock. Più forte dovrebbe essere la variazione

del tasso naturale negli Stati Uniti, per due motivi: il primo riguarda il sistema

pensionistico adottato, come detto a capitalizzazione, il secondo fa riferimento alla

parabola di invecchiamento della popolazione statunitense. Nella prossima decade

si dovrebbe assistere ad un aumento della età media considerevole, dovuto alla

forte sproporzione nella composizione della popolazione introdotta con il baby

boom (si faccia riferimento al tasso di crescita ad "onda" introdotto in precedenza).

Questo causerà una riduzione del tasso naturale più consistente e rapida rispetto a

quella Europea. Rimane evidente come lo stato attuale dell'economia e dei tassi

nominali non permetta di identificare questa variazione del tasso come una

priorità assoluta per la FED, che non dovrà però dimenticarsene in un prossimo

futuro.

5.5.2.3 Politica monetaria e scelta del tasso di interesse

L'ultimo punto che si vuole affrontare riguarda la possibilità che esista una

condizione di tasso di interesse che agevoli una determinata "coorte" della

popolazione piuttosto che un’altra. Questo comporterebbe la necessit{ da parte

della banca centrale di sviluppare una certa "sensibilità" nelle decisioni prese,

sapendo che non si sta più ricercando un ottimo globale ma una condizione

particolare di ottimo locale. Il tema prende spunto direttamente dall'estensione dei

modelli classici di macroeconomia tramite l'introduzione di ipotesi di eterogeneità

degli individui. In assenza di tali estensioni, infatti, è noto come l'equilibrio

desiderato sia univoco e non ammetta l'esistenza di possibili condizioni favorevoli

per una specifica fascia della popolazione, sia essa quella dei giovani o degli anziani.

Se invece si ammette la possibilità di avere più fasi del ciclo di vita, la situazione

che si presenta è differente. Come mostrato dallo studio effettuato da Annichiarico

e Piergallini (2005), in un modello che presenta due fasi nel ciclo di vita sono

ammessi due equilibri. Un equilibrio è quello voluto e atteso, nel quale la banca

centrale fissa il tasso nominale in modo da garantire il raggiungimento di

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Demografia e politiche economiche: un framework analitico _

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un'inflazione target e una distribuzione della ricchezza e dei consumi fra

generazioni equilibrata. Un altro equilibrio è invece inatteso e generalmente non

ricercato, in quanto genera una sproporzione nella distribuzione della ricchezza e

dei consumi fra fasce di popolazione.

Le conclusioni raggiunte dai due autori lasciano spazio alla possibilità che il tasso

fissato da una banca centrale possa influenzare direttamente la distribuzione delle

risorse, agevolando una determinata fascia della popolazione. Un esempio

potrebbe essere un tasso fissato troppo alto. In questo caso, si avrebbe una minore

capacità di indebitamento da parte dei giovani, i quali non sarebbero in grado di

sostenere gli interessi sui beni durevoli. Il loro consumo sarebbe

conseguentemente minore. Contemporaneamente, si agevolerebbero i risparmi

degli adulti prossimi alla pensione e degli anziani, incrementando la quantità di

ricchezza accumulata e quindi la loro capacità di spesa. Sussiste quindi la

possibilità che il tasso diventi un importante strumento che va oltre i semplici

ragionamenti di politica monetaria, arrivando a detenere una valenza di politica

sociale. In questo caso, le banche centrali dovrebbero mostrare una particolare

sensibilità, prendendo decisioni oculate. In una regione con un'età media elevata

come l'intera Unione Europea, sarebbe fin troppo facile agevolare la fascia più

anziana della popolazione, dimenticando l'importanza di una fascia giovane

motivata e a cui è permessa una naturale crescita economica. Sfortunatamente, nel

momento stesso in cui decisioni tecniche come la fissazione di un tasso ottengono,

come detto, una valenza sociale, si rischia di entrare in un'area grigia in cui è

difficile determinare dove stia l'equilibrio corretto. Per questo motivo, si vuole

sottolineare l'importanza di una banca centrale responsabile che sia in grado di

prendere decisioni "politiche" di una certa rilevanza, e non un semplice organo

tecnico adibito alla fissazione del tasso.

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179

5.6 Conclusioni

Di seguito si sintetizzano le principali conclusioni cui si è giunti nel corso del

capitolo in merito alla relazione tra variabili demografiche e politiche fiscali e

monetarie.

Le variabili demografiche più rilevanti in ambito macroeconomico sono la

composizione della popolazione per età, la crescita della popolazione, la speranza

media di vita e l’istruzione e le competenze. Esse influenzano il valore aggregato di

consumi, risparmi/investimenti, produttività e asset e la volatilità di occupazione e

di asset; inoltre, rivestono un ruolo di primaria importanza nella definizione delle

politiche economiche. Per quanto riguarda le politiche fiscali, l’evoluzione delle

caratteristiche demografiche di una nazione implica la necessità di apportare

riforme strutturali al sistema pensionistico e alla gestione del debito pubblico,

volte ad evitare che una “classe” di et{ venga favorita rispetto alle altre. Per quanto

riguarda le politiche monetarie, l’evoluzione delle caratteristiche demografiche di

una nazione causa la variazione del tasso naturale di interesse; questa variazione è

però distribuita in un arco temporale molto lungo, cosicché il suo monitoraggio

risulta particolarmente complesso. Inoltre, attraverso la determinazione del tasso

di interesse la banca centrale può influenzare direttamente la distribuzione delle

risorse, agevolando una determinata “classe” di et{ della popolazione. Sussiste

quindi la possibilità che le banche centrali siano chiamate a prendere decisioni

“politiche” rilevanti, con la conseguente necessit{ di agire tenendo in

considerazione numerosi fattori.

Infine, l’efficacia delle politiche monetarie dipende anche dalle decisioni di politica

fiscale intraprese dai governi. In particolare, le manovre monetarie tendono ad

essere più efficaci nel caso in cui la previdenza sociale sia gestita mediante un

sistema pensionistico a capitalizzazione, cui corrispondono valori più bassi di tasso

di interesse naturale e volatilità del sistema finanziario.

La relazione tra variabili demografiche e politiche monetarie risulta quindi forte e

complessa, conseguente sia da legami diretti che dall’azione di “mezzo di

trasmissione” svolta dalle politiche fiscali.

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181

6. Un esempio pratico: il caso Italia

6.1 Obiettivi e struttura

In seguito all’esame delle variabili demografiche e dei loro effetti sul sistema

economico, si ritiene utile presentare un breve caso empirico. Questo consente di

mostrare i principali trend in atto in una specifica economia, quella italiana, che è

particolarmente rappresentativa del processo di cambiamento demografico in atto

nella maggior parte dei paesi avanzati. Il capitolo si compone di due parti principali:

una parte storica, che si occupa di riesaminare brevemente i cambiamenti

demografici avvenuti nel nostro paese e le riforme di fiscali che sono state messe in

atto; una parte che vuole essere uno scorcio sul futuro e sulle difficili decisioni che

vanno prese perché non si incorra in difficoltà ancora maggiori per quanto

riguarda il bilancio Statale.

6.2 Introduzione

In questo capitolo si vuole portare un esempio di analisi demografica applicato al

caso italiano. La situazione italiana è particolarmente interessante in quanto

rappresentativa di alcuni cambiamenti demografici che stanno avvenendo nella

maggior parte delle nazioni del G8. Ovviamente, le riforme e le manovre effettuate

sono invece specifiche del caso italiano e saranno anch'esse discusse. Tutti i dati

che saranno mostrati in seguito sono tratti direttamente dall'ISTAT o sono

rielaborazioni di dati forniti dall'ISTAT stesso.

Per quanto riguarda l'analisi, ci si concentrerà primariamente sulle politiche fiscali

piuttosto che sulle politiche monetarie. Un attento esame delle manovre recenti e

delle possibilità future dal punto di vista del controllo della moneta non è sensata

nell’ambito dell’Unione Europea, dove le decisioni sono prese a livello centrale

dalla BCE. Le politiche fiscali sono invece di primario interesse per il paese Italia,

anche per via della crescente rilevanza odierna del tema delle pensioni e della

spesa pubblica.

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Un esempio pratico: il caso Italia _

182

6.3 L’Italia che fu

I dati analizzati mostrano come le caratteristiche demografiche dell’Italia siano

radicalmente mutate negli anni: nell’arco di tempo considerato la percentuale di

giovani sul totale della popolazione si è dimezzata, mentre quella relativa agli

anziani è raddoppiata (Figura 6.1). Il ventennio compreso tra la fine degli anni

Sessanta e i primi anni Novanta è risultato particolarmente critico, in quanto il

tasso di crescita naturale si è ridotto di circa dieci punti percentuali (Figura 6.2).

Fatta eccezione per i due grandi eventi storici corrispondenti nella Prima e

Seconda Guerra, si nota infatti una curva in leggero aumento fino al 1917 per poi

passare ad un declino che si accentua dagli anni '70.

Figura 6.1: Composizione della popolazione in Giovani, Adulti e Anziani per gli anni 1862, 1951 e 2009.

Fonte: rielaborazione dati ISTAT.

Figura 6.2: Andamento del tasso di crescita naturale, calcolato come differenza tra tasso di natalità e tasso di mortalità, dal 1862 ad oggi.

Fonte: rielaborazione dati ISTAT.

Grande Guerra

WWII

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-15

-10

-5

0

5

10

15

18

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67

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72

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77

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82

18

87

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18

97

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02

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19

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27

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87

19

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97

20

02

20

07

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

183

Risulta inoltre evidente come sia in atto una dinamica demografica ad "onda" come

quelle presentate nel corso del capitolo: anche l'Italia ha assistito al suo personale,

per quanto meno destabilizzante, baby boom post Seconda Guerra mondiale.

Questo è particolarmente evidente dalla Figura 6.3, che mostra come

invecchiamento progressivo della popolazione e allungamento delle aspettative di

vita abbiano causato una rapida e netta variazione della distribuzione in età della

popolazione. Questa evoluzione ha contribuito a minare la salute economica

dell’Italia, la cui crescita del PIL è ad oggi pressoché nulla, invertendo il fenomeno

di crescita economica in modo molto simile a quanto accaduto nel decennio

precedente al Giappone.

Figura 6.3: Distribuzione della popolazione per fasce di età nel 1862, 1951 e 2009.

Fonte: rielaborazione dati ISTAT

Per quanto riguarda il sistema pensionistico, il progressivo aumento della vita

media della popolazione ha fatto sì che si dovessero pagare le pensioni per un

tempo più lungo, mentre il rallentamento del tasso di crescita naturale della

popolazione – e più in generale della crescita economica – ha frenato le entrate

contributive. A questo si aggiunge la forte variazione nella composizione della

0

1.000

2.000

3.000

4.000

5.000

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0-5

5-9

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1862

1951

2009

Mig

liaia

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184

popolazione, con una percentuale di anziani sul totale in forte ascesa a fronte di

una riduzione consequenziale della popolazione in età lavorativa, come

precedentemente mostrato in Figura 6.1. Le riforme necessarie per riportare sotto

controllo la spesa pensionistica sono però state intraprese tardivamente, a partire

solo dagli anni Novanta. L’et{ minima di pensionamento è passata da 55 a 60 anni

per le donne e da 60 a 65 anni per gli uomini (Riforma Amato, 1992), per poi

prevedere l’equiparazione di donne e uomini nel settore pubblico (2010); il

metodo di calcolo dei trasferimenti pensionistici è passato da retributivo a

contributivo64, implicando una riduzione delle pensioni pro capite (Riforma Dini,

1995); il sistema di rivalutazione delle pensioni in pagamento non risulta più

collegato anche alla dinamica dei salari reali 65 ma soltanto all’andamento

dell’inflazione (Riforma Dini, 1995).

Risulta chiaro come queste misure siano state insufficienti e, soprattutto, tardive;

si sono presi provvedimenti con più di vent’anni di ritardo rispetto al manifestarsi

del forte mutamento demografico. Come conseguenza, il costo del sistema di

previdenza sociale è cresciuto costantemente, tanto che l’aliquota contributiva,

pari al 9% nel 1952, è stata innalzata al 20,45% nel 1992, e oggi è al 33%66; questi

valori risultano decisamente troppo alti, e vanno a penalizzare i giovani e a

rallentare la crescita economica, rendendo estremamente elevato il costo del

lavoro per le imprese. Per altro, la costante crescita delle aspettative di vita (Figura

6.4) dovuta al miglioramento del sistema sanitario e delle condizioni di vita,

sembra non accennare a fermarsi, con conseguenze ovvie sul già difficile stato di

equilibrio del sistema previdenziale.

64 Secondo il metodo retributivo, la pensione risultava essere una percentuale dell’ultimo stipendio,

circa pari a 80%. Secondo il metodo retributivo, invece, la pensione è calcolata sulla base dei

contributi versati dall’individuo nel corso della propria vita lavorativa, e corrisponde mediamente

al 50-60% dell’ultimo stipendio (per i lavoratori dipendenti; ancora meno per i lavoratori

autonomi). Il passaggio al metodo contributivo del 1995 vale per i nuovi entranti nella forza lavoro;

per chi avesse già versato contributi per più di 15 anni vige ancora il retributivo, mentre per chi

avesse versato contributi per un numero minore di anni si ha un sistema di calcolo “misto”. 65 i.e. al netto dell’aumento dei prezzi al consumo. 66 I dati si riferiscono al fondo lavoratori dipendenti dell’INPS.

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Figura 6.4: Aspettativa di vita degli individui, dal 1974 ad oggi.

Fonte: ISTAT.

Inoltre, come si può notare in Figura 6.5, sebbene le azioni intraprese per

risollevare il bilancio pensionistico hanno avuto inizialmente risultati positivi – il

rapporto tra lavoratori e pensionati si è allontanato dal livello soglia del 3:167 – in

meno di vent’anni la situazione è gi{ tornata al punto di partenza.

Figura 6.5: Andamento del rapporto pensioni per gli anni che vanno dal 1901 al 2009.

Fonte: rielaborazione dati ISTAT.

67 Morcaldo (2007)

60

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4

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20

00

20

02

20

04

20

06

20

08

Uomini

Donne

Media

0

1

2

3

4

5

6

Valore

Minimo

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Un esempio pratico: il caso Italia _

186

A questo si aggiunge l'utilizzo estremo del deficit come mezzo di finanziamento

della spesa pubblica, con effetti sul sistema Italia dirompenti: le generazioni attuali

si trovano a pagare aliquote estremamente elevate per poter far fronte al debito

costruito in passato. Inoltre, non è più possibile utilizzare lo strumento della spesa

pubblica come stimolo, in quanto l'attuale stato del bilancio non lo permette. Ciò ha

reso complicata la gestione della crisi e non permetterà una forte spinta per far

ripartire il PIL.

Infine, si vuole mostrare qualche dato inerente al livello di istruzione nel paese.

Dalla Figura 6.6 si ottiene un’immagine positiva del sistema educativo italiano, che

tra il 1951 e il 2001 ha visto la percentuale di analfabetismo ridursi dal 13% all’1%

e quella di diplomati e laureati aumentare di 8 volte.

Figura 6.6: Qualifica di studio della popolazione, in percentuali.

Fonte: rielaborazione dati ISTAT.

Sebbene sembri scontata una differenza così netta per due periodi storici molto

differenti, bisogna pur sempre considerare che non è ovvio che una crescita

economica sia accompagnata da una forte crescita nel livello di alfabetizzazione

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

187

della popolazione. Questo ha senza dubbio portato ad un aumento del numero di

lavoratori con un alto livello di preparazione, che nella teoria si dovrebbe

accompagnare ad una inferiore volatilit{ dell’occupazione e quindi dell’output

economico. Questo fenomeno non è però di facile verifica nel nostro paese in

quanto i contratti di lavoro, per motivi strettamente legati alle “conquiste”

sindacali, hanno portato ad una situazione di forte rigidità e difficoltà nel licenziare.

Il sistema di ammortizzatori sociali contribuisce inoltre ad evitare forti oscillazioni

di occupazione in periodi di crisi. Per queste due ragioni, non è possibile

comprendere quanto il livello molto basso di volatilità di occupazione68 presente

nel nostro paese sia dovuto ad effetti demografici o alle condizioni particolari

riscontrate.

Figura 6.7: Istruzione in valori assoluti, data dal numero di studenti per classe di

educazione.

Fonte: ISTAT.

68 Si faccia riferimento a Jaimovich e Siu (2009).

-

1.000

2.000

3.000

4.000

5.000

6.000

Mig

liaia

Scuola infanzia

Scuola primaria

Scuola secondaria

Università

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Un esempio pratico: il caso Italia _

188

Dalla Figura 6.7 invece si ottiene un mosaico molto particolare: nonostante il forte

aumento del livello di scolarizzazione della popolazione, il numero di iscritti a tutti

i livelli, fatta eccezione per l’Università, è in forte diminuzione. Questo è

certamente dovuto ai numeri sempre più bassi legati alle natalità. Controcorrente,

come detto, è invece la situazione nelle Università: la forte spinta verso

l’ottenimento di una laurea fa sì che il numero di studenti sia in aumento anche a

fronte di una riduzione dei giovani. Se questo sia un bene o meno per il paese non è

di certo un problema di facile trattazione e non verrà approfondito oltre, in quanto

esula dai confini dell’analisi che si va sviluppando.69.

6.4 Il futuro e le riforme

L’evoluzione demografica prevista per i prossimi quarant’anni vede un forte

invecchiamento della popolazione, dovuto sia ai valori negativi raggiunti dal tasso

di interesse naturale, solo parzialmente bilanciati dall’immigrazione, sia

soprattutto all’impennata della speranza media di vita. La popolazione giovane si

ridurrà progressivamente fino al 20% nel 2051, con un innalzamento consistente

degli anziani (Figura 6.8). In Figura 6.9 si nota inoltre come la distribuzione della

campana dell’et{ della popolazione si sposti verso destra, con un crescente numero

di anziani e un numero di adulti e giovani in riduzione.

La strategia finora perseguita dall’Italia – i.e. aggiustamento dell’aliquota

contributiva su base annua come misura principale per il controllo del saldo del

sistema pensionistico – non sar{ più perseguibile. L’aliquota contributiva è infatti

già a valori record, e per mantenere invariati età di pensionamento e pensioni pro

capite dovrebbe crescere addirittura fino a toccare il 65% nel 2051. La Figura 6.10

Quanto detto è sintetizzato graficamente in Figura 6.10, dove l’ordinata di sinistra

rappresenta l’evoluzione prevista fino al 2051 per il rapporto lavoratori su

pensionati, mentre l’ordinata di destra rappresenta l’aliquota contributiva di

equilibrio corrispondente necessaria per mantenere il pareggio di bilancio con età

di pensionamento fissa a 65 anni e pensioni pro capite invariate.

69 Si rimanda a Shimer (1998) nel capitolo 1, Demografia, volatilità e altri elementi strutturali.

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

189

Figura 6.8: Composizione della popolazione in Giovani, Adulti e Anziani nel 2011 e nel

2051.

Fonte: rielaborazione dati ISTAT.

Figura 6.9: Distribuzione della popolazione per fasce d'età, nel 2011 e nel 2051.

Fonte: ISTAT.

0

200

400

600

800

1000

1200

Mig

liaia

2011

2051

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Un esempio pratico: il caso Italia _

190

Figura 6.10: Andamento del rapporto tra lavoratori e pensionati e dell'aliquota

contributiva di equilibrio corrispondente.

Fonte: rielaborazione dati ISTAT.

L’Italia si sta muovendo verso una progressiva ristrutturazione del sistema di

pensionamento. La più recente normativa relativa alle pensioni (DDL stabilità

2012, varato l’11 novembre 2011) prevede che entro il 2026 l’et{ di

pensionamento sarà pari a 67 anni per tutti, e che successivamente si adeguerà alle

aspettative di vita. Le pensioni sono un tema prioritario anche per il nuovo

governo Monti, che propone una riforma basata su passaggio al contributivo pro

rata per tutti, sostanziale abolizione delle pensioni di anzianità con aumento

dell'età minima a 62-63 anni e fascia di flessibilità fino a 69-70 anni con

disincentivi sotto i 65 anni e, oltre questa soglia, bonus automatici e progressivi

per invogliare i lavoratori a rimanere.

Si teme però che le misure previste non siano sufficienti a risolvere la situazione:

l’accoppiata aumento vita media – riduzione tasso di crescita della popolazione

rende inevitabilmente instabile e costoso il sistema a ripartizione, adatto a

evoluzioni demografiche opposte. Una possibile via d’uscita da questa situazione di

stallo è il passaggio al sistema a capitalizzazione che, nonostante i rischi ad esso

connesso – i.e. esposizione a inflazione e volatilità dei mercati finanziari – è

0

0,1

0,2

0,3

0,4

0,5

0,6

0,7

0

0,5

1

1,5

2

2,5

3

3,5

2010 2015 2020 2025 2030 2035 2040 2045 2050

Rapporto pensioni

Aliquota contributiva

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

191

decisamente più robusto alle variazioni demografiche. Un’altra soluzione potrebbe

essere quella di ridurre drasticamente le pensioni statali, accompagnando

l’operazione con il potenziamento dei sistemi di assistenza complementare privati.

In ogni caso, agire sulla sola variabile “et{ di pensionamento” è insufficiente: il

sistema pensionistico italiano necessita di riforme strutturali.

Per quanto riguarda le politiche monetarie, è evidente che l'Italia si trovi in una

situazione altrettanto complessa. Con l'istituzione dell'Unione Europea, è venuto

meno il controllo diretto della moneta, rendendo impossibile tenere conto

dell'evoluzione demografica del solo paese Italia. Nonostante ciò, è possibile

definire lo scenario corrente come positivo in quanto, almeno per quanto riguarda

l'andamento demografico, le maggiori nazioni Europee si trovano in una situazione

analoga. Per questo motivo, dovrebbe essere possibile agire sui tassi in modo

corretto senza trovarsi nella situazione di applicare politiche adatte ad un certo

Paese ma inadeguate agli altri. Inoltre, nel caso si renda necessaria una profonda

rivisitazione del sistema ora in uso, passando a quello a capitalizzazione, l'attenta

gestione dei fenomeni inflattivi da parte della BCE renderebbe ancor più efficace il

passaggio. Non ci si troverebbe, infatti, in una situazione di svalutazione continua

della moneta come quella presente in Italia prima dell'Unione Monetaria. Come

mostrato in precedenza, l'inflazione è un possibile deterrente per i sistemi a

capitalizzazione, dal momento che erode rapidamente i risparmi accumulati da una

generazione.

6.5 Conclusioni

L’analisi del paese Italia, sebbene sia stata svolta ad un alto livello di aggregazione,

ha permesso comunque di comprendere le principali criticità per questo paese e

per l’Unione Europea nel suo complesso. In ambito fiscale, ci si trova di fronte alla

necessità di prendere decisioni forti, che possano rivoluzionare il sistema

previdenziale corrente evitando di cadere in una spirale discendente in cui

aumento della pressione fiscale o deficit di bilancio siano le uniche opzioni

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Un esempio pratico: il caso Italia _

192

disponibili. Fare ciò richiede una forte maggioranza in grado di prendere decisioni

non popolari ma sicuramente efficaci per il futuro del paese.

In ambito monetario invece, la costituzione della moneta unica e l’affidamento

della maggior parte delle funzioni alla Banca Centrale Europea limita le possibilità

di manovra a fronte di un cambiamento demografico in una singola Nazione. Come

sottolineato nel corso del capitolo, i trend demografici in atto nell’Unione Europea

sono però accumunati da più elementi: aumento della speranza di vita, riduzione

dei tassi di fertilità e immigrazione costante. Questo è senza dubbio un vantaggio

che potrebbe portare alla possibilità di prendere, per una volta, decisioni in grado

di mettere d’accordo tutti i paesi membri.

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

193

7. Conclusioni

Nel corso di questo studio, si sono mostrati i risultati ottenuti nelle principali

ricerche presenti in letteratura e si è posto l'obiettivo di inserire l'insieme delle

conoscenze raggiunte all'interno di un framework unico e strutturato.

Il fine ultimo del campo di studio inerente a Demografia, volatilità ed altri elementi

strutturali è stato la comprensione degli effetti di alcune specifiche variabili

demografiche sull'andamento della volatilità di output dell'economia. Queste

variabili sono: la composizione in età della popolazione e l'istruzione. La prima ha

un effetto sulla volatilità di output che si può definire indiretto. Dalla composizione

in età della popolazione, infatti, si determina la volatilità di impiego che ha un

andamento a U. Questo significa che alle fasce più estreme della popolazione, cioè i

giovanissimi e gli anziani, corrisponde una volatilità di impiego più alta che va

riducendosi man mano che ci si avvicina alla fascia media d'età. Per questo motivo,

al variare della composizione d'età della popolazione si ha una corrispondente

variazione della volatilità di impiego. Questa a sua volta è fortemente legata alla

volatilità di output: in caso di uno shock negativo per l'economia, una forte

volatilità di impiego causa una più alta disoccupazione e riduzione della domanda.

In caso di shock positivo e alta volatilità di impiego, gli effetti saranno opposti. In

ultima analisi, la volatilità di output che si avrà è maggiore se confrontata, ceteris

paribus, ad uno scenario a bassa volatilità di impiego.

Gli studi sull'istruzione hanno portato a risultati altrettanto interessanti: ad una

popolazione con maggiore livello di istruzione corrisponde una volatilità di

impiego inferiore, con ciò che ne consegue per la volatilità di output. Inoltre, a

maggiore istruzione media non corrisponde un tasso naturale di disoccupazione

più basso. Questo è dovuto al fatto che a una maggiore istruzione non corrisponde

necessariamente un set di abilità di più alto livello. Anzi, si trova70 che il livello di

abilità medio di un paese non è correlato con l'istruzione. Di conseguenza,

manovre atte a migliorare il sistema scolastico di un paese porterebbero a una

maggiore stabilità e minore volatilità ma non a una riduzione della disoccupazione.

70

Si faccia riferimento ai risultati ottenuti da Shimer (1998).

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Conclusioni _

194

Il secondo tema, trattato in Demografia e Teoria del Ciclo Vitale, fa invece

riferimento alla vasta letteratura inerente alla Life Cycle Hypothesis di Modigliani e

alle ipotesi ad essa alternative. Si è cercato di presentare una descrizione il più

possibile esaustiva e aggiornata di quanto elaborato a partire da tale ipotesi, in

modo da comprenderne i risvolti nella trattazione dei modelli economici

tradizionali. L'insieme di nozioni che si ottengono da tale ipotesi permettono non

solo di determinare le conseguenze di cambiamenti demografici su alcune variabili

economiche rilevanti quali risparmi e consumi, ma ne spiegano anche le

motivazioni teoriche. Il contributo più importante della teoria è la costituzione di

un potente strumento di analisi della vita dell'individuo che è poi possibile

tradurre in un comportamento aggregato dell'intera popolazione. Il modello base è

infatti facilmente estendibile per ottenere nuovi modelli che integrino specifici

scenari o completino il contesto di riferimento. Fra tutti i contributi che si sono

ottenuti dall'impiego dell'ipotesi LCH, i più importanti riguardano l'andamento dei

risparmi nel corso della vita dell'individuo. Da tale andamento è possibile ricavare

un'insieme di considerazioni sulle variazioni di risparmi privati presenti in una

nazione al modificarsi della composizione della popolazione. In particolare, un

aumento di pensionati contribuirà ad una riduzione dell'ammontare complessivo

dei risparmi, mentre un aumento dei lavoratori porterà a un risultato opposto.

Come è noto, gli effetti di una variazione dei risparmi in un paese sono molteplici71

e di primario interesse per gli organi istituzionali che si occupano della regolazione

degli strumenti monetari.

Nel capitolo inerente i mercati finanziari, Demografia e mercati finanziari, si

espongono gli studi che introducono elementi di tipo demografico in modelli

previsionali applicati al valore dei titoli azionari. Il principale obiettivo di questi

modelli è ottenere uno strumento il più possibile completo per la comprensione

dell'andamento dei titoli, con il fine di costituire portafogli ottimali. Per l'economia

nel suo complesso risulta interessante però la relazione tra demografia ed

andamento del mercato finanziario, in quanto si può definire un legame forte tra

71 Ci si riferisce in particolare a variazioni nel tasso di interesse naturale. Per approfondimenti, si

rimanda a Demografia e Teoria del Ciclo di Vita.

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

195

rapporto MY (middle-to-young) e valore di lungo72 dei mercati stessi. Un aumento

dell'MY ratio causa, infatti, un aumento dei valori di borsa per via di un effetto

analogo a quello presente nella LCH: gli adulti risparmiano più dei giovani in

quanto investono per poter godere di una sufficiente pensione nel periodo

successivo della propria vita. Questo causa una crescita del valore dei titoli dato dal

maggior numero di investimenti.

Queste considerazioni si rivelano estremamente importanti soprattutto se riferite

ai canali di trasmissione presenti nell'economia che portano ad un aumento dei

consumi e investimenti a causa di un innalzamento dei valori in borsa. La scoperta

di un'implicazione tra demografia e valore della borsa si traduce di conseguenza in

un utile strumento previsionale anche per l'andamento delle variabili economiche

sopra citate.

A fianco di questi primi temi con un contenuto fortemente teorico, nel capitolo

Demografia e politiche monetarie: sviluppi recenti si sono voluti presentare un

insieme di modelli pratici, impiegati per la determinazione di un tasso d'interesse

di riferimento, in grado di costituire un legame diretto tra andamento delle

caratteristiche demografiche all'interno di un paese e manovre di politica

monetaria che è necessario attuare. Come si è visto però, questi modelli sono

semplici estensioni LCH di framework correntemente utilizzati nelle principali

banche centrali del mondo. Il numero di variabili demografiche che considerano è

di conseguenza molto limitato, così come limitato è il numero di relazioni che

queste variabili hanno con l'economia. Nonostante ciò, le indicazioni che si

ottengono da questi studi sono molto utili per comprendere l'efficacia derivante

dall'introduzione di dinamiche di tipo demografico all'interno di framwork

tradizionali. L'applicazione di tali modelli porta a conclusioni che si differenziano

in modo significativo da quelle che si ottengono utilizzando modelli privi di

elementi inerenti al ciclo di vita dell'individuo. Ciò permette di comprendere che la

costituzione di un framework completo contenente tutte le variabili demografiche

72 Si intende la componente a bassa frequenza dei rendimenti di mercato. Questa componente, detta

anche di “informazione”, è ottenuta tramite l’impiego di modelli che si comportano come un filtro.

Per dettagli si rimanda a Demografia e mercati finanziari.

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Conclusioni _

196

esaminate potrebbe giovare all'ottenimento di modelli adeguati a catturare i nuovi

trend demografici in atto.

Al termine della parte di analisi della letteratura, in Demografia e politiche

economiche: un framework analitico si sono raggiunti tre obiettivi: una completa

analisi di tutte le variabili demografiche di interesse; la definizione di un legame

tra queste variabili e (alcuni tra) i principali fattori determinanti dell'economia; la

presentazione di politiche monetarie e fiscali in uno scenario che vede la presenza

di trend demografici in atto.

Nel dettaglio, le variabili identificate sono suddivisibili in cinque categorie: la

composizione in età della popolazione, il tasso di crescita della popolazione, la

durata media della vita, le istruzioni e competenze e infine un insieme di variabili –

considerate non più cruciali –, quali l'etnia e il genere. Di queste variabili si è

costituita una mappa causale che va a definire puntualmente il tipo di relazione che

lega la variabile stessa con le principali determinanti dell'economia.

In seguito, si è esaminata questa mappa con l'obiettivo di stabilire le politiche

economiche che è possibile intraprendere. Nello specifico, si è trattato il tema delle

politiche fiscali che riguardano direttamente decisioni legate alla demografia: il

sistema di previdenza sociale e il metodo di finanziamento della spesa pubblica.

Inoltre, si sono analizzati le necessità di variazione del tasso legate alla modifica

delle caratteristiche demografiche in una nazione. A queste vanno aggiunte

considerazioni di “policy”: un dato livello del tasso di interesse potrebbe agevolare

una determinata fascia d’et{ piuttosto che un’altra.

Infine, si è concluso con uno studio empirico sul nostro Paese che per

caratteristiche demografiche può essere visto come rappresentativo di molti altri

Paesi avanzati. I dati dimostrano la presenza di alcuni forti trend in atto: la

riduzione del tasso di crescita naturale della popolazione, l’allungamento della vita

media e una forte componente di migrazione dai paesi limitrofi. Queste variazioni

obbligano a una revisione del sistema previdenziale attuale, inadatto per il nuovo

rapporto tra popolazione lavorativa e in pensione, e ad un’attenta pianificazione

della spesa pubblica per ottenere l’obiettivo del pareggio in bilancio per il 2013,

come programmato. Nel corso del capitolo si è inoltre sottolineato come la

mancanza del controllo diretto della moneta, cruciale per molti aspetti, è tema di

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

197

minore importanza nel caso dell’Italia in quanto i trend demografici caratterizzanti

il paese sono del tutto paragonabili a quelli in atto nell’Unione Europea nel suo

complesso. Per questo motivo, si potrebbe agire prendendo decisioni a livello

centrale in grado di seguire correttamente le variazioni di tasso naturale dovute

alle variazioni demografiche della popolazione europea.

Tutte le considerazioni fatte gettano le basi per possibili spunti di ricerca futuri,

che si pongano l’obiettivo di definire in maniera più dettagliata il framework di

analisi con lo scopo di ottenere modelli teorici prima e quantitativi poi in grado di

considerare appieno gli effetti demografici sulla situazione macroeconomica.

Questo permetterebbe, per esempio, l’introduzione di variabili legate alle

dinamiche demografiche che garantirebbero una fissazione dei tassi reali a livelli

corretti. Il problema della specificazione di un unico modello comprendente tutte

le variabili demografiche risiede principalmente nella complessità delle interazioni

che esse generano nell’economia. Probabilmente, la costituzioni di equazioni di

tipo matematico e deterministico richiederebbe per alcune variabili ulteriore

sforzo di ricerca, con il fine ultimo di comprendere pienamente le relazioni causali

che le legano alle determinanti economiche. In particolare, il ramo di ricerca che

risulta meno esplorato riguarda la relazione tra demografia e mercati finanziari, in

quanto tutti gli studi fino ad ora svolti si sono concentrati sul ritorno economico

degli investimenti e non sugli effetti che una variazione dei valori di mercato può

avere sull’economia. Come la recente crisi ha però dimostrato, la mancanza di

attenzione per la relazione tra finanza ed economia reale non è (purtroppo)

problema specifico riguardante il tema demografico.

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198

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

199

Allegato A: Hodrick-Prescott Il filtro di Hodrick-Prescott è comunemente utilizzato in macro econometria per

estrarre la componente di ciclicit{ da una serie temporale di dati. E’ stato

presentato dai due autori, da cui prende il nome, in un noto paper: Hodrick e

Prescott (1981). Dal punto di vista matematico, riprende un concetto già utilizzato

da un altro studioso, Whittaker (1923), in un campo inerente a studi matematici e

statistici.

Nonostante la frequente presenza anche di stagionalità, essa viene ignorata dagli

autori in quanto la maggior parte dei dati macroeconomici è fornita in seguito alla

rimozione di tale componente. Si concentrano così sulle altre due componenti

presenti: una componente di ciclicità e una di crescita o trend.

Ciò che viene compreso dagli autori è che, nel caso in cui la componente di trend

fosse stabile nel tempo o facilmente analizzabile con tecniche che legano tale trend

a variabili esogene, lo studio della componente ciclica risulterebbe in un semplice

esercizio. In realt{, la componente di trend varia nel tempo in modo “smooth”. Per

questo motivo, è necessaria una tecnica più raffinata che permetta di ottenere

l’andamento di tale trend. Si parte con la semplice definizione della serie temporale

in esame come somma delle due componenti:

(1.8)

Dove è la serie storica considerata, è la componente di trend e la

componente di ciclicit{. Quest’ultima componente è vista come una deviazione dal

trend, cioè la differenza tra e , e la sua media è supposta essere nel lungo

periodo pari a zero. Si calcola poi il minimo della seguente formula:

(1.9)

Dove il primo termine rappresenta la somma dei quadrati del ciclo e penalizza così

ampie variazioni rispetto al trend, mentre il secondo termine è la somma dei

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Appendice _

200

quadrati della differenza seconda del termine di trend, moltiplicata per . Tale

parametro rende la componente di trend tanto più “smooth” tanto più alto è il suo

valore. Tramite una serie di verifiche empiriche, i due autori arrivano alla

conclusione che il valore più adeguato da utilizzare per nel caso di serie storiche

trimestrali è 1,600.

Si è voluta analizzare brevemente questa tecnica in quanto si ritiene molto utile

per la comprensione dei temi trattati. Il filtro HP è impiegato comunemente per

estrarre da una serie storica la sua componente ciclica e permette quindi di

calcolare in modo rapido e sufficientemente preciso l’output gap e la volatilit{ di

ciclo.

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201

Allegato B: Volatilità di Output Una delle tecniche utilizzate per misurare la volatilit{ dell’output è quella descritta

nell’introduzione, introdotta dallo studio effettuato da Blanchard e Simon. Un’altra

tecnica, da loro stessi impiegata ma non presentata nel loro studio, consiste

nell’utilizzo del filtro di Hodrick-Prescott (si veda Allegato A) al fine di estrarre

l’andamento di ciclo da quello di trend in una serie storica. Qui in seguito,

riportiamo alcuni calcoli eseguiti al fine di mostrare il risultato dell’impiego di una

simile tecnica. In particolare, i dati utilizzati fanno riferimento al PIL reale, fonte

U.S. Bureau of Economic Analysis. La serie storica è suddivisa in quarti e va dal

1947 al 2007. Ai dati originali, di cui è stata fatta la differenza prima in logaritmi, è

stato applicato il filtro HP con valore di smoothing pari a 1.600, come suggerito

dalla letteratura.

Successivamente, utilizzando un procedimento il più possibile analogo a quello

fornito dai due autori, si è calcolata la volatilità come deviazione standard rolling

Figura A.1 output del filtro Hodrick-Prescott applicato ai dati di PIL reale dal 1947 al 2007.

Fonte: rielaborazione di dati del U.S. Bureau of Economic Analysis.

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Appendice _

202

su 20 quarti. I risultati ottenuti sono paragonabili a quelli cui pervengono i due

autori utilizzando, invece del filtro HP, un modello autoregressivo di prim’ordine

(Figura A.1).

Da Figura A.2 e Figura A.3 si può notare come la volatilità decresca sensibilmente

nel decennio che va dal 1980 al 1990. In questa decrescita, alcuni autori hanno

visto una repentina applicazione delle nuove conoscenze legate alle tecniche di

politica monetaria che ha portato a una riduzione improvvisa della volatilità,

descritta dalla Figura A.2. Per Blanchard e Simon invece, ciò che avviene è un lento

e continuo declino della volatilità stessa per via di nuove condizioni strutturali,

come si può invece osservare in Figura A.3. Negano quindi che il declino sia stato

concentrato solamente in tale decennio, e quindi attribuibile a cause precise e

situazionali. Ciò che si può affermare è che, nel caso si attribuisca valore al filone di

studi che vede nella demografia un importante fattore legato alla variazione della

volatilit{ dell’output nel tempo, l’andamento che meglio descrive tale situazione è

quello descritto dai due autori.

Figura A.2: Andamento della volatilità di output dal 1952 al 2006, il cui calo registrato nel decennio che va dal 1980 al 1990 è interpretato come conseguenza delle nuove conoscenze legate alle tecniche di politica monetaria.

Fonte: rielaborazione di dati del U.S. Bureau of Economic Analysis.

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Volatilità output

Andamento

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203

Figura A.3: Andamento della volatilità di output dal 1952 al 2006, il cui calo è interpretato come conseguenza di variazioni strutturali.

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Volatilità output

Andamento

Fonte: rielaborazione di dati del U.S. Bureau of Economic Analysis.

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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Allegato C: La teoria del Reddito Permanente

La teoria del Reddito Permanente, sviluppata dall’economista americano Friedman

(1957), è una teoria del risparmio focalizzata sull’analisi della relazione tra la

spesa in consumo di breve periodo e il reddito. Trae le basi dall’idea che le scelte

dei consumatori relative al proprio profilo di consumo siano determinate non dal

reddito corrente, come postulato da Keynes, ma piuttosto dal reddito atteso nel

lungo termine. Come conseguenza, l’impatto delle fluttuazioni di breve periodo del

reddito corrente avranno un impatto marginale sulle scelte di consumo degli

individui, che saranno invece guidate principalmente dalle aspettative.

Come il LCHM, la teoria del Reddito Permanente è basata sull’assunzione che gli

individui scelgano razionalmente di massimizzare la propria utilità lungo

l’orizzonte temporale di pianificazione; se per il LCHM l’intervallo temporale è

finito e pari alla durata della vita dell’individuo, la teoria del Reddito Permanente si

applica invece ad un orizzonte temporale infinito. Si deduce quindi come

l’evoluzione del comportamento del consumatore lungo il Ciclo di Vita,

fondamentale per il LCHM, sia invece considerata trascurabile da Friedman. Lo

stesso vale per il desiderio di accumulare ricchezze da lasciare in eredità, che è

invece inglobato nel modello esteso di Modigliani.

Entrando nello specifico del modello, Friedman (1957) propose che il reddito

corrente, , potesse essere considerato come la somma di due componenti, una

permanente, , e una transitoria, . La componente permanente del reddito

riflette gli effetti dei fattori che determinano la ricchezza del consumatore. Questi

fattori includono, tra gli altri, la ricchezza non-umana73 posseduta dal consumatore

e le caratteristiche personali che hanno un effetto sul potenziale di guadagno

dell’individuo74. La componente transitoria, , riflette invece l’effetto dei fattori

che il consumatore non è stato capace di prevedere. Il reddito permanente e quello

73 Con l’espressione “ricchezza non-umana” si fa riferimento alla somma di tutti gli asset reali e

finanziari, al netto delle passività, espressi al valore di mercato. 74 Le caratteristiche personali considerate da Friedman sono quelle che determinano la potenzialità

di guadagno dell’individuo, cioè la sua “ricchezza umana”. Come conseguenza, è dato dalla

somma tra la ricchezza non-umana e la ricchezza umana dell’individuo.

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Appendice _

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transitorio sono per assunzione tra loro non correlati, cosicché è considerato

come una variazione casuale attorno a .

Così come il reddito, anche la spesa in consumo si compone di una componente

permanente e di una transitoria. La componente permanente del consumo fa

riferimento al valore del consumo pianificato che massimizza l’utilit{ lungo la vita.

In assenza di incertezza, il consumo permanente andrebbe a coincidere con il

valore effettivo della spesa in consumo. La componente transitoria del consumo

riflette invece gli effetti di tutti quei fattori che il consumatore non è stato capace di

prevedere. Anche in questo caso, si assume che la covarianza tra componente

permanente e transitoria sia pari a zero. Inoltre, si assume che consumo transitorio

e reddito transitorio siano tra loro non correlati.

Friedman presentò la forma più generale della teoria del Reddito Permanente

come un modello dato dalle equazioni:

(2.1)

Dove rappresenta il tasso di interesse a cui il consumatore può investire e

prendere denaro a prestito, è i rapporto tra ricchezza non-umana e reddito e

simboleggia l’elasticit{ di sostituzione intertemporale, cioè la propensione del

consumatore a posticipare il proprio consumo. Il rapporto tra consumo

permanente e reddito permanente, , è noto come la propensione marginale al

consumo rispetto al reddito permanente; risulta indipendente dal valore assoluto

del reddito permanente, ma varia al variare di e . Le restanti due equazioni in

(2.1) sono identità che esprimono la relazione tra la componente permanente e il

valore misurato di reddito e consumo.

Per chiudere il modello è poi necessario definire nel dettaglio il concetto di reddito

permanente. Come dichiarato da Friedman stesso, le possibili definizioni sono

molteplici. Secondo la definizione più ampia, è il risultato di tutti quei fattori la

cui influenza ha una durata superiore al singolo periodo. La definizione più

ristretta invece identifica con il reddito medio atteso lungo la vita. Sulla base di

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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studi empirici basati su serie storiche, Friedman suggerì che l’approssimazione più

appropriata sia data dalla media pesata tra reddito corrente e reddito passato,

dove i pesi si riducono geometricamente.

La teoria del Reddito Permanente conduce ad una serie di implicazioni molto

interessanti. Prima di tutto, il modello afferma che la spesa in consumo non

dipende dal reddito corrente ma piuttosto dalle aspettative sul reddito medio nel

lungo periodo. L’individuo risparmier{ se e solo se il suo reddito corrente risulter{

più alto di quello permanente, di modo da tutelarsi a fronte di possibili future

diminuzioni del reddito. Come conseguenza, il profilo di consumo si manterrà

stabile nel tempo, a fronte di un risparmio che riflette in larga parte il reddito

transitorio.

Una ulteriore implicazione riguarda l’effetto degli shock del reddito sul consumo.

Secondo il modello, l’effetto varia al variare della natura degli shock: quelli di tipo

transitorio avranno impatto minore rispetto a quelli di tipo permanente, in quanto

non hanno impatto su . Le stesse considerazioni interessano anche le politiche

economiche, in quanto esse saranno in grado di impattare sul consumo solo nel

caso in cui riescano a ridefinire le aspettative sul reddito.

Le implicazioni sopra descritte presentano molti punti in comune con quelle

relative al LCHM, che verranno analizzate nel dettaglio nel prosieguo di questo

capitolo. Si rimarca però come le due teorie trovino le proprie fondamenta in

filosofie profondamente differenti. La teoria del Ciclo di Vita è fondata sull’ipotesi

che il comportamento dei consumatori vari con l’et{; al contrario, secondo il

Reddito Permanente esso dipende da un parametro costante lungo la vita, che non

si modifica a meno di variazioni delle aspettative.

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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Allegato D: Dividend Discount Model Sottostante l’ampia letteratura di studi econometrici il cui scopo è la definizione di

modelli DDG previsionali per l’andamento dei titoli, vi è la semplice idea di

valutazione finanziaria basata sul Dividend Discount Model. Essa si basa sull’idea

che il prezzo di un’azione sia pari al valore attualizzato dei flussi di cassa futuri

generati dall’azione stessa. Nella sua forma base, la formula si presenta come

l’attualizzazione di due flussi, uno dovuto ai dividendi e uno al prezzo a cui l’azione

viene rivenduta subito dopo l’incasso:

(3.11)

Considerando come il prezzo dell’azione al tempo 0, il prezzo dell’azione al

tempo 1 quando viene rivenduta, il valore incassato in dividendi al tempo 1 e

infine k il tasso di attualizzazione dei flussi futuri. Utilizzando la stessa formula, si

può calcolare ex post il rendimento di un’azione definito come r:

(3.12)

Tale formula è utile per introdurre due concetti molto utilizzati nei paper

presentati nel corso del capitolo, in particolare il dividend yield, definito come il

primo addendo della formula sopra esposta e il capital gain, definito come il

secondo addendo della formula stessa. Il dividend yield è ovviamente sempre

maggiore o uguale a 0, mentre il capital gain è legato all’andamento del prezzo

dell’azione nel corso del tempo. La semplice formula presentata può essere estesa

concettualmente ad una forma generica, nell’ipotesi che l’acquirente di un’azione la

tenga per un numero T di anni prima di venderla sul mercato. La formula si può

ovviamente anche estendere per ottenere il caso estremo in cui l’investitore non la

venda mai. Si hanno così:

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Appendice _

210

(3.13)

(3.14)

Dove la seconda formulazione è quella che prende comunemente il nome di

Dividend Discount Model o DDM. Un altro concetto utile che può essere introdotto

partendo dal DDM è il tasso di crescita dei dividendi. Appare infatti semplice

comprendere che, nel caso in cui i dividendi seguissero un tasso di crescita

costante, il DDM potrebbe essere semplificato ottenendo così un metodo rapido

per calcolare il valore delle azioni. Indicando il tasso di crescita come g, si avrà:

(3.15)

A solo scopo di completezza, si vuole qui riportare la formulazione di DDM che

deriva dall’introduzione del concetto di tasso di crescita dei dividendi, riportata

per la prima volta nel celebre lavoro di Gordon e Shapiro (1956). Si ometteranno

invece successive trattazioni in quanto non utili al fine del capitolo, come quella di

Fuller e Hsia (1984).

Il DDM secondo Gordon e Shapiro sarà così:

(3.16)

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CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI E IMPLICAZIONI MACROECONOMICHE _

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